Grice e Jaja –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Conversano). Filosofo italiano. Grice: “I like Jaja – of course you
cannot understand Jaja unless you understand Fiorentino, Croce, Spaventa and
Gentile! The quintessential Italian philosopher!” – Grice: “Jaja is a
sensualist, like me.” –Grice: “My favourit essential Italian philosopher.
Figlio di Florenzo Jaja (a cui è dedicato l'Ospedale Civile di Conversano). Si trasferì
a Napoli, dove studiò sotto la guida di Fiorentino. Si sposta a Bologna, dove si
laurea per seguire il suo maestro. Il
suo incontro filosofico principale fu con Spaventa. Col trasferimento di Jaja a
Napoli i rapporti con Spaventa divennero regolari. Insegna a Pisa. Jaja non è stato mai considerato un filosofo
particolarmente originale, ma ha avuto il merito storico d'introdurre Gentile
allo studio di Spaventa, merito che l'allievo riconoscerà sempre. Opere: “Origine storica ed esposizione della
Critica della ragion pura” “Studio critico sulle categorie e forme dell'essere”;
“Dell'apriori nella formazione dell'anima e della coscienza,” “ L'unità
sintetica e l'esigenza positivista,” “Sentire e pensare,” “Identita e
Semiglianza ed identità”’“ Sentire, pensare, conoscere,” “ L'intuito nella
coscienza.” Cesare Preti, Jaja filosofo europeo oltre Gentile, su ricerca.repubblica,.
treccani. Jaja: neoidealismo italiano, su orthotes.com. Jaja, Giovanni Gentile, Memoria su Donato
Jaja, su sba.unipi, Bertrando Spaventa Giovanni Gentile Idealismo italiano,
Jaja, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Giovanni Gentile,
Memoria su Donato Jaja, su sba.unipi. Donato Jaja. Grice on “Sentire” e
Pensare. Rupert Brooke: “I love Grice: “I feel,’ never ‘I think’!” – “If a is
a, is a LIKE a” – a knife is not like a knife, but something that is not a knife can be like a knife.”
Implicature!” JAJA, Donato. - Nacque a Conversano da Florenzo e da Elisabetta
Pinto. Comincia gli studi al seminario in vista di una futura carriera
ecclesiastica, ma dopo l'unificazione, si trasfere a Napoli, dove studia sotto
la guida del filosofo neokantiano F. Fiorentino, e a Bologna, per seguire il
maestro, con il quale si laurea. Dopo la laurea insegna al liceo di
Caltanissetta, quindi a Chieti. Tornato a Bologna vi conobbe e frequenta A.C.
De Meis e per suo tramite B. Spaventa che, oltre a influenzare lo stesso
Fiorentino, divenne in seguito una figura chiave per la formazione
intellettuale dello Jaja. Con Spaventa i rapporti dello J. divennero regolari
quando egli si trasferì a Napoli per insegnare al liceo Genovesi. Conseguì la
libera docenza ottenne la cattedra di
filosofia teoretica a Pisa, dove rimase per il resto della sua vita. Tra i suoi
allievi ebbe G. Gentile, che gli successe poi sulla cattedra, e G. Lombardo
Radice. Nella dissertazione di laurea, data alle stampe con il titolo
Origine storica ed esposizione della Critica della ragion pura di E. Kant
(Bologna), colloca Kant all'origine di una nuova scena del pensiero che
raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli articola la storia
della filosofia moderna successiva a Cartesio: da una parte il filone
filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e della
necessità (Malebranche, Spinoza, Leibniz); dall'altra la tradizione francese,
ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica (Locke e Hume). Kant pone il
problema, ritenuto centrale dallo J., del debito che il pensiero ha nei
confronti sia dell'esperienza, sia dell'universale. Tuttavia lo J. ritiene che
Kant non abbia dato una soluzione adeguata e definitiva ed è anzi incline a
sostenere che la soluzione vada trovata nei continuatori dell'opera kantiana.
Emerge già qui chiaramente la tendenza a leggere la tradizione idealistica alla
luce degli interrogativi kantiani, in una prospettiva che egli derivava da
Fiorentino. Secondo lo J., Kant pone il problema della conciliazione di questi
due elementi, di senso e intelletto, ma non lo risolve: "La
manchevolezza", sostiene, "è nell'intima natura del sistema kantiano:
in quest'ultimo lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto,
recettività e spontaneità, entrambi irriducibili", mentre la soluzione
consiste nel mettere in luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano
sia non esclusivamente soggettivo ma oggettivo e pertanto corrisponda alla
realtà. Compare qui un interesse dello J. per il modo in cui l'intelletto
proviene dal senso (cfr. Plebe, in Guzzo - Plebe), che mostra anche una
sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze empiriche e che
in seguito lo portò a confrontarsi con il positivismo e l'evoluzionismo.
Pesavano in questo probabilmente sia gli interessi positivistici di Fiorentino,
cui egli dedicava questo volume, sia l'ambiente intellettuale bolognese, in cui
spiccavano figure quali quella di De Meis. Ha modo di sviluppare e
precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e forme dell'essere
di Serbati. Qui critica Serbati della
Teosofia in quanto non dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo
rapporto con l'essere, mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato
dalla mente: "È necessario studiare la mente nella serie non interrotta
dei suoi fenomeni, attraverso cui passa nel formarsi". Kant ha colto
questo punto in quanto ha mostrato che prima di poter parlare dell'essere si
deve indagare la natura della mente, e tuttavia ha finito con il postulare una
irriducibile alterità della cosa rispetto alla mente. Fichte, e quindi Hegel,
hanno invece compiuto il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è
fuori della mente è il risultato di ciò che la mente e il pensiero hanno
rivelato. Gentile ha modo di considerare a questo proposito che la
lettura che il proprio maestro da di Hegel e personale e forse inadeguata sul
piano interpretativo: e uno Hegel mediato in primo luogo da Spaventa, che ne
aveva sottolineato l'aspetto soggettivistico, e che lo J. aveva letto in modo
ancora più immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero
umano. Temi e ispirazioni filosofiche - in cui si mescolavano influssi
hegeliani, fichtiani, e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del
pensiero - spinsero lo J. a occuparsi del positivismo e in particolare di Spencer.
In una prima memoria, “Dell'apriori nella formazione dell'anima e della
coscienza” (Napoli) -- ma si veda anche “La somiglianza nella scuola
positivista e l'identità nella metafisica nuova” -- J. nell'esaminare e nel
correggere il Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza:
sensazione, rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già
modo di articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e
pensare. La sensazione non è solo stimolo che proviene dall'esterno ma è
anche modificazione. E interna all'atto del sentire e alla sfera spirituale. In
questo da una parte valorizza l'importanza dello studio scientifico dei modi in
cui la conoscenza sorge e ha luogo, ma dall'altra mette in luce l'inadeguatezza
di un punto di vista esclusivamente empirico. Tornato su questi temi in “L'unità
sintetica kantiana e l'esigenza positivista” si propose di conciliare l'esigenza
positivistica, che nega elementi a priori e che è invece interessata a
ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza kantiana, che
vuole mantenere valido il punto di vista universale. Opera tale conciliazione
ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più evolute di
coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Si appropria
dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca nell'immagine
idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai gradi più
semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate. La trattazione di
questi temi prelude al “Sentire e pensare”. Scrive lo nella prefazione: "È
mio fermo convincimento, che il problema speculativo, in tutta la sua ampiezza,
resterà un labirinto senza uscita […] finché non solo non sarà studiato sul
terreno indicatogli dalla filosofia moderna in genere e dalla critica kantiana
in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per esso della coscienza, ma
più ancora finché nello studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel
giusto punto, dove il senso finisce e la coscienza incomincia, o dove il senso
non è più solamente senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di
esso i suoi primi germogli". Lo J. è interessato a individuare il
momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono. Da una parte è
desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degli evoluzionisti,
fino a spingersi ad affermare che "il principio assunto oggi a base delle
scienze naturali, l'evoluzione" è vero e fecondo, un'affermazione non
priva di interesse in un autore che eserciterà il suo influsso nella formazione
di una filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in
particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella
sensazione degli elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità
propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione
di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di
un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini è interessato a
conciliare una comprensione scientifica della natura, che prescinde da una
descrizione in termini intenzionali, e che l'evoluzionismo ha esteso anche agli
organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in termini
concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica anziché come
prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica, chiude quasi
subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in termini evolutivi
del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare che non vi sono
passaggi categorici ma solo di grado. "La sensazione è foriera della
coscienza, e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio, non
salto. Gli elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione.La
vita della coscienza è due cose; è la continuazione della vita del senso, e per
esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme" L'immagine evolutiva è impiegata per
significare questo passaggio dalle diverse forme della vita, che intende come una "forza" che si
dispiega. "Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che nel sentire si
raccoglie tutto il mondo naturale sottostante, e che questo mondo naturale è
qualche cosa di vivo, viva essendo e perenne e senza limiti la produzione
degl'individui diversi, che si succedono e s'incalzano in tutti i diversi
ordini della natura. Questo mondo naturale che si raccoglie nel sentire è la
forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza sottostante, compiute tutte le
condizioni, sale al grado di sentire, produce ancora. E non intendiamo dei soli
individui, che compongono il grande regno animale. Il sentire è per sé solo
forza, perché per esso gl'individui senzienti (forniti delle capacità, della
forza di sentire) non vivono soltanto, assimilandosi e trasformando gli
elementi del mondo inorganico, ma il mondo pre-esistente della vita trasformano
in una superiore esistenza, nell'esistenza rappresentativa. Nella
rappresentazione la forza naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando
quel movimento di ritorno sopra di sé, nel cui compimento è il suo possesso, e
la sua integrazione”. Puo già leggere in H. Spencer una concezione
dell'evoluzione come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana
dall'evoluzionismo di Darwin, di cui Spencer non si liberò mai. Ma egli chiude
subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine
evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a
invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il
modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza: "Non resta dunque,
che sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte
diverse. I fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione,
così come era e poteva esser dato nella logica formale […] potranno trovare
dura questa conclusione". L'evoluzione è immagine della forza che dal
regno della natura ritrova se stessa, cioè si rende consapevole nel mondo dello
spirito. In questo senso, J. può essere ascritto alla schiera di quanti hanno
usato l'evoluzionismo per produrre una loro filosofia della storia. Una
conclusione, questa, che trova conforto in uno scritto successivo dello J. L'intuito nella coscienza. È qui affrontata la
questione se l'intuito abbia una parte nella ricerca scientifica. J. risponde
affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto in primo piano solo
"quando il pensiero indagatore ha sentito il bisogno di ricorrere alla
conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore" e cioè quando vi è perplessità sull'evidenza del
proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la conoscenza non sia solo
accumulo e accostamento di fatti, J.
afferma, di nuovo contro i positivisti, che "i fatti e la storia, se sono
la realtà, non sono tutta la realtà" . "La realtà storica, oltre ad
essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior modo nell'universale
e per l'universale". I fatti e la storia sono testimoni cioè di un
universale che li raccoglie e dà loro un senso. Nel successivo Ricerca
speculativa. Teoria del conoscere (I, Pisa), insiste sul concetto del pensiero
che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli ritiene che la
filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico di studio che
non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Come egli scrive, "si tratta di
salire nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per
costruire l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere. Se alcuni
interpreti hanno ritenuto che in quest'opera
traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di
Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo – Plebe), Gentile invece vi ha voluto
scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto,
una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato
all'idealismo italiano. Come notò, a tal proposito, lo J. "qui non muove
più dal senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è dato dalla
coscienza, per spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello
scetticismo. Si mette innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni
rapporto di esso con la verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come
principio unico ed assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro
possibile pensiero" (Gentile). Oltre agli scritti menzionati, si
segnalano ancora, fra gli altri: Un po' di polemica nella quale principalmente
si discorre dell'articolo 73 dello Statuto in rapporto a' poteri supremi dello
Stato, Bologna); Saggi filosofici, Napoli
(raccoglie scritti già pubblicati e l'inedito La virtù e i suoi elementi
costitutivi); la prefazione alla raccolta di Scritti filosofici di B. Spaventa,
a cura di G. Gentile, Napoli; Enigma della coscienza, in Rivista filosofica;
L'insegnamento filosofico universitario ed il regolamento nuovo, Pisa. Fu membro della Società reale di Napoli e
cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia. Fonti e Bibl.: Necr. in Il
Messaggero toscano, (C. Sgroi); Corriere
toscano, (G. Tarantino); G. Gentile,
Lettera a D. J., in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della
Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici,
(lettera di Gentile giovane laureato al maestro); F. Battaglia, Lettere
di A.C. De Meis a D. J., in Memorie dell'Accademia di scienze dell'Istituto di
Bologna, cl. di scienze morali; G. Gentile - D. Jaja, Carteggio, a cura di M.
Sandirocco, I-II, Firenze; S. Miccolis, Dieci lettere inedite di D. J., Firenze
s.d.; G. Gentile, D. J., Pisa Id., Le origini della filosofia contemporanea in
Italia, III, Messina G. Alliney, I
pensatori della seconda metà del sec. XIX, Milano ad ind.; B. Croce,
Conversazioni critiche, s. 2, Bari pp. 30 s.; A. Guzzo - A. Plebe, Gli
hegeliani d'Italia, Torino; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica
in Italia, Padova G. Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi
storici, VA. Cristallini, Il pensiero filosofico di D. J., Padova (con bibliogr. degli scritti dello e sullo
J.); V. Carcuro, Polemiche filosofiche antirosminiane: Terenzio Mamiani e D.
J., Aversa; A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei,
Firenze , s.v.; Enc. Italiana, XVIII, s.v.; Enc. filosofica, IV, s.v.; F. Abba
Luzzato, Diz. generale degli autori italiani contemporanei, I, sub voce. Grice:
“Jaja is especially important for the fact that he tutored Gentile. He wrote on
the ‘supreme powers of the state’, since he was a Hegelian at heart, as a
collection published in Italia thus calls him – “Gli hegeliani d’Italia: Tocco,
Jaja, Gentile. While he studied Kantism in depth, he finds that the Hegelian
absolute, the State, as compromise between ‘gl’individui, as Jaja calls them,
is the maximum!” Donato
Jaia. Donato Jaja. Jaja. Keywords: implicatura, I potere supremo dello stato,
la virtu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jaja” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Javelli – filosofia italiana – semantica del segnare,
segnante e segnato -- Luigi Speranza (S. Giorgio di Canavese).
Filosofo italiano. Grice: “I love Javelli – he is, like me, an Aristotelian;
being a northern Italian, he is a Thomstic Aristotelian, which I’m not sure I
am!” Grice: “One good thing about Javelli is that he commented on MOST works by
Aristotle!” -- Essential Italian philosopher. Studia a Bologna. Fu esegeta.
Argomenta contro Lutero. Opera omnia” (Lione, Giunta). Partecipa al dibattito
sul Tractatus de immortalitate animae di Pomponazzi, di cui scrisse, su
richiesta di Pomponazzi stesso una confutazione. Partecipa al dibattito sul
divorzio di Enrico VIII, esponendosi a favore della scelta del sovrano. M.
Tavuzzi, in "Angelicum", DBI. Casale Monferrato.
modum definiendi, dividendo et demonstrandi, Tu tamen adverce
licet fiteadem realiter, ratione tamen distingui turinquantu docens, et inquantu
utens. Namin quantu docens consideratur in e, in quantu utens relpicit alias
scientia. Logica docens sufficienter diuiditur in tres
partes. Prima est in qua tradatur de terminis in complexis, et hoc ditiiditur in duas. In prima consideratur de terminis secundo intentionis,
et iste est liber praedicabilium. In secunda consideratur
de terminis primx intentionis, et iste est liber praedicamentorum,
et post praedicamentorum. Secunda est in qua tradatur de
terminis complexis, id est de oratione et propositione et hic
est liber “Peri Hermenias”. Tertia est in qua tradatur de argumentatione
et hoc dividitur in quatuor. In prima agitur de argumentatione
syllogistica absoluta et simplici, idesi noh applicata alicui
materiae et hic est liber pnorunviln secunda
agitur de syllogismo demonstratiuo, et hic est
liber posteriorum. In tertia agitur de syllogifmo
topico, id est probabili, flthic eft liber
topicorum. In quarta agitur de syllogismo fallaci, quem
dicimus sophisticum, co q* per ipsum solum
gc iteratur deceptio, et hic est liber elenchorum.
Hoc est summa librorum, quos tradidit nobis
Aristoteles inventor logicae. Reliquos autem minores
tradarus quos appellamus parva logicalia, non
habemus formaliter ab Aristotele. Sed posteriores traxerunt virtualiter
ex praedictis libris Aristotelis, ita <y
eorum principia iam habuimus ab Aristotele, ut tibi
declarabitur, quando agemus de consequentiis et suppositionibus etc. Et aduerte
q? sufficientia praedictae divisionis fumitur hinc, argumentatio ut
dictum est supra Jeft pn cipalc confideratum a logico ueluccius finis, non enim
logicam quaerimus nifl ut acquiramus habitum faciliter et ra de argumentandi ad
quancuncp conclusionem. Argumentatio aut est quoddam
totum conflans ex propositionibus, ut tibi
declarabitur loco suo, propositio vero confiant ex
terminis. Cum igitur eadem scientia sit considerari
va totius et partium, necesse esi logicum versantem
circa argumentationem, considerare de argumetatione et partibus
eius, partes autem cius fune duplices. f.
propinquae et remotae propinquae sunt propositiones remote
autem termini in complexi, nam propositiones componunt
immediate argumentarionem. Termini aurem incomplexino
componut eam, nisi quia ingrediuntur propositionem.
Ex quibus conflat in qua confiderantur
termini in complexi, ordinatur ad secundam, in
qua confideratur propositio et secunda ad tertia,
in qua consideratur argumentatio, et in ca
completur intentio logicj. Conftar igitur quomodo
dinldenda sit logica, et quae sint cius
partes sufticienrcr ipsam di nidentes. Hoc de praesenti
cap. dicta fint. A quo sit incipiendum in logica et quis ordo
prosequendus ne confundatur ingenium nouicii. In septimo capite
investigandum est a quo primo incipiendum fit tractare in logica, et quis ordo
m tractandis lcruandus fit, ne novicii ingenium confundatur. Quantum
ad primum aduerte quod nonulli confidcrant
logicam inquantum est DIALECTICA, id est DISPUTATIVA,
alii autem inquantum versatur circa argumentationem, quae non solu
potest fieri voce sed et mente et scripto. Primi
considerantes disputationcm non fieri sine SERMONE,
nec sermonem sine uoce, nec vocem sine TONO, ideo
a sono tanquam a priori et communiori definitive et divisive
dicunt inchoandum. Secundo loco a voce definitive
et divisive. Tertio loco a nomine et verbo ut
habent c(Tc in voce et componut orationem et propositionem
vocalem, ex quibus componitur syllogismus sive argumentatio vocalis,
qua sit DISPUTATIO INTER DUOS. Hunc ordinem lcruat Petrus Hispanus et ratio ad
hoc movens cum fuit, quia consideravit Aristoteles in suo libro
“Peri Hermenias” acturus de propositione definit nomen et
verbum ut funr cius partes integrales per vocem, quafique non confideret
de nomine et verbo et oratione et propositione et argumentatione, nisi ut
deferuiunt disputationi, cui non deferuiunt nisi ut sunt in voce reliquit ergo
omnia praedicta ut sunt in mente et in scripto et intendit de modo magis famoso
ac notiori ad sensum, qui est modus in voce. Alii autem advertentes
<f licet modus ific famosior et vulgarior
fit, tamen experientes quod omnia praedicta habene esse IN ANIMA, in voce
et in scripto, nec unquam proferuntur voce, nec
feribuntur nisi prius mente concipiantur, unde et
dixit Aristoteles in primo “Peri Hermenias”, quod ea
quae sunt in voce, sunt earu quae sunt in anima PASSIONUM id est conceptuum
notae i signa, ideo arbitrati non sunt incipiendum a voce nec a
sono, sed a termino, id est DICTIONE. Nans
terminus ut est in mente componit
propositionem mentalem et ut est in voce, componit
propositionem vocalem et ut est in scripto, componit propositionem in
scripto, et quoniam nomen verbum et oratio
poliunt ede in mente et in voce et in scripto, ideo
dicunt melius esse quod definiantur per. Ti
terminum ut pote magis communem et per vocem. Hancjg!
cur viam uc universaliorem sequemur et prateipue quia no
concrariacur priori sententiae. Nam sicut est
verum dicefe. “Socrates est homo; ergo, Socrates est animal,”
sic est verum dicere, nomen est vox significativa, ergo
est terminus significativus. In plus enim se habet terminus quod vox,
quem vox non evrificacur de nomine nisi ut est in voce. Terminus
autem verificatur de nomine, in mente, voce, et scripto.
lncipiemus ergo a termino definitive et divisive.
Quantum ad iccundum adverte tp cum termini
in complexi fxnc priores fit simpliciores oratione et
propositione in via compositionis et propositiones fine priores
syllogismo, qm componunt syllogismum, et non cconucrfo, ordo foientix
requireret q prius tradaremus de praedicabilibus et praedicamentis, et secundo
loco de propositionibus utrra dat Aristoteles in
libro “ Peri Hermenias” et tertio loco de syllogismis
formalibus et topicis et sophisticis et demonstrativis eo ordine quo de eis tradat Aristoteles in tota arte nova. Verum quia novus logicae auditor tranft
immediate ab arte grammatica: ad logicam, et logicus accipit a
grammatico nomen et verbum et aliquas alias partes orationis
uc dicemus pro ut componunt propositionem, et propositio componit
syllogismum, ideo ne novicii ingenium inuoluatur, expedit
f>us tradare de gtib9oronis, deinde de oratide
et cmltiatione, sicut etiam tradat grammaticus modo grammatico
et socundo loco tradabimus de syllogilmo formali et tertio
loco de praedicabilibus, et quarto loco de praedicamentis. Nam
abfqj notitia propositionis et syllogismi, n<» pollet novitius
i illis erudiri modo logico, ut tibi tinanif eft u
erir. Deinde procedemus ad alios tradatus
eo ordine que tibi nianifeftabimus loco suo.
Conftat igitur tibi a quo incipere intendimus, et
quem ordinem foruare, ne nouitii ingenium
inuoluatur. Hxc de praesenti cap. dida fint. Explicit
trac. primusqui Tuit de praecognoscendis ordinatus per
authorem, et reuifus per eundem secundus qui est
de partibus propositionis. N rradatu iecudo
agendu est de partibus orationis, quae apud
Logicu praecipua une nomen, et verbum et qtr» scire non poteris quid est
quotuplex sit nomen apud logicum, fifr &
verbu nisi prius noveris quod sit terminus, et quotuplex
sit. Et quod dico de termino intellige de voce. Primum quod
poni£ in definitione nomini et verbi cM
terminus apud coitcr tradatores de logicalib
apud aut Aristotele vox, ut tibi declaravim9 i tradaru
pcedeti, c.7. io huc tradatu diuidem i.4.capita.. Primum, Quid et
quotuplex sit terminus. Secundum, quid quotuplex sit nomen et verburn.
Tertium, quid et quotuplex sit oratio. Quartum, Si logico sufficiunt duae
partes orationis, (ciliccC nomen rectum et verbum rectum. Quid &
quotuplex sit terminus. IN pino cap. investigandii est qud sit TERMINUS et quot
sine vitares divisiones cius. Hic igitur duo ageda sunt pmo definiemus terminu
declarates singulas definitionis particulas secundo assignabimus coes, et
vies divisiones termini. Quatu ad prnii aduerte, q?
hic no intedimus loqui de oi
significato in quo fumit terminus in doctrina Aristotelis.
Sumii at eribus modis, Prlo funii! maiori, et minori
extremitate medio, et dnr TRES TERMINI tres ex qbus
coponi! oisve rus syllogismis et de hoc ino
loquemur I trac de syllogismo formali, et absoluto.
Secundo iiimitur pro definitioc rei, quae
dicitur apud Aristotele terminus quem in se
claudit, 8C terminat totam rei definitae essentiam
et de hoc modo loquemur in trac. de syllogismo
topico et demostratiuo. Tertio sumitur pro omni co
ex quo propincp constituitur ORATIO et propositio et
in quod resolvitur. Et dico propinque quoniam sicuc apud gramaticum DICTIO componitur ex aliquibus
remote et ex aliquibus propinqj. sic apud logicum ORATIO et
propositio ex aliquibus coponitur utrocj modo.
Nam apud grammaticum DICTIO componitur propincp ex syllabis,
quoniam scipsis et non mediante alio, comfonitur aurem remote ex literis,
quoniam non ex scipsis sed mediante syllaba. Sic in proposito apud logicum oratio et
propofitio componutur propinqj ex terminis, quem ex scipsis et
non mediante alio, componuntur autem remote ex syllabis
5C literis, liter enim componut fyllabas, et syllabe
terminos, et termini orationem. Ec in hoc tertio sensu solum
intendimus in hoc trac. Ioqui ac definire terminum. Sed aduerte <jf in
tertio sensu ad huc tripliciter fumi p6t. f. communiter, ftrl de et
ftrictissime. Comuniter sumitur pro omni didionc p
pinqj componente orationem, et fic non solum nomen
dC verbum, sed etiam alis orationis partes,
ut pronome, prepositio, aduerbium etc. dicuntur termini.
Stride sumitur p omni eo quod est vel poteft esse subiectum et
praedicatum et copula in propositione. In quo sensu, nec signa universalia
nec particularia, nec adverbia sunt termini, quem no sunt nec possunt esse per
se ipsa praedicatum aut subiectum, sed modi Huc dererminatioes eorum, fifr
aduerbia sunt determinationes verbi ut “bene currit”, “hodie ucnit”
&c. Srridisfime autem sumitur pro omni eo quod est vel potest esse
extremum propositionis, extremum autem dico subjectum et praedicatum,
&*n hoc sensu copula non est terminus, quia non est EXTREMUM, sed
unitiuum extremoru, unit et copulat praedicatum et subiectum et in
hoc sensu definiuir eum Aristoteles in libro priorum diccns, (?
terminus est in quem resolvjf propositio ut in subiectum et praedicatum. His
praepositis adrerte qr hic habemus deffinire terminfl non ftridc nec
ftritisfime sumptum, sed comunircr, aliter non potiemus ipsum dividere ut
dividemus infra. Nam una ex divifionibus erit haec, terminorum unus est PER SE
SIGNIFICATIVUS, alius non per se significativus. Constat autem ex prxdidis quod
terminus non per se significativus, non cil tf terminus stricte nec strictissimc
sumptus. Definientes igitur terminum coicer et absolute fumptfl dicimus
quod est pars propinqua constitutiva orationis et propositionis. Dicitur
pars propinqua immediata orationis et propositionis ad differentiam
literarum et syllabarum, quod non nisi mediante termino componunt orationem.
undeaduerte sicut se habent lapides et ligna et fundamentum, &p
aries ad compositioncm domus, sic liter ac et syllabae et termini ad
constitutionem orationis, nam lapides et ligna non component immediate
domum, sed componunt imediate fundamentum parietem et tectum, haec
aurem imme diate dotnumrideo illae remotae, hae
autem propinquae nucupantur. Sic in propositio,
literae et syllabae non componut immediate orationem,
sed TERMINUM, terminos autem immediate orationem.
patet ergo terminum esse immediatam et proximam partem orationis
ad differentiam literarum et syllabarum. Df conftitutiva orationis,
quonia hic procedimus ex po-
ri:ad differentiam relolutionis quae supponit constitutum ex partibus.
Df ergo constitutiva orationis, quoniam hic intedimus praeparare materiam syllogismi,
quae est propositio ideo investigamus in primis,
ex quibus constituit pr immediate propositio, et
in tractato de syllogismo aperiemus ex quibus propinque et
immediate conftituitur syllogismus. Haec autem definitio convenit termino,
in mente, in voce, in scripto: quoniam terminus
in mente, est pars propinqua orationis mentalis
et in voce, est pars propinqua orationis vocalis et in
scripto, est pars propinqua orationis scripta.
Viso quid sit terminus apud logicum cSmunitcr
et absolute fumptus, assignandae sunt generales divifiones
eius, uc Idamus iuxta quod membrum
ponendus est in definitione Hominis et verbi et
orationis. Terminorum, aliquis est PER SE SIGNIFICATIVUS, aliquis nihil
per se, id est per se sumptus significativus. Terminus per se
significativus est ille qui ultra se ipsum aliquid intellectui
re-presentat, ut “homo”, “animal”, “lapis”: representat enim homo ‘intellectui
animal rationale’ et “animal” re-praesentat ‘animatum sensitivum et per se
motiuum’, et “lapis” ‘corpus terreum durum offendens pedem’. Nam SIGNIFICARE
est aliquid intellectui re-praesentare. Vnde idem est terminum esse per se
significativum et esse per se re-praesentativum alicuius
apud intellectum. Dicitur ultra seipfum, quem re-praesentare
seipsum intelleftui est commune omni termino, cum fit
intelligibilis ab intellectu, cuius obiectum est ens communis fit
num ut se extendit ad ens reale et ens rationis ut dicemus
alias. Terminus nihil per se significativus eft ille qui per se sumptus ultra
se ipsum nihil intellectui re-praesenrat -- ut “buf” et “baf” et
“biltris”. Dicoper se fumptus, ut
excipia quando proferuntur ex intentione irridendi. Tuc enim ex
proposito irridentis fumunrur ut per se significativi,
sed id NON EST ORDINARIUM. Nam pleruncp proferuntur aut exeunt ex ore
sine proposito aliquid ultra feit sum significandi.
Ad hoc autem quod sit per se significativus, oportet ut
naturaliter vel AD PLACITUM IN ALIQUO IDIOMATE ORDINARIE ET CONSUETUDINE
FIRMATA, sic vel sic ultra se ipsum significet. Dimisfo termino nihil per se
significativ, ut pote inutili proposito nostro, quando NON COMPONIT ORATIONEM
ORDINARIE ut subiectum et praedicatum, nec est pars
nec determinatio eorum ad differentiam signorum universalium
(/\x) et particularium (Vx), dividendus est terminus per se significativus.
Et prima divisione dividitur in terminum per se
significatiuum naturaliter et in terminum PER SE
SIGNIFICATIVUM AD PLACITUM. Terminus per se significativus NATURALITER est
ille, qui apud omnes homines idem uitra se ipsum re-praesentat intellectui, ut
“homo” et “animal” in mente est autem homo *in mente* vel anima species, sive *similitude*,
sive *conceptus* hominis. Se habet enim huius modi *similitude* sive *conceptus*
ut *vera imago*, puta ‘Caesari’, quae apud omnes ex sui natura
re-praesentat Caesarem (‘GIULIO CESARE’/Giulio Cesare – ‘Fido’-Fido.
Sed adverte quod non solum terminus in mente vel anima est
significativus NATURALITER sed et quidam termini dum
proferuntur, et quaedam animalium SIGNA, ut dum INFIRMUS
GEMIT, apud omnes repraesentatur DOLOR, et dum CANIS LATRAT apud
oes re-praefentatur IRA. Terminus autem PER SE SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM, est
ille qui NON apud OMNES IDEM, sed IN DIVERSO IDIOMATE diversa re-praesentat,
vel tatum in uno idiomate aliquid determinate re-praesentat, in alio
autem nihil. Et causa huius est, quia huiul modi termini non
significant ex instinctu naturae sicut interjectiones quae
non sunt bene trasferibiles ex uno idiomate in aliud, sed impositi sunt ad sic
significandum EX DECRETO ET AUTHORITATE primorum instituentium, quibus sic
placuit rationabiliter tamen, in uno quoqj
idiomate res singulas sic vel fic nominare. Et adverte
quod ultra hoc quod terminus ad placitum differt a
significativo naturaliter in hoc quod NON apud OMNES IDEM
re-praesentat, dum profertur, nec significat ex instinctu
naturae, sed decreto primi authori: in duobus aliis
diffcrt. f. in modo proferendi et in significato. Nam terminus ad
placitum per se de et distinde profertur, modo non adiit ineptitudo
linguae exparte proferentis. Termini autem naturaliter significativi
propter impetum passionis, amoris, aut timoris, aut gaudii,
aut irae, ut in pluribus truncate proferuntur, etiam remota
ineptitudine linguae. Differunt etiam ex parte significati,
quoniam termini ad placitum significant conceptum intellectus: illi autem
magis indicant AFFECTUM appetitus, quam conceptum intellectus vel animae. Sed
ne novitius involuatur, hic sisto, donec siat capax solidioris docrinae. Dimisso
termino per se significati — non naturaliter pro nunc TERMINUS SIGNIFICATIVUS
AD PLACITUM multas sub se continet divisiones, quarum
frequens est udis in doctrina peripatetica [LIZIO], ex
quibus una est quod quida est categorematicus,
quida syncategorematicus. Categorematicus est ille qui tam g se
sumprus quam cum alio, tam in ppone quam
extra, aliquid ultra se ipsum intellectui re-praesentat -- ut “homo”, “lapis”,
“curro” – ego curro – nomen et verbum -- , “amo”. na “homo” g
le folutn significat ‘animal rationale’, “lapis” [significant]
tale corpus, “curro” [significant] adum currendi, “amo” [significat
aduin amandu --- “shaggy” significant ‘hairy-coated.’ -- syncategorcmaticus
est ille qui per se solum sumptus nihil extra seipsum apud intellectum significant
– “What is the meaning [SENSE] of ‘or’, or ‘to’?” --. Si autem sumatur cum
alio, puta cum nomine substantivo [non adjective, ‘shaggy’] e vel
cum verbo, simul significat, inquantum determinat nomen aut verbum. Et sic
signa universalia (/\x) et particularia (Vx) et preposinones (“to”) et adverbia,
et coniunctiones (“and,” “or”) sunt termini syncategorematici. i.co
significativi. Nam signa universalia (“all”, /\x) determinant nomen substantivum politum in subjecto
ad ft a dum pro OMNIBUS, aut pro nullo – ut, “Omnis homo currit”, nullus
homo currit. Signa autem particularia (Vx, some – at least one --) determinant subiectum
particulariter -- ut “Quidam homo currit”, +> “Quida homo non currit.”
Praepositiones (“to”) aurem determinant nomen ad constructionem pro
cerro casu, puta ablativo ucl accusative. Adverbia
determinant verbum f>ro determinato Io co, ut
adverbia localia, vel pro determinaro tempore, ut adverbia
temporis , vel pro determinato modo quantitatis ucl
qualitatis tut adverbia quantitatis et qualitatis. Coniunctiones
(‘and,’ ‘or’) autem determinant terminos et orationes,
secundum, modum copularivum (‘and’), vel disjuinctivum (‘or’) vel
illatiuum. exeplum primi, “et” ,arcp exemplum
secundi, “vel,” “aut” ,
exemplu tertii, “ergo,” igitur, iracp. Inter
syncategorematicos terminos non comprehenduntur intejectiones (“ouch!”)
: quoniam ut docuimus signficant NATURALITER, nec pronomina
primitiva, quoniam sumuntur loco proprii nominis et certam significant
personam. De derivativis autem videtur quod sic, quem sunt ut
determinationes nominum substantivum - ut “meus liber”, “tuus
pater”, “nostra patria,” etc. Similirer participium ji5 eft
terminus syncategorematicus, compleditur enim nomen substantiuum et
verbum -- ut “legens” loquiTUni» ‘homo qui legit’
loquitur. Ex his omnibus sequitur, quod cum sine odo
partes orationis, tantum nomen et verbum sumendo cum nomine pronomen
primitivum, et cum verbo participium, sunt termini
categorematici, alix autem partes sine termini
syncaregorematici apud logicum, et
caulam huius dicemus postquod definierimus nomen et uerbum.
Terminorum categorematicorum quidam eft primat intentionis,
quidam secundae. Prima intentio apud veros peripateticos (LIZIO)
est primus conceptus fundatus immediate in re, quod est
ens reale, ut primo apprathenditur prxhenditur ab
intellectu, -- ut ‘animal rationale’ est prima intentio
quam format intellectus, et immediate fundatur,
iit natura hominis. Secunda aurem intentio est
secundus conccprus formamus ab intellectu,
fundatus in re non immedia ce fcd
mediante primo conceptu, ut efle praedicabile
de pluribus differentibus numero in quid, est secundus
conceptus quem format inrellectus de homine. Nam postquam
appraehendit cp ‘homo’ est “animal rationale”, advertit ut est ‘animal
rationale’, convenit omni contento sub homine, et fic
est praedicabilis de quolibet suo individuo
in quid, et tunc format secundum conceptum, dicens quod
natura hominis e eo quod est ‘animal rationale’ est
praedicabilis de pluribus differentibus numero in quid
et quod dico de homine incellige de qualibet natura specifica contenta sub
animali. Terminus igitur primis intentionis est terminus significans primum conceptum,
fundatum immediate in essentia rei -- ut “homo”, “capra”,
“leo”. Terminus autem secunda intentionis est terminus
significans secundu conceptum fundatu in natura
rei median re pmo conceptu -- ut “genus”, “species”, “differentia”,
“singular”, etc; Et ne confundatur intellectus novitii hic
sisto. In tradaru aute de universalibus sive praedicabilibus diffusius et
altius de terminis pmx, et feciidx INTENTIONIS loquemur. Et aduerte quod
divisio termini in terminos pmz impositionis, et secundo
positionis apud nos, qui sequimur VIAM REALIUM non
differt a praecedenti. Nam “homo” in mente vel
anima excogitatus, et voce probatus, et in scripto politus,
significat (>mum conceptum ideo est terminus pmz
intentionis in mente vel anima, in voce, in scripto. Et iste
terminus species ex cogitatus in mente vel anima et in voce et in scripto
et secundae intentionis, quia significat secundum
conceptum modo quo diximus. Non ergo est necesse ultra divisionem
faftam inter terminos f>mx, 8( secundae intentionis, assignare eam
quae dicitur pmz, & secundx imtentionis ut penitus distinctam
aprxcedenti, qux fuit inter m x , et secundx intentionis. Hoc enim
continetur in illa. Terminorum quidam cfimunis,
quidam singularis. Cdmunis eft q de pluribus
pradicatur -- ut “homo”, “animal”, “lapis”, et apud
grammaticum dicitur nomen appellativum, quem pluribus
convenit. Terminus singularis est qui de uno
solo praedicatur -- ut piato, & fortes, et apud
grammaticum dicitur nomen proprium, qmuui foli
conuenk, & ad «erte <y terminus singularis
apud logicum pot fieri quatuor modis, primo
per nomen indiuidui, ut “Plato” 'ftudet, secundo
per nomen coe adiun&o pro nomine demonstratiuo,
ut hic homo studec, tertio per nomen
circtinlocutum. i «miiltas circunstantias singularizatum, ut
Sophronifci primogc nitus filius feribit, quarto
per ly, quod apud logicum, et philosophu est
signum demonstrativum, ur ly “homo”, ly alal
&c. Terminorum quidam magis universalis, quidam
minus univerfalis, & utrunq; membrum continetur sub
termino communi. Magis universalis est qui
praedicatur de pluribus q minus univerfalis, nam
magis univerfiilis praedicatur de omnibus
de quibus praedicatur minus universalis, &1n
hac divisione continetur animal et homo, na
animal praedicatur de omnibus de quibus
praedicatur homo et de aliis pluribus ut de omni
animalium specie, homo autem tantum de contentis sub
homine individuis, et iuxta hanc divifionem
asfignabimus ordinationem conten Corum io
quolibet praedicamento, procedendo a generali!
Cmoadfpcdalisfimum. Septima divisio. Terminorfim tam
singularium q communium quidam eft finitus, quidam
infinitus, finitus eft determinati et certi significati: qui
scilicet fignificat unam ccr tam ac determinatam
naruram, et de nulla alia verificatur, ut homo significat
solam naturam rationalem, animal foli naturam
fenfitiuam, etc. Infinitus est qui negat unam
naturam,eam, scilicer quam significat terminus finitus,
et ucrifi catur de quacuncp alia, ideo
dicitur infinitus, id est indeterminatus in significando, et
terminus finitus fit infinitus per appofitionem non,
ut non horno, non lapis, non animal. Nam
non homo negat naturam hois, $ ( verificatur
de quat Cunc $alia« Vndc lapis eft non
homo, leo eft non homo &c. Et
aduerte q' quando terminus finitus, infinitatur
per non. iS fit tota una
diftio,ut non homo, fi autem ftet non, per se,
& homo per se, dicitur terminus non
infinitatus sed negatus -- ut “Non homo
currit”, et per terminum negatum fit propositio
negativa haec enim eft negatiua “non
homo currit”, haec autem eft affirmativa, non
homo puta leo currit. Terminorum quidam est positivus,
quid priuatiuus . Positivus est qui significat aliquam formam sive habitum
perficientem fuum fubiedum,ut uifus perficit
ocu lum «Lux aerem, iuftitia animum etc. Privativus
est qui significat negationem talis formae,
relinquens taroe aptitudj k ne in fubiedo,
eo quod eft aptum hre talem forma -- ut “caecitas,”
“tenebra,” “iniustitia,” “mores
furditas”, etc. “Caecitas” enim significat negationem visus
in oculo apto here visum, modo, et te porc
quo cft aptus videre. Dicitur notanter quod
est aptum habere talem formam, qm fi
non est aptum , no uerificacur ii de
eo terminus priuativus, sed terminus pofitiuus
negatum aut “non videns”, non lucens, non
audiens. Unde de lapide haec est falsa – vera apud
Grice. “Lapis est caecus,” -- vel surdus, uel
tenebrosus, haec autem est VERA. “Lapis est non videns”,
non audiens, non lucens. Terminorum quidam abstradus,
quidam a concretus. Abstractus est qui
significat formatu per se fine f- connotatione subiedi
-- ut “color”, “sapori”, “albedo”, “dulcedo”, “anima”, “iustitia”,
“spem” (‘speranza’) etc. Concretus est qui significat
formam conno i- tado subjectum, uc “coloratum”, “album”,
“nigrum”, “animatum”, “iustum”, ‘hopeful,’ etc. Et adverte quod
haec divisio coincidit cum illa, dc :t qua
erit fermo in ante praedicamentis, scilicet
Terminorum r, quidam est denominans, ut grammatica, hic est
idem quod ab li ftradus, quidam denominativus,
ut grammaticus hiccR idem quod
concretus. Terminoit quidam in complexus,
quidam complexus. In complexus est ille, qui est
terminus simplex, er vel copoficus, vel
uniens in se plure? terminos per se significatiuos
ad placitum, ita tamen quod habent uim
unius exem- ,a« pium primi homo, capra, leo,
exemplum secundi. Scuti- K. fer, armiger
exemplum tertii “paterfamilias”, “primo-genitus,” “sanctus Georgius”,
“summus pontifex”. Comple-Jtu« eft ille, qui in se
aggregat plures terminos per se significativos
ad placitum, qui NON HABENT VIM unius, sed siue
aggragati, siue separati recinet suum proprium significatum.
Et nccerminus complexus semper est oratio,
aliquado sine verbo, ut “homo [est] albus”, “animal [est] volatile,” in
qua *secunda* pars determinat, et limitat primam, aliquando
cum verbo -- ut “Homo est albus”. Vnde logici univerfaliter
dicunt quod terminus incomplexus est ut dictio.
Complexus autem ut oratio. Tuta men aduerte quod terminus complexus
coitcr nominatur per orationem infinitivam, ut deum ede trinum hominem esse risibilem,
quae oratio dicitur e(Te quid coplexum, et enunciabile, ut ibi manifeftabitur,
cum loquemur de modalibus. Terminorum quidam significant
sine tempore quidam cum tempore. Significare sine
tempore est significare rem absolute sumpram non
mensuratam aliqua differentia temporis, cuius differentis
sive partes praesens, praeteritum, et futurum, et hoc
modo significar nome et pronomen sumptum loco nominis.
Nam dum dico hoitio, aut animal, homo significar
rem quae est homo absolute, et non
inquantum praesntem, aut praeteritam, aut futuram. Tu
tamen aduerte quod licet nomen significet sine
tempore, nihil tamen prohibet aliquod nomen significare tempus, aut
partem temporis, ut haec nomia, tempi, hora, dies
ebdomada, mensis, annus. Nain licet significet tempus, non tamen
aliquid distinctum a tempore, et mensuratum tepott. Per oppositum autem significare cum tempore est significare rem adiunda aliqua differentia temporis.
Et hoc modo verbum et participium significar cum tempore.
Verbi gratia “curro” et “currens”, significant currum pro
tempore praesenti, et non aliter, “cucurri” pro
praeterito etc. Unde significare sine tempore, ut dicemus
infra, proprie convenit nomini, oppositum autem
convenit uerbo. Terminorum quidam univocus, quidam AEQUI-VOCUS,
quidam analogus. Univocus est qui sub UNA definitione naturam unam significat,
sive sit una specie, sive ana geacre -- ut “homo” sub hac definitione,
est ‘animal rationale’, significat natura humanamquae est una
spe, &aul fub hac definitione, est ‘corpus animatum
sensitivum’, significac naturam animalis quae est una genere. Aequivocus est
qui sub distindis ronibus, et abfqj ordine, et immediate plures
naturas significat distinctas spe -- ut “canis” significat
immediate ‘canem coelestem’ sub hac definitione
q* est sydus in ore sigui leonis, et “canem
latrabilem” sub hac definitione quod est animal iracundum et “canem marinum” sub
hac definitio ne q* est ‘animal aquaticum simile cani terrestri’.
Analogus est qui sub diffindis ronibus ucl sub una in aequaliter
participata plures naturas quodam ordine prioris, & posterioris fignificat.
E xcmplum primi. “Sanum” (Aristotele – Grice – “Multiplicity in
Aristotle”) sub hac rone q? est esse
adaequatum in humoribus significat ‘animal sanum”,
sub hac f one q' eft e(Tc causatiuum
(imitatis significat ‘medicinam’ Isi nam, sub
hac rone quod est ede indicat iuum sanitatis, significat ‘urinam sanam.’ Prius
tamen dr de ‘animali’, pofterrus autem de ‘medicina’,
et ‘urina’: quoniam nonnifiin ordine ad ‘animal sanum’. Exemplum secundi. “Ens”
sub hac rone quod est cui debetur eflfc, significat primo ‘substantiam’,
deinde acens quoniam substantia est ‘ens’ simpfr, et “accidens” est ens “secundum
quid”, et solum in ordine ad substantiam. Hic
termini cur universaliorcs divisiones quae in docrina
peripatetica [LIZIO] frequenter funt in usu, ta i
libris termino logices, q pbiae. pr aepofirae aut funt,
ut noviti9 paulatim a(Tucfcat, & nc fim coadi
frequeter singulas repetcre. Haec dc. i .cap.
dida fint. Quid et quotuplex est nomen et verbum apud logicum. In secundo
capite investigandum est quid et quotupleg sit nomen et verbum apud logicum, sunt
enim principales partes propositionis, ut tibi manifestum erit, primo igitur
agendum est de nomine secundo de verbo. Et quonia hic
intendimus agere dc partibus propositionibus, et
de propositione, & de syllogifmo, non solum in voce, sed
et in mente vel anima, et in scripto, ideo definiemus
ca non per vocem, sed terminum qui est communis nomini et
uerbo in mente vel anima, in voce, in scripto. in
reliquis autem no recedemus a via, et me* do definitiuo
fcruato a Petro Hispano, qui logicam Cui formavic ut compendium logicae totius
traditae nobis ab Aristotele, excepro libro posteriorum. Non .n.
Petrus hispano formavit tractatum aliquem correspondentem
libris posteriorum, hac forte rone,
qmcxiftimauit novitium penitus incapacem syllogismi demonstrativi,
Nos autem faciliori
modo quo poterimus particularem tractatum formabim ut paulatim
alluefcat novitii ingenium, et ne fubito auditu
libri posteriorum confusus retroccdat. Licet autcm
Aristoteles in libro “Peri Hermenias”, et Petrus cius
imitator definiant nomen et uerbum per vocem, et
nos per terminum, tn no eri mus oppositi, nisi
in hoc, quod nos magis ample, illi autem
magis ftriftc definierunt, Considerarunt. M partes orationis
folurti ut sunt vocales, nos autem ut
poflunteife mentales – vel in anima --, et vocales, et scriptis. Unde
sicut dicit Aristoteles et Petrus cf nomen est
uox, fifr et verbum, dicemus nos i terminus, fiib
quo continetur terminus vocalis qui dicitur vox etc.
Primo igit agentes de nomine definiemus quid sit apud logicum,
et si multiplex est. Quantum ad primum adverte
cp nomen ad mente Aristotelis in voce, in
scripta est TERMINUS PER SE SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM sine
tempore, cuius nulla pars separata aliquid significat finita et
reda. Primo dr quod est terminus, quem nomen est
pars propinqua ofonis et proponis, ut patet. Et quem terminus est
quid magis commune quod sit nomen, ut patet ex op. praecedenti.
Nam et verbum est terminus, non tamen est
nome, ideo in haedefi nitide ponif
terminus ut genus. Na ut declarabimus trac
de syllogismo dialectico, pmus terminus in definitione
positus, est loco generis, quem eoior est
ipso definitor, reliqui aqte ponuntur loco
differentiae ut declarabimus Secundo dr p se significativus,
ut excipiantur termini NON PER SE significativi -- ut
“buf” et “baf” et terrmni syncatcgorema Cici ut signa univerfalia (‘omnis’
‘all’) et particularia (‘aliquis,’ some, at least one), uc “omnis”, nullus,
aliquis, quae licet apud grammaticum fint
nola:, non tamen apud logicum, quoniam g (e fumptanon polfunt esse praedicarum ncc fubic
et u proponis, fcd tm determinant subiectum. Au aur praedicatu
uc docuimus in rertia divillonc tcrminoif. Tertio dr AD
PLACITUM ad driam termini significatis NATURALITER -- ut
interjections (“ouch!”), quod condant non clfe noia
qm no declinantur per casus, nec fune fubicdumaut
praedicacutn proponis nisi in suppositione materiali
-- ut “heu” e interie&io, heu eft bi syllabum,
& ad driam termini J. conceptus in mente vel anima,
qui NATURALITER significat ut declaratur in. i “peri
hermeneias” t Quarto dr fmc tempore ad
driam verbi, quod significae cum ege, quid fit significarc
fine rge, & cum tge iam docuimus
in divisione terminorum , et diximus q? no
«nconucnit aliquod nomen significare tempus, ve;
partem tgis -- ut dies, hora non th cum
tgc. Vide tu illic» Quihto dr cuius
nulla pars separata aliquid lighat. idi no
men dividaf in partes fiias, quz (int
fyllabz ut pr, & omne nomen nmplex, ucl
quz fint dictiones, ut in noic composi, ut
est “paterfamilias,” uel Icutiferus, et fumant g fe. i.
extra totum nomen nihil significant. Quod fic
intclliges,aut nihil orno significant ut marc. Na
nec tnamee re, g fe fumpta ali quid significant.Vel
fi aliqd significant, non th habent illuti
lignatu, quod hnt in toto noic.V.G. Hoc
nomen dhs signac |»ncipem. Si ante refoluat
in do et in minus,do uciqj signat:;f*aftum
dandi, et minus signat oppositum magis, sed ut co
ponunt ly dhs nihil fignificant. f.dc significato
ly dhs. Idem intellige de nomine composito,
cuius partes separatz et (i aliquid fignat,
non tn illud quod fignat totum nomen
ccm pofitum, ut “paterfamilias” significat rectorcm familiz. “Pater” autem per se fumptus
significat ‘genitorem’ et “familia” ‘familiam’, ica q in toto significant
ur.um, separatz autem signiS eant duo. Ethzc expositio est communis apud veros logicos*
Unde Avicenna recitat in logica sua aliquos dixifle,
quod verbum in complcxum est cuius nulla pars separata
aliqd significar. fi quod fic de intellectu et
significato totius qm nl hil , phibct aliqd
aliud fighare -- ut “magister” nam “magis” aliqd significat:
et “ter”, sed non tetinent significatum quod significat
“magister” nec in totum nec in partem. Er fic paret quod
haec definitio conucnic nomini cam simplici,
quam composito, tam primitivo, qua derivativo, dum
ntodo intdligatur, uc cxpo luimus. Sexto de
finitus ad differentiam nominis infiniti, quod et
si apud grammaticum sit nomen, non came
apud logicum, quoniam apud ipsum nomen est
illud, quod potest elie subjectum et praedicatum in propotitioc.
Subiectum autem et praedicatum oportet, ut determinate aliquid
significent, afr propotitio effec inutilis, nec deferuirct syllogismo
formado ab intellcdu pro inquirenda ucritatc.Vndc et terminus acq liocus
inntilcm facit proponem, niti fumatur determinate.
Verbi gratia canis coeleftis lucet. Sed
uc docuimus in divisione septima terminorum, terminus
infinitus nihil determinate tignat, ideo cum non
postit effc fubicdum & praedi catum
proponis non cft nomen apud logicum
niti fecundi! quid, ut dicatur nomen non fimptf r sed
nomen infinitum, sicuc solemus dicere quod “chimera” non est nomen REALE sed
nomen fidum, quia nihil significat sed imaginarie. Sed dices, apud logicum hzc
cft propotitio. Non homo currit, ergo poteft effc fubicdum,
& per confequcns nome. Respondccur. Tales propoticiones
sunt inutiles ti teneatur nomen infinitum in sua infinitate &i n deccrminationc.
Si autem determinetur ticdiccndo. Non homo.i. asinus currit tunc propotitio erit utilis,
sed nomen infinitum non remanet infinitum, fed
zquiualet finito. Septimo dicitur redus ad
differentiam obliquorum, qui non fune nomina apud logicum. Nomen enim est
apud ipsum quod f m fe aliquid significat, 8( f m se
poteft effc fubicdum propotitionis. Sed obliqui
neutrum habent ex fe. No primum, quia tigni
ficatum trahunt, a redo ticur,& deriuan tur ab co. Redus autem
ticut non deriuatur ab alio tic non accipit tignificatum ab alio cafu sed
habet afe. Non secundum, quia ti apud logicum formatur propotitio perucrbif
impcrfonaIe, ut Platonis intereft legere: ly Platonis no eft subiectum, niti
refoluatur in redum tic. Ille cuius eft legere est Plato. Sic
intclUgc de aliis. Prztcrca solus redus fufficit t11 K Ir O \t. i115 s io i
ur Si rii a fr-io mn. A re 3t n ad formandam
prop6ncm pcrfedann et maxime de secundo adiaccntc, ad quam non sufficit
nomen obliquum. Haec enim cQ perfcda. Deus est, homo
est, hacc aurem imperfe da. Dei est, hominis est. Non
ergo obliqui moerentur dici nomina sed fmc cafus
nominum. Hoc de definitione nominis apud
logicum rcalem & peripateticum dida fint. Quantum ad
secundum. F quotuplex fit apud logicum, Ideft
inquantum poreft c(Tc subiectum et praedicatum,
ppo fitionis, conftat, ex didis quod non est multiplex,
quoniam solum nomen rectum et finitum poreft clic secundum le
subiedum et praedicatum in propone modo quo
expofuumus.Vnde logicus a grammatico sumit fibi
redum ut nc« cellarium ad fomandum absolutam proponem significativam
veri & falsi Reliquos auccm casus lumir adbencclfc, et magis propter servandam
congruitatcm quam veritate sermonis, ne uideatur logicus delpicere regulas
grammatices. Haec de nomine dida finr. Quantum aduerbum aduerte quod ad mentem Aristotele
verbum cam in voce quam in scripto sic definiendum est
verbum est terminus per se significatiuus ad placitum cum tempore,
cuius nulla pars separata aliquid significat,
finitus & rectus extremorum unitiuus. Terminus ponif loco generis ficutin definitione nols, quia eft eoior uerbo. Nam omne
verbum eft terminus: sed non converso p
fe fignariuus ponitur eadem rone sicut in definitione nols fifr ad placitum ad
driam interiedionuni, et verbi mentalis, qrh significat NATURALITER,
ut diximus in definitione nois,
Cum tempore ponitur ad differentiam nois, et
pronominis, et conuenit in hoc cum participio quod uc- nit a
uerbo. Quid fit significarecum tempore, 8c quare uorbu et participium signifi.ar
cum tempore, uidc in diuifione undecima rerminoru. Cuius nulla pars
separata aliquid sfignificar, intelligcndum est de verbo tam simplici quam
composito, sicut expofuimus in definitione nominis,
in hoc enim uerbum conuenit cum nomine,
finirus ponitur ad differentiam uerbi infiniti. Infinitatur
aute verbum sicut et nomen per appofitionem negationis,
ut non curro non laboro. Quod quidem apud logicum no eft verbum,
qm nihil determinate significac^ficur nec nomen infinitum. Undefacc rct proponem inutilem:
nili determinetur licut diximus de nomine infinito,
sic dicendo, fortes, non currit» I « feribie» Re cius ponitur ad differetiam uerbiobliqu^cft autem uerbum obliquum apud logicum uerbum prztcriti et
futuri temporis, et verbum cuiuslibet modi przter
modum indicativum.Vnde quaedam fune uerba
obliqua ex tempore ra tum,ficut uerba praeteriti
temporis, et futuri indicativi modi, ut “amavi”, “amabo”. Quaedam
autem ex modo rantum uti imperativa tempore przlenri. Quzdam
ex modo, et tempore, ut uerba optatiua, et subiunctiua
et infinitiva temporis praeteriti et futuri. Ideo autem apud logicum non fune verba,
quoniam non faciunt primo et perfcipfa propofitionem veram aut falsam,
sed per redudionem ad verbum indicatiui modi et temporis przfcntis.
Nam hzc non cft uera Czfar fuit,nifi
quia aliqii fuit uerum dicere Czfar
cft» Sifr* hzc non cft uera.Eclipfis crir,nifi
quia aliqh erit uerum dicc rcrcclipfis eft.
Quoniam igitur folum uerbu redum,»i»mo- di
indicatiui przlenns temporis facit per se ipfum
propofitionem veram et falfam, et sola propofitio
indicativa pinis temporis facit syllogifmum dcmonftrariuum .i.fcicntialcm ut
tibi declarabitur in rrac. De syllogismo demonftratiuo, ir dignatur logicus
recipere a grammatico solum verbum indicatiuum praesentis temporis,
et przcipucfum, es, cft:quo niaminipfum ut dicemus
refoluuntur omnia uerba dida adiediua.Excremoru
uilitiuus ut in hoc diftinguatur a nomine et
pronomine fumpto loco nominis, nam illa
funt ucl
poffunt elTc extrema in propofirione,ideft
fiibiedum et pdf catum, verbum autem non, fed
habet unire extrema. Unde dicitur apud
logicum copula, qm copulat przdicatum cum
fubiedo. Item in hoc diftinguitur a participio,
q» licec significet cum tempore ut uerbum
tn non poteft effe copula, nec facit g
feipfum oronem perfedam, dicendo fortes Ic gens,
sed cft necefle fubintelligerc uerbum»
Verbi gratia foftcs eft legens, ucl
fortes leges eft ftudiofus. Conftac igiC quid
fic uerbum apud logicum, & quare folum
uerbum i e- dum. i. quod no deriuai ab
aliquo priori: quale est uerbum lotum indicatriui
modi tgis prxfcntis,vnocrctur dici abfolute
uerbum. Reliqua aut tga; & modi
dicantur obliqui fiue cafus uerbi refti,
quoniam defcendunr, & deriuatur ab eo. Quotuplex
auc fit verbum apud logicfi,non cft immora
dum ex quo folum ucrbu rciftum moeref
apud ipfum dici nierbum ex rone ia di&a.
Sed apud gramaticu ideo eft mul
tiplex uerbum, ut patet in coniugationibus verborum,
et I regulis fiiis, quoniam non attendit ad formadum
propone veram aut falsam sed congruam, et uitare incongruam
et quoniam per oes tgis drias, & oes
modos uerborum for mari por, et alio modo g
uerbum aftiuum, aIio modo g paf fiuum
&c.ideo apudgramaticum uerbum mulcipfr
diuidic. Nam gramaticus concedit
iftaurpocecongruazho eafinus f| negat logicus, ut
falfam. Hxc de. 2. cap dida fmt, Quid fit et
quotuplex fic oro apud logicu. IN
tertio cap. poftqua actum eft de partibus
oronis age» dum eft de ipfa orone
ut de toto conftitutot cuius praecognitio ideo nccciraria eft
quoniam feire non possumus qd fit enunciatio et propo, ut tibi
manifeftabitur infra, nifi pus notum fuerit quid, et quotuplex fit
oro. Hic igitur tria age da funt, primo quid fit, secundo quotuplex sfit
tertio qua orationis species sit propofitio.
Quantum ad primum aducrtcip ad mentem Aristotelis oratio in
voce et in scripto, fic definiri debet, Oratio eft terminus per se significatiuus complexus ad placitum,
cuius partes separatx aliquid sfignificant. Primo
dicitur eft ter g le significa rone,
qua didum eft de nole et uerbo et
ponitur loco generis, quoniam eoior e.
Nam ols oro eft terminus per fe
fignificatiuus : fed non ccd uerfo. Difhim eft
enim cp nomen et verbum funt termini per,fe
fignificatini,non tamen funt oratio. Secundo
dicitur complexas ad differentiam hominis et
uerbi, quo nullum fiuc fimplcx, fiuc copoficil, e termiiim
complexus. Quid autem fit terminus complexus
nide in diuifione decima {terminorum , et illic
inucnics quomodo proprie conuenic oration. Tertio
dicitur ad placirum, ad differentiam ofonis mentalis,
qux significat conceptum mentalem complexum, qui
conceptus lignificat naturalr, sicut diximus
de nomine et uerbo mentali – in anima. Praeterea, oro
in uoce, et in feripto significet ad
placitum, probatur fic. Partcs fux.f. nomen, & uerbum significat
ad placitum, ut docuimus in cap. prxccdentJ
ergo et ipsum totum confoturum ex eis, quod
cft oratio. Quarto di cuius partes
feparatx aliquid fignificat, id ponitur ad
differentiam nominis & uerbi, quorum partes, uc docuimus in
eorum definitionibus, non fignificat aliquid fc parate, modo quo illic
expofuimus, partes aute ofonis fune termini caregorematici,
intclligendo de partibus principalibus ficut intendit Arift. Si non de partibus
secundariis, quae polfiint eife propones aduerbia etc.
Termini autem catcgo rematici tam in oronc,
q extra retinent fuum lignatum, ut docuimus
in diuifione tertia terminorum. Vn fi
fiat hxc oro, “homo albus currit”, ho extra
hanc oronem fignat aial ronale, ficut et in
oronc, & albus significat habens albedine.
Tu tamen aduerte cp licet fit commune omni orationi haberepartes qux separatx aliquid significant,
non tamen id fit uno modo i omni oronc,
nam fi oro fit fine uerbo, ut ho
nio albus, partes fux aliquid significant
modo, quo significat dictio. Si afit fiat oro
fimplex per uerbum, uc “homo est animal,” partes fux separatx eodem modo significant.
fut didio. Si aurem fiat oro subiuctiva,
ut si veneris ad me dabo tibi equum, partes lux funt dux ofones ut patet.
Unde si separentur, significabunt non ut diftio, sed ut ofo.
Vcrura quia refoluitur m duas orationes, et dux orationes in
terminos componentes, ur ego dabo, tibi equum, ideo commune est
omni orationi quod partes fux separatx aliquid significent, aut ut dictio, aut
ut oratio. Sed dices. Quare in hac definitione non apponitur finitus et rectus,
sicut in definitione nominis et verbi, prxeipue a quia dictum
eft q nomen infinitum nori poteft efle
fubiecti nec praedicatum, nec uerbuni
infinitum poteft cflc copula, fimiliccr nec
nomen obliquum nec uerbuni obliquum.
Reipondetur quod ideo non opponitur,
quia in definitione non debent poni nili
quae conucniunt omni contento fub definito, non omnis
autem oratio formatur ex nominee et verbo finito, & redo. Nam haec
eft oratio, non homo currit et haec, Catonis est
legere, et haec, homo currct. Qn aut diximus quod nomen
infinitum et obliquum non poflimt ee subicdum, no fumus locuti de orone sed de propositione,
qm sola oratio indicatiua praetentis teporis
ut dicemus eft propofitio. Qm igitur
aliqua orario poteft coponi ex nomine iufinito,
et obliquo, fitr ex
uerbo, et aliqua non, puta propo firio,idco non
dicitur redus neque finitus, fed abftrahit ab
utroque. Conftat igitur quid fit orario apud
logicum, Quantum ad fecundum aduerte, quod apud
logicum oratio prima diuifione diuiditur in
orationem perfedam et imperfe&ani, deinde utruncp diuifionis
membrum fubdiuiditur, nidebis infra. Oratio
perfeda eft illa quae perfedum fenfum
gencraf in animo audietis , id eft quod
audita quietat,quo ad fignifi- catum
intentum a proferente uel feribente,
animum auditoris, Verbi gratia. Socrates intendit
notificarc Platoni ftatfl regis, et dicit. Rex
ualet fortis in bello contra hoftes, Hac
ratione audita quiefeir animus audientis.
Quod fi dicar. Rex contra inimicos, et non ultra procedat,
imperfedum fenfum generat in animo audientis, id eft non quierat ipfum ideo dicitur oratio imperfeda. Nam audiens rex contra inimicos,
ultra non proceditur, dubitare incipit uti£
prae ualeat, an fuccumbat contra inimicos
fuos, patet igitur ora tionis prima
diuifio apud logicum. Oratio perfefta
continet quinque species, quae funt indicatiua
temporis praetentis, &
omnium temporum modi in dicatiui, ut “Petrus
amat”, amabat amauit, amaucrat, amabit imperativa, ut “fac
ignem”, deprecativa , ut “Ora deum pro me”. optativa,
ut – “ut inam te videam doctum”. coniunctiva. ut “fi
ucncris ad mc, honorabo te”. Omnes iste dicuntur pcrfic
auditae quierant ANIMUM AUDIENTIS quo ad earum significatum,
nec ipsum suspensum tenent. Tu tamen
aduertc, quod imperantia, et dcprecativa non dit fefunt
penes modum nec tps verbi, sed penes
appofitos respectus. Nam utracp fit per modu
imperatiuum, fed deprecatiua fir proprie ad fuperiorcm,
imperatiua aOt ad inferio rem. Item aduerte quod
coniunftitia ad hoc q» fit oro perfecta oportet, ur coplcfiatur duas orones,
aliter no quierat animfi audientis, ut parer, reliquae uero spes per
unicam ofonem quictant audientem, ideo per feipfas funt perfectx. Oratio
autem imperfeda tres cotiner species secunduqs tribus modis poteft formari. Nam formatur per nome fubftatiuum cum adiecfiiuo,
ut “homo albus” “animal risibile”. vel
per duo sobftantiua per appositione, ut
animal homo, deus pater, Deus filius. Et hacc
eft prima species et formatur per foliim
infiniriun, ut fortem currere. Si autem apponatur fum,
es, eft, cum termino modali cricpcrfectarut forte currere
eft posfibile. i t haec eft fecunda species, et
formatur per verbum Jcipir, et definit, ut fortes incipit,
fortes definit.
Siautem apponatur ifinfriuum efficitur perfecta,
ut fortes incipit conualefcere, fortes definit
fcriberc, et hoc est ter tia species.
Item aduerte <y oratio perfecta poteft
fieri per unicum nomen, tielunicum ucfbum, et
maxime quando sic responsiva interrogative Vt fi
qtiis a te petat. Quis uenit do rnum?& RESPONDEAS,
Petus,Vel sic, nunquid fortes uenit? Et RESPONDEAT: “Venit.” Confiat
igitur quo dividenda sit oratio apud
logicum. Quantum ad tertium aduerte quod
sola orario indicativa est pmo et per
(e propofitio. Dico pmo et per se qm
alie species non fiunt propofitio, nifi
reducantur ad indicatiuam. Vnde ifta: “Si homo volaret,
haberet alas”, non est propositio, nisi
reducatur in istam: “si homo volat, habet alas.”
Et indicari u • prxreriti aut futuri temporis,
non est propolitio nifi reducatur ad
indicatiuam praefenris temporis. Nam ifta: “Ad a fuit,
ideo eft^iera, quia Aquando fuit verum dicere.”
Adam est sciliccc quando Adam cxiftcbar. Ratio autem propter quam
apud logicum sola oratio indicativa est primo et per se propositio, est, quia
intentum logici eft uti oratione ad investigandum verum etfalsum, ergo cam
proprie recipit, quae secundum fe significat verum et falsum, et hoc
est indicativa. Nam alis potius deferuiunt affectui mentis qua quod sint
ordinatae ad enunciandum verum et falsum conceptum animi aut intellectus. Quod
pacet hinc. Imperativa indicat voluntatem superioris per imperium,
optativa indicat desiderium sive affectum optantis. Praedicatiuc indicat
affectum inferioris erga fuperiorem per supplicationcm. Coninndiua autem
licet uideatur exprimere uerum aut falsum conceptum mentis, non tamen
determinate, fed fufpc fuic, est enim conditionalis quae ut dicemus
in cap. de hypotheticis nihil ponit in ede.
Indicativa autem dcterm.nate di cic verum aut falsum. Nam hxc
eft determinate vera, homo est animal, et haec determinate falsa homo est
lapis, ideo. sola'm ceretur dici japofitio. Proponicur enim
imelledui ut per eam formet syllogismum, et per
syllogismum deueniat in ucram conclufionis nociciam. Conflat
igitur quae orationis perfeda species mcerctur logice dicipropofitio. Unde
aduerte, quod logicus non tantum magni facit oronem congruam et ornaram,
quantum veram, ita etiam fi eflfct incongruam et
inornata, modo uerii et falfum cnuncict, accepta eft apud
logicum, ppterea logicus acceptat iftam, deus
feruitur ab hole licet cam reprober grammaticus negans feruior inueniri pasfiuum.
Hoc de prxfcnti cap.dida fine. OlnUli/ Si
logico fufficiunt dux orationis partes scilicet
nomen re» verbnm redum. Caput quartum.
IN cap. quarto inueftigadum eft fi dux
orationis partes fciliccc nomen & uerbum
redum fufficiunt logico. Tu igitur aduerte , quod
logicus rationabiliter reripjt tantum duas, ut
fibi neccflarias,grammaricus, autem odo Ratio
uero djfferenrix est hxc. Logicus et grammaticus
dififerunt fine. Intendit enim logicus fcire,
difcerocrc ucrum a falfo, grammaticus autem intendit
fcire difccrncre congruum sermonem ab incongruo.
Ad confequendum pri- mum fufficiunt nomen &
uerbum , quoniam fufticiuncad componendum .ppofirfone,
quae eft significans verum uel falfum, ut
tibi manifeftabiturin trac. lequeti ad
formandi! congruum sermonem, et diftinguendum ab
incongruo no sii Hiciunt nomen et uerbum, sed
oportet uti praepoficiqnibus, et aduerbiis et coniunftionibns,
S(c. Et ideo ut grammaticus habeat omnem modum formandi SERMONEM
congruum, nccc sTarix funt fibi plures partes
orariois, quam nomen rectum et verbum rectum. Et qm
ifte dux fibi sufficiunt, ideo appellat eas categorcmaricas, id est per se
significatiavs, alias autem syncategorcmaticas, id est simulsignificativas.
Quis autem fit terminus categoricus et syncategoricus
diximus in divisone tertia terminorum. Sed dices.
Logicus indiget pronomine demonftratiuo, ut quando dcfcendic
sub subiecto propositionis univerfalis affirmatiue uel
negatiue dicendo, omnis homo cft animal, cf
et “hic homo est animal”, et hic est
animal etc. Item iniget participio, ut dicemus
in trac.fequenti, quando rcfoluit propofitioncm falsam
de uerbo adicdiuo in fuum parti
cipiurn & Ium es eft, ut fortes currit,
fortes eft currens, ergo faltem quatuor
partes orationis funt ei ncccftariae. f.nomcn et
pronomcn, uerbum, et participium. Refponderur
nomen et pronome apud logicum funt, uC una
pars, qm utitur pronomine loco nominis, et participii! ftar cum
nominee et uerbo. Cum nomine quide, qm poteft
efte fubiedum propofitionis ficut et nomen, ut
legens currit, et stat cum uerbo, qm fignificat cG
tepore, ut docuirmrt fupra, et ideo apud logicum
identificanrur nomini et uerbo licet apud grammaticum remaneant
diftinfte. Conflat igitur cp fint partes
orationis necclfariae dialectico ad formanda
propofitioncm et ex propofitionibus syllogifmum. Hoc dc prxfcnti
cap.dida fint. Explicit rradatus secundus copcndii logices
peripateticat ordinatus per authorem et fuit de partibus propofitionis. Incipit
QVT eft de propofitione et speciebm cius. Nhoc tertio tracta, agendum est de
propofitione, gratia cuius praemifimus tradatum praecederem, in quo a&uin
est de partibus eius, et de genere per quod definienda eft, et hoc eft oro ut
tibi manifcftabitur. Diuidemus autem ipfumin fex capita. Primo agendum eft de
propofitione definitiue & diuifiuc prima diuifione. Secundo agendum est de
categorica simplici et de olbus eius diuifionibus. Tertio agendum eft de, pp6ne
hypothetica et eius spebus. Quarto agendum est de propone categorica modali.
Quinto agendum eft de aequipollentiis propofitionum categoricarum
fimplicjuni, qux funt oppofitx contrarix, fubcontrariae, conrradiftoriae,
et subaltcrnx. Sesto agendum eft de
aequipollentiis modalium oppofitaif. De ppone, quid
fit et cius prima diuifione. In primo
capitulo agendum eft de propofitione quid
fit & quotuplex in genere sive prima diuifione. QuStum ad
definitionem aduerte, <y sic definitur de me te Aristotelis.
Propofitio eft oratio uerum uel falfum significans
indicando. Primo dicitur oratio, loco generis, eft enim
in plus oratio quam propofitio: di&um eft enim in
tract. praecedenri, oratio perfcfta diftinguitur in
quinque species, ex quibus sola INDICATIVI MODI est propofitio, ergo
omnis propofitio eft oratio perfecta, sed non econuerso, ex consequenti est
genus propositionis, propofitio autem est species orationis jjcrfe&c. Sicut
animal est genus hominis, homo autem est species animalis. Nam omnis homo est animal,
sed non econuerfo. Secundo dicitur verum vel falsum fignificans, pro cuius
notitia aducrte, cp cum proponum alia iit affirmatiua, alia negatiua, ut
declarabimus infra. Significare ucr u in affirmatiua est significarc
rem sicut est.Verbi Gratia haec est
ucra, homo est rationalis, quia fic eft ex
parte rei. Vnde hoicm e(fe fonalem cft
ucrum Significare uerumin negatiua eft fignificare rem ficut non
eft. Verbi Gratia haec eft ucra – “Homo non est
asinus”, quia fic eft in re. Vnde hominem non esse
assimum est verum. Significare falsum in propone affirmativa est significarc
rem aliter q fic.V.G. hzc est falsa, “Homo est lapis”, qih significat
hominem esse lapidem, et tamen aliter eft. Significare falsum in propone
negatiua, eft non significarc rem sicut
cft.V.G.hatc eft fal(a, homo non cft animal,
quia non figni fjcac ficut eft. Nam
homo eft animal, ergo fallinn eft ipluin
non efte animal. Dicitur ergo in
diffone, uerum uel falfum. fignificans ad differentiam oronum imperfectarum,
ut homo albus, afinus rudibilis, et oratio infinitiua,ut
fortem cur rcrc, et oratio famularis, ut Socrates incipir,
nifi. n.aliudadda tur, non solum non quierant animum audientis,
fed nec dicut aliquid devero aur
falfo nifi copleantur per aliud. V.G*
Si ly homo albus addatur homo eft
albus.Si ly fortem cur rerc addatur, eft
uerum uel posfibile uel contingens. Si
ly fortes incipit addatur, e(Te bonus. Conftat
ergo g fc funi ptz nihil dicunt
de uero aut falso. Tertio dicitur
indicando quod dupliciter exponitur, primo fic, indicando,
id eft cft oratio modi indicatiui
ucru uel falsum significans. Vnde alii definiunt propofitionem
dicen te$, quod propofitio cft oratio indicatiua uerum uel falfum fignificans.
Et id ponitur ad differentiam orationum perferarum
quae fiunt per alios modos, per itnpcratiuu, optativum,
etc. Nam ifte ut docuimus in trac przcedcnti in capi
trrtio potius dclcniiunt nobis ad manifcftandum
affectum mentis, quam uerum aut falfum
coceptum intellectus Orationes etiam modi
indicatiui temporis prztcriti & futuri %
non fignificat primo et per se verum etfalsum, nifi reducantur
ad unam temporis przfentis indicatiui ut in eode loco docuimus. Sola ergo oro
indicatiua temporis praelcntis moe-retur dici propo, quia fola lufficit ad
formidum syllogitmu aliae autem non, iuli reducantur ad
illam: ut tibi mamfcftii erit in trac.
de slyllogifmo formali: iccudo ab
aliquibus exponitur ly indicando.i.aflercndo.V erum id
non vf convenire omni propofitioniilcd tantum
propolicioni in materis naturali, quae neceflario cft uera, et
in materia remota,
quae de necessitate est falsa. In materia autem contingenti cum posfit elle ucra
& falia, non pot dici afiertiue fea opinatiuc
quod fignificct uerum aut falfum,
ideo melius eft ftarc in p ma expone,
quae etiam eft de mente Aristotele in. i. peri hermeneias.
Quid aut fit & quo fiat propo in materia naturali sc contingente et
remota dicemus infra in hoc met.tradtatu.
Con^ itat igitur quid fit propofitio apud
logicum. Quantum ad primam diuilioncm
proponis aduerteqj ad metem Aristotelis in
primo periher. diuiditur primo in categorica &
hypothctica, dicil categorica gratee predicatiua latine,
categorizo enim graccc et praedico latine. De
hypothetica graece, SUPPOSITIVA latine, est enim graece ‘hypo’,
“sub” latine, et “thesis” graecc, “position” latine.
Ratio autem divifionis est haec,
quia omnis propofitio significat verum aut falsum, et
eft quid compositum et omne compofitum cft refolubi
Ic in lua immediate componentia. V el
ergo propofitio com ponitur ex terminis
immediate, et in cos relolujtur immediate non in
aliud immediate. Et fic est categorica ,
quae coponitur immediate ex fubiefto et
praedicato et copula , modo, quo dicemus infra.V
el coponit I mediate ex duabus oronibus per
aliq coiudione puta ergo, fi, et uel, et imediate
in eas rcfoluit, et ille imediate i terminos, et
fic eft hypo thctica, ut dicemus in
ca.tertio huius tradatus. Catcgorica pero
diuiditur in simplicem et modalem. Simplex eft in qua
praedicatum fimpfir dicitur dc fubiedo, ut homo eft ani mal.
Modalis eft in qua pdicatum dr de
fubiecto non simpflr sed cum modo et
determinatione, ut homo eft aial ncccfla rio,
homo cft albus contingenter. Et de
modali agemus in cap.quarto huius trac.Hsc
deprimo cap. difta fint. Dcpropofitionc carcgorica et omnibus
cius diuifiombus. IN secundo cap. inueftigandum
eft, quid fir propofitio ea tegorica et
quot fint cius diuifioncs, et de singulis
agendu eft excepta modali,de qua agemus
loco luo, primo igitur definiemus eam, deiiide
accedemus ad diuifioncs. Quantum ad
definitionem aduerte, quod ad mentem Aristoteles sic
definitur Propofitio categorica est propofitio j
qux habet subiedum praedicatum et copulam taquam principia
es partes fui. Ponitur propofitio loco generis. Omnis enim popofitio
categorica, est propofitio, led non econverso. Nam et hypothetica
eft propofitio, et tame non eft categorica. Dicitur
quae habet fubiedum &c. hoc totum po
nitur ad differentiam hypotheticae, cuius
partes principales funt dux orationes , in
quas immediate refoluiturtut patet in jfta.
Si tu curris, tu tnoucris, principales partes
& immeoiarxnon sunt termini, sed iftx dux orationes:
tu curris, et tu moueris. prim autem &
niediatx funt termini ex quibus hxc orario
componitur, “tu curris”, et haec, “tu moveris”. Dicitur
igitur quod principales partes categoricx non
funr ora tiones,(cd termini, ex quibus
immediate componitur, quorum unum eft fubiedum,
alterum prxdicatum, alterum co pulat -- ut -- “homo
est animal”, homo est subiedum, animal praedicatum, “est”
copula, coniungit enim praedicatum cum fubiecto.
Sed aduerre: ut fcias quomodo in omni
categorica eft fubiedum copula et praedicatum,
quod fit tribus modis, p„ mo per
uerbum fum, es, eft, de tertio adiacente . Eft
autem categorica de tertio adjacente quando
poft fum, apponitur alius terminus: ut
fortes eft animal. In hac conftat de fubiecto
et praedicato et copula, fecundo fit per uerbum
adiedi- uum . Eft autem apud logicum
omne uerbum adiediuum, prxter lum, es, eft, in
quod relbluitur omne uerbum adiediuum et in litum
participiumtut fortes currit fic reloluit. “Socrates est currens”.
Socrates est subiedum, currens praedicatu est copula,
tertio fit per verbum fum, es, eft, de fecundo adiacente.Eft
autem categorica de fecundo adjacente, qn poftum,
es, eft, alius ccrminus no fcquit,ut deus
eft, coelu eft et in hac eft
allignarc tubum praedicatu & copula, alio mo
q in praedicis, afljgnat auceduplV , pmofic, deus eft. i.
deus cft habes cire, deus cft fubum, habes
etTe est pdicatu, eft copula, fc cudo fic
Deus cftd. deus cft exiftes. Dens est SUBJECTUM
EXISTENS praedicacum, “est” copula. Nonulli dicunt tp
in caregorica de fccudo adiaccntc, eft
gerit uicem copulat et prxdicaci, et id
uidetur innuere Aristoteles in pmo perihcr.ubi definient uerbum
inquit et est iemper eorum qux de altero praedica tur nota,
ideft uerbum semper se tenet a gte prxdicati. Con
fta: igitur quid fit propofitio categorica
iimplex. Sed dices quare magis dicitur categorica,
ideft prxdicatiua quam fubicdiua, cum tam
fubiettumq praedicatu fmc partes cns. Prxtcrca
quare terminus praecedens uerbu fum cs, est,
dicitur fubiectum, subsequens autem dicitur
prxdica tum, et ipsum uerbum substantivum dicitur
copula. Refpondetur ad pmum, cp oe copofitum
denominandu eft a parte sua digniori. Unde
homo dicitur rationalis et intellectualis ab anima
intellectuali, qux dignior cft in eo qui sensitiva et
vegetativa. Prxditatu aute dignius eft fubicfto qm cftficut forma, fubiectu
vero sicut materia, et dicemus intra cp talia
funt fubiefta, qualia, permittutur a praedicatis. Cogrucigicdicn
categorica. i. praedicativa et no subiectina Ad lecundu dfp ideo terminus praecedens verbum
de subiectum, quia de eo df prxdicacum ira
cp fubiicitur prxdica to, V ndc et gramarfeus
appellat ipm suppofitu. Terminus vero subseques verbu
df praedicacum, quia prxdicatur et df de altero.
i.dc fubiecto. Vnde apud gramaticum df appofi tum.
Et aduerte q? totale subieftum est
ois terminus prxee dens copulam, fiue unus
fiue plures fint. V. G. “homo est animal”, homo
eft fubm, homo magnus et honoratus e pneeps
in ciuitarc, fubieftu funt oes illi termini
prxcedetes, pars au tem liibicCti quilibet
eorii. Ide intcllige ex parte prxdicati. Sed dices. Quarc
fubieftu & pdicatum per fe inuice
notifi eant sive definiunt, cu definitio
circularis uideatur. Inutilis Refpondetur quia
hntrefpedum ad inuice, fubiedtum. rtfpicit praedicatu
& praedicatum rcfpicit subiectum, ficut ft
lius rcCpicic patrem, et pater filium. Respediva
aute conuenienter per fe inuicem
norificantur & definiuntur, qm mutuam habent
dcpcndentiam. Sedde hoc alrius loqucmur in trac.
de praedicabilibus, p nunc fuftine tu
iuuenis ne inuolua ris. Conftat igitur tibi
quid sit propofirio catcgorica. Quantum ad
cius diuifiones aduertc, ut habeas plenam
de cis notitiam, fic difponendae funt. Propofitionum
categoricarum, alia affirmativa, alia negatiav. Secunda. Alia vera, alia falsa.
Alia cuius quantitatis, alia nullius. Alicuius
quantitatis alia uniuersalis, alia particularis, alia
indefinita alia singularis. QuIta. Alix gticipacvrrocp
rermio, aliae altero,aliae nullo. Participantium
urroqj termino, aliae participant qtroqj termino
eodem ordine, aliae ordine conucrfo. Participantium
utrocp termino siue eode ordine siuc coverfo quxda
formantur in materia naturali, quaedam in materia
contingenti, quaedam in materia remota. Odaua.
Participanrium utroqj termino eodem ordine
tam in materia naturali q in materia contingenti et in
materia remota quaedam sunt contrariae quaedam subcotrariae, quaedam
contradiftorix, quxdam fubalternx. Nona. Participantiu utrocg termino
ordine couerso et I n triplici materia (iuc naturali fiue contingenti fiuc
remota quxdam conuertuntur conuerfione fimplici, quxdam converfione per
accidens quxda couerfioneg contrapositione Omnes iftx diuifiones dantur de,
ppofitione catcgorica fimplici qux dicitur de inefle.i.in qua prxdicatu
simplicicci4 et fine determinatione facta g alique fex modo. sucrfi falsum
nccef Tariil cotingens, posfibile imposfibile, dicit de subiefto Quae aut ex
his diuifionibus coueniat et categoricati modali dicemus in cap. quarto
huius trac. De singulis aut divisionibus agedu cst in spe et ordine,
quo prxpofitx funt. Verum antedcfcedamus in spe^nl aliqua prxdi et artMi
diuiltonu datur de substantia, pponis, aliqua de qualitate, aliqua dc
qtitatc ut cibi declarabit infra, ideo ad viem notitia diuifionu, quae fiet
toto hoc noftro opere, ne funus coadi idem faepius repetere, praeponendi fune
omnes vfes modi, quibus folct fieri diuifio. Tu
igitur aduerte <y in doctrina Aristotelis divisio
fit quatuor modis generalibus. Primo generis
in Ipccics. Secundo totius in partes.
Tertio vocis significata. Quarto diuisio secundum accidens. Diuifio
gnis in spes, fit duobu modis pmo
gnis^n (pes (ut> alternas, ut qndiuiditeorpus
p alata et inaiatu, et aiatu per fenfitiuu St
no (cnfitiuu, fecundo gnis in spes spalissimas,
uc qii diuiditur color per albedinem et
nigrcdinem. Et hac di- uifionem cognofces
in trac.de praedicabilibus. Diuifio totius
in gtes fkqncp modis, pmo qntotu diuidif
in ptes fubicdiuas indiuiduales,ut qn
diuidit ho in forte Pia Ioanne. Pecru, etc. Scdo
qn totu dividitur in partes eflcntia lcs,
uc ens naturale copofitu diuidif in materia &
forma, sicut diuidit ho in alam et corpus,
tertio qn diuiditur totu co tinuu in partes fuas
intcgralcs,uc domus in fundametu, tc» dii, et
pariete, et corpus animalis in partes, qufe funt
mebra fua,cx qbus integrat corpus,
quarto qn diuiditur totu dito tinuu in partes fiias,
inter quas & fi no fit cotinuitas eft
rame ordo et . pportio. Hoc rao diuidif exercitus
in mtlitcs,cqtcs peditcs, 8(c. quinto qn diuidif totu poretialc
fiue poteftariufi in partes fuas poreftatiuas
qn diuiditur anima per potentias fuas &
virtutes fuas, ut tibi manifeftabitur i libro
dc anima, et ifra mani fcftabi mus tibi in
libro de syllogismo Thopico Divisio uo cis
in fua fignificata fit tribus modis
primo uo cis uniuoce in fignificata uniuoce,
ut qn diuidif ho in fortem et platone
etc, secundo uocis aequiuoce in fignificata aequi-vocata,
-ut qn diuiditur “cancer” in ftclla fiue signum
ccelefte, et aquaticum aial, et morbum, tertio vocis
analogicae in significata analogata, ut qti
diuiditur “sanu”, iu alal (anu, urina lana,
medicinam sanam, cibum sanum, aercm sanum, excretum sanum, etc. Et
hanc diuifione cognofccs in trac. de pntis.;
Diuifio fccudu accidens sic tribus modis,
primo fubiefti in accidentia, ut holum
alius paruus, alitis magnus1 alius albus, alius
niger, alius medio colore coloratus, (c3o
acciden tis!in subiecta, ut accidentifi, qux funt
m hoie, aliud in aia, ut seia, aliud in
corpore, ut agilitas etc. tertio accidentis
in acci dentia, ut accidcntiu, quarda dura,
quaedam liquida , qnada lucida, quaedam tenebrosa, et
hxc diuifio manife ftabit tibi in philosophia
naturali & praecipue in libro de generatione.
Ifti igitur sunt iqodi uniuerfales
famofiores apud Aristotelem, quibus fieri
confutuit diuifio. Quantum ad pmam diuifionem, quac
eft per affirmatiua et negatiuam aduerre, quod
affirmatiua dupfr definitur, pmo fic, Categorica
affirmatiua eft.ppofirio in qua praedicatum
affirmatur de fubiefto, ut homo eft albus. Sed
aduerte cj» tuc praedicatu affirmatur de subiectc
quando negatio no p cedit copula, q?
fi praecedit negatio, negatur pdicatum de subiecto,
et efficitur negariua – ut hic “Socrates non est
albus.”Si au tem fiibfequitur no efficitur
negatiua, fed permanet affirma tiua , ut homo
eft no albus. Ire aduerte «p alio
modo affirma! pdicatum de fubiecto in
affirmatiua uera & in falfa, na in
uera affirmatur re et uoce quia fic
eft in re, ficut dr, ut homo re & uoce eft rifibilis. In
falfa atite affirmatur uoce tm et non rc. Nam licet dicam q»
homo est afinus tarhe non fic eft in re, secundo definitur fic.
Affirmatiua eft in qua verbum pncipale affirmatur de fubiedo, ut homo est
aial. Dr in qua nerbum principale affirmatur ad differentiam uerbi
secundarii qtiod fi negattir uel affirmatur,
propter ipfum non fit propofitio affirmatiua
nec negatiua. Vnde ifta non eft negatiua. Socrates
qui non currit, mouetur,nec ifta eft affirmatiua,
“Socrates, qui currit, non movetur.” Nam In prima
licet uerbum secundarium, quod eft, currit, negetur,
tamen principale quod eft mouetur, affirmatur, ideo
permanet affirmatiua. In IccQda autem fit
oppofito modo, ideo permanet negatiava. Et
ratio huius eft, quia ticrbii fecundarium fe
tenet a parte fubicfti, q3 paret refoluedo
in fuu participiu fiuc aftiuum fiue
pasfiuu,ut hic. Sortes qui non currit, ideft. Socrates
a9 non carrcns mouccur, sortes qui currit,
id eft (ortes curreni non mouerur: Subie&um autem
coniunctum participio affirmatiuo negatiuo no
facit propofitionem dic affirmatius ucl ncgariuam,
tcd
negatio cadens fuper uerbum principale fiue immediate,
ut quando lubfequitur fubiedum, ut hotno non
eft afinus, fiue mediate, ut “Non homo est
animal”, dum modo fumatur negatio negans, et no
infinitam terminum, cui opponitur, nam fi infinitarer,
non faceret negatiuam. Vnde lixc non
clt negative. “Non homo currit”,
qm ly non homo clt nomen infinitum, etc. Vnde non
homo curru, xquippollet ifti, afinus qui ft no homo
currit. Coftat aut hanc elfe affirmatiua
Patet igitur quid fit categorica aftirmatiua. Categorica negatiua dupliciter
definitur. Primo lic,
categorica negatiua eft propofitio in qua praedicatum negatur de luolubicfto,
auc ho non eft lapis. Secundo fic, eft
propofirio in qua uerbum principale negatur .
Dicitur uerbum principale ad differentiam uerbi fccundarii,
quod ut docuimus fiue affirmetur fiuc negetur,
non facit propofirionem affir.aut nega. Et
aduertc,quod propofitio poreft fieri afflr.
uel nega. dupliciter lcilicet explicitc et IMPLICITE.
Si explicite, fit per nomen et uerbum indicariui
modi, ut hotno eft ri fibilis. Si IMPLICITE
potest fieri per unicum terminu, ut quan
do dicimus, “homo est rifibilis”, et econucrlo,
ly econuerlo aequippollet uni propofitioni, qux
elf hxc, et rifibile eft homo. Item aduerte
quod diuifio per afflrmatiuam et negativam non
foium conuenit categoricae sed etiam hyporheti
cac et moduli, quomodo autem fiat hypothetica affirmative
et ne gar. similirer modal s, dicemus
agentes de eis. Nunc autem fuftine, ne
confundaris ut nouus auditor. Hxc de prima diuifioncdi&afint»
Quantum ad fecundam diiiifionetn categorica:
fciliccc per veram et falsam , aduerte quod cartgorica vera ,
tam affirmatiua quam negatiua dupliciter definitur. Primo fic, uera eft, qua:
significat uerum , id eft significar rem sicut eft, si est
affirmatiua, vel significat rem sicut non est, si est negatiua. Sed de
hac latis diximus in ca. pr scedenti in
dedaranlo definitionem propofkionis secundo autem fir
defiintur. Vera cft illa, cuius fignificatum primarium est verum.
Significatum autem primarium cft illud quod exprimitur p oro nem infinitiuam.
Verbi gratia hxc eft ucra Deus eft bonus qm deum clfc bonum, est verum. Sic.n.
eft in re. Dico cuius primarium significatum est uerum ad differentiam
secunda rii. sccundarium autem eft quod continetur in primario 8c
fcquitur ad illud. Verbi gracia primarium huius, homo est rationalis, eft eftc
rationalem ad hoc autem fcquitur cfte ani mal, clfe
animatum, ede corpus efie fubie&am. luxta
igitur significatum primarium et fccundarium indicanda
eft propofirio uera,qm cft ucra primo et
per fe ex eo, ex fccundario autem eft
tantum confequenrcr. Nam bene fcquitur qcf
fi fortes eft homo,for.cft animal. fcd non
ceonuerfb, ut declarabimus in trac. dc confequentiis.
Similiter falsa dupliciter definitur. Primo sic, falfi eft qux aliter
significat quam fit in re, ut hxc cft falsa, homo
est ansinus, quia significat hominem esseasinum, et tamen aliter
eft rn re, quia in re no est asinus,
sed homo siue rationalis, et de hac
definitione iam di ximus in cap.
prxccdentiin definitione propofitionis. Sccun do fic,
falsa cft illa cuius primarum significatum est falsum.
Verbi gratia hxc est falsa homo est
afinus, quia holem esse asinum est falsum, cu fic
ronalis, et afinus irratroalis. Quodfi fiereciudicium fecundu
fccundarium fignificatum, quod eft dfe animal, effet
uera-Nam hxc cft, ucra homo est animal v non
tamen fcquitur, ergo cft afinns, ut declarabitur tibi
in trac. De consequentiis Hxc de fecunda diuifioncdiftafint, Quantum ad
tertiam diuifionem fcilicet quod aliqua eft alicuius qiiamicari$,
aIiquanulliu$. Alicuius quantitatis eft illa, cuius fubieftum ftat pro aliquo
ucl pro aliquibus uel pro omnibus uel pro nullo, ut declarabitur in diuifione
sequenti. Nullius quantitatis cft illa cuius fubicftum fufpcnditur a propria
denoiationc, ronc, pbationis termini prxcedetis ip Ium quails eft
exclufiua cxceciua reduplicatiua, de quaif , p- Satiqne a<fturi fumus in trac.de probationibus ter tuc.n.ap arebit tibi qflo ifte probatur no rone fubicfti,
uc , pbaf universalis particularis etc. sed
ronc figni fiuc fyncategdfcma ris,ut exclufiua g
tm, reduplicatiua g inqtum cxccpriua p p ter, etc. T uigr fuftine
donec exercitat0 magis fueris, et ad ji di&u erae dcuencrim9. Haec de tertia diui.,
p niic dida fint. Quantum ad quarta diui. f. quod proponum alicuius qtitatis alia eft vPis,
alja particula .alia indefi.alia fmg duo ageda fut
primo declarandum eft qflo hxc diuifio
eft (ufficiens, fecun do pertradadum eft de quolibet
eius membro. Quantum ad pmum aduerte quod
qtitas proponis atteditur penes fubm prout ftat,p
pluribus aut uno lolo. Pot igituf cofiderari
fubin dup Tr. Primo fi ftat pro uno folo. Secundo fi
pro pluribus fi pro uno (olo,
{ira cp uni (oli couenit facie ponem fingu. fi pro pluribus,
hoc dupfV,quia uel pro pluripus indeterminate uel determinate,
fi indeterminate fic fam cit, pp6nem indefi. fi
determinare duplr quia hacc determinatio
fubti uel fit per fignum vle
affirmatiuu uel negatiuu, ut ois nullus, et
fic eft propo ul’is,uel fit per fignum
particulare affir-uel nega et fic eft propo
particularis Coftat igit hxc diuifio eft
liifficiens. Et fi quxras quid fic qtiras ,
pp6nis. Hkiideo quod ficut Qtiras fubx proprie
accipit iuxta mensuram longitudinis, et latitudinis et
, pfundicaris, fic quantitas , pp6nis (umit iuxta
menfuram fubiedii, prout uerificatur praedicative de
uno uel plunbus. Conftat igitur quo hxc diuifio eft
sufficiens, et quid fit et unde fumitur qtitas
propofitiois. Quartum ad secundum aduerte, quod propofitio
uniucrfalis dupliciter definiriH-. Primo fic, propositio viis tam affirmativa
quam negativa est illa, in qua fubiicitur ter. communis signo uniucrfali determinatus.
Prinio dicitur in qua fubiicitur terc6is. iponitur in fubie fto ter.cois.i.q por coucnire
et pdicari de pluribus, apud
gramaticum dr nomen appellatiuum -- ut “homo”, “capra”,
leo» Secundo dicitur figno uniucrfali
dctertninatus figna uni uer Talia (untquxdam affirmatiuaut omnis quilibet
quifcp, negatiua sunt, nullus, nihil, neuter , dicunt uniucrfalia quia
faciunt ftarc fubicdum pro olbus aut pro
fnullo ut ifta rft uniucrfalis affir. “Omnis homo
est animal”. Verificatur enim fubiedum pro
quolibet homine in fingulari. Nam fi omni
homo est ammal ergo et ifte, & iftc, & ifte , &
fic de omnibus alii eft animal. Tertio dicitur
determinatus. i. modificatus fiue limitatus ad standum non ablolure , lcd
pro omnibus aut (p nullo-diximus.n in tertia
diuifionc tci minor u, quod signa ufia fune termini
lyncatcgorcmatici, qm fumpticum alio, id est cum
nomine lubftantiuo determinant ipliim in
propofitione ad dandum pro omnibus aut \ ro
nullo» Sed aduerte, quod signum uniucrfale ad
hoc quod faciat propofitionem uniucrialem
fimplicirer & proprie debet ap poni
fubiedo in redo et explicite Nam fi apponitur
iiibic- do in obliquo, non facit eam
uniuerfalem simpliciter, sed secundum quid.Vndc
ifta eu uflibet hominis afinus, currit, noneft
uniucrlalis abfolute, quoniam signum non apponitur
ly afinus, quodest principale lubiedum, lcd ly hominis, quod quoniam est obliquus eft secundarium
fiue parrialc fu bicdum. Unde pratdida propofitio absolute
est indefinita, ut tibi dcclarabitur. Dicitur
explicire, quoniam fi ponitur
iplicire uel uirtualiter ucl cum diftindione, non
facit propositionem uniuerfalem forma)itcr, sed tantum
interpraetatiue» Sicut funr iftar, totus fortes est
minor forte, totum est in mundo est in oculo meo.
Non homo currir, etc. Quomodo autem
fint uniuerfales interpracatiuc declarabitur tibi i trac. de
probationibus terminorum, ubi diftinguemus de toto, et quo ifta
aequipoleat uniuerfali nega citi ac non homo currit declarabitur tibi in
cap. de acqujpolenriis catcgoricarum. Nuncautem fifio nete inuoluam. Similiter
aduerte, <y uniuerfalis affirniatiua poteft fieri dupliciter,
fex— licet collcdiue ut omnes apostoli sunt
duodecim, & diftributiue, ut omnis homo eft
rissibilis. Et iterum diftributiue poteft fieri
dupliciter, fcilicct abfolute et accommode. Verum quomodo fiant et quo
verificentur,dcdarabiturstibi in rrac. de fuppofirionibus,
pro nunc fuftinc Haec de propofitione uniueriali
dida fint. Propositio particularis eft illa, in
qua fubiicitur ter mi- communis
signo particulari determinatus.
Dicitur in qua tubiicitur ter communis,
ea ratione qua et
in propofitionc uniuerfali. De signo parti. determinatus,
ad differentiam proponis uniuerfalisz cft autem signum particulare
determinatio termini cois qui cft fubicdum in
hac propone, per quod defignatur fubiednm
accipi non pro oibus fub eo corcntis, fed
pro aliquibus ucl pro aliquo:
ut quidam homo currit ergo uel ifte uel ille,
ucl ille currit: et fufficit quod uerificctur, p
aliquo pofito quod tantum unus currat. Er
aduerte, quod propofirio particularis poteft fieri mul
Cis modis. Primo quando fubie&um eft
ter. cois cum signo particulari tam
affirmatiue quam negatiue : ut: “Quidam homo currrit,” “Quidam
homo non currit.” Secundo per ly aliqd
fumptum adieftiuc:ur aliquid eft I manu
tua. Haec eft particularis uirtualiter, quoniam
ly aliquid fic exponitur aliqua res
eft I manu tua. Dico
fumptum adjeftiue quoniam sumptum subftantiue facit
propofitionem indefinitam ut dicemus. Tertio
quando fubiicitur ter. cois cum figno
uniuerfa li, fcd figno pratponitur ncgario:ut
no omnis homo currit haec enim
aequipollet huic: quidani homo non currit. Quarto quando
fubiicitur termi.cois cum figno uniuerfali
affirmariuo, fcd praeponitur negatio et poft
ponitur:ur hic, non omnis homo non currit,
arquipollet enim huic, quidam homo cnrrir. Sed tertium et quartum
modum declarabimus fic effein cap. de aequipollentiis
categoricarum. Haec de propositione particulari diffa finr.
Propofirio indefinita eft illa in qua fubiicitur terminus communis, nullo signo
uniuerfali uel particulari determina rus: uc homo currit. primo
dicitur in qua fubiicitur termi. communis eadem ratione, qua diifhim est in
definition propofirionis universalis et particularis. Secundo
dicitur nullo signo ad differentiam propofirionis univerfalis et particularis.
Tertio dicitur nullo figno uniuerfali vel
particulari ad differentiam cxdufiue,in qua ponitur
signum: cantum, et in reduplicativa, inquantum, qua: signa
quoniam non tunc uniuersalia, ncc particularia, ideo non
faciunt propofitione alicuius quantitates. Sed dices,
quare dr indefinita, cum aequipollcat particulari. Na
ide fenlus eft dicere, aliqs homo currit, et homo currit. Rndetur, dr
indefinita.i. indctcrminata, quia acceptio fu? fubicdi non
determinatur ad certam quantitatem fecundu
modum enuntiandi per fignum uniuerfalc ucl
particulare: licet fupponat fubicdum determinatciut
dicemus in traft de fupptofitionibus: et quando
dicitur idem fenlus eft dicere:
quidam homo currit et homo currit, conceditur quo ad luppoticioncm
et verificacioncm, fcd non coceditur quo ad
modum enunciandi, et fic intendimus ipfam
effeindefini tam et non quo ad
ucrificationem et i luppoficionem. Sed, p nunc
liiftinc, donec trademus de fuppofitionibus. Haec
de propofitione indefinita difta fine propofirio
singularis eft illa in qua fubiicitur terminus ai fcrccus vel
termi. communis cum pronomine demonftrati primiriuc speciei, ut
Plato currit. Iftc homo comedit. U le
homo dormit. Primo dicitur in qua fubiicitur ter . dilcretus,
ad differens Ciani propoficionis uniuerlalis et particular
& indefinitae, in quibus fubiicitur ter.
cois opponitur aute ter dilcretus ter. .coi
, quoniam di fererus deunofolo eft aptus praedicario
C grammaticus appellat nomen proprium q?
uni loli conue-r nit,ut piato. Cois autem
eft aptus de pluribus praedicari, ut homo et
animal, et grammaticus uocatipfum nomen appellatiuum, quod pluribus conuenit.
Secundo vel termi communis cum pronomine demon
ftratiuo. Nam licet termi. communis de feftet
pro pluribus camenper pronomen demonstratiuum reftringitur ad ftan dum
pro uno folo indiuiduo, ideo atquipollet
ter. difcretcL Vnde iftapropofitio: hic homo
currit , dcmonftrato (orte; scquipollct ifti. “Socrates
currit.” Tertio dicitur pri mitius fpecic, ad
differentiam pronominum deriuatiux fpccici. Sunc aucem
pronomina demostratiua primitivx speciei ergo, tu,
liii, ille, ipfe,ifte,hic, & is. Deriuatiux autem
lunc meus, cuus, luus,noftcr,. uciltr, no» ftras,ucftras.
ldeo autem e a, quae iiint primatiux
(peciei co flituunt propofitioncm singulare
qm trahunt lubictf uni ad fajpponcndum pro
uno solo, ut ifte homo demostrato forte currit, et ego.
f Petrus curro, & tu. I Piato curris. Ea uero qua
funt deriuatiux lpei, ut meus, tuus, non
confticuunr , p- pofuioncm singularem, non
n.rcftringunt fubm, cui apponutur ad statum uno
io lo, fed pot ucrifkari de pluribus. Verbi
gratia Petrus het dece afinos, et dicit
meus aiinuscur rit, ly alinus no stat
pro ifto tm, ucl pro illo tm fcd #
oibus difiuftiux. Nam fi meus afuius currit, &
habeo decem, ergo uclifte, ueljfte qui cft
meus currit. Pronomina auc demonftratiua
primitiux fpei reftringur tcr.coem ad ftadu,
p uno solo demonftrato, ut ego.f. Petrus
lcribo,Tuuero.l. Plato dormis. Conftat igitur quid fit
propositio sngularis. Tu tame aducrte,quod no
Loluni pot fieri per ter. dilcre tum,
& per tcr.coem cum pronomine demonftratiuo primi tiux
Ipeciei, fcd et per tcr.r clariuum , ut pofito
quod lo phronifcus habet tantu unum
filium, cuius nomen ignore tur, ftdico
Sophronifci filius ftudet Papix, cft fingularis, p-
pofitio fimiliter fi dico. Pater Calix uenir,e
lingularis, quo uiam ifti ter.relatiui xquipollcnt termini
dilcretis.Irem potcft fieri per rer dilcrctum
circunlocutum,ut fi dico. Vir cri Ipus
rubeus, & claudus cantat in platea. Iftc enim
circunfta tix mani feliant talem hominem et
non alium, ideo reddut propofitioncm fingularcm. patet
igitur quid fit propofitio lingularis et
quot modis fieri contingit» Item aducrte,
quod fi quis te intrrogat de substantia
fitie natura propofitionis, dicendo. Qux propofitio
eftifta. Sor C<s eft homo, refpondcre habes,
catcgorica, & qux eft ifta. Si tu curris,
tu moveris, refpoderc habes hypothetica. Si au
ecm quis te interrogat dc qualitate, propofitionis dicendo.
Qualis eft ifta fortes currit refpondere
habet affirmatiua, et Qualis eft ifta, homo non
cft afinus, relpondendum est, negatiua. Si ucro
quis te interrogat de quantitate proponis
di Ccndo. Quanra cft ifta; ois homo currit,
refpondendum eft, uniuerfalis, et sic de aliis.
Vnde logici pro hoc triplici quaefito
formaucrunr hunc ucrfum.Quac.ca.uel ip. qualis. ne.
uel af.v.quanta.par.in fin i. Quae categorica,
uel hyporetica. Qualis, negatiua, uel affirmatiua. V «quanta.
i.uniucrfalis uel particularis indefinita uel
fingularis. Sed dices. Quae est subftantia propofitionis, &
quae cius quantitas, et quz eius qualitas.
Refpodetur fuba cft cius natura sive
edentia, puta qft fit quid co in pofitum ex
talibus partibus. f. cx fubiedo praedi- cato
& copula ut catcgorica:ucl ex duabus
oronibus p aliquam coniundionem coniundis:ut fi
tu curris, tu moueris ut hypothcrica. QuStitaseius
est extensio fubicdi ad ftandu pro uno vel aliquibus uel omnibus uel nullis. Qualitas
eius est secundum quam dicitur qualismt
affirmatio, negatio, veritas, falfitas, necesfitas, contingentia, posfibilitas,
imposfibilitas. Nam omnia ifta qualificant propofitionem.
Unde interroganti qualis fit ifta, homo est
animal, respondcre debemus, quod rft affirmatiua ucramon solum possibilis
sed etia necessaria. Quarum ad quintam divisionem, quae eft hac, proponu
categoricarum, quaedam participant utroqj termino, quaedam altero,
quaedam nullo, aduerte, quod cum termini componcnrcs categoricam fint fubiednm &
praedicatum: quae Ctjam dicuntur extrema propofitionis, parridparc
termino uel terminis, eft conuenirc in subiedo uel in
praedicato, uel in
utroque. Non participare autem eft non conuenirc.
His prxnv.sfis aduerte, quod duas catcgoricas participare
utro- que termino, eft eas conuenire in subicdo
& praedicato, ita subiednm prima est subiedum secundae et
praedicatum primae est praedicatum secundae, nec in alio differunt nili
quod una eft affirmatiua, altera negatiua, ut sunt iftae duae, homo
eft animal, homo non eft animal, participare in
alte ro termino tantum fcilicct uel
folum in fubiedo, ut hic: homo cft animal, homo
eft rationalis, uel in praedicaroratum ut hic: homo eft animal,
asinus est animal. Participare nullo termino, est non
conuenirc io subiecto nec in praedicato, ut hic, homo est rifibilis,
afinus eft rudibilis. Et aduerte quod hic loquimur de participatione
formali virtuali, quod dico, quoniam licet iftae duae coueniant uir rualitcr:
homo est animal, risibile est animah non tamen for malitcr, quoniam formaliter
non lunt idem homo et risibile, dato quod eflent idem
re, quod tamen non conceditur in via thomistica.
Iterum aduerte, quod haec diuisio data eft,
ut cognoscatur oppositio contraria, subcontraria, contradidoria,
subalterna propositionu categoricarum de quibus aduri lumus infra. Namilla
fupponit participationem, ppofitionum oppofitarum urroqj termino formaliter et
non solum uirtualircr ut tibi declarabitur in diuifioneodaua. Quantum ad
diuifionem lextarn, quae cft quod, ppofition5' categoricarum participantium
utrocg termino formaliter, quaedam participant utroq?
termino eodem ordine, quaeda ordine conucrfo.
Aduerte igitur quod duas categoricas par
ticipare eodem ordine utrocp termino, eft fic, quod est
subiedum in prima est subiedum in secunda et quod est praedicatum in prima est
praedicatum in secunda, ut hic. “Socrates est homo”. “Socrates non
est homo”, et semper intelligedum est formaliter et non
virtualiter tantuin.
Duas autem categoricas participare utrocp termino ordine coucrfo, est
sic, quod est subiedum in prima est
praedicatum in fecunda, et quod est praedicatum in prima eft
subiedum insecunda, ut hic, homo est animal rationale,
animal rationale eft homo. Et haec diufio deferuiet quando loquemur de couucrfionibus propofitionum categoricarum,
ut tibi manifeftabitur. Quantum ad
feptimam diuifionem, quae eft haec.
Propositionum participantium vtrocg termino fiue eodem
ordine fiue conucrfo quaedam fiunt in
materia naturali, quardam contingenti, quaedam in
remota, aduerte, qnllat fiunt in ma reria
naturali in quibus raedicatum femper et infcpai
abii:ter conucnit fubiedo, & id fit multis modis ,
primo quando genus, aut differentia, aut definitio, aut,
pprictas, aut quali, eas naturalis
praedicatur de re. Exemplum primi, homo est animal,
fecundi, homo cft rationalis. Tertii, homo
eft animal rationale, quarti homo cft rifibilis
quinti Ignis cft cali. «Ius, mei eft dulce,
nix eft alba, Item quando idem praedicatur
de lcipfo:ut fortes est fortes. Ille aut
fiunt in materia contingentium quibus praedicatum
poteft aduenire & remoucri a subiecto, abfqj
hoc <y corruni. patur fubiedum, et gg
hoc diftinguuntur a ,ppofitionibus i , materia
naturali, quoniam in illis li auferatur pdicatum,
no pmanet subiedum. Nam fi homo cedat ede animal, aut
rationalis, aut risibilis et fi ignis cedat ede calidus
etc. nec ha-, mo nec ignis permanent, led
corrumpuntur et definunt ce» Tu igitur aduerte, c?
omnis jjpofifio, in qua pdicatum eft accidens
commune et fcparabile, et etiam infeparabile,
modo non fluat a principiis fpccici, fit in materia
contingenti, utiftae, homo eft albus, ethiops est niger, aqua est calida
&c. Dico rnodo non fluat a principiis fpeciei: ut pferuem rerum.
j>prietates: ut eft rifibilitas in homine, par et impar in numero, curvum et
rectum in linea, fumum calorem in igne* lite nancg faciunt ppofirionem in
materia naturali. Quid ne. ro fit fluere apneipiis specjci declarabitur tibi in
trac. de praedicabilibus in cap. de proprio etaccidente. Illae vero fiunt in
materia remota, in quibus praedicatum non potest verificari de subiedo,
Imo id inuicero repugnant. Iftae autem funt in quibus
fubicdum & praedicatum sunt opposita contraria vel contradidoria vel
prfuatiue ucl relative opposita. Exemplum primi.
Album est nigrum. Secundi homo est non homo. Tertii. “Caecus est
videns”. Quarti, “Pater est filius”. Et aducrte , q?
dicuntur fieri i|i materia remota, scilicet
repugnanti, qm natur fubiedi&i pdjcatiin oibus p didis repugnant adinuioem,
nec fc compatiuntur. Inde eft q1 omnis affirmatiua in materia remota ferng
& de neccsfiUtate eft falfa, negaciua autem femg et immutabiliter
ucra. In materia uero naturali cft oppofifomodo. Nam affirmariua femg
est vera, negatiua fepig falfcM Jn nuter» cotingeti ?4 est medio
m6, qm tam affirma, q nega, aliqn e vera aliqn falsa,
nam qn praedicatum incft liibiedio, affirmatiua est uera, negatiua falsa,
qn praedicatum remouctur, affirmatiua eft falsa, ncgariua eft uera.
Hoc de septima diuifione difta fint. Quantum ad oAauam diuifioncm,
quae fuit haec, Propofitionum carcgoricarum participatium utroqj termino
eodem ordine triplici materia. Cnaturali contingenti et remota aduerte, quod
inter eas sit quatruplex oppofitio. f. contraria subcontraria, contradicloria,
subalterna. Oppositio contraria sit inter eas quarum una eft universalis
affirmatiua & altera uninerfalis negatiua, de eifdcm fubieflis et prodicatis
univoce &aeque ample & aeque strictca cceptis.
Primodf quarum una est uniuerfalis &c. Nam ut diftinguantur a
contradictoriis, debent efle eiufdem quantitatis &
diuerfae qualitatis. Si eiufdem quatitatis, ergo
utraqj eft uni ucrialis uel particularis , non
secundum quia noneffient contrariae sed subcontrariae: ut dicetur infra ergo
primum. Si, diversae qualitatis, ergo i&fca eft
affirmativa et altera negativa. Secundo dr de ei (dem subiectis et
praedicatis: uc ois homol albus, nullus homo est albus, & dcfeftu
huius iftaeduae non funt contrariae ois homo eft albus, nullum rifibilc eft
albu^ Tu tn aduerte q* subiectum et praedicatum pnt
effe idem tripliciter, pmo fm vocem tm &
non fm signatum, secundo t m. signatum tm &
non fm vocem, tertio fm vocem et secundumsignificatum. Exemplum
primi omnis canis latrat: nullus canis latrat. Omnis
homo currit, nullum ronale currit. “Omnis homo
eft alal nullus homo eft alaU Prima identitas non sufficit
adeontrarietatem, ideo dicitur in definitione, acceptis
univoce, conftat aut q* canis eft
ter. aequiuocus, fecunda aut fufficit ad contrarietatem
virtuale leu aequiualente, sed no ad formalem,
tertia vero sufficit ad contratietate proprie diCta & formale, unde
licet iftx duae, omnis homo currit, nullu rationale currit,
fint cotrariae uir rualiter eo q secudum significatum
homo et rationale fune idem non tamen forma\itct, qm
formalitcr non participat E ii utroqj termino secundum uoccm et secundum
significatu. Tertio dicitur aeque ample &aeque ftrufie acccptis. Dcfe* du
huius apud multos iflae dux non sunt contrarix. Omnis homo est animal, nullus
homo est animal, quoniam in prima poteft teneri tam pro mafculis quam pro fccminis,in
secunda solum pro masculis. Tu tn aduerte, quod secundum usum i
utracp accipi confucuit pro mafculis ideo
acceptantur:ut ue rz contrariZj Item defedu
huius iflae dux non lunt contra riae.
Omnis homo cft albus, nullus homo fuit
albus, quia in prima reftringitur adprxfentcs ,
in secunda autem ampliatur ad przfentcs uel prxreritos. Scd
pronunc fuftinc, donec pertrademus de ampliationibus & appellationibus. Tu
tn aduerte, quod prxdldx non sunt contrariae non solum ronc di da, sed quia
copula non tenetur eodem modo in prima set secunda. Nam in prima eft ly eft,
in fecunda cft ly fuit. Unde in definitione
intelligendum eftq' contrarix debent c(Te de
ctfdem fubicdis et prxdicatis & copulis. Hoc
de contrariis dida fint. Oppofitio contradidoria est inter eas,
quarum una cft viis affirmatiua, altera
particularis negativa , ut “Omnis homo est animal”, “Quidam
homo non est animal”, uei altera cft vfis
negatiua, & altera particularis affirmatiua, ut “Nullus homo currit”, “Quidam
homo currit”, dccifdcm fubicdis &pdicatis & copulis,
uniuocc & zque ample, & xque ftride acceptis.
Omnia debent intclligi ficut expofitum eft
dc contrariis. Ut autem habeas
maiorem noticiamdc contradidione aduerte ex
dodrina Ariftotclis, quatuor condidioncs requirit, & defedu
cuiullibct carum enitatur contradidoria oppofitio. Prima eft q» fit affirmatio
eiufdem de eodem & negatio, dummodo fumatur idem secundum
rem et vocem, ut “Socrates currit”, “Socrates non currit”. Defedu cuius ifta
apud logicu non sunt contradidoria formaliter sed virtualiter sive
equipollenter tantum ex parte rei. “Cicero currit”, “Marcus non currit”, pofito
enim q» fint sinonima ex parte significati quia ide homo didus est
Marcus et Cicero, tame diftinguuntur voce icas
isb ffffi futc: ctu OOP*
uiJ' ipl> lo« Taa jnci
u$ yra (Tei. t& il* ra^
jsi» iC30 is. io» srt-
t& itio, Sa ? t<p ,cof jii UOC *f
sive termino, qm duo fune termini, Marcus et
Cicero, ideo non funt contradictoria formaliterfcd
xquipolleter. Aequipollenter quidem, qm
idem indiuiduum intclligitur per Marcum et CICERONEM,
formaliter autem non, qm logicus obseruat
oppofitionem de virtute sermonis, philosophus aute qui est
artifex rcalis, dc uirtute rei & fignificati.
Vnde apud phyficum ifta contradicunt. Materia prima est
ens in potentia. Primum fubic Ctum non eft ens
in potentia. Pro eodem enim accipit
materiam primam & primum subiectum. Secunda est
q duae propofitioncs contradictoriae referantur ad
idem ut fecundum idem, & propter huius
defeflum, illae no contradicunt, “Ethiops est albus” detes. “Ethiops
non est albus” pedes, non enim sit praedicatio secundum
eandem partem» Tertia est. Quod teneatur fimilirer,
ideo ifte dux non contradicunt, nullum animal est
genus, animal est genus. Nam In negatiua stat animal pro
suppositis, in affirmativa stat p natura communi.
Sed id non intelliges donec in traCta.
suppositionum exercitatus fueris, ideo fuftine. Quarta eft quod referantur
ad idem tempus. Et defeCtu huius, iftx dux non contradicunt, fortes uenit
hodie, fortes no ucnit heri. Et aduerte quod omnes iftx conditiones
exprimuntur in diffinitione contradictionis, quae extrahitur ex doctrina
Ariftotelisprxcipuc in quarto metaphyficae, & eft hxc. Contradictio eft
affirmatio et negatio, id eft propofitio affirmatiua et negativa eiusdem
prxdicari de eodem subieCto, ad idem secundum
idem, fimiliter et pro eodem tempore Hxc de contradiCtoriis diCta fint.
Oppofitio subcontraria eft inter eas, quarum una eft particularis affirmatiua
vel indefinita, altera autem est particularis negatiua vel indefinita de eisdem
prsrdicatis et subiectis et copulis uniuocc acceptis, &
eodem modo supponentibus. Primo dicitur propofitio
affirmatiua negatiua particularesaut indefinitx, ut excludamus duas
singulars. Nam Illxfunt contradictorix secundum rem et significatum
licec. Eiii TRACTATVS tertivs non in figura, quoniam in figura uc
declarabitur tibi infra. oportet unam c(Tc uniuerfalem affirmativam vel
negativan alteram autc particularem affirmativam uel negativam ut patebit in
figuris quas in ira deferibemus. Quare autem duae singulares non sunt subcontrariae
ratio est haec, quia due subcontrariz poliunt ede fimul verae, ut quidam homo
currit, quidam homo non currit. Due autem singulares non poliunt ede simul
uerae nec fimul falfz, sed una vera et altera falsa in omni materia, uc fi hzc
est vera fortes non est afsnus, hoc neccesario est falsa Socrates est ansinus.
Ergo sunt contradictori. Secundo dr de cildcm subieftis &c.
inrclligendum est eodem modo sicut diftum eft in oppofitionc contraria.
Tertio dicitur univoc e tentis, defectu cuiu» iftz no fune
subcontrariz. Quoddam sanum est animal. Quoddam fa- num non
est animal. Quarto dicitur eodem modo supponentibus, dcfeftu cuius iftz,
non sunt subcontrariz homo est species, homo non est species, nam in prima homo
supponit pro natura communi, in secunda pro natura partita in suppositis. Sic
quide dicimus pro nunc. In trac. autem suppolitionum manifefta bimus quomodo ifta non eft indefinita
homo eft fpecies, sed singularis, &
ideo manifeftius tibi erit, <y no sunt subcontra riz, non
solum quia non supponit homo in prima et secunda eodem modo, sed quoniam sunt
singulares quas ncccdc est ut diximus c(Tc oppofitas contradictori
secundum rem et s significatum. Oppositio subalrerna est inter eas,
quarum una est vflis affirmariua et altera particularis aut indefinita aut
singularis affirmativa. Vel una est viis negatiua et altera est
parti «auc inde. aut fingularis negativa de
cifdem fubie&is & przdicatis 8c copulis
&c. ut dictum est in aliis
oppofirionibus. Hic Hto sunt declaranda, primo
quare dicuntur siibalrerne, fecudo quare du singulares
aftirmativa et negativa fune liibalternz & non
fubcontrariz. Ad prim Utn dicitunt ideo
uniuerfalis affir. & particularis affirma tiua dicuntur
fubalternzquia una fub altera ponimr.i4 particu. rub uniucrfali.Vndc univerfalis fe habet, ut an$ particu
ut pns. Nam bene fcquitur. Omnis homo est animal; ergo, quidam homo est animal,
et homo est animal, 8t ifte homo cft animal,
ut tibi manifeftum erit in suppofitioni bus.
Non autem fcquicur cconuerfo, quia ab
inferiori diftributiuc ad fuperius affir. non
valet consequentia, non enim sequitur, aliquis homo est
stultus ergo omnis homo esst tultus. Et aduerte ficut
dicuntur rubaltcrnae per rcfpedum suppositionibus, quem habet
particulares ad universales, fic dici pollent fuperaltcrnx, pcr relpe&um
super pofitionis, que habet uniuerfales ad particulares. Sed primis
placuit fic denominare ab infcrioribus, quorum eft subiici et supponi
superioribus. Ad secundum dicitor q? ideo dux fingu. affir. &ncg. fune
fubalternx qm sicut valet consequentia abuniuerfali affir,
uclnega. ad particu. & inde affir. & nega. fic
valet ad singu. Affir .& nega. Nam fi
hxc consequentia valet ols homo currit, ergo
aliquis homo, et homo currit, sic ualet, ergo
ifte & ifte currit, quoniam, ut
declarabitur tibi in trac. suppofitionum, signum univerfale
affirmativum (negativu diftribuit terminum immediate sequentem et licet defccndere ad fua
singularia diuifiuc. Sed pro nunc fuftine ne confundaris,
do nec habebis de luppofitionibus notitiam.
Et ideo funt fubal ternx ficut particu.&
indcfi.Non autem sunt subcontrari ratione iam difta,
quoniam subcontraries contingitellc simul veras, dux autem singularis negativa
et affirmatiua, in omni materia ita fe habent y fi una est vera altera est
falli, & non poliunt efie fimul uerxncc simul falfx, & ideo, ut dt
ximus non fiint fubcontrarix cd contradiflorix. Constae
Igitur tibi quo propofitiones categoricx
participantes utro que termino & eodem
ordine, conftituunt quatuor geifepa oppofitionum. Et
quoniam possunt formari in materia natu rali
& remota & cotingenti, idco figurabimus tibi
tres figuras. Prima erit de opposicis in materia naturali,
secunda de oppositisin marcria remota, tertia
de oppoficis in materia contingenti, ut patet infra.
LOGICAE compendium. Peripatetica ordinatum per Reuerendum Magistrum
Chiifoftornum Iauellutn . anapicium ordimsprxdica, nunc tandem 8C d'U“°P“Pro'
ditin lucem» A Continet aute undecim tractatus uidelicet* Primus eft de
prarcognofcendis. Secundus de patribus propofitionis. Terrius de propofirione.
Quartus de quinque uniuerfalibus. Quintus de praedicamentis. Sextus dc syllogismis
formalibus. Seprimus de fuppofirionibus. c OcAta^unuKs ampliationibus &
V’-> V V^lArii* « ' * Jj; ii .I' d appdlationibusJ IN/onus dc conicquentiis.
Dccirnus dc probationibus terminorum. Vndeamusde syllogifinodacmonfitrraarniuo,
in quo quo continetur Aristotelis docrina in lib. poster. QjiaE Gmma recenti
hac noftra editione uiligentifsime, expolita fiint, atque elaborata*Grice: “For
all their subtleties I lizii, or peripatetic logicians never cared about
formulation. Consider Javelli: the dog barks, anger is represented, ‘canis latrat
raepresentatur ira, gemitus infirums raepresentatur dolor. No care is taken to
represent the proper signification. It is still the ‘anima’ if the vegetative
one, it is still the dog’s spirit. If the dog barks, he means that he is angry.
If the infirm moans he means he is in pain, and so on.” Grice: “Javelli is one
of the most careful Italian philosophers. He had a fascination for two little
tracts by Aristotle towards which I also felt an attraction: De Interpretatione
and Categories. His comments on De Interpretatione are brilliant in that he
reduces all to ‘re-presentare’. The infirmus who groans or moans represents
‘dolor’. The dog that barks represents ‘anger’. These are ‘signs’ of the
natural kind – and rather than dark clouds meaning rain he is into ‘phone’ –
vox – here it is vox signifying that p or q naturaliter. (my example of
groaning of pain). From there he jumps to the institutional meaning, ad
placitum, ex decreto et authoritate – e consuetudine, -- a system which
superseds the previous one. Giovanni Crisostomo Javelli. Iavelli. Giavelli.
Javelli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Javelli” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Jerocades –
filosofia della massoneria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Parghelia). Filosofo
italiano. Grice: “I would consider Jerocades more of a poet than a philosopher,
but then he was a priest and a Mason!” Essential Italian philosopher. Scrisse
il saggio “Dell'umano sapere”, di stampo illuministico, che verrà
successivamente pubblicato a Napoli, e “La partenza delle Muse”, edito na
Messina. Si trasferì a Napoli. Dietro
raccomandazione di Genovesi, col quale era entrato in corrispondenza, venne assunto
al "Collegio Tuziano" di Sora come maestro d' “ideologia”. Frequenta gli
ambienti massonici. Secondo il clero sorano, tuttavia, quelle opere non si
attagliavano ai giovani del collegio, tant'è che prima della rappresentazione
di “Il ritorno di Ulisse” -- che conteneva alcuni intermezzi ridicoli e di
stampo anticlericale, in particolare il Pulcinella da Quacquero, il vescovo emise
un editto di censura: ne seguì un processo per eresia e sedizione, con la
reclusione di Jerocades nel carcere vescovile. Scarcerato dopo sette mesi, lasciò
Sora per tornare a Napoli, dove divenne popolare come poeta improvvisatore. Fu
in Calabria: qui si dedicò alla composizione delle raccolte Quaresimale poetico
e La lira focense, testimonianza di un «illuminismo massonico». Insegna a
Napoli. Fonda la Società Patriottica Napoletana, coagulo dei principali
esponenti del giacobinismo e dell'antigiurisdizionalismo partenopeo (ovvero che
miravano a costituire una repubblica), cosa che determinò la sua incarcerazione
a Castel dell'Ovo e il processo per apostasia, ma riebbe presto la libertà,
avendo deciso di ritrattare. Anche per il conflitto interiore causato da una
siffatta scelta, sostenne attivamente le idee rivoluzionarie, che però, in
seguito alla breve esperienza della Repubblica Napoletana, gli costarono
nuovamente il carcere, e quindi l'esilio a Marsiglia. Ritornato a Napoli razie
all'amnistia prevista dalla pace di Firenze compose l'elogio di suo padre e di
suo fratello, motivo che indusse a farlo rinchiudere nel convento dei Liguorini
di Tropea. Saggi: “Esercizii spirituali in compendio ossia il filosofo in
solitudine” Napoli); “Il Paolo, o sia l'umanità liberata poema” (Napoli: presso
Giuseppe Maria Porcelli, Inni di Orfeo esposti in versi volgari, Napoli, La
gigantomachia, ovvero La disfatta de' giganti, Napoli: La lira focense, Napoli:
si vende da Gennaro Fonzo, strada Forcella, Olinto e Sofronia, dedic. Orazione
per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio, Napoli, Orazione recitata
ne' funerali solenni di Marcello Accorinti morto in Messina nel terremoto.
Napoli, Fedro, “Esopo alla moda, ovvero delle favole di Fedro, Parafrasi
Italiana” (Napoli: Porsile, Orazio); “Le odi di Orazi esposte in versi volgari”
(Napoli); “Le odi di Pindaro tradotte ed esposte in versi volgari” (Napoli: Russo);
Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, D. Martuscelli, Gervasi,
Napoli B. Croce, La rivoluzione napoletana Biografie, storie, racconti,
Laterza, Bari L. Alonzi, Il giacobinismo
napoletano, in Idem, Il Vescovo-prefetto. La diocesi di Sora nel periodo
napoleonico, Sora, A. Piromalli, Illuminismo massonico, La letteratura
calabrese, I, Pellegrino editore, Cosenza,
B. Croce, D. Ambrasi, Il clero a Napoli tra rivoluzione e reazione, in A.
Cestaro A. Lerra, Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina e il
Decennio francese, Atti del Convegno, Maratea, I, Venosa, Croce, La rivoluzione
napoletana, Biografie, Racconti, Ricerche, Bari, Laterza, Saggio dell'umano
sapere, D. Scafoglio, Vibo Valentia, Sistema Bibliotecario Vibonese,A.
Jerocades, La lira focenseː un abate poeta in loggia, A. Piromalli e G.
Bravetti, Foggia, Bastogi. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. 1. T) Indaro , figliuolo di
Diifanto,e di Mirto, J» nacque in Tebe , città capitale della Beozia. Mono il
padre , eh’ era sonator di tibie , la ma- dre , eh’ era ancor sonatrice sposò
Scopelino , e , quindi , dopo la morte di lui , sposò Pagonida , ambi
professori di musica. Di qui è,ché al no- stro Poeta si danno tre padri , de'
quali due nel vero sono patrigni . Or questa sua sorte fece la sua virtù;
imperciocché nacque, visse, e morì tra le Muse, le quali a quel t&mpo erano
e ric- che, e nobili ,ed onorate. I suoi primi studj fu- rono la musica, e la
poesia, che apprese da Laso Ermìoneo, e che peifezionò sotto Simonide , ed
Eschilo i quali' fiorivano in quella età. Indi , , dato l'animo allo studio
delle scienze, seguì la , tutta la sua v»ta al modello della pietà . Tra gii
altri numi venerava spezialmente Pane, Rea, e Febo e siccome la sua casetta era
vicina al tempio ; , propagata per la Beozia , e non la scuola Italica J mica ;
onde fu scolare di Pittagora , e non di Talete. La sua dottrina dunque divenne
sacra, e tnis ica in modo , che pieno di queste idee, formò di Rea , egli era o
uno de' sacerdoti , o almeno il compagno e il partecipe de' sacri misteri. , a.
La sua dotta e saggia pietà fu P ornaménto, e'1 retaggio della sua industre e
faticosa famiglia. Imperciocché , ricevuti da Timossena , sua consor- te , un
maschio , chiamato Diofanto', e due fem- mine, per nome Protomache , e Polimeri
trasfu- , se col sangue la sua virtù per modo ne’ figli che gli mandava il
giorno e la notte al tempio dej padre, e della madre de’ numi. La sua casetr A9
me • #- , §a medesima era un tempietto dtvoto, in cui con vi- cenda soave si
passava dai coro alla mensa , e dalla cetra atta tazza , cioè dal travaglio al
riposo, e dal - ripeso al travaglio. Non senza ragione gli Spartani prima, e
qnndi i Macedoni, liberarono dall'in- cendio comune l'albergo di lui riguardato
qual ,, saero asilo delle Muse , e di Febo . Di fatti la faina di Pindaro era
sparsa per tutta la Grecia , e al di là della Europa; già che Serse nella sua
famosa spedizione n' ebbe ancor del rispetto , co- me dipoi n’ ebbe Alessandro
gloria del re della Persia» 3. Or qual si fu la vita civile di Pindaro? Ap*
plicato alla poesia , e alla musica , non cantava , che numi , ed eroi .
L'antichità vide e lodò i suoi carmi , Inni , Ditirambi , Treni , Peani , ed altri
Lirici,e Melici componimenti, rapportati da Sm- ela , che non vinsero la forza
vorace dell' igno- ranza, dell'invidia, e del tempo, e de' quali so- lo si
mostrano alcuni frammenti, da Stefano va- riamente, e con diligenza raccolti ,
Restano dunque eli lui quattro libri de’ Vincitori Olitnpj , Pizj , Ne- mei ,
ed istmici , de' quali Aristofane . grammatico di gran nome , ne fece una
raccolta , ordinata a suo modo, e chiamata Periodo. Ed egli è qui da notarsi ,
che tra le opere di Esiodo si è serbata la Teogonia , e si è perduta 1’
Erogonia ; ma tra quellf di Pindaro al contrario si sono serbati gl' Inni degli
Eroi , e gl* Inni degli Dei si sono perdu- ti . Queste opere f.inno la vita del
nostro Poeta, siccome le guerre, e i viaggi fanno la vita d’A- chille^ d'
Uhsse. Ma benché Pindaro per forma- re i suoi carmi divini dovea menar i giorni
nella pace , nel silenzio , e nell’ozio, e vivere con se stesso , col mondo , e
co’ numi ; non potea di- spensarsi dal viaggio > e dal cvmraercio co’ Prmci-
,1 , quasi emulando la Dìgitized by Google 5 pi del suo tempo, e
dal conoscimento di varj po- poli , e di varj costumi senza i quali so'corsi ;
non si può essere, nè si può fare il Poeta. Ol- tre il viaggio di rutto e
quanto il mediterra- neo (eh* eia il viaggio alla moda in quel secolo) e’ vide
Coma , Siracusa , e Cirene , e familiarmen- te u ò de’ Re e con confidenza
trattò nelle Corti. , Nelle giostre festive fu più volte e spettatore, e
spettacolo , e sceso al paragone con Corinna , pian- se la v.irtù della Musa vinta
dalla beltà del- la Musa. In mezzo all’ armonia dunque il Teba- no cantore
visse la sua vita dividendo le ore fra , lo s'adio,ei! teatro, le due scuole
dell’antica vir- tù : e così finalmente morì , cadendo nelle brac- cia di
Teosseno giovanetto di Tenedo, dopo , avere ascoltato con sommo piacere una
festa teatra- le, ed armonica. N.ito nell' Olirne. 65. morì nell’ Olimp.36. di
anni 84.,bìochè altri narrino altri- menti e la vita, e la morte di lui. La
vita de* saggi , sempre disputata , non è il corso di peri- gliose avventure
gravi di speciosi e nobili avve- 1 nimenti. Ella si legge ne loro libri , e
tutti i qua- dri d’ un Poeta formano il quadro di lui . E qui si offre il nome
eh’ e' diede a’ suoi carmi di qua- , dri . E’ chiamò ogni sua Canzone siSog,
immagi- ne , simulacro , o per la varia sorte de’ versi Li- tici ; o perchè tal
è la poesia, cioè pittura, e ri- tratto o perchè siccome ad ogni vincitore si
al- $, zava una statua col nome dell'eroe, della pa- tria, e del giuoco $ e’
gliene voleva alzar un’altra di versi , di quella più perenne ed eterna . E'
fece u- so del dialetto Dorico che più confassi con lo sti- , le sublime. Ma
quello, che più distingue Pinda- ro dag i altri Poeti si è P uso smoderato
degli , Episodj imitato non sempre felicemente , da ,, {'lacco .Lo stile delle
sue poesie à Lirico-tragico, A3 e tal % e tal volta Lirico-comico;
imperciocché , siccome in Omero ci ha favole, e favolette , co>l in Pindaro
ci ha canzoni, e canzonette. Per questa ragione nel tradurle , ed esporle si è
tenuta una maniera diversa, secondo che oggi è fuso d’ Europa. Di fatti oggi in
Europa è in pregio solamente la poe- sia , e la musica Lirica , e questa è o
tragica detta altrimenti Pindarica , e Alcaica ; o comica , altrimenti detta
Anacreontica, e Saffica. Ne' tea- tri si unisce l'uno e l’altro stile Lirico ,
onde so- no i recitativi, come si dicono, e le arie. Ma l’Epica, e la
Drammatica , tanto tragica quanto , comica , è poesia disgiunta oggidì dalla
musica , ed *’sì deono rispettare le superbe vicende del seco- li . Ecco la
ragione, onde ho tradotte ed espo- ste le Odi di Pindaro all' uso del Guidi ; e
tal volta , ma di raro , all’ uso delle cantate da sce- na. Nèmisi
parlidistrofe, d'antistrofe, ed’ epodo ? di ternioni quaternioni , e
quinternioni ,j che oggi sono più che vecchie monete . Chi ha voluto tener le
usanze antiche , si ha dato una legge importuna, che poi ha dovuto pagare col
prezzo di tante gloriose fatiche. Chi non esalta il merito di Adimari , e
Gauter ? E pochi sono , che apprezzano le loro Erculee imprese ; e spesso hanno
errato per necessità di consiglio . Or la- sciando a tutti e traduttori , e
cementatori di Pindaro la gloria immortale del nome; io ho ardito d’
incominciare ad uso mio questo faticoso lavoro, e ho ardito ancor di compirlo a
mio mo- do. Se questa è una lode , io la confesso ; poiché mi è grato un onore,
che mi venga dal merito. Sog- giungo ancora d'aver letta, a quest’ uopo ,
Plutar- co , Eliano , Pausania , Clemente , Stobeo , Euse- bio Quintiliano,
Orazio, fra gli antichi ; Suida, , GiraJdi , Motóri , ">• Baile ,
Fabbiicio , Schmid io , A\ Be, , 6 Digitized by Google 1 Pindaro,
il quale, quando è gustato, è conosciu- to • |o confesso ancora di aver vinto
la causa , di cui la questione si fu: Se gl’inni Cristiani so- no da più , o da
meno, degl* Inni Pagani ? Io proposi, son già molti anni passati, che sono da
più ; e per dimostrarne l'assunto col fatto, tra- dussi ed esposi gl’inni
Cristiani , e gl'inni Paga- ni, e lasciai la causa alla fede, e alla ragione
de* - giudici. Pubblicati gl’inni d’ Orfeo e di altri e ,, quindi le Odi d’
Orazio, non restavano, che gli Inni di Pindaro al compimento dell’opera. Ecco
la iuta fede legata già sciolta. Chi legge , se ha sénno vegga e conosca la 4;
,, verità . A non voler dir altro , basta il dire che , negl'inni Pagani o
manca la persona, o rrnnca il soggetto, eh’ è la virtù., E se dicesi, che ap-
presso i Pagani tal era la persona reale , e tale il soggetto dell* inno; io
dico che cangiate le idee, , dubbiamo venerare le nostre. Ma le Liturgie, per
una sorte comune sono ignorate da chi le , adora, e conosciute da chi le
disprezza. Quindi è , che questa causa spetta al giudi ciò de’ posteri come
accenna nella Od. i. Olimp. il nostro poe- ta. Nel resto non può negarsi,
essere oscura e confusa 1 antichità, e chiara e distinta h nostra età, in cui
quel che si legge, si vede, e quel che si vede , s’ intende . Per me m’inebbrio
di gioja quando canto nel coro un inno de' nostri; e. nel cantare un inno
Pagano , sia superbo e pomposo, non mi sento nel petto un senso di dolce pietà.
£ non abbiamo noi i nostri agonistì, i campio- ni» -gli atleti r , gli atlanti,
gli aicidi di Cristo? Altro che kcorsa f , e Ja lotta, sono le virtù del-
Benedetti, Aditimi, Stefano, Gaìitefj ed altri fra i moderni e di averne tratto
profitto ma , di. aver sempre apprezzato sovra di tutti lo stesso la
Chiesa . Si legga solo F inno di Venanzio gio- , vanetto, e santo deli’ Umbria,
e si vegga, quai sono in vero gii eroi. E’ non vi ha dubbio, che iti Pindaro vi
sono le più belle sentenze e mo- , lali, e politiche che il suo stile spesso è
orien- ; tale, come lo stile liturgico di Asaflfo, d' Orfeo d’Omero, e di
Ossian; ma queste bellezze, che di rodo si ammirano ne' poeti Pagani, ne’
nostri sono e profuse, e neglette. 5. Mi resta a dir due parole su i Giuochi,
che formano F argomento dell’ opera • I Giuochi , dette ancora feste giostre
certami agojii , con- (,,, trasti ) erano o ginnici , o musici . I musici eran
prode del conto, del suono, della poesia, della storia, e della eloquenza; e
tal volta erano dispu- te circolari da scuoia. Questi si davano d' ordina- rio
neU’Odèo, nel Musèo, nel Licèo, nel Teatrone di rado assai nello Stadio, infra
il romor delia turba, il vincitore avea la corona, la sta- tua, e il soldo pubblico,e
forse Finno della vit- toria. Mi questi giuochi non eran molto famosi. I
Giuochi ginnici erano o sacri , o profani . £ profanieranolascherma,ei!
bersaglio,edaltri, destinati col tempo alle pene de’ rei., I sacri &
solenni eran cinque, la corsa , la lotta, la pugna , la danza , la palla ,
detti in generale Pentatlo da' Greci , da* Latini Qoinquerzio , e tal volta
Pan- crazio , benché il Pancrazio comprendea solamene te;la pugna, e la lotta*
La corsa era a piedi, a nudo', o armato a cavallo , o frenato , o senza ; freno
; e col carro , tirato da due.> o da quattro cavalli £ Il premio della
,virtù eia kt stessa virtù; o pure una corona di olivo f di lauro , d’ apio ,
di rame , o di ferro ; una statua col nome so»* della patria, del giuoco; e un
inno di lode, ond’ era accom- pagnato* litornapdo' in trionfo, alia patria* 11
Digitized by , 1 luogo di questi Giuochi era lo Stadio , in tre
par-* t» diviso, e distinto con tre colonnette. Vi prese* devanoi
pubblicimagistrati cometestimoni egiu- ,, dici delle contese. Tali feste,
instituite da Ercole, da Pelope , da Enomao da Ifito e p;ù volte tralasciare ,
e più volte riprese si celebravano , nel principio d' ogni cinque anni piade
non era diversa dal Lustro, che fu la gran festa degli antichi Romani. Questa città,
eh’ è stata sempre la madre degl randó altre insegne e divise , onde vivano
ignoti al mondo, e noti solo a se stessi. Vivi fra * morti , e mprti fra i vivi
, passano in pace la vira e fanno il lor nome risonare nel silenzio , della
virtù. Fra molti, che io venero, ha luogo Gaetano Ancora Napoletano giovane d’
alti ta- ,, lenti , e di aurei costumi . E’ rubando agli alti , affari
politici, e al vigor giovanile, e alle ombre notturne poche ore del tempo le
consacra a quel ,, profondo studio , che da' primi anni coltivò , d* una
maschia e robusta Letteratura, Ebrea Greca, , e Latina , e va di quando in
quando esponendo una parte di quella Sapienza vera, che nel tesoro delia età
vetusta si serba come un sacro depost- , ,, <5. Molte, e varie notizie si sono
d'america vate 11 da Pausania , da Natale de Conti , e da saggi scrittori delle
Greche antichità , Ma disperando di poterne qui dare un Saggio compiuto che
ser- , visse di scorta alla legione di Pindaro, ho prega- to il mio doke amico,
e maestro Gaetano Anco- ra y il quale, tra le gravi cure della Corte, cori va .
con applauso universale i più severi studj della Letteratura, oggimai quasi
moribonda e spirante.- 1 ingegni , e la scuola di tutte le Muse non ar- , 1
disce più di onorare il nome de suoi gran figli col titolo di saggi e di dotti
e va lor proccu- ,, , onde T Olim- JO to della umani , e divina ragione .
Quindi la Repubblica delle lettere gode di tante dissertazioni dilui,
chesonodiraro, diutile, edifestivo argomento , e che raccolte si daranno a. suo
tem- po al'a luce. Or egli piegandosi gentilmente al- , le mie premurose
preghiere, ha scritto un Saggio tu i Giuochi solenni di Grecia, il quale,
stampa- to alla fine del libro la erudizione comune , serve al- e al
rischiaramento delle ©ni di Pindaro. Perciò son io contento delle mie fatiche ,
le quali con questo lume compariranno , come spero , meno oscure , e meno
importune $ e la Musa Dircèa sarà più sacra, e più venerata. A vero dire non
deve un Poeta ri sublime , e sì sacro , come colui , che canta da eroe le virtù
degli eroi giacersi nell' ingrato obblìo d' una fa- , cile indifferenza , o d'
una criminosa ignoranza? eseiohofattosì, cheil suonomesiatranoi p ù conosciuto
, ed imitato almeno nelle sentenze, se non si può-nello stile, ^Sublimi feriam
sidera Tropea. Palazzo Sant'Anna. odierna sede del Municipio ed ex
Collegio dei Gesuiti. Jerocades visse da filosofo inquieto una esistenza
drammatica. Pur affascinato dalle idee di libertà di cui si è fatto assertore e
promotore, non smise mai di produrre opere di natura religiosa e devozionale,
anche pervase di amore e tenerezza, soprattutto verso la Vergine Maria. E' un
ecclesiastico che non sovrappone il livello della politica a quello della fede,
ma tenta piuttosto un equilibrio che apparirà fortemente precario e non
convincerà nè il potere politico nè il potere religioso. Dall'una e dall'altra
parte fu perseguitato per tutta la vita, tuttavia non sconfessò mai la sua fede
cristiana, nè resistette fermamente al tiranno fino alla morte.
Quest'uomo che le istituzioni hanno più volte punito secondo i loro statuti con
il carcere e con l'esilio fu un 'uomo contro', ma non aveva la vocazione al
martirio. Io mi fermerò a considerare l'ultima prigionia dell'abate
Jerocades. Fu la conclusione di una vita oltremodo inquieta. A Tropea, nel
collegio dei Padri Redentoristi, il 19 novembre 1803, non si chiudeva solamente
una vita, si spegneva il tentativo di conciliazione di un credente massone e
giacobino con il mondo moderno. UNA VITA ESAUSTA L'abate Jerocades non
aveva la vocazione al martirio e tuttavia la sua vita inquieta è stata vissuta
nella lotta, una opposizione ideologica contro i potenti e una tuonante
avversione al mondo clericale. Il terremoto del Capo, questa operetta
indiavolata, come la definisce Tigani Sava, ci dà la misura di quanti fossero i
suoi nemici, ma anche di quanto egli sapesse usare la lingua e la parola per
colpire, offendere, insultare. La parola fu la grande arma che Jerocades
usò per illuminare le menti, per eccitare i cuori, per aggredire chi lo
contrastava, per lottare i suoi numerosi nemici. Dotato di grande
facilità di parola, scriveva e verseggiava con facilità e spesso dava alle
stampe i suoi scritti senza rileggerli. L'ultima prigionia a Tropea,
nella casa dei Redentoristi, fa pensare a Daniele nella fossa dei leoni. Ma
l'accostamento biblico ci richiama anche altri protagonisti calabresi di utopie
religiose e politiche: penso a Fiore, a Campanella, profeti perseguitati per i
loro sogni di libertà. Con uno spessore certamente diverso, ma con un'ansia di
fondo che ha una matrice comune nella natura rivoluzionaria del
cristianesimo. Credo sia opportuna una riflessione sulla condizione
ecclesiastica di Antonio Jerocades e sulla sua formazione, perchè ci consente
di cogliere elementi di approfondimento in lui come anche nelle figure più
rilevanti del giansenismo, del protestantesimo, del giacobinismo, della
massoneria: tutti più o meno di provenienza culturale e ambientale non solo
cattolica, ma specificamente ecclesiastica (si pensi a Salvi, Aracri, Serrao,
Padula, Angherà, Nudi o altri meno noti). Il valore culturale, etico,
sociale di queste personalità e della loro opera in Calabria e fuori, osserva Mariotti,
e stato messo in rilievo da studi seri ed accurati, "che tuttavia non
sempre superano del tutto la tendenza ad interpretare illuministicamente
l'aspetto contestativo soprattutto in chiave di apertura alle novità, al
progresso contro l'ignoranza, l'arretratezza, il bigottismo degli
am bienti ecclesiastici. Pare sia più maturo un ripensamento, almeno su
alcune complesse personalità: anche per capire meglio il dramma umano,
religioso, morale di questi uomini, spesso condizionati dal disagio di una vocazione
non autentica, talora esasperati da situazioni realmente invivibili; e per
cogliere, al di qua dell'asprezza delle manifestazioni, la radice
autenticamente cristiana e cattolica di certe esigenze e critiche, nello
spirito in cui oggi leggiamo e accettiamo i rilievi al loro tempo sospetti, di Muratori
sulla Regolata devozione dei cristiani, di SERBATTI su Le cinque piaghe della
chiesa." Penso che, leggendo l'ancora inedita Orazione per
l'apertura della Scuola di Economia e Commercio nell'Università di Napoli,
detta da Antonio Jerocades, questa riflessione si riveli quanto mai opportuna.
Egli, rievocando gli anni della giovinezza, ricorda: "... Nato in un
ignoto villaggio dell'estrema Calabria da parenti oscurissimi, applicati alla
pesca, alla navigazione, al commercio, respirai le prime aure di vita, tra i
remi e le reti, nè mi sentia fremer d'intorno di altro il linguaggio che del
dolore, dell'opera, della fatica, i tre compagni primieri de' dolenti, operosi
e travagliati mortali, nè di altre immagini la mia mente bambina poteva
ricolmarsi giammai, che di povertà libera e di libertà bisognosa... piacque a
mio padre di ascrivermi tra l'ordine clericale e gà cominciai pur io, e ben per
tempo, a menar la vita tra i Salmi e gli Inni, imparando, ed insegnando ogni
giorno le Christiane dottrine... Chiuso il Seminario vidi e conobbi i primi
elementi dell'umano e divino sapere, e mosso dalla fama del Martorelli e del
Genovesi venni a Napoli ad ammirare quei due valenti e in filologia e in
filosofia, e con essi loro mi strinsi in familiare e soave
amicizia." E' altrettanto importante annotare che la preoccupazione
per il seminario rappresenta per i vescovi calabresi nella seconda metà del
'700 la volenterosa disponibilità di attuare una delle poche veramente
innovative prescrizioni tridentine. Ma in realtà molti seminari furono semplici
convitti, che potevano influire su una percentuale ristretta del clero, in
quanto spesso surrogavano i collegi per i laici, mentre i chierici in genere
erano formati con un'infarinatura di morale e di cerimonie dai parroci di
campagna. Una circolare del 3.XI.1802 per la diocesi di Tropea ritiene validi
10 giorni di ritiro come preparazione all'ordinazione sacerdotale di coloro che
erano stati presentati dai parroci. Si trattava di una preparazione intensiva,
che era tutto ed era poco! Il clero che proveniva dai seminari invece si qualificò
più per gli aspetti culturali che per quelli pastorali. Per molti lo
stato ecclesiastico rappresentava soltanto una carriera ambita. In un ambito di
cristianità il prete era il notabile, circondato da uno steccato di privilegi.
La vocazione era pertanto nella linea delle pressioni sociali. Moltissimi erano
i preti al di fuori di ogni quadro pastorale: gli abati oziosi, i preti
altaristi, i pedagoghi, gli eruditi, i commercianti, i sensali, i selvaggi, i
preti coniugati, gli eremiti. I sinodi sono pieni di richiami agli abusi di
questo clero che, privo di forti ideali, dopo aver "strapazzato" la
messa e l'ufficio, si dava all'ozio, agli spettacoli, al cicisbeismo. Del
resto va notato che il Concilio di Trento aveva obbligato i vescovi a fondare i
seminari, non i candidati agli ordini ad entrarvi. La cura animarum
suprema lex era molto disattesa, pur essendo un principio fondamentale del
Tridentino che aveva posto come capisaldi della vita diocesana le visite
pastorali, i sinodi e i seminari. Ma anche i sinodi nel '700 diventano sempre
più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato è stato di Ibanez nel 1702: nessun
altro sinodo verrà celebrato nel corso del settecento e fino al vescovo Vaccari
nel 1883. La preoccupazione per il seminario appare sempre viva e
addirittura appare quasi ossessiva in un vescovo latitante come Gerardo
Gregorio Mele nella corrispondenza col suo vicario don A. Meligrana. Questo
vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di Tropea prima della sua unione con
Nicotera. Durante il suo episcopato avvennero fenomeni che hanno cambiato il
corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per nulla il solo!) a rimanere
fermamente legato alla tradizione; durante il suo episcopato morì a Tropea
Antonio Jerocades. Sugli anni compresi sembra prevalere un grande
silenzio su Jerocades nei documenti vescovili o comunque tropeani. Mentre
il Martuscelli, primo biografo del Jerocades, ci riporta con alquanta dovizia
di particolari l'ultimo periodo di vita dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini
illustri della Calabria, Cosenza, 1877), le notizie che abbiamo di lui dai
contemporanei locali sono molto scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie
per servire alla storia della santa chiesa tropeana, Napoli, 1852; Michele
Paladini, Notizie storiche sulla città di Tropea, Catania 1930 - ed. anastatica
a cura di S. Di Bella). Quasi irreperibili nell'archivio vescovile di Tropea.
Quello che ci lascia interdetti è la mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini
di cultura suoi contemporanei o quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o
Scrugli, o Melograni... Gli archivi locali, sia quelli ecclesiastici che
quelli privati, sono molto avari di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea
è assente il suo nome, se si eccettua un documento di dispensa dall'età
canonica per l'ordinazione sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da
Parghelia nelle visite pastorali: Visita Paù: nell'elenco dei preti di
Parghelia manca Jerocades; 17.03.1794 - Visita Monteforte: adsunt extra
patriam... D. A. Jerocadi; 09.09.1795 - Visita Monforte: absens...: A.
Jerocadi; Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens. Negli archivi
privati si è trovata qualche piccola traccia del suo passaggio nell'archivio
Meligrana di Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata Monteleone 8 Nov.
1837 a Don Giuseppe Meligrana ricorda che "le cose di Jerocades [per lui
trascritte] non sono che ordinarissime composizioni, ma di un autore così
celebre ogni cosuccia è buona". E più avanti ricorda ancora di aver avuto
in regalo dal nipote di Jerocades (Raffaele) "un autografo in francese e
in italiano di suo zio". Da Parghelia, attraverso don G. Meligrana, Vito
Capialbi ha avuto molti testi di Jerocades, che dice di conservare nella sua
biblioteca (Cfr. Memorie, cit.). L'archivio più fornito dovrebbe essere
quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale risulta pittosto disperso,
diversamente da come era stato rilevato da Tigani Sava, relativamente alla
produzione di Jerocades (Cfr. il contributo bibliografico più completo - pur se
con qualche piccola carenza - di Francesco Tagani Sava in La Calabria dalle
riforme alla restaurazione, S. E. Meridionale. Il silenzio delle fonti
tropeane del periodo che corrisponde agli ultimi anni di vita di Jerocades sta
ad indicare la sua emarginazione, dovuta a una avversione profonda, soprattutto
da parte del clero tropeano, che, nel Terremoto del Capo, era stato oggetto di
derisione e di gravi accuse di immoralità, ma anche del mondo laico che non
condivideva le idee giacobine dell'abate, anche se alle logge massoniche da lui
fondate, o che, come dice Gaetano Cingari, certamente influenzò, a Parghelia e
a Tropea, in molti avevano dato la loro adesione. Tanto meno fanno menzione di
lui gli accademici degli Affaticati. Jerocades viene ignorato, sia perchè è
scomodo, sia perchè è ostile e pericoloso politicamente, sia infine perchè ha
usato la parola come arma che ha colpito duramente. Forse non e esagerato
pensare che si aspettava il momento giusto per presentargli il conto. LA
SOLITUDINE DELLA MORTE Il Martuscelli racconta con dovizia di particolari
gli ultimi anni della vita di Antonio Jerocades e la sua morte. "Nel 1799
fu mandato in Francia", egli scrive: in realtà, più precisamente, fu
esiliato con altri 500, mentre Colace e Mazzitelli erano stati uccisi. Il
Jerocades figura tra gli esiliati a Marsiglia per i fatti del 1799 e,
nell'elenco dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche una
descrizione fisica dell'abate. A Marsiglia scrive tra l'altro l'orazione
funebre per Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la pace di
Firenze, rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma dove 'si
ammalò mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a Parghelia il 4
Novembre 1801. Dopo dieci mesi (settembre 1802) "fu mandato nella casa del
PP. Liguorini di Tropea, e dissesi che ciò fu per correggerlo di quanto avea
scritto nell'elogio funebre di suo fratello Vincenzo", denunziato da
Giuseppe Costanzo per vilipendio in quanto nella detta orazione aveva parlato
male del cardinale Ruffo. L'ordine era di tenerlo segregato. E all'inizio
l'abate "viveva nella quiete", scrive il Paladini, che fu testimone
oculare della sua prigionia; il quale aggiunge che, cominciando (il Jerocades)
al suo solito a satirizzare, perdè la confidenza dei religiosi". In
realtà la situazione appare più complessa, come risulta dalla lettera di Migliaccio,
successore del Pappaona, inviata a Mele e conservata a Tropea nell'archivio Francia:
Ecc. Rev.ma con ven.ta carta del dì 21 del passato giugno V. E. Rev.ma
partecipò al mio antecessore che il sig. Preside della Provincia, col parere
del sig. Av.to F.te D. Luigi Calenda le avea scritto che il superiore di questa
casa, quante volte i medici ne conoscano la necessità, potrà far uscire a
camminare il sac. D. Antonio Jerocadi di Reale ordine qui detenuto, in
compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio antecessore
subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che
avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo
nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa
Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era
mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e
vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un
poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un
par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o
il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una
noia uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è
poco. I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire,
nè trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un
obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i
medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo,
ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del
superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi.
Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della
propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore
passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano
nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni
successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni
trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che
non è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia
degl'individui di casa. All'incontro il Jerocadi fa delle premure presso di me,
rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara
decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se
il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli
della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti
a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto
all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna
benedizione. Collegio di Tropea 3 Agosto 1803 U.mo e obblg.mo
servitor vero e suddito Giacomo Migliaccio del S.mo Red.re Di
V.E.Rev.ma Mons. Mele Vescovo di Tropea "In quel soggiorno -
scrive ancora il Martuscelli - molto si indebolì la sua salute - pur nondimeno
scrisse molte cantate, sonetti, molte orazioni sacre, novene di alcuni santi,
tradusse il salterio. Finalmente logoro dai disagi e dalla improba applicazione
allo studio munito dei santi sacramenti nei sensi della vera pietà rese l'anima
a Dio... Da colà fu il suo corpo trasportato nella patria, e depositato nella
sepoltura dei sacerdoti". Muore il 19 Nov. 1803 e non il 18 nov.
1805 come scrive il Martuscelli e dopo di lui tutti gli studiosi di
Jerocades. L'atto di morte si conserva nel registro della parrocchia di
S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della parrocchia di
Parghelia. Li riporto entrambi, oltre che per precisare e definire la
data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle
differenze: Anno 1803 - Parghelia - Parrocchia di S. Andrea
Apostolo Atto di morte Rev. Sacerdos D. Antonius Jerocades, annum
sextum ac sexagesimum cum attigisset, sacramentis opportunis rite munitus, die
decima nona dicti novembris obiit Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris;
cuius cadaver in hoc casale delatum in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae
Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum fuit. A. arch.
Taccone TROPEA - Parrocchia di S. Demetrio - Anno 1803 Atto di
morte Sacerdos Antonius Jerocades casalis Pargheliae hujus Diocesis
utriusque juris atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in
Universitate Neapolis, sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis
poenitentiae et Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit,
eiusque cadaver in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum
fuit. Franciscus Antonius Grillo Vito Capialbi, precisando che
Jerocades fu sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche
vicissitudini, involuto nelle tristissime vicende dal 1793 al 1799, e fino al
1802 andonne ramingo in Francia, ed in altri Regni d'Europa; e già era
rientrato nella patria in seguito del trattato di Firenze del 1802. Finalmente,
stando nella casa de' PP del SS. Redentore di Tropea, morissi ai 18 novembre
1805". Per concludere che "più copiose notizie di questo vasto,
e stravagante ingegno si riferiranno nelle nostre Centurie degli scrittori
calabresi". Di questo periodo della vita esausta dell'abate
Jerocades sono state dette certamente delle esagerazioni (il tetro carcere - la
cella - le punizioni - le torture... il veleno - cfr Didier), non suffragate da
alcuna documentazione, ma solo ampiando voci e dicerie, ma tante altre cose
sono state taciute. Stupisce però che il vescovo Mele, nella visita ad
limina del 1804, presenti una visione idilliaca del clero e della diocesi,
mentre nella visita pastorale del 1808 e in altri documenti conservati
nell'Archivio storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e
l'ingovernabilità del clero e contro l'immoralità dilagante: nessuna nota
abbiamo potuto rintracciare relativa al caso Jerocades, tranne tracce indirette
nell'Archivio Meligrana di Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo
Mele... Nell'archivio dei PP Redentoristi della casa provinciale spero
possa essere trovato del materiale documentario che già lascia intravvedere il
P. Giuseppe Orlandi, storico dell'ordine, il quale in Specimen Historicum
CSSR-A.XLII.1994.FI "I Redentoristi napoletani tra ricoluzione e
restaurazione" dedica pagine interessanti all'abate Jerocades. Era
comune che le autorità inviassero dei condannati al soggiorno abbligato a
scontare la loro pena in qualcuna delle case della Congregazione. "Per
quelle calabresi - scrive Orlandi - si trattava di un compito assegnatogli dal
dispaccio regio del 22 marzo 1790: 'Qualora i vescovi diocesani o vicini
per correzione volessero mandare dei preti o chierici a fare gli esercisi
spirituali nelle loro case, dovranno sempre riceverli, con esigere anche per
compensare del loro incommodo quell'oblazione che non venga eccedere il tarino
al giorno, pel tempo della dimora che da quei preti o chierici si sia fatta
presso di loro' "". L'ordine reale veniva poi eseguito dai
vescoli. Pertanto i Redentoristi "si trovavano nell'impossibilità di
sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità, che tra l'altro non era
sempre immune da rischi, come nel caso Jerocades." Nella lettera del
P. Migliaccio si afferma con forza: " Il superiore passato non dovea pure
firmare quell'obbligo, ch'egli non era fatto castellano, o carceriero".
Il Padre Giuseppe Orlandi, storico dei Redentoristi, riporta un passo di
Giuseppe Capasso (Un abate massone del secolo XVIII, Parma, 1884).
"Che in questa nuova relegazione il Jerocades abbia continuato a mostrarsi
secondo i casi massone e rivoluzionario, si può facilmente ammettere, anche
perchè è certo che non cessò mai dallo scrivere ed improvvisare al modo antico.
Ma l'esilio, quantunque raddolcito dalle cure di chi l'assisteva, diè l'ultimo
crollo al suo cervello, di già a bastanza indebolito". Naturalmente,
se a Jerocades era sgradito soggiornare a Tropea, ai Redentoristi lo era ancor
più il doverlo ospitare: "Durava da un anno quello stato di cose,
quando il Ierocades ottenne di poter passeggiare fuori clausura, accompagnato
da uno di quei frati. Ma, proprio il giorno in cui cominciava a fruire di tale
concessione, intavolato col compagno una discussione di teologia, non essendo
contento delle risposte dell'altro, passò dagli argomenti alle impertinenze, e
poi "usando dell'estro poetico", sepellì il frate sotto una valanga
di contumelie. Ricorse perfino al bastone, e buon per il frate che riuscì a
scansarlo". La lettera del padre Migliaccio sopra riportata conferma
quanto scrive il Capasso. Il padre Orlandi conclude che "invano i
Redentoristi ricorsero ripetutamente alla corte per essere liberati dalla
sgradita presenza di Jerocades che rimase a Tropea fino alla morte".
Il teologo Raffaele Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un
giudizio fortemente negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del
vescovo Monforte] D. Antonio Jerocades di Parghelia noto nella repubblica
letteraria per talenti e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene
soprattutto nella prosa; volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu
traditore degli stessi sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la
sua scienza non retta, la sua morale non buona". Il teologo ci lascia
questo racconto della morte di Jerocades: "Morì ai suoi tempi [del vescovo
Mele] D. Antonio Jerocades. Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato
in esilio dopo il 1799, fu denunziato da Giuseppe Costanzo, da Parghelia quale
autore di autore di una orazione funebre di un suo fratello, dove parlava male
del Cardinale Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal Ministro
Pirrotta tra i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il rettore
Pappaona. Ivi sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al suo
solito a satirizzare, perdé la confidenza de' religiosi. Caduto infine in
delirio malinconico, e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre membri
del Capitolo, cioè l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e il Teologo
Paladini a ricevere la sua professione di fede. Egli, invitato a ciò, diè
segno di approvazione, come il diè in tutta la lettura di detta professione.
Richiesto a sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del
suo nome A ed n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g.
Allora il padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con
fargli altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il
Teologo disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o
è in retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo,
con pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner
sempre il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati.
Munito poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere
seppellito in Parghelia." Questo racconto ci fa intravedere quali
fossero le preoccupazioni del vescovo Mele (solo formali e... di salvare
un'anima!) e quali fossero i sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano
l'abate aveva fortemente fustigato e vilipeso nel Terremoto del Capo. Sul
versante laico il racconto di Charles Didier (1805-1864) in L'Italie
pittoresque, Pigoreau, Paris, 1835, appare assai ricco di anticlericalismo e di
spirito romantico: Jerocades, autore della Lira focense "fu crudelmente
perseguitato. Relagato nella sua città natale nel 1815 (sic!), ebbe per
prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica, ritenendolo ateo e
giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette reazionarie dei
Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco cristiano, l'esercitarono
con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non vi sono torture che essi
non inflissero al carbonaro poeta: il povero prigioniero morì presto, e colui
che gridava, in uno slancio di benedizione, "Vita, dono del ciel, sei
bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i suoi giorni spegnersi nella
prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico e persecutore. La salma del
martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon riparatore che riunirà in un
solo altare tutti i martiri dispersi della libertà italiana. La terra sia
loro leggera fino al giorno prossimo delle riabilitazioni!" La fonte
del Didier era certamente legata allo spirito patriottico che aveva bisogno di
creare i martiri. Questo spiega anche la data errata del 1815 e il riferimento
alla salma che riposa a Tropea mentre sappiamo che Jerocades fu seppellito a
Parghelia. Nella prefazione alla Lira Focense pubblicata a Cosenza nel
1812, Francesco Migliaccio accentua il carattere persecutorio: "fu dalle
calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri assalito ed oppresso. Credette
farsi schermo e difese [...] negli occulti recessi della sua patria. Ma per la
malvagità dei tempi... fu nella sua veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa
di Missionarj di Tropea. Quivi nella indigenza, schiacciato dalla ferrea mano
che l'oprimeva chiuse i suoi giorni". A parte i comprensibili toni
romantici del Didier e di Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi
giorni nell'abbandono e nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà.
Neppure la visita del Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non
trovava più motivi al suo canto. La sua voce, un tempo bellissima e
ammirata, adesso era solo il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi
senza rimedio il suo cocente anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo
colse dopo aver ricevuto i sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha
trovato un uomo distrutto e che nelle parole del salmo 50 da lui amato ha
trovato l'ultimo motivo per affidare alla forza della parola l'anelito del cuore.
UN DIGNITOSO CONGEDO Non fu una morte normale quella di Jerocades: nella
sua inquietudine non bastò la famiglia dei liberi muratori, non soccorse
l'avventura giacobina, diede sofferenza la chiesa alla quale apparteneva.
Nella post-fazione dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che alcune poesie che
formano la Lira focense sono sacre e ricavate dai libri cristiani e ne dà una
spiegazione storica; ma a me sembra che egli voglia darci atto di non aver mai
abbandonato la certezza cristiana come in questa Salve piena di affetto e di
fiducia. O Regina, il Ciel ti salvi. Di Dio madre, e sposa, e
figlia, Volgi, ah volgi a noi le ciglia, Bella madre di
pietà. Mostra vita, e nostro bene, Nostra speme, e nostro
amore, Volgi a noi quel tuo bel core, Ch'è la stessa carità.
Figli di Eva, abbandonati, Dell'esiglio a' lunghi affanni, Dal
furor dei rei tiranni Chi ci salvi, oh Dio! non c'è. Senti il
grido, ascolta il pianto Di chi giace in ree catene, Bella Madre,
in tante pene Ci volgiamo afflitti a te. Dunque o nostra
Protettrice, Volgi a noi quel tuo bel ciglio; Mostra a noi quel tuo
bel figlio, Quando ha fine il lungo error. Tu sei madre assai
pietosa, Bella Vergine Maria; Tu sei dolce, e tu sei pia,
Tutta pace, e tutta amor. E mi appare persino commovente la
Novena alla Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades dedica a Raffaele suo
nipote, figlio del fratello Vincenzo: "Nel Castello dell'Ovo, villa
un dì di Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di stato dopo tre anni di esilio
e in altri prigioni e in altri esili, dopo Dio non ho altro obbiettivo delle
nie cure e delle mie preci che la Madre di Dio. Serbando fede alla
patria, l'ho sempre invocata col nome di Madonna di Porto Salvo, e questo
conveniva ancora al mio stato perchè nelle tempeste si cerca un porto e nelle
battaglie si cerca un asilo, impaziente di altra dimora: "Ch'io son
vivo al desir, morto alla spema". Gravato d'anni e d'affanni, ho
scritto questa Novena che a voi, caro nipote, offro e consacro qual dono e qual
debito. Io ve la consacro qual dono poichè è frutto dei miei studi e dei
miei talenti. Sono povero di fortuna e quel che mi ha dato la natura, spetta
anche a voi quando non disdegnaste di dirvi mio nipote". A me
quest'ultima frase appare commovente per la carica emotiva che sottende. Ma c'è
dell'altro che Antonio Jerocades dice ancora come credente e come
sacerdote: "Chi sono i testimoni della fede? I vecchi. Io, che
vecchio pur sono, così presbitero, qual attestato maggiore di questo donarvi
della religione e fede di Cristo? A te, Raffaele, e all'eredità del padre
e dell'avo aggiungerete la mia. A te, e nella Chiesa di Porto Salvo fra i
suoi monumenti della pietà dell'avo e del padre appenderete ancora s'è degna
questa Novena, in cui leggerete le grazie e le glorie di Maria, da noi venerata
sotto il nome di Madonna di Porto Salvo". Il senso di verecondia che
traspare da queste parole non ci rivela forse il dramma di un uomo, di un
credente, di un sacerdote che, guardando indietro alla sua vita tormentata fa
un bilancio coraggioso e definitivo? "Dopo Dio non ho altro obietto
delle mie cure e delle mie preci che la Madre di Dio" Antonio Jerocades. Jerocades. Keywords:
filosofia della massoneria, Esopo in Italia, lira focense, giaccobinismo, ‘repubblica romana” “repubblica partenopea”le
odi di pindaro – Grice on Plato’s Republic.
Grice e Jervolino –
ermeneutica del dialogo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo
italiano. Grice: “I like Jervolino, but then I like any
philosopher of language! He is a Ricoeurian, and I’m a Griceian!”essential
Italian philosopher. Allievo di Piovani. Insegna a Napoli. Collabora con
diverse riviste specialistiche di filosofia (Filosofia e Teologia, Studium).
Esamina aspetti riguardanti a Ricoeur, tra cui:
la ricerca di un filo conduttore unitario all'interno della sterminata
ermeneutica (“Il cogito e l'ermeneutica: La questione del soggetto e la
inte-azione” (Procaccini, Napoli). Messa in questione del soggetto chomskyano auto-centrato
e auto-trasparente. Ricoeur appare nei
suoi studi come caratterizzato dall'attenzione verso le peripezie del Cogito
che, ferito e spezzato nella sua autosufficienza, cerca di ritrovare sé stesso
attraverso un lavoro ermeneutico. Individua come centrale il paradigma della
trans-ductio, trans-implicatura, trans-patia, come modello fondato sulla
co-ospitalità conversazionale e la co-apertura all'altro conversazionale. Altre
saggi:“Il cogitamus e l'ermeneutica. La questione del soggetto e sui
interazione” (Procaccini, Napoli); “La filosofia senza assoluto” (Athena,
Napoli) – cfr. H. P. Grice, “Absolutes” --; “Logica del concreto, logica dell’astratto” --
“Ermeneutica della vita morale.” Newman, Blondel, Piovani, Morano, Napoli); “L'amore”
(Studium, Roma); “Il segno della prassi. Saggi di ermeneutica, Città del sole,
Napoli);“Trans-ductio, trans-implicatura” (Morcelliana, Brescia); “Ermeneutica
ed implicatura” (Guerini, Milano); La traduzione, la traditio -- etica, Morcelliana,
Brescia, “Etica e morale, Morcelliana, Brescia, Ricoeur e la psico-analisi (Angeli,
Milano); Quei ragazzi di nome Fausto
Bertinotti Boys – Archivio Panorama. Grice: Jervolino is playing with Calvino.
You see, Calvino, a rather unimaginative writer, wrote a collection of things
he titled, in the whole thing and in the first part, “Glia mori difficili” –
People would have forgotten about it had it not been for Nino Manfredi who
brilliantly played the ‘soldato’ (to Bulco’s vedova) in ‘L’amore difficile’,
sic in the singular but indeed, ‘L’avventura del soldato’ – in that collective
film. Jervolino is having in mind this, and now poses Ricoeur as the widow and
himself as the soldier. On top, he invites Ricoeur to write the prologue which
he stupidly agrees to! Caputo has analysed the reciprocity of love and the
stupidity of seeing it as ‘difficile’. The blame is Calvino – the original sin
– who could have checked with the etymology of ‘difficilis’!” Domenico Jervolino. Jervolino. Keywords:
ermeneutica del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Girce e Jervolino” -- “Two
cartesian egos”. “Peripezie conversazionale”. “Peripezia ed implicatura”.
“Cogitamus.” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Jommelli –
musicista filosofo – filosofia italiana – muovere l’aria – l’azione
melodrammatica -- Luigi Speranza (Aversa). Filosofo italiano. Essential Italian philosopher. Mattei
riporta il seguente aneddoto sul suo soggiorno in questa città. Andato in
visita a Martini (già considerato come uno dei più sapienti musicisti
d'Italia), si era presentato a lui come allievo, chiedendo di entrare nella sua
scuola. Il maestro gli diede un soggetto di fuga che egli trattò con molta
abilità. -«Chi siete voi?», chiese Martini, «volete burlarvi di me? Sono io che
voglio apprendere da voi!» - «Il mio nome è Jommelli, sono io il maestro che
deve scrivere l'opera per il teatro di questa città» - «È un grande onore per
questo teatro avere un musicista filosofo come voi, ma vi auguro di non
trovarvi in mezzo a gentaglia corruttrice del gusto musicale». Grice: “I like
Jommelli. Like Speranza, I play the piano. My avant-garde compositions are
thought to be too avant-garde, too. I especially recall with affection how I
would trio with my father on the violin and my younger brother Dereck on the
cello. Dereck became a professional cellist with Hampshire. My obituary might
well read, “Professional philosopher and amateur cricketer” – well, Dereck is a
professional cellist. With Jommelli we never know where the amour is!” La
teoria degli affetti (in tedesco Affektenlehre) può considerarsi la prima forma
retorica (in tedesco Figurenlehre) adottata nella storia della musica, infatti
puntava a muovere gli affetti dell'uditorio; già i greci avevano la concezione
che la musica potesse suscitare emozioni: è proprio da questo concetto che i
teorici e i musicisti dell'epoca attingono per applicarlo alla loro musica (si
parla nelle prime cronache rinascimentali di interi pubblici commossi dalla
musica). Le autorità civili ed ecclesiastiche, consapevoli del forte potere
della musica sulla psiche, la utilizzarono come veicolo dei propri messaggi
propagandistici. Durante il '400 Marsilio Ficinoapprezzava di più le forme
semplici e comunicative rispetto alla polifonia poiché la prima era
maggiormente capace di muovere gli affetti, suscitare o placare le passioni
umane rispetto alla seconda, che era vista come artificiosa e innaturale. Dello
stesso parere era Vincenzo Galilei, che preferiva la musica greca per le sue
capacità affettive. La teoria musicale identifica ogni affetto con un
diverso stato dell'animo (es. gioia, dolore, angoscia) identificati da
specifiche figure musicali definite figurae o licentiae (licenze). La loro
particolarità era contraddistinta da anomalie nel contrappunto, negli
intervalli e nell'andamento armonico, appositamente inserite per suscitare una
particolare suggestione. Athanasius Kircher – gesuita matematico, musicologo ed
occultista tedesco – nel suo Musurgia universalis (1650) afferma: «La
retorica [...] ora allieta l'animo, ora lo rattrista, poi lo incita all'ira,
poi alla commiserazione, all'indignazione, alla vendetta, alle passioni
violente e ad altri effetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta infine
l'uditore destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l'oratore. Allo stesso
modo la musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove l'animo con
vario esito.» (Athanasius Kircher, Musurgia universalis, Cap II, 1650)
Questo trattato, conosciuto durante tutto il secolo XVIII, fu stampato anche a
Roma nel 1650 e tradotto dal tedesco. Tra le classificazioni e distinzioni
degli affetti umani compilate nel Seicento, è da menzionare quella di Cartesio
che, nel trattato Les passions de l'âme del 1649, ne distingueva sei ritenuti
principali, quali meraviglia, amore, odio, desiderio, gioia e tristezza.
Invece Giovanni Maria Artusi ne L'Artusi, ovvero Delle imperfettioni della
moderna musica (Venezia, 1600), attacca questa nuova forma musicale che
utilizzava intervalli "così assoluti et scoperti", poiché
trasgredivano le regole contrappuntistiche (per esempio le dissonanze non
sempre sono precedute da una consonanza per risolvere su di un'altra).
Monteverdi difenderà quella che lui definisce seconda pratica nell'Avvertimento
del Libro quinto: queste licenze hanno uno scopo preciso, e devono essere viste
in un nuovo modo di comporre, diverso dalla concezione musicale di Gioseffo
Zarlino. Già dal Libro Terzo di madrigali infatti Monteverdi con le dissonanze
intensifica e rende maggiormente pungenti le immagini proposte dal testo.
Il Vologeso was written in 1766, using a wordy libretto by Mattia Verazi,
itself an extensive reworking of Apostolo Zeno's Lucio Vero (1700). The plot
deals with the constancy of love in the face of great obstacles, in this case
the love of Vologeso, king of the Parthians, and his wife Berenice. The Roman
general Lucio Vero has defeated and captured Vologeso, fallen in love with
Berenice, and spends most of Acts I and II seducing and bullying her into
abandoning her husband. When Lucilla, daughter of the Roman emperor and Lucio's
fiancee, turns up, she and the Roman emissary Flavio are disgusted by his
behavior; Flavio, assisted by Vologeso, leads a revolt that results in Lucio's
capitulation and the restoration of their freedom and their kingdom to Vologeso
and Berenice. The plot allows ample opportunity for dramatic movement and
spectacle, e.g., in Lucio's importunities and their rejection by Berenice,
Vologeso's confrontation with lions in an arena, and the revolt that ends the
opera. The music is conventional in its use of recitative followed by
arias, but forward-looking in that many of the recitatives in Acts II and II
are accompanied by the orchestra rather than the traditional basso continuo -
the arias are often in abbreviated da capo form so that they do not slow up the
action, and the chorus and orchestra play a more considerable part in the
proceedings than is usual in Baroque operas. Jommelli had no great gift for
melody and the opera offers few memorable tunes, but he had a talent for
brilliant vocal display and dramatic orchestral effects. The total effect is
imaginative, lively, and attractive. The casting is odd; with only one
male voice and five sopranos it's hard to tell the characters apart. Odinius,
Rossmanith, and Schneiderman all have good voices and are comfortable with
Baroque style and ornamentation and expressive in their characterizations.
Waschinski and Taylor are as good as most falsettists, though as usual their
uneven voice production and unfocused tones set my teeth on edge, and Waschinski
sounds much too feminine to make plausible the heroic figure of Vologeso. (I
really do not understand why conductors and producers nowadays insist on using
these voices in Baroque opera, a practice that has neither historical nor
aesthetic justification.). The Stuttgart Chamber Orchestra is alert and
responsive, Frieder Bernius keeps everything moving along briskly, and the
sound is excellent. Il Vologeso doesn't stand up too well compared to the
Italian operas of Handel or Gluck, but taken on its own terms and as presented
here, it is thoroughly enjoyable While Mozart may have claimed
Jommelli’s musical style to be passé by the 1770s, Vologeso itself is a
reworking of an already antiquated libretto by Apostolo Zeno, originally called
Lucio Vero and first set by Carlo Pollarolo for Venice in 1700. Moreover, the
version set by Jommelli and performed here by Classical opera is in fact a
modification of a modified libretto. The new librettist Mattia Verazi had
revised the by then popular version produced by Guido Lucarelli for Rinaldo di
Capua’s setting of 1739 rather than Zeno’s original. The story is a familiar
one, mingling political intrigue with love both unrequited and true. In the
eastern provinces of the Roman Empire, Lucio Vero (Stuart Jackson) is victorious
in battle and captures Berenice (Gemma Summerfield), wife of the Parthian king
Vologeso (Rachel Kelly). Captivated by her beauty, Lucio Vero makes every
effort to win her with the assistance of his minister Aniceto (Tom Verney).
Meanwhile, Vologeso attempts to assassinate Lucio Vero but is recognised by
Berenice, causing him too to be taken prisoner. Further complicating matters,
Lucio Vero’s betrothed, Lucilla (Angela Simkin), has arrived in Ephesus with
Flavio (Jennifer France), an ambassador from Lucio Vero’s co-emperor, Marcus
Aurelius. After many separations of the faithful Vologeso and Berenice,
increasingly cruel plots on Lucio Vero’s part to attain the latter, and the
threat of civil war from Marcus Aurelius, all is resolved and the various couples
are reunited without any blood being shed. Although Zeno’s libretto is
not remotely like those produced by later poets and composers interested in
reforming operatic conventions, the play’s enduring appeal might well be
attributed to its strong sense of spectacle, which coincided neatly with the
objectives for reform. Indeed, the play contains on-stage depictions of Lucio
Vero’s attempted assassination, Vologeso’s fight with a lion in the arena, and
at least one ‘mad scene’ for Berenice in addition to traditional opera seria
ingredients of triumphal marches, grand armies, and the obligatory chorus
announcing a lieto fine. Sometimes I felt that this element of spectacle was
lost in the context of a concert performance. Though that is of course an
unavoidable casualty of this mode of presentation, it was further compounded by
Jommelli’s own reluctance to capitalise on these aspects of the play as did
other contemporaries. Furthermore, artistic director Ian Page writes in the
introduction to the programme that besides the expected editing of the
recitative, he chose to cut not only a number of pieces in their entirety, but
also some arias’ middle-sections and their reprises in the interests of
‘maximising our potential to appreciate and enjoy the opera’. Of these, one was
the opening chorus, which might have helped to restore some of this sense of
grandeur, if indeed Page’s goal was to get a feeling of ‘[experiencing] what a
typical eighteenth-century opera was like’. Jommelli’s musical style in
this opera has clearly moved on from the grand and expansive show pieces we
find in his earlier operas, such as Didone abbandonata of 1747 (performed in
London in 2014 and also reviewed here). With the exception of one or two
numbers which might be said to respond to a more traditional heroic opera seria
style, such Crede sol che a nuovi ardori, Flavio’s only aria, the focus in
Vologeso is instead on creating a more declamatory mode and ‘realistic’
rendering of the dramatic and emotional content of the text. As such, the use
of coloratura is generally much reduced and arias very often feel more like
ariosos, often to the point that it feels like accompanied recitative intrudes
upon melodic lines. The music is nevertheless still imbued with grace and
lyricism, and is marked by sometimes fussy, yet fine, delicate and lace-like
accompaniments. And there are some really good and interesting numbers too: the
quartet Quel silenzio, Lucio Vero’s Se tra ceppi, Lucilla’s first aria Tutti di
speme al core, the already mentioned Crede sol, as well as some very effective
and attractive accompagnatos. In spite of the title, this version (or at
least as it has been presented to us with the cuts) nevertheless still focuses
greatly on the character of Lucio Vero and his relationship with Berenice.
Stuart Jackson’s performance came across as something of a slow burning affair,
only really coming fully into the character after interval and reaching the
apogee of dramatic intensity in his final aria. And yet it felt largely like
Lucio Vero was being interpreted as being the youthful hero, the primo uomo
role usually reserved for a castrato. This may well be due to Verazi’s
redaction of the opera, which seems to me to result in a somewhat schizophrenic
character, vacillating between tyrannical, or rather psychopathic, conqueror
and lovelorn hero. This is effectively underlined by the kind of music with
which Jommelli furnishes the character: languid arias with long, plangent
melodic lines, such as his opening Luci belle and the cavatina Che farò? in Act
2, and a handful of arias which verge on aria di furia territory. To my mind,
Lucio Vero’s actions are not driven by real love for Berenice but rather an
overwhelming desire for power: not only in and of itself, but also power over
others. To this end, his rejection of Lucilla is not merely an amorous choice,
but a rejection of the power of Rome and the authority of his co-emperor Marcus
Aurelius altogether. So too the psychological manipulation of Berenice in an
attempt to bend her to his will. Thus, Stuart Jackson’s characterisation of
Lucio Vero as the amorous lead did not always sit quite well for me, in spite
of a good voice and elegant execution. The performance otherwise had much
working in its favour. I very much enjoyed Sutherfield’s portrayal of Berenice,
and there was some excellently judged acting from Rachel Kelly. I have already
mentioned Jennifer France, whose delightful aria was executed with all the
charm and grace that the butterfly described in her text required. One did feel
slightly for Tom Verney, his solid performance in his lone aria aside: his role
of Aniceto was decidedly minor in this version of Zeno’s play, with the
character’s love for Lucilla never really explored (again a shortcoming of the
libretto). And, of course, the orchestra itself was as sharp and on-point as we
have come to expect from Classical Opera. My overall impression from the
programme notes, however, is that Vologeso in and of itself was perhaps
somewhat unconvincing to the artistic team in the first instance. Indeed, Page
writes further in his introduction that ‘Jommelli does not belong among the
truly great composers, to be sure…’. While undoubtedly there are countless
flops littering the battlefields of eighteenth-century opera, and works that
are best left to languish in obscurity, credit must be given where credit is
due. And Jommelli’s legacy is by far too monumental to ignore. The assertion
that ‘…much of the music of contemporaneous composers… sounds quite like Mozart
for much of the time’ should rather be inverted: it is Mozart, his uniqueness
notwithstanding, who is effectively a product of his time! A final note:
a future Classical Opera concert this year is to feature some arias from
Semiramide by Josef Mysliveček, another figure well known to the Mozart family
and whose work has occasionally been misattributed to the young Wolfgang in the
past. A full opera of his at some point, further showing how Mozart was fully
integrated into the existing musical landscape, would be most welcome indeed! Jommelli. Keywords:
musicista filosofo, Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jommelli” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Julia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Acri). Filosofo italiano. Grice: “Julia was more of
a poet than a philosopher; but then for Heidegger, philosophy IS poetry and
vice versa!” -- essential Italian philosopher. Figlio di Antonio e da Maria
Giuseppa Balsàno. Studia a Cosenza sotto Focaracci. Direttore del Telesio,
periodico. Strinse grande amicizia Padula. La temperie culturale in ambito
locale vede la difficoltà della Calabria a integrarsi nella nuova entità
politica. Area essenzialmente contadina, la regione ha una classe dirigente che
preferisce assoggettarla al clientelismo e alla sua arretratezza piuttosto che
metterla al passo con zone del Paese più avanzate e progredite; perciò il mondo
intellettuale d'avanguardia, deluso dalle speranze del 1848 e conscio del
sottosviluppo, si volge verso il positivismo e il socialismo. Vive tra il tardo
romanticismo e l'affermarsi delle innovative correnti costituite dal
naturalismo e dal verismo, nella scia di Carducci e Verga. Le contraddizioni
della sua epoca lo formano come un intellettuale spiritualista che rifiutail
materialismo e in parte il mondo contemporaneo, e d'altra parte un sostenitore
degli ideali socialisti, del riscatto delle masse disagiate e della
glorificazione del passato della Calabria a partire dall'assedio degli
Aragonesi e dei suoi conterranei coevi illustri, fra i quali Miraglia, VPadula,
Quattromani, Tocco, oltre a Campanella. Accostatosi in un primo tempo al
misticismo di Gioberti, si converte al verismo, alla ricerca del pragmatismo e
di un modello di poesia di alto civismo che lo stesso Julia proclama nei suoi
Sonetti e liriche. Parte dai miti popolari e dalle ballate della tradizione
romantica per marcare orgogliosamente la storia della sua terra. Considerato il
padre della letteratura calabrese, si interessa alle origini della cultura
letteraria della regione analizzando anche alcune opere a lui precedenti. Il
suo impegno regionalistico si concretizza in uno studio su Selvaggi, nel quale
si individua un collegamento fra Galeazzo di Tarsia e le produzioni romantiche.
Vi fu poi un saggio su Padula e un esame delle liriche riferibili all'Accademia
Cosentina. Sa però spaziare oltre i confini delle sue terre, fino a richiamare Milton
nel suo scritto dedicato a Padula. Oltre a uno studio su Monti, produce dei
lavori anche su Mazzini, Poerio, Correnti, legati dall'attenzione alle
tematiche relative al Risorgimento e perciò in convergenza con il proprio
pensiero, che dal punto di vista della poetica si richiama ai modelli che il
letterato individua in Leopardi, Berchet e Giusti, oltre che in Prati. A.
Piromalli, La letteratura calabrese” (Pellegrini, Cosenza); Monografia su
calabriaonline, su calabriaonline.com. Digital Storytelling su Vincenzo Julia a
cura degli studenti del Liceo V. Julia di Acri, CS. Ovvero delle Famiglie
Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili di Napoli, al Libro d'Oro
Napolitano, appartenenti alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate
chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che abbiano avuto un ruolo nelle vicende
del Sud Italia. Famiglia Julia A cura d iDodaro Socio Corrispondente
dell’Accademia Cosentina Arma: d’azzurro alla fascia d’oro accompagnata
nel capo da un destrocherio di carnagione tenente un uccello di nero e in punta
da un albero radicato al naturale(1). Titolo: Nobile di Acri. Arma
Famiglia La famiglia Julia, in origine nota come de Giulia (2), figura
fra le antiche e nobili casate di Acri (3) (Cosenza), città dove risulta
presente sin dal XVI secolo. I Julia godettero sempre nella locale società di
un buon livello di prestigio sociale come testimoniato dalle alleanze
matrimoniali contratte con diverse famiglie patrizie fra le quali ricordiamo le
seguenti: Benincasa, Candia, Capalbo, de Simone, Dodaro, Falcone, Fusari. Simbolo
della condizione privilegiata della famiglia è il grande palazzo sito tra il
rione Casalicchio ed il quartiere Piazza. Tale edificio, al cui interno si
conserva la ricca biblioteca di famiglia, è abbellito da un portale lapideo sul
quale spicca un mascherone sormontato da un’antica riproduzione in pietra dello
stemma del casato. Il suddetto blasone è timbrato dalla classica corona a
cinque punte che identifica i Julia come nobili. Acri, Palazzo Julia,
portale Nel 1506, con atto del notaio Gaudinieri, il sacerdote Nicola
Maria Julia fonda una cappella privata sotto il titolo dell’Immacolata
Concezione all’interno della chiesa di San Nicola di Bari in Acri (4) (situata
nel rione Casalicchio). Nel 1706, Fabrizio Julia vende a Giuseppe Leopoldo
Sanseverino un terreno dove e edificato l’imponente complesso del palazzo
acrese dei principi di Bisignano, permutandolo con la casa e il fondo
Macchia(5). Dal matrimonio fra il dott. Raffaele e la N.D. Giuseppina Capalbo
nacquero Salvatore ed Antonio dei quali il primo (deceduto nel 1851) fu
rinomato avvocato mentre Antonio viene ricordato come “Medico illustre” che “in
età provetta, in pochi mesi, studiò leggi presso il Focaracci e ne apprese
quanto ne anno i più maturi; onde s’incentrarono in lui il medico e l’avvocato”
(6). Fra i personaggi celebri di questa famiglia ricordiamo il citato Raffaele,
Governatore di S. Giorgio e Vaccarizzo. La figura cui si lega maggiormente la
fama del casato è quella di Vincenzo Julia, filosofo, letterato e poeta. Allo
stesso è intitolato il Liceo Classico e Scientifico di Acri. Nacque da Antonio
e Maria Giuseppa Balsano (7), svolse gli studi presso l’istituto Molinari di
Acri ed il seminario di S. Marco Argentano (8). Frequenta il seminario di
Bisignano dove ebbe come insegnante il Canonico acrese Francesco Saverio
Benvenuto, quest’ultimo colto latinista nonché teologo, filosofo e parroco
maggiore di Santa Maria in Acri (9). Intraprese gli studi giuridici e per
alcuni anni esercita la professione di avvocato poi accantonata a favore dell’insegnamento
di materie letterarie, filosofiche e giuridiche (10). Quanto alla sua
produzione filosofica questa fu “quella del poligrafo (letteratura, filosofia,
storia, cultura calabrese)” inoltre “Nei suoi studi predilesse la
valorizzazione e la riscoperta di figure regionali poiché gli pareva che la
Calabria fosse dimenticata e poco apprezzata dopo la raggiunta Unità”(11). Fra
le sue opere ricordiamo: Saggio sulla vita e le opere di G.V. Gravina, Saggio
di studi critici su Vincenzo Selvaggi e la Calabra poesia, Terenzio Mamiani e i
suoi dialoghi di scienza prima, Francesco Fiorentino filosofo, Lettere al
figlio Antonio su Cesare, De Sanctis in Calabria, Vincenzo Monti. Nel 1864
sposò Gabriella Fusari(12) e da tale matrimonio nacquero: Antonio, Francesco,
Mariannina e Giulietta(13). Si spense il 4 maggio del 1894 in Acri. “Telesio,”
rivista codiretta da Vincenzo Julia Antonio Julia, figlio di
Vincenzo, fu avvocato e raffinato poeta sposa, in prime nozze (14), Mariantonia Dodaro,
figlia dell’avv. Giovanbattista e di Cristina Benvenuto. Il loro fu un
matrimonio felice e allietato dalla nascita di Maria Gabriella(15), Vincenzo e
Antonietta(16) (1897 † 1978). Antonio Julia e sua moglie Mariantonia
Dodaro Antonio Julia fu legato da sincero amore a sua moglie e quando
questa prematuramente scomparve, riversò il suo dolore in alcuni toccanti
componimenti poetici che rappresentano una struggente testimonianza del suo
dramma interiore e assieme della sua spiccata sensibilità d’animo. AL
CROCIFISSO DEL SUO LETTO Non più le sue lucenti Pupille a te si volgeran la
sera; non più per le dolenti mie stanze echeggerà la sua preghiera… O tu,
che pendi ancora, mistico Iddio, sul vedovo mio letto, volgi le luci ognora
sovra i miei figli e sul paterno tetto! Dimmi che ancor le rose Olezzano
per te, vigile Iddio, le parole amorose che a te rivolse, ne l’estremo
addio… Dimmi che ancor tu senti La voce sua, ne l’ombre de la sera, e
che, in soavi accenti, mormora pe’ suoi figli una preghiera!..(17) Note:
(1) - Gli smalti dello stemma Julia sono noti grazie ad una raffigurazione del
blasone in oggetto riportata dallo storico acrese Raffaele Capalbo (1843-1921)
in un suo lavoro inedito sull’araldica delle famiglie nobili di Acri. Nella
riproduzione del blasone dei Julia, visibile ancora oggi sul portale del loro
palazzo in Acri, il destrocherio appare vestito. (2) - Per approfondimenti si
rimanda a CHIODO, L’Archivio Privato della famiglia Iulia di Acri - Inventario
sommario, in “Archivio Storico per le Province Napoletane” (3) - Per un elenco
completo delle famiglie patrizie di Acri si vedaCAPALBO, Memorie storiche di
Acri, S. Giovanni in Persiceto (BO), Edizioni Brenner, (4) - R. CAPALBO, op.
cit., Ibidem - Ibidem - Quest’ultima, appartenente a una famiglia
originaria di Rogiano Gravina, era sorella di Ferdinando Balsan, letterato e deputato del regno d’Italia nonché
preside del liceo Telesio di Cosenza. Lo stesso figura tra i maestri del nipote
Vincenzo Julia. A. PIROMALLI, La Letteratura Calabrese, vol. I, Cosenza,
Pellegrini Editore,Ibidem (9) - Ibidem (10) - Ibidem (11) - Ibidem (12) -
Per approfondimenti su alcune vicende storiche che interessarono la famiglia
Fusari si rimanda a CAPALBO,- https://juliavincenzo.atavist.com (14) -
Alcuni anni dopo il decesso della prima moglie, si unirà in matrimonio con
Maria Beatrice Antonietta Romano di Acri. Poi sposatasi con Carlo Giannice
Andata successivamente in sposa a Giuseppe dell’Armi - A. Iulia, Momenti, S. Maria Capua a Vetere,
Casa ed. Della Gioventù, p. 36. Si veda anche il componimento intitolato “Alla
Vergine della Sua Stanza”. Questo egregio, sucuifondiamo, abuondritto,non pic
cola speranza, per le diverse prove del suo nobile ingegno fin'ora dateci,
coltiva con forte, inteso amore le filosofiche discipline,tutto solo
rannicchiato in piccol paesuccio delle Calabrie, Acri. Egli, da quello n'è
sembrato, predilige la filosofia di quel sommo Torinese filosofo, che col suo
Primato Civile e Mormale D'Italia fanatizzò tutti isuoi connazionali per la
dupla autonomia del loroPaese,Libertà ed
Indipendenza;econl'Introduzioneallostudio dellaFilosofia, la Pro tologicaed
altre opere speculative ispirò nei cultori di questa no bilissima scienza
l'amore delle nazionali dottrine. Vincenzo Julia a dunque è un giobertiano , un
ontologo , e per lui quindi sta che l'Ente, il Primo Essere, Colui che dà
l'essere a tutte cose, non però spezzandosi, non diffondendosi, nè emanandole
dal suo seno, c o m e ilragnoilragnatelo;ma liberamente creandole;per luidico
sta, che l'Ente, l'Assolutoreale, non astratto,quale il pose,il procla mò
Giorgio Hegel, è il Primo Filosofico, cioè a dire è non solo il Primo Essere o
Primo Ontologico ; ma anche la Prima Idea o Pria mo Psicologico. Sicchè non
solo anno le cose tutte da Dio l'essere loro, ma anche la loro intelligibilità.
Verità già insegnatadal fon datore dell'Accademia , il divino Platone , il
quale disse che l'Idea di Dio è pelmondo intelligibile quello che il sole è pel
mondo visibi le,e che l'essere assoluto dà alle menti nostre l'esistenza e
spande su loro e sugli obbietti della scienza illume della verità« detí v
8.& Tlothuns oùoxv xai adnocías» come il sole, che non solamente rende vi
sibili le cose , m a dona loro eziandio il nascimento , l'accrescimento e la
maturita « τον ήλιον τοϊς ορωμένοις ου μόνον , οίμαι τήν του οράσθαι δυναμιν
παρέχειν φήσεις , αλλά και την γένεσιν αυτών όντα ». Quindi pel'Julia sta quel
metodo detto deduttivo,osillogistico, che dai principii va alle conseguenze,ma
noncome pretendeva ilfondatoredelPeripato,ilqua le facea il sillogismo
posteriore all'induzione, ed il cui scopo non c o n sisteva in altro che in
applicare i principii alle cose particolari a meglio rifermarle. Il Julia ha capito
bene , che l'induzione non può darci punto tanto iprincipii proprii a ciascuna
scienza, quanto iprincipii co muni ed assolutamente universali.I principii sono
ontologici edori ginalmente presenti alla intelligenza, secondo diceva ildivino
Pla tone,e nongià puramente logicied astratti,secondo diceva Aristo tile, che
livoleva prodotti la merce dell'intelligenza con gli elementi fornitici della
sensazione. Nè debbe dirsi che il Julia neghi l'indu zione : ei l'ammette, e
nel senso di venir essa provocata, sostenuta e guidata in noi dal lume di certe
idee generali sempre presenti al l'anima nostra,essendoun impossibile elevarsi
da qualche fatto in dividuale e variabile all'idea della legge generale e
permanente, sen za averci di già nella mente, almeno in una maniera vaga e
con fusa, l'idea di ordine, di generalità e di stabilità. Laonde
dice La foret nella sua Storia dellaFilosofia Antica,in parlando di Aristo tile
« Comment s'élever de la perception de faet contingents et relatif à l'idée de
principes nécessaires et absolus, si le necessaire et l'abso lu sont
entieremant étrangers à l'intelligence? ». Dunque pel Julia , come per ogni
giobertiano, si deve partire di Dio per costruire la scienza filosofica « ossia
dalla idea somma ed improdotta , perché è quel principio supremo che illumina e
rende conoscibili gli altri principiimeno generali e senza di cui non potrebbe
aversi quella sintesi obbiettiva, che argumenta di necessità nel suo moto
organico la gerarchia dei principii scientifici ; e deve radicarsi in un prin
cipio assoluto,supremo,universale,immutabile, ilquale, reggendo colla sua virtù
ogni singolar passo del procedimento razionale, ac corda ed unifica tutti
imomenti del discorso ideale, e tutta insieme 1.umana enciclopedia. Laonde
diceva saviamente nel suo dotto di scorso intorno alPanteismo il Prof. Enciro
Attanasio, direttore del Periodico La Carità diNapoli« Sintesi senza gerarchia
di priucipii io non intendo nell'ordine dell'idee, come non vedo nell'ordine u
mano sociale e nell'ordine fisico di natura. E ingradamento di ge rarchie che
ponga in atto una sintesi universale torna impossibile a concepire pur col
pensiero senza un principio supremo, essenzial mente uno ed immutabile, che sia
il centro immoto che governi i moti del multiplo e del diverso e tragga a sè ed
accordi il multi ploedildiverso». Laonde,lasciandochel'induzionenon condu ca ai
principii , a ciò che è universale , sia che dessa fosse posi tivistao come la
intende ilPositivismo moderno, siache fosse anche nel senso di Aristotile, ci
facciamo a lodare il Julia per avere ei scelto quel sistema, che parte
dall'idea dell'Assoluto reale per co struirela scienza,non
sipotendo,pertanteetanteragionidettee ridette,porsi per primo conoscibileciò
che non è prima cosa; per chè sarebbe, seguendo questa via, un turbare
l'armonia della scien za filosofica; giusta che vien fatto dai psicologi, i
quali partono dal contingente, ed oșano spiegare l'assioma degli assiomi, la
verità pri ma con la verità seconda, e separare l'ordine di esistenza da quel
lodi conoscenza, ilprimopsicologicodalprimoontologico,dando que
stoperprimofilosofico.Diquinonpotremmo essererimproveratiche
atorto,sedicessimo,che iseguacidelpsicologismo diAristotile,(non però di quelle
di S. Tommaso ch'è ben altro, siccome dimostrammo in un'articolo riguardante
questo S. Dottore, già publicato nell'Ate neo di Torino ) siam lontani da una
vera scienza; perché, come dicem mo di sopra, la scienza è con la sintesi, e la
sintesi co'principii,e la gerarchia dei principii scienziali nel principio
sommo, Dio, radica ta.Siechèscienzasull'analesiè
scienzaeffimera,èscienzadinome, essendo disgregazione, e tale è la filosofia di
Aristotile,siccome è conto da quei due principii ammessi da lui « Nihilest in
intellectu,quod prius non fuerit in sensu » e che l'anima nostra si rassomiglia
ed una tavolarasa -- Δείδ'ούτως ώσπερεν γραμματειωώ μηθένυ πάρχει εντελεχεία
γεγραμένον. È quantunque fosse vero,che Aristotile ammettesse l'intelletto
at tivo profondamente distinto dalla sensibilità, essendo quello che
opera 83 $¢%su ciò che ci vien porto dalla sensazione, per tirarne
od indurne avec lemonde intelligible;sun intervention n'apportedonerien de now
eri veau à ce qui est déposé dans l'àme par suite de la perception des 0C sens,
il nepeut qu'exercer son activité et travaillier sur ce qui est racu dans
l'intellect paseif. L'intellect actif d'Aristote nous semble jouer , redans la
formation de la connaessance,un rôle exactement samblable à 1021"celui que
joue la reflexion de Locke; ni l'un ni l'autre n'ajoutent ta rien à l'objet
fourni par la sensation, toute leur action seborné à éla: )doaborer cet objet»
Dunque nonpuò farsi ammeno di ammettere col ret.Julia e la scuola giobertiana
l'apprensione diretta ed immediata , din cioè l'intuito dell'Assoluto, e
ritenere essere questi la prima idea, la l'oprimaconoscenza,che,perla viadiun
primo guardare,vieneal. into:l'intelletto umano nello stato d'intenebramento,
che la riflessione di in poi, la quale èun secondo intuito od un ripiegamento
dello spirito e sopra il primo intuito, chiarifica e fissa, e non già che la si
acqui isti e conosca in forza del raziocinio, passandosi dalla cognizione a
iilistratta, ottenuta per la via dell'induzione, a quella concreta del V e
on& ro Assoluto, avendo ben dimosorato altrove, che i psicologi si tro fost
vino in grande errore, credendo ed insegnando, che Dio siccome ve
fosesritàassiomatica,essendouniversale,necersariaed immutabile,debba 18 essere
astratta,e che vi bisogna di forza indispensabilmente il ra ley ziocinio per
ascendere, mediante essa verità astratta, al vero primo buik ed assoluto,
mentre, siccome facemmo notare in proposito del P. M i lone
Insomma,senzamenarla piùinlungo,dellainsignescuola on anda tologica è il Julia,
siccome l'ha mostrato co'suoi vari scritti di ar veratgomento
filosoficoeconquello, veramentestupendo, Discorsointorno alla vita ed alle
opera di Balsano, in cui, prendendoa consi ost: der ar e questo disgraziato
dotto Calabrese, divenuto vittima del pugnale di un assino, e, considerandolo
non solo quale oratore egregio ed acutocritico,ma anche qualeillustre cultore
dellescienzefilosofi cincche, e forte amatore del sistema ontologico, pa l e s
a a c h i a r e n o t e i suoi O. * pensamenti in fatto di filosofia, che sono
indubitatamente quelli del Pladiotonismo, cristianizzato da Agostino, ammirato
da S.Tommaso e da Dante, divulgato neitempi modernidalGioberti, ed
abbracciatodalla th, maggior parte de'pensatori nostrani. Questo libro del
Julia , che ci avemmo in dono da lui medesi i mo , palesa ad evidenza non solo
la scuola filosofica cui appartie ne; non solo la lucentezza delle idee , ond'è
corredata sua mente ; e
nonsolol'affettoperlapatriagrandezzaquantoapolitica,governo e
civile,scienze,lettereedarti;ma dàancheprovadellaperiziache l'universale ed
elevarci sino alla concezione dei principii; pure non to bisogna dimenticarci
che nella teoria dello Stagirita è desso affatto & vuoto, senza alcun
rapporto diretto col mondo intelligibile, da potersi pelo dire che nella
conoscenza eserciti l'ufficio nè più nè meno della riostruflessione di Locke.Edice
bene ilLaforet «Danz latheorieduSta ta, girite l'intellect actif est tout a
fait vide et n'a nul rapport direct «Profilo Bibliografico pubb. nella Rivista
Itoliana di Palerino ela:Anno IV,N. 11,nonci ha cosa più chiara, che essa
verità assio -artormatica primitiva è obbiettiva in sommo grado,appunto per le
sue veritacaratteristiche di universalità, necessità ed iminutabilità. COSS me
adal tile. // ne 84 ha ei nell'idioma nazionale. Sicchè è a
rallegrarci con lui dei buoni studi,dell'amoredellenazionalidottrine
dell'eccellenzadelsiste ma che ha adottatonelle scienze speculative,anteponendo
(fra idue sistemi che veramente possono dirsi i più perfetti, essendo ambo sin
tesisti, cioè a dire razionalo-empirici od empirico-razionali ) l'onto logismo
alpsicologismo,e, fuggendo, quelloche èpiù, gli eccessi del razionalismo e
dell'empirismo,e quei tali sistemi erronei, idea lismo epositivismo,pei
qualidelira lagioventù moderna,da cui cam minandosidiquestopasso,noncipossiamoattendere,senon
un ar veniresventurato. Prosegue Julia i suoi studii filosofici, e ci offra
lavori speculativi di maggior lena, per poterlo vie meglio ammirarlo, e
rallegrarcene con lui. Delle dottrine filosofiche e civili di G. V.
Gravina per Fer dinando Balsano, con saggio sulla vita e sulle opere del
Gravinapelprof.VincenzoJulia.— Cosenza,Tip.Mi gliaccio, 1880 (un vol.di
pag.CIV-410). G. V. Gravina di Rogiano (1664-1718) è considerato dai più come
poeta e letterato segnatamente pel suo trattato della Ragione poetica,e come
insigne giureconsulto, specie per lasua opera De ortuetprogressujuriscivilis.Ma
eglime rita,sotto un certo rispetto,d'essere altresi considerato come filosofo
e per le dottrine speculative che professava e per quei sommi principii a cui
s'informano i suoi scritti di G i u risprudenza e di Filosofia civile, dovendo
le scienze partico lari e d'applicazione, quali sono appunto le discipline
giuri diche e pratiche.esser precedute ed illuminate da una scienza speculativa
più alta ed universale,cioè dalla Filosofia pro priamente detta. A nostri
giorni il calabrese Ferdinando Balsano si pro pose di far meglio conoscere le
dottrine filosofiche e civili del Gravina, studiando accuratamente e con
intelletto d'amore le opere del suo grande concittadino.Ma ilBalsano,non che
pubblicarlo,non potècompiereilsuolavoro,perchè trafitto dal
pugnaledell'assassino!Ilprof. Vincenzo Juliaha raccolto la sacra eredità del
suo venerato maestro,dettando un'eru dita ed ampia monografia sulla vita del
Gravina, e pubbli candola insieme al lavoro inedito del Balsano. In questa
vita e troviamo uno specchio breve ma fedele dei tempi del
Gra vina, specie riguardo agli studii; la pittura del carattere morale del
pensatore rogianese,un cenno de'suoi numerosi scritti e de'suoi meriti
letterarii. L'opera del Balsano,dettata in una forma quanto castigata
altrettanto elegante ed elevata,contiene una larga esposizione dei pensamenti
del Gravina diretti a coordinare tutte le sue meditazioni di filosofia
speculativa e di morale , di religione
edidiritto,diesteticaed'insegnamento,dipolitica edi civiltà.È
divisainduelibri.Nelprimosiragionadelledot trine civili. Quanto alla filosofia,
dal Balsamo si cerca dimo strare che il Gravina, studioso delle tradizioni
dell'antica filosofiaitalo-greca,siattenne specialmente alla dottrinepla
toniche(comeapparisceanchedall'OrazionesuaDe instaura tione
studiorum),armoneggiandole col progresso della civiltà cristiana,delle scienze
particolari e massime del Diritto,egli cheavevameditatoleoperedeisommi
giureconsultiromani, e che aveva piena la mente ed il petto della grandezza di
Roma antica. Le dottrine platoniche da lui professate gli fecero innalzare la
mente ai principii sommi del Diritto, a meditare la riforma delle dottrine
civili,ed a comprendere la sintesi el'armonia delle parti principalidel
sapere.Difatti, il Gravina vedeva la scienza umana come un'armonia e ricordava
la piramide in cui egli dice espressamente avere gli antichi savi simboleggiato
la scienza umana e la natura delle cose : il che significa che per lui l'ordine
della scienza risponde a quello della natura, l'idealità alla realità; e come
il primo vero è l'idea divina nota da principio all'intelletto creato, così il
primo essere è Dio creatore della scienza e dellanatura.Tutto
l'ordinedeicontingentirealihasuacausa efficiente nell'Assolutoche
licrea;tuttol'ordinedelle cono scenze empiriche ha sua origine nell'idea
eterna, presente sempre all'intelletto umano e norma o tipo a cui si riscon
trano le cose finiteapprese per esperienza sensibile(pag.162). E sotto questo
aspetto può dirsi che ilGravina precorresse al Gioberti,che in cima del sapere
e dell'essere doveva porre Diocreatore.Adunqueilcontemporaneo delViconon segui
le dottrine del Locke, ma invece quelle più elevate di Pla Vol. XXII. 225
Disp. 2. 15 tone e del Cartesio, quantunque non și mostrasse sempre
giusto verso Aristotile. Ma se al Gravina non può negarsi un certo valore filo
sofico, i suoi veri meriti risguardano, più che la Filossfia elaLetteratura,laGiurisprudenza.Preceduto
daAlberico Gentile, da Francesco Bacone e dal Grozio, il Gravina non solo
ricercava l'origine del Diritto e ne indagava iprogressi (De ortu et progressu
juris civilis), ma sapeva altresi elevarsi alle idealità o ai principii supremi
del Diritto. Quindi è che a lui debbono molto la Storia del Diritto,
specie,diquelloromanocheinsegnavainRomastessa,ela Filosofia del Diritto. Il
Gravina, esaminando l'origine e la natura del Diritto, non lo separava dalla
Morale come oggi fanno taluni, perchè nella legge morale,da cui scaturiscono
tutti i doveri umani, trova pure il suo primo e vero fon damento il Diritto.
Egli precorse al Savigny da un lato, al Vico e Montesquieu dall'altro,
interpretando con larghezza di veduta la storia civile e giuridica di Roma. Il
Balsano si era proposto di ritarrre ilGravina non solo qual eminente
giureconsulto, sì ancora qual filosofo civile, mostrando com'egli additasse le
norme eterne d'ogni società umana (che ammetteva come un portato della natura)
nella vita privata e pubblica, nell'ordine privato e politico. Ma
ripetiamo,ilBalsano non potè compiere l'opera sua;la quale delresto,merita di
essere conosciuta e studiatadai cultori della Filosofia e delle scienze
giuridiche, benchè ci sembri scritta con entusiasmo soverchio verso ilproprio
concittadino risguardato come filosofo. DISCORSO Recitato nella sala
dell' Accademia Cosentina ). Piansi,o Signori,nella mia pensosa solitudine,la
morte immatura del caro Fiorentino, che mi fu amico e fratello !; vengo ora a
glorificarne l'ingegno nel tempio della scienza, innanzi al simulacro del
vecchio Telesio, al cospetto di dotti Accademici,di fervidigiovani,dieletti
ingegni,di distinti Professori, che meglio di m e , nato e cresciuto nelle m o
n tagne, potrebbero valutarne i forti studi e la vasta intelli genza. Parlerò
con franchezza, senza adulazioni rettoriche, senza intemperanze di lodi;
dinanzi ad uomini gravi ed a u steri le apoteosi e la rettorica sono un
fuordopera. La pa rola mendace sarebbe un insulto alle ceneri di Fiorentino,
uomo sovero ed aperto, che disdegnò il lenocinio e le bel lezze oratorie, seppe
dire con schiettezza di calabrese la v e rità ad amici e nemici, e fu audace
demolitore del vecchio m o n d o ; inesorabile agl'ipocriti ed ai ciarlatani.
Nella rioca personalità del Fiorentino grandeggia il filosofo ed il pensa
tore;lascio,per ora,ad altri di me più competenti, esami nare il letterato, lo
scrittore, ed il cittadino; io vi parlerò soltanto dell'Autore del Giordano
Bruno;del Saggio Storico sulla Filosofia Greca ; del Pomponazzi e del Telesio;
quat tro titoli di gloria , che basteranno a rendere immortale il nome di
Francesco Fiorentino. 1 Vedi il mio articolo sul Fiorentino pubblicato
nell'Avanguardia n u meri 101-102, riprodotto dalla Gazzetta Calabrese e dal
Calabro in Catan zaro; dal Corriere del Mattino e dall'Ateneo, in Napoli.
L'Italia , o Signori, fu scossa nei principi del secolo, dopo la grande
Rivoluzione dell'ottantanove , dalla parola del nostro Galluppi, che il Gioberti
chiamò il Nestore della sapienza italiana. Senza mistiche intemperanze , senza
voli metafisici, ei richiamò, nuovo Socrate, la mente degli Ita- liani ad
indagare il m e e la coscienza ; a scrutare profon - damente ilsubbietto
umano;e,rigettando lequiddità scola- stiche ed il sensismo di Condillac e di
Tracy, contribui à rinnovare presso di noi il metodo naturale , e fu salutare
reazione all'esorbitanze speculative del secolo decimottavo , Conscio della
esigenza storioa del secolo decimonono,il Gal luppi iniziò presso di noi lo
studio della storia della filoso. fia ; indovino , pur combattendola fieramente
, l'importanza speculativa della sintesi a priori, che in parte accetto ; e,
benchè avesse trascurata la Rinascenza,Telesio,Bruno, Cam . panella, può dirsi
, il vero educatore dello spirito filosofico in Italia. La Calabria, terra
delle grandi iniziative e delle magnanime audacie, si elevò col Galluppi
all'altezza del pensiero moderno, e fu, sarei per dire, la squilla settimon
tana del Campanella, che risvegliò in Italia il pensiero lai
caleedumano,ilpensieropuro eduniversale.IlFiorentino, nella sua prima gioventù
, studiò il Galluppi, ne comprese l'indirizzo storico, o gli piacque la nuova e
socratica spe culazione, che un modesto filosofo iniziava nella estrema
Calabria, sulle rive di quei mari, che ripetono ancor l'eco delle armonie
pitagoriche. Il Galluppi, con le sue serene e casalinghe meditazioni, non
bastava ad appagare il libero ed irrequieto ingegno del Fiorentino , aquila
delle montagne , che volea spezzare le pastoie del vecchio mondo e della
speculazione galluppiana. In mezzo a queste ansie intellet. tive sopravvenne il
Gioberti a scuotere le menti dei Meri. dionali con la magica parola ; ed il
Fiorentino, assetato di ideale e di patria, come tutti i forti ingegni di
Calabria, accettò anch'egli la mistica speculazione giobertiana , o fu
idealista platonico ed ortodosso. E chi potea, pria del ses santa,
resistere al fascino del Gioberti? Chi rinnegare la p a tria, ch'egli glorificò
nelle pagine immortali del Primato ? Il Guerrazzi chiamò il Gioberti scintilla
piovuta dal Vesu vio sulla cima delle Alpi : veramente ci è in lui l'audacia,
la fiamma profetica, la divinazione geniale del Mezzogiorno; ci è Vico e
Campanella , S. Tommaso o G. Bruno ; ci è la fede dei credenti, lo spirito
ribelle dei tempi nuovi, l'ome rica fantasia di Platone , l'austero sillogismo
di Aristotile. Nei dolori dell'esilio,egli scrisse la Teorica del Sopranna
turale, ch'è l'apoteosi della vecchia ortodossia ; riassunge nella Introduzione
tutto il passato teologico e tradizionale, rinnovò il realismo del Medio -Evo ,
sposandolo al pensiero moderno; risuscitò nel Primato, con l'entusiasmo del pro
feta, i titoli della nostra grandezza, e lanciandosi col volo dell'Aquila
alpigiana nel grembo dell'Essere , credette di averne interrogate le
profondità, ringiovanito il vecchio Dio della Scolastica , e sciolti tutti i
problemi con la formola ideale e con l'Ente creatore. Gioberti non arrestossi a
metà; e,ringagliardito da nuovi studî, ingegno audace e progres · sivo,
com'era, accettò gran parte della speculazione moder na, e, spastoiandosi dal
vecchio teologismo, dalle utopie del Primato , inaugurò la nuova Italia col
Rinnovamento ; la nuova Scienza con la Protologia, e la nuova Chiesa con la
Riforma Cattolica , e con la Filosofia della Rivelazione ; sebbene non
interamente emancipato dalla vecchia ortodos sia. Ai tempi che il Gioberti
pubblicò il Rinnovamento, ed il Massari le Opere postume del suo grande amico,
le C a labrie erano chiuse dalla muraglia cinese,ed ilnuovo pen siero laicale
del Gioberti non potè penetrare nei nostri b o schi. La gioventù era ancora
innamorata del misticismo e della formola ideale; i vecchi eroi della
Rinascenza non erano ancora conosciuti tra noi ; o B. Spaventa , esule a
Torino, dove pubblicò dal 54 al 56 i suoi stupendi Saggi Critici su Bruno e
Campanella, era quasi ignorato in Calabria. Il Fiorentino, non bisogna
nasconderlo,avea subito an. Scrisse allora a Napoli il Giordano Bruno , un
Saggio giovanile, come schiettamente confessa l'Autore ; composto nel 1861 in
tutta fretta nelle vacanze , e disteso in soli v e n totto giorni.Quel Saggio,
benchè imperfetto, segna ilprimo momento della critica evoluzione del Nostro in
filosofia, il passaggio , cioè , dal vecchio dommatismo giobertiano alla
speculazione libera e laicale dei tempi moderni. Nello studio del passato il
Fiorentino trovò la spiegazione dei posteriori sistemi;e,poichè non poteva
valutare le teoriche del Bruno, senza risalire alle origini,guardò la Dialettica
nelle scuole di Crotona , di Elea e di Alessandria , e ne rilevò con sa gace
giudizio l'importanza speculativa nel gran dramma del greco pensiero.Si
occupò,egli ilprimo,presso di noi,della stupenda Dialettica del Cardinale di
Cusa, e ne indagò i le gami col sistema del Nolano , dove causa e principio
sono una medesima cosa , e la esteriorità della causa e la inte 1 Leggeva i SS.
Padri in una cella di monaci: ne trascrisse molto ; e ne pubblicò alcune opere
nel 1858, a Messina, voltandole in italiano. 2 Stefano Cusani; G. B. Aiello;
Giuseppe del Re; E. Salvetti; S. Gatti; i Fratelli Spaventa; P. E. Imbriani; De
Meis; Tari; Savarese; Perez; M a n cini;De
Sanctis;Marselli;Trinchera;Turchiarulo;Floriano Del Zio;F. Quer cia ed
altri. pen siero germanico, diffuso nel Mezzogiorno dal 40 al 60 dai più
forti ingegni del Napolitano ?; indovinò la grandezza spe - culativa della
Rinascenza , e si sentì attratto dall'eroica fi gura del Nolano. ch'egli
l'influsso dei Santi Padri ',e,principalmente, come dicemmo, del filosofo
Torinese, che da lui studiato profon damente in gioventù, non fu dimenticato
nella età matura, in mezzo ai più splendidi trionfi del suo ingegno. Venne però
il sessanta, con le sue titaniche audacie, e con le sue immortali demolizioni a
svegliare il Fiorentino dalla sua fede dommatica e dal suo sonno
ortodosso;e,benchè non ancora emancipato dal vecchio Gioberti,si volse a
studiare il riorità del principio
si ricongiungono nell'Uno ,ch'è insie me causa e principio. L 'Uno nel sistema
del Nolano, è to talità assoluta; vale a dire che come principio della forma
zione dello cose è minimo,come totalità perfetta ó massimo; come identità
delprincipioedellafinepigliailnome diUno, ove tutto si assorbe, come in vasto
ricettacolo; ove il pensiero e la realtà si confonde in una identità suprema.
In ciò con . siste il Panteismo di G. Bruno , che il Fiorentino rigetta,
soggiogato dal vecchio Gioberti , confutando l' eccletismo poco omogeneo , gli
ondeggiamenti e le contraddizioni del Nolano , che fonde insieme la Causa dei
Pitagorici, l'Uno degli Eleatici , ed il Principio degli Alessandrini. E pure ,
ad onta delle prevenzioni ortodosse e giobertiane , il F i o rentino non
disconosce le novità laicali, di cui è ricco il sistema del Bruno; la
maggioranza del pensiero, la menta lità, che splende come intelletto divino,
mondano , partico lare,ed ilconcetto direlazione,ch'è tanta parte dellaPro
tologia del Gioberti , e costituisce il verace assoluto ; l'asso luto , cioè ,
della moderna speculazione. Dallo oscillare del Bruno tra la Scolastica e la
Rinascenza deriva che il finito ora è una vana parvenza, ora la massima realtà;
ed il N o lano ondeggia tra Eraclito e Parmenide , tra il flusso c o n tinuo e
la rigida immobilità. Il Fiorentino mette Giordano Bruno in relazione con
Spinoza e Schelling , ne nota col solito acume le differenze e le somiglianze,
o conclude che i tre filosofi si rassomigliano nella prospettiva generale del
sistema, hanno il medesimo intendimento di unificare la scienza e
d'immedesimarla col mondo ; cercano fuori del pensiero il centro della loro
unità , e costituiscono quella serie di Panteisti, che si dicono obbiettivi;
l'Uno, la Sostan za,l'Assoluto sono tre creazioni parallele.Il Fiorentino ana
lizza del pari la Dialettica di Hegel e di Gioberti , m o n u menti immortali
della moderna speculazione, e nota che in Hegel e Gioberti contrastano due
tradizioni, due filosofie, e due nazioni; la filosofia della creazione e la
filosofia della identità, il cattolicismo ed il razionalismo,
l’Italia, patria di S. Tommaso o di Dante,e la Germania, patria di Lutero e di
Göthe. Fiorentino, senza sconoscere la importanza della filosofia tedesca,
glorifica la vecchia formola giobertiana, il cattolicismo e la rivelazione;
rigetta quasi il pensiero m o derno, desidera il rinnovamento della antica
filosofia italia, na,e,collocandosuglialtariilGiobertidella Teoricaedella
Introduzione, chiude il Saggio con queste parole: «Giova « netto ancora,sognava
che il nome di V. Gioberti suone « rebbe terribile sui campi di battaglia, e
venerando tra le « arcale della Università. Quel mio sogno giovanile si è av «
verato in gran parte e la indipendenza e l'unità della « mia patria,propugnata
da quel grande statista, è presso « a compiersi; mi sarebbe ora assai dolce il vedere
una « scuola ed un'accademia iniziarsi, diffondersi , giganteg « giare in quel
nome si caro ad ogni italiano, con quella « formola,che assomma la scienza e la
fede dei nostripa. « dri. Da esse soltanto noi potremo sperare giovani, c o m «
pagni di quelli che combatterono a Curtatone, e cacciarono « gli Austriaci da
Varese e da Como.» Giordano Bruno portò il Fiorentino ad uno studio più
accurato della greca filosofia, di cui è anche specchio e ri produzione,inbuona
parte,laRinascenza italiana,dellaquale il Nolano è l'eroe ed il martire.
Professore straordinario di Storia di filosofia a Bologna nel 1862, il
Fiorentino si diede a studiare alacremente e con tenacità di calabrese
Aristotile e Platone.Si fatti studii, come racconta egli stesso,gli apri rono nuovi
orizzonti, gli allargarono la vista intellettiva, o gli fecero scorgere
ildifetto fondamentale della filosofia gio bertiana. Fiorentino si allontano
dal vecchio Gioberti, non colcuore,sibeneconlamente,ch:ifortiamori deigiovani
anni non possono dimenticarsi.Rude e franco calabrese,intel
lettoaustero,ilFiorentinosiemancipò dalla scuola filosofica ortodossa,quando si
convinse che il mito e la leggenda pre valevano sulla pura speculazione, sul
pensiero libero o laicale. La critica, che Aristotile fa di Platone,a cui
Gioberti si rassomiglia,fece schivo il Nostro dal mescolare immagini ad idee, e
lo inimicò con le metafore filosofiche la severa, m a ineluttabile critica di
Aristotile; non i Tedeschi lo c o n vertirono alla nuova filosofia , degna dei
tempi moderni, si bene il rigido, inesorabile Aristotile Cosi Fiorentino scese,
calabro atleta, nella arena della greca filosofia, e gio vine ardente fu
trasportato lungo le sponde dell' Ilisso , tra gli alberi fragranti, che ne
ombreggiano il margine ; sotto il bel cielo di Omero , tra le dispute di
Socrate, i simposî platonici , e le austere meditazioni dell'Accademia. Sapeva
egli fondere ed accordare insieme l'idea greca all'idea ca labra, rappresentata
nei tempi antichi da Pitagora, e tutte e due al nuovo pensiero laicale del
Rinascimento , rappre sentato presso di noi da Telesio e Campanella. Ringiovani
così il pensiero , irrigidito nelle ferree strette della Scola stica e del
vecchio Gioberti ; e farfalla , ch'esce a poco a poco dal suo involucro;
montanaro calabrese, che si trasfi guraman mano sottoilsoffiodeinuovi
tempi,sisentìumano ed universale nei Dialoghi di Platone e nella Metafisica di
Aristotile.La Grecia fu infatti la terra dove sbocciò ilfiore dell'Arte, e
germogliò il seme dell'umana ragione ; fu la patria del pensioro speculativo,
della Dialettica, e della C a tegoria, a cui metton capo ipiù vasti sistemi
dell'antica e dellamoderna filosofia.Fu lapatriadiPlatone,cheperge nialità e
divinazione speculativa, per universalità di pensa menti , per movimento
drammatico , per colorito artistico e finezza di dialogo, grandeggia su tutti i
filosofi; egli fonde in sè l'eloquio facile e maraviglioso di O m e r o e
l'attica b e l lezza di Sofocle. La vecchia Grecia s'idealizza e si trasfigura
nel gran discepolo di Socrate; la speculazione diviene arte e dramma, ed il
pensiero , chiuso nei c ancelli di Talete e di Eraclito, abbraccia ilmondo, si
fa universale ed umano,a n Vedi Filosofia Contemporanea in Italia, p.
152, 153, Napoli, 1876. ticipa il Cristianesimo e preludia all'età
moderna Egli fonde, come disse bene il Ferrai, in una grande unità isofisti e i
politici, gli artefici e i guerrieri ; uomini , donne , vecchi, fanciulli,
schiavi e liberi, e in questo mondo in azione ti si fa duca e maestro, innalzandoti,
migliorandoti, affinando le tue facoltà, spesso spirandoti nell'anima un sacro
entusiasmo per il buono , per il vero ; quell'entusiasmo , aggiungo io , che
crea i grandi fatti della storia, e quei capolavori del l'arte, che si chiamano
Convito ed il Fedro, ove si spec chiatuttoilsorriso dell'Ionio mare,l'apollinea
bellezzadei Greci , il fascino di Diotima e di Aspasia ; la morbida poesia
dell'Attica e l'arguta ironia di Socrate ; divina bellezza , m u . sica arcana
, che rende unica la Grecia tra le nazioni più civili e più artistiche del
mondo . N o n volendo abusare della vostra bontà , o Signori , io m i restringo
per ora a Platone ; che ci porterebbe assai lungi il voler discorrere
completamente del Saggio Storico sulla filosofia Greca ; discutere ed esaminare
Aristotele e quanto altro riguarda le Categorie ed i problemi della filosofia m
o derna , di cui si occupa il Nostro nel suo stupendo lavoro. Il Fiorentino
scrutò con animo libero e spassionato la vec chia speculazione
ellenica;laGrecia anteriore a Socrate,ove campeggiano le grandiose figure di
Talete, di Senofane, di Eraclito, di Parmenide , di Anassagora ; o dove si
elabora a poco a poco l'idea platonica e la categoria aristotelica . È un
quadro ricco di pensiero, ed anche di poesia,che con vivi colori ci tratteggia
ilFiorentino con quella sua ge nialità, con quella lucida esposizione, che
tanta grazia a g giunge ai suoi lavori speculativi; incantevole lucidezza, che
ritrae i limpidi Soli diffusi sui patrî vigneti e sulle marine di Cotrone ...
Il Saggio Storico sulla filosofia Greca sarà s e m pre, secondo il nostro
debole parere, l'opera più bella, più geniale del Fiorentino ; ci è il profumo
e l'entusiasmo della gioventù, ci è la vita artistica, anche in mezzo alle
severe meditazioni del pensatore ; quella vita, che solo può dare la
Giorn.Napol,Vol.I.- Gennaio 1885 (Nuovissima Serie). 6
gioventù , nella sua più rigogliosa fioritura ed espansione. Ciò
nonostante,spassionati estimatori dell'ingegno del nostro amico , riconosciamo
in quel saggio lacune ed imperfezioni, che l'autore medesimo, uomo schietto e
leale,vi riconobbe, ricco di nuovi studi sulla lingua, sulla filosofia, sulla
lette ratura greca ; dotto nel tedesco e conoscitore profondo dei moderni
lavori alemanni su Platone ed Aristotile. Intanto facciamo notare che il
cardine fondamentale della critica del Fiorentino furono le idee platoniche e
le categorie aristo teliche , che sono e saranno sempre le colonne e le pietre
granitiche dell'umano pensiero. La critica platonica (come nota il Chiappelli
nel dottissimo studio sulla interpetrazione panteistica della dottrina
platonica) si è a giorni nostri ri fatta da capo ; e la quistione si aggira sui
fondamenti di tutto il platonismo, valeadire,sulgenuino valoredelladot trina
delle idee, che forma il centro del sistema platonico. Dalla interpetrazione di
codesta dottrina dipende quella di tutto il resto del sistema ; è il
presupposto , da cui , come tanti corollarii, scendono tutte le altre parti di
questo m o numento immortale del genio greco,che scosso dalla potente critica
di Aristotile , travisato dal Neo -platonismo , rivive anche oggi , dopo le
vicende di tanti secoli. Varie e con traddittorie in ogni tempo furono le
interpetrazioni delle idee platoniche;furono scambiate,ora con gl’ideali
estetici,che vagheggia l'artista, ora ritenuti come generi logici e c o n cetti
intellettivi,ed ora come gli eterni paradimmi del divino artefice,modelli
esemplari delle cose, e quindi esistenti per sė;laquale interpetrazione,che
sitrova diffusatraiNeo platonici,traiPadridella Chiesa,ed in tuttoilMedio-Evo,
anche oggi è sostenuta da valorosi critici. È certo poi che le idee in Platone
sono trascendenti , immobili e separate dalla materia,e che carattere
principale del Platonismo è la irreconciliabilità tra l'idea e la materia, tra
l'intelligibile ed ilsensibile:Le piùingegnose interpetrazioni deicriticimo.
derni,e massime del Teicmuller,che fa di Platone un Panteista, non han potuto
colmare l'abisso,che nel greco filosofo separa l'idea dal cosmo, l'elemento
intelligibile dall'elemento materiale. Relegate, come sono, le idee in un mondo
inac cessibile, non possono esercitare nessuna influenza, nè sul l'essere, nè
sul divenire delle cose sensibili, nė spiegare il formarsi delle cose
medesime.Anche la relazione delle ideo con Dio, osserva il Fiorentino ', rimane
indefinita; le idee non hanno causalità, perciò la causa efficiente deve
trovarsi accanto a loro , o concorrere con loro alla formazione dei mondo ...
Platone non tenta neppure di conciliare Iddio con le idee ; perciò accanto alla
speculazione tu trovi ancora il mito, non come semplice ornamento,ma come
elemento in tegrale del sistema... Solo è certo che l'altissima idea è per
Platone quella del Bene ; la quale ora s'immedesima con la ragione divina, ora
è quella, a cui guardando il Demiurgo dà forma al mondo ; se non che non si può
risolutamente affermare che il Bene s’immedesimi con Dio,ch'è un dato della
tradizione piuttosto che della filosofia , ed in Piatone non essendo chiara
quella immedesimazione , non riesce perfetto il collegamento tra le idee e la
mente divina, ed il sistema delle idee riesce poco coerente , e sempre o n
deggiante ed incerto. Il Fiorentino nel Saggio slorico rigettò la
interpetrazionedelle idee platoniche come riminiscenze di una vita anteriore,
come modelli e paradimmi del mondo, come pensieri divini ; e ritenne che
Platone non è sempre lo stesso ne'suoi Dialoghi ; giovane filosofo da poeta,m a
turo senti bisogno di spiegare la scienza,e ricorse alle idee ; negli ultimi
anni adottò il linguaggio pitagorico a proposito delle idee , e le considerò
come numeri. La dottrina delle idee platoniche , trattata davvero
scientificamente , consiste pel Fiorentino nei Dialoghi il Teeteto , il
Sofista, ed il P a r . menide. Il Sofista prepara il Parmenide, a cui dà il
fonda mento ed ilprincipio;ed ilParmenide sostituisceallame. 1 Manuale di
Storia della Filosofia, Parte I, p. 61-65, Napoli, 1879. 1
tessi ed ai simulacri la relazione, ch'è la vera natura e la vera condizione di
tutte le idee ; è la loro vita e fecondità . IlFiorentino,austero
intellettoelibero pensatore,preferiva alla lirica del Fedro e del Simposio ,
alla epica narrazione del Timeo ildramma ideale del Parmenide.Fiorentino scrutò
profondamente i tre dialoghi platonici , o ne rilevò il vero significato. La
scienza, egli disse , non è sola sensazione e sola opinione, come vogliono
iJonici, ed ecco ilsignificato del Teeteto; la scienza non è la sola cognizione
dell'Uno,come pretende Parmenide,e neanco dell'essenze immobili ed ir relative
dei Megarici;ed ecco ilsignificato del Sofista.La scienza è l'una e l'altra
opinione e cognizione, relazione di entrambe ; ed ecco il risultato ultimo del Parmenide
; tanto vero che, senza la relatività delle idee, il Parmenide rimarra sempre
un enimma, il sistema di Platone un leggiadro tes suto di favole, di
reminiscenze oltremondane ed assurde, e di sperticate idealità. Scrutando
meglio il Sofista ed il Par . menide, Fiorentino asserisce che il principio da
cni muove Platone nel Sofista , ossia l'Ente , e quello da cui m u o v e
nelParmenide,ossial'Uno,sonolostesso principio;senon che l'ento è rigido,
immobile, indeterminato, e l'Uno è determinato, e produce i Molti. L'uno è il
medesimo e dil diverso del Molli; come viceversa il Molti si può dire mede.
simo ed altro dell'Uno; tanto che, a parere del Fiorentino, abbiamo nel
Parmenido esplicito ildiverso e l'altro; sebbene rimanga in Platone nell'ombra
la causa della estrinsecazione della idea, e l'apparire della materia. Platone
non colse la vera natura dell'altro,che non può essere nè un'essenza,nė
un'idea;sìbene una relazione;egliperciò oscillò dall'uno all'altro di questi
due termini,per trovarvi la materia, ed, irresoluto, la fè credere una volta
essenza,ed un'altra idea. Pare che in tutte queste sottili ed ingegnose
interpetrazioni del Fiorentino entrasse un po ' il sistema e la critica moderna
dell’Hegel , sempre caro al Nostro , come quegli che fu la sintesi più stupenda
del pensiero laicale tedesco,da Lutero a Kant. Felice Tocco, di cui tanto
si onorano le Calabrie, nelle sue dotte Ricerche Platoniche, esplicitamente
osserva che il Fiorentino interpetra il Parmenide di Platone alla maniera di
Hegel , e che , ad onta delle argute considera zioni sulle stonature della
Dialettica platonica, nou tenne iu conto il fare negativo di tutto il dialogo.
Il trapasso, dalla teorica della metessi e degl’influssi a quello della
dialettica assoluta,èun saltocosìsmisurato,chedifficilmentepotrebbe farsida un
uomo,per vastissimo ingegno ch'egli abbia,sopra tutto nel tempo,in cui la
speculazione è ancora sul nascere, ed i sistemi filosofici sono appena
abbozzati.E ingiusto per ciò, conchiude ilTocco, ilraccostamento della
dialettica platonica all’egheliana, e non bisogna interpetrare con Hegel
Platone,etrasportare ilmondo antico nel mondo moderno!! Alla origine e natura
delle idee è intimamente legata la Dialettica platonica ; essa non è altro , se
non che la legge dell'intreccio ideale, il modo come si forma il Logo , o la
Ragione universale ed assoluta. Il ritmo della Dialettica vera di Platone,
secondo la interpetrazione del Fiorentino,è nel Parmenide ; il contenuto del
quale si risolve in una trilo gia,di cui la prima parte presenta la idea
solitaria dell'Uno, e l'annulla;la2.lamedesima idea appaiata con quella del
l'essere, e con essa in contraddizione ; la 3. risolve la con traddizione nel
momento, ch'è il diventare; momento e di venire,che sono mutuati dalla
dialettica Hegeliana,e rendono infide e soverchiamente moderne le
interpetrazioni del Fio rentino. Egli era convinto, quando scrivea il Saggio
Storico, che la dialettica Hegeliana è modellata sulla platonica, e che le
prime tre categorie del filosofo alemanno, l'essere, ilnon essere,ed ildivenire
ricordano l'uno, l'ente, ed ilmomento del Parmenide. La Dialettica platonica ,
monumento gran dioso dell'umano pensiero, ispirò in ogni tempo gli Artisti ed i
Filosofi; ed ilFiorentino conchiude che Goethe v'im 1 Op. Cit.pag. 132-133,Catanzaro,
1876. Lo studio della filosofia greca fece rientrare il Fiorentino
nel mondo moderno,ch'egli avea sfiorato col lavoro giova- nile del G. Bruno ;
il greco pensiero, che più degli altri è pensiero umano ed universale, ricondusse
il nostro alla R i nascenza,la quale, se inizia l'epoca moderna con le ribel
lioni speculative del Bruno, del Telesio e del Pomponazzi , usufrutta con
Telesio e con Bruno la parte viva ed immor . tale della greca
filosofia,ilconcetto della natura,autonoma od assoluta, e l'idea dell'Infinito
generante.Il Fiorentino,in gegno fecondo e progressivo,accettò i pronunziati,
gli ardi menti , o ,le ribellioni della Rinascenza ; nelle fresche c o r renti
della natura ei sentì ringiovanirsi, ed il suo 'pensiero divenne più ampio ed
umano . L'epoca della Rinascenza è, o Signori , un'epoca gloriosa , battagliera
, o titanica ; la Scolastica è assottigliata ; la cavalleria ed il feudalismo
se ne vanno;la Teocrazia perde ilsuo prestigio,e la sua uni versalità ; la
poesia si emancipa dai terrori mistici ; alle fo. sche pitture del trecento
succedono i freschi colori del T i ziano e del Correggio ; nasce lo Stato
laicale, e Machiavelli crea la storia moderna. I filosofi rappresentarono in
questo gran dramma una parte gloriosa,e specialmente ilmantovano Pomponazzi,che
per audacia speculativa,per energia di ca rattere è uno degli eroi più spiccati
del Rinascimento ita liano. Il Fiorentino, che come fiero calabrese e libero
pen satore,era naturalmente attratto verso i grandi precursori ed apostoli, si
mise a studiarlo con coscienza di filosofo e p a zienza di critico; sgobbò sui
polverosi volumi in folio, si chiuse come un vecchio anacoreta nella sua cella
di Bologna; ed affrontó con leonino coraggio l'intolleranza e lo scherno
degl'insipienti , le beffe dei gaudenti, che senza forti stu lii, 86
GIORNALE NAPOLETANO parò la movenza del Dialogo ; Hegel il severo ragionamento
; il Vico vi attinse lo schema della Scienza Nuova ; Rosmini il principio del
Nuovo Saggio ; ed a quell'opera immortale bisognerà ricorrere ogni volta,che si
vorranno scandagliare davvero le origini dell'umano pensiero senza accurato
lavoro vogliono , con la veduta corta di una spanna,giudicare gli uomini serî
ed austeri,gli uomini che sacrificano tutto sull'ara del pensiero e della
scienza ; indomiti o tetragoni nei loro propositi ; Capanei,che muoiono e non
si arrendono. Pomponazzi insorse fieramente contro la Scolastica, e contro la
greca filosofia; e nello spiegare la natura dell'a nima, ed il processo del
conoscere non ha esitato punto,nè riprodotte, come altri fecero, le incertezze
aristoteliche. Sgombrate tali perplessità, il filosofo mantovano si liberò
dall' intelletto separato di Averroè , dell'intelletto agente dello Afrodisio,
senza però emanciparsi del tutto dagl’in flussi e dalle intelligenze superiori;
ondeggiante ancora, come tutti gli uomini della Rinascenza , tra la Scolastica
ed il mondo moderno ;tra S. Tommaso e Giordano Bruno. Stremò , è vero,
Pomponazzi la trascendenza in filosofia; con siderò l'intelletto umano come
sviluppato dalla potenza della materia ; ma non volle attribuire all'intelletto
dell'uomo la concezione dell'universale ; e disconobbe la vera m e diazione,che
l'uomo fa tra lecose eterne e caduche.Egli scruta insistente i più ardui problemi
metafisici, religiosi e morali, la Provvidenza, il Fato, la Libertà, la
Predestinazione e la Grazia ; e porta in tutte queste discussioni la novità e
l'audacia,proprie dei filosofi del Rinascimento ;piega più dalla parte della
determinazione fatale degli Stoici che da quella della vuota determinabilità
dell’Afrodisio; che l'arbitrio non può essere primo movente;e l'aver compreso
il difettodella dottrina della libertà , come è in Alessandro ed in Aristo
tile; l'aver intravveduto nel fato stoico maggior ragione volezza costituisce
uno dei massimi pregi della critica del Pom ponazzi . Disconobbe inoltre il
valore assoluto delle R e ligioni; ne spiegò con ragioni naturali l'origine, il
fiorire, la decadenza ; le riconobbe portato dello spirito, eterno ed irrequieto
viaggiatore, che tutto rinnova e distrugge. Con questa divinazione il
Pomponazzi fu anche precursore dei nuovi tempi, e della scuola moderna ;se
non che mancogli la perfetta coerenza nelle dottrine,e non si sollevò al con
cetto profondo dello spirito, come lo intendono i moderni. L'ingegno del
Pomponazzi , benchè novatore e ribelle, non si era completamente spastoiato dal
vecchio mondo scola stico ed aristotelico ;ei non poteva ai suoi tempi
cancellare del tutto il Dio di S. Agostino e di S. Anselmo; non po teva
scartare intieramente la Provvidenza oltremondana , von poteva combattere a
viso aperto le tradizioni della fede o r todossa. Ei però aveva intravveduto
che al Dio estramon dano , collocato fuori la coscienza , dovea fra poco
succedere il Dio intimo e vivente; che la vecchia forma religiosa do vea
ringiovanirsi e al Motore immobile di Aristotile dovea succedere l'Infinito di
G. Bruno. È questo il merito pre cipuo del Pomponazzi , che a buon dritto deve
chiamarsi il precursore della Riforma e del mondo laicale moderno ; e l'averlo
saputo rilevare con sagacia di critico coscienza di storico è gloria del
Fiorentino. Ciò segna un altro m o mento importante nella evoluzione critica e
speculativa del Nostro ; la quale avrà il suo compimento ed il suo massi - mo
splendore nel Telesio,e negli studii sulla idea della N a tura nel Risorgimento
italiano. Il Telesio infatti costituisce l'ultimo e più splendido momento
speculativo e storico del Fiorentino, il quale rap presenta perciò in Calabria
il più alto grado , la più alta manifestazione
dellacriticastorica,edilcompletosvegliarsi presso di noi della coscienza
laicale ed u m a n a ; rappresenta la continuazione della
Rinascenza,ingrandita, però,trasfor mata e divenuta pensiero europeo ed
universale coi Saggi critici di B. Spaventa. Fu primo lo Spaventa in Italia a
dare la debita importanza a Bruno ed a Campanella , ed a tutta la filosofia del
Rinascimento , rivendicando gli eroi del nostro pensiero, ed i martiri obbliati
della ragione. « L ’ I talia, disse B. Spaventa , apre le porte della civiltà m
o « derna con una falange di eroi del pensiero. Pomponazzi , «
Telesio,Bruno,Vanini, Campanella,Cesalpino paiono figli « di più nazioni. Essi
preludiano più o meno a tutti gl'in « dirizzi posteriori , che costituiscono il
periodo della filo « sofia da Cartesio a Kant ... Vico è il vero precursore di
« tutta l'Alemagna... » (Prolusione alle Lez.di fil. nap.) Le austere parole e
i forti ragionamenti del filosofo abruzzese eccitarono il potente ingegno di
Fiorentino,e co.. ine il nostro schiettamente confessa , lo fecero orientare in
quell' arruffio, ch'è la speculazione della Rinascenza , e lo innamorarono di
quel periodo filosofico, che prima si con tentava di ammirare, senza averne
perfetta e matura cono scenza,piuttosto,perseguire ifacili lodatori che per
veder ne realmente l'importanza coi proprii occhi. Educato dalla critica nuova
e poderosa dello Spaventa , Fiorentino percorso da padrone e da maestro il
campo glorioso della Rinascenza italiana, e v'impresse orme da gigante.Gli
uomini nuovi od audaci;imartiri dell'idea piacquero tanto a Fiorentino,ed
eis'immedesimò loro,aspirandone l'immortale profumo,ed il soffio della
giovinezza. La Calabria, che, senza conoscersi , spesso si vilipende e si
schernisce,non era per lui barbara c selvaggia, covo di briganti, e nido di
cannibali; era in vece terra di filosofi, di critici, di poeti ; culla di
martiri e di eroi, terra artistica ed originale,a cui,ultimo tra gl’in gegni
calabresi,consacrai tutto me stesso,e per la quale non cesserò di combattere,
finché avrò forze, finchè in Italia vi saranno uomini senza coscienza storica e
senza carità di patria. La Calabria (e perdonate questo amore indomabile alla
mia patria nativa , alle mie care montagne ) seppe a n ch'essa indovinare e
comprendere i tempi nuovi , uscire dal fondo de'suoi burroni,e mettersi a paro
coi più grandi eroi della Rinascenzaitaliana.La Calabriaseppe anch'essa com
battere con la sua selvaggia vigoria lo impero , la scuola ,
edilpotereteocratico.Ilcalabropensiero,che ancorasiac
cusadiangustiaemunicipalità,è,com’iodimostrai,un pensie ro,non solo nuovo ed
originale,ma eziandio italiano,europeo ed umano . Universale in filosofia,
inizid con Telesio lo stu dio dellanatura,sconosciutaaipadrinostri,velatapertanto
tempo dalle ombre del Medio-Evo;nel tetro carcere della Vicaria creò col Serra
la scienza economica ; con Galeazzo usci dal cerchio della poesia provinciale ,
e fuse nel calabro Sonetto la vigoria di Dante e la musica del Petrarca ; pre
corse col Campanella a Descartes ; e con Gravina anticipo Vico e Montesquieu, o
creò la nuova critica italiana. Fiorentino , che , com'egli stesso canto , avea
Saldo il voler ne le virili imprese, E indomita la tempra calabrese, innamorato
della vecchia Calabria, fa rivivere con magiche tinte le belle ed eroiche
figure dei padri nostri, il Parrasio, A. Telesio, il Martirano, il Quattromani,
il Tarsia, T. Cornelio,M. A. Severino,loSchettiniecc.;filologi,poeti e critici
precursori , che usciti dal fondo dei nostri boschi illustrarono le prime
Università, e diedero un potente i m pulso al Rinascimento italiano, col
fondare e promuovere quella stupenda Accademia Cosentina, segno in tutti i
tempi di odio inestinguibile e di amore indomato,la quale è tanta parte del
dramma grandioso della Rinascenza;diede all'Ita lia grandi latinisti da emulare
il Poliziano , il Sannazaro , il Fracastoro , e sorpassarne altri con Coriolano
Martirano; porta scolpito il fatidico motto : Donec totum impleat orbem ;
decrescit numquam ,nec fulmine laeditur;e servi di modello a tutta Europa col
Telesio per la scoverta del vero metodo naturale. Sotto questo doppio aspetto
la vide l'occhio sagace del Fiorentino, e stupendamente la illustrò ,
sollevandola a quel posto, che merita, e meriterà sempre, finchè le tradi zioni
del pensiero laicale ed umano rimarranno vive in C a labria,e ne trasformeranno
lavita,l'arte,elaspeculazione; finchè vi saranno uomini insigni come il
Presidente Sca glione,ed ilSegretario Greco,che ne accresceranno le glorie e
l'importanza , continuando l'esempio dei loro illustri a n tenati, che noi,
gaudenti e borghesi , abbiamo dimenticati, sconosciuti , e fino scherniti....
Il Fiorentino , che il dotto Canonico Scaglione avea precorso con lo
studio sul Telesio, pubblicato negli atti dell'Accademia fin dal 1843,
studiando a fondo, al lume della nuova Critica, le opere del filosofo
cosentino, proclama che il Telesio inaugura i tempi moderni, ritiene la Natura,
come il principio universale delle cose , il ricettacoloditutteleforme,e,come
schietto naturalista,ri. getta Aristotile e la Scolastica, la Teosofia, e la
Magia . Il Telesio, evitando la contraddizione aristotelica , che rompe l'unità
della natura,parte da una materia primitiva ed uni ca,e da una contrarietà
universalissima, ilcaldo ed ilfred do , nature agenti , dalla cui azione sulla
materia nasce la generazione e la corruzione. Telesio , pur ritenendo la
necessità di un'opposizione universale e di un'unica materia, il che era anche
ammesso d'Aristotile , ne ha profondamente modificato il valore. La forma
aristotelica, ch'era sempre assoluta ed estranaturale, non gli parve principio
naturale , e la sbandì , e la rigettò dalla sua filosofia, con la rude
franchezza del calabrese . In una parola , la natura non ha mestieri per essere
spiegata di principi, che non siano naturali; e così fu vinto e sor passato il
Medio -Evo, e la Filosofia delle Scuole. Il soffio giovine e fresco delle
nostre montagne spazzò lo nebbie sco. lastiche , e Telesio , meditando gli
arcani della natura nel suo ameno podere, sito sulle rive pittoresche del fiume
Coraci, fu veramente il precursore di Bruno e di Galilei, l'u omo nuovo ed
audace, che scrolla il vecchio mondo medie vale, ed inaugura l'epoca moderna.
Telesio, rigettando l'entelechia aristotelica, vi sostitui una sostanza sottile
, mobile , lucida, che per lui costituiva il principio della vita;semplificò
inoltre ilsistema del natu ralismo,tolse ildissidioimmenso,che funel Medio-Evo
tra la natura esterna e l'organismo vitale , e fuse insieme nel suo novello sistema
la Fisica e la Biologia . Fiero ed i n e sorabilo calabrsse, rovescio tutto,
non diè quartiere ad Ari stotile ed alla Scolastica , o combattė senza
ipocrisia , ed a fronte scoverta; diede una nuova teorica
dell'anima, sorpas. sando il Fedone platonico, e l'intelletto universale di Ari
stotile; fondò sul senso la conoscenza, ed ammise il mondo etico come un
effetto e risultato naturale. Nel vasto dramma telesiano, che il Fiorentino
stupen damente tratteggia, brilla di nuova luce il martire di Nola , il quale,
ebbro del nuovo Dio, dell'Infinito generante, e della Natura,allarga efeconda
iconcetti delfilosofocosentino,éd accetta pienamente il naturalismo . Il vero
assoluto rimane però in lui un punto oscuro,dove i contrarii si affondano e
spariscono; il Nolano, più che cogliere con l'atto intellet tivo l'assoluto,
vuole trasformarsi in lui, e divenire Iddio. E leroico furore, che lo trasporta
in grembo dell'Infinito, non il sillogismo speculativo, e la serena
meditazione; l'ebbrezza dell'amante, che lo trasfigura in grembo alla di vina
Anfitrite.Bruno,uomo del Mezzogiorno, nato presso il Vesuvio,ha scosso in ogni
tempo la mente dei pensatori, ed il cuore dei poeti. Eroe leggendario del
pensiere, ca valiere errante della scienza, mistico o ribelle, inesorabile
flagellatore dei cucullati pedanti, egli che avea vestita la bianca tunica di
S. Domenico, ilBruno percorse,si può dire, da un capo all'altro l'Europa
disputando, combattendo,af. frontando ilvecchio Aristotile,laciarlataneria
delleScuole, e l'infallibilità dei dottori. Vilipeso e adorato, schernito
glorificato , ora debole innanzi a'suoi carnefici, ed ora su - blime ; tradito
a Venezia dal Mocenigo , suo discepolo ed ospite, è consegnato al Sant'Uffizio,
dissacrato e condan . nato a morte. Quando in Roma gli fu letta la sentenza, Bruno,
con calma eroica e tremenda ironia, ha il coraggio di profferire innanzi ai
giudici queste memorande parole: « Maggior timore provate voi nel pronunciar la
sentenza contro di me,che non io nel riceverla .»Il 17 Febbraio 1600, l'eroe
della verità, e del pensiero laico fu legato come un volgare malfattore ad
un'antenna,e,bruciato vivo in Campo di Fiore, imperterrito il Bruno non mandò
nè un sospiro, nè un lamento; le fiamme furono la sua apoteosi;e benchè
le sue ceneri fossero state disperse al vento, corsero l'Eu ropa come polline
fecondatore, e vi propagarono i semi del libero pensiero, e della filosofia
moderna.... F. Fioren tino, pensatore e poeta,che dopo più maturi studî avea ac
cettata in tutta la sua pienezza la Rinascenza , ritorna su G. Bruno , e lo
vede nel Telesio sotto un nuovo punto di vista; e se prima,nel suo lavoro
giovanile, lo avea rigettato, come panteista ed antimistico, ora lo guarda , e
lo ammira come ilveroeroe delpensiero,l'araldoeilmartire della nuova e
liberafilosofia;degno, come disse B. Spaventa,di avere un posto accanto a
Prometeo ed a Socrate. Quel che FIORENTINO scrisse di SPAVENTA, permettete , o
Signori, che io lo riferisca al nostro fiero concittadino : « Il grande «
ideale del filosofo per Fiorentino era il Bruno ; pari forse « avrebbero avuto
il fato, se fossero vissuti nella stessa età. FIORENTINO guarda il rogo con lo
stesso corag . « gio; BRUNO avrebb » disprezzato con la stessa serenità, « non
il rogo, ma qualcosa di peggio,quella rete sottilissi. « ma di cabale, onde la
turba ignara circonda gli animi al « teri;che tentano slacciarsi da maltesi
agguati: non ilrogo, «ma lacalunnia divota:dopo ilTorquemada ilTartufo: <
siamo ben progrediti noi. » Il vecchio Dio della Scolastica si assottiglia in
G. Bru . no; in lui si fondono Dio e l'Universo; la creazione è svi luppo di
Dio stesso, processo necessario , che rende cono scibile e reale l'attività di
Dio : in una parola, il Dio del Nolano non vive se non per la natura,e nella
natura:fuori e senza di lei sarebbe un'astrazione ed un fossile. La n e cessità
della creazione, che il Bruno insegna a viso aperto, lo mette di accordo col
futuro naturalismo spinoziano , e lo fa precursore della moderna filosofia
alemanna. La filosofia del Rinascimento , incarnata in Telesio ed in Bruno ,
per avere considerato l'assoluto , come natura , ha preparato il grande
avvenimento dello Spirito, la cui speculaziane inco 1 2 1
mincia con la coscienza cartesiana. L'infinita natura , ini ziata da un
Sofo di Calabria,è la gran parola della R i n a scenza e dei tempi moderni !...
Telegio e Bruno preparano inoltre la vasta speculazione di Tommaso
Campanella,indo mito Frate, che sopporta,con la fiera costanza del Calabrese 26
anni di carcere,ed un giorno intero di torture. Permet tete,o Signori,ch'io
m’inchini al martirio di Campanella, ed al rogo di G. Bruno ; martirio e rogo ,
che sono la gloria del Mezzogiorno,e del libero pensiero;la condanna più elo.
quente dei feroci persecutori dell'umana ragione. CAMPANELLA, che sublima alla
dignità di principio speculativo la divinità latente del Bruno, è il vero tipo
dell'uomo cala bro, ricco d'ingegno e di cuore, intemperante, battagliero,
audace , iniziatore. È uomo originale e contraddittorio ; fa l'apoteosi della teocrazia
e della Spagna, della scolastica, del Medio-Evo,e poi scrive la Città delSole,
e vagheggia la democrazia ed il socialismo, la sovranità del libero pen siero,
e lo Stato laico moderno. Ei fonde in sè due età di verso , la età della fede ,
e l'età della ragione ; Platone ed Aristotile , Telesio ed il Cusano ;
l'austero sillogismo del pensatore,e le vaporosità dell’Astrologo;le
apocalittiche visioni dell’Abate Gioacchino, o la fredda sottigliezza del
Machiavelli; l'ossequio alle somme chiavi, e l'audace ribellione di Lutero. Campanella,
stupendamente tratteggiato da FIORENTINO, ritorna , come metafisico , a
Platone, ed al Medio-Evo; come sensista e psicologo, anticipa, nella teorica
del senso e della cognizione, Cartesio, ed il mondo moder no . Ei proclama la
identità del pensiero e dell'essere; se non che sì fatta unità non acquista la
forza di vero prin cipio, e Campanella,ad onta delle sue stupende divinazioni,
ondeggia ancora tra lo schietto naturalismo ed il sistema delle cause finali.
Alla filosofia naturale , che tolse in p r e stito ed usufruttuò dal nostro
Telesio, CAMPANELLA aggiunse una metafisica, che ne rimase staccata; mettendo
ogni sforzo per levarsi alle categorie supreme della natura e dell'essere, non
seppe applicarle alla natura, e con tutta l'energia p o derosa di assurgere
all'Unità, restò nella opposizione, ch'è il carattere principale del
naturalismo. Il solo naturalismo, chiarendosi col Campanella impotente a
spiegare la genesi della Natura, non potė, esso solo, sciogliere il gran
problema del mondo moderno,e conciliare l'universale col particolar :;
ricomprendere il senso in una forma di pensiero più larga, dove l'opposizione
riapparisse trasformata ed unificata in una sintesi suprema e dialettica. Tale
fu il progresso a p portato nel naturalismo, o nella filosofia moderna da
Galileo e Descartes; tali sono le glorie del nuovo pensiero, antimi stico e
laicale , iniziato da due filosofi, nati tra i selvaggi burroni delle nostre
Calabrie. Fiorentino,dopo aver richia mato alla memoria degli Italiani. Cornelio
, e Severino, glorie dell'Università Napoletana , e filosofi telesiani; dopo
aver valutato la importanza del Galilei e del Bacone, si arresta col Descartes
alla soglia della filosofia moderna, lieto che la speculazione filosofica si
stacchi dalle scienze naturali,preliminare,per altro,necessario nella evo
luzione del pensiero moderno,e siposi nel Cogito cartesiano. La natura si
emancipa, il pensiero si scioglie, e diviene più libero e più snello; lo
Spirito , che tutto ringiovanisce e trasforma, fondo ed armonizza Telesio e
Bruno , Campanella e Galileo , Bacone e Descartes, e la silvosa Calabria entra
co'suoi filosofi, e coi suoi profeti, co’suoi martiri, e co'suoi precursori nel
dramma glorioso del mondo moderno. Vi rientra sotto l'impulso del Fiorentino ,
che, nato presso Stilo, tocca di nuovo la squilla dimenticata del Campanella ,
annunzia ai giovani calabresi l'aurora di nuovi giorni, la completa
emancipazione dalla Scolastica e dal Medio-Evo; lar isurrezione del pensiero della
Magna-Grecia, fuso, ingrandito, trasformato nel pensiero moderno. La Calabria e
l'Accademia Cosentina non potranno dimenticarlo ; non potranno disconoscere
l'austero filosofo, che ne illustrò stupendamente le glorie, e con magico
pennello ne ritrasse gli apostoli, e gli eroi , rivendicando i padri
nostri al c o spetto di un secolo banchiere e borghese. La morte lo colse ancor
giovine sulla soglia del tempio del Rinascimento; glo. ria al virile sacerdote
della scienza,che muore, adempiendo il suo dovere , mentre si folleggia,
deridendo gli eroi del pensiero,imodesti operai del mondo moderno,e sigittalo
scherno sulle ossa dei grandi precursori della nuova Filosofia e della nuova
Critica. Io ho fede che la gioventù ca labrese, così ricca d'ingegno e di
cuore, cosi amante delle patrie glorie,avrà un culto per gli uomini,che muoiono
sulla breccia, martiri della scienza e della patria; per le anime generose,che
non curano le amarezze della vita, l'esilio,la povertà, la carcere,ed
accettano, fino le torture di Campanella, fino il rogo di G.Bruno. Ho fede che la
Calabria si rinnovi nel lavacro della Rinascenza e negli studii virili
delpassato,elagentileedotta Cosenza, riccaperme di care e dolorose
memorie,prodiga di tanto sangue alla patria, di tanto contributo d'ingegno alla
storia del pensiero italiano, s'ispiri nell'austera figura del più grande dei
suoi figli, il cui busto parla tra il verde degli alberi la gran parola del
Risorgimento alla nostra gioventù. Ho fede che l'austera parola del filosofo di
Sambiase non suoni più nel deserto, e la sua tomba, su cui piansero amici e
nemici,sia un'ara dove le novelle generazioni attingano iforti propo siti, e,
quel che più ci preme,la serietà della vita, l'abnegazione, il sacrifizio, ed
il libero pensiero. Così,o gio vani, non sarò costretto a ripetere gli amari
versi dell’austero poeta di Recanati. Oggi è nefando stile Di schiatta ignava e
finta Virtù viva sprezzar lodare estinta. Vincenzo Julia. Julia. Keywords:
implicatura, filosofia calabrese, Campanella, Telesio, Sanctis, Leopardi,
Mazzini, Garibaldi, Gioberti, Spaventa, Hegel, Aligheri, Serra, Bruno. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Julia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Juvalta – implicatura – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Chiavenna). Filosofo italiano. Grice: “At Harvard, I said I was ‘enough of a
rationalist,’ but perhaps Juvalta would say that wasn’t enough!” – Grice:
“Juvalta has explored the limits of rationalism, in connection with value and
reason: if value is irrational, how can co-operation be rational in terms of an
accord to follow conversational maxims?” essential Italian philosopher. Ogni
sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già
riconosciuto il valore morale è dunque vano e illusorio. O non dà quel che si
cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare.» I genitori sono il
barone Corrado Juvalta, cancelliere della locale pretura originario di Villa di
Tirano, e Teresa Zanetti di Tirano. Dopo gli studi liceali trascorsi tra Como e
Sondrio, si iscrisse a Pavia dove si laureò con una tesi su Spinoza, sotto la
guida di Cantoni. Successivamente insegna a Caltanissetta, Potenza, Spoleto. Vinse
il concorso per la cattedra di filosofia a Torino. Le tematiche accademiche
prevalentemente trattate riguardarono soprattutto i valori di “libertà” e di
“giustizia” con ampie riflessioni etiche. Convinto della loro generalità e
universalità, arriva ad auspicarne una loro applicazione anche nello studio
delle categorie politiche ed economiche. La filosofia di Juvalta è una profonda riflessione sull'etica portata
avanti con il metodo dell'analisi. Anche se, come risulta dalla sua, non
troviamo nei suoi scritti importanti contributi sul piano gnoseologico ed
epistemologico, dal momento che il suo principale campo d'indagine fu
prevalentemente il Sistema morale, possiamo affermare senza dubbio che sia il kantismo
che il Positivismo costituirono il nucleo di fondo della sua posizione, da cui
sviluppò la sua impostazione metodologica. Il positivismo, in
particolare, è stato il primo grande sistema filosofico con cui si è misurato
nella prima fase della sua elaborazione concettuale. Tuttavia Juvalta sarà
costretto a prendere presto le distanze da una siffatta visione della morale. I
motivi di questa rottura sono da imputare principalmente al suo fermo rifiuto
di accogliere come sostenibile la pretesa positivistica di fondare l'etica sulla
scienza. Il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso
e non deducibile dal giudizio col quale ne afferma l'esistenza o la possibilità
o la connessione modale o condizionale con altri soggetti. Apprendere come le
cose sono, è tutt'altra cosa dal valutarle. Dal momento che l’etica si concreta
nella costruzione di una teoria ed in particolare di un sistema coerente di
valori morali, il giudizio che sta alla base di una qualsivoglia teoria etica
deve configurarsi come “un giudizio originario” che ha una natura eminentemente
etica, quindi non scientifica né tantomeno metafisica. Se però una etica
scientifica appare insostenibile per il motivo dell'indebita derivazione di un
giudizio di valore, di natura morale, dal giudizio ‘aletico,’ di natura
fattuale, è indubbio che la costruzione di un sistema morale debba essere condotta
con criteri di scientificità. Nella misura in cui ogni teoria si basa su
criteri logico-deduttivi e viene definita dalle relazioni logiche che
intrattengono in essa i propri elementi costitutivi, così anche la costruzione
di un sistema etico deve seguire la stessa metodologia e mostrare possibilmente
l'identica costruzione formale. Questo sistema di valori ha l'obbligo di
mantenere al loro interno un imprescindibile grado di coerenza, se vogliono
risultare sostenibili ed essere così accettati dalla ragione (pratica). Quando
parla di ‘teoria’ dell’etica lo fa proprio pensando a questo carattere logico-deduttivo
dei valori all'interno di un sistema. In particolare vede garantita la coerenza
di un sistema morale nella misura in cui un coerente insieme di valori viene
rigorosamente derivato (volitativamente) da un postulato, imperativo
categorica, o assioma, di valore morale capace di fungere da premessa
all'intero sistema (allora come insieme di massime universalisabili). Una volta
prese le distanze dai positivisti, si avvicina successivamente al Kantismo; in
particolare accoglierà, anche se con alcune riserve, molte delle posizioni
assunte dal cosiddetto Neokantismo, il movimento di pensiero che ha come
obiettivo la ri-valutazione piena del filosofo di Konisberg riadattando i
contenuti del suo pensiero ad esigenze e problematiche tipiche della
contemporaneità. Vede in Kant il più grande filosofo della modernità, colui che
meglio di qualsiasi altro pensatore ha saputo cogliere il vero senso
dell'autonomia della morale, svincolando per sempre l'etica dai saperi di
natura conoscitiva (aletica, pura, o giudicativa), i quali, proprio in quanto
si rivolgono all'ambito del fenomeno, non riescono a coglier interamente tutto
ciò che ha a che fare con la sfera dei valori (come per esempio la scienza e in
generale l'ambito teoretico). L'indipendenza e l'indeducibilità del valore
morale da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e
affermata, nella forma più esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Kant ha
il grande merito di consegnare alla morale uno speciale statuto di autonomia e di
indipendenza. La morale esprime questo suo carattere di autonomia e di “auto-assiomaticità”
per poter continuare ad essere coerente e allo stesso tempo attendibile sotto
il profilo puramente teorico. Abbracciare l'idea di autonomia della morale
significa accettare una visione anti-fondazionalista dell'etica. L’etica non
può prendere le mosse che da se stessa. Ogni tentativo di fondare l’etica su ambiti
del sapere diversi da quello morale, finisce con il configurarsi come
un'indebita pretesa di intromissione da parte di chi si illude di derivare un
contenuto del valore morale da una premessa fattuale o metafisica o estetica.
Alla base di un sistema coerente del valore morale, cioè un sistema morale
costruito deduttivamente, deve esserci un postulato originario (assioma o
imperative categorico) di natura etica e non di natura aletica o peggio ancora
metafisica, e questo per questioni eminentemente logico-analitiche, che
impongono ad ogni sistema coerente di evitare la fallacia logica della petitio
principii, cioè l'errore di voler caparbiamente dimostrare ciò che invece
abbiamo già implicitamente accettato nelle premesse. Una volta
riconosciuto il contenuto di quel postulato morale e pensato come un valore che
può essere vissuto ed accettato da un soggetto agente e concreto, allora si
creano i presupposti di base perché una coscienza riconosca in esso
un'intrinseca validità, che trova una sua precisa giustificazione solo a
partire dalla sua intima natura assiologica. È proprio questo suo riferimento
al contenuto del valore morale che lo costringe a rivedere i limiti di una
filosofia morale incardinata su binari formalistici e a non accettare tout
court la filosofia morale di Kant. L'ambito della giustificazione e
l'ambito esecutivo. Assumere come principi della ricerca etica l'autonomia,
l'antifondazionalismo, l'antiformalismo porta Juvalta a distinguere l'ambito della
giustificazione, cioè il momento riflessivo che ci vede impegla ricerca di
ragioni che possano difendere razionalmente la scelta di un fine e di un valore
morale, dall'ambito esecutivo che invece coinvolge il momento motivazionale
dell'azione ed è fortemente condizionato da elementi contingenti legati al
momento storico, inter-soggetivo, e culturale nel quale il soggeto si trova ad
agire. Con un atteggiamento tipicamente moderno difende la possibilità
dell'esistenza di una pluralità di fini morali sia sul piano teorico che
pratico, e con la stessa energia cerca di trovare una soluzione per definire le
precondizioni teoriche che rendano possibile una compatibilità tra i diversi
valori. La modernità define un passaggio epocale e pieno di tensione nel
campo della filosofia morale ed ha segnato il tramonto di un'unica, grande e
coerente visione dell'etica. Con l'avvento dell'epoca moderna si è fatta strada
l'idea del tutto legittima dell'accettazione di differenti sistemi di valori e
di diverse visioni del mondo, i quali trovano, da questo momento, una loro
precisa dignità e legittimità in virtù delle ragioni che le diverse dottrine
filosofiche hanno saputo elaborare in favore della loro sostenibilità. Invita a
prendere coscienza di questo cambiamento di prospettiva e a considerarlo,
asetticamente, come un passaggio dal vecchio problema della morale, in cui il
fine principale era la ricerca di una fondazione dell'etica e di una
giustificazione dell'esigenza del bisogno di moralità all'interno di ogni
coscienza, al nuovo problema della morale riassumibile nella domanda; come
possiamo decidere i beni e i valori desiderabili in sé una volta che abbiamo
accertato l'esistenza di una pluralità dei postulati di valutazione
morale? La scelta del fine supremo e i limiti del razionalismo etico Juvalta
vede nel momento della determinazione della scelta del fine supremo, il cui
contenuto costituisce la base per il postulato di valore primario, il
principale limite del razionalismo etico. La razionalità può solamente
giustificare, cioè portare ragionamenti a favore di una tesi, o stabilire
relazioni e deduzioni tra elementi di un sistema, in questo caso valori, che
sono legati dalla loro stessa natura; ma essa non può imporre i fini. La
razionalità accetta, per così dire, il giudizio di valore morale come un dato,
ma non lo può stabilire lei in via preliminare perché nel campo etico la
razionalità non riesce a cogliere interamente la natura dei nostri giudizi di
valore. La ragione dei mezzi per quanto si faccia non dà valori; la
ragione esige la coerenza; teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e
i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le
valutazioni direttamente o postulate, e delle azioni con le valutazioni. Le valutazioni
sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide di per
sé…” I valori ultimi di Libertà e Giustizia Tuttavia il messaggio di
Juvalta contiene anche un aspetto propositivo, non secondario. Anche se esiste
una pluralità di valori che la coscienza può scegliere come fini, i quali si
costituiscono come le linee guida della nostra condotta individuale, una volta
adottato il criterio razionale di ‘universalizzazione’ del valore è possibile
intuire che le scelte si riducono rispetto a quelle che la ragione può
immaginare come possibili e, soprattutto, viene meno la completa arbitrarietà
della scelta originaria. E convinto che due valori su tutti debbano essere
visti come i fini supremi su cui improntare la nostra vita e organizzare
le nostre società, vale a dire, primo, il valore morale della libertà; secondo
il valore morale della giustizia. Libertà e giustizia costituiscono le pre-condizioni
della vita morale e gli unici due valori morali, tra quelli possibili, che
risultano “universalizzabili”. Essi sono le sole precondizioni che permettono
ad ogni essere umano di realizzare il proprio fine e di raggiungere i propri
beni (valori), in vista di una totale e piena realizzazione della natura umana,
senza limitare la ricerca della moralità dell’altro. Libertà e giustizia
rappresentano per così dire i cardini di ogni sistema morale con i quali poter
impostare se non un vero e proprio ripensamento di ogni pratica umana almeno
una profonda critica ai modelli di società dominanti quali l'individualismo
liberale, l'autoritarismo o la proposta socialista. La libertà esprime
l'esigenza delle condizioni inter-soggettive necessarie a fare dell'uomo una
persona padrona di sé di fronte a sé e di fronte ad ogni altro. La giustizia
esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggetive necessarie all'esercizio
universalmente efficace di questa libertà. Non fu un pensatore sistematico e
non cercò mai di definire un sistema filosofico che rendesse ragione
dell'organicità del suo pensiero. E sostanzialmente contrario a ingabbiare la
riflessione filosofica in grandi narrazioni o in arbitrari sistemi, dal momento
che era fermamente convinto che il pensiero soprattutto etico sfuggisse per
così dire all'idea di sistematicità e organicità che aveva così profondamente
caratterizzato la maggior parte del lavoro filosofico ottocentesco. D'altra parte questo non significa che non
esiste un'evoluzione all'interno della sua riflessione, o che la sua proposta
nel campo della filosofia morale non trovi una sua coerenza e una struttura di fondo
ben definita. Saggi: “I due limiti del razionalismo etico: liberta e giustizia”
(Einuadi, Torino). Contiene:“ Prolegomeni a una morale distinta dalla filosofia”
(Bizzoni, Pavia); “Le dottrine delle due etiche” in «Rivista filosofica», “Per
una scienza normativa morale”; in «Rivista filosofica», “Il fondamento
intrinseco del diritto”; “Su i limiti della morale” (Bocca, Torino); “Il metodo
dell'ECONOMIA pura nell'etica, in «Rivista filosofica»); “Postulati etici e
postulati metafisici”; in «Rivista di filosofia»: “Postulati etici e imperativo
categorico,” «Atti congresso di filosofia» (Bologna)(Formiggini, Genova); “Sula
pluralità dei postulati di valutazione morale” in «Atti del congresso della
società filosofica» (Genova) (Formiggini, Genova); “l vecchio e il nuovo
problema della morale” (Zanichelli, Bologna); “In cerca di chiarezza”; “Questioni
di morale”; “I limiti del razionalismo etico” (Lattes, Torino); “Il con-flitto
morale”; in «Rivista di filosofia»; “La dottrina morale di Spinoza”; in «Rivista
di filosofia», “D. Basciani, L’etica della giustizia” (Desclèe, Roma); F.
Picardi, La morale in Juvalta” (Filosofia, Marzorati, Milano); M. Viroli, “L'etica
laica” (Angeli, Milano); Juvalta, «Rivista di storia della filosofia», Angeli, Milano, Dizionario Biografico degli
Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Guido Scaramellini,
Chiavennaschi nella Storia, Chiavenna, Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Again, these Italians! I know that
I had I been one, I had been ‘il filosofo di Harborne’ – now Juvalta, they
doubt as to how Italian he can be seeing that he is listed in Scaramellini’s
little book, “Schiavennaschi nella storia”!” Grice: “Unlike me, Juvalta is a
baron, from the ‘grigioni’ – i. e. the grey league – because of the grey wool
they wore --. ‘grissone,’ as in my surname, so in a way we ARE related!” ” IL
VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale. IL FONDAMENTO DELLA MORALE. Sula pluralità dei postulati di
valutazione morale. IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE SUE FORME Se la saldezza di
un giudizio dovesse giudicarsi dall'accordo delle dottrine che cercano di
stabilirne il fondamento, nessuna specie di giudizi sarebbe piú incerta dei
giudizi morali. Se così non è, se i giudizi, o almeno alcuni, sono, nonostante
l'incertezza del fondamento, riconosciuti e ac- colti come validi
incontestabilmente, può apparire legittimo il dubbio, o che il «vero»
fondamento non sia ancora trovato, o che non si possa trovare: cioè che il
problema sia insolubile. E in questo caso: se sia insolubile per difetto di
mezzi, ossia per radicale nostra incapacità a risolverlo; o perché è un
problema mal posto, cioè nella forma con la quale si presenta, illusorio e
fittizio. Dichiarando subito che a mio credere il problema è insolubile, ed è
insolubile perché fittizio, m'è appena necessario di soggiungere che ciò non
equivale in nessun modo (come potrebbe parere a prima vista) a ritenere prive
di significato ed infeconde le indagini e le discussioni delle quali fu lie-
vito, né tanto meno ad ammettere che, rimosso il problema fittizio, nessun
problema gli sottentri, anzi non ne rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare
come e perché un problema sia mal posto, non è altro in effetto che la
preparazione necessaria a sostituirgliene degli altri. Il problema del
fondamento è ispirato primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme
da una preoccupazione pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale
ha ragione; che quel che essa suggerisce o prescrive è veramente bene che la
sua autorità è legittima e deve es- sere rispettata. Ora un tal modo di porre
il problema presuppone manifestamente che su ciò che la coscienza morale
prescrive non cada dubbio; o che, se il dubbio sorge nasca non da incoerenza o
opposizione di criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di
interpretazioni e di giudi- zio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda
con la osservazione di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè
nei limiti nei quali corrisponde a una convinzione universale salda- mente
stabilita, non è questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa
accettare o re- spingere i dettami della coscienza morale, secondo che si
accordano o no con la dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno
accettare e respingere una dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a
dar ragione della loro certezza, a mostrarne la validità. Questa preoccupazione
pratica spiega l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un
problema radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni
giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei
ragionamenti un potere; illusione che si rivela nelle forme piú svariate e
negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade, cosa notissima, che a cia-
scun sistema riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri,
che provare la sufficienza propria. Il problema fu infatti inteso in modi
diversi, e la soluzione cercata in direzioni corrisponden- ti, distinte e
chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e
sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno
stesso sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo noi fare, cioè volere ciò
che la coscienza morale ci detta», che è la forma piú larga e indifferenziata
in cui il problema si esprime, suggerisce quattro te- si o tipi di soluzione
diversi: I. Considerare i principi e le norme morali come «verità» di cui si
cerca il fondamento in una realtà obbiettivamente data alla coscienza. II.
Dimostrare la bontà di ciò che la morale prescrive, cioè derivarne le norme da
un fine ossia da un bene o ordine di beni (qualunque ne sia poi la natura) che
ne giustifichi l'osservanza. 5 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta III. Provarne l'autorità; e cercare di
questa autorità il fondamento: a) sia nella storia; b) sia in una volontà
distinta dal volere personale e che si impone ad esso. Ciascuno di questi tipi
di soluzione deve essere esaminato piú brevemente che sia possibile, ma
esaurientemente. Sulla pluralità dei postulati di valutazione morale. La
persuasione che i principi morali, i criteri di valutazione, le norme della
condotta, non so- lo possano ma debbano avere il loro fondamento in un ordine
di verità accertabile teoricamente, cioè si possano ricavare da rapporti o
leggi validi obbiettivamente, in nessuna altra forma forse ap- pare piú
chiaramente che in quella della questione, dibattuta con tanto accanimento, se
la morale si fondi sulla scienza o sulla metafisica, e nella natura degli
argomenti messi in campo così dall'una come dall'altra parte. Perché la
«scienza» si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva appello la
metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria ed
incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente
valido; e la «metafisica» insisteva nel porre in evidenza la relativi- tà, la
contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità di
attingere in essa al- cuna verità necessaria ed universale, e perciò una
qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di do- veri. Ora l'uno e l'altro
tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di
questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa
d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia
riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè
dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore,
smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non negabile
per la sua massiccia eviden- za: che si trovano degli uomini di sincera e
provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine. Né vale
l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci siano
delle per- sone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano
logici o siano coerenti con se stessi; os- sia se con quelle dottrine si possa
ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare. Perché una
tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto
perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una
connessione necessa- ria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non
possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto
del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una petizione di
principio. Il criterio morale a non si legittima se non col principio teorico
A; se troviamo accettato a con B con C con D e non con A, vuol dire che quella
coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi che sono illogiche le
menti che non connettono a con A invece di riconosce- re semplicemente l'altra
alternativa: che è possibile così l'una come l'altra connessione, che non vi è
nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A? Appunto perché, se si
ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi con prin- cipi
teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né sull'uno né
sull'altro, cioè che la fon- dazione teorica è illusoria. Insomma il
ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza a
una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa
che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se
si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica,
una certezza che non ci dovrebbe essere. «Tu qui! Ma è impossibi- le!» dice la
metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo
rimbecca l'empirista alla morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché
dove la morale si trova, ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con
lei di averla ospite1 in casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto
l'osservazione che questa possibilità di coesistenza indifferente è soltanto
apparente, perché dovuta a difetto di riflessione e di rigore logico; e sia
inattendibile, perché dove si avvera, manca la 7 Su la pluralità
dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Ma se questa
fondazione extra-morale della morale è illusoria, donde nasce l'illusione e di
che si alimenta? Quando il sociologo afferma che le norme morali esprimono le
esigenze della vita sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che
si tratta di vedere non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a
tali esigenze e soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli «leggi»
scoperte e che si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo
fondamento; ma si tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il
valore della società, dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo
di formazione e di incremento della civiltà il valore della civiltà, in una
parola, dai rapporti condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza,
qualunque scienza, formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono
bensì far attribuire un pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza
condizionale e causale di un valore da ciò che, appunto per tale connessione,
diventa a sua volta un valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato,
posto, riconosciuto come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio
assiologico su ciò che ha relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú
delicate meraviglie della vita non bastano a darle il benché mi- nimo pregio se
non si riconosce già come bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai
quali può esser volta: anzi non sono «meraviglie» se non perché si illuminano
di questo valore finale. Che la civiltà e la cultura siano da preferire alla
barbarie e all'incultura sembra dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia
ammesso o sottinteso — come accade in effetto — che abbiano piú di pregio o di
dignità o di desiderabilità certe facoltà e attività e forme di condotta che
certe altre, cioè quando sia già posto e accettato un criterio di valutazione.
Pare a prima vista una pedanteria. Non si riconosce infatti da tutti che la
vita valga la pe- na di essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole,
non sentono nell'istinto profondo smenti- re la loro negazione? Ammettiamo
senza discutere, sebbene la cosa non sia così liquida come pare, l'universalità
del consenso od almeno dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo
apprezzamento della società e della vita, questo riconoscimento di valore è
posto, è dato dalla scienza; se questa voce dell'istinto, questa volontà di
vivere abbia o no l'autorità che le si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di
sapere, insomma, se chi vedesse nella società e nei suoi frutti un groviglio di
miserie e di vergogne possa trovar mai nella sociologia la confutazione del suo
giudizio; e se a chi trovasse la vita un limbo in- differente possano le leggi
della biologia farla apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della so-
ciologia o della biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se
fosse muto, e autorità, se non ne avesse, alla sua voce2. competenza richiesta.
Un libriccino pubblicato dal LALANDE alcuni anni fa (Précis raisonné de Morale
pratique, Alcan, 1907) si distingue dai molti consimili nostrani e di fuori
(qui non occorre accennare ad altri pregi) per questa circostan- za
caratteristica: che il catechismo morale che vi è esposto e spiegato era stato
sottoposto all'esame e aveva raccolto il consenso esplicito dei piú noti e
autorevoli moralisti di credenze e di opinioni filosofiche diversissime. La
testimonianza dei «competenti» veniva in questa occasione a confermare quello
che è un luogo comune della storia delle dottrine e della pratica morale: che
sul valore e sul contenuto delle norme morali siamo tutti d'accordo, perché
tutti siamo d'accor- do, quanto all'essenziale, nel giudicare la nostra
condotta o l'altrui: Tutti «quali che siano le convinzioni filosofiche e
religiose ed anche se non abbiamo in proposito convinzioni di sorta» (VARISCO,
Massimi e problemi, Metafisica e morale. E il Varisco, come è noto, è persuaso
che una vera morale implichi una Metafisica «definitiva»). Quanto all'accordo
sul «contenuto» forse, come si vedrà in seguito, pare piú largo di quel che in
realtà non sia. Ma qui si tratta del valore. Quanto poi alla «Metafisica...
definitiva» si chiede: a che stregua si giudicherà la metafisica adatta a
fondare la morale? Non si ammette già che il criterio sarà fornito dall'accordo
con la «vera morale» e cioè, dunque, che la vera morale è già data prima e
fuori della Metafisica? Neanche è da credere che tutto si riduca a questo
salto; e che superato il passaggio incolmabile dall'effetto al fine e dalla
conoscenza al valore, fatto proprio dalla scienza il presupposto iniziale di
valutazione che essa non può dare, ogni difficoltà di questo genere sia
allontanata. Sulla pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta Quel che non può dare una
conoscenza empirica non può dare una conoscenza metafisica, se non a patto di
intendere già per conoscenza metafisica la conoscenza non di una realtà
«intelligibi- le» e in quanto è intelligibile, ma di una realtà già apprezzata
o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando il
Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere
è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose,
e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e
deve diventare modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro
volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto
di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine
dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La
sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è
già pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in
quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non
implica nessun apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in
quanto è speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada
che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un
ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto
esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore (in
qualunque entità esso sia riconosciuto), non l'esistenza delle cose; e la
realtà è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci
presenta realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile
dall'altro appare manifesto dalla ne- cessità di assumere, secondo la profonda
e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfe- zione come sintesi
dei due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne,
dell'esisten- za e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in
relazione con un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una
finalità; e la finalità implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà.
Ed eccoci alla sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un
criterio di morale dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da
qualsiasi dato o legge o induzione o verità teore- tica, sia scientifica, sia
metafisica. Una realtà data o possibile non può dare un criterio di valutazione
se non la si considera co- me una finalità, ossia se non le si riconosce un
valore. E il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso
e non deducibile dal giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possi-
bilità o la connessione modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere
come le cose sono, è tut- t'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le
leggi naturali come leggi morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le
condizioni utili a una forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma
diversa. Ad ogni nuovo passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza
obbiettiva la valutazione, si rende necessaria una scelta; e la valutazione se
anche non è espressa, e sot- tintesa. Caratteristica, a questo proposito è la
affermazione del Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè
«un'arte razionale fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il
posto della «concezione immaginaria di un ideale» (La Morale et la Scienze des
mœurs). Questa «conquista metodica» della realtà sarà pur guidata, — e non può
essere altrimenti — se non da un idea- le, ché ogni ideale è soppresso,
dall'idea di qualche cosa che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma
quale è il criterio di questo meglio? di quella amélioration che, come dice
poche righe piú sotto delle parole citate, non bisogna di- sperare di portarvi?
Questo criterio non può essere il reale stesso che bisogna modificare e
migliorare; sarà dunque, di nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce.
«L'ombra sua torna ch'era dipartita». Il pragmatismo, anche per chi è
pragmatista, qui non ha nulla da vedere. Può essere verissimo che anche la
nostra conoscenza sia stimolata, sorretta, guidata, controllata da un interesse
(l'interesse teorico) e come tale sia, anzi è senz'altro, un valore
(intellettuale): ma ciò non muta d'un ette la distinzione notata. Sulla
pluralità dei postulati di valutazione morale. Ora la conoscenza, o è
teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di fatti come so-
no, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli; o li interpreta e li
giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non preferibili,
superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non piú conoscenza
soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e del disutile, del
bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di valutazione che essa
non trova nelle cose se non per- ché ve l'ha già posto, e ponendovelo ha
ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teori- co, ma è pratico
nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi del
pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta non
soltanto la molla che spinge a ricer- care e a trovare le distinzioni tra gli
oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si
intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi
di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi
parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli
uni dagli altri, di pretendere che un giudi- zio di ciò che è, possa servir di
fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, ap- parirà piú
manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso
e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò
si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e
scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza. In breve (e trascurando
le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive): La realtà si può
interpretare come sistema di forze e come sistema di valori. Se si interpreta
come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, cono-
scitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni
valutazione; sia essa co- struzione scientifica, sia metafisica, empirica o a
priori, monistica, dualistica o pluralistica. Se queste forze si giudicano cioè
si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o
un conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della
realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della Provvidenza
diventano il modello o il cri- terio del giudicare morale; e il fondamento
della morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa
come scienza o come metafisica. Ma perché quelle forze siano apprezzate come
valori occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e
perché i fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il
processo della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già
dato e riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla
conoscenza della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo
il principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento
della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della
realtà quell'anima di be- ne che crede di estrarne come suo principio e
fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione
metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco.
La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni
interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava
piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti
obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva
trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la
propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la
moralità come un prodotto na- turale o un risultato meccanico di un giuoco di
forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la tenden- Senza volontà di
conoscere non ci sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui
lasciar di discu- tere; ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come
sono cioè come appaiono a chi non è mosso da altro inte- resse che quello del
conoscere; e il valutare è giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in
conformità all'interesse teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del
conoscere, cioè a interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e
via dicendo. Altro è dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il
fresco quei che vi passano l'estate. za costante dell'«etica scientifica» a
identificare il problema nel fondamento col problema dell'ori- gine, la
valutazione con la spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità
come criterio di moralità. E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente
mettere in chiaro l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della
scienza quanto piú sentiva non solo non estranea, ma legittima, ma implicita
nella propria costruzione della realtà, una interpretazione teleologica; ed era
avvezza a considerare la morale come sua pupilla perché... ne amministrava il
patrimonio. Ma se il problema della fondazione teorica, nella forma classica,
e, direi (nel senso piú bello della parola), ingenua, di derivazione dei valori
da una realtà, è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità,
o si riduce a una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar
scoperto dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale
attraverso Kant si è venuto via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare
nella conoscenza della realtà la prova che le nostre valutazioni sono «vere»,
poiché le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui
generis, valide per sé; ma di sapere se su questi dati valutativi si può
costruire una conoscenza oggettiva; se i valori morali siano prova
dell'esistenza di certe condizioni e di quali; se sia possibile, non trovare
nella realtà il fondamento del valore, ma trovare nel valore il fondamento della
realtà. Il problema si aggira sempre in ultimo attorno al medesimo dubbio: se
il mondo, la natura, la vita abbiano un si- gnificato morale, se l'anima
dell'universo guardi al medesimo fine che la coscienza morale; se gli sforzi
della volontà buona siano fecondi di frutti durevoli o siano un lavoro di
Sisifo, che ogni co- scienza riprende faticosamente per lasciare che
ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno
sforzo piú grande. Ma l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo metafisico
subordinava, almeno nella riflessio- ne consapevole e nella costruzione logica,
il giudizio di valore al giudizio di realtà. Nella filosofia dei valori il
giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo riflessivo e costruttivo,
al giudizio di valore. Il momento che nell'intellettualismo ontologico era
nascosto e inconsapevole, quello della assunzione tacita del concetto di valore
nel concetto di realtà, nella filosofia dei valori diventa chia- ro e
consapevole e si allarga nel tentativo di tradurre il passaggio psicologico in
processo discorsivo e di fondare un sistema di verità teoretiche su quella
certezza che veramente era ed è il dato iniziale, l'ubi consistam di ogni
costruzione etica, sia scientifica o metafisica, progressiva o regressiva, a-
scendente o discendente: la certezza diretta e intuitiva dei valori morali. Illusione
poco meno antica accompagnata da sforzi parimenti tenaci, e forse piú
multiformi di tradurla in dottrina rigorosa, è quella di credere che si possa
ricavare la valutazione morale da qualche bene indiscutibilmente supremo, del
quale essa esprima le esigenze e formuli le condizioni necessarie. Questo sommo
bene, questo fine supremo, questo valore, sorgente prima, termine ultimo di
tutti i valori si credette di trovare: o in un dato della coscienza empirica,
un fine inerente alla vita e subordinante di fatto tutte le tendenze,
aspirazioni e attività dell'uomo; o in un fine che domina ben- sì, ma trascende
la vita e la natura umana, e subordina di diritto ogni altra forma di bene e
ogni cri- terio di valutazione. Alle due diverse concezioni del fine rispondono
due tipi principali di dottrine morali, dei quali è facile rilevare la
corrispondenza coi due tipi di dottrine sulla fondazione di cui si è detto nel
capitolo precedente. Ma la corrispondenza non è coincidenza. Là l'origine
dell'illusione era nella pretesa di derivare la valutazione morale da una
realtà la cui conoscenza si impone all'intelletto; qui di derivarla da fin bene
il cui valore è ammesso, o si suppone che debba essere ammesso inconte-
stabilmente come supremo o massimo, o almeno superiore ad ogni altro. Ora
l'illusorietà della pretesa consiste in ciò: che il valore morale non è morale
se non a patto che se ne riconosca, o, meglio, se ne senta la superiorità, la
preminenza su ogni altro valore; il suo essere morale consiste (con ciò non si
escludono gli altri caratteri) in questa sua supremazia. Perciò ogni tentativo
di assegnare un bene supremo che lo giustifichi, si riduce all'uno od al-
l'altro termine di questa alternativa: o di ammettere che questo bene è già
esso stesso il valore mora- le che si crede di derivarne, o di mostrare che ciò
a cui si dà valore morale, è valore anche per altri rispetti; cioè sarebbe un
valore (di altro genere) anche se non fosse valore morale. I tentativi che si
raccolgono intorno al primo tipo (fine: la felicità, o il piacere) riescono di
solito (quando e nella misura che possono) a quest'ultimo risultato; quelli del
secondo tipo (fine: il possesso del divino, l'avvicinamento a Dio, la santità)
riescono di solito al primo: a presupporre quel che credono di derivare.
Dell'utilitarismo in generale e delle sue diverse forme sarebbe fastidioso, e
non è qui neces- sario, ripetere per la centesima volta le critiche note. Basta
mettere in chiaro quel che meno fu notato e che piú importa al nostro scopo:
cioè non tanto le lacune, le insufficienze e le incongruenze dei tentativi,
ingegnosi assai piú che fortunati, di ricondurre le norme morali al criterio
dell'utilità, e di mostrare le coincidenze tra il contenuto delle norme morali
e il contenuto delle regole utilitarie, quanto la ragione per la quale la
derivazione è impossibile; o, quando appare possibile, dissimula in realtà una
petizione di principio. Supponiamo pure che si ammettano cose troppo
manifestamente arbitrarie: che la felicità sia non un nome vago, un recipiente
vuoto nel quale ciascuno versa il liquido preferito (e che non è sempre neppure
per la stessa persona il medesimo) ma abbia un contenuto determinato (poniamo
l'acquisto o il possesso di certi beni: salute, amore, potenza, gloria,
simpatia, cultura, ingegno, soddisfazione della propria co- scienza; e che tra
questi beni sia possibile perfetta conciliazione ed armonia); e che si possa
dimo- strare davvero, e non per salti o per ripieghi, che il nodo non pure piú
sicuro, ma il solo veramente sicuro e indispensabile per raggiungerla, sia
l'osservanza costante delle norme morali. Con ciò non si sarebbe dimostrato che
ciò che fa il valore morale delle norme consiste nella loro utilità come guida
della felicità; ma soltanto che i valori morali sono anche valori eudemono-
logici; che il contenuto della valutazione morale e quello della valutazione
utilitaria coincidono; non mai che il valor morale di un'azione consista nel
suo esser mezzo alla felicità. Resta fuor di questione (s'intende e deve esser
quasi superfluo avvertirlo) la considerazione dell'efficacia pratica o
esecutiva; se sia o no piú persuasiva o piú impulsiva l'una o l'altra
valutazio- ne. Si può anche ammettere, senza soverchio sforzo immaginativo, che
sia per lo piú la edonistica; ma ciò non prova affatto che questa si confonda o
si identifichi con la valutazione morale, o valga a sostituirla. Dimostrare a
un giudice che il dar sentenze imparziali è il modo piú sicuro di far carriera,
potrebbe essere, in ipotesi, un mezzo efficace a promuovere l'imparzialità. Ma
nessuno sognerà di far consistere l'onestà del giudice nel suo desiderio di far
carriera. Ma in realtà, come tutti sanno, il contenuto della felicità non è
determinato, né determinabile se non ad arbitrio4; e solo significato comune e
costante del termine finisce per essere quello di ap- pagamento dei desideri, di
soddisfazione, di piacere, o di liberazione dal dolore, che si pensa dover- si
trovare nel raggiungimento di ogni fine. E la diversità persiste e risorge
nella molteplicità varia e contrastante dei desideri e dei pia- ceri, e non
basta raccoglierli sotto uno stesso nome per ridurli a unità e farne un unico
fine. Perché se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una
riduzione o una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella
storia dell'utilitarismo con il criterio della qualità so- vrapposto e in
effetto sostituito dal Mill a quello della quantità. E allora si capisce come
possa avvenire che il criterio della felicità finisca per accordarsi con quello
della valutazione morale; se le soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni morali,
e il bene piú desiderabile l'appagamento della coscienza morale, l'accordo tra
i due criteri quanto al contenu- to è, non solo possibile, ma necessario. Ma è
troppo facile vedere a quale patto è raggiunto. Il valore di quella felicità
alla cui stregua si pretende di giudicare il valore morale è assunto come
supremo perché e in quanto contiene questo valore morale ed è graduato esso
stesso secondo un criterio mo- rale; approva e disapprova in nome della
felicità quel che trova approvato e disapprovato in nome della coscienza
morale. Viene in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver
risolto il problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano
dello stesso avviso era la moglie che se- guiva il parere del marito, dove
erano di avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie.
Adunque, anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio
della valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio
morale; e quel che pretende di aggiun- gervi come giustificazione, non è ciò
che costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto
ad esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una
valutazione secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica)
del valore morale. Porre come bene supremo la santità (il divino in quanto è
sentito e voluto come modello o norma della vita si determina in un ideale di
santità) è derivare il valore morale dal valore religioso, concepito come principio
e termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un elemento; o Ne ho
parlato altrove (La dottrina delle due etiche di H. Spencer e la morale come
scienza, pp. e 120-121) e non occorre insistervi qui. 5 Sebbene il parlare
della soddisfazione della propria coscienza come di un bene desiderabilissimo
sia legitti- mo, non è legittimo, né conforme alla verità psicologica,
considerarlo come il fine della condotta morale. Il fine è l'attuazione di quel
valore che la coscienza riconosce come morale; e non è l'altezza della
soddisfazio- ne che se ne possa attendere, che costituisce il pregio
dell'azione, ma è il pregio dell'azione che misura l'altezza della
soddisfazione; la quale è pura soltanto a patto che non se ne faccia lo scopo
dell'operare. Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta meglio, l'attuazione di questo è voluta come una condizione, o un
momento dell'attuazione, di quel- lo. E qui giova premettere due osservazioni
non peregrine ma utili alla chiarezza: 1° Che questo valore supremo del divino,
della santità e, in termini piú generali, il valo- re religioso non può essere
dimostrato o insegnato con lo stesso processo conoscitivo, con il quale si
dimostrano, si insegnano e si comunicano delle proposizioni o verità
teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i dogmi stessi delle
dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice con frase piú
suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro ed efficace
l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive. Fondare la
valutazione morale sui valori religiosi è dunque presupporre che siano sentiti
e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori religiosi da cui si
fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non siano sentiti e
vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può crearli6 o
sostituirli. 2° Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun
ragionamento basta a spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da
quel sentimento del divino, a svestirli di quell'alone reli- gioso del quale
egli investe non solo questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe
diffici- le nella intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i
valori morali e i valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade
sempre dove un grande interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una
categoria di valori occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e
raccoglie ad unità, come attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è
quel che suole piú comunemente e nor- malmente avvenire per i valori morali. Ma
fatta (come dicono i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna
valutazione morale si potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se
non vi sia già esplicitamente o im- plicitamente contenuta; cioè se non a patto
che si sia incorporata nel valore religioso una valutazio- ne morale la cui
validità sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione
per la quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a
persuadersene, di discutere il problema formidabile della essenza del va- lore
religioso. Se si accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della
religione è la credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene,
soprattutto dei valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re
ipsa, riconosciute. In effetto quali si possano essere le reazioni di tale
credenza sulle valutazioni, resta pur sem- pre che non è l'esigenza della conservazione
quella che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro esser sentiti, il
loro valere come morali che ne fa postulare la conservazione. Di che ho già
det- to altrove7, e non occorre del resto insistervi. Se invece si ammette,
come io credo, che la natura specifica, la «forma» del valore religioso non sia
riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e caratteristico del
sentimento e della valu- tazione religiosa il riferimento del nostro pensare,
del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il nostro essere, ad un
altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne penetrati e
posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso, l'abbandono di
sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore religioso è per
sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in questo, neppure lo
pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare all'anima religiosa
che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la ragione sta in ciò,
come si è accennato: che al mi- 6 È appena superfluo aggiungere che non penso
neppur per sogno di negare una possibile efficacia all'insegna- mento religioso
in quanto esso, come ogni insegnamento, non è mai (salvo forse agli occhi di
chi lo misura col tassame- tro) pura comunicazione di notizie o di idee, ma è
vigore di convinzione, calore di affetti, opera di formazione; insom- ma,
educazione. Ma anche l'educazione suppone le condizioni dell'educabilità. E si
suppone poi sempre che chi legge faccia uso del consueto grano di sale. 7 Cfr.
Postulati etici e postulati metafisici. stico riesce impossibile di concepire
altrimenti che perfetto, cioè perfetto anzitutto e soprattutto mo- ralmente,
l'Essere che adora, e nel quale vede non un bene, ma ogni bene, il Bene. Ma la
perfezione che vede in lui, a quale stregua è giudicata tale? L'ideale che
trova realizza- to in quello non è foggiato secondo un criterio di valutazione
morale la cui validità è accettata e ri- conosciuta all'infuori
dell'atteggiamento religioso della devozione a Dio? Anzi non è quella perfe-
zione morale che lo fa degno di adorazione? Un mistico a cui si domandasse se
concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo adora per- ché è perfetto,
forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la domanda scompone quel che è
per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che la devozione e la adorazione
non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò che è adorato; e nessuna
coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se non li conoscesse già come
valori, e non li distinguesse come morali dai valori di altro genere. Questa
priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé, questa
selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle discussioni
sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú consueto e piú
decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica manife-
stamente che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per sé. E il
prevalere sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle controversie di
indole religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo) mostra che la
validità del criterio morale è tenuta come certa di una certezza che è data e
riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa. Quanto
all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa, sebbene
ambi- gua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che non sia
possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o cattivo se
non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire invece che non
è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè una sicura
conformità della condotta alle valutazioni morali, se la valutazione morale non
è sorretta, conforta- ta, fatta praticamente efficace dalla connessione dei
valori morali con una finalità religiosa; cioè dal considerare i valori morali
come preparazione e condizione necessaria di quel fine; e quindi i pre- cetti
morali come precetti religiosi. Che è tutt'altra cosa; importantissima dal
punto di vista propriamente pratico o esecutivo, ma estranea alla questione presente
e da trattarsi a parte, analogamente a quel che si è accennato sopra della
possibile importanza pratica di una valutazione edonistica. Dire che l'olmo
sorregge la vite, non è dire che la vite sia una propaggine dell'olmo, e nep-
pure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia anche vero che, dove la vite
non si regge da sé, non dovrebbe parer savio tagliar l'olmo anche a chi ami
soltanto la vite. Quel che si è detto dei tentativi di una fondazione
edonistica e di una fondazione religiosa si potrebbe ripetere di ogni altro
tipo di morale di cui si pretenda di trovare il fondamento in un inte- resse
diverso dall'interesse propriamente e specificamente etico (notevolissima fra
le altre la morale estetica), e dalle forme miste e intermedie; le quali, se sono
dottrinalmente fiacche e spesso incoe- renti, hanno però in realtà largo
consenso nelle credenze e nelle opinioni piú comuni. Di queste ultime meritano
di essere ricordate, perché piú significative, le due forme, nelle quali si
mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione qui sopra brevemente
analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a prima vista i piú
lontani e l'uno all'altro opposti. Si può avere cosí una interpretazione
edonistica della valutazione religiosa (esempio l'utilita- rismo teologico) e
un'interpretazione religiosa della valutazione utilitaria (altruismo comtiano,
mi- sticismo umanitario). Da quanto si è discorso pare si debba concludere che
queste indagini (spesso nei particolari ingegnosissime e suggestive) nelle quali
si cerca la ragione del valore morale nella sua connessione 15 Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta o congruenza con
altri valori, abbiano importanza solamente nel rispetto strettamente pratico o
ese- cutivo; in altre parole una importanza parenetica o pedagogica, in quanto
una tale connessione con- forta, sorregge o surroga con motivi di altra natura
e sgorganti da interessi diversi il motivo specifi- camente morale. Sarebbero
dunque analisi ed indagini preziose per l'educatore e per l'uomo politico (dato
che si propongano fini morali), ma senza interesse per lo scopo a cui mirano,
di costituire il fondamento o la giustificazione dei valori morali, perché
radicalmente viziate dal falso supposto che la ragione della supremazia dei
valori morali si possa cercare in qualchecosa che non abbia già essa per sé
valore morale. Ma questa conclusione sarebbe precipitata e eccessiva. Intanto è
fuor di questione che, no- nostante il carattere di artificiosità che si trova
piú o meno largamente diffuso nelle costruzioni di questo genere, come nei
sonetti a rime obbligate, vi è in tutte una parte notevole di verità; verità
s'intende non in quel che credono di dimostrare, ma nei rapporti e nelle
concordanze e nelle diffe- renze rilevate, e che dovrebbero servire alla
dimostrazione. Questa parte di verità ha radice nel fatto, troppo noto e troppo
chiaro perché ci sia bisogno di illustrarlo, e già sottinteso a piú riprese in
questo capitolo, che non vi è giudizio sul valore morale di un oggetto,
qualità, tendenza, azione, del quale non si possa trovare la ragione, oltreché
nella forma speciale di interesse o di esigenza che gli dà questo carattere
specifico di valore morale, anche in un interesse diretto o indiretto d'altra
natura: non vi è bene morale che non sia bene anche per altri ri- spetti; come
d'altra parte non vi è bene di altro genere che non sia o non possa diventare,
diretta- mente o indirettamente, un bene morale. I valori delle diverse specie
si connettono, si intrecciano e si complicano fra loro in mille guise. È bensì
vero che ciò che fa esser morale un valore (e analogamente si potrebbe dire dei
valori di ogni altra specie) non è, come s'è visto, il suo coincidere o il suo
essere connesso sia pure per un rapporto di condizionalità costante, con un
valore — per quanto grande — di altro genere, o anche con piú altri ordini di
valori o con tutti; ed è perciò che nessuna sottigliezza di logica può estrarre
un valore morale se non di là dove esso si sia già posto o insinuato; e che credere
di poter trovare un valore morale tra valori che non siano già morali è fare a
un dipresso come chi vada frugando fra le idee degli altri con la speranza di
trovarvi le proprie. Ma è pur vero che sussistono altri valori, e sussistono le
relazioni fra i valori; e ciò che è og- getto di valutazione morale, poniamo la
sincerità, può essere apprezzato dal punto di vista dell'inte- resse
conoscitivo od artistico o economico; e, per converso, ciò che è oggetto di
valutazione edoni- stica o estetica o d'altro genere, la ricchezza, l'arte, la
dottrina, può essere valutato anche come bene di ordine morale. Ora: È
possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri valori e di questi
fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della loro graduazione e
subordinazione? Vi è, per rispetto alla natura delle relazioni o connessioni
tra valori di diversa specie, qual- che differenza caratteristica che distingue
i valori morali dai valori non morali anche per il contenu- to? E vi è, segnata
ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o strumentali con valori di
altro genere, una differenza che distingue, rispetto al contenuto, gli stessi
valori morali fra di loro? E non potrebbe questa considerazione giovare a
intendere le incoerenze e i contrasti tra valu- tazioni diverse e anche
opposte, che pure si presentano col medesimo carattere di valutazioni mora- li?
Cosí, dietro i tentativi illusori di cercare fuori e al di là dei valori morali
il fondamento della valutazione morale e la ragione decisiva che ne giustifichi
la supremazia, restano i problemi: della valutazione indiretta o rivalutazione
condizionale o strumentale, di una graduazione delle diverse categorie di
valori; e della possibilità della loro conciliazione. Della quale, la
conciliazione tra virtù e felicità non è che un aspetto particolare, e forse
non il piú importante. Il carattere di autorevolezza col quale si presenta alla
coscienza il giudizio morale, che noi approviamo bensì come nostro, ma che ci
pare nello stesso tempo sgorgare da una sorgente piú alta o piú profonda, e
quello di precetto imperativo nel quale si traduce, tendono a far derivare
questi ca- ratteri, e, quando siano considerati essenziali della moralità, lo
stesso giudizio morale, da un'autorità distinta dalla coscienza, e che, pur
rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il fondamento di questa autorità
fu riposto o nel processo stesso di formazione, consapevole o inconsapevole,
delle idee e dei sentimenti morali che danno contenuto alla valutazione; o in
un volere superiore e distinto dal volere individuale, al quale si riconosce
potestà imperativa e alla cui scelta o decisione si riconduce in ultimo il
criterio della valutazione morale. L'autorità delle valutazioni morali avrebbe
dunque in ultimo, come ogni altra minore autorità politica o sociale, il suo
fondamento e la sua legittimazione o nei titoli di una sua nobiltà storica, o
nella volontà di un potere sovrano. a) Della storia. L'appello alla storia può
assumere, assunse in effetto, forma e apparato e significazione di- versi,
secondoché si credette di fondare l'autorità della valutazione in un processo
genetico di evo- luzione selettiva operante attraverso l'esperienza organizzata
della specie; o in un processo storico di svolgimento e di elevazione progressiva
dei costumi, della cultura, degli istituti e delle idealità etiche nei popoli
civili; o nella elaborazione logica di un pensiero riflesso rintracciato nella
succes- sione storica delle dottrine e dei sistemi. La prima delle forme
accennate che si connette alla dottrina dell'evoluzione e che culmina nella
tesi di un progressivo adattamento dei bisogni, dei sentimenti, delle attività
alle condizioni di una vita sociale sempre piú elevata, piú complessa e piú
armonica (lasciando ogni questione che non sarebbe oggi piú neanche di buon
gusto sulla consistenza scientifica della dottrine), si risolve in ultima
analisi, come fondazione etica, nel postulare quella superiorità e quella
autorità dei sentimen- ti e delle norme di condotta morali, che pretende di provare
derivandola dal processo di selezione progressiva che ne ha costituito e
consolidato la prevalenza nel corso dell'evoluzione. Infatti il criterio, per
il quale giudichiamo progressiva piuttosto che regressiva o indifferente
l'evoluzione o la selezione delle idee e dei sentimenti, è un criterio di
valutazione di cui si riconosce e si accetta la validità indipendentemente dal
processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il prodotto; (e del quale processo,
anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci fa riconoscere il valore). Ed è
troppo chiaro che non è perché il «progresso» del senso giuridico ha portato
all'aboli- zione della tortura che noi condanniamo la tortura, ma è perché
condanniamo la tortura che ravvi- siamo nella sua abolizione un progresso etico
nello svolgimento del diritto. Ché se si obbietta derivare l'autorità delle
norme morali dalla loro convenienza e corrispon- denza alle forme di vita
«superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei quali esprimono le esigen-
ze, si dimentica che all'infuori di un criterio — quale esso sia — di
valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi derivati e tipi
bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamen- te, in modo
esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto ciò è vero, che il massimo
rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu condotto a
sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico dell'adattamento pro-
gressivo a un tipo di vita completa — il criterio edonistico di un piacere puro
corrispondente all'a- dattamento completo. Se a una selezione esteriore e
meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non attività, si sostituisce
uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la coscienza etica viene
costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme le sue idealità sempre
piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età e da popoli a popoli in
sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che l'induzione storica rivela
attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti e i ritorni apparenti, si
scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i fini, i motivi, le norme
in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue conquiste — la concezione
della formazione storica è senza dubbio piú propria, piú adeguata e piú
probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore, direi di prospettiva,
comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei valori morali. (E il
medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori). Lasciamo pure la
vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a qualche unci- no
di verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque;
e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una induzione legittima
sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è che questa induzione,
posto che fosse legittima, e non avesse già per filo conduttore e regolatore
quella direzione ideale che vi rintraccia ingegnosamente, non pone essa il
valore delle conclusioni a cui giunge, non è essa che ci fa riconoscere la bontà,
la elevatezza, la eccellenza morale delle idealità che segnano la meta. Questa
valutazione è irreducibile alla storicità; ed è anzi dalla storia — in quanto
voglia es- sere giudizio comparativo di valori umani — sempre e inevitabilmente
presupposta. Di che è prova il fatto che, mutato il criterio valutativo,
sostituita all'una un'altra scala di valori, la prospettiva si rovescia; e
Nietzsche vede una nefasta degenerazione dove il democratico e l'umanitario
ravvisano l'indice sicuro di un felice progresso morale. E se il criterio
valutativo della coscienza si contrappone a quello che ha o sembra avere a un
momento dato il conforto della storia, non vi è in questo nessuna ragione
intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno sull'altro dal punto di vista
etico, che è quello che importa; anzi neppure dal punto di vista storico,
perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che oggi fa difetto al
primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è conservazione e
svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, di- ciamo pure, con
termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo l'altra. Se
passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero riflesso,
troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la
continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è,
nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepi- re la realtà
perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come
siano pos- sibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e
dialettico delle dottrine riguarda so- prattutto, se non esclusivamente, i
problemi che nascono da questo problema centrale; le forme di- verse sotto le
quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di
superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma
la sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da
questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente
coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando
una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla
riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di
sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una
concezione unitaria della realtà che ne ac- colga le postulazioni, sarebbe fuor
di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valu- tazioni,
dalle quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le
indagini. È bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si
annoda e si intreccia l'anali- si e l'indagine di indole propriamente etica,
sulla natura dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la
fecondità, ne svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di
contrasto 18 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta tra le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse,
svela i legami spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità
alcune di queste intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro
genere, noetiche estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di
importanza capita- le per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei
criteri di valutazione e per tentarne la uni- ficazione in una dottrina etica
strettamente intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si
svolge attorno a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza
morale; assume co- me validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono
gli elementi, i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata
la consistenza della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi
morali, e certamente si trova nei piú grandi e signifi- cativi, un filone piú o
meno ricco di intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o
sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale
comune, e segnano la crea- zione di nuovi valori e aprono la visione di una
regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale
di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma
questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o soprattutto,
orientamento diver- so di valori, nessuno vorrà considerare come il frutto di
una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme: anche se fosse
esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si ac- compagnasse
sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione ostinata. Questa
concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché novità di
intuizioni mo- rali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati estranei,
almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto che
quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di en- tusiasmo
morale dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando
secondino le forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa
affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale
concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la
conclusione di u- n'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un
irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non
li dà esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento
cercato in una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce
l'esigenza di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità
come l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbe- dienza a un'autorità
inconcussa e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la
tendenza a cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in
quanto si esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere)
immanente o trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi
morali espri- mono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia
l'autorità di quel potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo
dei suoi precetti. Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che
nascono dal trasportare un me- desimo termine da uno ad altri concetti connessi
ma diversi, o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un
processo psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una
caratteristica della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo
genere. Il dovere non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valu-
tazione. 8 È forse superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi
immediati e diretti; non di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi,
ogni incremento del sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa
derivazione e dedu- zione dei valori indiretti e mediati dai diretti e
immediati, che l'etica applicata prende a prestito dalla conoscenza scienti-
fica le premesse minori dei suoi sillogismi valutativi. 19 Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta La valutazione
morale precede, nell'ordine delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e
non inversamente; anche se nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la
ratio cognoscendi di quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una
riflessione un po' attenta. ** * La valutazione morale è preferenza, scelta,
opzione fra qualità o proprietà, cioè modi possi- bili di essere o di agire,
tra i quali non vi è gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realiz-
zarsi l'uno senza che sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme
porre l'altro come non valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza,
l'alacrità come valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la
pigrizia. Il valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro
l'altro di due soli atteggia- menti possibili; ma poiché, e questo punto è di
importanza decisiva, i valori morali, a differenza de- gli altri valori, non
possono attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono
voluti (la volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne
dipendono, anzi consiste nel- l'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí
non è possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare
l'opzione, la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza
che l'un termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza
approvare l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la
volontà nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere
commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro
qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro riconosci-
mento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza essere
smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati a ogni
altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di essere, non
atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della volontà. Ne
segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si rivela come
dato, esige- re, se è concepito solo come possibile o potenziale,
l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante,
cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non
si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e
che sia posto con- tro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di
quella stessa volontà il cui atteggiamento posi- tivo è un'esigenza implicita
nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente po- stulato
nella valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la
sincerità, si sia lasciato trascor- rere a una menzogna, l'atto presente e
momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio
volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento
della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa
di essere sentito e ri- conosciuto come morale, cioè come valore che esige per
essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in
quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e
non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui
si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si
manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle
volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in
contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia
attualmente que- sto conflitto, in quanto è presente alla coscienza la
possibilità di impulsi contrastanti. 9 Di qui nasce la tendenza incoercibile, manifesta
nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che esprime
l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il «vero»
volere col volere morale; e a con- siderare gli atti immorali come prodotti non
dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa;
non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù. Da
quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora
chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione
morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non
sono, non vi può essere do- vere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di
riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni
valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro
valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú
di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e
che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi
non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un
uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradi- mento, il «deve» o
non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non
ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol
affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire
che per essere uomini bisogna sen- tire cosí, che non si può chiamar uomo o che
non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che
al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché si-
gnifica non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un
altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se
fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. Ma dunque i «sordi morali», se
ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire
l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno,
di at- tuare dei valori che non riconoscono come tali. — Ma hanno tuttavia e possono
avere degli obbli- ghi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non
tutti i valori morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili
esteriormente, cioè suscettivi di esser presentati come motivi ap- prezzabili
anche da una coscienza non morale. È questo obbligo, quello del quale si è
tessuta con grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e
l'origine sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se
bastasse o non bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non
basterebbe a darne ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e
questo obbligo implica necessariamente il riferimento a un potere superiore e
distinto dal volere individuale. E come questo Potere si impone in vista di un
fine e in conformità a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che
comanda l'osservanza di quelle norme. Senonché anche quest'obbligo può prendere
forma e significato morale; come può non avere altro valore che di costrizione
subita: appunto come le pene del codice per i galantuomini di princi- sbecco. E
anche qui occorre un po' di pazienza. Quella esigenza interiore che s'è visto
sopra esser posta nella valutazione stessa e per la qua- le il valore morale si
fa sentire come norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non
negare nelle singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione
morale) si accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezza — data
nell'esperienza e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione
normale — della possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che
torna il medesimo) della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici
al volere morale. Il volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi
antagonistici tendono a contrastar- ne l'attuazione) come esigenza della
subordinazione costante di questi motivi, come appello a una forza coercitrice
che li soverchi, sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso
ordine, e rovesciandone per tal modo il valore. Questa disposizione di spirito
fa che si approvi l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si
concepisce che esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza
dove e quando manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la
sanzione dell'obbligo, e giusto il Potere che lo pone. In questa disposizione
per la quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati e vo- luti
come garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e idealmente posto
in nome della esigenza morale, sta la caratteristica differenza che dà
all'obbligo valore morale, e lo distingue dal- l'obbligo sentito come pura
costrizione esterna; che distingue il potere che merita rispetto dalla for- za
che si deve subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il comando di questa
autorità si consideri limita- to a una certa sfera di valori morali, sia che si
faccia coincidere collo stesso valore morale e si iden- tifichi con esso. Ma
cosí nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e
al Potere ob- bligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che
valuta moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione
morale. Per la prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare
l'obbligo. Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i valori morali; i
quali valgono non perché sono morali, ma perché sono riconosciuti, in forza
dell'obbligo e della sanzione, come valori strumentali di altri valori, co- me
condizione imposta e inevitabile di quei beni che soli la coscienza amorale
desidera e apprezza. L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è
conformità esteriore a certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che
li accompagna. La valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è
surrogata da una valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non
può farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di un
interesse diverso. Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne
segue. Il dovere esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non
smentire, con la volizio- ne attuale, la preferenza, la opzione che si afferma,
come criterio di apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui,
nella valutazione morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimo- lo e
causa dell'azione, potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è
scelta fra posizioni possibili opposte, e attribuzione continua e persistente
di valore all'una, e di disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa
delle volizioni attuali e contingenti, come potere di ese- cuzione, dalla
volontà che pone i valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta
come l'esigenza dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del volere
esecutivo al volere le- gislativo, del volere a cui spetta attuare i valori
morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li ha
posti e li fa sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza,
l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e
di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza
morale la necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non
soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore
morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi,
viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme
all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in
parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che
tende all'attuazione dei valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e
attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma
si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il
potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua
la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà
pensata non solo come un potere che im- pone, ma come Autorità che merita,
un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'u- nica sorgente
cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la
valutazio- ne morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità
il criterio stesso della valutazione. Ma lasciando ogni questione sulla
legittimità delle postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla
possibilità della loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre
inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto dell'autorità imperante la
valutazione, che giustifica il comando, che dà autorità al potere, che
suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente con un Volere
legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale rimane il
postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove è
sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato. Cosí se il
teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la
Provviden- za dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una
valutazione diversa, ma sosti- tuisce e sovrappone alla «veduta corta d'una
spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remo- ti di quell'ordine che
a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di
quell'ordi- ne a noi appare un male. Ma appunto il criterio di questa bontà è
il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i fini apparenti con
l'esigenza morale che induce l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si
accordino con essa. Dopo quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle
forme principali nelle quali si presen- ta, e si è presentata storicamente, la
dottrina del fondamento autoritativo della morale. Se la distinzione tra il
potere e l'esigenza morale che lo legittima non è superata, come s'è vi- sto,
neppure quando si unificano i due termini nel concetto di un'autorità che sia
insieme irresisti- bilmente potente e indefettibilmente morale, tanto piú
manifesta sussisterà nelle forme in cui l'unifi- cazione non è posta, o
l'adeguazione è incompleta. Ma restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o
negare ogni valore alla coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione,
sul potere che la pone a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della
valutazione morale dalla coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale
o collettiva, la cui autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo
accordarsi totale o parziale con la coscienza della persona. Sulla prima tesi
non c'è da osservare che questo: Che essa o non risponde alla domanda alla
quale pretende di rispondere; perché non è dire donde venga l'autorità della
valutazione morale negarle ogni valore, per riconoscere soltanto il pote- re
che la impone, ma che potrebbe imporre il contrario. O non toglie se non a
parole la distinzione, che ritorna attraverso a qualsiasi sottigliezza, tra
l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene. E quando il Callicle
platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti ai pochi, degli
inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve, per non contraddire se
stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un criterio morale, un
criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a distinguere quella
degli ingegnosi, degli intelligen- ti, dei superiori, da quella del numero; a
riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e che non è giusto sia
sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che costituisce la
giustizia? E il potere illimitato del Sovrano, al quale l'Hobbes riconduce ogni
criterio di morale e di di- ritto, esclude solo in prima istanza, cioè in
apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno, l'arbitrio di
questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa per cui si
suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e un governo
tirannico che nessun governo. La seconda delle vie indicate conduce a far
riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività concepita come
aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore alle persone:
sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i fini individuali,
sia come Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà particolari.
Le due tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e valore
diverso. I) Se la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di
singoli, non si può evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della
forza. Un giudizio morale che non è valido se cor- risponde alla valutazione di
n-1 coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della
democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico
(cioè come crite- rio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini);
ma del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo;
per la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il sen- so comune,
e il discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare sconclusionato
di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare a fare una
legge ma non a farne ricono- scere l'equità. Ché se l'autorità morale della
valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei singoli, e
perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni in cui
tutte le co- scienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce, si
riconoscono due cose: 1° che per cia- scuna persona non vi può essere autorità
morale superiore a quella della propria coscienza; 2° che la distinzione la
quale può essere di importanza capitale per i rapporti tra morale e politica,
cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non ha valore morale se non a patto
di essere fondata essa stessa su una distinzione di valore apprezzata o
apprezzabile (non importa ora cercar come) dalla coscien- za morale personale
che la deve riconoscere. Manca dunque sempre il qualche cosa di diverso dalla
coscienza personale, a cui dovrebbe ricondursi l'autorità della coscienza
collettiva.Quando si parla di fini della società diversi dai fini individuali,
e di coscienza sociale di- stinta dalla coscienza personale, si corre
facilmente nell'equivoco di opporre come separati, o, peg- gio ancora,
precedenti l'uno all'altro due termini correlativi; e si dimentica o si
trascura di tener pre- sente che i fini della società non sono fini se non per
gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri; e che la coscienza
sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze individuali; come, per
converso, che i fini individuali sono nello stesso tempo, o direttamente o
indirettamente, fini della società; e un certo grado di distinzione e
differenziazione delle coscienze individuali è correla- tivo a un grado
corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare il fattore
sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di
individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso,
e nel- lo stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale
sua è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è
cosí legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della
società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io.
Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione
presente, rie- sce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono
morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla
coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà
valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore
alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed
è valutata alla stregua del- la esigenza morale. Derivare la valutazione morale
da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è
giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre.
Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è
questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini
designati come sociali e delle istitu- zioni, delle leggi, dei tipi di società,
ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o
grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza
morale. Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú
apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un
rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo baga- glio scientifico, e
star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il
piú a- perto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e
l'ali alla certezza. L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è
di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose
sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel
mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da
un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità
personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta
come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far
veramente di ogni individuo umano una persona umana. Che poi quella sia la
condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per
essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso. La vieta
analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione
sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni
dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione
morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo- società acquista
coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo,
e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta
da lui come superiore a se stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta
in ultimo che di un «punto di vista diverso»; e che, se dal punto di vista
dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista
della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali,
e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza
sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una co- scienza individuale.Più
breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú
sottile e compli- cata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale
nello stato e fa dello stato l'organo dell'Etici- tà. Perché in quanto la
volontà dello stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere
morale, non c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito
dell'identificazione del Volere- potere col Volere-valutazione. Ciò che fa
essere lo stato arbitro della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi
criterio supremo dei valori morali, è questa affermata identità del Volere
dello stato col Volere morale che si viene attuando nella Storia. Le difficoltà
che possono nascere dagli sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato
com'è concepito, e di interpretare i processi reali del suo divenire storico
come momenti di attuazione del- lo Spirito universale cioè del Volere morale,
rimangono estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore
etico dello stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel
Volere universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la
coscienza personale e si fa valere in essa. Cosi qualunque sia il Potere e
qualunque il Volere a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza
morale, sempre si trova dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà,
inevitabilmente da- to o presupposto, quel valore morale che legittima il primo
e dà autorità al secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non
vista e non detta, ma sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della
sua cambiale un valore. Ma se l'autorità della valutazione morale non è
derivabile da nessun'altra autorità superiore diversa da quella della coscienza
personale, bisogna ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse
coscienze coincidano totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che
copie o esemplari di una medesima coscienza morale che si esprime per mille
voci uguali di tono e di conte- nuto; o altrimenti che si trovi, nella natura
stessa dei valori morali, posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto
ad alcuni, quella della differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori.
E in questo caso al problema della fondazione storica e della fondazione
consensuale della valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali
sono i valori morali nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e
l'autorità del consenso universale coincidono con quella della co- scienza
personale? E in che cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale
accordo? È legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che
in ogni caso non potreb- be né in fatto né in diritto estendersi
all'atteggiamento interiore, ma valere soltanto rispetto alle ma- nifestazioni
esteriori) dei secondi ai primi? E del pari si trasforma il problema sul
fondamento del dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma
il conformare la condotta alla valuta- zione; e suppone il rapporto tra due
volontà distinte o concepite come distinte, tra un volere presen- te e
momentaneo che si rivela nella volizione attuale e concreta, e il volere
dell'io persona, il Volere valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io
momentaneo o contingente è dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e
il Volere operante si identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e
svanisce perché sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e
l'io non è che ag- gregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze
accidentali, il dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il
problema del dovere è perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà
che nasco- no, sia dal concepire il Volere operante come uno e identico col
Volere valutante; sia dal concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal
concepire, secondo importa la necessità di una conciliazione, le due volontà
come distinte e diverse nell'uomo individuo, ma come una e identica in un
Potere so- prapersonale del quale il valore morale esprime la legge nella
coscienza individuale. Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da
qualche cosa di cui non sia già ricono- sciuto il valore morale è dunque vano o
illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di
fondare. In realtà i valori morali o valgono per sé o sono tali in grazia di
altri valori che valgono essi come morali per sé. Epperò ogni ragionamento col
quale si dimostri per esempio che un'azione è buona o giusta, si risolve o nel
ricondurre quell'azione a una classe di azioni, a un modo di operare già
riconosciuto come morale, o nel dimostrare che questa azione fu od è voluta
come condizione o mezzo di attua- zione di un valore morale. I valori morali
diretti e immediati, apprezzati e voluti per sé, sono dunque dati di una espe-
rienza morale non riducibile ad altre forme di esperienza e i giudizi nei quali
questa validità diretta e immediata è ammessa o riconosciuta, sono postulati di
valutazione morale (postulati etici in pro- prio senso). E una dottrina morale
in quanto è sistema di valutazioni si fonda in ultimo sui postulati etici,
espressi o sottintesi, di cui si assume che sia ammessa la validità: cioè che
siano dati immediati del- la coscienza morale. Quando sia chiaramente
riconosciuta questa indipendenza, questa validità per sé o autoassia dei
postulati etici, le costruzioni dottrinali rivolte a cercare fuori della morale
un fondamento che essa né può trovare né ha bisogno di cercare altrove,
prendono un carattere e un significato diverso se non opposto; e forse
considerate da questo aspetto rivelano meglio la tendenza profonda che muove e
avviva in forme sempre risorgenti di tentativi diversi, i tipi di costruzione
morale esaminati nei capi precedenti. L'idea centrale dell'intellettualismo
morale di cercare il fondamento morale in una realtà ob- biettivamente data, e,
in una conoscenza di questa realtà, dei suoi gradi di entità e di perfezione,
il criterio della valutazione morale, diventa, guardata da questo aspetto,
un'espressione della tendenza profonda e incoercibile, di trovare nel valore il
senso e la ragion d'essere della realtà, nel criterio morale la chiave della
sua interpretazione; di commisurare la realtà alla dignità, e riconoscere come
esistente veramente soltanto ciò che è degno di esistere, facendo del bene il
solo vero reale, e del male un mancamento, un difetto di realtà, l'irreale.
Dietro il pensiero che muove i tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque
forma si presenti (non soltanto edonistico, ma estetico, noetico, umanitario,
religioso) di trovare la ragione del valore morale in un bene supremo o
maggiore o piú alto di ogni altro, che ne persuada l'utilità o ne giusti- fichi
l'autorità, appare la convinzione che anche sotto il rispetto soggettivo della
felicità (per l'uomo patologico, direbbe il Kant) non è in ultimo veramente
bene se non ciò che è morale, o ciò a cui la moralità apre la via. Tutto ciò
che ha valore, in quanto ha valore davvero, non può contrastare, ma si accorda,
de- ve accordarsi coi valori morali, consistere in questi, o essere — in ultimo
— condizionato da questi. E quando si tormenta la storia (storia esterna e
storia interna della civiltà) per trovare nel processo di svolgimento, nella
selezione subita o nel trionfo conquistato, i titoli di nobiltà che spie- ghino
e legittimino l'autorità della morale, della nostra morale, si agita dietro
l'acume e la sotti- gliezza delle indagini e sotto gli accorgimenti
dell'induzione storica, il bisogno di trovare nella sto- ria l'attuazione di un
disegno etico, di fare dell'accadere storico un divenire morale, di confermare
con l'esperienza morale del passato l'esperienza del presente, la nostra
esperienza morale, la mia. Come l'appello al consenso universale degli uomini,
meglio che allo scopo di fondare su questo consenso la mia certezza morale,
risponde alla esigenza che realmente abbiano valore per ogni coscienza quei
valori che sono posti come universali dalla mia, e costituiscono non il mio
sol- tanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di ogni uomo, dell'uomo. E
finalmente, quando dell'Autorità si cerca il fondamento in una Volontà
superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a questa e ha il
potere di obbligarla, l'esigenza a cui si ob- bedisce è quella stessa di cui si
alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú alto e il piú
degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali, sia nello stesso
tempo un potere a- deguato al compito suo, il potere piú forte10; sia, come il
vero volere, cosí il supremo potere. La
forma generale, con la quale si presentano da questo punto di vista i problemi,
è dunque inversa a quella nella quale sono posti e considerati nelle dottrine
che cercano fuori della morale il fondamento della morale. Si tratta non già di
vedere quale ragione d'essere, e d'esser tali piuttosto che altri o diversi,
trovino i valori morali nella realtà che conosciamo, nei beni d'altro genere
che desideriamo, nelle tradizioni e negli esempi del passato, nei giudizi dei
contemporanei, nel comando di un Volere onnipotente; ma di vedere se e come sia
possibile e sia legittimo costruire una realtà, graduare dei valori,
interpretare la storia, pretendere il consenso, postulare una Volontà in cui si
a- degui il potere al volere, sul fondamento della certezza e validità
immediata e diretta dei valori mo- rali, e delle esigenze che essi implicano.
La formulazione generale di quei problemi dal punto di vista morale è dunque
segnata da questo procedimento: Quali sono i valori morali; e quali sono le
esigenze derivanti dalla loro posizione; se e quali postulazioni di ordine teoretico
siano richieste a soddisfare queste esigenze; se e quale legittimità abbiano le
postulazioni teoretiche fondate sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di
questi problemi e delle loro soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio
su di essi, e rimane stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà,
la in- dipendenza, la autoassiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento
dei giudizi morali non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di
valutazione morale. L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del
concetto di volontà, perché la volontà è produzione, crea- zione, iniziativa.
Dove si ravvisa o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si
presume una forza (non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè
attività che ci sia rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto mag-
giore quanto più grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è
perciò che questa forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale
si traduce in atto contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più
gravi sacrifici; è perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimo-
nianza più sicura (nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il
martire) della saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò
che appare inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il
senso comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la
direzione consapevole e la forza, il senso co- mune è tratto senza esitazione a
fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? L'indipendenza e
l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica
fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con
grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo
capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui
al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale
dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale;
o, che torna lo stes- so: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si
riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque cercare prima di tutto se
questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito,
per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali
di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non
implica necessaria- mente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel
riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via),
cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le conclu-
sioni alle quali si arriva. La connessione fra le diverse tesi che si
raccolgono attorno alla autonomia kantiana può es- sere, anzi veramente è, nel
suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e
fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí il «primato della ragione
pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza
logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali;
benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa
indipendenza e validità. Ciò che si presenta come conseguenza di questo riconoscimento
è il problema della conci- liazione tra le esigenze della speculazione
teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual problema il primato
della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via per la quale il
Kant l'ha cercata. Ma veniamo al punto che ci interessa. Il concetto
fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto, quello del
volere buono. Il volere buono è il volere che si determina non per un oggetto,
qualunque esso sia, che ab- bia un valore di fine per chi lo vuole (motivo
«patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto al- la legge perché è
legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze
che il volere conforme alla legge apporta. Il rispetto della legge in quanto è
legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il ri- spetto di ciò che la
fa esser legge, della sua validità universale. L'universalità è la forma della
ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragio- ne stessa in
quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica. Se l'uomo fosse
pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a ten-
denze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si
potrebbe parlare di dovere. In- vece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di
conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il
volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di
qua- lunque specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità,
che è la forma della volontà razionale. Il criterio supremo della moralità è
perciò espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si
dice piú sotto. Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed
essa soltanto a fornire la caratte- ristica della valutazione etica, a
distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non vale? Quando la prima
formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu
puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge universale», — questa
possibilità di voler che la massima diventi legge universale può esser presa in
due significati diversi. Può voler dire la possibilità che sia seguita
universalmente senza che l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o
limiti la possibilità della medesima osservanza da parte degli altri; la
possibilità di pensarla senza contraddizione come legge universalmente valida;
o può significare invece la possibilità che il valore universale della massima
sia riconosciuto senza che questo riconoscimento contraddica o neghi il valore,
che è o si suppone già ammesso, di un principio piú generale; ossia che si
possa volere l'universale validità della massima senza disvo- lere
l'universalità di una massima piú generale che la comprende, e si suppone che
già sia o debba essere ammessa come legge. I due significati sono profondamente
diversi, sebbene possa parere a prima vista che coinci- dano. Che, negli esempi
che dà e nei commenti con cui li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche
volta i due sensi e non ne oscuri le differenze, non oserei negare; ma non
parmi si possa dubitare che il vero significato inteso e voluto da lui sia il
secondo e non il primo. 1. Se s'intende l'universalità nel primo senso bisogna
riconoscere che: a) non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto che
sia seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il
valore morale; come per converso: b) può darsi che di una massima di condotta
non sia possibile l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca
l'immoralità. a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli addotti
dallo stesso Kant (il 3° della Fondazione) in sostegno del criterio
dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che pre- ferisce il darsi buon
tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali (dove è
chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti seguano quella
medesima massima, sebbe- ne questo non importi nessun riconoscimento di valore
morale); e quello (addotto dallo Schopen- hauer contro il Kant) della ragione
del piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che dappertutto dove vi è
un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il secondo, cioè che la
subordinazione del debole al forte sia fatta valere uni- versalmente come
legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. b) Per converso, tra le
massime che non possono pensarsi universalmente osservate sen- za
contraddizione vi sono non solo massime comunemente riconosciute come immorali,
per esem- pio, che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche massime come
l'opposta: che ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se
non gli economisti, almeno San Francesco e i suoi ammi- ratori non metteranno
in dubbio la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile pensare
universalmente praticate cosí la seconda come la prima. Ben diverso è il
secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità di univer-
salizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o
l'incompatibilità di questa u- niversalizzazione della massima con la volontà
che la pone. Senonché questa incompatibilità (restringo, per semplificare,
l'esame alla forma negativa che è anche la piú importante) può esprimere due
specie diverse di contrasto: può voler dire che univer- salizzando la massima
si viene a togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare
il motivo stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra
massima che già vale, o si ammette che valga o debba valere per la volontà,
come legge universale. I due casi debbono essere considerati a parte e si
possono chiarire facilmente con esempi. 2'. Supponiamo che oggi io, piú forte,
trovandomi di fronte a un debole lo costringa a fare il piacer mio, e che
giustifichi la mia prepotenza con la massima che il forte ha diritto di
soggiogare il debole. Se il motivo, che mi ha indotto a formulare la massima è
l'interesse egoistico, accadrà che in nome di questo stesso interesse io dovrò
negare la massima quando le vicende facciano di me, del piú forte di ieri, il
debole di oggi. Ossia la massima non può essere universalizzata, senza che
venga posta con ciò la possibili- tà che sia negato il principio (cioè il
motivo o l'interesse) in grazia del quale l'ho accolta. Se si suppone invece
che io riconosca essere nella forza il fattore di ogni elevazione mo- rale, e
nell'esercizio incondizionato di essa il valore morale piú alto, la massima
della prepotenza che approvo quando il piú forte sono io, dovrà essere parimente
approvata — anche se hic et nunc mi dispiaccia — quando il piú forte sia altri;
e l'universalità della massima potrà esser voluta senza contraddizioni, perché
si accorda con il mio supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di
valutazione; ossia perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta
dal mio volere come legge universale11. Il significato nel quale è preso dal
Kant il criterio della universalizzazione, è, come si è det- to, il secondo; e
propriamente quella forma del secondo che risponde all'ultimo dei casi ora
esaminati. Né potrebbe cadere sotto qualsiasi altra la considerazione, che è la
sola veramente decisiva, fatta da lui per provare che non potrebbe essere
universalizzata la massima proposta nel 3° esempio, già citato, dell'uomo che
ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza dubbio una
natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora sussistere,
anche quando l'uo- mo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse arrugginire
i suoi talenti e non pensasse che a vol- gere la sua vita verso l'ozio, il
piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il godimen- to; ma
egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge universale della
natura e che ciò sia innato in noi come istinto naturale. Perché come essere
ragionevole egli vuole necessaria- mente che tutte le facoltà siano sviluppate
in lui». (Fondazione, Parte II). La medesima considerazione è ripetuta a
proposito dall'altro esempio (il 4°) in cui si fa l'ipo- tesi del brav'uomo,
che si propone di non far del male a nessuno, ma quanto all'adoperarsi nei
biso- gni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio per tutti. «Quantunque
sia possibile che sussista una legge universale della natura conforme a quella
massima, è impossibile di volere che un tale princi- pio valga come legge della
natura» Per il Kant dunque l'universalità della massima non è criterio della
sua bontà e del valore morale della volontà che vi si conforma, se non perché
essa è una prova dell'accordarsi della mas- sima seguita nell'azione con la natura
dell'essere ragionevole, con la legge posta dalla Ragione, che è la legge
stessa morale. Soltanto intesa cosí la formula (la 3a della Fondazione) della
volontà di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo delle sue massime
una legislazione universale, o nei termini della Critica della ragion pratica
(op. cit., p. 30): «Opera in modo che la massima del [Con quel che risulta
evidente da questa ipotesi si accorda il fatto assai notevole della profonda
diversità di valore che può assumere nel nostro giudizio morale la medesima
regola pratica, secondoché noi vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo
e impersonale (anche se contrario al nostro criterio di valutazione) o un
motivo soggettivo e personale; a seconda che ci appare una massima accettata
veramente da chi opera come norma, o un comodo pretesto o compromesso del
momento; cioè a seconda che vi si trova o no quella condizione necessaria, se
non sufficiente, del ca- rattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di
loro e delle azioni coi giudizi. 12 La ragione di natura egoistica che Kant fa
seguire può valere tutt'al più come un tentativo poco felice di giu- stificare
la simpatia dal punto di vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per
sé in alcun modo a dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non
a patto di identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo
«come essere ragionevole» col volere del «caro Io». (Il corsivo delle parole
sottolineate in questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola
volere spa- zieggiata). Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la
bella traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni e C., 1910); per la Critica
della ragion pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R.
Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, Reimer, Berlin). Kritik der praktischen Vernunft, tuo volere
possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e
coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri
conformi ad esse. E soltanto cosí si può intendere come egli creda di derivare
dall'universalità la formula famosa e piú fecon- da (ma feconda in quanto dà un
contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma):
«Opera in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di
ogni altro, sem- pre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo». Ma
intesa cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza:
dell'universale con- formità delle massime alla ragione, alla legge morale, al
volere puro come principio di una legisla- zione universale, vale a dire, alla
legge morale; e della universale validità delle massime come co- mandi, cioè
dell'universalità del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime,
né dalla universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare
quali sono i modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge
universale che la volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa. Se ora
vogliamo, e possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia
kantiana e servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo
raccogliere e completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú
chiara. ** * I valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori
che esprimono la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza
caratteristica sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano
superiori ed estranei ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per
sé, indipendentemente da ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge
(poiché la volontà come potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a
tendenze e impulsi sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze
valutabili solo in rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori
morali degli enti di ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione
pura la ragione pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»). Ma la
ragione per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige o impone la
coerenza; teo- rica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui
si fondano; pratica: delle valutazioni deri- vate e mediate con le valutazioni
direttamente date o postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dà
dunque le valutazioni, sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per
questo rispetto, l'uf- ficio di confronto, riduzione, subordinazione,
unificazione che le è proprio. Non è meraviglia che a voler cavare, da essa
soltanto, i valori morali, non se ne estragga in ultimo che questa esigenza di
una universale coerenza della volontà con se stessa; esigenza necessa- ria e
caratteristica di ogni uomo che sia persona, perché sottintesa, affermata,
voluta (anche quando coi fatti la smentiamo, ma sempre a malincuore)
costantemente, come prova e testimonianza a noi stessi della unità spirituale,
della esistenza e continuità dell'io come persona. Ma essa per sé non ci dice
né che cosa sono i valori, né quali sono i valori sui quali si fonda e ai quali
deve far capo l'esi- genza unificatrice della coerenza. La ragione appresta,
scegliendoli dal groviglio delle conoscenze, i riti adatti a fornir la trama
dell'ordito. Ma i fili dell'ordito, i valori fondamentali sono dati dalla vo-
lontà; né si può derivarne la natura dalla natura della trama; né dal disegno
della tela.Né maggior luce può venire dalla Volontà come il Kant la concepisce;
né dal concetto del Volere puro né da quello del Volere buono. Il Volere puro,
il Volere autonomo, il Volere spoglio come s'è detto, di ogni impulso sensi-
bile, e capace di volere i valori morali per sé, non può esser per lui che il
Volere che vuole la ragione, la ragione stessa in quanto è pratica, in quanto è
forma legislatrice, e non dà che questa medesi- ma universalità.Quanto al
concetto del Volere buono, esso aggiunge bensì alla nota dell'universalità
(rispetto della legge perché è legge) la nota dell'obbligatorietà (un'azione è
buona quando è compiuta per il dovere); ma questa nota è possibile nel volere
buono soltanto in causa del conflitto tra il rispetto della legge morale — col
quale si identificherebbe per sé il volere puro — e gli impulsi sensibili. È
dunque un carattere che riguarda la moralità, non la valutazione morale, e che
esprime il pregio la eccellenza la supremazia dei valori morali in confronto
degli altri valori; ma non dice in che consistano i valori, né donde nasca
questa eccellenza (se non dall'universalità della legge). In ogni caso anche se
il dovere è, nella conoscenza dell'uomo empirico, la ratio cognoscendi della
leg- ge, sta però nella legge la ragion d'essere del dovere e non nel dovere la
ragion d'essere della legge. Sapere che i valori morali debbono essere attuati
non è sapere in che consistono, né sapere perché meritano che si debba
attuarli. Che debbano essere scritti con la iniziale maiuscola tutti i
sostantivi che viene imparando, potrebbe anche essere per uno scolaro tedesco
il criterio per distinguerli come tali dalle altre voci del discorso; ma non è
l'obbligo di scriverli con l'iniziale maiuscola che li fa essere e diventare
so- stantivi. Resta da esaminare la forma che il criterio di valutazione assume
nella 2a delle note formule; quella in cui si assegna alla legge un contenuto
cioè un fine; e il rispetto della legge perché legge, diventa rispetto
dell'umanità o della persona umana come fine in sé. Ma è facile vedere come
questa pretesa derivazione dalla prima formula, o è veramente chiusa nei limiti
di una derivazione e non dice nulla di piú di quella onde è dedotta; o assume
dav- vero un contenuto, e questo costituisce per sé un criterio di valutazione
distinto e diverso da quello da cui si pretende dedurlo. Il quale non si
esaurisce piú nell'universalità della valutazione morale ma richiede un riferi-
mento agli oggetti della valutazione; ed è un criterio non piú formale
soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso cosí, sia adeguato al bisogno
resterà da vedere piú innanzi. Il termine che media il passaggio kantiano dalla
legge come forma all'umanità come fine è il rispetto della natura ragionevole. Poiché
la legge è la ragione, il rispetto della legge, cioè della ragione, importa il
rispetto dell'essere ragionevole, come tale; della natura di essere ragionevole
e della persona umana nella quale si manifesta a noi questa natura. Si potrebbe
già discutere, a rigore, sulla legittimità di passare dal rispetto della
ragione al ri- spetto di una natura ragionevole, perché ciò che impone rispetto
nella ragione è secondo il Kant la sua forma legislatrice e non il soggetto,
qualunque sia, che la porta, e in cui si realizza questa forma. Tuttavia,
finché si pensa l'essere ragionevole come puramente tale cioè come costituito
di sola ragione ed esaurientesi in essa, il passaggio si riduce in fondo ad una
ipostasi, e il contenuto non muta. Ma quando si deve venire all'uomo, il
trapasso è ben diverso. L'uomo è essere ragionevo- le, ma non tutto, e non
soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto della persona umana, si intende
rispetto di tutta la persona in quanto nella persona si rivela una coscienza
uno spirito (che la com- prende sí, ma è ben lungi dall'esaurirsi nella
ragione), oppure si intende la persona in quanto è essa stessa ragione e
null'altro, cioè in quel che ha di universale, di medesimo in tutti gli uomini,
di (co- me si dice, sebbene il dirlo qui paia un bisticcio) impersonale? Non
c'è che da ripetere quel che s'è detto già; dall'assumere come fine questa
persona- ragione vuota di ogni altro contenuto non si ricava altro criterio che
sempre e ancora il rispetto della ragione come tale. E solo verrebbe fatto di
chiedersi se questo inchinarsi davanti alla persona, soltanto per quel che vi è
in essa di medesimezza e di identità con ogni altra persona e non anche per
quel che vi è di proprio originale, individuale e irriducibile, non si
assomigli all'inchinarsi davanti a un apparecchio telefonico per il rispetto
dovuto alla voce autorevole che in esso risuona. Oppure si intende che la
ragione (o meglio un Volere razionale) conferisce dignità all'uomo, a tutto
l'uomo, a tutte le facoltà e attività che essa ordina e fonde nella unità
inscindibile del mede- simo e del diverso, del comune e del proprio,
dell'universale e dell'individuale; che non la ragione, ma lo spirito umano
nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza vivente in ogni persona
merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si può parlare di un
contenuto che non si esaurisce nella forma. Ma è troppo evidente che inteso
cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal rispetto alla ragione e
alla legge perché legge. Intesa cosí la persona umana, essa non è piú
l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa, ma è la sorgente
di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la universale validità e
la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in luce le esigenze,
determina le condizioni di at- tuabilità; (e potrà poi indagare se e come tali
esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle degli altri ordini di
valori e in particolare con quello del sapere); di quei valori morali che il
«Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono» attua in forma di
doveri. ** * Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la
pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere
e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca come valore
morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la conserva- zione
l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività spirituali, appare
in forma tipicamente significativa nel commento già riferito sopra con
l'esempio (il 3° della Fondazione) a cui si riferi- sce: «Come essere
ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano svi-
luppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di
fini possibili». Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il
volere autonomo, morale, è dunque il volere che vuole «necessariamente» lo
sviluppo di tutte le facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che
il contenuto sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza contesta-
zione come fini di un volere buono cioè come valori morali14. E appare manifesto
che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio puramente
formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto, i fini dell'operare
morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto loro, i doveri. E
risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione del- l'operare è veramente
buona, che un atto è veramente morale? ma non alla domanda: quali sono le
azioni, in cui questa buona intenzione si deve tradurre; quali sono i fini a
cui il volere buono deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella cui
attuazione fatta con purità di volere consiste la moralità? [ E che veramente
si sottintendano come già noti e riconosciuti è confermato all'evidenza
dall'analisi di ciò che costituisce veramente il presupposto fondamentale non
solo di quella citata ma dalle altre esemplificazioni; con le quali si prova —
non già, come s'è visto, l'impossibilità per sé di universalizzare — ma
l'impossibilità di volere che una tal massima valga come universale. Infatti la
ragione per la quale non si può erigere a massima universale il principio che
chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio) non è già l'impossibilità di
concepire seguíta una tal massima da tutti quelli che sono stanchi della vita,
ma l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e adottata; perché essa
implica che si affermi la superiorità del piacere sui valori morali (dei quali
la vita è condizione); mentre, appunto perché li riconosciamo come morali, af-
fermiamo e vogliamo il contrario. Così nel secondo, il dato contro cui urta la
universalizzazione della massima — che sia lecito promettere con l'intenzione di
non mantenere — è la superiorità sottintesa della sincerità e della lealtà
sull'interesse egoistico; e la con- seguente impossibilità di volere che cessi
di essere riconosciuta universalmente quella superiorità di cui noi siamo
certi. Del terzo esempio si è detto, e si è accennato anche al quarto; nel
quale ultimo è sottinteso manifestamente il valore della simpatia e della
benevolenza, che non possiamo ammettere sia subordinato al valore della propria
quiete o dei propri comodi. 35 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta Alla quale domanda si presume dunque che la
risposta sia già data dalla coscienza morale. E la risposta è data infatti, e
non può esser data, che da lei. Ma se la risposta non fosse univoca? Se,
supposto pari in due coscienze il rispetto della legge, la legge comandasse
all'una quel che vieta o non comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il
contrasto tra le due leggi il sapere che il volere è buono quando si determina
per rispetto alla legge, e che la moralità consiste nel compiere il dovere per
il dovere? 36 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale \ Non
vi è una coscienza morale, ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze
morali quante sono le coscienze personali nelle quali sono riconosciuti come
supremi e normativi e validi indipen- dentemente dal flusso momentaneo e
variabile delle valutazioni transitorie e accidentali, certi valo- ri; ed è
riconosciuta l'esigenza che il criterio di valutazione corrispondente possa
valere non solo come norma costante del giudicare e del volere proprio, ma
anche come norma costante del giudica- re e del volere altrui; ossia come norma
universale del giudicare e del volere di ogni persona. Se si ammette o si
suppone che quei certi valori siano per tutte le coscienze i medesimi, si può
parlare della coscienza morale, come una ed identica non solo di forma, ma
anche di contenuto; se si ammette il contrario, si deve riconoscere una
pluralità di coscienze morali piú o meno discor- danti e una pluralità di criteri
di valutazione che si presentano alle diverse coscienze con la medesi- ma
autorità di valutazioni morali, cioè con la medesima forma. Il fascino
singolare che esercitò ed esercita la morale di Kant viene non dal suo
formalismo per sé, ma dal fatto che, mentre spoglia e purifica la moralità da
ogni fine materiale e quindi dal pe- ricolo di ogni considerazione soggettiva,
la dottrina è sostenuta e vivificata dalla fiducia salda e in- crollabile che
si debba riconoscere o si possa dimostrare che dentro quella forma cape, e non
può capire che un solo contenuto; dietro quella legge si debbano trovare
infallibilmente i fini che la co- scienza morale riconosce come buoni, e quelli
soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non poteva non essere, vano. Il criterio
formale di Kant sem- bra convenire ad un solo e unico contenuto, a certi valori
ed a quelli soltanto, perché si ammette già che la coscienza morale sia unica;
che la sua voce non soltanto parli in ogni coscienza con lo stesso tono, ma
dica le medesime cose. In realtà il criterio formale non esprime che l'esigenza
della razionalità: una legge non è leg- ge se non è valida sempre nei medesimi
casi; una norma non è suprema se non a patto che ogni altra norma sia
subordinata ad essa; un criterio di valutazione non è piú un criterio, ma un
capriccio, se i miei giudizi di valore non si accordano costantemente con
quello; se io non riconosco legittimo — fatto da qualsiasi altro — il giudizio
che quel criterio esigerebbe da me nel medesimo caso. Ma è un'illusione credere
che possa bastare la razionalità per sé a distinguere i valori dai non valori;
i valori morali dai valori non morali, a farci riconoscere — senza appello
diretto o indi- retto a qualche dato o postulato non razionale — il valore di
un oggetto qualsiasi (di un contenuto), ideale o reale. Si governa non meno
razionalmente l'avaro, quando giudica ed opera in ogni caso come se il danaro
fosse l'unico bene per sé, il supremo bene, purché riconosca legittimo che ogni
altro giudichi e operi allo stesso modo, di quel che faccia l'esteta quando
ragguaglia ogni cosa a un ideale di bel- lezza, o l'intellettuale che non
riconosca altro scopo degno alla vita che la ricerca della verità. E quando si
dice o si crede di dimostrare che è «contrario alla ragione» non un giudizio
apprezzativo che contraddice al criterio accettato, ma il criterio stesso come
tale, non si può affermare o dimo- strare questa contrarietà se non perché si
sottintende che vi sono — cioè sono riconosciuti e deside- rati — altri valori
diversi, superiori o non subordinabili a quello dal quale è tratto il criterio
in que- stione; e si trova contrario alla ragione che non si tenga conto di
quest'altri valori, che si giudichi e si operi come se questi non esistessero,
o fossero inferiori mentre sono superiori, o incondizionati mentre sono
condizionati. Ma se si fa l'ipotesi che questi altri valori non siano tali per
un Tizio che li ignora, qualsiasi istanza di irragionevolezza contro di lui
cadrebbe a vuoto, anzi sarebbe essa irragionevole. Adunque il criterio del Kant
non supera, dato che ci siano, le differenze di contenuto valuta- tivo. Se in
nome della mia coscienza morale io pongo il valore dell'umiltà, e in nome della
propria coscienza morale un'altra persona lo nega, l'universalizzare le massime
che rispondono alle due va- lutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo
verso una soluzione del conflitto, se non a questa condizione: che io creda di
poter dimostrare che una delle massime si accorda e l'altra contrasta con una
terza massima nella quale è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o
ammesso inconte- stabilmente come morale. E si presenta inevitabilmente, senza
che sia possibile eluderla, la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di
contenuti discordanti nella valutazione morale? C'è. Si è osservato piú sopra che
ogni oggetto ideale o contenuto di valutazione morale ha o può avere nello
stesso tempo valore per altri rispetti, cioè può essere considerato come un
valore di altra specie. Anzi è per questa relazione dei valori morali con
valori di ordine diverso che si è cercato e si è creduto di poter trovare il
fondamento della valutazione, la ragione d'essere del valore morale in una
finalità di natura edonistica (egoistica o altruistica) o noetica o estetica o
religiosa. Se si considera una tale rivalutazione eterogenea come pretesa di
far valere — con questa e per questa ragione — per morale, un valore che non
sia già sentito come morale, il tentativo, è come s'è visto, del tutto
illusorio. Ma se si considera, al contrario, come espressione di una finalità
che può assumere in questa o quella coscienza importanza prevalente, che può o
potrebbe — all'infuori del carattere specifico di eticità per il quale è posto
da quella stessa coscienza come valore morale — essere sentita come su- periore
in pregio ai fini di ogni altro ordine, e degno di subordinarli, essa contiene
in sé la ragione capitale della diversità e discordanza dei fini e dei criteri,
che pretendono di valere ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto
proprio dei valori morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza
per il quale i valori si ordinano da sé in una scala determinata dalle
connessioni di inerenza e di condizionalità degli altri valori, con i valori e-
stetici; e il mistico un ideale di santità, al quale subordina gli altri
valori, accogliendoli e graduando- li in quanto convengono, negandoli in quanto
disconvengono; e cosí lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la
verità, e cosí l'egoista calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per
essere morali, hanno già una validità e un'autorità intrinseca che li distingue
dagli altri valori, si vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del
mistico e cosí degli altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e
riconoscere rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via
dicendo; e se continuano a valere per la forma come morali, valgono — per il
contenuto — soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il
dominante. Basta per convin- cersene badare alle differenze caratteristiche
della motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di co- scienza supposto
giustifica a sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza,
o alla forza di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo
coincidere e fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore
dell'ordi- ne che esprime l'orientamento prevalente della coscienza — anche
quando non è in giuoco la valu- tazione etica — non solo conduce alla
transvalutazione notata, ma tende a indurre insieme un pro- cesso di
transvalutazione inversa; cioè a dar colore e calore di convinzione e di
apprezzamento mo- rale ai valori di quell'ordine, a riconoscerli come morali e
a pretendere che siano riconosciuti per tali anche dalle persone, nelle quali
non si afferma il medesimo orientamento. Ed è istruttivo (e non è sfuggito agli
umoristi) il calore col quale parla di diritti offesi e ri- vendica gli
interessi sacrosanti della giustizia l'egoista gretto che vede frustrato un suo
piccolo cal- colo ingegnoso che aveva a mala pena il pregio di non urtare nel
Codice penale; e quello (sia pure 38 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta di dignità fuor di paragone diversa) dell'artista, che
grida allo scandalo e invoca un preciso dovere dello stato a reprimerla, se
offenda il suo senso estetico, la trascuranza per un tronco di colonna di-
menticato. E si potrebbe continuare, in modo anche piú evidente, per gli altri.
Cosí ciascuno degli orientamenti valutativi tende ad allargare nella direzione
corrispondente la sfera dei valori morali, includendovi un contenuto proprio
diverso, e non coestensivo al contenuto di ciascun altro. E perciò accade che i
diversi sistemi di valutazione — animati come sono e pervasi da un interesse
tipicamente diverso — abbiano in realtà in comune soltanto una parte di quei
valori che ognun d'essi, per l'esigenza sua propria, riconosce come morali;
abbiano cioè comuni soltanto quei valori morali che sono nello stesso tempo
valori diretti o indiretti del proprio genere, o che al- meno non contrastano e
non negano quella propria specifica esigenza. I diversi sistemi assomigliano
cosí a cerchi eccentrici di vario raggio che si intersechino fra di loro; dei
quali è minima la superfi- cie comune a tutti, ed è sempre piú grande la parte
d'estensione rispettivamente comune a un nume- ro di cerchi minore; e in misura
variabile, secondo che sono meno o piú eccentrici fra di loro. D'altra parte,
anche la coscienza nella quale l'orientamento tipico è dato dall'interesse
stesso morale (la coscienza dell'homo ethicus) si trova a dover considerare nei
valori estetici religiosi intel- lettuali economici il valore morale diretto o
indiretto che assumono o possono assumere in grazia di relazioni analoghe a
quelle considerate sopra (il valore p. es. che l'attività scientifica e
l'estetica e le doti richieste e promosse da questa attività possono avere per
la cultura morale). E non solo: ma per la considerazione felicemente messa in
evidenza dal Moore sul valore organico (il «quanto» per il quale il valore di
un tutto eccede il valore di uno dei suoi fattori non è necessariamente eguale
a quello del fattore che rimane: ethics, Cap. VII: Intrinsic value), si trova a
dovere apprezzare diversamente l'oggetto ideale della valutazione morale,
quando esso è nello stes- so tempo oggetto di una valutazione diversa,
intellettuale, per es., od estetica. (Non è senza signifi- cato anche per
questo rispetto che il Sommo Bene sia stato identificato col Sommo Bello). Si
aggiunga finalmente (il «finalmente» chiude ma non esaurisce le osservazioni su
questo proposito) che il carattere di interiorità dei valori morali, il quale
si fa tanto piú spiccato quanto piú la coscienza personale è concepita come
sorgente e creatrice autonoma dei valori, tende a staccare, anche nella
coscienza dell'homo ethicus, il valore morale dagli schemi che esprimono una
esteriore conformità alla valutazione, per riconoscere un pregio preminente
alle note interiori di spontaneità, di libertà, di autonomia; il che porta ad
estendere la dignità intrinseca dei valori morali anche a que- gli altri valori
spirituali nei quali splende un raggio di quelle medesime luci; e non tanto a
distingue- re i valori morali da altri valori spirituali, quanto a distinguere
il contenuto interiore e spirituale dei valori dal contenuto esterno e
materiale nel quale si traducono. ** * Cosí nella coscienza personale si
attenua e si fa piú incerta, e trasmutabile per molti modi, la distinzione tra
i valori morali e gli altri valori spirituali. In altri termini: mentre, si può
dire a un di- presso, dal trionfo dell'etica cristiana fino al Kant la
valutazione morale aveva avuto per le diverse coscienze della stessa civiltà e
cultura un contenuto comune determinato e costante (e, in ogni caso, la parte
di contenuto sulla quale cadeva il dissenso finiva per essere praticamente
quasi trascurabi- le), a partire dalla «Dichiarazione dei diritti» della
Rivoluzione francese, si delinea e si allarga nel campo della valutazione
morale una sempre maggiore differenza di contenuto tra coscienza e co- scienza;
e si fa piú frequente e piú profondo il contrasto tra i criteri di valutazione
rispettivamente accolti come supremi. E i sistemi nei quali i valori morali
sono ricondotti a un criterio intellettuale, o estetico, o re- ligioso, o
etnico, o umanitario, o filogenetico, o solidaristico, o egotistico, o quale
altro si voglia, non sono piú, guardati per questo rispetto, tentativi
dispersi, ma, per cosí dire, paralleli di giustifica- 39 Su la pluralità
dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore
di un medesimo contenuto; essi esprimono invece, nella parte forse mag- giore e
piú significativa, una diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte
un contenuto co- mune, che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a
cui si riscalda. Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale,
la parte di contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre
non ha per sé autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A
meno che la coscienza stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il
proprio criterio di valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di
grado, tra quella e queste. Se si suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo
spirito filantropico, lo speculativo, il reli- gioso, l'estetico, non
riconoscano rispettivamente altri valori all'infuori di quelli che si possono
commisurare al criterio di valutazione proprio di ciascheduno, si troverà
tuttavia che certe doti spiri- tuali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il
dominio di sé, l'ardimento, sono e debbono essere considerate come valori da
tutti indistintamente i tipi supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa,
che siano in- telligenti) debbono riconoscere che quelle doti personali sono
condizioni o indispensabili o som- mamente utili alle forme di attività
corrispondenti, cioè all'attuazione di quell'ordine di valori che ciascuno ha
posto a sé come tali. Per la medesima ragione si troverà (la deduzione è troppo
ovvia perché occorra piú che l'ac- cenno) che debbono essere riconosciuti come
valori il rispetto della integrità e della libertà persona- le, l'osservanza
dei patti, lo scambio dei servizi e via dicendo, e con essi i costumi, le
istituzioni, le leggi che assicurano la conservazione e l'incremento di queste
condizioni sociali; e le disposizioni di spirito (lealtà, imparzialità,
simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella coscienza personale. Adunque
tutti i tipi suddetti, e gli altri che si potrebbero analogamente supporre,
saranno portati a riconoscere e ad apprezzare in sé e negli altri — astrazion
fatta da ogni valutazione morale — dei valori, sia propriamente personali (doti
della persona che possono sussistere nel soggetto in- dipendentemente dal suo
atteggiarsi rispetto ad altre persone); sia sociali (doti che riguardano questi
atteggiamenti); valori che nascono dal rapporto di condizionalità costante che
li stringe a ciascuno degli ordini supposti. Di piú: il rapporto di
condizionalità dal quale viene ai valori citati in esempio il carattere di
strumentalità, è diverso, come è facile vedere, da quella strumentalità esterna
accidentale e variabile che lega il blocco di marmo all'opera dello scultore, o
la conferenza di propaganda al disegno del- l'altruista, o un libro agiografico
all'interesse del mistico, o la scala dell'Osservatorio agli studi del-
l'astronomo: appunto perché là si tratta di condizioni preliminari
indispensabili e permanenti, il cui valore non solo non si esaurisce nell'atto
singolo che ne dipende, ma non è sostituibile da alcun altro strumento o
condizione. È dunque una condizionalità necessaria, permanente e insurrogabile,
in forza della quale ciascuno dei detti tipi dovrà riconoscere a siffatti
valori condizionanti una superiorità, se non di pre- gio intrinseco, di
precedenza imprescindibile sui valori diretti e finali che ne dipendono. ** *
Non occorre lungo discorso per intendere come per effetto del medesimo rapporto
il filan- tropo potrà essere condotto a riconoscere i detti caratteri di
condizionalità anche a qualità attitudini forme di attività, alle quali o non
potrà attribuirli o dovrà forse attribuire un valore negativo, o di o- stacolo,
ossia un disvalore, il mistico o l'esteta; e inversamente; e come perciò sarà
possibile una di- stinzione tra i valori propri esclusivamente di ciascun tipo
di valutazione, e i valori condizionanti comuni a qualsiasi ordine, dato (come
gli esempi citati dimostrano possibile) che ve ne siano di co- siffatti. Questi
valori comuni avranno dunque oltre ai caratteri già notati, anche quello di
essere strumentali rispetto a quale si voglia criterio di valutazione che sia
posto come normativo; cioè a- vranno una condizionalità universalmente
necessaria permanente e insurrogabile. Aggiungiamo ora un nuovo elemento
all'ipotesi; e supponiamo che tanto il filantropo quanto lo speculativo e il
mistico e l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei valori morali,
quell'or- dine di valori che risponde alla direzione tipica della propria
coscienza. Accadrà che la valutazione morale dell'uno coinciderà quanto al
contenuto con la valutazione morale di ciascun altro soltanto per quei valori
nei quali si riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre ciascuno
interiormen- te riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di tutti i
valori posti e dichiarati dalla sua co- scienza a lui come morali, dovrà
riconoscere in pari tempo, che, per le volontà per le quali vale co- me
normativo un ordine di valori diverso, la detta esigenza non comprende tutti
questi medesimi va- lori, ma soltanto quelli la cui strumentalità condizionale
è universalmente necessaria. Cioè dovrà ri- conoscere che, esteriormente alla
propria coscienza, l'imperatività del proprio criterio è limitata a questa piú
ristretta sfera di valori. In altri termini, non potrà esser posto come
criterio morale e co- mune se non un criterio di valutazione che assuma, come
universalmente validi e costantemente su- bordinanti ogni altro valore, quei
valori appunto nei quali si riscontra la detta priorità condizionale; ma che
insieme non neghi, e non escluda i valori morali propri di ciascuna coscienza
in particolare, cioè nessuno di quegli ordini di valori, nel quale si inquadra
e si giustifica per ciascuna coscienza individuale quel contenuto comune. Si
delinea dunque, per la riflessione critica obbiettiva, una distinzione tra i
valori la cui at- tuazione è riconosciuta come un'esigenza universale e
costante per qualsiasi coscienza capace di moralità, e i valori la cui
attuazione è un'esigenza soltanto per la coscienza che li pone a sé come
morali; tra i valori per i quali ogni coscienza può riconoscere legittima una
legislazione esterna che ne imponga la validità; e i valori dei quali una
legislazione esterna deve soltanto non escludere la possibilità; tra i valori
che possono essere oggetto di una obbligazione a un tempo interna ed ester- na,
e i valori che, non possono essere oggetto che di una obbligazione interna. Gli
esempi addotti in principio di questo capitolo per chiarire il concetto di un
contenuto comune universalmente valido, non rispondono a una determinazione
rigorosa; e hanno soltanto un carattere provvisorio di opportunità. Se ora
cerchiamo di fissare con precisione quali sono propria- mente i valori che lo
costituiscono, troveremo facilmente che essi si assommano in due condizioni
riconosciute in effetto (e non potrebbe essere altrimenti) come valori primari
fondamentali da ogni sistema morale: la libertà e la giustizia. La libertà
esprime l'esigenza delle condizioni soggettive necessarie a fare dell'uomo una
per- sona padrona di sé di fronte a sé e di fronte a ogni altra persona; la
giustizia esprime l'esigenza delle condizioni obbiettive necessarie
all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. L'attuare in sé e in
ogni altra persona questi valori di libertà e di giustizia (ed i valori impli-
citi in questi) deve dunque essere riconosciuto come un dovere universalmente
valido, anzi come il solo dovere (o la sola categoria di doveri) veramente
universale. Ma qui è da notare una circostanza rilevante. La libertà non è una
condizione di fatto, un possesso dato; ma è, come vide e affermò fervi- damente
il Fichte, una conquista da fare, una idealità che si viene realizzando e che
richiede sforzi sempre nuovi e impone sempre nuovi doveri. E il medesimo è da
dire della giustizia che è lo spec- chio sociale della libertà. Ora se il
valore della libertà e della giustizia (e la validità dei doveri che ne
derivano) consi- ste, come apparirebbe dalla deduzione fattane qui, soltanto
nel loro essere condizione necessaria ad ogni ordine di valori; è continua ed
inevitabile la possibilità di un contrasto nella coscienza dell'in- tellettuale,
dell'esteta, dell'altruista, tra l'interesse sempre presente, diretto della
conoscenza o della bellezza o della simpatia e i doveri mediati e indiretti
della libertà e della giustizia; o, in termini ge- 42 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nerali, tra i valori diretti e
per la coscienza individuale supremi, e i valori che per lei appaiono sol-
tanto indiretti e strumentali. Cosí obbiettivamente nell'ordine di una
possibile legislazione esterna, sarebbero doveri pri- mari, soli veri doveri,
quelli appunto che soggettivamente per la legislazione interna di molte se non
di tutte le coscienze individuali, valgono come doveri derivati, cioè tali
soltanto in grazia di doveri d'altro ordine, dei quali l'obbligatorietà esterna
tutela subordinatamente, ma non impone l'osservan- za. E resta in ogni caso la
questione: Quei valori che una coscienza riconosce come valori in sé, e a cui
commisura gli altri valori sono posti ad arbitrio? La distinzione stabilita nel
capitolo precedente implica che siano valori morali diretti, cioè supremi e
normativa per ogni coscienza, soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé
e ricono- sce come tali; e non dà ragione del fatto che siano posti e
riconosciuti come valori morali diretti, cioè valori per sé, anche quei valori
di libertà e di giustizia che appaiono, nella deduzione che se n'è fatta qui
sopra, come valori morali universali soltanto in grazia del rapporto necessario
di preceden- za condizionale che li lega ai primi. E ciò significa che la
distinzione stessa non ha che un valore provvisorio, finché non si ammette
quella tesi, e non si dà ragione di questo fatto. C'è, sottinteso, nella tesi
del resto inevitabile — che siano valori morali per ciascuna co- scienza quei
valori che essa pone a sé come supremi e normativi, qualche presupposto? E qual
è questo presupposto? Non è difficile scoprirlo. Perché un ordine di valori,
diciamo per comodità di espressione, una idealità, sia riconosciu- ta da una
coscienza come suprema e normativa si richiedono due condizioni
imprescindibilmente: 1° che la detta idealità possa costituire un criterio di
valutazione atto a subordinare ogni altro valore, a dare unità coerente alle
valutazioni e a segnare una direzione costante alla volontà; 2° che essa sia in
effetto posta dalla volontà come suprema e riconosciuta degna di diri- gerla; e
perciò che l'attuazione di quella e la esclusione di ogni atto che la neghi sia
sentita come un esigenza incondizionata (esigenza di non smentire con la
volizione la volontà, con l'atto la valuta- zione); e sia sentito o posto
idealmente come dovere il subordinare ad essa ogni altro valore e il ne- gare
ogni interesse che contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le
condizioni stesse che fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una
unità, cioè una Volontà consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono
in una parola le condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di
ciò che costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'indivi- duo si afferma
ed esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del
valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto,
della persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa
volontà. Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il
presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale;
perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o
idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori
della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed
è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità.
Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e
postulare come dato e fuori di ogni contestazione, qualche valore intrinseco,
al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commi- surare il
valore in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di
confronto e di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la
validità di ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto
del quale si discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge
irrimedia- bilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche
cosa di perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza,
quando si discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone
neces- sariamente la validità di quella ragione che è chiamata in causa.
Bisogna dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto;
accettando o respin- gendo insieme ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è
via di mezzo possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale;
accettarlo vuol dire riconoscere valore morale a ciò che costituisce la
personalità, a ciò che le è essenziale, e che la fa essere non la personalità
astratta e comune che non sussiste per sé e non basta a costituire questa o
quella persona, la mia persona; ma la persona individuata viva e concreta, in
quel che ha di universale e di comune e in quel che ha di proprio, di suo, di
individuale; l'umanità non dell'uomo genere, dell'uomo tipo, ma di questo o di
quell'uomo. In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in quanto è questo. L'uomo-ragione
dà, come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto.
L'uomo-volontà pone questa coerenza come legge del mio valutare e del mio fare,
impone a me che l'idealità posta e riconosciuta come suprema valga veramente
come suprema, che io ne af- fermi il valore intrinseco, ne approvi o ne accetti
le esigenze sempre dovunque si presentano, in me e fuori di me; mi impone, in
una parola, di essere persona; e di volere che ogni uomo sia persona. Ma non è
ancor tutto. Quel che io devo essere per valere come persona, l'idealità che
deve dare unità al mio io, e in cui si esprime non la volontà in genere, ma la
mia volontà di essere perso- na, è posta da questa mia volontà ed ha valore per
me perché è posta da lei. Certo, la mia coerenza deve essere e non può essere
altro che la coerenza della ragione; l'e- sigenza che la mia volontà impone a
me di essere persona è quella medesima esigenza che la volon- tà di ciascun
altro (capace di moralità) impone a lui, e che a me e a lui e a ciascun altro
impone il rispetto della persona come tale; ma l'una e l'altra esigenza non
investono il medesimo contenuto spirituale in me e negli altri. Limitano le
categorie di valori, nelle quali l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma
non determinano per tutte la medesima idealità. La mia volontà deve — per far
di me una persona — uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze
necessarie e costanti di ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia);
e deve perciò superare l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e
mutevoli (dei quali non si misura il valore che dal loro effetto su di me), e
appuntarsi in una idealità che le sia norma; ma non può usci- re di sé per
diventare una volontà diversa, non può cessare di essere quella certa volontà,
che fa di me non la persona umana in generale, ma la mia persona. Insomma non
può volere l'unità se non di quello spirito di cui è la volontà. Ma quale è la
prova che questa idealità non è un capriccio dell'io transitorio e mutevole, ma
è veramente legge delle mie valutazioni e delle mie azioni? La prova non è e
non può essere data se non a me stesso, da me, dall'attestazione della mia
coscienza. Ed è perciò che la legittimità dei valori posti da me non è
contestabile da altri né control- labile. Ma vi è tuttavia una prova esterna,
di fatto, tenuta normalmente valida nel giudizio comune; e che è veramente
necessaria, anche se non è sempre sufficiente; e questa prova è il sacrificio.
Ap- punto perché il sacrificio attesta che ogni mia facoltà, ogni mio potere si
raccoglie e si appunta nella volontà di attuazione di quel valore; e che io
nego e respingo da me ciò che mi costringerebbe a ne- garla. Cosí è che il
valore della vita si misura dal valore di ciò a cui si è disposti a
sacrificarla; e che, per converso, l'esser pronti alla morte apparisce
l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui si è devoti. Le esigenze
costitutive della personalità si attuano dunque informando di sé un contenuto
spirituale che è sempre in qualche parte proprio e caratteristico di ciascuna
coscienza individuale; come raggi di una medesima luce che tralucono per
cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare con- tenuto la condizione o il
mezzo per il quale la personalità si pone e si realizza nell'io individuale e
concreto; la materia che si suggella di quella forma. E il valore morale di
questo contenuto nasce da questo suo essere lo strumento il tramite, per il
quale si esprime nella coscienza individuale il valore assoluto della
personalità umana. Per tal modo l'idealità, nella quale si concreta per la
coscienza delle persone singole il crite- rio o la legge della valutazione
morale, costituisce per ciascuno l'affermazione della unità spirituale della
sua volontà di essere persona, della sua libertà. Cosí la libertà, che nella
deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente acquista valore solo
strumentalmente universale e necessario, in quanto l'attuazione dei valori di
libertà ap- pare la condizione comune e imprescindibile della attuazione di
ogni ordine di valori, è invece qui valore per sé immediatamente universale; e
sorgente di quegli stessi valori che valgono per le co- scienze singole come
supremi soltanto perché sono lo strumento del realizzarsi di essa libertà in
cia- scheduna. È, quindi, la sorgente cosí dei valori costitutivi della
personalità in astratto, come dei va- lori costitutivi delle diverse
personalità in concreto; cosí dei valori universali della persona ideale come
dei valori propri della persona reale. Nel presupposto stesso di ogni valutazione
morale ha dunque radice cosí l'esigenza dell'uni- versale come l'esigenza
dell'individuale; l'esigenza di una valutazione comune e l'esigenza di una
valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza che la volontà personale si
affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e dell'altra, o, meglio,
dell'una nell'altra. L'imperativo della libertà è ad un tempo: sii persona, e:
sii la tua persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi essere per essere uomo;
rispetta l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro l'espres- sione
individuale e concreta dell'umanità. A nessuno verrà in mente di credere che si
intenda di stabilire cosí il dovere di creare nuovi valori, di affermare nuove
intuizioni morali; e porre accanto al dovere di essere giusti, quello di es-
sere originali. Sarebbe come voler obbligare uno scienziato a fare delle
scoperte, almeno nel senso che si suol dare comunemente alla parola. Le
intuizioni morali nuove, come le scoperte scientifiche, come le nuove forme di
arte, si presentano a chi... le trova. Spiritus flat ubi vult. Ma vi sono, in
un certo senso piú modesto, come nella ricerca scientifica le piccole continue
scoperte di indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi, che cavano e
puliscono la selce e tem- prano l'acciarino, dai quali l'uomo di genio farà
sprizzare la scintilla, cosí nella vita morale le picco- le nuove intuizioni e
nuove interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori morali, che
prepa- rano il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino nell'apparente
applicazione mo- notona di una medesima massima alla medesima classe di azioni,
un'impronta, un segno, una sfu- matura, nella quale si rivela l'originalità
morale della persona; originalità di finezza, di delicatezza, di grazia, di
abnegazione, di calore, di fantasia, di acume; gradazioni e colorazioni diverse
di valori noti, combinazioni nuove di pregi prima disgiunti. Ciò che è proprio
di una persona anche comune (sia venia al bisticcio) non è tanto il rivelarsi
di una proprietà, o dote, o qualità diversa; di un nuovo elemento di valore
(che non è novità frequente neanche nei grandi); quanto questo modo, col quale
si raccolgono, si mescolano e si fondono per lui in sintesi nuove i valori
elementari già intuiti. Ciò che è caratteristico dell'individuo consiste anche
qui, se si dà alla parola il suo significato originario, in una
«idiosincrasia». Queste minori e, nella loro infinita varietà inafferrabili,
differenze individuali, si raccolgono però, come accade, attorno a tipi
diversi, segnati soprattutto dal prevalere, conforme a quel che si è accennato
già, di un ordine di valori sugli altri. Dal che possono derivare non solo
differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E qui sta appunto la sorgente
dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di fronte ai quali la critica non
può fare che opera di constatazione e di sistemazione. Come possa adempiere a
questo ufficio e quali frutti se ne possano attendere non è qui il luogo di
esaminare. Qui importa solo notare come questa indagine e sistemazione critica
non potrà che presenta- re, nella forma tipica piú compiuta e recisa e col
massimo rilievo, i contrasti che sorgono natural- mente dal prevalere, nella
unificazione morale della coscienza personale, di uno piuttostoché di un altro
ordine di valori, e dalla misura di questa prevalenza. Ma la forma fondamentale
sarà data dal contrasto tra i valori universali morali — i valori di libertà e
di giustizia — e quelli che valgono come supremi (cioè che pretendono, come i
morali, la direzione suprema della valutazione), nella coscienza individuale.
Se la libertà e la sua sorella germana, la giustizia, fossero patrimonio
acquisito e non come è, come deve essere, una conquista faticosa del genere
umano che dura e durerà nei secoli, il problema non esisterebbe se non nella
forma di esigenza della conciliazione di quei valori spirituali che non si
presentano come necessariamente e universalmente morali. Problema formidabile
anche questo, ma non tale da segnare una antitesi di criteri non conci-
liabili; antitesi che rende necessaria la subordinazione dell'uno dei due
all'altro, ma che può legitti- mare nella coscienza personale cosí l'una come
l'altra soluzione. Questa antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i
valori di cultura; tra l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona,
cioè volontà libera consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si
arricchisca di nuovi valori l'uomo che è già persona, che è già, se non l'uomo
libero del Fichte, l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter farsi
libero, e che vi tende come al suo supremo valore. È, in termini forse meno
precisi ma piú recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità, tra l'esten-
sione e l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la
possibilità che si facciano partecipi) dei valori di libertà — accessibili
soltanto ad alcuni —, quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di
accrescere in quelli che già li possiedono i valori di cultura, che sono pure,
almeno mediatamen- te, incremento dei valori di libertà. L'umanità (la persona
umana) si rispetta elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva cosí
nell'uno come nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti?
Speriamo che siano; ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura,
dalla quale sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario,
e la possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza
morale prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione
di tutti, o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della
cultura, è baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie
coincidenze del bene generale col bene individuale. Il dire non basta a porre
in es- sere quel che si dice. Alla distinzione fondamentale che ha origine nel
presupposto stesso di ogni valutazione morale (il valore assoluto della persona
umana), tra valori morali universali e valori morali pro- priamente personali,
corrisponde naturalmente una distinzione nel carattere di obbligatorietà che
as- sume rispettivamente nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli
altri. Ai primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere
una obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una
obbligazione interna. In quanto la società or- ganizzata, lo stato, il Potere
politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni ester- ne
della moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento
dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere
formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è
affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume tutta-
via per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo il
modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva; cioè
la giustizia come posizione e conservazio- ne delle condizioni esterne
necessarie alla libertà di tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire
questo punto, che qui si disegnano due orientamen- ti di coscienza diversi e in
alcuni, se non tutti i postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche
corrispondenti, tra le quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono:
l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la
garan- zia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e
quello che prende impropria- mente nome dal socialismo: — la giustizia è la
costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima
possibilità esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpre-
tazione piú universalmente radicale della famosa seconda formula della Fondazione
di Kant). Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si rivela una
forma del conflitto fonda- mentale di cui si è toccato, nel modo di intendere
la conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze costitutive
della personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale. Senonché,
appunto perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato soltanto in
rela- zione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla forma veste
giuridica e quanto al contenuto natura economica; si presenta come negazione o
posizione nel Potere politico della facoltà di sotto- porre ad una legislazione
esterna il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di distribuzio- ne
della ricchezza. La quale limitazione del carattere del conflitto è dovuta non
solamente e non tanto all'abbas- samento inevitabile che ogni idealità subisce
nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico, quanto ad una necessità
intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle condizioni della sua
vali- dità. Questo capitolo presenta soltanto nei suoi lineamenti più generali
una materia che deve essere trattata diste- samente a parte 16 Il quale dal
punto di vista etico trova, e non potrebbe essere altrimenti, la sua
giustificazione in una finalità di contenuto individuale. È individualismo;
universalistico si, ma individuali- smo. Una prova di ciò assai significativa è
appunto la deduzione che il Fichte fa dal dovere che ciascuno ha di attuare in
sé la massima libertà, del diritto alla formazione ed educazione morale di sé,
alla cultura, ai mezzi necessari alla cultura, al lavoro. Insomma, ai medesimi
postulati del socialismo; salvo che là... sono detti in modo diverso.
48 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta
Nell'esemplificazione introdotta qui sopra si è supposto che l'idealità normatrice
potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o estetici o religiosi
o edonistico- altruistici, ma non si è considerato distintamente il caso che
l'ordine normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico; perché esso,
nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a veri- tà, non presenta
quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con i quali
può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto costituito
dagli altri ordini di valori. Ma questo non toglie che anche l'egoismo possa
erigersi a massima di condotta, a principio normativo, purché, si intende,
l'egoista razionalizzi il suo egoismo; cioè riconosca legittimo che valga nelle
medesime condizioni per tutti quello stesso criterio di valutazione, che assume
come va- lido per sé, e che dà, per ipotesi, coerenza al suo giudicare e al suo
fare. Ora è da notare che dal puro calcolo egoistico razionalizzato si deduce
quel medesimo ordi- ne di valori universalmente strumentali di libertà e di
giustizia, che si deduce da ciascuna delle i- dealità normative supposte. E
basta a persuadercene il fatto che l'economia pura assume come presupposto,
cioè come norma universale di condotta dell'homo oeconomicus, appunto un
postulato edonistico, non solo, ma edonistico-egoistico. Ed è noto che il
liberalismo politico è modellato — s'intende sempre nel suo aspetto puramente
politico, cioè esteriore — sul liberismo economico. Questa considerazione
contraddice solo in apparenza la tesi, per la quale non può essere normativo
che un valore considerato come valore per sé distinto dagli impulsi e dai
desideri transi- tori e variabili del soggetto; perché il valore che l'economia
contempla in realtà, non è il piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la
ricchezza. La quale ha bensì sempre normalmente soltanto un va- lore
strumentale, ma (anche lasciando in pace l'esempio dell'avaro) può essere — ed
è in effetto dal- l'economista — considerata come valore per sé, e come comune termine
di riferimento di ogni spe- cie di valori edonistici; e perciò di ogni ordine
di valori in quanto sono considerati e valutati nel loro effetto edonistico,
nel quanto di soddisfazione e di godimento che se ne trae e che è misurato ob-
biettivamente dal quanto di ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che
il Potere politico e il sistema giuridico che riceve da esso sanzione e
validità di diritto positivo, possono assumere un significato e un valore al
tutto diversi — pur avendo per con- tenuto una medesima materia — secondo che
questo contenuto è valutato come un ordine di valori strumentali che trova la
sua ragion d'essere e la sua giustificazione soltanto nel suo carattere di con-
dizione necessaria della coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è
considerato come un ordine di valori morali diretti e immediati, come
un'esigenza del valore primario assoluto della per- sona umana, e della libertà
che ne è la nota essenziale. E ne segue parallelamente che si possa ravvi- sare
nell'ordine giuridico cosí la realizzazione di un'esigenza etica, come un
sistema di condizioni che precede idealmente l'esigenza etica e la rende
possibile, ma che sussiste e sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In
realtà, siccome il valore morale non è valore e non è morale se non per la
coscienza che lo sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è
questa: che o si riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere
in alcune o in molte delle coscienze individuali carattere e for- ma di valori
morali, anche l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che
il conte- nuto del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una
deduzione etica e non dal principio della convenienza egoistica, resterebbe
estraneo all'egoista; subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale
che non si potrebbe pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo
accetti. Dal che nasce la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve
coincidere, quando al contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che
le norme di diritto devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere
fosse unicamente l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la
sanzione (premio o pena) ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un
motivo egoistico dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale
conseguenza. Di qui seguono due corollari non trascurabili per la valutazione
dei rapporti tra morale e po- litica. Il primo è questo: che il Potere
politico, in quanto è forza di coazione che pone come ester- namente
obbligatorie certe condizioni quali si siano (negative o positive)
dell'attività dei singoli, non è mai per sé, direttamente, organo morale;
perché il valore morale, che è del tutto interiore, in- sindacabile e
incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i mezzi di cui la legislazione
esterna può disporre — sia di persuasione (premi), sia di costrizione (pena) —
non possono presentarsi che co- me motivi di ordine egoistico; e hanno per sé
un valore o premorale (cioè di condizione di fatto an- teriori alla moralità ed
estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo del motivo morale o ne
surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti esteriori della condotta).
Perciò gli istituti politici non sono in sé né morali né immorali se non in
quanto sono valutati come tali interiormente dalla coscienza dei singoli. Il
secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico poter essere giustificato da
un punto di vista puramente egoistico, affinché il Potere politico possa avere
un contenuto, non soltanto negati- vo, ma positivo, comune col contenuto delle
diverse idealità tipiche morali (essere o diventare orga- no promotore e
fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto di queste idealità
sia o possa essere considerato insieme come il medesimo, o come elemento o
condizione essenziale del contenuto medesimo, delle soddisfazioni egoistiche; o
in altri termini, che i valori, poniamo, intel- lettuali, estetici,
simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori piú desiderati o
desiderabili nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni essenziali dei
valori egoistici. E ciò equivale a dire che la funzione primaria e preliminare
del Potere politico come organo di cultura è quella di ordinare i mezzi atti a
dare ai motivi edonistici un contenuto sempre piú spiri- tuale e morale, ossia
ad elevare e affinare nei singoli la capacità di sentire e apprezzare come beni
migliori e piú desiderabili di ogni altro i valori spirituali. La funzione
positiva preliminare è dunque quella di apprestare i mezzi o le condizioni
ester- ne necessarie alla possibile educazione ed elevazione spirituale di
ciascuno. Fin qui si è considerato il Potere politico soltanto come organo di
obbligatorietà esteriore ri- spetto ai singoli soci, dalla cui volontà è
idealmente posto, astrazione fatta da ogni relazione dello stesso potere con
altri poteri; cioè come stato di fronte ad altri stati. Ma se si considera per
questo rispetto, esso assume ipso facto natura e funzione di Persona in
rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e fonde in un'unica
Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I quali per rispetto
agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono sostituite nel loro
valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa nello stesso tempo che
per questo rispetto la volontà dello stato è per la coscienza di ciascuno la
propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto e sorgente di idealità
etiche. Non è possibile e non è necessario esaminare distesamente le
conseguenze che nascono da questo diverso significato e valore che lo stato
assume in forza dei suoi rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere
l'antinomia che ne deriva nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché
lo stato è considerato nella sua azione interna o nella sua condotta esterna.
Rispetto a quella il Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la
persona singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo.
Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non
in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla
tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle
stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione
necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai suoi rapporti col
Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno idealmente) ogni
esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale esigenza è
necessaria. Di qui la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti
nei partiti politici che consi- derano come insuperabile l'opposizione degli
stati ed eticamente incondizionata la sovranità di ciascuno; e la tendenza
opposta nei partiti, che credono superabile l'opposizione, e condizionata
etica- mente la sovranità degli stati nelle loro mutue relazioni. Si è avuto
occasione di notare nel capitolo precedente che per la ragione stessa per la
quale la idealità è concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come
normativa di tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni interesse
individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo all'idealità
etica che lo costituisce in persona, diventano la prova viva e continua del
valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della conformità, per
adoperare termini già usati, del volere operante o esecutivo col volere
valutante o legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e voluto come
valido per sé all'infuori di ogni inte- resse puramente soggettivo e
accidentale dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità; nota
che è rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel
linguaggio comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un
oggetto, al quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a sacrificare
ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia piena, effettiva
e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le condizioni
soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede da noi, in
noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale morale come
un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui attingiamo
il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono attin- gere i
partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella virtualità è
sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé come Dio, la
nostra devozione è religione. Vi è dunque per questo rispetto una certa
analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il
Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità, la Virtù
divina rea- lizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del valore
morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e
spirituale, e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla
prima; cosí il Po- tere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come
mezzo e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa
considera le condizioni esterne della convivenza come ideal- mente poste e
giustificate soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili
fuori di quella. Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza
stessa religiosa deve esser condot- ta a riconoscere che quella subordinazione
non è neppure per essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua
giustificazione in quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della
quale essa coscienza riconosce il valore supremo della propria idealità, e
l'autorità divina del Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della
persona umana come sorgente di ogni valore; del valore stes- so e della
inviolabilità della fede che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed
implica quella libertà che essa non può negare in altra persona senza negarne
il valore per sé: che ogni altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la
propria; che è il principio da cui muove e il termine a cui riesce ogni
elevazione dello spirito. Inoltre: Ogni sforzo che si faccia per tradurre un
dovere religioso in obbligo giuridico e dar- gli una sanzione materiale
esterna, contraddice, nel momento stesso che sembra affermarla, l'esi- genza
della religiosità. Perché tende a sostituire al motivo religioso — del tutto
interiore — della devozione e della adorazione, un motivo esteriore e di
necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale si trova cosí invocato
a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione interiore dello spirito,
e la purità delle intenzioni. Ed è poi, questa distinzione e indipendenza del
Potere politico e della legislazione esterna da ogni particolare fede
religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile non meno che la
indipen- denza già notata da ogni particolare idealità morale. Perché ciò che
fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa è insieme ciò
che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che la «esperienza
religiosa» del mistico non può essere negata da altri. Le intuizioni alle quali
essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova, certe di una certezza
diretta, cioè an- teriore a ogni prova, non meno delle «sensazioni». Ma al pari
di queste non sono comunicabili ad una coscienza che non le prova e non le
vive. Potrebbe parere materia di discussione l'interpretazione che il mistico
fa di questi dati, il momento (che l'analisi obbiettiva può distinguere dal
momento dell'intuizione) per il quale la co- scienza trapassa dalla intuizione
sua, dall'esperienza propria diretta, all'affermazione del divino in sé, come
oggetto dell'intuizione. Ma anche questo processo sfugge alla discussione
perché non è logico ma psicologico: anzi non è per la coscienza del mistico un
passaggio, una argomentazione, ma una integrazione che si pone coll'atto stesso
dell'intuizione e che è vissuta con la medesima certezza. Perciò, chi vuol
sotto- porre dal di fuori questo processo ad analisi critica, analizza in
realtà qualche cosa di diverso. Ana- lizza il processo discorsivo che dovrebbe
fare, per provare la validità della sua conclusione, una co- scienza che non
senta già la certezza di questa conclusione; o, piú esattamente, che consideri
come conclusione di un passaggio logico, quel che per il mistico non è
conclusione logica, ma è evidenza psicologica. E d'altra parte è pur vero che
questo medesimo carattere di evidenza immediata che rende la certezza del
mistico invulnerabile ad ogni attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo
ogni pos- sibilità di dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda
sull'autorità e non sull'«esperienza» non ne è perciò me- no inevitabile la
individualità e la incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è
accettata come tale per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla
divinità dalla quale è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e
presuppone quella certezza del divino, alla quale essa ri- velazione dà bensì
un contenuto dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se
la mia coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali,
per le quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine
divina, le prove della rivelazione (sup- ponendo pure superati tutti i problemi
che vi si riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma
sono prove che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel
divino, di cui ho la certezza. Ma il riconoscere questo carattere interiore
personale e insindacabile cosí delle diverse idea- lità etiche come delle
diverse credenze religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò
che costituisce la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo,
ciò che costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra),
non è la medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla negazione
non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di ogni
fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una idealità, che
per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In questa diversità e
molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la fonte di ogni in-
cremento della cultura e di ogni elevazione spirituale. Ciascuna di queste voci
è una voce umana, la voce di una persona; e ciascuna deve poter farsi sentire.
Ma quella ragione medesima che pone questa esigenza ne pone il limite; e i
limiti sono i valori morali universali il cui contenuto si allarga e si
arricchisce della potenzialità di sempre nuovi valori nella esperienza dolorosa
e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove è qualche lume di
umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si misura la sua
dignità di uomo. Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.Ho
cercato di mostrare altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si può dire,
dalla ne- cessità intrinseca dello svolgimento morale — il problema di una
pluralità di contenuto nella co- scienza morale; sorga, quando si abbandoni il
presupposto che è la forza segreta del formalismo kantiano, che l'imperativo
categorico, l'universalità della legge, la razionalità del volere convengano a
un solo, a quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle deduzioni della
dottrina del Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini piú chiari e meno
tecnici, quando si cessi di ammettere che la co- scienza morale sia una e la
medesima in tutti; non solo per il tono con cui parla dentro ogni persona, ma
per le cose che dice; non solo per l'autorità con la quale comanda, ma per ciò
che comanda. Questo problema viene a sovrapporsi o meglio ad anteporsi (se non
anche a sostituirsi), — e in ogni caso (come pure ho cercato di dimostrare) a
mutar senso e posizione — al problema che è tuttora, almeno nella forma
consueta, considerato come il problema centrale, il vero problema del- l'etica:
quello del fondamento. La quale forma di trattazione sembra supporre — già nel
modo di porre il problema (filosofia della morale) — che sul contenuto concreto
di ciò che si chiama morali- tà, sul modo di condotta che si distingue come
morale, sui criteri coi quali giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene
e del male, non cada dubbio; e il dubbio riguardi le ragioni per le quali si
de- ve veramente tener giusto e buono quel modo di condotta, e legittimo quel
criterio; e ingiusto e ille- gittimo il contrario2. Che questo presupposto sia
ora, dico non solo nella letteratura, ma nella coscienza viva con- temporanea,
arbitrariamente assunto; che nel decidere — se ciò che vale di piú sia la verità,
o la bel- lezza, o la giustizia, o la carità, o la forza; l'affermazione di sé
o la rinunzia, l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o l'indipendenza non tutte
le coscienze vadano d'accordo; che nella stessa coscienza di una persona non
volgare e non ignara dei problemi morali, né estranea alla consuetudine di una
sin- cera e severa meditazione, si presentino, tra questi valori diversi,
contrasti e opposizioni non sempre e non facilmente superabili, è ciò che
nessuno potrà e vorrà negare; ed è in ogni caso una realtà che non cesserebbe
di sussistere e di imporsi all'attenzione, anche se fosse negata. Lo stesso
apparire nelle discussioni dottrinali e nelle storie generali e particolari
dell'Etica di teorie dette immoralistiche, dimostra che le differenze ci sono e
che giungono a tale da dar luogo non solo a contrasti ma ad opposizioni
contraddittorie. E qualunque sia il giudizio anche sommario che si voglia
portare su di esse bisogna ricono- scere che non avrebbe senso qualificare
immorale una dottrina, se il contenuto suo non si opponesse appunto a quello
delle dottrine morali come specie a specie nel medesimo genere; cioè se non
pre- tendesse di valutare e regolare — in modo diverso — la medesima materia3.
Ciò basta a confermare, se di conferma vi è bisogno, che il problema di una
pluralità di con- tenuti della morale, ossia di una pluralità di criteri di
valutazione, non è un problema di semplice possibilità astratta, cioè una
curiosità scientifica e filosofica, ma è un problema d'attualità concreta e viva;
è, veramente, a mio giudizio, il problema per eccellenza della coscienza morale
contempora- nea. 1 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale; Il
Vecchio ed il nuovo Problema della morale. Questo modo di vedere è favorito, se
non conservato, dal preconcetto, del tutto arbitrario, che la morale sia una
dipendenza della filosofia teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da
cercare la ragione dei criteri e dei principi che reggono e giustificano la
condotta. Il quale preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di
chi andasse a cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la
spiegazione degli atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano.
3 Né in sede di discussione e di critica si può respingere senz'altro come
amorali o immorali dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza
assumere come valido appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione
contestano la validità. Non si comincia un dibattimento giudiziario con una
sentenza di condanna. Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui
dà luogo — quando si fa piú aperta e mani- festa — la pluralità dei criteri,
non è nuova questa pluralità. Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi domini
potente lo sforzo logico della coerenza, che non nasconda sotto l'unità,
apparentemente raggiunta, del criterio supremo, una piú o meno lar- ga e
profonda pluralità o almeno dualità di contenuto. Per non ricordare con
Aristotele la duplicità di felicità e virtù — ben vivere e ben fare — e per
lasciare l'antica e non mai del tutto superata dualità di vita attiva e di vita
contemplativa, l'unità reale di criteri nella valutazione della condotta non è
raggiunta se non in apparenza, nella stessa mo- rale teologica cristiana; la
quale, mentre non rinunzia, e non può rinunziare, a regolare la condotta umana
anche nel rispetto della vita terrena finita, si sforza poi invano di
ricondurre i precetti che re- golano questa al medesimo criterio di valutazione
che è suggerito o imposto dal contenuto sopran- naturale del fine che la
giustifica. E il distacco logico inevitabile tra il fine invocato a
giustificare le norme e il criterio usato a determinarle, è dissimulato ma non
superato, nell'unità della rivelazione o della intuizione religiosa. Perfino
nell'età del razionalismo, nella quale l'unità di natura e l'identità di doveri
e di diritti di tutti gli uomini è affermata col massimo di consenso e di
calore, indipendentemente da ogni par- ticolare dogmatismo confessionale,
l'unità della valutazione morale si può dire raggiunta soltanto perché se ne
restringe la considerazione al campo propriamente etico-giuridico, e si
trascura o si la- scia nell'ombra la parte piú specialmente personale e che
tocca gli aspetti e le forme della vita inte- riore. E quell'unità parziale di
contenuto sembra essere il segno e la prova di un unico supremo cri- terio di
valutazione morale, perché viene comunemente ricondotto a un fine che
dissimula, sotto l'i- dentità nominale del termine, la possibilità di
determinazioni diverse per quel che tocca la parte del- la condotta etica che
sfugge all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini propri della
persona, e le forme della vita interiore. Ma il romanticismo e lo storicismo,
per vie diverse ma cospiranti, posero in luce quel che il razionalismo aveva
lasciato nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando, illustrando ed esaltando
la ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo, superiore della vita
spirituale e della attività interio- re, originale, spontanea; l'altro cercando
nella realtà storica la ragione e la giustificazione delle for- me di vita
sociale, religiosa, politica che in nome della natura e della ragione erano
state condanna- te, avevano condotto a questo doppio risultato: per un verso,
ad allargare smisuratamente l'ambito della vita interiore, raccogliendo e quasi
contraendo in essa tutte le attività spirituali, facendone il campo piú degno,
e, se non esclusivo, certo dominante della condotta morale, e comprendendovi
della vita sociale, al più, quel che in essa si dispiega di spontaneo e
d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con l'aperta tendenza a distinguerlo
non solo, ma a staccarlo dalle attività considerate come esteriori, della vita
politica e giuridica. Per l'altro verso, a negare, non solo ogni realtà ed ogni
fon- damento storico, ma ogni valore, alle costruzioni politiche e giuridiche
del giusnaturalismo; alle dottrine dello stato di natura, del contratto
sociale, dei diritti innati; e a considerare come un prodot- to storico le
forme politiche e giuridiche; le quali trovano, nelle condizioni che le hanno
generate e che le rendono adatte rispettivamente alle esigenze dei popoli
diversi in luoghi e tempi diversi, la loro giustificazione necessaria e sufficiente;
e quindi a fare il diritto estraneo all'etica e indipendente da qualsiasi
giustificazione morale, lasciando aperto il campo alle piú svariate forme di
relativismo: biologico, sociologico, storico. Cosí quel che per il razionalismo
del secolo XVIII era il contenuto comune della coscienza morale, finiva per
essere considerato quasi estraneo alla morale. E mentre si faceva piú largo e
piú profondo il distacco tra interiorità e esteriorità, si attenuava sempre piú
la distinzione tra i valori morali e i valori spirituali di diversa specie e di
diverso contenuto, e prendeva colore e calore di valutazione morale una
molteplicità sempre piú varia di tendenze, di aspirazioni, di attività, di fini
di- versi. Per tal modo penetra nella vita e nella cultura, e si manifesta non
solo nella filosofia, ma in quella che si chiama piú propriamente letteratura,
quella molteplicità di indirizzi, di opinioni, di ere- sie morali che è la
caratteristica del secolo XIX, e che esprime, per dir cosí, la maturità storica
del problema, prima dissimulato e trascurato. Non si vuol dire, né sarebbe a
priori probabile, che ad ogni novità di intuizione particolare, geniale o no,
su questa o quella forma di vita e di attività individuale, su nuovi aspetti
della cultura speculativa o religiosa o sentimentale, su nuove direzioni della
volontà, sul valore dei tipi di istituti, familiari, politici, economici (reali
o immaginati) corrisponda una diversità di criteri morali; né tan- to meno che
ciascuno esprima una orientazione di coscienza morale radicalmente diversa
dalle al- tre; ma neppure è possibile dissimulare che questa molteplicità è
altra cosa dalla «dualità» notissi- ma, che nella tradizione e nella credenza
comune e nella dottrina piú largamente diffusa, raccoglie- va e, direi, polarizzava
attorno a due termini contrari i valori della vita, opponendo i beni razionali
ai beni sensibili, e negando a questi ogni valore morale. Perché, lasciando pur
fuori di questione ciò che tocca i beni detti sensibili (per semplicità di
discorso, non perché anche su questo punto le que- stioni sieno escluse di
fatto, o siano da escludere a priori), la caratteristica nuova e piú rilevante
di tale molteplicità, è appunto questa: che è nel regno stesso dei beni
razionali, che la diversità delle tendenze si è venuta delineando sempre piú
spiccata. E i contrasti di tendenze e di opinioni si rive- lano anche, anzi
soprattutto, nel campo di quei valori che era pacifico considerare come
patrimonio, se non uno e indivisibile, almeno indiviso, e non costituito di parti
discordanti. E mentre si venivan disegnando, cosí, conflitti di primato, se non
contrasti irreducibili, tra i valori stessi tenuti tradizionalmente come
superiori, si presentavano: di là, idealizzate, e sotto veste di valori
razionali — o giustificate in nome di esigenze razionali — tendenze e forme di
vita spon- tanee, passionali, o istintive, considerate già come estranee se non
contrarie alla vita morale: e di qua si esaltavano come centro e culmine dei
valori morali le forme religiose, intuitive, sentimentali e mistiche, avverse,
almeno in apparenza, ad ogni pretesa di procedimento razionale, e che ad ogni
modo si affermavano in atti di aperta sfida contro la ragione. E insieme si
negava ogni significato etico — anche nella loro forma di idealità sociali e
politiche — a quei principî razionali del diritto, nei quali il secolo
precedente aveva visto ad un tempo il segno piú alto della dignità umana e il
maggior trionfo della ragione. Di fronte a cosí grande e cosí varia pluralità
di contrasti tra criteri di valutazione, o tra «scale di valori» diverse, può
bastare a risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia necessaria —
l'unità del contenuto, e l'universalità del consenso, affermare che la morale è
universale perché è ra- zionale, o è razionale perché è universale? Né è
possibile fare appello alla ragione come autorità morale suprema quando i
moralisti che se ne fanno interpreti non riescono, pur affilandone tutte le
armi, né a convincere né a vincere i de- trattori, se non argomentando ad hominem
cioè facendo appello a qualche principio o criterio da quelli stessi assunto od
ammesso. E i detrattori non riescono a formulare neppure una sentenza di
condanna che abbia, non si dice un valore, ma un significato quale si sia,
senza servirsi di quella ra- gione che coprono di contumelie, e che presta pure
la sua assistenza, con divina larghezza, anche a chi la bestemmia. Dal che
parrebbe di dover ragionevolmente concludere che della ragione non si può fare
a meno, in materia di morale piú che in qualsiasi altro campo; ma che non si
può trovare in essa la sorgente delle valutazioni morali. E tuttavia non solo
fu — nell'età aurea del razionalismo — ma è tuttora largamente sostenuta ed
accolta, non senza che la tenacia degli sforzi abbia un profondo significato,
l'idea di cercare nella ragione anche ciò che la ragione non può dare; e di
riferire a lei non soltanto l'esigenza della coe- renza, dell'unità, e quindi
di leggi, di criteri e massime, ma anche di certe leggi e di certi criteri,
piuttosto che di leggi e criteri diversi. Ma l'idea è illusoria. E l'illusione
sta in ciò essenzialmente: nel credere che la ragione obbli- ghi ad ammettere
non soltanto certi giudizi, dato che se ne accettano certi altri, certe
conseguenze, se si accettano certe premesse; ma obblighi senz'altro ad
accettare certi giudizi: quei giudizi stessi che fanno da premessa; che «esser
ragionevole» voglia dire non soltanto osservare le leggi della lo- gica,
rispettare quei principi logici senza dei quali non è possibile nessun ragionamento
e nessun «uso della ragione», ma voglia dire essere obbligati a riconoscere
"certe verità", ad ammettere certi principî; principî non logici o
formali, ma materiali; dati o postulati che facciano da sostegno al ra-
gionamento, e comunichino la loro certezza ai giudizi che se ne ricavano. Ora
io lascio di considera- re, perché non è necessario qui, il campo dei giudizi
propriamente teoretici e la distinzione che sa- rebbe necessaria tra giudizi
condizionali e giudizi di esistenza; e mi restringo al campo «pratico». In
questo adunque la ragione sarebbe essa che pone ad un tempo l'esigenza della
legge e la legge; cioè, non solo l'esigenza dell'unità e le norme da osservare
per realizzarla, ma anche i criteri attorno a cui si deve raccogliere questa unità;
quei giudizi stessi che non si giustificano, ma che servono di fon- damento
alla giustificazione. Questa «funzione pratica»4 della ragione si può intendere
in tre modi diversi: — O i criteri di valutazione, i giudizi di valore che
stanno a fondamento dei giudizi morali, hanno la stessa validità e si possono o
dimostrare o porre con la stessa necessità od evidenza con la quale si impone
la validità delle forme logiche. — Oppure — se il dato o principio che sia a
fondamento delle valutazioni è diverso dalle verità teoretiche, assunto dalla
ragione, non posto da lei ma offerto a lei, questo dato è tale che essa non ha
che da scoprirlo, da formularlo, da presentarlo alla riflessione di ogni uomo
ragionevole per- ché ne sia riconosciuta ed ammessa come indiscussa e
indiscutibile la validità. — O finalmente è la ragione stessa che pone la
legge, ed è l'esigenza razionale che basta a determinarla, senza che a
costituire la validità della legge e del contenuto che essa incorpora in con-
formità della sua esigenza, sia necessario riconoscere la validità di alcun
dato o principio materiale estraneo alla forma stessa della legge. Non vi sono
che queste tre vie possibili; e sono le vie che anche storicamente il
Nazionali- smo ha seguito con maggiore o minore sforzo di argomentazioni e
varietà e ricchezza di gradazioni particolari. La prima via, la piú antica,
quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta il problema
morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a dire uguali)
a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il contrasto
nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema della
pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente in-
tellettualistica. I principî morali sono verità5 della medesima natura delle
altre, accertabili teoreti- camente, o deducibili da verità teoretiche. È
l'indirizzo del quale ho parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste
nel fare dei giudizi di valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare
quelli da questi. Ma quanto alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che
concluda con un giudizio di valore un ragionamento che non abbia per premessa,
espressa o sottintesa, un giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata
nessuna evidenza logica può fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú
il proprio cane che il prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4
Questa espressione può avere in morale tre sensi diversi che importa
distinguere. Si può intendere che dipen- da dalla ragione il valutare, cioè
riconoscere e graduare i valori; o che dipenda dalla ragione il conformare la
condotta alla valutazione, muovere la volontà: e questi sono i due sensi che
rispondono all'uso piú comune del termine «pratico» e che pur si confondono tra
di loro, benché siano diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o
la bontà di una norma e osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in
discussione qui e nel seguito è sempre, se non si dica espressamente il
contrario, il primo signifi- cato. Finalmente vi è un terzo senso, quello
propriamente kantiano, che consiste nel riconoscere la possibilità e la le-
gittimità di affermare per il bisogno morale l'esistenza di ciò che la ragione
speculativa non può conoscere; di fondare sulla morale una certezza metafisica
che è preclusa all'uso teoretico della ragione; ed è a un tal uso che si
riferisce, come tutti sanno, la notissima espressione «primato della ragion
pratica». 5 La tesi morale di Socrate è duplice come tutti sanno: 1°che il bene
e il male si possono conoscere (se ne pos- sono fare dei concetti veri) come si
conoscono le altre cose. 2°che conoscere il bene e praticarlo è il medesimo,
ossia che la moralità (la pratica del bene) è sapere; chi fa il male lo fa
perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi sta in- dipendentemente dalla
seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito quando si parla della tesi di
Socrate in tema di morale si intende dire di questa seconda e non di
quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in un certo senso
giustamente, a merito di lui. 6 Vecchio e nuovo Problema, Parte I, Cap. II.]qualsiasi
vale piú di un qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero, ivi c'è una dignità
incomparabile con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in questo caso la
contraddizione è tra un mio giudizio e un altro mio giudizio; che si suppone
pure ammesso da me e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga ad ammettere
questo valore del pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo negassi? Forse
perché con ciò diminuisco o nego un valore che è anche mio? Sarebbe dunque il
rispetto e la stima di sé un principio logico? E la despectio sui del Geulinx
contiene dunque una contraddizione in termini? Se si incalza che il giudizio
sulla inerenza all'uomo di proprietà o doti che mancano al cane è di evidenza
oggettiva e che riconoscere un maggior valore all'uomo che al cane è la stessa
cosa che riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè una maggior perfezione,
è facile avvertire che in que- sta identificazione si assume appunto ciò che è
in questione: che la perfezione o il pregio delle cose e delle proprietà delle cose
sia accertata o accertabile teoreticamente come la loro esistenza e appar-
tenenza; mentre basta una non lunga riflessione per accorgersi che il giudizio
sul pregio e sul valore o il «grado di perfezione» di qualsiasi ente o
proprietà implica il riferimento a una gerarchia, a un ordine, a un disegno,
cioè in ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato o da attuarsi. E, che
possa o debba valere come fine, che meriti di valere, non è un giudizio in
realtà; tanto che il negar- gli questo valore non implica negare sia la realtà,
sia la possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'en- te; cosí come negare
alla sfera il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici, non
implicava per Galileo la negazione né della costruibilità della sfera, né di
alcuna qualesivoglia delle sue pro- prietà geometriche. La sfera rimane la
sfera. Si potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle
proprietà, un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla
ge- ometria; e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il
concetto della sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le
proprietà che ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non
rinunzio né all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del
cubo o della piramide. Lo stesso, mutatis verbis , vale per l'esempio allegato
del cane e dell'uo- mo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il
caso è appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre
io non provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga
piú della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il
cane valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della
«contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato (non per nulla nella
scelta il Rosmini ebbe la mano felice) la repu- gnanza ci sia, è innegabile —
sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della univer- salità
del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza morale, non una
incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella misura in cui è
comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e sempre: negando
questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego nessuna delle
differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non nego nessuno
dei ca- ratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque poi sia il
giudizio che faccio sul valore di- retto o indiretto di ciascuna di quelle doti
e di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia maggior
conto del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato
dell'altro, o che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la
ubbidienza cieca del cane, non è per nulla una implicazione necessaria del
riconoscere rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'al- tro. E
il giudizio potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi
potrebbe preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione
che la natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la
verità riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del
cane, e il cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse
davvero, come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la
differenza di valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non
cesserebbe di essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da
quella. L'essere universalmente ammessa una differenza di valore fra i due
enti, prova, 8 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta nel caso, che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza
morale in grazia della quale quella dif- ferenza è posta: ma non prova che il giudizio
di valore, cosí espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia, comunque,
riducibile alla conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da questa. La
verità è che i giudizi morali (come ogni altro giudizio di valutazione) paiono
della stessa natura dei giudizi teoretici perché sono nella massima parte, e
con una frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e possono
presentarsi sotto forma di giudizi derivati, anche quando sono considerati,
sotto un altro rispetto, come primari e assunti come tali in una costruzione
diversa. Ora nei giudizi derivati, la validità della valutazione è ricondotta
alla validità di un altro giudizio (primi- tivo o primario o diretto) con un
processo, che non differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne governano
la legittimità, dal comune processo di dimostrazione col quale si prova la
connessione necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con questa
circostanza, per dir cosí, aggravan- te: che, come s'è accennato, accade di
frequente, anzi solitamente, che quegli stessi giudizi che figu- rano in un
processo di giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono
comparire in un altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che
riesce difficile decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i
giudizi primitivi, e quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le
costruzioni diverse e i diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore
(e senza che si possa per ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di
circolo vizioso e di petizione di principio), come giudizi derivati, dei
giudizi che figurarono in altro luogo, e per un altro proposito, come
primitivi, e inversamente; al contrario di quel che accade di solito nelle
costruzioni scientifi- che: dove i principî o proposizioni fondamentali hanno e
conservano costantemente il loro carattere e il loro ufficio7. Sfuggendo cosí
all'osservazione, per la vicenda di ufficio logico al quale possono a volta a
volta essere assunti, quali siano i giudizi di valore primitivi, cioè quelli in
cui si assume la validità diretta e immediata (senza che sia ricondotta alla
validità di qualche altro giudizio), riesce piú difficile, o almeno si presenta
meno frequente e meno aperta, la opportunità o la necessità di e- saminare la natura
e di coglierne questo carattere di diversità, radicale e irreducibile, dai
giudizi teoretici. La quale diversità può sfuggire anche piú facilmente o
essere posta in luce tanto piú diffi- cilmente, per un'altra circostanza che ha
a quest'effetto un influsso anche piú decisivo. E la circo- stanza è questa:
che una parte considerevole dei giudizi valutativi che assumono piú
frequentemente valore di primari, o sono abitualmente sottintesi (tanto sono o
si suppongono incontestati), o sono incorporati e quasi assorbiti nei giudizi
teoretici, senza che l'apprezzamento, per lunga consuetudine congiunto all'idea
dell'oggetto, o della proprietà, o dell'atto, o dell'effetto possibile, sia
formulato in un giudizio distinto; anzi, talvolta, neppure sia espresso piú nell'enunciazione
del giudizio stesso da una di quelle particelle (aggettivi, avverbi,
interiezioni) che portano nel giudizio la espressione di una valutazione, o,
come si può dire con forma piú generale, la nota del sentimento; la quale non
appare talvolta che nel tono di voce dell'interprete o lettore, o si rifugia
nella scelta sapiente delle parole e delle sfumature suggestive, di cui è ricca
una lingua satura di civiltà. Dire di un uomo che è indolente o che è
intemperante, è, se non si parla a vanvera, attribuir- gli una qualità, della
quale è possibile dimostrare che veramente gli spetta, cioè si posson dare
delle prove oggettivamente certe e accertabili: è un giudizio teoretico. Ma
ognun vede che vi è tacitamen- 7 È tuttavia da notare anche qui una tendenza a
considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e di conse- guenze,
suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle scienze
deduttive, la geometria, si può vedere la pos- sibilità, sfruttata per ragioni
didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di
invertire la dedu- zioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e
inversamente; come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione
reciproca di due proprietà fra di loro. 9 Su la pluralità dei postulati
di valutazione morale Erminio Juvalta te assunto insieme un giudizio di
valutazione, nella misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla o
per chi ascolta qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa
evidentissimo quando si tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú
gravemente e piú universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale,
falsario e simili. Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in pro- porzione
della loro prova teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li
accompagna; ap- punto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E
non per nulla la diffamazione è puni- ta piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio
valutativo (sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto,
ossia su giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì
l'esistenza del fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in
nessun modo il valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso
e incorporato nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui
l'azione è prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo
sentono e tutti lo sottintendono. Ora i giudizi di valore a cui si dà ufficio
di primari, cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui validità
si riconduce la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i giudizi il
cui valore per essere comunemente riconosciuto e, come si dice, pacifico, è
appunto piú facilmente sot- tinteso. Quando si è detto a una persona
intelligente «bada che quella pistola è carica», non occorre altro discorso per
persuaderla a maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso, o me-
glio, nessuno ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un giudizio
sul valore della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la vita non
valesse piú di una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che qui è
sottinteso, può essere considerato come primario, per esempio in tutti i
precetti dell'igiene (dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso
derivato rispetto a questo, sul valore della sanità): ma può essere non
primario per chi giustifica a sua volta il valore della vita col valore del
sapere, o del bello, o della giustizia, o della carità, o della potenza, o
della gloria, o di qualsiasi altro ordine di fini o di attività o di godimenti.
Ma poi, quando si dice che l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto
della vita, si fa di ciascuno di quei beni che sopra sono assunti come beni per
sé, un bene derivato rispetto a quello della vita. E cosí se si dice che il
sapere accresce la ricchezza, o la giustizia assicura la tranquillità, o
l'onestà alimenta la fiducia reciproca, si pongono, almeno occasionalmente,
come derivati, dei valo- ri primari, e si assumono come primari rispetto ad
essi, dei valori derivati. È adunque chiaro che i giudizi di valore si legano
fra di loro in una catena continua, anzi in un groviglio di catene, del quale
non è necessario qui cercar di capire piú particolarmente la struttu- ra; e che
per queste mutue e varie connessioni delle diverse valutazioni fra di loro, si
può assumere come primario in un sistema di deduzioni un giudizio di valore che
figura come derivato in un si- stema diverso. Ma in qualsiasi processo di
giustificazione, questo giudizio primario di valore e- spresso o sottinteso ci
deve essere; e si tratta di vedere — nel caso di valutazioni morali — non se
spetta alla ragione giustificare la scelta, ossia dimostrare da che cosa nasca
l'attribuzione di valore (che sarebbe precisamente fare del valore diretto un
valore derivato; la quale dimostrazione, se è possibile, nessuno dubita che sia
un processo razionale); ma, se ci sia un principio di valutazione, una
affermazione diretta o primaria di valore che sia razionale in sé, e che si
distingua come razio- nale da altre valutazioni primarie, che non siano in sé
razionali; cioè che non sia razionale accetta- re, che la ragione impedisca di
ammettere. Se si tien conto di quanto s'è avvertito sopra, la questione della
razionalità o irrazionalità dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista,
accettando il principio assiologico che assume come primario quando giustifica
il suo sistema di valutazioni egoistiche e le massime di condotta corri-
spondenti, rinneghi la ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in
contraddizione con se stes- so. E cadrebbe in contraddizione: O perché operando
da egoista non raggiunge lo scopo al quale è rivolta la sua opera8. O perché il
criterio egoistico contrasta con altri che l'egoista stesso in quanto egoista
non può fare a meno di accettare e di ammettere. È certo che l'egoista spesso
sbaglia i conti e fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nel- la
questione. I conti li sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza
che ciò voglia dire nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o
l'indegnità dei nostri scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi
e dà luogo ad un giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso;
e sba- gliano i conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo
dunque le delusioni che possono venire agli egoisti da errori di calcolo.
Concludente invece, anzi decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che
non si possa essere egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di
configurare un egoista incoerente (an- che se in realtà è il tipo comune, anzi
forse cedendo appunto alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì
di subordinare ogni interesse, di qualunque genere, degli altri al suo
interesse pro- prio, ma pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha
l'aria di dire agli altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come
faccio io a servirmi di voi per i miei comodi? — Naturalmente quando si è
foggiato un egoista su questo tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non
è mai, in generale, molto difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che
vi sia posto dentro prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si
dimostrerebbe che non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se,
essendo coerente, cesserebbe di essere egoista. Questa è ma- nifestamente la
tesi che si deve dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo.
Egoista coerente è chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato
dal suo inte- resse maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che
procura ad esso operante il mag- gior numero di vantaggi e il minor numero di
danni; ossia, un egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può
considerare come esempio di contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso
frequentissimo e co- munissimamente notato di chi si mostra in questa o quella
circostanza egoista perché opera da egoista o come se fosse egoista, mentre
sente dentro di sé di «aver torto», sente che la sua azione presente è disforme
da quel modo di operare che la sua coscienza morale riconosce come giusto; quel
modo di operare che egli approva quando giudica le azioni de- gli altri e che
egli stesso seguirebbe se non fosse in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe
fare così e sente che farebbe così se il fare non gli costasse un sacrifizio;
il sacrifizio di quella certa sua piú o meno grande comodità. Ora certamente
qui (ed è il caso comune, tipico, notato migliaia di volte del contrasto, dello
scontento interiore e del rimorso) questa discordia interna è colta e segnalata
dalla ragione. È una esigenza razionale l'unità delle valutazio- ni, la
costanza dei criteri, la coerenza tra il valutare e il fare, ed è un processo
razionale che rivela le incoerenze e i con- trasti. Ma la questione non sta
qui. Il contrasto segnalato per il quale chi opera da egoista è colto in fallo
e deve riconoscere il suo torto, è possibile perché il supposto egoista ha
operato bensí da egoista, ma sente e giudica e valuta conforme a giustizia.
Egli è in con- traddizione perché il criterio di valutazione, cioè di scelta
tra i motivi, seguíto nella sua azione concreta è contrario al criterio di
valutazione che egli accetta come persona morale, che applica nel giudizio
sulle azioni altrui e, in quanto rie- sce ad essere imparziale in causa propria
anche a se stesso. E la vera questione qui sarebbe di vedere se quel criterio
di valutazione che egli accetta come persona morale è posto dalla ragione; se
dato che non fosse sentito e accettato dalla sua coscienza, potrebbe un
processo razionale farlo sorgere per gli altri, ma ammette e trova naturale e
legittimo nello stesso tempo, che ciascun altro sia senza riguardi per lui. È
pronto a sopraffare, potendo farlo senza danno, gli altri; ma non protesta se
altri, potendo, sopraffà lui. — Dov'è qui la contraddizione? Si dirà che cosí
facendo si riesce all'uno o all'altro di questi risultati: o alla limitazione
reci- proca degli egoismi per mezzo di norme di condotta che li renda
compatibili, e abolisca lo spettro hobbesiano del «bellum omnium contra omnes»;
o al riconoscimento del valore supremo, della for- za come criterio ultimo
della condotta. Ora il primo risultato — si dirà — è la negazione dell'egoismo;
l'egoismo, diventando ragio- nevole sbocca in un criterio diverso, anzi
contrario: si fa legge, cioè diritto, cioè giustizia. Il secondo tiene sospesa
sull'egoista la spada di Damocle della sua condanna: il piú forte d'oggi può
essere piú debole domani, il piú forte contro i singoli è meno forte contro la
coalizione dei singoli. Il numero, il «gregge» può sopraffarlo; e se lo
sopraffà esso ha ragione perché è il piú forte. Per sostenere che il criterio
della forza deve valere soltanto tra i singoli e singolarmente presi,
occorrerebbe un altro presupposto, un altro giudizio, un altro criterio fuori
della forza, che valga a distinguere entro quali limiti l'uso della forza è
legittimo. Ma fuori di questa clausola (che ricondur- rebbe al risultato
precedente), la forza contiene in sé la propria condanna perché genera da sé la
propria negazione. Né l'uno né l'altro di questi discorsi che paiono vittoriosi
è, se si guarda spassionatamente, concludente. Cominciamo dal secondo. È bensì
vero che l'egoismo se non scende a patti con gli egoismi che gli si possono
contrapporre sbocca nel criterio della forza; ma il criterio della forza non si
nega e non si smentisce finché si ammette che esso valga per tutti9, che la mia
volontà sia legge finché il piú forte sono io, e che sia legge la volontà degli
altri quando piú forti sono gli altri. Sarebbe invece smentita appunto, quando
valesse finché il piú forte sono io e non valesse piú se il piú forte è un al-
tro. Si può dunque dire che il criterio della forza può riservare delle
sorprese, e portare, a chi l'accet- ta, piú danni che utili. Ma non si può dire
che sia in sé contraddittorio; come non è contraddittorio per un giocatore
accettare la legge del gioco coi suoi rischi e le sue promesse, anche se queste
sono superate da quelli. Ciò riguarda dunque, non la coerenza intrinseca del
criterio, ma la questione se a un egoista accorto convenga o no di farne la sua
legge. Se ci pensa bene, se pesa il pro e il contro con pruden- za, forse non
sceglierà una strada nella quale i pericoli sono superiori alle speranze. Se si
trova difficoltà a immaginare seguíto questo criterio fra gli individui, non
c'è che da pensare al principio che ha regolato in ultima istanza, fino a ieri,
se non fino ad oggi, i rapporti fra gli stati, e che dovrebbe regolarli sempre
secondo l'imperativo nazionalistico o etnico o storico, che passò e passa
tuttora - agli occhi di molti - come il solo impe- rativo «seriamente»
politico. In questa concezione dei rapporti fra gli stati non domina forse
nella sua forma rigorosa quella tesi estrema - che lo Stirner formulò per i
singoli individui - e che parve ad alcuni per il suo stesso rigore una
caricatura ironica dell'a- narchismo di una società di egoisti, che vale fin
che mi giova e dura finché mi piace? O si vorrebbe dire che non sono
«ragionevoli» i politici, filosofi o no, che accettano e difendono questo
crite- rio, non solo come l'unico criterio possibile, - in determinate
circostanze storiche, - ma come il solo «razionale?» Se- nonché anche la
razionalità dell'egoismo statale non è data, ma presupposta, o fondata su un
presupposto: che l'interes- se, anzi, un certo interesse dello stato abbia un
valore incondizionatamente supremo. Ed ecco l'altra alternativa: l'egoismo
che si limita e si fa diritto10. Ma qui è ancora piú facile scorgere l'equivoco
e può parer superfluo il metterlo in evidenza. L'egoista che accetta il diritto
come garanzia della sua sicurezza, della sua tranquillità, della sua li- bertà,
cioè la limitazione dell'egoismo per motivi egoistici, non cessa perciò solo di
essere egoista, e non v'è nessuna contraddizione intrinseca, per lui,
nell'accettare condizioni che per lui sono vantag- giose. Che un diritto cosí
giustificato non abbia valore morale e non debba identificarsi con la giu-
stizia è evidente: che un diritto il quale non abbia altro fondamento che
questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia piú consistenza di realtà
storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma non si può dire in nessun
modo che l'egoista contraddica se stesso quando accetta e riconosce una legge
che limita il suo egoismo. E l'economia politica assume, come tutti sanno,
l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la ricchezza secondo motivi egoistici
e per puri motivi egoistici, ma osserva per- fettamente le altre forme
giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa osservanza venga a
contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi, ognuno sa che la
limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini particolari di ciascuno
sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza controllo, è giustificata
dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione piú elementare e piú
grossolana dell'egoismo (la conservazione della vita); e che a un calcolo
puramente egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa parimenti notissima)
ogni forma di condotta ed ogni azione uma- na. E nelle dottrine che prendono
nome di utilitarie (con un battesimo antonomastico che non si ca- pisce se
faccia piú torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha designate con
questo nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà insormontabile dal
punto di vista del proposito che le ispira, è quella che nasce dalla esigenza
di conciliare la utilità individuale con la utilità sociale: alla quale e-
sigenza si crede di soddisfare nel modo piú efficace, facendo dell'utile della
società, il mezzo e la condizione dell'utile individuale; cioè giustificando da
un punto di vista egoistico, le norme della vi- ta sociale. E questo stesso
sforzo di giustificare con una motivazione egoistica ogni ordine di attività
anche piú elevata non solo dimostra che è tutt'altro che evidente la contraddizione
intrinseca e la ir- razionalità dell'egoismo, ma fa pensare piuttosto il
contrario: che l'illusione di questa possibilità sia nata, e la tenacia dello
sforzo alimentata, appunto dall'opinione che la via migliore, se non l'unica,
di persuadere che l'operare moralmente è conforme alla ragione, sia di mostrare
che le norme morali coincidono con quelle di un bene inteso cioè di un
intelligente egoismo. Ma con ciò si suppone o si accetta, ma non si pone la
pretesa legittimità evidente per sé del- l'egoismo, come norma suprema di
condotta, accanto o contro la legittimità del criterio opposto. Ed è sempre
sottinteso il presupposto arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il
quale è per sua natura conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri contrari.
Mentre contrario alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per sé. Ma è
soltanto la pretesa di accettare un certo criterio e insieme non accettarlo, di
ammetterlo come norma di condotta e non applicarlo. 10 Chiedo scusa al lettore
se adopero questa volta frasi di questo genere - adatte piú ad effetti
stilistici che a precisione di pensiero - per segnalarne il pericolo. Non
bisogna dimenticare che in queste espressioni «l'egoismo che si nega»,
«l'arbitrio che limita se stesso» e molte altre somiglianti, il senso voluto
significare è reso possibile perché e in quanto il termine in questione
(egoismo o altro) è preso a indicare in una due significazioni diverse:
nell'una è l'astratto (la connotazione comune a tutti egoismi); nell'altra è il
collettivo (l'insieme degli egoismi particolari e degli arbitri diversi che si
contrastano). 11 Il quale è un tacito riconoscimento che gli uomini considerano
veramente utili soltanto le azioni che servono a certi fini e a certe
soddisfazioni loro. Ma utili in qualche modo sono tutte le azioni; se no (ah
questo sí), non sarebbero ragionevoli. Sono utili, o credute utili, al fine a
cui sono dirette, economico, scientifico, estetico, religioso, politico, ecc.
Che siano dette utili soltanto le prime, parrebbe dunque significare che
abbiano vera importanza per l'uomo soltanto quei certi fini, che poi si
dimostra con molti discorsi che sono meno nobili degli altri. Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale \ Con ciò la tesi egoistica cerca
di porsi su quella medesima via che è nella tradizione dei si- stemi e delle
scuole la via piú comune del razionalismo morale, ed è in effetto la piú
semplice, si di- rebbe quasi la piú ovvia ed ingenua: quella notissima di
ricondurre le norme a un bene, a un fine, a un ideale, di cui si è riconosciuto
o si debba riconoscere incontestabile il valore supremo. Qui ciò che fa da
principio della dimostrazione da «assioma medio» o proprio della costru- zione
morale, è il giudizio in cui si assume questo valore e questa dignità suprema
del fine. Posto che il fine assunto sia il fine che l'uomo riconosce come
supremo e che si dimostri come le norme morali siano ordinate ad esso, la loro
legittimità è dimostrata. Quale sia questo fine e in che consista spetta alla
ragione di trovare o di giudicare; di trovare e formulare, se questo fine
supremo è dato e si assume come riconosciuta e incontestata la sua vali- dità
di supremo; — di giudicare, se su questo valore cade dubbio, o se si pensa che
non basti un ri- conoscimento di fatto, ma sia necessario un riconoscimento di
diritto; che spetti alla ragione, non già o non soltanto di scoprire, se vi è,
un tal fine, ma di giudicare perché esso debba valere. Nella prima maniera il
valore del fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume,
e sul quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente
dato alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare
praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è
supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura u-
mana»; quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li
concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico
delle dottrine che assumono come fine naturale — al quale necessariamente si
riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale — la felicità o la perfezione
o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena
necessario os- servare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí
naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il
fine per eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e
incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine
apparen- temente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e
concreto; del quale nessu- no contesta che sia supremo, finché ciascuno può
dare a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli
si attribuisce di supremo. Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è
necessario che il termine assuma un cer- to contenuto determinato; il quale
contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si
riconosce come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità (o
Perfezio- ne, o altro Bene) della quale quel contenuto assume la veste, il
titolo e le prerogative; e in nome del- la quale si presenta appunto come fine.
E cosí accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in re- altà è duplice:
uno è il fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé
non potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma
che reca il titolo e le inse- gne, e quasi la formula magica, della sua
sovranità: ed è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere);
l'altro è il fine realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla
deduzione, che regge la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale
si riconduce logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi
che se ne ricavano. Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che
viene determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a
costruire, l'altro a dar valore alla costruzione. Ora finché si ammette che la
felicità o quel qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste veramente
in quel contenuto sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo sulle
deduzioni favorisce e conforta questa certezza, la distinzione fra il dato
della costruzione e il supposto che lo investe del valore di fine, non ha
luogo, o apparirebbe ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come pacifi-
co, che il dato e il supposto coincidono, che l'uno esprime il significato
dell'altro. Ma se, sotto l'apparente unità del termine si mostrano le differenze
di contenuto; e i fini par- ticolari che si credevano fusi e, unificati in
quell'unico fine, rivelano la loro incompatibilità; e un fi- ne e un ordine o
specie di fini pretende di valere come sommo, subordinando a sé od escludendo
gli altri; allora è necessario scegliere. E la scelta tra due o piú specie di
"Felicità" (come tra due o piú forme di «Perfezione») non può essere
fatta in nome della felicità. Tra due o piú ordini di fini che si presentano
come fini della «natura umana» non si può sentenziare in nome della natura;
oppure si deve ricorrere a distinzioni tra felicità e felicità, tra natura e
natura, che rivelano l'assunzione aperta o tacita di un criterio che serve a
distinguere la vera da una falsa o apparente felicità, e a determinare in che
consista e in che si appunti la «vera» natura umana. «Considerate la vostra
semenza...» E cosí il riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di
diritto. Non è questo davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far
capire, di persuadere, di dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono
indegni dell'uomo, alcuni superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non
vuol dire fare una gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere
riconosciuto come il fine supremo che serva di termine di confronto, per
subordinare quelli che si conciliano ed escludere quelli che sono inconciliabili
con esso? Qui adunque pare veramente che sia razionale, non solo il processo di
deduzione dal fine, ma razionale la scelta stessa del fine, il riconoscimento
del valore che esso deve avere di fine supremo. Senonché non è difficile
scorgere l'equivoco e trovarne la origine. Il criterio in base al quale la
ragione giudica la dignità dei fini, ne fa la scelta, la subordinazione e la
esclusione, è desunto dal- la coscienza morale, cioè in ultimo da quelle stesse
valutazioni che la costruzione razionale è chia- mata a giustificare. In realtà
il giudizio della ragione è il frutto di un processo che è bensì esso ra-
zionale, ma che si fonda su dati di valutazione morale. Il processo reale,
palese o nascosto, è, in breve, questo: La coscienza morale dice all'uomo quale
è la condotta buona, la condotta che è giusto che segua, che deve seguire. La
ragione mostra (non cerchiamo se con regressione del tutto rigorosa e univoca,
ma in o- gni caso adempiendo un ufficio che è propriamente e incontestabilmente
suo), mostra, dico, che quella condotta è ordinata a certi effetti, raggiunge
un fine che è perciò — dal punto di vista dedut- tivo e giustificativo
dell'esigenza razionale che vuole l'unità e la coerenza — il Bene morale; e
poi- ché non sarebbe morale se non valesse come sommo, questo Bene deve essere
riconosciuto e posto come supremo. Non è dunque perché la ragione lo giudica
supremo che esso vale come fine morale; ma è perché esso deve valere come fine
morale, deve adempiere a questo ufficio nella unità logica del si- stema, che
la ragione gli riconosce questo valore di fine supremo. Il che viene a dire che
il titolo sul quale il giudizio della ragione è fondato, il criterio seguito
nella scelta è il carattere che esso assu- me, o è capace di assumere, di fine
morale. Riconoscergli questa attitudine, questa capacità a dar ragione dei
giudizi morali, a servire ad essi di principio di giustificazione, cioè di dato
dal quale razionalmente si ricavano le norme, equi- vale a riconoscerlo come
fine morale; e assumerlo come tale, equivale ad assumerlo come supremo. Adunque
è bensì la ragione che giudica questa attitudine o questa capacità che ha il
fine di servire di giustificazione dei giudizi morali. Ma il valore morale di
queste valutazioni è dato, deve essere ammesso o presupposto. La ragione porta
il suggello di questo valore su quel fine del quale essa mostra la congruenza
con le valutazioni morali. Se in questo proposito di ricondurre le valutazioni
della coscienza morale a un fine unico, possa riuscire o no, e, dato che possa,
entro quali limiti e con quali frutti, è una questione che qui può essere
lasciata in disparte. Ciò che importa notare è che quel «Fine» ha valore
supremo per l'uomo dotato di coscienza morale; per una natura umana per la
quale valga l'esigenza morale e valgano le valutazioni che essa richiede e che
la esprimono. È supremo dunque nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità di
certe aspirazioni su certe altre, di certe attività su certe altre, di una
«natura» su l'altra. Per far riconoscere il valore supremo di questo fine noi
dobbiamo dunque supporre ammes- so il valore di quei giudizi morali, dei quali
dimostreremo poi razionalmente la validità, deducendo- li da quel fine. Sono
questi giudizi, di cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o
i dati primi della costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è
che lo sforzo logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un
unico criterio; di costruirli in sistema. Del quale perciò la va- lidità logica,
la coerenza necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza razionale; ma
la validità assiologica esprime una esigenza morale, la quale è già data o
postulata 16 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale \ Se i
giudizi primari di valore, i criteri ultimi, attorno a cui si raccolgono e ai
quali si subor- dinano le valutazioni, sono assunti e non posti dalla ragione,
come si può parlare — e manifesta- mente se ne parla con fondamento — di
massime di condotta sulle quali tutte le persone «ragione- voli» vanno
d'accordo, e il dissentire delle quali è tenuto come segno patente di
irragionevolezza? Che significa ciò se non questo per l'appunto, che basta per
riconoscere la bontà di quelle massime, essere ragionevoli, cioè dunque, che
basta la ragione a giustificarle? Pare infatti di sí, a prima vista, e si può
anche entro certi limiti accettare dall'uso questa for- ma di espressione senza
inconvenienti; ma ciò non toglie che l'espressione sia impropria e che l'os-
servazione notissima e comunissima prova qualchecosa d'altro; un fatto assai
notevole, e a cui si collega una considerazione d'importanza capitale per il
modo d'intendere i rapporti tra valori morali e valori di altre specie: che le
massime delle quali si discorre, esprimono o valutazioni primarie e- lementari,
di cui è superflua, perché è comune e manifesta, ogni giustificazione, oppure
delle valu- tazioni nelle quali si incontrano criteri assiologici tra loro
diversi. Sono queste valutazioni mediate o indirette che si possono ricondurre
cosí all'uno come a ciascun altro dei criteri suddetti; quasi ponte di
passaggio a cui mettano capo strade di origine diversa, o linea di intersezione
di piani diversi. Cosí nel raccomandare i precetti della temperanza si
incontrano stoici ed epicurei, edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia
pure per motivi diversi, ossia in vista di fini diversi e anche opposti tra di
lo- ro; e nel raccomandare l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo
ethicus si trovano pie- namente d'accordo12; ossia qualunque possa essere, tra
quelli che sono comunemente accolti, il cri- terio assunto, chi lo accetta,
deve ragionevolmente accettare quella norma; o, in altri termini, qua- lunque
sia, tra i normalmente possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta
deve riconosce- re che esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di
operare. Non riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora
riconoscere che se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta
un principio bisogna accettare le conseguenze, que- sto è appunto, essere
ragionevole. E poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato,
se- condo le tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica
conduce a quel medesi- mo precetto, questo precetto appare fondato in ragione,
ragionevole per sé. E in effetto, non si po- trebbe giustificare se non per
mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la
connessione necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere rispettivamente
assunti per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi o supremi è, per
ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la riprova nel fatto che
se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conse- guenze valutative non
coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire «ragionevole» quel modo
di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale, finché sono considerati
come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa irragionevole se chi usa
pietà è persuaso che il fine piú degno è la forma- zione del superuomo e che a
formare il superuomo è necessario essere spietati. Questo esempio può parere
poco convincente perché troppo remoto dalla probabilità di essere riconosciuto
e accolto. Ma, lasciando pure di notare che esso sarebbe probativo anche se
fosse del tutto ipotetico13, è da os- 12 Anzi su questa circostanza si fonda la
considerazione, a cui ho accennato, di importanza capitale per l'etica e di cui
ho trattato di proposito altrove (confronta Vecchio e nuovo problema, Parte I,
Cap. II, Parte II, Cap. II): cioè che una qualità, una virtù, un modo di
operare che ha valore per un rispetto, può aver valore anche per altri rispetti
diversi. Un atto morale può avere, anzi di solito ha, anche un valore di
utilità individuale o sociale e così via. Il che spiega: 1° come avvenga che la
giustificazione delle medesime norme morali si sia potuta cercare in fini di
natura diversa; 2° co- me sia possibile, anzi sia la sola soluzione legittima
del problema, di giustificare, ricavandolo da un fine diverso, il pre- cetto
morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione come una
rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonisti- co o sociale o d'altro
genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale. E non è, come tutti sanno servare
che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí recisi, sull'accordo tra le
persone ragio- nevoli sono da fare assai piú riserve che non paia a prima
vista; appunto perché, dove il consenso abituale del costume e l'accordo delle
opinioni accettate senza critica non sopraffà o non nasconde le divergenze, e
soprattutto nel campo della vita interiore, queste sono assai maggiori che non
si creda. Anzi si può dire che su certi campi l'accordo tra persone di tendenze
e di indirizzi morali di- versi è raggiunto, non in grazia della ragione, ma
nonostante la ragione, la quale se fosse rigorosa- mente applicata,
richiederebbe un modo diverso di valutare e di giudicare l'azione. Il che viene
a di- re che qui l'accordo c'è, non perché tutti sono ragionevoli, ma perché
alcuni si dimenticano di esse- re, o credono di essere mentre non sono.
Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di un giudizio di valore tenuto come
contrario alla ragione, che appare conforme a ragione quando muti il criterio
al quale si riconduce. Non meno, anzi piú significativo è il caso inverso, di
principî tenuti come razionali che ces- sano di essere riconosciuti tali, se
cessano di essere ammessi certi dati o postulati dei quali si sottin- tendeva
che non potessero essere ragionevolmente negati. Di che l'esempio storico piú
insigne e piú istruttivo è offerto da quei principî etico-giuridici che passano
come il modello caratteristico di una costruzione puramente razionale. Anzi, su
questa idea che la costruzione giuridica del secolo XVIII — della quale
l'espressio- ne piú nota è la Dichiarazione dei diritti — sia una pura
astrazione razionale, è fondata la critica ormai stereotipa che si ripete in
nome del senso storico; mentre nella elaborazione e nella si- stemazione di
quei principi ebbe la sua parte, e la adempì magistralmente, la ragione; ma non
era e non è la ragione che ne pone la validità e ne fa sentire la giustizia. Il
vero difetto della costruzione razionale non è di aver per soggetto l'uomo
astratto in luogo dell'uomo storico (qualsiasi costruzione, non solo
sistematica, ma anche storica, non può fare a me- no dell'astratto), ma è di
aver assunto a fondamento della propria costruzione un astratto (l'uomo-
ragione) insufficiente a reggere l'edificio che si voleva fondare su di esso.
Infatti l'uomo-ragione supposto dal razionalismo non è soltanto ragione; è,
insieme e impre- scindibilmente, nel concetto razionalistico, l'uomo che
ammette certi principî, espressi o sottintesi, che sono incorporati e
assorbiti, almeno nell'opinione comune, surrettiziamente e inconsapevol- mente
nel concetto di uomo-ragione. Non si capisce la razionalità dei diritti
dell'uomo e del cittadino, se non supponendo che sia un dato razionale
ammettere che nessun uomo debba essere trattato come strumento della volontà
altrui; cioè senza supporre il valore assoluto dell'uomo come tale, e il
postulato giuridico corrispon- dente, dell'uguaglianza di diritti di tutti gli
uomini. È in effetto per questo soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15
sono riconosciuti di fronte allo stato tutti quei diritti che fanno
scandalizzare Comte, sogghignare Marx e sorridere l'ho- mo historicus. Né si
dica che il Nietzsche è finito al manicomio; ciò non proverebbe nulla: l°
perché non è teoria solo del Nie- tzsche ma di molti: e divenne in veste
politica, dottrina di un popolo o di una razza; 2° perché quando il Nietzsche
la pensò non era pazzo; 3° perché anche se fosse stato pazzo, la teoria di un
pazzo non è necessariamente una teoria pazza; 4° perché in ogni caso sarebbe da
dire non che è irragionevole la massima, la quale, poste quelle premesse, è
ragionevo- lissima, ma che è inumano, o ripugnante, o indegno, accettare una o
l'altra delle premesse, o ambedue. Ma è tutt'altro che l'unica perché fu
preceduta, come è noto, non solo delle dottrine del liberalismo inglese, ma
anche dai Bills of Rights dei diversi stati dell'Unione Americana. E quanto al
luogo comune delle «Ideologie france- si» ha ragione il Janet, di rilevare che
in un testo scolastico universitario inglese, «Philosophiae moralis institutio
com- pendiaria», stampato a Glasgow di un autore tutt'altro che ignoto, Hutcheson,
si parla come di cosa pacifica, venti anni prima del Rousseau, del patto
primitivo degli uomini fra di loro, e dei sudditi col loro governo. Un altro
luogo topico che potrebbe senza danno essere lasciato in disparte, è quello che
vede nei famosi dirit- ti l'affermazione estrema dell'individualismo e la tesi
dell'individuo-fine e dello stato-mezzo. Mentre il riconoscimento di quei
diritti esprime a parte singuli la garanzia della libertà individuale, ma
esprime insieme l'ufficio fondamentale e preliminare di ogni stato: la tutela
della giustizia. E combattere le violazioni della libertà e della giustizia,
fatte in nome. Mentre, se si esclude quel supposto e si ammette che lo stato
abbia un valore in sé superiore a quello della persona, o se si ammette che i
diritti debbano essere subordinati alla cultura, alla po- sizione sociale, alla
costituzione politica dello stato, quei diritti «naturali» non hanno piú
nessuna ragione di essere riconosciuti come diritti. Ma il principio che la
persona umana ha valore per sé e che non è giusto usare la persona come mezzo,
è un postulato di valore (cosí come è un postulato di valore il principio che
ogni uo- mo, in quanto soggetto di diritti, valga quanto qualsiasi altro); i
quali possono essere assunti e pos- sono essere negati senza che chi li accetta
o li nega cessi, per questo fatto dell'accettarli o negarli, di essere
ragionevole, o diventi ragionevole se non era. Perciò non è da meravigliare che
quando i postulati di valore impliciti in quella costruzione razionale del
diritto sono messi in dubbio o negati, la costruzione debba sembrare campata in
aria. Mentre non era campata in aria, e non è, per chi assume come soggetto di
quei diritti un uomo che è dotato di ragione non solo, ma insieme di una certa
coscienza morale e giuridica; la coscienza mo- rale e giuridica che si
raccoglie nei detti postulati e si può dedurre da essi. Questi postulati il
razionalismo aveva torto di pensare che fossero impliciti necessariamente nella
ragione, ossia di credere che «uomo ragionevole» volesse dire insieme uomo che
accetta quei principî di valutazione. (Il che non vuol dire, si badi bene, che
avesse torto nell'accettarli e nell'as- sumerli come degni di essere
accettati). Ma se si ammette o si suppone che siano accettati, la costruzione
razionale che se ne ricava, come dottrina dei rapporti etici e giuridici che
governerebbero qualsiasi società umana, nella quale essi fossero sanciti come
criteri supremi della condotta, in ogni sua forma — sia dei cittadini tra di
loro, sia dei cittadini verso lo stato, e inversamente, sia degli stati fra di
loro —, non solo non è ille- gittima, ma è la sola legittima. E il suo valore
etico, giova affermarlo, sussiste, se c'è, qualunque possa essere la distanza
che si osserva o si immagina intercedere fra uno stato conforme a quella
esigenza ideale, e questa o quella forma di realtà storica e concreta. Anzi, per
chi assume quell'esigenza come avente valore morale supremo, i doveri
corrispon- denti all'attuazione e all'osservanza di quei rapporti saranno i
doveri fondamentali precedenti in au- torità e in obbligatorietà ogni altra
sfera di doveri, e i diritti correlativi esprimeranno i valori sociali e
politici supremi indipendentemente da ogni giudizio sulla realtà e attuabilità
delle forme ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí configurati16. Per
converso, chi respinge questo postulato, non solo può, ma deve,
ragionevolmente, nega- re ogni valore alla costruzione razionale corrispondente
(sebbene avrebbe l'obbligo — in sede di di un preteso interesse della
collettività e dello stato, non è negare l'interesse della Società, ma
piuttosto difenderlo. Anzi l'homo ethicus del secolo XVIII è povero di
contenuto appunto perché si esaurisce nei doveri del cittadino, cioè nei va-
lori giuridici e politici, e dimentica o trascura i valori propri della vita
personale interiore. Il che prova che sono lasciati nell'ombra non solo i fini
propri dello stato (uffici positivi) ma anche i fini spe- ciali dei singoli;
appunto perché domina e vince ogni altra preoccupazione quella dei fini comuni
universali e fonda- mentali - così per la vita individuale come per la vita sociale
- della libertà e della giustizia. Chiamare la concezione ideale di una forma
di diritto una astrattezza e usare questo termine a dispregio, non è esatto e
non è giusto se non quando questa forma ideale sia concepita fuori dalle
condizioni necessarie a farlo essere diritto. Nel qual caso sarebbe legittimo
dire che il diritto ideale è un diritto impossibile, e sarebbe sciocco e vano
conce- pirlo e parlarne. Ma un diritto ideale concepito nelle condizioni che
sarebbero richieste a farlo sussistere come diritto positivo, non è piú
astratto che un diritto positivo qualsiasi concepito nelle sue condizioni
storiche. Salvo che nel secondo caso le condizioni esterne del diritto sono
reali, nel primo sono possibili; nel concetto dell'un diritto l'idea delle
condizioni che ne fanno o ne hanno fatto un diritto positivo, trova
corrispondenza nella realtà, e nel concetto dell'altro l'idea delle con-
dizioni che farebbero del diritto ideale un diritto positivo, non ha trovato o
non trova più, in una forma storica di realtà, la sua corrispondenza. 19
Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta morale — di
chiarire quale postulato assuma al posto di quello che respinge, e quale
sarebbe il si- stema etico-giuridico che ne discende). Ma commette una
grossolana fallacia elenchi, quando pretende di confutare o condannare quella
costruzione etico-giuridica in nome della realtà o della storia. Perché la
realtà e la storia da- ranno la stregua della attuabilità dei rapporti
prospettati nella costruzione ideale, ma non del valore di questi rapporti.
Cosí il razionalismo assume erroneamente come dati razionali dei postulati di
valore e si il- lude di poter imporre in nome della ragione dei principi che
non valgono se non supponendo accet- tati quei postulati che li giustificano: e
lo storicismo si illude di togliere ogni valore alle costruzioni fondate su
quei postulati dimostrando che la realtà storica è diversa da quelle
costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini non hanno nelle condizioni
di fatto eguali diritti, o che la società non è fondata sul contratto, o che
non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto diritti positivi, equivalga a
dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei diritti; e che non possa essere
apprezzata e apprezza- bile una società ordinata in modo tale da poter pensare
che non sarebbe diversa se fosse costituita per contratto volontario di tutti i
cittadini; o non possa essere piú desiderabile che abbia sanzione di diritto e
valga come tale un ordine di rapporti conforme a certi criteri piuttosto che a
certi altri. A risolvere queste questioni, il sapere storico non è competente.
D'altra parte lo storico non potrebbe risolverle senza cessare di essere
storico e diventare «moralista» o «ideologo», «reaziona- rio» o
«rivoluzionario», «conservatore» o «riformatore». Perché non vi è altra via: O
ricusa certi postulati di valore per assumerne altri diversi, pure di valore. O
rinunzia, non solo a qualunque giudizio, ma a qualunque intervento della
volontà uma- na nella storia, cioè nella produzione degli eventi umani. Perché
ogni azione umana, cioè consape- vole e volontaria, implica una direzione verso
un risultato che si giudica preferibile tra i possibili, cioè implica una
scelta, e quindi una valutazione. Tanto nel «razionalismo» quanto nel
«realismo» o «storicismo», i criteri di valutazione pos- sono bensí essere
ricondotti a un postulato di valore, ma questo postulato non è posto dalla
ragione né è dato dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo, ammetterlo o
respingerlo, non vuol dire né rispettare o rinnega- re la ragione, né
riconoscere o misconoscere la storia; avere o non avere senso storico. Il che è
la prova piú manifesta che non è un dato della ragione il postulato di valore a
cui si riconduce l'esi- genza espressa nella dottrina del diritto razionale,
come non è un dato della storia il postulato, pure di valore, a cui si
riconduce l'esigenza implicita nella dottrina del diritto storico. Resta da
osservare al nostro proposito per quel che riguarda il razionalismo
etico-giuridico, come da questa illusione che l'universalità della ragione
volesse dire anche universalità di consenso nei postulati valutativi
incorporati surrettiziamente in essa, derivò l'errore di credere che potesse
ba- [ A questa differenza fondamentale tra valutazione e giudizio storico, è da
ricondurre, a mio giudizio, la que- stione del rapporto tra Spirito
rivoluzionario e senso storico, di cui tratta dottamente e sottilmente il
Mondolfo in un ar- ticolo del «Nuova rivista storica» (anno I, fasc. III). Il
rivoluzionario (come del resto ogni innovatore di grandi o anche di piccole
cose, anzi ogni uomo di iniziati- ve) è, o si pone, fuori della storia in
quanto valuta, cioè giudica e opta per un ideale; (anche se questo ideale è un
pro- dotto storico, non è perché è un prodotto della storia che è stimato
desiderabile, preferito e voluto). È nella storia e deve aver senso storico in
quanto è uomo politico, cioè vuole agire sulle condizioni presenti nella
direzione voluta. Insomma: in quanto sceglie tra diverse direzioni concepite
come possibili (cioè come tali da potere essere favo- rite e contrastate dalle
nostre azioni), non è nelle storia, se non in quanto sono nella storia e della
storia le sue stesse ide- alità morali. In quanto si rende conto della realtà
sulla quale vuole agire e del modo col quale la sua azione può inserirsi
efficacemente su tale realtà, è nella storia. 20 Su la pluralità
dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta stare per fare accettare
questi postulati «illuminare» le menti, dissipare «i pregiudizi», ragionare;
come è nata per contrasto l'illusione inversa che per respingere le
applicazioni, le «conseguenze pra- tiche» di quegli stessi postulati e dei
criteri che ne derivano, non ci fosse altra via che di far tacere la ragione o
screditarla e dare a lei la colpa, non solo delle conseguenze, che essa secondo
l'ufficio suo veniva svolgendo e costruendo in sistema coerente, ma degli
errori e delle violenze commesse da quelli che smentivano con l'opera i
principî o li applicavano a rovescio, e piú spesso senza cono- scenza degli
uomini e delle cose, cioè senza tener conto della realtà concreta e della
storia. E cosí si passava da una ragione fatta soggetto di meriti non suoi, a
una ragione fatta oggetto di biasimi non meritati. Ma la ragione è al di là di
quei meriti, e di questa imputazione. La ragione ha un compito inestimabile;
necessario, anzi imprescindibile, ma arduo e non fi- nito mai; di costruire
incessantemente l'unità della persona; l'unità dell'uomo teoretico, l'unità
del- l'uomo pratico e l'unità (a cui bisogna pur mirare, come miravano gli
antichi) dell'uomo teoretico con l'uomo pratico. Ha un ufficio di continua
eliminazione e ricostituzione; un ufficio nella vita spi- rituale della persona
analogo, direi, a quello che ha nella vita fisica la circolazione del sangue.
Ma non si può pretendere di ricavare da essa il principio dell'esistenza, ossia
il dato o i dati attorno ai quali si possa affermare la realtà obbiettiva di
ciò che è oggetto del sapere; né si possono trovare in essa, o ricavare da essa
i criteri sui quali si fonda la valutazione e attorno ai quali la ragione
unifica i giudizi di valore. Come non dà essa la certezza dell'esistenza, cosí
non dà essa la coscienza del valore. Resta un'ultima via, la terza (vedi Cap.
II); la piú audace e radicale. È la ragione che pone la legge morale; ma perché
la ponga non è necessario che ricorra a nessun dato o principio materiale, sia
stabilito o fondato su verità di ordine teoretico o dimostrabili o evidenti per
sé, sia cercato in un fine a cui possa ricondursi il contenuto della legge. È
la esigenza razionale che si pone come legge, senza che a costituirla sia
necessario fare appello al valore di qualche oggetto o risultato dell'azione e
dare a quel qualsiasi contenuto materia- le che venga assunto dalla legge, un
valore morale pur che sia, all'infuori da quello che gli viene dalla forma di
legge che lo impronta. È, come ognun vede, la tesi di Kant, che è non solo la
piú vigorosa, ma la sola veramente ri- gorosa del razionalismo morale. La prima
delle vie indicate (Cap. II), quella del platonismo, e in modo particolare
quella dei platonici della scuola di Cambridge, riconduce la morale alla
ragione perché la riconduce a principi teoretici di cui si crede che la ragione
dimostri la verità o faccia rico- noscere l'evidenza: la certezza morale è
razionale perché è razionale (o è assunta come tale) la cer- tezza teoretica.
È, si può dire, veramente, un intellettualismo morale. Per Kant invece, non
solo i principi pratici non si fondano su dati teoretici; ma è soltanto
nell'uso «pratico» che la ragione può varcare i limiti del fenomeno, e
affermare del noumeno ciò che è conforme all'esigenza della morale, ciò che la
ragione postula per il suo bisogno pratico. E i postulati pratici sono
veramente, non postulati etici, ma postulati metafisici affermati sul
fondamento dell'esigenza etica. Or dunque l'esigenza razionale che è esigenza
formale di una legge in generale, in morale è esigenza della legge, di quella
legge che è essa la sola razionalmente necessaria. Ma essendo incontrastato per
Kant questo punto, sono possibili sul rapporto della forma e della legge col
contenuto tre soluzioni: I. O si può intendere che la legge morale è una forma
senza nessun contenuto; cioè che la forma dà il valore morale alla legge e il
criterio per osservarla e praticarla, senza che occorra una qualsiasi
determinazione del contenuto. II. O si può pensare che occorre bensì un
contenuto che si adatti a quella forma, che sia su- scettivo di assumerla o di
esserne investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto che diverso.
Insomma: è necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso sia, purché
possa essere contenu- to di quella forma. Non è perciò escluso a priori che
possano essere piú, fra di loro diversi. III. Si può pensare che la forma
razionale, la forma della legge morale conviene a un solo contenuto, quel
contenuto che si concreta appunto in relazione con quella forma. Ossia, che
l'esi- genza razionale basti a determinare univocamente il contenuto della
legge18. La prima interpretazione che sembra la piú semplice e sulla quale s'è
fatto un gran discutere, è insostenibile, perché si risolve in un circolo
vizioso, dal quale non è possibile uscire in nessun modo. 18 Forse a queste tre
interpretazioni, teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le
tre formule note dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che
ciascuna delle tre si avvicina di più rispettivamente a una delle interpretazioni
possibili che alle altre due. Così la prima formula (dell'universalità) sembra
rendere possibile la prima interpretazione. La formula (terza) dell'autonomia
del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad
esse, pare che possa convenire alla seconda interpretazione. E finalmente la
seconda formula (tratta la per- sona umana come fine, ecc.) pare che risponda
meglio alla terza interpretazione di un contenuto determinato
inequivocabile. Quella stessa illustrazione kantiana che sembra
legittimarla mette capo a una formula, che fu bensì intesa spesso e trattata
come puro criterio dell'universalità sic et simpliciter (la possibilità di
concepire la massima come legge universale dell'operare), ma che, nei termini
precisi in cui è e- spressa, implica di necessità il riferimento a un qualche
contenuto senza del quale mancherebbe o- gni possibilità di adoperarla come
norma di quell'operare del quale vuole esprimere l'obbligatorietà. Secondo
quella formula, il criterio per giudicare della bontà della massima è che io
possa volere che valga come legge universale. Ma io posso volere che una
massima valga universalmente, soltanto quando, o meglio, se, la massima cosí
universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla Ragione, cioè (che è
tutt'uno) al Volere morale; alla legge, dunque, che fa morale il mio volere; il
che viene a dire che una massima è morale quando è conforme alla legge del
volere morale, ossia quando è conforme alla legge morale. Il valore morale
dell'azione si giudica dalla possibilità che la massima sia voluta come legge,
ma questa possibilità di essere voluta come legge, si riconosce dall'accordo
della massima con quel- la legge morale della quale non è dato altro carattere
che l'universalità, e altra applicazione che cer- care se il modo di operare
corrispondente si possa universalizzare in massima. Che il riferimento a un
contenuto sia anche nel pensiero di Kant necessariamente implicito nel
criterio, appare poi mani- festamente, non dico dagli esempi, ma da una chiosa
che non si capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo espresso o
sottinteso. A proposito del quarto esempio della Fondazione (il bra- v'uomo che
non fa male a nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura d'altro) chiosa il
Kant in forma decisiva: «quantunque sia possibile che esista una legge
universale della natura conforme a tale massima, è impossibile di volere che un
tale principio valga come legge della natura». Ma perché è impossibile?
Manifestamente perché il Volere razionale vuole già qualchecosa che è
incompatibile con ciò che è espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la quale
tuttavia è pos- sibile che esista come legge universale della natura); vuole
qualchecosa che ogni uomo come essere ragionevole vuole necessariamente.
Insomma, il criterio dell'universalizzazione vale in quanto è possibile
confrontare la legge, a cui darebbe luogo la massima se valesse universalmente,
con una certa legge che abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto.
Senza questo riferimento, questo ubi consistam della volontà, non è possibile
sapere se la massima dell'azione19 abbia o non abbia i requisiti necessari,
perché si possa volere che valga come legge universale. Con ciò il pensiero di
Kant sembra escludere non soltanto la prima, ma anche la seconda in-
terpretazione (che la forma razionale possa convenire a piú di un contenuto,
cioè che possano pre- sentarsi come leggi morali, modi di valutare o sistemi di
norme fra di loro diversi); e ammettere che a dare all'esigenza razionale
sussistenza effettiva di legge, determinazione di oggetto che la renda
applicabile, non sia adatto che un solo ed unico contenuto; e che la legge
voluta dall'essere ragione- vole, non possa essere che quella certa legge. Che
questo sia veramente il pensiero di Kant credo sia indubitabile, né importa
insistervi qui. Piuttosto è necessario rilevare come questa pretesa di deter-
minare la legge, quella legge soltanto in funzione della forma, possa parere
possibile e legittima finché è sottinteso o ammesso che la legge morale deve
essere universale non soltanto nella forma, ma anche nel contenuto; e che
perciò le massime in discorso sono soltanto le massime di quel certo operare
che ne resta quindi determinato in modo univoco. E cosí il criterio
dell'universalizzabilità coincide praticamente con quel contenuto di cui si sa
già e si ammette riconosciuto universalmente 19 E va da sé che anche l'azione,
di cui si vuole saggiare a questa stregua la massima, deve avere un contenuto
che la fa essere quella azione, conforme o disforme da una massima. Se no, non
si può parlare di massime dell'operare, anzi neanche di un'azione
qualsiasi. 23 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta il valore, di cui quindi si sa che è impossibile volere che
valga come morale una massima che lo ne- ga20. Adunque questa impossibilità non
sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa e- sigenza si trova
essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme una volontà che vuole
cer- ti valori; o piú chiaramente ancora questa impossibilità non emerge
necessariamente dalla ragione, ma dalla natura dell'essere ragionevole; la
quale natura è ragione, ma è insieme un volere che vuole ciò di cui la ragione
formula la legge. Ora, se si suppone che quel Volere non ponga come assoluti e
supremi quei valori, cessa o- gni ragione di volere quella legge piuttosto che
un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità di volere che valga come legge
una massima che è incompatibile con questa. Adunque, posto che un volere non
voglia quei valori e ne voglia altri, cessa questo Volere di essere il Volere
di un essere ragione- vole? Cessa di essere un Volere ragionevole quello che
riconosce l'esigenza di porre e di osservare la legge che ordina e unifica le
massime della condotta in conformità a quegli altri valori che esso riconosce
come morali? Non è anche in questa ipotesi salva l'esigenza razionale? Questa
ipotesi (che la realtà della coscienza morale contemporanea prova, come s'è
visto, non essere pura ipotesi), conferma in concreto quel che l'analisi della
formula rivela inoppugnabil- mente: che il dato iniziale, originario o primario
della legge morale è presupposto dalla ragione, non posto; presupposto come
oggetto o contenuto di una Volontà la quale è bensì razionale in quanto pone a
sé come legge la norma dell'operare corrispondente; ma non è né razionale né
irrazionale in quel che riguarda la posizione di quei valori primari, che
costituiscono il terminus ad quem dell'o- perare, l'oggetto della volontà,
attorno al quale l'esigenza razionale stringe la condotta in unità coe- rente
di legge. A una conclusione del medesimo genere riesce per altra via la difesa
che del formalismo kantiano fa il Martinetti in una sua memoria densa e
vigorosa21 nella quale egli si sforza di salvare il carattere formale della
legge pur riconoscendo la necessità di un contenuto; e lo salva facendone la
forma, non di un contenuto sensibile, ma di un contenuto soprasensibile. Ma
questa soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla concezione di
questo fine tra- scendente o di questo mondo soprasensibile che è l'oggetto
proprio della legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che di questo
mondo soprasensibile non possiamo af- fermare altro, se non appunto questo: che
esso è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale, il mondo nel
quale la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne diano altre de-
terminazioni di sorta. Ovvero questa realtà ha altre determinazioni, attua un
certo ordine di rapporti, 20 Mi sia lecito riferirmi per la chiarezza a uno
degli esempi di Kant. La ragione per la quale non si può volere erigere a
massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1°
esempio), non è già che sia impos- sibile concepire seguita una tal massima universalmente
(non c'è nessuna contraddizione intrinseca nel pensare che tutti quelli che
sono stanchi della vita si uccidano); e neanche che non sia possibile a una
volontà che vuole una legge - ma che sia indifferente per ipotesi ai valori
morali, e apprezzi sopra ogni cosa il piacere o la liberazione del dolore -
volere che valga universalmente. (È così possibile che, come tutti sanno, non
mancò chi la praticasse e la predicasse anche tra i filosofi). Ma è impossibile
che voglia una tal legge chi ammette la superiorità dei valori morali. Ossia
l'irrazionalità del- la massima emerge, non da un'impossibilità intrinseca
della massima e neppure dalla impossibilità di sussistere di un Volere che sia
indifferente a certi valori, ma dal suo contrasto con un Volere che riconosce
la superiorità di certi valori (morali) sugli altri (egoistici); e quindi non
può volere che valga come legge una massima che smentisce questa superiorità.
Sul formalismo della morale kantiana estratto dalla Miscellanea di studi
pubblicata per il cinquantenario del- la R. Accademia scientifico-letteraria di
Milano. Inserito poi in Saggi e Discorsi, Libreria Editrice lombarda, Milano,
1929. 24 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta che non possiamo conoscere speculativamente, ma di cui possiamo
tuttavia essere certi e affermare e riconoscerne la perfezione, la bontà, il
valore. Se si ammette la prima tesi, l'affermare una realtà soprasensibile di
cui non possiamo dir al- tro se non che è il contenuto della forma morale, non
ci dice in che consiste questo contenuto, e non ci fa uscire da questa forma.
Dice che vi è un mondo conforme alla legge morale, ma non dice quale sia, come
sia fatto questo mondo. Non ci illumina dunque, su questo punto, piú di quel
che valga a far capire quali sono le disposizioni di una legge, il pensare che
questa legge sia perfettamente os- servata. Per uscire davvero dalla forma e da
questo circolo vizioso di un mondo di cui non si sa altro se non che è
governato dalla legge morale, e di una legge morale che ha valore perché è la
legge di quel mondo, bisogna dunque attenersi alla seconda tesi; la quale, come
pensa il Martinetti, e come io credo, risponde veramente al pensiero di Kant,
se non come si mostra punto per punto nelle stret- toie della sua esposizione,
come risponde all'intento fondamentale che anima la sua dottrina del primato
della ragione pratica e piú chiaramente ancora al proposito esplicitamente
ammesso da lui nella prefazione alla seconda edizione della Critica della
Ragion pura22. In realtà «l'uso pratico» della ragione consiste nello
spalancare all'esigenza morale quelle porte della metafisica che sono chiuse
alla speculazione teoretica; nel lasciar libero alla fede il cam- po del
soprasensibile vietato alla conoscenza; nell'ammettere, se vogliamo usare
espressioni corren- ti, piú che il diritto la necessità di credere, la
necessità «razionale» di ammettere quel che la ragione, in quanto è garanzia di
certezza teoretica, non può né dimostrare né affermare; di oltrepassare — per rendersi
conto della possibilità del dovere — il campo dell'esperienza sensibile e
postulare l'esi- stenza di una realtà che trascende l'esperienza. Ma questo
ufficio pratico sarebbe senza frutto23, se una certezza diversa dalla
scientifica, ma non minore, non potesse valicare quelle porte del
soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esi- genza morale, ma apre per
lei e in nome suo. Sulla soglia del soprasensibile la ragione sembra dire
all'esigenza morale quel che Virgilio a Dante all'entrata del Paradiso
terrestre: «...Se' venuto in parte Ov'io per me piú oltre non discerno». Ma la
fede fondata sull'esigenza morale entra e procede sicura in questo mondo,
dinanzi al quale la conoscenza si arresta. Come se venuta meno ogni luce dal di
fuori, questo mondo si illumi- ni della luce che la certezza morale accende in
sé e sprigiona da sé e diffonde attorno a sé in quello che è il suo regno. È
questo mondo soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la realtà di cui la
legge morale è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel mondo
dell'esperienza si applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in
quanto partecipa di questa forma che è forma di una realtà superiore alla qua-
le la realtà inferiore deve essere subordinata. Il concetto dominante di questa
prefazione (che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono che la
soluzione dei problemi morali sia un corollario di dottrine speculative) si può
considerare riassunto in questa, che direi confessione caratteristica: «Ich
musste also das Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um zum
Glauben Platz zu bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur zweiten
Auflage, ed. Cassirer). Nella prefazione citata, a proposito della limitazione
che la critica della ragion pura porta alla ragione specu- lativa negandole la
possibilità di una conoscenza del soprasensibile, Kant nota che il «vantaggio
d'una metafisica così purificata» non è soltanto negativo ma anche positivo
perché permette l'uso pratico della ragione. E osserva con un pa- ragone assai
significativo che negare «a questo servizio della critica il vantaggio positivo
sarebbe come dire che la poli- zia non dà nessun vantaggio positivo perché il
suo compito principale è soltanto di tenere in freno la violenza; affinché
ciascuno possa attendere ai suoi affari tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il
corsivo è mio). Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta In questa interpretazione24 il termine di paragone c'è, il
Volere razionale ha un oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge
che si rimanda a un contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un
Volere che vuole la legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui
la costruzione valutativa si appoggia, è il valore di questo mondo
soprasensibile postulato dalla ragione in nome della esigenza morale; ma che
appun- to per ciò non è un dato della ragione, ma della certezza morale. E
l'affermazione della realtà di quel mondo è riconosciuta legittima, perché la
sua esistenza è richiesta da questa certezza. Qui è an- cora, per Kant, la
Ragione che riconosce la legittimità della postulazione metafisica; ma la
ricono- sce in quanto accetta come incontestabile la certezza morale; la quale
è certezza di valori, non evi- denza razionale. Cosí adunque anche la tesi
della trascendenza della legge morale implica accanto alla esi- genza razionale
un oggetto della Volontà, un ordine di valori, un dato valutativo irreducibile
alla pura razionalità e che trae la sua validità d'altronde. Quale ne sia la
sorgente, non si può cercare u- tilmente in breve, e non è facile; forse la sua
origine è in quella stessa attività volontaria nella quale bisogna cercare la
fonte della credenza in una esistenza obbiettiva del mondo. La volontà è
direzione ed è forza. In quanto è forza, e si esercita come forza e si rivela
come sforzo (il quale richiede e suppo- ne una resistenza) è il dato
irreducibile della credenza in una realtà obbiettiva distinta dal soggetto. In
quanto è direzione, cioè scelta, cioè azione in vista di un risultato, è il
fondamento irredu- cibile dei giudizi primari di valore, i quali esprimono le
direzioni originarie della volontà, delle qua- li acquistiamo consapevolezza
attraverso le forme fondamentali del sentimento. 24 Non è il caso di cercare
qui se e che cosa il Martinetti abbia messo di suo e di postkantiano nella sua
inter- pretazione, né di vedere se e fino a che punto il fondo mistico del
pensiero di Kant si accordi con la dottrina che do- vrebbe sottrarlo ad ogni
pericolo. Qui basta notare la difficoltà radicale in cui vengono a cadere le
soluzioni del mede- simo genere. La quale è inerente al modo di concepire il
rapporto tra il contenuto sensibile che, per essere applicabile alla realtà
empirica, la legge morale deve pure assumere, e il mondo sovrasensibile che è
l'oggetto proprio della legge morale, quello che ha valore per sé e dà valore
di simbolo o di partecipazione (qui ritornano i dubbi del platonismo) al
contenuto sensibile. Infatti delle due l'una: o si ammette che il contenuto
atto a farsi suggello di quella forma, differisce da un con- tenuto diverso
oltreché per il valore formale (nel quale si esaurirebbe il valore morale), anche
per un valore di altro ge- nere. E allora vi è luogo a cercare se vi sia o no
una connessione necessaria, intrinseca tra questo suo valore specifico e il
valore formale; e in ogni caso si riconosce che il contenuto sensibile della
legge morale ha un suo valore proprio che sussiste ed è riconosciuto anche
all'infuori dell'impronta formale. O si ammette che questo contenuto sensibile
non ha nessun altro valore, cioè è per sé indifferente; che ciò che la legge
morale comanda non vale, per rispetto a questo mondo empirico, di più di ciò
che essa vieta, cioè se non fosse questo riferimento a un mondo superiore non
vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un modo di operare ad un altro; e le
difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le intrinseche e più sottili, basti
rilevare qui da un punto di vista diciamo pure «profano» la stra- nezza quasi
ironica del contrasto tra la soluzione del problema e l'intento che la esprime.
Perché nell'atto di affermare l'esigenza di una osservanza incondizionata della
legge morale si nega ogni valore intrinseco a ciò che la legge coman- da; e
mentre si dà alla legge un'autorità incontrastabile perché trascendente
qualsiasi valutazione empirica, si toglie ad essa ogni ragione di venir
applicata (e se si guarda bene ogni possibilità di applicazione) a quel mondo
sensibile di fron- te al quale deve essere fatta valere questa sua autorità.
Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che dipenda dalla direzione verso
un fine empirico qualunque esso sia, non resta a costituire la moralità, cioè
la bontà del volere, che questo affisarsi nel mondo soprasensibile, questo ten-
dere a una realtà trascendente, nella quale consiste ogni valore. Ma questa
soluzione non isfugge a quella singolare commistione dì forza e di debolezza
che è caratteristica di ogni morale rigorosamente mistica: forza, in quanto è
intui- zione, atto di fede, certezza interiore inespugnabile; debolezza, in
quanto voglia farsi deduzione ragionata di valutazioni empiriche. La quale urta
nella impossibilità di stabilire logicamente, ossia dimostrare discorsivamente,
una relazione necessaria tra la condotta che deve valere come morale nel mondo
sensibile e quel mondo soprasensibile che ne costi- tuisce l'oggetto e il
termine; di superare un distacco logico del genere di quello accennato tra il
criterio usato a determinare le norme di quella condotta e l'ordine di valori
invocato a giustificarle. 26 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta L'intento di Kant di liberare la legge
morale da ogni mescolanza e contaminazione «patolo- gica» di sentimenti, di
inclinazioni, di tendenze — che si traduce in isforzi laboriosi ed ingegnosis-
simi ma vani — forse non sarebbe stato proseguito con cosí risoluta tenacia se
il Kant, meno preoc- cupato dal preconcetto (alimentato dalle dottrine
eudemonistiche del tempo) che ogni forma di sen- timento e qualsiasi genere di
fini, sia inevitabilmente soggettivo, relativo, interessato, fosse stato di-
sposto a riconoscere che vi possono essere forme universali di valutazione
intrinseca, cosí come vi sono forme disinteressate e universali di sentimento. Il
metodo ddll'econonia pura nell’etica. Pavia. Dizioni. Estratto dalla
Rivista filonofica PAVIA PREMIATO STABILIMESTO TIPOGRAFICO SUCC. BIZZOSI
Corso Vittorio Em.inuele
Ip^rolegomeni a una /Ifòoiale balla
/Iftetatisica Pavia - SUCCESSORI BIZZONI - L. 1. 50
Ì4- Vi iC^osstbilttà e i
Ximtti bella /Iftorale come Sciensa La
Dottrina delle due Etiche di H. Spencer e la Morale come Scienza. Per
una Scienza Normativa Morale. Il Fondamento Intrinseco del Diritto secondo
il Vanni. - L. 3, 50 Toi-itio
- BOGGA — Torino É. 3uvalta SI I ,%
w NELL* ETiea PAVIA BIZZONI Corso Vittorio
Emaniu'e — («|W*MB*«W%i»'SSS-»»lBiS«M«»«!.<f.
IL moo OEUECfliiOMm mi. mrmu «"iJi!
hypotheses fingo. L'Economia Pura assume, come è noto, l'ipotesi
che gli xwmiìii nel produrrCy consiunare, distribuirsi e far
circolare la -ricchezza siano 7nossi esclusivameìiie dal desiderio di
coyisegiiire la maggior possibile soddisfazione dei loro bisogni mediante il
minore possibile sacrifizio individuale. Alla costiuzione deduttiva, che se
ne ricava, dei teoremi economici, ossia delle leggi della condotta
àeW Jiomo oeconoìnicus, è indiffei-ente la questione se il postulato
edonistico esprima vei'amente una condizione di fatto; ossia se l'ipotesi
da cui si deduce ogni verità economica coincida o diverga ed in quale
misui-a dai motivi che effettivamente determinano le azioni umane
'^2); come è indifferente qualsiasi valutazione che e del postulato
assunto, e della condotta óeìV uomo econo77iico, e degli ef- fetti di
questa condotta, si possa fare da un punto di vista morale.
In effetto il giudizio sul valoi-e di giustizia o di bontà del
motivo economico e delle leggi che ne discendono, variò, Fa parte degli
Atti del Congresso Filosofico di Parma, al quale do- veva essere
presentato coi titolo più generale : € Condizioni e limiti di una
trattazione scientifica dell' Etica ». (2 Cfr. Pantaleoni. — Principii
di Economia Pura. IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA come
tutti sanno, da un illimitato ottimismo al pessimismo piir radicale; e il
giudizio sulla coii'ispondenza delTipotesi colla realtà varia del pari,
da quelli che riconoscono nel motivo assunto l'unico motivo di tutta
quanta l'attività umana, a quelli che lo considerano come uno dei
fattori, non l'unico, nel campo stesso dell'economia; i quali, appunto
perchè l'economia cosi intesa studia soltanto l'azione di un fat-
toi'e, isolato per asti-azione dal complesso degli altri la cui efficacia
si esercita in realtà simultaneamente, non ricono- scono alle sue leggi
che un valore ipotetico, correlativo al cai'attere ipotetico dell' uomo
economico e dello Stato economico. Ma qualunque sia cosi l'uno come l'alti'O
giudizio, il carattere scientifico della costruzione deduttiva rimane
in- contestabile. Nella misura che la corrispondenza colla realtà
psicologica è inadeguata, si dovrà riconoscere l'arbitrarietà del
postulato, e della costruzione che ne dipetide, in quanto pretenda di
porsi come scienza della realtà ; e a secoruìa che si ammette o si nega
che il postulato abbia valore morale, si ammetterà o si negherà valore
morale alla di- sciplina precettiva che se ne volesse ricavare. Ma in
ogni caso restano incontestati questi due punti: 1.* che la ri-
cerca intorno alla corrispondenza colla realtà psicologica e storica del
motivo economico e delle condizioni nelle quali si suppone che agisca, è
diversa e distinta dalla co- struzione deduttiva dei teoremi economici ;
la quale è va- lida, 7iei limiti dell' ipotesi, sempre, qualunque sia il
grado di questa corrispondenza. 2° Che qualsiasi indagine valu-
tativa del postulato, e delle leggi, e degli effetti sia pros- simi sia
remoti che ne derivano o ne deriverebbero, è pa- rimenti distinta, ed
estranea alla costruzione scientifica il metodo
dell'economia pura nell'etica 6 <iometale; la quale rimane la
medesima tanto se il motivo economico è considerato come morale quanto se
è tenuto come immorale, o amorale, e quali che siano le ragioni di
questa valutazioue. Supponiamo ora che il postulato edonistico sia
ricono- sciuto universalmente e accettato come postulato morale. E
chiaro che la disciplina precettiva derivata o derivabile dall'economia
pura avrebbe valore e carattere di precet- tistica morale; sia che il
valore morale del motivo econo- mico fosse accettato per se come un dato
primo e imme- diato, sia che venisse derivato, ossia giustificato alla
sua volta, da un fine o da una esigenza ulteriore; e qualunque
fosse questa ulteriore giustificazione. E opportuno su questo punto
un breve chiarimento. Nella supposizione ora fatta che il valoi'e morale
<iel motivo economico sia universalmente riconosciuto, non è in
alcun modo implicita l'aff'ermazione che sia riconosciuto da tutti per la
medesima, o per le medesime ragioni. Si po- trebbe ammettei'e che esso si
fondi per alcuni sulla legitti- mità, senz'altro ammessa dell' « egoismo
individuale » o del- l' < egoismo di specie )>'come regola di
condotta; da altri sul cai-attere atti-ibuito alle leggi economiche di
leggi na- turali e necessarie e non modificabili dalla volontà del-
l'uomo; da altri sopra una interpretazione ottimistica delle leggi stesse
o degli effetti o risultati che l'osservanza piena ed universale di esse
produce o tende a produrre. E si pò- irebbe del pari ammettere che V
ordine di relazioni con- forme al principio economico sia considerato
come provvi- denziale o divino e si riversi su di esso il prestigio e
l'au- torità di sentimenti e di credenze religiose o metafìsiche. IL
.METODO dell'economia PURA XELl'eTICA. Anzi si può affermare a priori che
questa ulteriore giu- stificazione o valutazione, dato che si faccia,
sarà diversa per le diverse coscienze a seconda delle opinioni religiose
o filosofiche diverse sulla «latura e sul fondamento della
moralità. E tuttavia il valore morale della massima conforme
al motivo economico e delle norme che ne dei'ivano potrebbe, nella
disciplina precettiva supposta, essere legittimamente assunto come un
dato di fatto e trovare in questo la sua giustificazione immediata,
astrazion fatta dalla diversità delle ulteriori valutazioni.
E in questo caso si avvererebbero le seguenti condi- zioni 1.0
Rimane fuori di discussione il carattere scien- tifico della costruzione
e della disciplina precettiva che se ne ricava, il quale è dato dalla
validità logica delle con- clusioni, cioè dal rigore col quale sono
dedotte dal po- stulato. 2.° Rimane del pari fuori di discussione
la elettiva va- lidità inorale del postulato il quale è, per ipotesi,
ricono- sciuto universalmente conforme all'esigenza morale.
3.° Questa validità morale del postulato (e del sistema di norme
che ne dipende) sussiste così se il detto ricono- scimento sia concepito
indipendente, come se sia concepito dipendente da un' ulteriore
motivazione, e in questo caso, qualunque sia il fondamento ultimo di
questa valutazione ulteriore. E resterebbe perciò
distinto dal campo della costruzione deduttiva il campo delle indagini
intorno alla natura e al fondamento dell' esigenza morale, e intorno alle
condizioni soggettive della sua validità e della sua efficacia : ossia
il campo «Iella ricerca propriamente filosofica o metafisica
e quello della ricerca propriamente psicologica e, nelle sue
applicazioni, pedagogica. Ma, (,ui' avverandosi queste condizioni,
anzi appunto per il loro avverarsi, la costruzione scientifica in
discorso non potrebbe tuttavia sfuggii-e alle due limitazioni
seguenti : a) Non poti-ebbe dirsi la scienza della condotta
morale, ma la scienza della condotta richiesta da an ceì'to
motivo inorale (quello di cui si è ;H)stulata come un dato di
fatto la conformità all'esigenza morale). Perchè rimai'rebbe
sempre da risolvere la questione; se quel motivo esaurisca
tutto il contenuto dell'esigenza morale, o questa non
comprenda altri motivi irreducibili ìì (|uello ; e quindi se le
norme contemplino tutta la condotta morale nella sua
estensione e nella sua complessità o ne contemplino solo una
parte od un aspetto. h) Essa non esprimerebbe le norme
di una condotta attuabile sic et simpliciter in una forma reale
storicamente data di società; m:. di una condotta la cui piena
attuazione non è possibile se non nelle condizioni astrattamente
sup- poste ; cioè la condotta delT uomo morale ipotetico in una
società morale ipotetica. Oi'a il concetto che ho sostenuto e
sostengo intorno alla possibilità, al cai-attere e ai limiti della morale
come scienza coincide, nei suoi lineamenti formali, con quello che
risulta dall'ipotesi qui sopra abbozzata, lo penso che sia (1) Mi
permetto di riferirmi qui e nel seguito di questo articolo ad altri
scritti precedenti: Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafìsica.
Pavia, Bizzoai ; e Su la possibilità e i limiti della morale come
Scienza. Torino. Bocca fm'mmme'9mmm>é'>f A
s essenziale cosi all'esigenza pratica come all'esigenza
teo- rica (ìi una trattazione morale, il costiruii'si di una
scienza Etica, nella forma e con un procedimento analoghi a quelli
dell' economia pura (1); e colla })ieiia consapevolezza che la validità
normativa e la applicabilità della disciplina pre- cettiva che se ne
ricavi sono possibili alle condizioni e dentro i limiti che si sono oi-
ora accennati. Ma una costruzione etica analoga a quella dell'economia
pui'a presenta una difficoltà preliminare, che non si è su- perata, ma
soltanto lasciata in disparte, supponendo, corno si è fatto
arlificiosamente, riconosciuto valore morale al motivo economico.
CI) Se qualche critico osservasse che é fuor di proposito voler
traspor- tare neir Etica un metodo e un procedimento che neir economia
stessa é « oramai superato », o almeno r ripudiato, dalla scuola storica
in nome della realtà, e dalle varie tendenze moralistiche in nome delle
esigenze etiche, potrei accontentarmi di rispondere che dell'obbiezione
si dovrà tener conto quando i moralisti avranno fatto nel fondare una
trattazione scientifica deir Etica tanto cammino, quanto ne lece nel
campo dell'economia la Scuola Classica ; e che a mettere in canzone le
ipotesi e le « Robinsonate » degli economisti si cominciò dopo che le
ipotesi avevano già reso i più importanti servigi e perchè si era preteso
di scambiare senz' altro le astrazioni con la realtà. iMa si può anche
aggiungere che il metodo e il procedimento della scuola deduttiva, accompagnati
da una chiara coscienza delle condizioni e dei limiti della validità
delle loro conclusioni, sono i)iù vivi che mai nei cultori né pochi né
oscuri dell'economia pura; e che la scuola storica, se ha il merito di
cercare e mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle
categorie e delle pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i
quadri posti dalla Scuola deduttiva (cfr. Gide, Principes d' Ec. Poi.
Noi. Gen. V) e ne presuppone le leggi determinandone le deviazioni e le
limita- zioni nelle diverse (orme storiche. I.e scuole
moralistiche poi, in quanto si rivolgono a criticare e correggere i
concetti e i precetti dell'economia classica non ne negano il valore
scien- tifico nei limiti deiripotesi, ma ne negano il preteso valore
morale : negano cioè il carattere di giustizia e di inviolat)ilità
attril)UÌto arbitrariamente alle leo-i/i economiche. Ed é facile
avvertire che gli economisti di queste scuole (con qualunque nome si chiamino)
in realtà sono moralisti che cercano di 'il La
difficoltà l'iguai'da la scelta e la determinazione del postulato; il
quale deve soddisfai-e a due condizioni : Tuna comune all'etica e
all'economia, F altra esclusiva dell'etica. La condizione comune è
l'applicabilità universale del po- stulato come principici informatore di
tutta la condotta; la condizione propria dell'etica è che il motivo, di
cui si po- stula questa universale e incontrastata efficacia, abbia
va- lore morale. Ora, VI è un motivo, del quale si possa
legittimamente presumere che sia riconosciuto universalmente il
valore morale, e del quale sia insieme possibile Tapplicazione uni-
versale e simultanea a tutta quanta la condotta individuale e collettiva
? A questa domanda ho già cercato altrove di trovare una
l'isposta; esaminando prima in che consista l'esigenza caratteristica di
una norma morale ; e poi se vi sia e quale volgere a uno scopo
pratico (nella scelta del quale sono guidati da un criterio etico) delle
conoscenze fornite dalle dottrine e dalle indagini economiche : e la
forma-limite di questa tendenza é una intera ricostruzione su basi etiche
dei rapporti eeonomici. Fanno dunque quello che da un pezzo avrebbero
dovuto fare i moralisti; cioè sentono la necessità di considerare l'esigenza
etica estesa alla stessa struttura, non soltanto politica, ma anche
economica della società. Ma ciò che più ini])orta di
osservare a questo proposito é che una cri- tica radicale — da un punto
di vista etico — della realtà dei rapporti eco- nomici porterebbe, a
guardar bene, a rimproverare all'economia pura non un eccesso ma un
difetto di astrazione. E il difetto di astrazione si rivela in ciò: che
mentre l'economia pura si propone di studiare l'azione isolata del motivo
economico, e perciò suppone ridotta l'azione dello Stato ada tu- tela
dell'uguale libertà per tutti, assume nello stesso tempo — come condi-
zioni di uguale libertà ~ certe condizioni (p. es. la proprietà fondiaria,
il capitalismo e il salariato) che limitano o alterano T universalità o
l'eflicacia del motivo. Cioè o considera, per questo rispetto
arbitrariamente, come ca- tegorie necessarie^deWe categorie 5ioric/ie, o
considera, pure arbitrariamente, come eonforrni all'ipotesi delle
condizioni disformi. poss.'i essere il fine che abbia il
carattei'e <ìi uiìivei'sale e pi'einiiif'iite desiderabilità richiesto
a «^nustificai'e il valore normativo del motivo corrispondente. La
conclusione di questa analisi era la seguente^ : La desidei'al)ilità di
un ordine di effetti, che si as- suma come fine non viene tanto dalla
desiderabilità che gli si l'iconosca come bene, cioè come oggetto diretto
e immediato di godimento, quanto dalla desidei-abilità degli
effetti, lei (juali esso apjiarisca la condizione necessaria. E perciò,
inenti-e è vano andar cercando quale sia il fine ultimo, il quale non si
trov.a mai, o si risolve in una pura espressione verbale, il fine che può
valei'e come su premo si deve cercai'e non nelT uno o nell'altro de:
fini a cui si riconosca valore per sé, ma in un ordiiM^ di effetti,
in un sistema di condizioni, dato che sia assegna- bih*, nel quale si
possa l'iconoscere questo carattere ap- [)unt() di condizione necessaria
non di alcuni, ma di tutti quei beni, ai quali si attril)uisce valore per
se. E quimii il fine che può avei'e universalmente una
desiderabilità superioi'e a ogni altro, non juiò consistere se non
m un ordine genei'ale e, si potrebbe dire, preliminare di
condizioni, la cui attuazione apparisca necessaria perchè sia possiì)ile
universalmente la ricerca ulteriore <li ([uei beni. Non può essei'e
cioè supremo nel senso di una gerar- chia, della quale segni il culmine,
nò nel senso di una grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel
senso (iella precedenza necessaria o della indispensabilità; per la
(juale venga a l'accogliersi su di esso come in un unico foco la luce e
il calore di desidei-abilità che irraggia dai fini ai quali apre
universalmente la via. E perciò, ammesso che qualsivoglia fìne
lancino abbia, come ha in l'ealtà, per condizione la convivenza e la
coo- perazione sociale, il fine che può avere questo valore
di precedenza necessaria sugli altri deve essere di necessità il raggiungimento
o il mantenimento di certe condizioni di convivenza e di cooperazione
sociale, cioè di una qualche forma di società. Ma perchè a.] una forma di
società possa essere riconosciuto questo carattere universalmente,
occorre che le condizioni della sua esistenza abbiano per tutti un
valore potenzialmente uguale; ossia che nessuno dei fini dei quali quella
forma di cooperazione pone la possibilità e dai quali attinge il suo
valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa forma, precluso o
impedito a nessuno dei componenti la società. in altri termini che tutti
i .socn trovino nelle condizioni di esistenza della società la
mede- sima equivalente possibilità esteriore d\ rivolgere la loro
attività alla ricerca di qualsivoglia dei fini, dei quali la convivenza e
cooperazione sociale è condizione — (Su la possibilità ecc. L Gap. VII,
8). Ora se si riconosce come esigenza della giustizia, questa
esigenza alla quale deve soddisfare una forma sociale perchè abbia
universalmente valore di fine prossimamente supremo, determinare questo
fine equivale a determinare un tipo di società nel quale siano attuate le
condizioni richieste d^lla giustizia cosi intesa, ossia un tipo ideale -
conforme a questa esigenza - di homo iustus e di socielas insta. E ciò
equivale a cercare quale sistema di relazioni risulterebbe
effettuato neU: ipotesi che gli uomini, sia come collettività sia
in- dividualmente, ossia in qualunque forma di azione o di
in/Iuenza che si eserciti cosi dalla società come da ciascuno dei singoli,
subordinassero universabne^ite e costantemente qualsiasi altro motivo o
desiderio al de- siderio della giustizia. E se supponiamo che
con un procedimento analogo a quello tenuto dall'ecoiioinia pura (1) il
.sistema Hi l'elazioni che iji avverei'ebbe nell'ipotesi, fosse già
detet-niinato, noi avremmo una Scienza pura della Giustizia, una «
Diceo- logia » piD'a, alla quale sarebbei-o totalmente applicabili
le considerazioni circa i cai'atteri e le limitazioni che pi'esenta una
costi'uzione siffatta. Ili, Posto, adunque, che fosse
costruita (questa Scienza pura della giustizia, si poti'ebbero muovere ad
essa, fondandole sulle limitazioni notate, tre obbiezioni capitali : di
essere una costruzione aì'bitraria, oziosa, e, in ogni cas(ì,
monca. Di queste obbiezioni occoi're chiaiMre la portata.
1. — L'aid)itrarietà della costruzione supposta pU(') es- sei'e
intesa in due sensi : nel senso che la validità delle norme che se ne
ricavano è relativa alla validità del postu- lato, il cui valore è bensì
assunto come un dato di fatto, ma senza una ragione perentoria che
obblighi ad accettarlo; oppure nel senso che è difjbrrne dalla realtà e
insussistente r ipotesi di una condotta subordinata universalmente e
co- stantemente all'esigenza della giustizia. a) Se si
intende 1' arbitrarietà nel primo senso, qua- lunque dottrina etica è
aidjitraria ; perchè il valore del postulato fondamentale (ossia del
motivo, o del tine, o del (1) L'economia dà al postulato edonistico
un contenuto materiale deter- minato considerando come « soddisfazioni »
le soddisfazioni di certi biso<'-ni. e come « sacrifìci » certe
privazioni e certe pene; mentre al postulato della giustizia il contenuto
materiale, al quale se ne deve fare l'applicazione, é dato (la tutte le
specie d'attivuà o da tutte le categorie di fini (esclusi sol- tanto
quelli la cui ricerca o proseguimento importano la negazione del prin-
cipio regolatort^ supposto) che in una società data sono possibili.
ili criterio di valutazione) quale si sia, è sempre
ammesso assunto, ossia si suppone o si ammette che sia ricono-
scinto come tale; e nessuna dottrina etica può compiere il miracolo di
obbligare a.l accettarlo. Perchè, la ragione pe- rentoria - se è una
ragione, - non può consistei-e che nel ricondurre il valore del postulato
a quello di un altro fine o di un'altra esigenza ulteriore, della quale
si ammette o SI suppone ancora che la validità sia riconosciuta. E se
si dice che è prop.-io del fine o dell'esigenza morale il pre-
sentarsi alla coscienza come un valore che non si può di- sconoscere, si
auìmette che questo carattere è già dato nel fatto stesso che l'esigenza
è i-iconosciuta come morale; anzi che il motivo vale assolutamente,
appunto perchè vale come morale; il che vuol dire che impone il proprio
va- lore solamente in quanto la coscienza lo accetta, e che è
sempre in ultima analisi il valore morale dell'esigenza che é preso come
un dato primo o come un postulato. Se si intende dunque in questo senso,
qualsivoglia dottrina etica è, perchè etica, arbitraria. Se
poi si pone come caratteristica del valore morale la possibile validità
universale della 7nassima corrispondente, nessuna esigenza è piti
radicalmente universale di quella che esprime la condizione stessa di
questa possibilità. h) Che all'esigenza assunta sia o no
riconosciuto in effetto valore morale, ossia che il postulato
corrisponda o non corrisponda e più o meno adeguatamente a un dato
della realtà psicologica rivelato dall'analisi della coscienza moi-ale, è
una questione diversa. E se l'arbitrarietà s'in- tende in questo secondo
senso, come difetto totale o par- ziale di questa corrispondenza, essa
consiste, nel caso nostro, non nel considerare come morale l'esigenza
della giustizia, ma neir assumere questo motivo come il motivo
morale. fi JH^ffriaililf».W'.ifc^ 4
14 menti'e la realtà empirica ne pi*esenta anche
altri ; e nel considerai'lo isolato da questi, mentre nella realtà
sono più o meno strettamente connessi e coopei'anti o contra-
stanti con q ìlei lo. Non ho nessuna ditlicoltà a riconoscere che
la costru- zione supposta è, anche per questo ris[)etto, arbitraria ;
al modo stesso che è sempre pili o meno arhiti'ario qualunque
sistema di deduzioni ricavate da un' ipotesi. Ma un' arbi- trarietà di
questo genere non implica nessuna fallacia finché non si pretende che
essa espi'ima la i*ealtà del mondo mt)- l'ale dato ; e la costruzione si
dà per quel che è, cioè per una scienza che sai-ebbe la « vei'a scienza »
della morale com' è , se le condizioni dell' ipotesi rispecchiassero
la realtà — Intendo quel che si può dire: — Perchè supporre che il
motivo egemonico sia la giustizia, e non un alti'(\ poniamo il motivo
altruistico? 0, meglio, perchè non as- sumere come motivi morali, o
l'ispondenti all'esigenza mo- rale, tutti i motivi che la realtà
psicologica l'ivela valere in effetto come tali? La l'isposta all'una e
all'altra domanda non è diffìcile. L'assumere come
rispondenti all'esigenza morale i cri- tei'i molte[)lici che si i-ivelano
nelle norme empiricamente date come morali costi'ingerebbe in ultimo ad
assumere l'esigenza stessa moi'ale come in sé contraddittoria e a
co- sti'uire non una scienza, ma una veste da Arlecchino. Perchè la
morale empii'icamente data rivela criteri non di rado opposti, e del
medesimo ci'iterio le applicazioni più artifi- ciose e vai-iabili (1).
Ora, che l'esigenza morale possa U) Tralasciando pure di insistere,
come lio già osservato altrove, perchè è cosa troppo nota, sull'antitesi
fondamentale esistente tra le norme di con- dotta che valgono come morali
rispettivamente nelle condizioni di pace e di guerra, e sui contrasti,
tragici talvolta, tra i « doveri » famigliari e i « do-
co„,poru,.e criter, ,ì,ver.i e anche opposti ,fi val,„az,one senza
cessare di essere morale, s, potrà aocl.e ammettere (purché s, s.a
disposti ad accettarne le conseguenze;; ma che si possa, assumendo
criteri contraddittori!, costruire una <iotti'ina coerente, non si può
sostenere. Bisogna dunque scegliere; e la scelta ,iel motivo
della giustizia, se è arbitraria hi quanto e seella ,U uno fra più
"on e arbitraria in guanto mandnno le ragioni della scelt.. Poiché è
facile rilevare che il motivo delia giustizia e 'I solo al quale si possa
supporre che risponda in effetto universalmente e costantemente tutta la
condotta senza che l osservanza da parte degli uni richieda o
presup. ponga l inosservanza da parte degli altri. L'altruismo come
fu già notato, non potrebbe essere oss.Tvato univer' salmente, se non a
patto che fosse subordinato alla sua voka a mia norma di giustizia.
Infatti, affinché sia possibile I abnegazione e la rinuncia
incondizionata di sé agli altri, veri ,, sociali, bisogna osservare
che le „or,„e date e accettate come morali o.o,.o contemplare e
contemplano realn.ente, almeno ,„ parte, de„e rela- wL ; T '
,•'" "^i" "> S-iadi relazioni pr.ma,,e e
fondan.entah, che le „orn,e non contemplano e che sono la ne- gazione del
crueno applicato in qne.le norme. Mi sia lecito spiegarmi e „
ruiieTau: r"'T, '"^' t"'- '- ^ ^ I iano i In
""'. '^ cercare ,,uale a qu le concila la minima fatica
del primo col minimo disagio del secondo crueno seguito qu, é un criterio
d, equità; si riconosce ciocche non sa- omodi;e tutte le
comodità per se senza tenere in conto le comodità dell'altro. .Ma se
questo crueno (seguito nello stabilire la condotta migliore, Jata ,,uella
conLol <i.ve,.a de, due, fosse applicato a determinare la rela.one
t,-a i due p,Jl Z^JT'"P~« e portato, questa .:J^::Z TorT
"T"" '»™"'--'>^^ colle p,.opr,e gambe. Ossia la
norma nor. le regola nel caso supposto un rapporto che non
esis,e,.ebbe, o sai-ebbe tutto d,verso, se essa fosse applicata al
sorgere di quel .-apporto NH itì'i^tli^ì-.
Hif ^••s«ì»?T<P7** Ifi bisogna chf^
gli nni si .saci'ifichii)0 e gli altri o qualche alti-o accattino il
sacnfi/io ; cioè bisogna che gli uni os^or- vino la massima
(lell'altruismo, e gli altri o qualche altro quella dell'egoismo. Se poi
si ammette che nessuno debba poter saci'ifìcarsi più di un altro
qualsiasi (lasciando di osservare che in tal caso praticamente i
sacrifici si eli<le- rebber.)) fiisogna che la condottta altruistica
di ciascuno non impedisca una pari condotta altruistica degli altri
; cioè bisogna che fattività altruistica alla sua \olta sia
governata da una norma di giustizia. Ciò viene a dire che la famosa
formula Kantiana, se si considera nella possibilità della sua
applicazione simultanea per tutti a tutta la coìidotia e.sterna non è
suscettiva d'altra inter[)retazi()ne che di massima univeisale di
giustizia nel senso sopra chiarito (1). (1) In un Saggio
originale e sucrgestivo, che vale bene più di qualche grosso volume
inconcludente, Mario Calderoni illustrò recentemente una concezione economica
della morale (che non tocca in nulla, benché a prima vista sembri
antitetica, il concetto qui esposto) nella quale egli osserva giu-
stamente come la maggior parte delle azioni « virtuose » non siano
considerate come tali se non perchè «sono prodotte in quantità inferiore
alla domanda»; e son per noi un « dovere » appunto perché gli altri
uomini non le lanno,' e rimangono tali a condizione che non siano troppi
gli uomini capaci e vo- lonterosi di imitarle. E trae da questa
considerazione la conseguenza che la formula di Kant è del tutto
inapplicabile. Ora è certo che il Kant intendeva di parlare di
validità universale del motivo a cui si informa Ta/ione. che può essere
quindi variabile secondo le circostanze, pur rimanendo il medesimo il
motivo che la detta; e che non può richiedere uniformità di condotta
esterna se non nel caso che si tratti della medesima attività esercitata
nelle medesime condizioni esterne. Ma (juando m supponga avverato
questo caso, si troverà che T unico mo- tivo, il quale comporti
uniformità universale di condotta è il motivo della giustizia; e che
intesa così, la formula di Kant resisterebbe alla critica anche dal punto
di vista del Calderoni. {Disarmonie Economiche e Disar- monie morali -
Firenze, Lumachi. 1906. V.» Cap. Ili: La marginalità nella Morale).
Assumetelo dunque, se cosi vi piace, codesto vostro postulato, e
costru.tevi la vostra . Scenza pura della giustizia ». Cile ne farete
poi? — A che c<,sa propriamente potrebbe servire costruita
elle fosse, non si può con esattezza determinare ,n prece- 'lenza. Si
potrà vedere, nel caso, quando sia fatta o pi ut- "«to, a mano a
mano elle si venga facendo. Troppe ricerche . el resto non si farebbero
se si aspettasse di averne diino- strato 1 utilità; e ,li troppe altre ,
risultati portarono frutti <lel tutto remoti da ogni previsione. E
dato pure che riu- scisse inconcludente, nessuno tiirà che «ia „é la
prima „ó u'iica ,n questo genere, specialmente nel campo della
morale. E t,.a le molte curiosità, perchè non dovrebbe trovar posto anche
questa : ,ii sapere come andrebbero le faccende di questo mondo se gli
uomini si decidessero ad essere tutti e sempre e in ogni contingenza
della vita so- liratutto e prima di tutto giusti? M.-i è pur
naturale d'altra parte che debba intravederne almeno qualche possibilità
,li applicazione eh, la propone e che ne debba dire qualche cosa.
Le applicazioni possono essere principalmente due: come mezzo di
interpretazione o di sistemazione scientifica della realta morale ,lata;
e come fondamento di una disciplina precettiva, ossia di un'Etica
applicata della giustizia. Se l’osservazione psicologica dimostra che è
arbi- traria, nel senso che s'è detto, l'assunzione del motivo
della giustizia come unico motivo morale, dimostra pure <die
quel valore gli è però realmente riconosciuto: e che se non ., riconduce
ad esso effettivamente ogni valutazione ^nica, esso entra però come
elemento o fattore di valuta- zione in qualunque giudizio morale. Può
essere dunque opportuno, a uno scopo di sistemazione coerente delle
norme effettivamente vigenti, conoscere quali sarebbero se questa
esigenza operasse isolatamente, cioè se tutte si ispirassero unicamente
ad essa; e considerai-e, con un artifizio di cui tutte le scienze offrono
innumerevoli esempi, come devia- zioni limitazioni risultanti dalla
presenza di alti'i motivi, le norme che non coincidono con quelle
astrattamente dedotce. Sarebbero, per un vei'so, da
considerare come tali le norme della condotta politica interna ed esterna
ispii-ate dall'interesse dello Stato, o del maggioi- numero, o di
una classe, in quanto al rispetto di queste esigenze sia
atti-ibuito valoi'e morale. E sarebbe, pei- un altro vei'so, possibile
interpi'etare le norme della beneficenza come espressioni della stessa
esi- genza della giustizia, in quanto si considerano rivolte a
sanare o a lenire gli effetti che ne accompagnano 1' inos- sei'vanza, e
le deviazioni o le limitazioni. h) Ma l'applicazione più rilevante
riguarderebbe l'Etica propriamente intesa come disciplina
normativa. La < scienza pui'a della Giustizia » appunto
perchè considera già raggiunte e attuate tutte le condizioni
richieste dalla esigenza che essa postula, ossia, in termini
equivalenti, fa astrazione da ogni circostanza interna od esterna
che ne impedisca o ne limiti 1' efìTicacia, configura un sistema di
relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè formula fi) Sarebbe
possibile per questa via togliere — dico nella trattazione teo- rica —
certe contraddizioni o antinomie davanti alle quali si arrestano
solitamente i filosofi del diritto quando ne determinano le « esigenze razionali
». •delle leggi, le quali possono
valere come tali soltanto nelle condizioni contemplate dall' ipotesi ,-
vale a Hn^e non sono suscettive ,li applicazione, sic et simpliciler, a
condizioni iliverse. Ma se si ammette che T onime di relazioni
ipote- ticamente costruito abbia valore di fine, cioè se si ammette
come normativa l'esigenza della giustizia, vi sarà luo-^o a cercare e a
.leterminare (bencbè questa determinazlne debba riuscire, come è facile
prevedere, assai difficile e complicata) quale sia in condizioni reali
storicamente date la condotta, die nei limiti imposti da queste, è ini,
atta a favorirne la trasformazione nella direzione segnala dalle
condizioni ideali contemplate nell'ipotesi. Ossia si potrà
ricavarne un'Etica applicata della Giu- stizia, alla quale la realtà
storica fornirà la conoscenza delle condizioni tra le quali si deve
spiegare e dei mezzi ai quali deve ad.-guarsi, per essere praticamente
efficace la condotta rivolta a quel fi ne ; cosi come darà la
conoscenza 'Ielle varie specie di attività che l'esigenza .iella
giustizia e chiamata a regolare; cioè darà, volta a volta, alla
forma <lella giustizia il contenuto materiale. E le norme,
cosi ricavate da questa applicazione a una realtà data delle leggi .Idia
Giustizia pura, saranno valide, se SI accetta come fine morale
prossimamente supremo, cioè precedente a ogni altro fine generale e
speciale, l'attuazione del sistema di relazioni contemplato da quella, e
come mo- rale la condotta corrispomlente. Cosi questa Etica
applicata, come la Scienza Pura dalla quale essa si ricava, è
indipendente da qualsiasi dot- trina metafisica, ma non pretende di
sostituirla. Ignora i problemi metafìsici ; ma nel senso che non no
richiede e non ne assume una certa soluzione piuttosto che
un'alti*a; non nel senso che ne neghi l'esistenza o ne escluda la
trat- tazione. Ilimane di fronte ad ossa iinpi'ogiudicata, e da essa
distinta, ogni questione sulla natura e sul fondamento ukinìo
delTesigenza stessa morale; così come rimane impi'egiudicato il pi'oblema
pratico, o pi'opriamente psicologico e pedagogico, intorno al valoi-e e
all' efficacia delle credenze religiose o metafìsiche come condizioni o
fattori sof^^-jcttivi dolla moralità. Ma, ciò nonostante, o forse
appunto pei'ciò, è verisimile che sia giudicata, specialmente alla
stregua delle tendenze più apei'tamente dominanti nel p(insiei*o
contcmpoi'aneo, doppiamente monca ; monca considerata come dotti'ina
; monca considerata rispetto alla efficacia pratica. a)
Cei'tamente può parere strana se non ingenua Tnlea di segnai'e una
divisione di competetjza tra T indagine scien- tifìca e rin(iagine
proprianifMite filosofìca e metafìsica, men- ti'e pai'e di assistere a
una specie di «atto di coiitrizion<' » delle stesse scienze speciali
già formate ; le quali, dopo es- sersi staccate e aver pi'oclamato la
loro indipendenza dalla filosofìa, sentono il bisogno di ritornare ad
essa e di rin- tracciare in lei le origini della loi'o vita e la ragione
del loro valore. Tuttavia una considerazione un po' più attenta può
mosti-are die il contrasto è soltanto a})parente e che la tendenza delle
scienze speciali all' inter|)retazione e alla integrazione filosofìca dei
loro presupposti e dei loro risultati non esclude, ma piuttosto include,
la legittimità di una di- stinzione anche nel campo delia morale. Perche
essa })re- suppone appunto che le scienze abbiano i ÌOt'O postulati
, i loro metodi i Ioì'O risultati, e che i sistemi speciali di
dottrine cosi edifìcati sussistano ed abbiano una validità propria, sia
pure limitata e provvisoria, all'infuori dell'interpretazione e della
valutazione che ne debba o ne possa fare la metafìsica. In questa specie
di Conferenza perma- nente dell' Aia (sia detto senza intenzioni maligne)
che è la mutua collaborazione delle diverse discipline alla critica
e alla integrazione del sapere e del valere umano, sono gli Stati che
hanno territorio e giurisdizione propria che possono far sentire la loro
voce. I delegati della Corea sono esclusi. Intendo quello che
si può dire: - La morale è essa stessa la metafisica, e pone essa le
esigenze alle quali è subordinata la valutazione di tutte le altre
discipline dei loro principii e delle loro conclusioni. - Fosse pure, o,
piut- tosto, dovesse pure essere cosi. Quali sono queste esigenze
della morale ? Come si determinano ? Qual' è, fra i molti sistemi diversi
opposti e anche contraddittorii, quello auto- rizzato a rappresentare «
la morale *, e a far valere le sue esigenze come esigenze ideila morale
*ì E se si può distinguere una esigenza immediala e caratteristica,
dato che SI trovi, della valutazione morale, dalle esigenze ulte-
non, argomentale o poste da questo o da quel sistema per interpretarla o
giustificarla, allora è nello stesso tempo data la distinzione tra
esigenza propriamente morale ed esigenze avanzate ,ia una interpretazione
o integrazione metafìsica della esigenza morale; e si delinea insieme una
separazione legittima tra V indagine che cerca di risalire
dall'esigenza morale ai postulati metafisici, e l'indagine che ricava
dal- l'esigenza morale le applicazioni che logicamente ne discen-
dono. - Ma, nella realtà viva e vissuta della coscienza,
valutazione morale e valutazione metafisica formano un tutto unico; e
separando l'esigenza etica dalla fede me- tafisica colla quale è fusa e
della quale si alimenta, s, è spezza r unità
della coscienza , si oscura o si cancella il signitìcato e il valore
interiore della moralità, e si pre- senta come vita morale lo scheletro
o, meglio, lo stampo esterno e quasi l'impronta fossile dell'atto morale.
— Sarà verissimo; ma nessuna costi-uzione dotti-inaU può
sfuggire a questa obbiezione. Tutto ciò che la logica tocca e che è fatto
oggetto di conoscenza riflessa e i-agionata diventa perciò stesso un
tipo, uno stampo, un fossile; anzi stampo è la parola, stampo ò la stessa
rappresentazione artistica se non è vivificata e i-isvegliata da chi la
deve intendere e gustare; anzi sono diventate ormai stereotipe, per
colmo di evidenza probativa, perfino le fi*asi e le immagini usate
a mostrare la « i-icchezza e la varietà inesauribile» della coscienza e
delle sue ci'eazioni. E quanto al sepai«are nella teoria ciò che
nella realtà è unito, bisogna pur rassegnarvisi. Pei'chè ogni nctM'ca
è prima di tutto distinzione, sepai-azione, asti'azione; il fatto
stesso, ogni fatto (diceva già un chimico, il Chevreul,) è un'
astrazione. Ciò che importa veramente è di non dimen- ticare che
l'astrazione non è tutta la realtà. Ora, sceverando dal complesso
degli elementi, onde la vita etica nella coscienza personale iMsiilta o
può risultare, quello che è suscettivo della più universale applicazione,
e costruendo il tipo di vita che ne risulterebbe, non si pre- tende
di esaurire il contenuto della coscienza, ma soltanto di distinguere le
norme di condotta a giustificare le quali basta uu certo postulato, dalle
norme e dalle forme di vita morale che si fondano sopra altre esigenze
ossia l'ichie- dono altri postulati. E chi crede che la
chiarezza dei concetti e il l'igoi-e del procedimento si debbano
poi'iare, fin dove è possibile, anche nella speculazione etica, ammettei-à
che può essei-e que- utile allo scopo, se
non anche necessario, il seguir( sta via (].). — Rimangono
altri problemi. - E chi lo nega? Ma prima condizione per cercar di
risolverli con frutto è di non confonderli tra di loro. h) E
nasce da una confusione di problemi diversi l'obbiezione, che si potrebbe
dire pragmatistica, del difetto di efficacia pratica, o più esattamente
parenetica o pedago- gica, di una dottrina morale che faccia astrazione
da ogni valutazione metafìsica, e presenti un sistema di norme che
ha di necessità soltanto un valore ipotetico, cioè, nel caso nostro,
condizionato al valore che può avere nella co- scienza il motivo
impersonale della giustizia. (lì Le espressioni di più d' un
antiintellettualista indurrebbero 4uasi ad ammettere che la morale sia
una specie di grande imbroglio, nel quale a voler vederci chiaro, si
finisce per non credere più. Ora, altro è riconoscere Cile ogni
valutazione é in ultimo data alla intelligenza e non dalla intelli-
genza, e che nessuna conoscenza e nessun ragionamento può far volere un
fine che non sia già voluto, o per sé, o come condizione a un altro fine-
altro è credere ed aOermare che T intelligenza o la ragione sia « in
contrasto » colla moralità. Come potrebbe essere ? Non
certamente in quanto si rivolge a determinare 1 mezzi necessari e
convenienti a un fine. Nel qual caso non è nemica, ma ancella della
volontà in generale, e, se la volontà é « buona ». della volontà morale.
Non potrebbe essere, dunque, se non in quanto toglie o muta la va-
lutazione del fine (cioè delP oggetto o contenuto materiale del motivo
mo- rale) mostrandone \^ connessione, prima ignorata o trascurata, con
qualche cosa d' altro, che sia oggetto di una valutazione diversa;
diciamo, per co- modità, negativa o repulsiva. E allora, poiché la
valutazione di questo qualcosa d'altro non può venire dall' intelligenza
(la quale, come si sa. chia- risce rapporti, non dà valori),
manifestamente non si possono dare che due casi : ha origine
nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà fatto che mettere in
chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto conforme, sia in
realtà più o meno disforme in forza della connessione notata. Ma ciò non
Poiché è uggioso a se e agli
alti-i l'ipetere cose già dette, e su questo punto ho insistito a lungo
altrove, mi restringo qui a riafTermare la legittimità, anzi la
necessità logica e la convenienza morale, di tenei- separata netta-
mente ogni ricerca che si volge a detei-minare quali siano le norme di
condotta richieste da un certo fine, dalla ri- cerca delle condizioni e
dei fattori dai quali dipende o può dipendere Fosservanza delle norme. La
legittimità delle deduzioni, dato che ci sia, e la validità dei precetti
rispetto al fine sussistono indipendentemente dalla presenza o
dalla assenza dei motivi che ne persuadono o ne impongono l'os-
servanza, e dalla natura di questi motivi. Come il conte- nuto e la
giustificazione delle prescrizioni d'un medico non dipendono dalla
disohbedienza o dall' obbedienza dell' ammalato nò dalle ragioni di questa
obbedienza. tocca in nulla il valore e l'efficacia del motivo
morale. Ammettere il contra- rio sarebbe come dire che cessa di amare la
giustizia chi cessa di difendere una causa che ha riconosciuto
ingiusta. ha origine in un motivo non morale (poniamo in un
interesse egoistico); e anche qui l' intelligenza non farebbe che
rivelare una condizione di fatto : la presenza e Tefficacia di motivi non
morali nella valutazione dei fini e :lella condotta. La conoscenza dunque,
anche in questo caso, non altera il valore del motivo morale; può
eventualmente mostrare che il valore e T efficacia sua non è esclusiva, o
incontrastata come si supj)oneva. Ma correggere un errore di giudizio non
é cambiare uno stato di fatto. Potrebbe dunque, tutt' al più,
togliere un' illusione. Ma è nell' illudersi d'esser morali che consiste
la moralità? (1) Questo conformarsi o non conformarsi si suole a
torto, per abuso di linguaggio, attribuire a una pretesa « efiicacia
pratica » delle norme; men- tre le norme - perse - hanno, a promuovere
l'azione corrispondente, una efficacia non maggiore di quella che abbiano
i fanali di una strada a muo- vere le gambe dei nottambuli. E un simile
abuso di linguaggio, che nasce da un difetto d'analisi, ha alimentato la
confusione tra esigenza giustifica- tiva e esigenza esecutiva, tra
l'obbligo e la giustificazione dell'obbligo, e la pretesa illusoria che
una norma possa o debba avere in sé forza obbligativa. Cfr. Prolegomeni
ecc. , e. I: (L'esigenza esecutiva) ; e Studi su la possibilità I, Gap.
III. (La pregiudiziale dell'imperativo categorico). La reale
presenza ed efficacia di motivi «ufficienii a determinare T osservanza è
in ogni caso si>,pposta , non . posla da qualnnque costi-uzione
precettiva; e il «„ppori-e operativo d motivo della giustizia non
esclude, ma piut- i tosto include, una ulteriore valutazione del motivo
stesso ' ogniqualvolta nella realtà esso derivi in tutto o in parte
la sua forza da questa sopravalutazioiie. Ma anche in questo caso
non bisogna dimenticare che una tale efficacia .sarebbe sempre essa
stessa posMata come un dato di fatto, non comunicata o la,-g,la da
una fon.ìazione qualsivoglia. Perchè anche una fondazione re-
ligiosa o metafisica non pone essa le credenze, ma le sup. pone già
viventi e .operanti. Il suo valore come motiva- zione morale dipende dal
valore reale che esse hanno nella coscienza, dalla loro forza operativa.
Essa fa appello a questa forza, ma non dà, essa, la forza; ossia vale ,,el-
i ipolesi che valga in effetto nella coscienza la fede nei dati assunti
da lei. E se questa fede mancasse, una fon- <iaz,one metafisica o
religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla condotta una efficacia non
diversa né maggiore di qualsi- voglia costruzione arbitraria.
Senonchè si potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare che SI
,ie^e appunto volere quella fede dalla quale si può aspettarsi
l'incremento del motivo morale, e che, poiché SI tratta di « optare»,
conviene dal punto di vista' pratico optare per una fede moralizzatrice.
E compito del moralista «ara perciò di affermare e suggerire quella fede
come presidio e cnforro, utile se non necessario, della moia- l'tà,
e presentare la dottrina morale connessa e incorpo- rata con quella
fede. Su un discorso di questo genere ci sarebbero da .lire
molte' cose; notiamone poche. E prima di tulio convien pur ripetere
che un tal compilo. t^ 1 fc m (lato che spetti al
inoi-alista, ^Hi spetta in quanto è o pre- tende (li essere educatore o
apostolo, non in quanto si propone di cercare quali concernenze
ini[)liclii V accetta- zione di un cei-t() postulato e si contenti di
atierniare che chi accetta il postulato deve accettai-e le hoimikì che
ne discendoiHi. I due uffici non si identificano ; chi ha slo//(i
di ricercatore può non avere stoft";i di a[)()stolo o di avvo- cato
; e potrehhe in og"ni caso invocare aiiche qui il prin- cipio delhi
divisione del lavoro. Ma dal [)unto di vista stesso pedagogico la
tesi è tut- t' altro che incontestahile. Suggerire e infondere una
fede! E presto detto. Ma in che modo o per (jual via? Partendo
dall'esigenza pratica per arrivare alla credenza, cioè pre- sentando la
fede a[)punto come sostegno e guarentigia della ni orai ita ?
Lasciamo pui'e di indagare se con ciò non si nega in effetto, neir
atto stesso che si afferma, il valore assoluto dei postulati religiosi o
metatisici, dal inoinetito che essi sono affermati o posti come
condizioni o fattori nella pro- <luzione di certi effetti, cioè sono
valutati utilitariamente; e se non si offende il sentimento religioso,
considerandolo unicamente come un motivo sussidiano invocato a sup-
plii'e alla fiacchezza del uiotivo morale. Un pragmatist.a conseguente potrehhe
non avere (ii «juesti scru[)oli. Ma lo scopo stesso a cui mira il
pragmatista vieti meno in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò
che si vuol produire; ossia si pone a sostegno del motivo morale un
sentimento che vien fondato sopra esso, e vale in forza di esso. Con un
risultato non dissimile da quello che hanno di solito le discussioni ;
dove le rai'ioni usate a sostenei'e un'opinione persuadono soltanto chi è
già persuaso; cioè hanno in effetto tanto maggior [)eso quanto più è
superfluo servirsene. Se si tiene invece una via diversa, e si
intende di edi- ficare la credenza su una educazione propriamente
dog- matico-religiosa, dov'è più la ^ opzione^, la affermazione
libera e spontanea della coscienza? E come può il moralista
educatore presentare o im- porre come unica e definitiva una iede, o una
credenza religiosa o filosotìca^che egli sappia essere personale e «
vo- lontaria » ? La vei-ità è che mentre nel valore morale
(posto che sia riconosciuto) del postulato che si assume a fonda-
mento della costruzione scientifica, è necessariamente im- plicito il
valore morale delle norme che ne esprimono l'applicazione, non è
necessariamente implicita l'accetta- zione di certi piuttosto che di
cert' altri postulati metafi- sici. Mentre, accettato un postulato di cui
sia possibile r applicazione alla condotta umana, la coerenza logica
basta a dare la legittimità delle norme che se ne deducono, la
coerenza logica n07i basta a porre come necessariamente richiesta da quel
postulato una determinata fede religiosa filosofica ad esclusione di
qualsiasi altra. La salita al cielo dei postulati metafisici non si fa
colle scale della lo- gica. (Il che, come tutti sanno, ha il suo
riscontro nel fatto che possono trovarsi concordi nelT accettare e nell'
osser- vare la medesima esigenza morale uomini di opinioni i-e-
ligiose e filosofiche diverse; come, inversamente, può la stessa fede
religiosa e filosofica presentarsi, nella realtà storica e psicologica,
connessa con norme morali discordanti). E la « libertà dì coscienza >
sarebbe una frase vuota di senso o piena di immoralità^ se il voler la
giustizia e Tesser giusti richiedesse o l'esclusione di ogni fede o
l'accettazione della medesima fede. ài ^ fondata dal
Prof. Sen. C; Rivista Filosofica VRLO Cantoni. JUVflliTfl
La Possibilità l I e i Limiti MORALE
STUDI TORINO. BOCCA. In questo volume sono
raccolti tre scritti pubblicati in più riprese nella Rivista Filosofica
diretta dal mio in¬ dimenticabile maestro ed amico Carlo Cantoni, al
quale il profondo e tenace convincimento delle proprie dottrine non
tolse mai di rispettare e stimare sopra tutto, anche nei di¬ scepoli, la
lil>ertà e la sincerità. Benché diversi di titolo, i tre studi
che ora ripubblico riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del
me¬ desimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, cia¬ scuno
dei successivi, i precedenti. Anzi il primo dì essi è, alla sufi*
volta, continuazione di un altro pubblicato anteriormente col, titàlol «
Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafisica » ; nel quale è esaminato
il problema della possibilità di un’ Etica normativa indipendente da
qualsivoglia soluzione, positiva o negativa, dei problemi di natura
metafisica. E perciò spero di essere scusato se mi riferisco qualche
volta anche ad esso ; e se in in questo volume sono lasciate in disparte,
o trattate con brevità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune questioni
delle quali s’è già discorso in quello. Anche to' importa di
avvertire, sempre a proposito dello Studio « La Dottrina delle Due Etiche
di H. Spencer e la Morale come Scienza », che — se nella esposizione
sia generale, sia particolare, della dottrina esaminata, ho
cercato studiosissima mente dì rendere intiero ed esatto il pensiero
dello Spencer — nella critica ho considerato la dottrina dal punto
di vista speciale additato dall’intento essenzialmente teoretico che
assegnavano a questa ricerca le conclusioni dello studio precedente. E
per questa ragione ho tralasciato deliberatamente non solo qualsiasi
digressione, ma ogni discussione che non fosse strettamente necessaria
allo scopo mio particolare. A ciò si deve la mancanza quasi totale di
accenni alle critiche anteriori, anche dei più valorosi.
Pavia. e la Morale come Scienza. Movente etico-sociale dell’opera
dello Spencer. Conseguenze nella valutazione delle suo dottrine. La Dottrina
etica in generale. Il concetto
informatore. La distinzione delle due Etiche. Il metodo dell’ Etica. dati dell’
Etica. Soluzione dell’ antitesi tra fine e metodo , e possi¬ bilità
di conciliazione fra i dati dell’ Etica. La dottrina delle due Etiche. Due
questioni fondamentali , attorno a cui si raccoglie la dottrina. Il
giusto assoluto. Il giusto relativo. Errore comune nel modo di concepire
la condotta ideale. La priorità scientifica dell’ Etica Assoluta
«sull’Etica Relativa. Confronto colle altre scienze. Critica Preliminare
: Le Questioni Pregiudiziali e il preconcetto dal quale hanno
origine. La pregiudiziale dell’ imperativo cateyorico pag. 40
Partizione della Critica. L’imperativo categorico. L’ obbligo e la
giustificazione. La progiudiziale dell’ obbligo categorico è estranea
alla determinazione e alla giustificazione della norma.In che consista
la differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni
precettive. Compito dell’ Etica. La pregiudiziale, .sul modo di intendere
il compito normativo dell’ Etica. La progiudiziale sul compito
normativo dell’Etica. Come esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti. Due
presupposti arbitrari comuni ad ambedue : a) che le norme siano già
determinate e note. che si accordino fra di loro. Necessità di un
criterio per la determinazione. La soluzione dell’indirizzo sociologico -
Suo difetto capitale: non vale a giustificare le norme. La
soluzione dell’ indirizzo prammatistico-idealistico. Difetto capitale : la
costruzione metafisica postulata, come qualsiasi costruzione metafisica,
non serve a determinai e 10 norme. Il preconcetto
fondamentale Presupposto comune ai due indirizzi. Da questo nasce l’antitesi
tra esigenza scientifica (determinazione) ed esigenza etica
(giustificazione). Legittimità di porre il piobleina in una forma diversa.
Conclusione della Critica Preliminare. La dottrina delle due Etiche e le
esigenze di una scienza normativa morale. Il criterio del limite
dell' evoluzione e dell’adattamento completo non serve a determinare il tipo
di condotta cercato . Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la
validità dell’ una non dipende da quella dell’ altra. Il tipo
di società giusta non è determinato dal limite dell’ evoluzione. Nè dall’
adattamento completo. Su quali dati sia costruito veramente ; quale posto
tenga nella costruzione dello S. il postulato dell adattamento
completo. Il criterio del piacere puro, corrispondente
all’adattamento completo, non serve a giustificare il tipo di condotta proposto
. Il piacere puro non può essere il criterio della massima
desiderabilità. La questione del « fine » e dei fini - Soluzione
illusoria trovata nel termine felicità e altri equi¬ valenti. Equivoco
nell’identificazione dell’ oggetto dell’ attività col piacere. Quale
possa essere il fine che soddisfa alla doppia esigenza della
determinazione e della giustificazione delle norme. Il tipo di società
giusta dello Spencer. Come concepisca la società giusta lo Spencer.
Presupposto illegittimamente assunto dalla biologia. Difetto
fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c il tipo della
società giusta. Difetto che ne deriva nella relazione tra giustizia e
beneficenza. L’ individualismo dello Spencer e il postulato della
giustizia. Ufficio e limiti di una costruzione scientifica dell' Etica. Come
debba concepirsi un tipo ideale di società giusta. Etica Pura ed Etica
Applicata. Conclusioni della Critica.Presupposto fondamentale, e
carat¬ tere ipotetico dell’Etica come scienza normativa.
Pubblicando I dati dell’Etica prima che fossero composti il II e il
III volume dei Principii di Sociologia, Spencer giustifica questa
deviazione dall’ordine del suo programma col timore di non poter compiere
l’opera finale della serie: I principii di Etica. Degli indizi che in
questi ultimi anni si ripetono con maggior frequenza e chiarezza m’hanno
avvertito che la salute, se non la vita, mi può venir meno per sempre,
prima che io compia l’ultima parte del compito che ho assegnato a me
stesso. Quest'ultima parte è quella per la quale io considero come
sussidiarie tutte le parti pre¬ cedenti. Il mio primo Saggio su L’Ufficio
proprio del Governo scritto fin dal 1842 indicava vagamente il mio pensiero
intorno a certi principi generali di bene e di male nella condotta
politica ; e da quel tempo in poi il mio fine ultimo , lasciando indietro
tutti i fini prossimi, è stato quello di trovare una base scientifica ai
prìncipi del giusto e dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua
estensione. Lasciare incompiuto questo fine, dopo aver fatta una
preparazione cosi ampia per raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui
probabilità non posso pensare senza sgomento^_e_sono ansioso di evitarla,
se non del tutto, almeno in parte.” The Principles of Ethics”. London Qualche
cosa di simile alla catastrofe preveduta sopraggiunse infatti; perchè
dopo un lento decadi¬ mento e indebolimento progressivo egli fu
costretto dal 80 al 90 a sospendere qualsiasi lavoro. Fortunatamente nel
90 potè riprenderlo: ed anche allora, la sua prima preoccupazione
fu quella di compiere i principi di Etica; e pose subito mano a
quella parte della Morale, che dopo i Dati gli pareva più
importante: la IV a (Giustizia) (1). Colle parole e col fatto egli
mostrava dunque che Tintento supremo al quale consapevolmente
convergevano tutti i risultati della sua specu¬ lazione, era u n intento
mor ale. Par che riecheggi in lui la voce di Spinoza: Finis in scientiis
est unicus ad quem omnes sunt dirigendae (2). E in p realtà,
come le idee madri della sua teoria pene¬ trano e illuminano tutti gli
scritti suoi, anche i minori, così vi circola dentro e li riscalda il
soffio vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina dell’evo¬ luzione,
par che diventi nel suo pensiero sopratutto la comprensione del processo
naturale e necessario che produrrà in un avvenire lontano ma sicuro una
umanità giusta e felice. Animata cosi di speranza, la dottrina prende
colore di fede. E veramente egli la professò come una fede; non soltanto
visse per la sua dottrina, ma visse la sua dottrina. E i prin-
. (wlien first iss. sep.) Voi. 2. p. Vili. De. Intell.
Emend. — cipi che pone a
fondamento della morale e del diritto, € di cui vuol trovare le
ragioni nelle leggi stesse dell’universo, ispirano e governano con
indomita costanza tutti i suoi giudizi e tutte le sue opinioni, da
quelle sulla Educazione a quelle sull’Etica delle carceri, dalle idee
sulla Morale Politica Assoluta alle proteste contro il « br igantaggio
politi co », dalle ironie contro «la Sapienza collettiva» a quelle
contro « i diecimila sacerdoti della religione d’amore che! non
apron bocca quando la nazione è mossa dalla ' religione dell’odio.
» Quell a unità e solidarietà di pr i ncipi teo¬ r ici e pratici ,
p er cui la sua mora le si presenta come s cienz a ella sua scienza come
una morale, e questo continuo cimentare che egli faceva i suoi
principi con tutti i problemi più vivi del suo tempo, onde la sua
dottrina pareva prender veste di programma so¬ ciale e politico, hanno
certamente contribuito a pro¬ durre^ questo doppio effetto: che la
preoccupaz ione , » morali' si insinuasse anche nella critica delle
sue dottrine teoriche; e che l’opera sua, considerata
prevalentemente, se non talora quasi esclusiva- mente, come l’espressione
di certe tendenze e di un certo indirizzo religioso morale economico
poli¬ tico, apparisse, col prevalere di tendenze e di aspi¬ razioni
diverse, invecchiata c oltrepassata di più, e più presto, di quel che
altrimenti sarebbe apparso. E cosi potè facilmente accadere che
anche certi principi, certi metodi e certe ipotesi fossero lasciati
in disparte, o si stimassero superati e come logori e fuori d’uso, non
perchò se ne fosse mostrata la falsità o la infondatezza, ma perchò
apparivano con¬ nessi e solidali con quel sistema o quell’indirizzo
che si giudicavano superati. Ora se è vero che a intendere il
significato e il valore di una dottrina particolare è necessario
con¬ siderarla nelle relazioni col sistema di dottrine di cui fa
parte, non è perciò meno legittimo conside¬ rare se essa possa aver
valore e segnare un acquisto, anche all’infuori della validità di quel
sistema e di quelle altre dottrine, colle quali primamente si
svolse. 3. — L’intento di questo scritto ó appunto di
esaminare il valore teorico e metodico della distin¬ zione tra Etica
Assolut a ed Etica Relativa; la quale ò bensì, nel pensiero dello
Spencer, parte integrante del suo sistema, ma hg, secondo il mio avviso,
ra¬ gione di essere, indipendentemente dall’applicazione che egli
ne fa e dai postulati che l’hanno suggerita. Perciò si divide
naturalmente in due parti: espo¬ sitiva e critica; la prima rivolta a
mettere in chiaro le ragioni e il significato della distinzione nel
pen¬ siero dello Spencer; la seconda a esaminare la pos¬ sibilità e
la utilità di mantenerla e applicarla sotto una forma diversa.
L’esposizione comprenderà pure necessariamente
due parti: una che richiama, in modo breve quanto è possibile ma esatto,
il concetto informatore e i lineamenti fondamentali di tutta l’Etica;
l’altra che traccia più distesamente la dottrina particolare
esaminata. Q uella legge di evoluzione , che si mani¬ festa
nell’intero univ erso visibi le, nel sistema solare come un tutto, nella
terra come parte di questo, nella vita in generale, e nella vita di
ciascun orga- nismo individuale, nei feno meni ment ali degli
esseri animati fino al più elevato; qu ella stessa legge si
manifesta nei fenomeni della vita umana e sociale é quindi a nche in quei
fenomeni della cond otta, dei q uali tratta la morale . In conformità di
questa legge] j^etWnr.< e delle leggi via via subordinate in cui essa
si ri¬ frangevi produce una el evazione^progres siva nelle **
forme della vita sub-umana ed umana, la quale si traduce in un a
dattamento s empre migliore, più esteso e più durevole alle condizioni da
cui dipende l’esistenza dell’individuo, e l’esistenza della specie;
e, dove la vita sociale apparisca, l’esistenza della società. Per l’uomo
adunque l’adattamento riguarda tre ordini di condizioni; ossia è di tre
forme; e, benché si possa astrattamente considerare ciascuna forma
per sè, tuttavia, per la connessione naturale e necessaria dei fattori
dai quali dipendono, le tre forme d’adattamento nella realtà procedono di
con¬ serva con mutue azioni creazioni continue; cosicché a ogni
progresso in una forma di adattamento cor¬ risponde un progresso nelle
altre forme. Il limite, verso il q ua le tend ^questo processo, è
l’adattamento completo a tutte le condizioni della vita umana più
elevata; per il quale il massimo svolgimento della vita individuale, e
della parentale, e della sociale, non solo si conciliano, ma si
favoriscono a vicenda. Questo adattamento completo implica non
sol¬ tanto una perfetta conformità esteriore dell’operare alle
esigenze di una tal vita; ma implica del pari una conformità correlativa
e della struttura, e delle attività, fisiologiche e psichiche; è insomma
ad un tempo adattamento della condotta e adattamento dei fattori
interni della condotta. Quindi anche le idee, i sentimenti, le tendenze
sono, nella loro qualità e intensità e gradi di subordinazione,
pienamente adatti e conformati ai bisogni e alle esigenze della
vita in tutte le sue manifestazioni, e trovano nelle forme di condotta
corrispondenti il loro appaga¬ mento pieno e concordante. 11 che viene a
dire che l’adattamento completo attua in sé le condizioni della
massima felicità . Adunque, ma ssim a elevazione della vita,
adat¬ tamento eoj puleto . m assima felicità, sono per lo Spencer
tre concetti che coincidono; o, meglio, sono faccie o aspetti diversi di
un medesimo risultato finale, ed esprimono il limite verso il quale
tende l’evoluzione della vita umana nello stato sociale. E’ appunto
per q uesta ide ntificazione, che sta in fondo al pensiero dello Spencer,
tra evoluzione e aumento di felicità, che egli può porre come
ottima la cpndotta rispondente al limite della evoluzione. Perchè
lo Spencer, come è noto, ammette esplici¬ tamente che il fine ultimo,
espresso o so ttinteso, d ell’operare, non può essere che una forma di co
¬ s cienza desiderab ile, cioè di piacere ; e che la con¬
dotta ò buona nella misura che essa apporta, tenuto conto di tutti gli
effetti presenti e futuri sopra di sè e sopra gli altri, un avanzo dei
piaceri sui dolori. Totalmente buona, dunque, o perfetta, non
è che la forma di condotta che coyà&ponde a quel limite; ogni
altra forma diversa, ossia adatta a gradi di evoluzione più o meno
lontani dal limite, non può essere che imperfetta, ossia buona
relati¬ vamente, non assolutamente. Quindi due Etiche : Etica
Assoluta che determina le leggi della condotta ottima; ed Etica Relativa
che cerca di stabilire per a pprossi mazione quale sia la condotta
relativamente buona, ossia la condotta, che, date certe condizioni
reali di svolgimento e di adattamento incompleto, è la migliore, o la
meno lontana dalla condotta per¬ fetta. E quindi la necessità, e la
priorità logica del¬ l’Etica Assoluta; le cui determinazioni rirelazioni
più generali, più semplici, più esattamente definite di quelle
contemplate dall’Etica Relativa. Or come si costruirà l’Etica Assoluta?
ossia quale sarà il metodo? L o Spencer si accorda cog li
Utilitarist i che lo precedono nell’assumere come cri¬ terio per
giudicare la condotta e determinarne le norme l a natura degli effetti o
dei risulta ti. Ma se ne distingue subito per il pr ocedim ento col
quale egli crede che questi effetti dei diversi modi di con¬ dotta
si possano e debbano conoscere. Per gli Utili¬ taristi che lo precedono è
l’induzione empirica, per lui la deduzione. Non si tratta per
lo Spencer di trovare che, in un certo numero di casi, certi danni o
certe utilità si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di in¬
ferirne che rapporti simili si manterranno nell’av¬ venire; si tratta
invece di determinare comee^er- chè alcuni modi di condotta siano dannosi
e altri utili; o più chiaramente, quale condotta debba essere
dannosa e quale debba essere utile. Non è dunque sopra certe relazioni
empiricamente osservate, ma sulla connessione causale necessaria tra le
azioni ed i loro effetti che deve fondarsi la determinazione delle
norme morali. E, poiché questa connessione deve essere alla sua volta una
conseguenza neces¬ saria della costituzione delle cose, deve essere
pos- sib ile dedu rre da principii fondamentali quali specie di
azioni tendano a produrre felicità e quali a pròdurre infelicità. E le
deduzioni così ottenute deb¬ bono essere riconosciute come leggi di
condotta e aver valore indipendentemente da una estimazione diretta
(individuale e occasionale) del piacere e del dolore. Ciò che
distingue adunque l’Utilitarismo che lo Spencer chiama Razionale,
dall’Empirico, e dà ca¬ rattere di rigore scientifico alla ricerca
morale, è il riconoscimento pieno e adeguato della causalità
naturale dei fenomeni della condotta; e il vero me¬ todo scientifico
dell’ Etica, come delle altre scienze che abbiano superato lo stadio
empirico, deve con¬ sistere nel cercare e nel costruire in sistema
non alcune relazioni empiricamente stabilite, ma le re¬ lazioni
necessariamente esistenti tra cause ed ef¬ fetti in tutta quanta la
condotta. 4.— Ma se le leggi della condotta debbono de¬
terminarsi per deduzione necessaria, quali sono i dati sui quali questa
deduzione deve fondarsi ? I fatti di cui si occupa l’Etica non
costituiscono un ordine nuovo che si distacchi da un ordine infe¬
riore o precedente, come, per es., le formazioni or¬ ganiche rispetto
alle inorganiche, o i fenomeni sociali rispetto ai biologici : ma
appartengono per un verso alla biologia (1) in quanto sono effetti
in- UU 0 If-r'i (1) Lo Spencer li considera anche
come appartenenti alla fisica, in quanto, esaminati esternamente, si
riducono a movimenti e combinazioni di movimenti che cooperano a produrre
una forma di terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti
nel tipo più elevato degli animali; e per un altro alla psi¬
cologia in quanto sono coordinamenti di azioni su¬ scitati dai sentimenti
e guidati dalla intelligenza ; finalmente in quanto queste azioni
direttamente o indirettamente riguardano esseri associati, appar¬
tengono alla sociologia. La condotta è adunque ad un tempo una formazione
biologica, una formazione psichica, e una formazione sociale: e perciò è
nei risultati delle scienze corrispondenti che si devono cercare i
principii fondamentali, i dati dell’Etica. E quindi i dati da cui si
debbono dedurre le norme dell’Etica Assoluta sono forniti dalle
condizioni che la biologia, la psicologia e la sociologia indicano rispettivamente
come proprie di un adattamento completo. Ora, in conformità
alle leggi di queste scienze, la condotta corrispondente a un adattamento
com¬ pleto ossia la condotta ottima, è caratterizzata dalle
condizioni che si possono riassumere nei se¬ guenti tre punti :
I. Condizioni biologiche : Co rrispon denza per¬ fetta tra gli
organi e facoltà umane e le attività necessarie alla vita completa. Il
che importa che tutte le attività necessarie al massimo svolgimento
equilibrio più o meno regolare e durevole. Ma questa considera¬
zione (aspetto fìsico della condotta) può qui senza danno essere tra¬
lasciata. della vita per sò e per gli altri trovino
il loro com¬ pimento nell’ esercizio spontaneo di facoltà debita¬
mente proporzionate e producenti quando entrano in azione il loro quantum
di soddisfazione (cioè di piacere). Corrispondenza per- fet
ta dei sentimenti, come motivi deir operare, ai I nsog ni. 11 che importa
che i piaceri e i dolori, cui danno origine i sentimenti distinti come
morali, siano, al pari dei piaceri e dolori fisici, impulsi
positivi e negativi proporzionati nella loro forza ai modi di operare
richiesti. III. Condizioni sociologiche : Accordo perfetto t
rp le attività dei consocia ti. Il che importa che tutte le attività
conducenti alla vita completa di ciascuno non solo non impediscano
direttamente nè indirettamente, ma favoriscano la vita completa di
tutti. (Stato di pace permanente; cooperazione vo¬ lontaria; nessuna
aggressione diretta o indiretta; scambio di servizi gratuiti (1).
La condotta ottima è dunque quella che sod- (1) Non è
difficile vedere come l’assumere le condizioni sue¬ sposte equivalga a
supporre direttamente o indirettamente eliminate tre antinomie che sotto
varie forme compaiono , si può dire , in tutta la storia della morale ;
1’ antinomia tra il piacere presente e il piacere futuro, cioè tra
piacere e utilità; l’antinomia tra il bene proprio e il bene degli altri,
tra ciò che è richiesto dalla felicità individuale e ciò che è richiesto
dalla felicità generale ; e 1’ anti- nojnia tra sentimenti egoistici e
sentimenti altruistici, tra la ten¬ denza al piacere e la coscienza del
dovere. disfa a tutte queste
condizioni ad un tempo; e però compito dell’Etica Assoluta resta quello
di dedurre da queste condizioni le norme a cui tutte le forme di
attività umana, a qualunque fine siano volte, debbono conformarsi per
essere totalmente buone. 5. — Per tal modo sono determinati i
principi o i dati sui quali deve costruirsi l’Etica Assoluta: le
condizioni della vita umana, individuale, paren¬ tale e sociale, proprie
dello stato di adattamento perfetto; è determinato il metodo: la
deduzione; ed è posto fuori di contestazione il fine ultimo clic
giustifica le norme così dedotte e dà alla condotta proposta valore di
ottima: la massima felicità uni¬ versale. Ma restano d ue
grandi difflcol tà : una incoc¬ renza, almeno apparente, da togliere, e
una lacuna da colmare. L’incoerenza è questa : Come si può
sostenere che il fine della condotta buona è la fe¬ licità, se le norme
di essa condotta devono essere dedotte dalle leggi necessarie della vita
nello stato sociale, e devono valere indipendentemente da ogni
estimazione diretta e individuale del piacere e del dolore ì 0 , in altri
termini, come si risolve l’antitesi tra il fine assunto e il metodo
proposto? La lacuna è la seguente : Le condizioni che si
pongono come proprie della condotta ottima e che la deduzione morale deve
prendere come dati , sono esse possibili, o non esprimono delle esigenze
in tutto o in parte incompatibili fra di loro? Insomma quello stato
finale di adattamento completo sotto tutti i rispetti, nel quale le
condizioni contemplate sono raggiunte, in qual modo e per qual via
può ottenersi ì (1). L’incocrenza è risolta così: Il fine è
la felicità; ma questa, a mano a mano che la vita si eleva, dipende
da una serie sempre più lunga e compli¬ cata di mezzi, ciascuna delle
quali deve essere rag¬ giunta perché sia possibile il fine. Le norme
mo¬ rali rappresentano la serie più generale e prelimi¬ nare di
mezzi, appunto perchè costituiscono la serie più lontana dal fine, e
quella che deve essere osservata prima di tutte le altre; la
condizione delle altre condizioni. Ora siccome tutte le attività
necessarie alla vita tendono a diventare una sor¬ gente diretta di
piacere, (perchè i piaceri sono relativi alla struttura e questa si
modifica se¬ condo le attività) così le fo rme di attività morale,
appunto perchè necessarie, debbono diventare una sorgente diretta di
piacere. Per tal modo, l’os¬ servanza delle condizioni che conducono alla
fe¬ licità diventa direttamente piacevole, ed è adem¬ piuta. senza
che essa felicità (che rimane il fine (1) L’analisi e la soluzione
di queste due questioni, le quali si legano per parecchi nessi tra di
loro, ma che per chiarezza bisogna considerare a parte , occupano i cap.
IX-XtV della I.» Parte dei Principi di Etica. ultimo) sia lo scopo
diretto e immediato della condotta ; ossia, (ed è un pensiero che fa
ricordare Aristotele) lo stato di godimento finale sopraggiunge
come una conseguenza, non direttamente voluta nò chiaramente
rappresentata, all’ esercizio delle atti¬ vità morali divenuto per sè
immediatamente gra¬ devole. La soluzione della seconda
difficoltà derivante dalla lacuna notata, si trova nella
conciliazione oggettiva , tra bene proprio e bene altrui, e nella
conciliazione soggettiva, tra egoismo e altruismo, raggiunte per effetto
e della solidarietà crescente tra le condizioni di vita dei singoli e
quelle del tutto, e dello sviluppo concomitante della simpatia.
Colla soluzione di queste due difficoltà lo Spen¬ cer intende
dunque che sia dimostrata la possibilità — dal punto di vista scientifico
— e la legittimità dal punto di vista morale — della sua
costruzione; e con questa dimostrazione il pensiero che informa la
trattazione dell’Etica, è nelle sue linee generali, compiuto (1).
Ed ora , tracciato il disegno in cui si inquadra La II. a Parte (Le
induzioni dell’Etica), che nella traduzione francese porta il titolo di
Morale de* differente peuples, dall’esame delle diversità di idee e
sentimenti morali dei diversi popoli rac¬ coglie la conferma di alcuni
dei principi fondamentali dedotti dalle leggi della vita nello stato
sociale ; e principalmente della estrema variabilità dei sentimenti
morali, e della corrispondenza generale di due tipi opposti di moralità
ai due tipi di coesistenza e CO-OPE- [ la dottrina particolare che più
direttamente ci interessa, diciamo alquanto piii distintamente di questa.
S’è visto come nel pensiero dello Spencer la condotta ottima sia la
condotta pienamente adatta, la condotta che c orrispon de al limite
dell’evolu¬ zione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn lon¬
tane da quel limite so no, di molto o di poco, meno adatte, cioè meno
buone; onde la distinzione di Etic A ssoluta ed Eftej> (1). Ora si
presentano spontanee due domande: l.° Perchè introduce lo
Spencer, contro il modo comune di comprendere 1’ ufficio dell’ Etica,
questa distinzione t ra Moral e A ssoluta e Relativa ? Non è forse
compito del l’Etica] CO-OPERArazione sociale (tipo militare e tipo
industriale). Le altre quattro parti, Etica della Vita Individuale (IH. a
), ed Etica della Vita Sociale : la Giustizia (IV.»), la Beneficenza Negativa
(V. a ) e la Be¬ neficenza Positiva (VL S ) contengono le dednzioni o
applicazioni particolari ; nelle quali, in conformità ai principi e al
metodo ac¬ cennati, vogliono essere determinate le norme della vita
privata e deila vita pubblica quali risultano rispettivamente dalle
condizioni contemplate dall’ Etica Assoluta e da quelle contemplate dall’
Etica Relativ a. (1) Notiamo subito, benché l’avvertenza
debba parer quasi inu¬ tile , che per lo Spencer la parol i
fl.v<vofn^o non ha nè può a vere n ell’Etica un significato metafisi
co ; le norme etiche per lui non hanno ragione di essere all’ infuori
dell’ esistenza animata quale si manifesta fenomenicamente; all’infuori
di esseri capaci di pia¬ ceri e di dolori. quello di
stabilire le norme della condotta retta, della giustizia pura, e, senza
curare gli impedi¬ menti e le imperfezioni che i difetti della
natura umana possono ingenerare, presentare il tijoo ideale di pe
rfezio ne al quale ciascuno deve cercare di av¬ vicinarsi? E se così è.
non ò del tutto oziosa_e vi- ziosa la distinzione ? Ammesso che dal
punto di vista speciale dello Spencer questa distinzione sia legittima,
non è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento elle la realtà
presente ci dà uno stato di adatta¬ mento imperfetto, ossia assai diverso
da quello che essa suppone ? L’esposizione del pensiero dello
Spencer intorno -alle foie Etiche ( 1 ) mi pare si possa
acconciamente raccogliere in due parti, nelle quali trovi succes¬
sivamente risposta ciascuna delle due questioni. Co¬ minciamo dalla
prima. 2. — Si crede comunemente che si possa determinare un tipo
di condotta assolutamente giusta in condizioni reali di esistenza
imperfetta, mentre questa determinazione non è possibile; e, se
fosse, non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei mo¬ ralisti,
sia nei discorsi comuni, djie postulati^ sono tacitamente accettati come
veri; e pare infatti che senza di essi non sia possibile giudizio morale,
per- (1) Op. cit. Ch. XV : Absolute and Relative Etkics.
che la distinzione stessa tra atti giusti e atti in¬ giusti
sembra implicarli necessariamente. Sono que¬ sti: l.° Che in ogni caso vi
sia un modo di operare / \ ^assolutamente giusto. 2.° Che sia possibile
stabilire quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di azioni
dimostra che in casi assai numerosi non è possi¬ bile il giusto, ma
soltanto un minimo ingiusto; e in casi pure numerosi non è nemmeno
possibile determinare in che cosa questo minimo ingiusto
consista. Il giusto assoluto esclude del tutto il dnltw che è
il correlativo di qualche specie di male, di qual¬ che divergenza da
quell’adattamento perfetto che soddisfa pienamente a tutte le esigenze
della vita completa. Se il concetto di condotta buona è, in ultima
analisi (1), il concetto di una condotta che produce in qualche parte un
avanzo di piacere; e di condotta cattiva, che produce un avanzo di
do¬ lore; il bene o il giusto assoluto nella condotta può esser
quello soltanto che produce p iacere pur o, pi acere non misto a dolore
di sorta . E quindi la condotta che produce qualche conseguenza
dolorosa ò parzialmente cattiva, e la forma più elevata che una
condotta cosifatta può raggiungere ò il mi¬ nimo ingiusto, il giusto
relativo. Ora le forme di adattamento incompleto pre-
(1) Per questa analisi v. op. cit. Parte I.» Cap. IV.
WÙ («ino; >1 'è ntiJj 1 sentano, più
o meno vasto e grave, un doppio di¬ fetto : Discordanza od antitesi fra i
tre ordini di fini della vita, per la quale atti che producono uti¬
lità o piacere all’ individuo o alla prole portano danno e dolore agli
altri, e viceversa ; e discordanza anche nello stesso ordine tra fini
immediati e me¬ diati, presenti e futuri ; per la quale 1’ azione
ri¬ chiesta dall’ utile avvenire può esser sorgente di dolore nel
presente, o la soddisfazione di un desi¬ derio immediato può impedir di
raggiungere un bene lontano e mediato, o esser causa di un male
futuro. Nella misura in cui queste due specie di incongruenze (le quali
si incrociano e si complicano fra di loro) fanno sentire i loro effetti,
le azioni devono produrre una certa somma di dolore sia sull’agente
sia sugli altri. Ora « finché v’ ò dolore v ’è male ; e la condotta che
apporta qualche male non può esser giusta assolutamente ». A
chiarire questa distinzione lo Spencer cita degli esempi di azioni
assolutame nte giuste e di altre solo relativamente giuste. Una madre
sana che allatta un bimbo sano, un padre che, dotato di
eccitabilità simpatica, partecipa ai giuochi del figlio e li guida, sono
esempi della prima specie; nell’un caso e nell’altro l’azione produce
piacere a chi la fa e a chi la riceve; e aiutando lo svi¬ luppo
fisico o quello psichico, o l’uno e l’altro in¬ sieme, è utile al
benessere futuro ; cioè produce direttamente e indirettamente soltanto piacere
senza dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo e con
soddisfazione e UTILITA RECIPROCA; e gli atti di BENEVOLENZA di chi
fornisce una notizia o un consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone
un dissidio tra amici, possono essere classificati come giusti
assolutamente per la medesima ragione. Degli esempi addotti dallo
Spencer di azioni solo relativamente giuste, scelgo due che mi
paiono tipici anche per il contrasto che offrono col modo di
giudicare comune: La cura di molti figli cagiona a una madre assai
dolori, ma le sofferenze imme¬ diate e le lontane che l’incuria
apporterebbe supererebbero di gran lunga quei dolori. La condotta
giudicata buona in questo caso è quella che pro¬ duce minor male ; ma non
è ottima. È la meno in¬ giusta. non 1’ assolutamente giusta. Così 1’
allonta¬ namento dei clienti da un negoziante che esiga prezzi
troppo alti o venda merci scadenti, o falsi la misura, fa diminuire il
suo benessere e forse apporta danni e dolori ad altre persone a lui
con¬ giunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar quelli che
la sua condotta cagiona, produrrebbe un male assai più grave e generale.
L’abbandono è perciò giustificato: ma l’atto è solo relativamente
giusto. 3 — Riconosciuta così la verità che una gran parte
della condotta umana non è giusta assoluta- —
Bu¬ rnente, si deve riconoscere 1’ altra verità che in molti casi
non é possibile stabilire quale sia il minimo ingiusto. É facile trovarne le
ragioni, se si considerano gli effetti che quella stessa
discordanza, già rilevata, tra i fini della vita, deve produrre. V’
è un limite fino al quale é relativamente giusto che un genitore faccia
sacrifizio di sè stesso pel vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il
quale l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli ap¬ porti non
soltanto a sò ma a tutta la famiglia danni maggiori di quelli che il
sacrifizio tende ad impedire. Chi può dire quale sia questo limite?
Dipendendo esso dalla costituzione e dai bisogni delle persone in causa,
non è neppure in due casi il medesimo, e non può essere per ciascun caso
più che una congettura. Un commerciante che sia tra¬ volto nel
fallimento d’un suo debitore e posto nella necessità di fallire egli
stesso se non è aiutato, deve o no domandai^un prestito a un amico?
Il prestito potrebbe trarlo dalle difficoltà, e in questo caso non
sarebbe cosa ingiusta verso i suoi credi¬ tori non chiederlo ? Ma
fors’anco non lo salverebbe, e allora non è una frode procurarselo?
Benché in casi estremi possa esser facile decidere, come sarebbe
possibile in tutti quei casi in cui anche il più intelligente e
competente non può calcolare le probabilità ? Questo doppio errore
del confondere il giusto assoluto col minimo ingiusto, e del credere
che si possa in ogni caso stabilire quale sia, nasce dall’ errore che si
commette nel concepire il tipo della condotta, la condotta dell’ uomo
ideale. Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca nelle
condizioni sociali esistenti. Ciò che si cerca determinare è, non
quali sa¬ rebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme
mutate, ma quali sarebbero, date le condizioni presenti. E questa ricerca ò
vana per due ragioni : La coesistenza di un uomo perfetto e di una
società imperfetta è impossibile ; dato che potessero coesi¬ stere,
la condotta che ne seguirebbe non fornirebbe il tipo morale cercato.
« In primo luogo, date le leggi della vita come esse sono, un uomo
di natura ideale non può es¬ sere prodotto in una società composta di
uomini- che hanno una natura lontana dall’ ideale. Aspet¬ tarsi che
tra uomini organicamente immorali ne- sorga uno organicamente morale è
come aspettarsi di veder nascere tra i Negri un bambino di tipa
inglese. Se non si vuol negare che il carattere di¬ penda dalla struttura
ereditata, si deve ammettere che in ogni società ciascun individuo
discende da uno stipite, che risalendo a poche generazioni si
ramifica per ogni parte nella società e partecipa della natura media di
questa ; e che quindi, nono¬ stante spiccate differenze individuali, deve
conservarsi una comunanza di natura tale da impedire che un uomo,
qualunque sia, raggiunga un tipo ideale, finché il resto della società
rimane di gran lunga inferiore. « In secondo luogo, la
condotta ideale, quale è contemplata dalla teoria morale, non è
possibile per P uomo ideale in mezzo ad uomini costituiti
diversamente. Una persona assolutamente giusta c perfettamente simpatica
non potrebbe vivere e operare in conformità alla natura sua in una
tribù di cannibali. Tra un popolo perfido e al tutto privo di
scrupoli, una intiera veridicità e franchezza deb¬ bono apportare rovina.
Se tutti intorno a lui rico¬ nóscono solo la legge del più forte, un uomo
la cui natura non gli permetta di inlliggere dolore agli altri deve
soccombere. Fra la condotta di ciascun membro della società e la condotta
degli altri vi deve essere per necessità una certa congruenza. Un
modo di operare interamente diverso dai modi di operare prevalenti non
può continuare con buon esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente,
o della sua discendenza, o di ambedue » (1). Adunque perchè
l’uomo ideale possa servire di tipo, egli deve essere concepito non a sé,
senza re¬ lazione colle condizioni che sono necessarie perchè la
condotta possa essere giusta, ma in corrispon- (1) Ib. § 106 p.
279-80 dell’ed. cit. denza con queste. L’uomo ideale deve essere considerato
come esistente in una società ideale. Perciò, secondo l’idea dello
Spencer, il voler, per esempio, stabilire quale sarebbe la condotta
deiruomo ideale quando fosse posto nel bivio o di farsi gettare sul
lastrico colla famiglia, o di men¬ tire alle sue convinzioni politiche,
sarebbe perfet¬ tamente vano ; perchè le condizioni cosi supposte
contraddicono a quelle richieste dalla definizione dell’uomo ideale. In
una società ideale, nella quale soltanto può concepirsi 1’ uomo ideale,
non esiste violenza e non esistono abusi ; nè vi può essere
collisione tra i modi di sentire e di operare richiesti dal bene proprio
e della discendenza, e chiesti dal bene pubblico. Viene in
mente, e lo ricordo perchè può servire di commento al pensiero
delloCéàencer, ma perchè la somiglianza è significativa, queh^ udjko
^ dei Promessi Sposi, nel quale il padre Cristoforo è invitato a
far da giudice in una questione di cavalleria. Suonava rumorosa la
disputa tra i com¬ mensali di Don Rodrigo su questo punto: se fosse
lecito a un cavaliere bastonare il messo che gli consegna un cartello di
sfida senza avergliene chie¬ sto licenza ; e il padre Cristoforo,
chiamato in causa, dopo essersi invano schermito, esce finalmente
in quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare fuor di
proposito, tutti quei dialettici della cavaileria : « 11 mio debole parere
sarebbe clic non vi fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate ».
Ecco riconosciuta nel caso particolare l’esigenza fondamentale
dell’Etica Assoluta dello Spencer: Non vi può essere condotta giusta
finché vi sono condizioni contrarie alla giustizia. Ma la
realtà presente e viva è appunto così. « Oh ! questa è grossa », risponde
infatti il conte At¬ tilio. « Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si
vede che lei non conosce il mondo ». E se è il mondo coni’è
quello con cui si ha a fare, 1* ufficio dell’ Etica non sarà quello di
stabi¬ lire quale deve essere la condotta nel mondo reale presente,
non in un mondo ideale avvenire? 0, almeno, non ò inutile, anche ammessa
la distin¬ zione Spenceriana, correr dietro al fantasma di una
condotta ottima, adatta a uno stato di perfe¬ zione, che l’evoluzione
apporterà, sia pure, ma che per noi non esiste? A questa seconda
domanda risponde la di¬ mostrazione della precedenza necessaria —
nell’or¬ dine della trattazione scientifica — dell’Etica As¬ soluta
sull’ Etica Relativa. In qualunque ordine di ricerche le verità
scien¬ tifiche si sono raggiunte trascurando prima i fattori di
perturbazione, che alterano ed oscurano l’azione dei fattori
fondamentali, e tenendo conto soltanto di questi. Quando la
estimazione di questi fattori fondamentali, non, come si presentano nella
realtà, ma¬ scherati e complicati di elementi secondari, ma quali
si suppongono idealmente con un processo di astrazione, ha aperto la via
a conoscere e formu¬ lare le leggi generali, allora diventa possibile
la estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei fat¬ tori
accidentali che nella realtà alterano i rapporti i deali contemplati da
quel le leg gi. Ma le leggi ge¬ nerali, le verità fondamentali, solo per
questa via si possono ricercare e scoprire, e solo con questo
procedimento il sapere passa dalla sua forma em¬ pirica alla sua forma
razionale. Per ottenere la formula che esprime il potere
-ifjicfip»tv* della leva s i suppone N una leva che non si pieghi ,
iàz<Jbz ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non
abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si suppone che la
potenza e la resistenza si esercitino su un punto, invéce che su una
parte più o meno estesa della leva. Del pari la determinazione del
corso di un proiettile si ottiene trascurando dap¬ prima tutte le
deviazioni prodotte dalla sua forma e dalla resistenza dell’ aria. E il
medesimo negli altri casi. St abilite così q u este verità ideali,
diventa possibile tener conto degli elementi dai quali si è fatta
astrazione, delle complicazioni risultanti dall’attrito, dalla plasticità,
dalla coesione, dalla resi¬ stenza dell’aria : e ottenere così una
determinazione ' Jt- ^ "(VOM, P-O sempre
più esattamente approssimata al l'atto reale. Qui è manifesta la re lazione
tra certe verità assolute della meccanica e certe verità relative che
impli¬ cano le prime, come è manifesto che non si possono stabilire
scientificamente le verità relative finché non sieno formulate
indipendentemente da queste le verità assolute. Il che equivale a dire
che la ! scienza meccanica applicala può svilupparsi soltanto
dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale. Le medesime
considerazioni valgono per la scienza morale. È impossibile determinare
con ap¬ prossimazione scientifica quale sia, date certe cir¬
costanze reali, il modo di operare meno ingiusto, se non si conosce quale
sarebbe il modo di operare giusto ; e questo non si può conoscere se non
si suppongono eliminate tutte le circostanze che lo impediscono o
lo limitano e ne falsano i caratteri ed i risultati: cioè, in breve, se
non si suppongono, scevre da ogni perturbazione, le condizioni
ideali, nelle quali è possibile l’operare assolutamente giusto.
A chiarir meglio questa relazione tra Etica As¬ soluta ed Etica Relativa
lo Spencer ricorre a un altro esempio di relazione analoga preso dalle
scienze biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Patologia. La
Fisiologia, nello studio degli organi e delle funzioni che combinate
costituiscono e con¬ servano la vita, suppone l’organismo sano e le
funzioni sane, non tenendo conto dei difetti, degli eccessi, delle
anomalie di cui si occupa la Pato¬ logia : e questa poi presuppone
quella, perchè le idee anche più rozze intorno alle malattie
suppon¬ gono idee di stati sani di cui le malattie sono de¬
viazioni; e la conoscenza degli stati e dei processi anormali e morbosi
può diventare scientifica sol¬ tanto quando vi sia già una conoscenza
scientifica di stati e processi non morbosi. Si milmeste l a
Morale Assolut a deve precedere laJSl orak ^llclativa ; la quale non deve
applicare sic et simpliciter alle condizioni particolari della vita
reale le conclusioni dell’ Etica Assoluta ; ma riconoscendo ciò che vi è
di diverso nella condotta che corrisponde a uno stadio di vita
imperfetta, deve determinare di quanto essa si allontana dal giusto
e come si possa ottenere, date queste condi¬ zioni reali imperfette, la
massima approssimazione al giusto contemplato dall’ Etica Assoluta.
6 — Questi confronti coi quali lo Spencer in¬ tendeva illustrare il
suo concetto intorno alla re¬ lazione fra le due Etiche e alla priorità
logica del- 1’ Etica Assoluta sull’ Etica Relativa, si direbbe che
abbiano servito ad abbuiarlo ; e però non è fuor di luogo qualche breve chiarimento.
Dall’esposizione che precede deve essere apparso, spero, che è per
una esigenza inerente alla natura della ricerca scientifica che lo
Spencer sostiene la. V | necessità che l’Etica
Assoluta prec^g la Relativa; lì e appunto por chiarire questa
precedenza neces¬ saria egli cita l’esempio della precedenza
analoga della Meccanica Razionale rispetto alla Meccanica
Applicata, e della Fisiologia Normale rispetto alla Fisiologia
Fatologica. Nel pensiero dello Spencer la priorità dell’ Etica Assoluta
non è che l’applicazione a un campo particolare di ricerche di un suo
cri- <--- 7 terio metodico generale; del quale egli
trova la conferma in tutte le scienze, che hanno superato 10
stadio empirico. Il paragone non è dunque, pro¬ priamente, tra la sua
Etica Assoluta e la Meccanica Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra
la sua Etica Relativa e la Meccanica applicata o la Fisio¬ logia
Patologica; non è, voglio dire, di quelle scienze pure tra di loro, o di
queste scienze appli¬ cate tra di loro ; ma è paragone tra le loro
relazioni. E il significato del confronto è questo : che tra le due
Etiche, come le concepisce lo Spencer, corre una relazione analoga a
quella che intercede rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo
così) e tra le due Fisiologie. E in questo senso che il paragone
deve essere inteso ; e in questo senso è appropriato. Perciò,
quando la critica obietta che l’Etica ha caratteri ed esigenze diverse
dalla Meccanica e dalla Fisio¬ logia, può essere che abbia ragione, ma
interpreta 11 confronto in un senso diverso da quello voluto
dallo Spencer. Perchè il concetto, per il quale il paragone è assunto è,
nella sua espressione più semplice, questo: che anche per l’Etica la
solu¬ zione scientifica o scientificamente approssimata dei
problemi più complessi richiede la soluzione dei problemi più semplici.
Il paragone non deve dunque essere staccato da questo concetto e
preso con una significazione diversa; altrimenti si frain¬ tende e
paragone e concetto ; e rimane oscurato uno dei punti più importanti
della dottrina par¬ ticolare ora esposta. La quale non ebbe
mai molta fortuna nò presso i fautori di una morale scientifica, nè
presso gli av versa ri. Questi, preoccupati forse in generale dal
pensiero di mostrare la insufficienza dell’indirizzo naturalistico, hanno
veduto nella dottrina delle due Etiche (illustrata da quei confronti!)
sopratutto una fi gliazione de l concetto meccanistico, e f’hanno
com¬ battuta in nome delle esigenze della Morale; quelli hanno
notato nella affermata necessità di costruire un’Etica Assoluta, una
contraddizione colla teoria dell’evoluzione, e col principio della
relatività della morale e del diritto: e l’hanno combattuta in nome
delle esigenze della scienza. Gli uni e gli altri hanno considerato la
dottrina particolare unicamente in relazione colla dottrina generale
colla quale si pre¬ sentava connessa, senza badare alle ragioni che
la possono legittimare all’infuori del sistema e della forma speciale
di applicazione che in esso ha trovato. \ La pregiudiziale
dell’imperativo categorico. La dottrina esposta traccia il piano
che lo Spen¬ cer si è proposto di seguire per soddisfare al compito
da lui assegnato all’Etica: quello di determinare, scientificamente le norme
della condotta morale.] Ma già intorno a questo modo di intendere
l’uf¬ ficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le obbiezioni; le
quali devono essere, almeno nel loro contenuto sostanziale, esaminate.
Perchè, se non si riconosce la legittimità del suo concetto sull’ufficio
dell’Etica è vano discutere della possibilità e legittimità del
piano proposto per attuarlo. L’esame critico si distingue perciò
naturalmente in due parti; delle quali la prima potrebbe dirsi
critica preliminare. » * « 1 — L’Elica può, o non può,
essere scienza nor¬ mativa? Ecco una prima questione pregiudiziale,
che, a giudizio di un profano, (solamente dei profani ?) po¬ trebbe
dare un’idea poco lusinghiera dei progressi e dei frutti della
speculazione morale. L’opinione se non universalmente, certo gene¬
ralmente. dominante è che non possa. L’opinione dominante par che si
chiuda in questa alternativa: l’etica o è scienza, e non è più normativa;
o ò nor¬ mativa, e non è più scienza. La ragione dell’anti¬ tesi,
che così si pone, tra le esigenze della scienza e le esigenze della
morale, è nota. Dicono i puri moralisti: — Una morale che non dia alla
norma carattere di obbligatorietà non può essere vera mo¬ rale; e
darle obbligatorietà assoluta non si può senza uscire dal campo della
scienza. Nel latto, una con¬ dotta che si ponga scientificamente come
morale, è obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale è
ordinata la norma; cioè è obbligatoria ipotetica- , mente, non
categoricamente. E se non c’è i m perat ivo categorico, non c’è m orale.
— E i puri scienziati rincalzano: — La scienza è scienza delle cose e
dei latti come_sonq_e non come dovrebbero essere. Si può cercare
quali sono i caratteri e i fattori, la formazione e le trasformazioni dei
modi di operare, dei sentimenti delle credenze distinti come
morali; si potrà anche, tracciati i lineamenti generali del
processo di formazione, argomentare induttivamente una possibile
evoluzione ulteriore con qualche pro¬ babilità; ma la scienza non sa di
bene e di male; cerca ciò ciò che è; tenta di prevedere, se le
riesce, quel che sarà; dimostrando che certi effetti dipen¬ dono da
certe condizioni, ci fa capire che se vogliamo gli effetti dobbiamo volere
quelle condizioni, ma non può obbligare nè à volerle nè a
disvolerle. Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere
che la scienza non possa dare un imperativo ca¬ tegorico, par che
ammettano esplicitamente o im¬ plicitamente che la morale debba o possa
essere una dottrina che determina la norma obbligatoria, ossia una
teoria da cui si ricava il dovere. Ora. se hanno ragione nell’ ammettere
la prima cosa, hanno torto di supporre la seconda ; hanno torto di
credere che compito dell’Etica possa essere quello di dimostrare
l’obbligatorietà, e di supporre che una dottrina religiosa o metafisica
possa fondare quel che riconoscono non poter essere fondato da una
dottrina puramente scientifica; possa fondare il « tu devi » (1).
2 — 11 « tu devi » è un giudizio di constata¬ zione e non può
essere altro. Dicendo « tu devi » io non posso intendere che l’una o
l’altra di queste due cose: o « tu senti dentro di te qualchecosa
che (1) Ho già mostrato altrove, in un capitolo rivolto
direttamente a questo esame (Prolegomeni a una Morale distinta dalla
Metafì¬ sica Cap. I. Pavia, Bizzoni 1901) come e perchè sia
perfettamente va no e illusorio credere che da una costruzione , teorica
l sojjmtificn n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma
obbligatoria , se l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta
o supposta; e come nasca e si mantenga 1’ illusione, e lo sforzo di
credere che non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza
; e , del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il
mede¬ simo, è fatta da un punto di vista diverso. ti spinge,
senti di essere obbligato a non fare o a fare »; oppure quest’altra: «
c’è una volontà cbe ha il potere di obbligarti ». Nel primo caso si
fa appello alla coscienza ; a uno stato o a un fatto di coscienza
che esiste o si suppone che esista ; nel secondo caso si fa appello a un
potere, che pari- menti o esiste o si ammette che esista. Ma
nell’uno e nell’ altro caso nessuno sforzo dialettico può ri¬
cavare l’obbligo dalla natura della cosa comandata o proibita; nessuna
costruzione dottrinale può far esistere, se non esiste già, nò quel fatto
di coscienza, nè questo potere. Si dirà che v’è un altro
senso. È vero; ma un senso improprio. « Tu devi » può voler dire: «
È giusto che tu faccia; è giusto che ti senta obbli¬ gato a fare, o
che ci sia chi ti obbliga ». Ma se vuol dir questo, l’espressione è
equivoca. Che sia giusto il fare e che sia giusto T obbligo di fare
(quando questo fare sia già sentito come un ob¬ bligo) si raccoglie d al
contenu to, non dal tono del comando: e non basta a porre l’obbligo, lo
giusti- fica dato die ci sia, e potrà far desiderare che esista,
dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che giustificano l’obbligo, non
è porre in essere la forza o il potere o l’impulso (con qualunque nome
si chiami) che obbliga. Ed è così vero che le due cose .sono
diverse e non confondibili tra di loro, che non si può ridurre 1’una
all’altra senza togliere una delle due. Non si può derivare l’obbligo
dalle ragioni che giustificano la norma, senza ricono¬ scere che
l’obbligo vale solamente in quanto val¬ gono queste ragioni; fcioè senza
assegnargli un va¬ lore ipotetico, non più categorico. Nè si può
rica¬ vare la giustificazione della norma dall’obbligo ca¬ tegorico,
senza riconoscere che la norma vale so lo i n quanto esiste l’obbli go;
ossia senza negare qual¬ sivoglia giustificazione, cioè riconoscere che
il con¬ tenuto della norma non avrebbe nessun valore se P obbligo
mancasse. 3 — Gli è che quando si dice essere il dovere
condizione necessaria della morale, si scambia la morale colla 'moralità,
la norma colla conformità alla norma. Ma l’obbligo riguarda
l’osservanza, <*/J» non ] a determinazione della norma. Ora,
che del¬ l’osservanza della norma sia condizione necessaria
e caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non potrà
ammettersi, ma ha ad ogni modo un senso; che sia essenziale alla
determinazione della norma, non è neppure discutibile, perchè non ha
senso. Sarebbe come dire che è essenziale alla costruzione della
scienza medica l’obbligo di prendere le medicine. È verissimo che sarebbero
perfettamente inutili le prescrizioni mediche se non si supponesse
che vengano osservate ; ma è non meno vero che l’obbligo di osservarle,
posto che ci fosse, non mu¬ terebbe in nulla il contenuto e il valore
delle prescrizioni. L’obbedienza del cliente non muta la scienza del
medico. E le condizioni da cui dipende l’osservanza sono così distinte
dalle ragioni che giustificano una norma , che fi ufficio di tutte
le scienze precettive si fa consistere nel cercare e de¬ terminare
le relazioni tra certi mezzi e un certo fine, nella supposizione che il
fine sia voluto, e ai- fi infuori da ogni preoccupazione che riguardi
la reale esistenza ed efficacia del desiderio o dell’ ob¬ bligo di
conseguirlo. Il che si vede manifestissi¬ mamente in una scienza
precettiva, che, a rigore, costituisce un capitolo dell’ Etica ; nella
quale la questione dell’ osservanza delle norme (e dell’ ob¬ bligo
di questa osservanza) è rimasta perfettamente distinta dalla questione
della ricerca e della deter¬ minazione delle norme; forse appunto perchè
fu considerata e trattata indipendentemente dalla mo¬ rale; voglio
dire nell’igiene. Dove a nessuno viene in mente di pretendere' che sia
una condizione della legittimità o del valore delle norme dettate da
lei, questa: ch e il conformarsi ad esse sia sentito com e un d
over e. E se accade, come può accadere in ef¬ fetto, che l’osservanza di
qualcuno dei suoi pre¬ cetti sia già tenuto come un dovere, il riconoscere
che questo precetto è ordinato a un fine, al quale si dà valore di bene,
fa che fi obbligo stesso ap¬ paia giusto. Ma in questo caso è facile
vedere che la giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a questo : a
dare un valore ipotetico all’ obbligo ca¬ tegorico; cioè à dimostrare che
sarebbe bene osser¬ vare il precetto, anche se non ci fosse V
obbligo. Ora lo stesso vale, nè più nè meno, per la mo¬ rale.
Altro è cercare quali siano le norme da os¬ servare per raggiungere un
certo ordine di effetti (quello che la morale ponga come fine) e altro
è cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare queste norme
possa essere sentito e posto come un dovere. E l’importanza che questo
secondo pro¬ blema può avere non toglie che esso sia diverso e
debba essere distinto dal primo. La pregiudiziale dell’obbligo
categorico non tocca dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e;
in primo luogo perchè l’obbligo categorico si constata o si assume,
e non si dimostra, nè si ricava da una dottrina qualsiasi. In secondo
luogo perchè se si intende, come si intende in effetto, che 1’
Etica deve dare non V obbligo, ma la giustificazione del-
l’obbligo, questa giustificazione non può consistere che nel mostrare
come la norma abbia valore an¬ che indipendentemente dall’ obbligo ; cioè
che sa¬ rebbe bene o sarebbe giusto conformarsi ad essa anche se il
conformarsi non fosse sentito come un dovere indiscutibile. Ossia, poiché
dimostrare il va¬ lore di una norma vuol dire mostrar la derivazione di
una norma da un fine a cui sia riconosciuto quel valore, giustificare 1’
obbligo viene a dire derivare la norma da un fine, il cui valore si
ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’ ob¬ bligo, e al quale perciò
rimane del tutto estranea la considerazione dell’obbligo e delle
condizioni che lo rendono possibile. La caratteristi ca di una
dottrina etica no n sta dunque nell’ obb ligatorietà, ma sta nel
valore d el fine che si assume (1). Ed eccoci alla vera ed j unica
differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni precettive; che è questa.
Qualsivoglia scienza pre¬ cettiva si riduce a un sistema di relazioni e
di leggi che hanno valore di norme da seguire per chi si propone
come fine quell’ effetto o quell’ ordine di effetti, del quale esse
leggi esprimono le condizioni $ ed i fattori ; cioè
suppone la desiderabilità che dà valore di fine a quell’effetto; ma non
pretende nè che questa desiderabilità sia riconosciuta univer¬
salmente, nè che essa sia, pure universalmente, ri- conosciuta come
superiore e preminente rispetto a quella di qualsiasi altro fine. Ma
questo appunto (1) Sono lieto di notare che in un articolo dal
titolo Ethic.s, a xcience pubblicato nella Philo.sophical Review McGilvary
insiste sul concetto, clip è conforme a quel che ho sostenuto e sostengo
, che 1’ Etica , come scienza, è indicativa non imperativa. Senonchè, per
un verso, non si capisce dall’ articolo se egli ammetta o escluda il
medesimo di qualsivoglia costruzione dottrinale; per l’altro, egli non
tien conto di quella differenza, nella quale consiste a mio giudizio la
earat- teristica dell’Etica. pretende l’Etica. Onde il compito
dell’Etica si spe¬ cifica in due punti, di cui il primo segna la
sua caratteristica: l.° cercare se vi sia e quale sia l’ef¬ fetto o
l’ordine di effetti che possa avere un tal valore, cioè il fine del quale
possa essere ammessa la UNIVERSALE DESIDERABILITA sopra ogni altro,
2." de¬ terminare le condizioni e i fattori da cui quell’ ef¬
fetto dipende. E, nel supposto che dipenda dall’azione umana individuale
e collettiva, determinare la con¬ dotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente.
Se il fine di cui può essera assunta questa uni¬ versale e
preminente desiderabilità è umanamente possibile, cioè tale che se ne
riconosca possibile il raggiungimento senza assumere o postulare
nessun intervento sopranaturale e sopraumano, la costru¬ zione
etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa o metafisica. E quindi il
problema della possibilità di un’Etica scientifica assume questa forma:
se si possa assegnare un fine, naturalmente cioè umanamente
possibile, al quale sia riconosciuto un valore supe¬ riore a ogni altro
fine. La determinazione delle norme morali sarebbe data dalle relazioni
trovate o da trovarsi tra quel fine e la condotta indivi¬ duale e
collettiva da essa richiesta. Ed eccoci a una seconda questione
pregiudiziale. Non è improbabile che qualche lettore trovi que sto
modo di porre il problema intorno al co mpito dell’Etica , antiqua to e
fuori della realtà. Sento dirmi: «Nella realtà il compito dell’Etica
è concepito e proseguito in modo assai diversp anzi opposto. Le n
prme della condotta morale sono già d ate e conosc iute. Ciò è tanto
vero, che sulla deter¬ minazione concreta dei precetti particolari, di
quelli che si chiamano « d over i » e che si raccolgono nella parte
comunemente chiamata Morale Speciale, non cadono sostanzialmente dubbi o
contestazioni, e i filosofi della morale ne sdegnano quasi la
tratta¬ zione o ne danno soltanto le linee generali. Nella realtà
dunque l’indagine morale non ha per iscopo di cercare e determinare le
norme ricavandole da un certo fine; ma di costruire la sistemazione
teo¬ rica di un codice di condotta già dato, raccogliendo e
unificando le norme particolari in una norma ge¬ nerale, della quale si
cerca quale possa essere la giustificazione; anche se la costruzione
induttiva¬ mente così ottenuta rivesta poi l’apparenza logica di
una costruzione deduttiva. Quindi è antiscienti¬ fico e inutile andar
cercando fuori della realtà, nel campo di una possibilità, ipotetica, un
fine — poniamo pure che sia possibile trovarlo — il quale risponda a
quelle esigenze, per il gusto di ricavarne delle norme. Le quali, o si
accorderanno con quelle riconosciute in effetto e vigenti come morali,
o discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire che la pretesa
derivazione deduttiva delle norme da quel fine nasconde una reale
derivazione induttiva del fine dalle norme; se discordano, questa
discor¬ danza viene a dimostrare l’inutilità, a dir poco, di norme
elle contrastano con quelle riconosciute e accettate, e a far respingere
come non morali o utopistiche le norme e il fine dal quale sono
rica¬ vate. Io non ho difficoltà a riconoscere che i due indirizzi
prevalenti nella speculazione morale con- temporanea— l’indirizzo sociol
ogico-storico. e l’in- dirizzo idealistico-prammatistico — si accordano
fon¬ damentalmente nel respingere le costruzioni etiche razionali o
pure, e nell’assumere come punto di par¬ tenza legittimo la realtà dei
dati morali ; dei quali l’uno considera principalmente l’aspetto
esterno, sociale, e l’altro l’aspetto interno, psicologico. Ma noto
subito che la novità nel punto di partenza e nel processo di costruzione,
è soltanto apparente; o, per essere più esatto, la novità consiste (1)
nel- (1) Adagio però anche con questa novità. Perchè, almeno
quanto al riconoscere esplicitamente la legittimità del procedimento
regres¬ sivo, all’ invertire deliberatamente la costruzione morale, il
Kant avrebbe de’ diritti d’autore da rivendicare. l’assumere la
legittimità di un procedimento, che inconsapevolmente domina in generale
la specula¬ zione etica, e che si scorge più evidente in quei
sistemi i quali hanno raccolto rispettivamente nei diversi tempi e luoghi
più largo consenso; (consenso non verbale, si intende, ma reale). In
altri termini non si fa che seguire in modo consapevole e riflesso
quella stessa tendenza e preoccupazione, a cui ha obbedito in generale la
speculazione morale, almeno nella forma riconosciuta rispettivamente nei
diversi tempi come ortodossa, o retta, o sana che si voglia dire;
la preoccupaziono di giustificare, il modo di operare, di sentire e di
giudicare già tenuto come buono. Ora il rendersi conto che la
costruzione etica — sotto l’apparenza logica di una deduzione
progressiva di certi precetti particolari da una nor¬ ma generale e di
questa da un fine posto come supremo — fu sempre, in sostanza, regressiva
(dai precetti particolari alla norma' generale e da questa ai
principi che la giustificano), segna certamente un progresso e un
acquisto quanto alla conoscenza del processo reale storico e psicologico
di formazione dei sistemi morali. Ma altro è conoscere quale sia
stato il processo realmente seguito, altro ò affermare la legittimità del
processo. Certo sarebbe un fortis¬ simo argomento di probabilità, se
avesse fatto buona prova. Ma se si guarda ai risultati, vien fatto
piut¬ tosto di pensare il contrario; di pensare, che la speculazione
morale sia viziata nelle origini appunto dal preconcetto che la domina e
dal procedimento che il preconcetto suggerisce. Ed è da questo pre¬
concetto che nasce, a mio giudizio, così il diletto della soluzione a cui
riesce l’indirizzo sociologico, come di quella a cui fa capo l’indirizzo
prammatistico. In primo luogo importa notare che am¬ bedue gli
indirizzi, appunto perchè hanno comune il presupposto che compito
dell’Etica sia quello di unificare le norme già date, risalendo da esse
ai principi o ai postulati, sembrano ammettere questi due punti:
1°. Che le norme morali siano già tutte conosciute e determinate, o che
dalle norme cono¬ sciute si ricavi il criterio per quelle non determi¬
nate. 2°. Che le norme date siano fra di loro con¬ cordanti o
compatibili, o almeno non in contraddi¬ zione l’una coll’altra.
Ora nè 1’ una nè l’altra di queste condizioni si avvera nel
fatto. E prima di tutto non è esatto che le norme della
condotta siano già date e conosciute. Anche se lo Spencer ha torto, come
io credo e si vedrà più in¬ nanzi, di assumere a criterio del giusto
l’adatta¬ mento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel
sostenere che in un gran numero di casi la coscienza non ci dice quale
sia il modo di operare giusto o approssimativamente meno ingiusto. Ma,
oltre ai casi del genere di quelli citati da lui, (nei quali si
potrebbe dire, che se non riusciamo a determinare quale sia la migliore
applicazione del criterio, sap¬ piamo però quale sia il criterio da
usare) vi sono sfere intere di azioni, per le quali la coscienza
non saprebbe suggerirci una scelta sicura, e per le quali non ci
dice, come per altre, «non è giusto» o «è giusto». Difenderò io il
divorzio o lo combatterò? Approverò o non approverò l’allargamento del
suf¬ fragio politico? Sarò conservatoreoliberale, monar¬ chico o
repubblicano, individualista o socialista, liberista o protezionista? In
quali circostanze ed entro quali limiti seguirò l’uno o l’altro
indirizzo? Non serve rispondere che ciascuno deve operare in queste
materie secondo la propria coscienza. Si tratta di sapere come una
coscienza onesta deve operare perchè alla bontà delle intenzioni (che
è presupposta) corrisponda la bontà degli effetti. E abbandonando
questo giudizio alla coscienza indi¬ viduale si riconosce o che possono
coesistere criteri morali diversi, o che lo stesso criterio morale
può legittimare ugualmente modi di operare opposti, o finalmente
che quelle parti della condotta escono dal campo della morale.
Ma se possono legittimamente coesistere per certe parti della
condotta criteri morali opposti, quale sarà il criterio superiore che
serve a decidere fra questi criteri contrastanti? o altrimenti, perchè
non si ammette che possano del pari legittimamente coesistere
criteri contrastanti anche per le altre parti della condotta? Se poi lo
stesso criterio morale può legittimare due modi di operare opposti, ciò
non può essere che per mancanza di determinazione delle
circostanze; e prova in ogni modo che le norme particolari della condotta
morale non sono tutte de¬ terminate e conosciute. E se finalmente quelle
parti della condotta escono dal campo della morale, quale norma
suprema è mai quella che non ha nulla da dire intorno a una parte così
grande dell’operare, come è, per esempio, tutta la condotta politica
del¬ l’individuo e della società? Si dirà che per questa parte, per
la quale le norme non sono date, il cri¬ terio si ricava de quelle già
date e accettate come morali? Urtiamo in una seconda difficoltà.
8. — Per ricavare dalle norme già date il cri¬ terio cercato, per
unificarle cioè in una norma più generale, occorre che le norme date
concordino fra di loro, che in tutte si possa riconoscere appunto
questa unità di criterio. Ora, tralasciando pure di insistere, perchè è
cosa troppo nota, sull’antitesi fondamentale esistente tra le norme di
condotta che valgono come morali rispettivamente nelle condi¬ zioni
di pace e di guerra, o sui contrasti, tragici talvolta, tra i «doveri»
famigliari e i «doveri» sociali, bisogna osservare che le norme date e
accet¬ tate come morali possono contemplare e contemplano realmente,
almeno in parte, delle relazioni, direi, secondarie, le quali esistono e
sono possibili in gra¬ zia di relazioni primarie e fondamentali, che
le norme non contemplano e che sono la negazione del criterio
applicato in quelle norme. Mi sia lecito spiegarmi con un esempio
ipotetico assai semplice. Se si suppone che un uomo sia saltato sulle
spalle di un altro e si faccia portare da lui, v’è luogo a cercare
quale sia la posizione migliore per il por¬ tante e per il portato; sia
quella, poniamo, la quale concilia la minima fatica del primo col minimo
disa¬ gio del secondo. I l criterio seguito qu i è un criterio d i
equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o giusto, o buono o utile per
nessuno dei due, il pretendere tutte le comodità per sè senza tenere in
conto le comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito nello
stabilire la condotta migliore, data, quella con¬ dizione diversa dei
due) fosse applicato a determi¬ nare la relazione tra i due ,prima che
siano divenuti rispettivamente portatore e portato, questa condi¬
zione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue gambe. Ossia la norma
morale regola nel caso sup¬ posto un rapporto che non esisterebbe se essa
fosse applicata al sorgere di quel rapporto. E può avve¬ rarsi,
così, delle norme morali qualchecosa di ana¬ logo a quel che racconta di
sé Senofonte, che all’o¬ racolo chiedeva quale via dovesse tenere per
giun¬ gere più felicemente in Asia, guardandosi bene dal chiedere
prima se era bene o male che andasse. Un sociologo potrebbe stringersi
nelle spalle e osservare che è colla realtà data che bisogna fare i
conti, e che è ozioso andar cercando come sarebbe giusto che essa fosse;
non resta che acconciarvisi alla meno peggio. — Vedremo ora come questa
po¬ sizione di puro adattamento passivo sia, per forza stessa della
realtà, che diviene e muta, insosteni¬ bile: ma ò opportuno notar subito
che quando si renda palese un contrasto del genere notato, colla
consapevolezza di questo contrasto è inevitabile che nasca nella
coscienza morale l’aspirazione a una realtà diversa; e quindi
l’aspirazione o a modifi¬ care la realtà se essa appare mutabile, o a
cercare la ragione della giustizia fuori della realtà. Queste
lacune e queste incongruenze delle norme in effetto vigenti come morali
in un dato tempo e luogo, dimostrano intanto due cose: che, quale
sia la condotta migliore in un determinato momento storico, non è
una semplice constatazione da fare, ma è un problema da risolvere ; e un
problema assai più difficile e complicato di quel che possa
apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in ogni caso è
necessario assumere un criterio il quale valga come guida a colmare le
lacune, e a risol¬ vere o giustificare le incoerenze. Ma un
criterio, comunque assunto, a cui si attribuisca questo uf¬ ficio e
questo valore, è un criterio alla stregua del quale devono essere
valutate anche le norme particolari già riconosciute come certe, poiché
deve valere per tutta la condotta. E ciò viene a dire che il
processo di determinazione di tutte lo norme si deve fondare sul criterio
assunto, allo stesso modo che se le norme si dovessero tutte determinare
ex novo, astrazion fatta e indipendentemente dalle norme in effetto
già accettate e seguite. (Il che del resto è precisamente quello che
avviene in tutte le scienze precettive; dove, se anche i precetti scien¬
tificamente stabiliti si trovano a coincidere coi pre¬ cetti
empiricamente seguiti, la determinazione scien¬ tifica procede come se
spettasse ad essa di deter¬ minarli e giustificarli). E allora il
problema torna ad essere quello del criterio che deve essere as¬
sunto. 9. — Ora il criterio che l’indirizzo sociologico
suggerisce è, come è noto, — e conforme al con¬ cetto , che esso pone in
evidenza, della relatività della morale e del diritto — la corrispondenza
alle esigenze sociali del momento storico che si consi¬ dera. Il
codice morale di un dato tempo e luogo delinca la forma di condotta
richiesta dalle condi¬ zioni dell’ esistenza sociale in quel tempo e
luogo, e trova in esso la sua giustificazione. A nessuno può
venire in mente di negare la reale ed effettiva dipendenza delle norme
morali dalle esigenze della vita sociale. Ma se queste esi¬ genze
possono spiegare come si sia formato storicamente e psicologicamente il codice
di condotta correlativo finché sono inconsapevolmente identi¬
ficate colle esigenze della coscienza morale, esse non bastano più,
neppure a determinare quale sia la condotta adatta in un certo momento
storico, una volta che siano assunte come criterio riflesso e
consapevolmente seguito; non bastano, tranne che in un caso: nel caso che
le condizioni di esi¬ stenza, da cui quelle esigenze emergono, siano
con¬ siderate come immutabili o come assolutamente sottratte ad
ogni azione od efficacia che possa esercitare su di esse la condotta
umana , indivi¬ duale e collettiva. Perchè quando intervenga la
con¬ sapevolezza di una possibile efficacia modificatrice della
condotta umana sulle condizioni sociali e sulle esigenze che ne nascono,
allora entra di necessità nella valutazione della condotta la
considerazione di questa efficacia; la quale, richiede il confronto
tra lo stato presente e uno stato futuro, tra uno stato reale e uno stato
possibile. E la ragione della scelta tra i due non può essere data dalla
realtà dello stato presente, ma dalla diversa desiderabilità dei
due stati messi a confronto; e quindi non sol¬ tanto dalle esigenze dello
stato reale, ma anche da quelle dello stato possibile o creduto tale. Per
con¬ seguenza, condotta buona apparirà non quella sem¬ plicemente
che è richiesta dalle condizioni di fatto, ma quella che, nei limiti
imposti dalle condizioni reali, tenda a modificarla nella direzione
segnata dallo stato più desiderabile. Soltanto in un caso,
puramente teorico, la condotta tracciata in conformità con questo criterio,
coinciderebbe colla pura e semplice corrispondenza alla realtà delle
condi¬ zioni fiate; nel caso che lo stato reale presente apparisse
universalmente e sotto ogni rispetto più de¬ siderabile di ogni altro. Ma
anche in questo caso la valutazione è data dalla desiderabilità, non
dalla realtà. Insomma, altro è comprendere che una
forma di condotta è conforme a certe condizioni, altro è Di
qui si vede quanto sia abusiva l’espressione comunemente ripetuta,
sopratutto dai seguaci più rigidi del materialismo storico, che la
condotta giusta è ad ogni momento quella che è resa necessaria dalle condizioni
del momento; i quali poi sono spesso ardenti e anche non di rado generosi
fautori e propugnatori di riforme e di innovazioni anche radicalissime
nelle condizioni e nella strut¬ tura stessa della società. Sento 1’
obbiezione : « Gli è che noi pre¬ vediamo necessario e inevitabile il
mutamento in quella direzione, e ci affatichiamo , come la levatrice , a
rendere meno doloroso il parto del futuro dai fianchi del presente ».
Lasciamo, per restare nella metafora, che altro è voler agevolare il
parto e altro voler affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a
prepararlo, questo futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto
del presente ? E che (iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se
non appre¬ stare con un intervento consapevole e riflesso certe
condizioni che altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque l’apprestare
queste con¬ dizioni , pensate che sia desiderabile e possa dipendere
dall’ opera vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete,
almeno per questa parte, il criterio della desiderabilità a quello della
obiet¬ tiva ed esteriore necessità. — Cosi la condotta corregge la
dottrina. « Gran.... ist alle Theorie— Und grilli des Lébeus
goldner Baiati ». — 60 — aver coscienza
della bontà di quella condotta ; la quale non può nascere che dalla
coscienza della bontà di un fine a cui la condotta ò, o si crede
che sia, ordinata; altra cosa è la necessità di certe con¬ dizioni,
altra è la loro desiderabilità; altra cosa è la spiegazione storica, e
altra la giustificazione etica. Di questa esigenza di una
giustificazione, alla quale, una volta che sia sorto il lavorìo ri¬
flesso della comparazione e della critica, nessuna costruzione etica può
sottrarsi, si preoccupa invece il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui
presente successo si deve, come credo, in gran parte, alla
insu fficienza d el rel ativismo sociologico e storico nel campo della
morale. Esso è in sostanza, come è noto, un ritorno alla metafìsica in
nome delle esigenze pratiche; la affermazione del diritto di cie-
dere alì’ esistenza reale di quelle condizioni che si pongano come
necessarie a dare un fondamento og¬ gettivo al valore delle norme e dei
motivi morali. In questa reazione a difesa della fede il nuovo
idea¬ lismo, fatto audace cìàPfavore delle circostanze e dalla
debolezza degli avversari, è passato, come ac¬ cade, dalla difensiva alla
offensiva; e non solo af¬ ferma la legittimità del proprio indirizzo nel
campo della morale e della religione, o, come si dice, nel campo
dei valori pratici; ma anche nel campo della scienza, o d ei valori
teoretici ; pretendendo che in ultimo anche il sapere teoretico, benché
non se ne accorga o si dia l’aria di non accorgersene, non ab¬ bia
altra ragione per giustificare i principi e i po¬ stulati che assume a
fondamento delle sue inter¬ pretazioni dei fatti e delle leggi
particolari, se non una ragione di convenienza ; il valore che quei
principi hanno come mezzi per la sistemazione del sapere, cioè in ultimo
per la soddisfazione di un bisogno speculativo. Qui non è il
luogo di discutere ciò che nella dottrina ci può essere di vero — più
come intui¬ zione di un aspetto trascurato della realtà psicolo¬
gica, che come legittimazione di un metodo — per quel che riguarda la
ricerca scientifica (1); la con- (1) Però non posso fare a meno di
notare l'equivoco che, a mio giudizio, si nasconde sotto la pretesa
analogia tra la ragione che legittima i principi teorici, e la ragione
che il prammatismo in¬ voca a legittimare i principi pratici. L’ equivoco
è questo : E verissimo che 1’ im rva Ira tura d<jl sanerò teor ico (a
proposito, si può parlare di un sapere non teorico?) è ìjj^tgriali,
diciamo cosi, grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono
perditi e in quanto possono servire. Ma servire a che ? A unificare e
siste¬ mare le cognizioni delle cose dei fatti e dei rapporti come
nono n on come desideriamo che nan o ; a costruire non quella verità
che piace a noi di ammettere, ma la verità senz’ altro, sia o non
sia conforme ai nostri desideri e ai nostri capricci. Perchè il
bisogno teoretico o scientifico è appunto il bi sogno di .salier e le
cose che s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come le desideriamo.
E qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione « come sono
» esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’
espres¬ sione « come desideriamo che sieno ». Perciò non è il caso di
ripe¬ tere qui, sotto veste gnoseologica, la domanda di Pilato.
Perchè quando si parla, per es., delle leggi di gravità, si può bensì
soste- sidero nel campo della morale, c soltanto rispetto-
ali’argomento che ci riguarda. Per questo rispetto la soluzione che essa
dà del problema della giusti¬ ficazione etica, non dilferisce
sostanzialmente dalle altre soluzioni di carattere metafisico, se non
per il fondamento. A proposito del quale, siccome, se anche se ne
ammetta la validità, questa non toglie il difetto che nasce dal
'carattere metafisico della soluzione, mi accontento di osservare, per
quelli che credono di sfuggire per questa via all’utilita¬ rismo,
che essa conduce a una forma, mistica se si vuole, ma ad una forma di
utilitarismo ; anzi alla forma estrema e più radicale : la
valutazione delle stesse credenze metafisiche e religiose dal punto
di vista di un interesse umano ; sia pure questo interesse il massimo, il
termine di confronto di tutti gli altri. Perchè conduce a considerare
la credenza come un sostegno della moralità, ossia in ultima
analisi come un mezzo pedagogico. E non nere che questo è un modo
nostro di formulare e unificare i fatti ; ma i fatti sono quelli, e a
nessuno viene in mente di pensare che noi li crediamo veri perchè abbiamo
bisogno di reggerci in piedi. E anche chi ammette che 1’ acqua sia stata
fatta a posta per ca¬ varci la sete, sa benissimo (diamine !) che altro è
dire che in un pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno sete quei
che vi guar¬ dano dentro. Di questa indebita intrusione di
argomenti gnoseologici in que¬ stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta
esaurientemente, con profon¬ dità e con chiarezza, c ome suole, il
Varisco (V.* in particolare : Introduzione alla Filosofia Naturale, e
Studi di Filosofia Naturale, Cap. I). è escluso il
dubbio che, a questo modo, proprio nel mentre ehe si pone il valore della
credenza, si venga a togliere valore all’ oggetto della
credenza. Venendo ora al nostro argomento, è certo che l a soluzione
del prammatism o, come in genere le altre soluzioni di carattere
metafisico, soddisfa a quella esigenza della giustificazione etica,
alla quale non soddisfa il relativismo storico. Ma an¬ eli’essa
presenta — dico all’infuori da ogni con¬ tesa sulla legittimità del
fondamento e sulla vali¬ dità teoretica dei principi e dei postulati
ammessi — il difetto capitale delle costruzioni metafisiche. Ed è
che il fine di ordine sopranaturale cosi po¬ stulato, non può servire a
determinare le norme. Non può servire, per la ragione perentoria che
la relazione tra un fine, che è al di fuori e al di so¬ pra della
vita umana naturale e finita, e una con¬ dotta, qualunque essa sia, che
si deve dispiegare nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti
de¬ terminabili sono contenuti nei limiti della vita finita
individuale e sociale, una relazione di questo genere, dico, non può
essere in nessun modo dimo¬ strata, ma soltanto affermata. Ne è prova il
fatto che lo stesso fine sopranaturale, la stessa costru¬ zione
metafisica può essere assunta a giustificare norme concrete di condotta
non soltanto diverse, ma opposte, senza che si possa ricavare da
essa nessuna ragione per la quale tra due forme di condotta diverse,
una possa o debba giudicarsi pre¬ feribile all’altra. Gilè, se si trova
una ragione di preferenza nell’ ordine degli effetti, che le due
con¬ dotte rispettivamente producono o tendono a pro¬ durre,
quest’ordine di effetti, dà alla condotta cor¬ relativa un valore che
sussiste indipendentemente dal fine sopranaturale, e diventa il fine
naturale della condotta medesima. Con questa differenza tra i
due fini: che mentre dato il primo, non si può (se non facendo
appello a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a una pura
affermazione) ricavare da esso quale sia la condotta atta a raggiungerlo;
dato questo fine naturale, le norme si ricavano appunto dalle con¬
dizioni da cui il fine dipende, cioè dalla connessione naturale tra la
condotta e gli effetti della condotta. Ossia un fine sopranaturale non
può fornire esso il criterio per determinare la condotta, se non a
patto che — implicitamente o esplicitamente — si assuma, come subordinato
ad esso e da esso richie¬ sto un fine, o un ordine di fini, naturale, in
rela¬ zione al quale in realtà le norme sono stabilite. Nè
concluderebbe nulla in contrario l’osservare che il criterio desunto
dagli effetti che l’azione tende a produrre, riguarda la condotta
esterna, non la interna, nella quale sopratutto consiste il valore
morale. In primo luogo anche se per le due con¬ dotte, esterna e interna,
valessero criteri diversi, bisognerebbe pur sempre riconoscere che,
poicliò anche la condotta esterna conta pure qualchecosa, sarebbe
ancora necessario ammettere un criterio che valga a determinarla. In
secondo luogo, benché siano, in ultima analisi le tendenze, le
aspirazioni i sentimenti che hanno valore e danno valore alle cose
e alle azioni, e ogni valutazione si riduca a valutazione comparativa di
tendenze o sentimenti diversi; non bisogna dimenticare che i
sentimenti, come le aspirazioni, si distinguono per il loro con¬
tenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui si riferiscono; e che
anche le intenzioni sono sempre intenzioni di qualche cosa. E finalmente,
una forma di perfezione interiore che si consideri come fine, a cui
Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non può essa stessa fornire il
criterio per determinare quale sia la condotta richiesta a questo scopo,
se non in quanto questa perfezione si consideri come un ef¬ fetto o
un ordine di effetti che dipende natural¬ mente (in parte al meno se non
in tutto) da certe condizioni, ossia da certi mezzi. Le pratiche
del¬ l’ascetismo non avrebbero senso se non si ricono¬ scesse a
loro questo carattere di mezzi atti a pro¬ durre certi effetti. '
Concludendo: la soluzione metafisica a cui fa appello l’indirizzo
prammatistico, come ogni altra soluzione di carattere metafisico, non può
avere, anche se non si ponga in dubbio la sua legittimità, che un
ufficio consolatore, non regolatore; può ser¬ vire a dare o aggiunger
valore a certe norme e ai fini umani connessi con queste, ma non può
ser¬ vire a determinarle ; può fornire un principio di
giustificazione, non un criterio di derivazione. E perciò lascia da parte
o suppone risoluto il problema che riguarda la determinazione delle
norme; il che ò quanto dire che lascia sussistere il problema, e la
validità delle ragioni per le quali si pone, e se ne cerca la
soluzione. Così dei due tipi diversi di costruzione etica
corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno q « — quello del
relativismo storico — se anche può offrire un criterio di
determinazione scientifica di un sistema di norme, non soddisfa all’esigenza
mo¬ rale, ossia non giustifica il valore che ad esse si vuole
attribuire. Perchè, alle norme stabilite in conformità al criterio della
corrispondenza alle esi¬ genze della vita sociale, non si può riconoscere
un valore superiore a ogni altra norma, se non sup¬ ponendo che la
forma di esistenza sociale correla¬ tiva si riconosca universalmente e
sotto ogni ri¬ spetto più desiderabile di ogni altra; presupposto
che non è per nulla legittimato, nè si può ricavare . dal criterio
assunto. L’altro — quello dell’i dealism o prammatistico — in quanto fa
capo a principi e postulati metafisici, serve a giustificare il
valore che si attribuisce alle norme morali, ma ò radi¬ calmente
impotente a fornire un criterio di deter¬ minazione delle norme.
Il primo può determinare le norme, ma non giustificarle ; il
secondo può giustificarle ma non determinarle. L’uno e
l’altro tipo di soluzione hanno comune il preconcetto fondamentale che
compito dell’Etica debba essere quello di trova re le rag ioni
sulle_quali ò fondata la bont à o la giustiz ia di quella forma di
condotta, che già teniamo come buona. Ammesso — tacitamente o
esplicitamente — questo presup¬ posto, l ’esigenza scientifica porta a
riconoscere le connessioni naturali tra quella forma di condotta e
i bisogni della vita sociale del momento storico, e quindi ad assumere
come criterio etico la corri¬ spondenza a questi bisogni ; l ’esigenza
morale o giustificativa porta a cercare a quali patti o con¬
dizioni quella forma di condotta possa veramente essere riconosciuta come
buona, e quindi ad assu¬ mere come fine della condotta un bene il
quale soddisfaccia a quel requisito di universale e pre¬ minente
desiderabilità, che non si trova in quel fine , che è in realtà il fine
naturale della con¬ dotta. E i moralisti che cercano di conciliarle
ambedue, e soddi¬ sfare all’esigenza scientifica senza rinunciare alla
esigenza giusti- E allora la conseguenza legittima è que¬ sta : che
una scienza normativa morale è possibile soltanto se il fine naturale che
serve a determi¬ nare le norme vale anche a giustificarle. Ma
il fatto — che questa esigenza non ò sod¬ disfatta finché si cerca la
giustificazione di un co¬ dice di condotta già dato, assumendo questo
come punto di partenza, e quindi come fine la forma di convivenza e
di cooperazione sociale alla quale esso codice corrisponde, — non prova V
impossibilità di una etica normativa scientifica; prova al più la
impossibilità di una tale scienza finche si intende £0 il compito dell’
Etica in quel modo, [ CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile
e lecito porre il problema in un modo diverso: cercare quale possa
essere il fine che soddisfa a questa esigenza, e dalle condizioni che
esso richiede ricavare le norme della condotta? Il porre il problema in
questa forma non è forse legittimato dalle difficoltà che abbiamo
visto nascere dal porlo in forma diversa, e dall’analogia
ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo in conformità all’
esigenza scientifica il criterio , e in conformità all’ esigenza morale
la giustificazione ; ossia attribuendo un valore metafisico al fine
umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal quale si possono
ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e in apparenza
unificati restano sempre distinti : e quando si tratta di stabilire quale
è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e quando si tratta di dire
perchè quella condotta è giusta, compare 1’ altro ; senza che si veda
nessuna ragione perchè il secondo debba essere cosi pronto a trovar
giusto quello che 1’ altro suggerisce. (che l’esigenza caratteristica
della norma etica non toglie) colle altre scienze precettive ?
Sento risorgere V obbiezione : Posto pure che l’impresa riuscisse,
a che cosa gioverebbe? Ma ò facile la risposta. In primo luogo, anche se
non servisse praticamente a nulla, non cesserebbe di avere un
valore teorico il sistema di rapporti che per tal modo -si venisse a
conoscere. In secondo luogo a nessuno ò dato affermare a priori l’inu¬
tilità pratica di una cognizione scientifica, sia pure che riguardi dati
ipotetici. (E quale cognizione scientifica non contempla dati, almeno in
parte, ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni ge¬ nerali se
ne può aggiungere una terza particolare. Chi può dire clic al modo
stesso, almeno, col quale può essere utile la conoscenza delle relazioni
che esistono tra forme diverse di moralità e condizioni storiche
diverse, non possa tornare utile la cono¬ scenza delle relazioni
scientificamente stabilite tra una forma di condotta possibile c un
ordine di con¬ dizioni possibili ? Concludo. Il problema, s e una
scienza normativa etica sia possibile, non è un problema risoluto,
ma è un problema da ris olve re. Se si possa e si debba risolvere nel
modo tenuto dallo Spencer, è questione diversa e clic rimane da
esaminare. E questa critica preliminare mentre avrà servito, come
spero, a dimostrare che il presupposto fondamentale dello Spencer intorno al
compito dell’Etica non può essere a priori escluso, ha posto in chiaro
le esigenze fondamentali alle quali una scienza nor¬ mativa morale
deve soddisfare. E così ci fornisce una guida per la critica
della dottrina. Il criterio del tinnite dell ’ evoluzione e
dell’ adattamento completo nm^se^e a determi¬ nare il tipo di condotta
cercato. Il p rogra mma che lo Spencer traccia e si pro¬ pone
di seguire (non dico che in realtà gli sia ri¬ masto fedele) per
costruire una scienza normativa etica, si può raccogliere, in queste due
te si: I.° La necessità di assumere come tipo della condotta mo¬
rale la condotta dell’ uomo giusto in una Società giusta ; e la necessità
conseguente d ella disti nzione 'ìdfn fv** i ^ tra E tica Pura (Ji/icr
Assoluta) ed Etica Applicata parevo*)» f ( Etica_ Relativa) e della
precedenza teorica della prima sulla seconda. II. 0 La identificazione
della condotta giusta, oggetto dell’oca Assoluta, col tipo di
condotta che egli pone come proprio del limite dell’evoluzione.
Ora, benché nel pensiero dello Spencer le due tesi siano
solidalmente connesse, e la seconda sia
ilei'quadro del sistema la fondamentale e quella che legittima e
rende possibile ad un tempo la sua costruzione, non ò difficile vedere
come da un punto di vista critico esse possono e debbono essere
con¬ siderate a parte. La prima, infatti, formula una veduta metodica
; la seconda esprime la speciale applicazione che di quella veduta
metodica lo Spen¬ cer ba creduto di fare. In altri termini, è
astrat¬ tamente possibile riconoscere che il tipo ideale del- 1’
uomo giusto non possa determinarsi se non in relazione con una società
giusta e clic per deter¬ minare la condotta giusta relativamente a
certe condizioni reali, sia necessario aver prima ricono¬ sciuto
quale sarebbe la condotta giusta in condi¬ zioni idealmente supposte,
anche se non si accetta che il tipo ideale di condotta giusta possa
essere concepito in quella forma e su quel fondamento che lo
Spencer crede di dovergli assegnare. Anzi io penso che la veduta
espressa nella prima tesi non solo si possa, ma si debba accettare
come legittima e necessaria, e che in essa si racchiuda come in
germe un concetto fecondo. Certo, credo, se una scienza normativa morale
ò possibile, è pos¬ sibile per quella via; e i difetti della
costruzione etica dello Spencer nascono non dall’averla seguita, ma
piuttosto dall’ essersene allontanato. Cosicché la critica stessa della
seconda tesi riesce a confermare la legittimità della prima. Assumendo
come tipo ideale di condott a ^ insta la condotta corrispondente al
limite dellV vn- ! azione, lo Spencer riconosce, esplicitamente o
im¬ plicitamente, alla forma di vita individuale e so¬ ciale che
segna quel limite, valore di fine morale. Ora. lasciando la
difficoltà, sulla quale altri ha già zifjf.'w’Ui insistito, che uno s
tato concepito come il risultato necessario dell’evoluzione naturale
possa aver va¬ lore di fine liberamente e deliberatamente voluto e
proseguito? difficoltà che non mi pare insupera- ' bile (1), io credo che
questa identificazion e presenta He due difetti capitali : essa non
vale, per se, a for- O' La difficoltà nasce dal modo di intendere la
possibilità e la necessità. — Affermare la possibilità die si produca un
fatto, non è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei
fattori, l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli,
produrrebbe, secondo i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel
fatto. Ora lo stesso effetto che può apparire necessario in quanto si
am¬ mette la reale e adeguata efficacia di tutti i fattori da cui
dipende, ' può essere proposto come fine quando tra i detti fattori entri
l'azione MI'uomo, cioè quando la « necessità . dell’effetto sia
condizionata dalla presenza e dalla efficacia di certe idee, sentimenti,
aspira¬ zioni : cioè in una parola dalla presenza e dalla efficacia adeguata
del desiderio ili quell' effetto. In questo caso non è escluso che l’ef¬
fetto m questione possa aver valore di fine, anzi è incluso elio 1’ abbia
; perchè la « necessità » dell’effetto è subordinata appunto al valore
che gli si riconosca di fine, e al dispiegarsi, nell’ azione
corrispondente, della volontà di raggiungerlo. Che questa
interpretazione sia compatibile coi principii dell’evo¬ luzionismo
Spenceriano è questione che, come si vedrà, rimane estranea all’ intento
di questo studio, e che i più risolvono nega¬ tivamente (cfr., tra gli
altri, L. Zeccante : La dottrina della co- ni re un criterio per
la derivazione delle norme morali (nella realtà, come si vedrà più
innanzi, il tipo ideale è determinato dallo Spencer sopra un altro
fondamento); e non è sufficiente come prin¬ cipio di giustificazione.
Cominciamo dal primo. Il concetto di evoluzione, come quello di
tempo, del quale esso è, in fondo, nuli’altro che la tra¬ duzione
in termini di causalità naturale, esclude l’idea di limite, inteso almeno
come termine fisso, oltre il quale ogni processo di trasformazione,
cioè di causazione, si arresti. Il processo stesso di dis¬
soluzione che, secondo il pensiero dello Spencer, si alterna a periodi
indefinitamente grandi con quello di evoluzione, non segna il termine di
un periodo e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di vista
scienza movale nello Spencer Cap. XXXI, p. 194; e G. V ijiaki :
Rosmini e Spencer p. 209 e seg. Di queste, come di tutte le ob¬ biezioni
mosse all' Etica dello Spencer, a cominciare dal Guyau e dal Sidgwick
fino ai critici più recenti, tratta con grande larghezza e ricchezza di
notizie il Dr. G. Salvadori nell’opàra « L’Etica Evo¬ luzionista » che è
una apologia entusiastica di tutto il sistema Spencer iano).
Colgo questa occasione per dichiarare che ho dovuto astenermi da
ogni richiamo sia delle obbiezioni e discussioni di questi, come di altri
critici valorosi (tra i quali sia ricordato a titolo d’ onore il
compianto Icilio Vanni), sia delle varie opinioni che si connet¬ tono
colle questioni generali toccate, per due ragioni : in primo luogo perchè
il punto di vista dal quale è qui considerata la dot¬ trina delle due
Etiche è diverso, e diversa la via seguita ; in se¬ condo luogo perchè se
avessi voluto per ogni questione toccata di¬ scutere le diverse opinioni,
avrei dovuto fare, a commento di un breve scritto, tutta, o poco meno, la
storia della morale. di una valutazione umana o teologica. In
realtà il cammino non si arresta per tracciar di segni che l’uomo
faccia sulla via della natura. Nè, del resto, quando lo Spencer parla di
limite dell’ evoluzione della vita umana, intende di significare il
momento in cui la vita si arresta o si spegno, ma quello in
cui la vita raggiunge il massimo svolgimento. Senonchò questo
massimo svolgimento non può es¬ sere. necessariamente, che relativo a
forme date e conosciute o comunque determinate di vita, cioè di
organi, di funzioni, e di attività ; e, anche in¬ teso cosi, non può
venir stabilito se non fissando un grado che si consideri come
massimo; cioè, in¬ somma, segnando nel processo (non importa ora
con quale criterio) un momento , che sia punto di arrivo di una serie
(della quale sia rappresentato da punto di vista teleologico come fine),
ma che potrebbe essere preso, con un criterio diverso, come punto
di partenza di una serie ulteriore. È sufficiente a segnare questo
momento il criterio dell’adattamento completo ai tre ordini di
fini: della vita individuale, della vita della specie e della vita
sociale? È subito chiaro che questo adattamento completo non può
bastare esso stesso, se non si determina quali siano le sfere di attività
e di fini, l’adattamento ai quali serve di criterio per stabi¬ lire
se il limite è raggiunto. Perchè se si intende per adattamento
completo un adattamento definitivo a tutti i fini di tutti e tre gli
ordini, termine fìsso e insuperabile al quale si arresti, e oltre il
quale non sorgano nuove aspirazioni e nuovi fini, noi non potremmo
argomentare nò che un tale limite sia per essere raggiunto mai, nò, (ciò
clic qui im¬ porta di più) dato che si raggiunga, quale sia il
grado o la forma di vita, che un tale adattamento sia per fissare e suggellare
come definitivo. Perchè i fini sono, come ognuno sa,
correlativi ai desideri o ai bisogni. Ora a mano a mano che le
forme di attività si moltiplicano c si differen¬ ziano, si moltiplicano i
bisogni e quindi i fini; nò si può nò induttivamente, nè deduttivamente
de¬ terminare a qual punto questo processo possa o debba
arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla tesi evoluzionista, ogni
adattamento implica dimi¬ nuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus,
avanzo di energia; la quale appunto perciò si viene di¬ spiegando
in nuoA r e forme di attività, c quindi nella ricerca di nuovi fini. Anzi
il sorgere di ogni forma più complessa di attività, — ad esempio ogni
fun¬ zione più elevata — presuppone normalmente l’a¬ dattamento già
avvenuto delle attività meno com¬ plesse e relativamente elementari, —
funzioni più semplici — di cui essa ò una nuova ordinazione. Onde
per questo rispetto l’adattamento a certi fini, ò parallelo all’
insorgere di fini nuovi indefinitamente. Oltredichè il processo stesso del
conoscere portando a scoprire sempre nuovi rapporti di cose e di
fatti, viene continuamente riversando la desi¬ derabilità dei beni
conosciuti su nuovi oggetti che acquistano valore di utilità, c
moltiplica così i beni, cioè i desideri e i bisogni; o trova nel mutare delle
condizioni esterne nuovi modi di soddisfare ai bi¬ sogni già esistenti
ailìnandoli ed elevandoli; o apre la via a nuove aspirazioni, alle quali
la soddisfa¬ zione già assicurata dei vecchi bisogni, permette che
si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni adat¬ tamento raggiunto è
condizione e stimolo a nuove forme di attività al modo stesso che ogni
cono¬ scenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e na¬ scere « a
guisa di rampollo, appiè del vero il dub¬ bio ». Si dirà che
lo Spencer intende l’adattamento completo nel senso di mutuo adattamento
dei tre ordini di lini fra di loro; intende cioè la concilia¬ zione
c 1 accordo tra le esigenze della vita indivi¬ duale quelle della vita
della specie e quelle della vita sociale. Ma lasciando di
notare che la difficoltà sopra notata risorge a proposito di questa
conciliazione perfetta, si presenta la domanda: A quali patti si fa
questa conciliazione ? Perchè se è vero, come lo Spencer ha cura
di ripeter spesso, che nelle condizioni presenti di esistenza i fini di
un ordine non possono essere pro¬ se-miti c raggiunti senza sacrificio
almeno parziale dei fini di un altro ordine, bisogna evidentemente
perchè la conciliazione si faccia, che intervenga una cessazione, o una
modificazione o una sostituzione nei fini o di uno o di due o di tutti
tre gli ordini considerati ; ossia una modificazione nei bisogni e
nelle esigenze dell’individuo, o della specie, o della società.
Supponiamo ora per semplicità di discorso che i fini individuali e i fini
della specie si possano considerare fin dal presente conciliati; o, per
usare i termini dall’economia pura, che si possa assu¬ mere 1’
egoismo di specie come comprendente m se l’egoismo individuale (il che è
in gran parte con¬ forme alle vedute stesse dello Spencer); la
conci¬ liazione resterebbe da farsi tra i fini della vita
individuale e i fini della vita sociale. E allora il problema è il
seguente: Nello stato di conciliazione contemplato, fino a qual punto
sono i bisogni e i fini individuali da noi conosciuti o immaginati
che avranno mutato di specie, di estensione, di intensità, per
adattamento alle esi¬ genze sociali, e fino a qual punto si
troveranno invece modificate le esigenze sociali per adatta¬ mento
ai fini della vita individuale? E manifesto che per conoscere in che cosa
la conciliazione sia per consistere bisogna o che sia definita la
sfera delle esigenze individuali, in corrispondenza colla
aliale si possa determinare la sfera delle „ sociali che con
quelle si accordi; o sia definii sfera delle esigenze sociali per una
determinazione tersa; o finalmente siano definite certe corni z on
(qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1 H vacano, esse, a
determinare ad un tempo , limiti «Ielle une e delle altro.
:ì _ Queste condizioni lo Spencer ricava dalle esigenze del
“r » ™<ità induetnale !«<*<»' cui si suppone realizzato il
puro «gnu» ' u ?» tratto sotlo la leggo dell'uguale liberta ; e>
4“““* il limite dell'evoluzione è in realtà ,1 ^ della
società industriale del suo temp , tamento completo consist co¬
struttiva biologica e psicologica 1 nenti la società umana a questo
tipo d, convivenza e di cooperazione (I). Per conseguenza non è un
(1) qua.» riatto «no «i *“ Spencer che qui il Etta , (cio4
quando que- biella II. n edizione dei ‘ de i System of
et’ opera fu ^pubblicata come Synth. Phil.) si trova aggiun e
cbe eva stato lo stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione,
fu dettato prima; ma, smarrì o poi Qra in quel ca pitolo gei-
sostituito da quello che figura ne . . ident ifi c hiuo
provare la possibilità che le attività ^«isMche ^ colle
egoistiche, si citano gli mse 1 s ’ nism i di- «e—. -certo tipo di
vita completa che serve a determi¬ nare il tipo ideale della società
giusta, ma è il tipo considerato come ideale di società giusta che
de¬ termina la vita completa. Adunque, poiché la con¬ ciliazione
dei diversi ordini di fini è subordinata all’ attuarsi delle condizioni
che definiscono il tipo ideale di società ed è relativa a queste, è il
tipo ideale di società clic in edotto è assunto come fine, e sono
le condizioni proprie di quel tipo che ser¬ vono a determinare le
norme. benessere individuale non maggiore di quello che è
necessario alla conservazione della vita individuale ; ed esser possibile
il formarsi negli individui di una organizzazione tale che la ricerca
delle sod¬ disfazioni che la natura loro richiede, porti ad esercitare
quelle at¬ tività che il benessere della comunità richiede. (Voi. cit. p.
300-302). Si noti che, aggiungendo in appendice il capitolo che contiene
questo passo, lo Spencer non fa riserve di nessun genere, anzi dice
espli¬ citamente che esso può servire a chiarire e compiere il
pensiero espresso nel testo (ih. p. 2S9). Un altro luogo in
cui è ribadito in forma diversa, ma non meno recisa, lo stesso concetto
fondamentale, si trova nella seconda let¬ tera di risposta alle critiche
del Rev. J. L. Davies sull’ obbliga¬ zione morale, pubblicata col resto
della polemica nella- Appendice C. alla Giustizia : « Lasciatemi ripetere
qui una verità sulla quale ho altrove insistito : che appunto come il
cibo è giustamente preso quando è preso per soddisfare la fame, mentre il
doverlo prendere quando manca l’appetito implica uno stato fisico disordinato
; cosi una buona azione o un atto di dovere è fatto giustamente
soltanto se è fatto per soddisfare, un sentimento immediato ; mentre se
è fatto per la considerazione di certi risultati finali in questo o
in un altro mondo, implica uno stato morale « imperfetto » — (A.
Si- stem ecc. Voi. X. App. C. « The Moral Motive p. 450. — Nella
trad. it. della Giustizia edita dal Lapi questa appendice è omessa. Ma se così
è, quanto alla determinazione delle nolane il postulato dell’adattamento
completo, posto clic si possa assumose, non serve a nulla; equivale
semplicemente a supporre clic tutti gli individui i quali compongono la
società ideale abbiano una na¬ tura così latta, che l’osservanza della
condotta cor¬ rispondente costituisca per essi un bisogno o un
desiderio superiore a ogni altro, senza possibilità di conflitto con
altri bisogni o desideri; cioè, tiene nella costruzione etica lo stesso
posto che nei si¬ stemi morali è comunemente tenuto dal dovere , e
nelle scienze precettive in genere dalla supposizione che esista un
desiderio o un bisogno specifico cor¬ rispondente al fine da cui si
ricavano le norme. E quindi allo stesso modo che l’esistenza e
la natura specifica dei motivi da cui può dipendere l’osservanza di
una norma, non hanno che fare colla determinazione teorica di essa, così
l’ipotesi dell’ adattamento completo dei bisogni e desideri
individuali a certe condizioni di convivenza e coo¬ perazione sociale,
non ha che fare colla determi¬ nazione di queste norme. Perchè le norme
sono ri¬ cavate appunto da quelle condizioni, alle quali si suppone
avvenuto l’adattamento; e che perciò ser¬ vono esse di critetio e per
determinare le norme e per conoscere se l’adattamento è raggiunto. Uljh&MJ?
Jabot* Gap. VII. — Il criterio del piacere puro,
corrispon¬ dente all’ adattamento completo, n on ser re a
giustificare il tipo di condotta proposto. ì. — Ma perchè assume lo
Spencer come pro¬ prio della Società ideale un adattamento
completo, che, mentre esclude arbitrariamente ogni evolu¬ zione
ulteriore, non serve a definire questa Società ideale perchè è definito
esso stesso in relazione con quella ? Perchè soltanto quando
esso sia raggiunto, la condotta umana in tutta la sua estensione
apporta a sè e agli altri nel presente c nel futuro puro pia¬ cere,
piacere non misto a dolore di sorta ; e per I l o Spencer, come s’è
visto, il giusto assoluto e sclude • il dolore . E perciò il tipo ideale
contemplato dal- 1’ Etica Assoluta non può essere se non quello nel
quale la condotta apporta puro piacere. L’ adattamento completo
darebbe dunque al tipo ideale di convivenza e cooperazione sociale
quel carattere di universale e preminente desiderabilità, che deve
avere il fine assunto dall’Etica. Lo dà veramente ? Benché a
prima vista possa parere strano il dubbio e inutile la discussione,
bisogna riconoscere che un tipo di esistenza individuale e sociale
nel quale tutta quanta la condotta in tutta la sua esten¬ sione
porti sempre e soltanto piacere, non è, date le leggi
psisologiche conosciute, e non può essere, un fine.universalmente
desiderabile sopra ogni altro. Lascio di discutere se,
supposta una condotta, diciamo così per brevità, totalmente piacevole,
il piacere stesso non verrebbe a sparire, come stato di coscienza
distinto, per mancanza di quel con¬ trasto e di quell’ alternanza fra gli
stati psichici (così bene illustrata tra gli altri dall’ Hòffding),
senza della quale anche i godimenti più forti il¬ languidiscono e
vaniscono nella ripetizione abituale; e di considerare se la forma di
vita corrispondente non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche
ogni forma di coscienza riflessiva e di deliberazione vo¬ lontaria,
cioè l’intelligenza stessa e la volontà, al¬ meno nelle loro forme più
elevate riducendo la vita a una sorta di automatismo istintivo, al
quale corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli d’
uomini meccanizza ti. Certo, se si bada clic l’at¬ tenzione attiva è
sempre, in grado maggiore o mi¬ nore, sforzo, e clic lo sforzo è
alimentato princi¬ palmente, se non unicamente, dal dolore e non
dal piacere, bisogna riconoscere che la capacità dello sforzo e
l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a svanire collo sparir del
dolore; e il vigore dell’in¬ telligenza si affievolirebbe; come già si
può osser¬ vare in quelle persone sfaccendate e sonnolente, le
quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura tutto quel che
desiderano, e non sentano l’aculeo di altri bisogni, e di aspirazioni
diverse. E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a maggior
ragione per la volontà. Certamente le leggi psicologiche conosciute
ten¬ dono ad escludere, per le ragioni accennate sopra a proposito
dell’adattamento completo, che un tale stato possa avverarsi ; ma, dato
che potesse attuarsi, non ci sarebbe nessuna ragione per negare, in
forza delle medesime leggi, l’eventualità se non della soppressione, di
un oscuramento progressivo delle facoltà psichiche più elevate. E allora
si presenta subito la questione, se, ammessa pure soltanto la
possibilità che a un tale stato si accom¬ pagnasse questo effetto,
potrebbe una forma di esistenza siffatta apparire desiderabile sopra
ogni altra. Si potrebbe dire: Che importa l’oscura¬ mento e
anche la soppressione dell’ intelligenza e della volontà, purché sparisca
il dolore? E quando non vi siano altri bisogni e altri desideri che
quelli appunto che trovano già una soddisfazione adeguata, ossia, quindi,
non ci sia più nemmeno la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni diversi,
non è una tal vita nel suo genere beata ; anzi la sola beata perché é
esclusa la capacità di provare altri bisogni ? Ora che un
tale stato possa, anzi debba apparire il più desiderabile quando si
supponga l’adattamento già raggiunto, è fuori di contestazione; ma
qui si tratta di vedere se un tale stato possa essere preferibile
per chi ne ò fuori, e dovrebbe proporsi come scopo di raggiungerlo. Se,
cioè, a chi esercita certe forme di attività possa parere
desiderabile sopra ogni altro un tipo di vita, nel quale per
avventura quelle attività fossero oscurate o sop¬ presse. In questo caso
possono valere l’osservazione notissima del Mill e la ragione colla quale
la con¬ forta ; che, certo, non avrebbero valore nel primo caso
(1). Ma anche lasciando questo aspetto della que¬ stione, non
bisogna dimenticare che appunto perchè il piacere puro è il correlato
subiettivo dell’ adat¬ tamento completo, la medesima condizione di
una condotta totalmente piacevole, — per le ragioni dette a proposito
dell’indeterminatezza nel numero e nella specie dei (ini, rispetto ai
quali l’adattamento (1) « È meglio essere un nomo i nfelice che un
jjj^o.ap,ddi.sfotto : è meglio essere So crate malcontento che un
imbecille beato ». Ora la ragione addotta dal Mill vale per l’uomo, ma
non per l’animale, e l’Hoffding non ha torto di spendere, come egli dice
graziosa- munte, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’ imbecille.
E nota infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la soddisfazione
in¬ tera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare il
suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che la
conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche nell’uomo felice il
« desiderio ardente di giungervi » che è appunto ciò che <pii importa.
(Hoffding - Morale). potrebbe essere raggiunto — può concepirsi
attuata non in una sola ma in più forme di vita fra di loro diverse
; e resterebbe sempre da trovare un criterio comparativo della
desiderabilità, o da am¬ mettere che tutti i tipi di vita, per i quali
si concepisce possibile una conciliazione fra i tre ordini di fini
(anche se la conciliazione fosse ottenuta allo stesso modo che nelle
società animali, cfr. la nota qui sopra a pag. 79), siano ugualmente desi¬
derabili. Il che importerebbe la legittimazione a pari titolo di forme di
condotta fra di loro diverse e anche opposte; e si dovrebbe ricavare
daltronde che dal piacere puro il fondamento della legitti¬
mazione. E qui tocchiamo un argomento il quale si al¬ larga
fuori del campo particolare della dottrina dello Spencer e riguarda nello
stesso tempo una questione più generale: la natura del fine.
6. — Siccome il carattere che si richiede nel fine assunto a
giustificare le norme morali è, come s’è ripetutamente detto, quello
della universale e preminente desiderabilità sopra ogni altro, si
pensa che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo e
supremo ; uno stato definitivo , oltre il quale, e al di là, non ci sia
più nulla da desiderare e da cercare. E allora non resta che questa
alternativa : o si cerca un fine il quale contenga e comprenda in
sò tutti i fini ; e prendono forma i fantasmi di felicità, di beatitudine,
di perfezione, noi quali si fd"-'.- figurano definitivamente
appagati tutti i desideri, e scomparsi o sommersi quelli che non vi
trovano appagamento ; oppure si considera come fine la forma colla
quale si presenta alla coscienza la soddisfazione di qualsiasi desiderio;
cioè il piacere o la liberazione dal dolore. Ma tanto 1’ una
quanto l’altra delle soluzioni non sono che apparenti, o si risolvono in
una vana tautologia. Porre come fine la felicità senza deter¬
minare quale sia o in che consista la felicità di cui si discorre, è
certamente un modo per conciliare verbalmente tutte le differenze di opinioni
e supe¬ rare tutte le difficoltà; ma nella realtà non le concilia e
non le supera, più di quel che valgano a togliere le diversità di
opinioni politiche e a raccogliere i partiti ad unità di intenti certi «
or¬ dini del giorno » in cui si afferma all’ unanimità essere fine
supremo per tutti il « bene della patria » o la « prosperità della
nazione » o altre formule somiglianti. E se si determina in
che si faccia consistere la felicità, quali siano i fini che si
comprendono nel fine unico chiamato con questo nome, allora delle
due l’una : o i diversi fini così compendiati e com¬ presi nel fine
unico, sono veramente unificati, e, perchè ciò sia. occorre che essi
possano ridursi ad uno; e quindi diesi possa dimostrare che uno fra
essi è causa o condizione degli altri, o che tutti dipendono da
una medesima condizione o ordine di condizioni ; e in questo caso la
felicità è caratte¬ rizzata o da quel fine o dal conseguimento di
questa condizione, che diventa esso fine, perchè su esso si riversa la
desiderabilità di tutti ; e il ter¬ mine felicità non è che.un duplicato
di quel certo fine o di questa condizione. Oppure i diversi fini
non sono clic sommati insieme, e giustaposti l’uno all’altro, rimanendo
in realtà distinti e senza che si veda la necessità della loro
connessione; e allora 1’ unità non è che verbale, e in realtà invece
di un fine, si hanno più fini, ciascuno nel suo genere
supremo. Si dirà che si dà alla felicità non il senso di un
certo contenuto determinato che la costituisca, ma il senso di
appagamento dei desideri, di soddi¬ sfazione dei bisogni, senza clic si
definisca quali ne siano per essere il numero e le specie; nel qual
senso si può affermare che la felicità rimane sempre il fine ultimo pur
restandone indeterminato il contenuto ? E si riesce allora alla seconda
alterna¬ tiva, di considerare come fine ciò che si ammette esservi
di comune e di costante nel raggiungimento di qualsiasi fine; cioè, come s’è
detto, la forma sotto la quale si presenta la soddisfazione di qua¬
lunque desiderio : il piacere o la liberazione dal dolore. Ma dire che il
fine ultimo è il piacere è come dire che il line ultimo è il godimento
che accompagna il raggiungimento del fine o dei fini, o che lo
scopo dei desideri è.... la soddisfazione dei desideri. E allora si vede
perchè il puro piacere non possa dare un criterio di legittimazione e
di valutazione comparativa dei fini e quindi delle forme di
condotta. Perchè o si prende come criterio la quantità del piacere, la
intensità della soddisfazione, senza badare alla natura del desiderio a
cui corrisponde, e non è possibile assegnare un solo desiderio che
abbia lo stesso valore, nonché per due coscienze diverse, neppure per la
stessa coscienza in momenti diversi. 0 si valuta la soddisfazione
secondo i desideri cui corrisponde, e allora ciò che distingue un
desiderio dall’altro non è la soddisfa¬ zione ma V oggetto a cui il
desiderio si rivolge; non l’effetto soggettivo gradevole, ma le
condizioni che lo producono, non è il godimento del bene, ma il
bene. Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco : nell identificare il b
ene col piacere ; il fine, cioè l’ordine di effetti che costituisce l
’oggetto del desiderio, collo stato soggettivo che è il godimento
(quando ci sia) del fine raggiunto. È bensì vero che un bene di cui si
concepisse che nessuno mai potesse godere in nessun modo, non avrebbe
valore di bene; ma è non meno vero che un godimento del quale non
si sapesse assegnare nessuna causa o condizione o mezzo atto a produrlo,
non potrebbe mai essere proposto o assunto come scopo di un'at¬
tività qualesivoglia. Ora quando si parla di un fine desiderabile sopra
ogni altro al quale sia or¬ dinata la condotta, non si può intendere che
un bene, il quale sia bensì, direttamente o indiretta¬ mente causa
o mezzo o condizione di godimento, senza di che non sarebbe bene; ma che
non può consistere nel godimento stesso, ma in un certo effetto o
ordine di effetti determinabile e possibile, che possa costituire
l’oggetto di una ricerca attiva, •cioè di una certa condotta (1).
Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso e quivoco che conduce
a riporre il fine nella feli - cità o nel piacere ; l’equivoco che
questo effetto o ordine di effetti debba costituire un fine ultimo,
uno stato definitivo, al di là del quale non siano assegnabili altri
fini. Uno stato, o un ordine di effetti definitivo è contraddittorio non
soltanto colle leggi della vita, per le ragioni già dette, ina col
presupposto stesso fondamentale che si assume di necessità quando si
voglia determinare scientifi¬ camente un sistema di norme. Perchè
qualunque (1) Non altrimenti avviene nel campo speciale
dell’economia. E bensì vero che se non si supponesse la possibilità del
consumo, cioè del godimento dei diversi beni che costituiscono la
ricchezza, questa non avrebbe valore, e non avrebbe senso la produzione ;
ma 1’ oggetto a cui si volge 1* attività produttrice e del quale si
cer¬ cano le leggi, è la ricchezza, non il consumo. fine
rappresentato come umanamente possibile, ap¬ punto perchè deve essere
concepito come un effetto, che si produce, date certe condizioni, è a sua
volta pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo ad altri
fini. Pensare un effetto naturalmente pos¬ sibile che sia ultimo, è come
pensare chiusa e fi¬ nita a un momento dato la serie della
causazione, abolita e spenta in un effetto che sia stato pro¬ dotto
ogni efficacia causativa ; e allora vien meno ogni ragione di pensare
come dipendente da certi mezzi, cioè da certe cause, anche l’effetto
stesso che si considera come fine ultimo; e quindi è tolto ogni
fondamento a qualsivoglia determinazione di rapporti tra mezzi e fini, e
perciò anche a qual¬ siasi determinazione di norme. Si dirà
che si intende « ultimo » rispetto alla salutazione, cioè talea cui si
riconosca valore per sé, indipendentemente da ogni considerazione
ulteriore. Ma se si ammette che da quel fine, quando sia rag¬
giunto, dipendono altri effetti, nell'atto stesso che lo si pensa
condizione di tali effetti ulteriori, la valutazione di questi (che non
può essere esclusa) •muta il valore del fine egli dà nello stesso
tempo valore di mezzo. Dal che nasce questa conseguenza assai
notevole: che la desiderabilità di un ordine di ef¬ fetti, che si assuma
come fine, non viene tanto dalla desiderabilità che gli si riconosca come
bene. cioè come oggetto diretto e immediato di
godimento, quanto dalla desiderabilità degli effetti, dei quali
esso apparisca la condizione necessaria. E che per¬ ciò, mentre è vano
andar cercando quale sia il fine ultimo, il quale non si trova mai, o si
risolve in una pura espressione verbale, il fine che può valere
come supremo si deve cercare non nell’uno o nell’altro degli scopi a cui
si riconosca valore per sè, ma in un ordine di effetti, in un sistema
di condizioni, dato che sia assegnabile, nel quale si possa
riconoscere questo carattere appunto di con¬ dizione necessaria, non di
alcuni, ma di tutti quei beni, ai quali si attribuisce valore per sè. E
quindi il fine che può avere universalmente una deside¬ rabilità
superiore a ogni altro, non può consistere se non in un ordine generale
e, si potrebbe dire, preliminare di condizioni, la cui attuazione
appa¬ risca necessaria perchè sia possibile universalmente la
ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè supremo nel senso di
una gerarchia, della qiiale segni il culmine, nè nel senso di una
grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso della
precedenza necessaria o della indispensebilità; per la quale venga a
raccogliersi su di esso come in un unico foco la luce e il calore di
desiderabi¬ lità che irraggia dai fini ai quali apre universal¬
mente la via. E perciò, ammesso che qualsivoglia fine
umano abbia, come ha in realtà, per condizione la convi¬ venza e la
cooperazione sociale, il line che può avere questo valore di precedenza
necessaria sugli altri deve essere di necessità il raggiungimento o
il mantenimento di certe condizioni ili convivenza e di cooperazione
sociale, cioè di una qualche forma di società. Ma perchè ad una forma di
so¬ cietà possa essere riconosciuto questo carattere uni¬
versalmente, occorre che le condizioni della sua esistenza abbiano per
tutti un valore potenzial¬ mente uguale : ossia che nessuno dei fini, dei
quali quella forma di cooperazione pone la possibilità e dai quali
attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa
forma, precluso o impedito a nessuno dei componenti la società. 0, in
altri termini, sia qualsivoglia il fine che si suppone cercato,
ciascuno trovi nelle condizioni proprie di quella forma sociale la
medesima esteriore possibi- bilità di rivolgere a quella ricerca
l’attività pro¬ pria. che vi trova qualsiasi altro (1).
L’analisi ci ha dunque portato a queste con¬ clusioni : a
riconoscere che il limite dell’evoluzione, 1’ adattamento completo, la
massima felicità, nè for- (1) Il che non implica, occorre appena
avvertirlo, una ugua¬ glianza nei risultati ottenuti, o come si dice
inesattamente, una « uguale distribuzione di felicità » la quale
supporrebbe, insieme colla condizione notata, anche una uguaglianza di
attitudini, di at¬ tività e di preferenze. nisce un criterio
ili determinazione delle norme, nò basta come principio di
giustificazione; a rico¬ noscere la legittimità del concetto, clic
bisogna assumere come fine un tipo ideale di società ; e a
stabilire le esigenze fondamentali, alle quali questo tipo deve
soddisfare. Ed ora è facile vedere per quali ragioni i l tipo
sul quale in realtà lo Spencer ha modellato la sua società giusta non
soddisfaccia a queste esigenze. Gap. Vili. — Il tipo di società
giusta dello Spencer . In un articolo di risposta ad alcune
cri¬ tiche mosse ai « Dati dell’ Etica » lo Spencer po¬ lemizzando
col prof. Means così si esprimeva a proposito del modo di intendere la
giustizia: << A molti sembra ingiusto che la dura fatica di un
bi- folcogli faccia guadagnare in una settimana meno di quanto un
medico guadagna facilmente in un quarto d’ora. Molti sostengono essere
ingiusto che i figli del povero non possano avere i vantaggi del
l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma quest e defi cenze nelle
quote di felicità che alcuni ritrag¬ gono dalla cooperazione, sicc ome
clerivano da ere¬ ditata inferiorità di natura, o da inferiorità di
c oMizioniMn cui i loro antenati inferiori sono c a- ^ ~ ^ cinti, sono
deficienze colle quali la giustizia, come io la intendo, non ha nulla che
fare. L’ingiustizia che trasmette alla discendenza malattie c
deformità, l’ingiustizia che infligge alla prole le conseguenze
penose delle stupidità e della cattiva condotta dei genitori, la
ingiustizia che costringe quelli che ereditano delle inc apac ità, a
lottare colle difficoltà clic ne derivano, l’ ingiustizia che lascia in
relativa p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or - <
1 i ne inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6 una specie di ingiustizia
estranea alla mia tesi ». il i cose stab ilii'-, quantunque in
forza di esso, una ' inferiorità della quale l’individuo non ha
colpa produca i suoi mali, e una superiorità della quale egli non
può vantare nessun merito, apporti i suoi benefìzi; e dobbiamo accettare,
come possiamo, tutte quelle disuguaglianze che ne deri vftrm
vantaggi che i cittadini si procacciane rispettive attività
» (1). Ho citato questo passo, non perchè gli stessi con¬
cetti qui espressi non siano, esplicitamente o impli¬ citamente,
sostenuti in tutta quanta la sociologia e la morale dello Spencer, ma
perchè forse in nessun altro luogo appare piu manifesto il presupposto
che vizia la sua concezione della società ideale. Assu¬ mendo come
elemento del concetto di giustizia — accanto a quello dell’ uguale
libertà — la condi¬ li) Replie to Criticism on « The Data of Etihcs » in
Mind. zionc ricavata dalla biologia, che la vita progre¬ disce c si eleva
soltanto a patto che gli individui superiori godano i vantaggi della loro
superiorità e gli inferiori subiscano i danni della loro inferio¬
rità, egli identifica la inferiorità fisiologica e psi¬ chica colla
inferiorità sociale; la inferiorità obesi potrebbe chiamare nativa o
costituzionale colla inferiorità clic si potrebbe dire di posizione.
Ora, che un uomo debole non possa vincere le medesime resistenze
che uno forte, che un bambino poco intelligente impari meno e peggio di
un in¬ telligente, è naturale e necessario; ma non si può dire che
sia giusto nè ingiusto. Che i figli eredi¬ tino F ingegno o l’ottusità,
la sensibilità o l’in¬ sensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori,
e che i primi godano i vantaggi e i secondi sop¬ portino i danni
che sono conseguenza rispettivamente di questa loro soperiorità o inferiorità
ere¬ ditata, sarà del pari biologicamente necessario, ma non è
ancora nè giusto nè ingiusto; diventa bensì giusto o ingiusto rispettare
o violare questa rela¬ zione naturale, soltanto se si considera questa
re¬ lazione come condizione di una elevazione pro¬ gressiva delle
specie che sia assunta come effetto universalmente desiderabile, cioè
come fine. Ma che i figli del contadino non abbiano la pos¬
sibilità di venire istruiti o educati, non dipende dalla costituzione
fìsica e mentale loro propria, ereditata o no, ma dipende da una inferiorità
sociale, la quale toglierebbe ad essi questa possibilità anche se
la loro costituzione fisica e mentale Cosse attis¬ sima a questa coltura.
Ora, mentre l’analogia della selezione biologica importerebbe che i figli
del con¬ tadino al pari di quelli del lord potessero porsi allo
stesso cimento, salvo a ricavare dalle loro ri¬ spettive capacità e
sforzi frutti maggiori o minori, la diversità delle condizioni sociali esclude
gli uni dalla gara c toglie non solo la necessita ma la pos¬
sibilità clic l’opera di selezione si rinnovi tra i superstiti di ogni
nuova generazione sull’unico fon¬ damento delle loro rispettive
attitudini e attività. Sul che non è necessario insistere dopo le critiche
note e ripetute ; ma valga l’accenno per ri¬ levare che a torto lo
Spencer identifica colla infe¬ riorità biologica, o meglio,
costituzionale, l’infe¬ riorità clic deriva dalle condizioni sociali, e
crede che possa valere a giustificare le conseguenze della seconda,
lo stesso fine che invoca a giustificare le conseguenze della prima.
Perchè la limitazione alla sfera dei beni conseguibili che è imposta da
con¬ dizioni esteriori è cosa affatto diversa dalla limi¬ tazione
clic nasce dalla capacità e dalle doti in¬ trinseche; e se questa è
giusta, posto che si prenda per fine superiore a ogni altro V elevazione
della specie (e dato che ne sia condizione), quella è giusta
soltanto se si considera come fine superiore quella certa
forma ili cooperazione sociale che la rende necessaria. Anzi quella
limitazione d’origine sociale che si ponga come giusta per quest’ ultimo
rispetto, appare ingiusta per l’altro. E l’ammettere che sia giusta la
condizione « che ciascuno sopporti i danni della sua inferiorità e goda i
vantaggi della sua superiorità » non include, ma piuttosto esclude
1 altra condizione, a torto dallo Spencer compresa o conglobata con
quella ; che ciascuno sopporti i danni o goda i vantaggi che sono
con¬ seguenza di una inferiorità o di una superiorità, la quale
risulta non dalle sue doti fisiche e men¬ tali, ma dalla assenza o dalla
presenza di certe cir¬ costanze esteriori. E in verità
sarebbe da meravigliare che lo Spencer non abbia rilevato la differenza,
o non ne abbia tenuto conto, se non si ricordasse che il punto di
partenza, il foco centrale da cui muove e attorno a cui si raccoglie la
sua speculazione, è, come s’ò detto in principio, un ideale etico,
anzi propriamente sociale e politico; onde l’intento prin¬ cipale
diventa quello di trovare la giustificazione del suo ideale nelle leggi della
vita, e per esse nelle leggi stesse dell’ universo. l ( h Ora
il suo ideale sociale e politico è in sostanza quello stesso del
liberalismo, in cui crebbe e si maturò il suo pensiero, che era già
compiuto e definito nelle sue parti quando uscì il « Prospectus » (1800);
e perciò nel costruire la sua « So¬ cietà di uomini giusti », per quel
che si attiene alla struttura sociale, egli non fa che supporre
rea¬ lizzati i desiderati teorici, o già riconosciuti espres¬
samente, o ricavati logicamente dai postulati eco- n omici e politici di
quel liberalismo . 11 quale era bensì arditamente coerente nella
affermazione dei principi e dei corollari riassunti nella formula
della giustizia (la uguale libertà per tutti), ma conside¬ rava o
come anteriori ed estranee a questa legge, o come naturali ad un tempo e
conformi ad essa, le dive rsità storicamente date di condizione econ
o- mica degli individui e delle classi socia li. Onde lo Spencer
non tenne conto della disuguaglianza ef¬ fettiva, che nell’ esercizio di
quella libertà, formal¬ mente uguale per tutti, porta 1’ esistenza di
quella diversità, che egli credeva giustificata dalle leggi
biologiche . 1 frinii* • Ne segue che mentre nella sua società
ideale egli costruisce l’individuo giusto facendo astrazione da
tutto ciò che nei fini individuali vi può essere di incompatibile non
solo colla cooperazione, ma anche colla simpatia ; n el costruire invece
la so - cietà giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma di aggre
ssione esterna e interna che si esercit i, dato « lo stato di cose
stabilito », ma non fa astrazione da quelle con dizioni che importano una
reale li¬ mitazione diversa nella sfera delle attività é dei fini
conseguibili dei singoli ; e però la sua non è una società giusto, ma una
società di uomini giusti ; giusti, dirci, secondimi quid; la cui
giustizia, cioè, è modellata sulle esigenze di una certa struttura
sociale, nel configurare la quale egli non tien conto di quelle
condizioni che pur suppone soddisfatte nel formare il tipo dell’ uomo
giusto. E cosi si avvera qui una i n eoe ronz a del genere
che si ò accennato più sopra (IV, 8): che le norme della sua giustizia
siano applicate a regolare delle relazioni derivate, le quali esistono e
sono possibili in grazia di relazioni primarie e fondamentali, che
le norme non contemplano e che sono la negazione del criterio applicato
in quelle. Perchè mentre sup¬ pone che gli individui seguano nella loro
condotta una perfetta imparzialità subordinando alle esi¬ genze
della giustizia o dell’ uguale libertà — fine prossimamente supremo —
tutti gli altri fini ge¬ nerali e particolari, suppone poi, come proprie
di una tale cooperazione di uomini giusti, condizioni che sono in
tutto o in parte la negazione dell’im¬ parzialità, e che non
esisterebbero se lo stesso cri¬ terio dell’ imparzialità fosse seguito
nel costruire il tipo della società giusta. E in questo senso
che, accennando incidental¬ mente altrove all’Etica Assoluta dello
Spencer, no¬ tavo come un vizio di essa non un eccesso, ma
piuttosto un difetto di astrazione; perchè egli assuine abusivamente come
esigenze costanti e universali di ogni forma di cooperazionc, e quindi
anche del suo tipo ideale, le condizioni proprie di un certo momento
storico; e pone come dati fon¬ damentali di una cooperazione regolata
dalla legge della uguale limitazione per tutti, delle condizioni
che importano una limitazione disuguale. Stando così le cose, il
raggiungimento o l’ap¬ prossimazione a un tale tipo di società, non
può apparire come fine universalmente preferibile, nè le norme che
esprimono la condotta richiesta da quel tipo possono avere carattere di
universale os- servabilità sopra ogni altra, E ciò da un doppio
punto di vista. Agli individui delle classi sociali poste, per
ef¬ fetto di quella disuguale limitazione, in condizione di
inferiorità, questa inferiorità che non è conse¬ guenza della propria
condotta, deve apparire una menomazione ingiusta dei diritti; agli
individui delle, classi sociali poste in condizioni di superiorità,
questa superiorità, che parimenti non è conseguenza della propria
condotta, deve apparire, se la coscienza si elevi a una imparzialità
universale e coerente, una menomazione ingiusta dei doveri, E
nasce di qui quel se greto rancore in chi riceve, e quel senso indefinito
di malcontento e quasi di rimorso in chi dà, clic avvelenano
talvolta dalle sorgenti la simpatia, oscurando la serenità della
beneficenza, se la accompagni il dubbio che essa non sia se non un
compenso parziale e tardivo di ingiustizie patite e di ingiustizie
godute. La simpatia non può essere schietta dove non regna la
giustizia (1); e non si possono definire le forme e i limiti della
beneficenza se non dopo die siano definite, e siano o si suppongano
osser¬ vate le norme della giustizia; onde la necessità
logica che il tipo ideale della società giusta sia determinato all’
infuori da ogni supposta efficacia modificatrice che la simpatia e la
beneficenza eser¬ citino sulle condizioni e sulla condotta dei
singoli e della società. Soltanto così è possibile accertare se il
tipo di cooperazione assunto come ideale possa essere universalmente
desiderabile, e soltanto così è possibile determinare dove la giustizia
finisca e la beneficenza cominci ; dove finiscano le relazioni di
diritto e dove comincino le relazioni di simpatia. Ora il tipo di società
ideale dello Spencer pre- i cti'Qlf senta anche questo difetto che
deriva inevitabil- mente dal primo; di supporre realizzate le
condi- yCH&Ue'ìt- f zioni della
perfetta simpatia in una società nella (1) Questo si riflette con
tutta chiarezza nella pratica quando si tratta di rapporti semplici e
sulla giustizia dei quali non cada dubbio; poniamo tra due commercianti
onesti che abbiano relazioni d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli
scambi di cortesie che sono frutto della simpatia, non mutano di un ette
i diritti e gli obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano
e tingono d’ altro colore i rapporti di simpatia. quale non sono
realizzate le condizioni della giu¬ stizia. La sua società è una società
più o meno ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla
quale egli ricava per un verso le norme della giustizia, e per l’altro le
norme della simpatia; invece di essere una società giusta di uomini giusti,
quando si tratti di determinare le norme della giustizia ; e una società
giusta di uomini perfetta¬ mente simpatizzanti quando si tratti di
determinare le norme della simpatia e della beneficenza. Ma
anche supposto che per questa guisa la perfetta simpatia venga a sanare
gli effetti delle inferiorità imposte dalla cooperazione sociale,
il tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo difetto: che la
ricerca e il raggiungimento di alcuni dei fini, ai quali la cooperazione
serve, apparirebbe per una parte dei cooperanti subordinata alla
be¬ nevolenza di un’ altra parte. Il qual difetto baste¬ rebbe per
togliere, nel giudizio di una coscienza imparziale, a quel tipo di
cooperazione il carattere di univers ale preferibilità. Ma il
difetto era, come s’ò detto, dato il presupposto dello Spencer,
inevitabile. La simpatia è pe r lui il m ezzo di conciliazione
dell’egoismo col l’altruismo. M a poiché i limiti rispettivi
dell’e- goismo e dell’altruismo sono segnati dalle esigenze del suo
tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo la condizione
dell’adattamento psicologico dei singoli a queste esigenze. Ed ò caratteristico
a questo riguardo il latto che il capitolo, nel quale si tratta
dello svolgimento progressivo della simpatia come l’attore della conciliazione
, porta lo stesso titolo e sostituisce nei « Dati » il capitolo smarrito
e ag¬ giunto poi in appendice, che ho citato più sopra (v. nota a
pag. 70), nel quale si cita come esempio di conciliazione tra l’egoismo e
l’altruismo l’adat¬ tamento alle esigenze della vita sociale delle
api e delle formiche. Per questo rispetto direi, se non sembrasse
un paradosso, che il grande assertore e propugnatore dell’individualismo,
è in fondo, senza che se ne accorga, un difensore della subordinazione
totale e definitiva dell’individuo a un tipo di coo¬ perazione sociale,
che egli considera bensì come la condizione necessaria alla vita più
elevata delPin- dividuo e della specie, ma che in realtà vincola il
grado di elevazione della vita di un gran numero se non di tutti gli
individui, alle esigenze di una certa struttura economica. E
quando egli combatte l’intervento della società nel regolare i rapporti
economici, in nome dei diritti dell’individuo, dimentica che una parte
con¬ siderevole di quei diritti, sono in realtà diritti di alcuni
soltanto, e non di tutti, c che questa dispa- 0 rità ha la sua radice
nella costituzione economica, che lo Stato, come egli lo vuole,
interviene pure a sancire e a difendere. La quale
osservazione, giova notarlo, non vale per sè nè prò nè contro il
cosidetto Socialismo di Stato; vale soltanto a provare che
l’individualismo dello Spencer non è, come pare, un individualismo
universale, ma un individualismo particolare. Cosi, i l
difetto capitale del tipo di società dello Spencer come in genere del
cosidetto « Stato di diritto » nasce non da quel che afferma, ma da
quel che dimentica ; non dal riconoscere e difendere le esigenze della
uguale libertà per tutti, ma dal non riconoscerle tutte; cioè dal
trascurare o dal- 1 omettere, come se fossero soddisfatte, mentre
non sono, le condizioni che rendono possibile 1’ uguale libertà
(1). E, ad esprimerlo in termini kantiani, il difetto si
riduce a questo: Dove vi è cooperazione con effettiva parità di diritti,
ciascuno dei cooperanti ha ad un tempo riguardo a qualsiasi degli
scopi della cooperazione, per un rispetto ragione di mezzo e per
l’altro ragione di fine. Se invece le esigenze della cooperazione
interdicono a qualsivoglia dei Nota LORIA che quando si grida
contro la concorrenza come causa di una infinità di mali, si attribuisce
alla concorrenza la produzione di effetti che nascono « dalla mancanza di
concorrenza, cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto
nel campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza
benefica. Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione , e sono il
ri¬ sultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della
mancanza di concorrenza fra lavoratori e capitalisti ». ( Cost. Ec.
odierna 0. 11. 3. 6. ; p. 175, cfr. anche p. 60 e passim).
cooperanti la ricerca di una parte dei beni, a cui ò CONDIZIONE
NECESSARIA LA CO-OPERAZIONE DI TUTTI,per questa parte 1’ escluso ha soltanto RAGIONE
DI MEZZO, e non RAGIONE DI FINE. Il che avviene appunto, malgrado
il riconoscimento formale, o meglio, verbale, della uguale libertà, anche
nella società ideale dello Spencer. La quale perciò non può aver valore
di universale e preminente desiderabilità perchè non soddisfa alla
condizione richiesta : che tutti i sodi trovino nelle condizioni di
esistenza della società la mede¬ sima o equivalente possibilità esteriore
di rivolgere la loro attività alla ricerca di QUALSIVOGLIA DEI BENI, AI
QUALI LA CO-OPERAZIONE SOCIALE E MEZZO. Questo è il POSTULATO CARATTERISTICO
DELL’UNIVERSALE DESIDERABILITA DI UNA FORMA DI CONVIVENZA, ossia è il postulato
caratteristico della giustizia; e supporre una società giusta di uomini
giusti equivale a supporre riconosciuta e applicata universalmente e
costantemente in qualunque specie di azione o di influenza che si
eserciti, così dalla società come da ciascuno dei singoli, l’esigenza
di quel postulato. Ufficio e limiti (li una costruzione scien¬
tifica dell’ Etica. La società giusta così intesa non rappresenta dunque
un tipo definitivo della vita più elevata possibile, analogo ai tanti
regni dell’Utopia che la fantasia morale ò venuta fingendo nei
diversi tempi. Anzi per questo rispetto una mag¬ giore o minore
elevatezza, complessità o intensità di vita, di attività, di fini, non ò
affatto implicita nel postulato nè si può ricavare da esso ; e si
può concepire (e non ne mancano in effetto gli esempi) una forma di
società in cui sia, almeno parzialmente^ l'aggiunto un grado assai
elevato di civiltà, la quale sia tuttavia meno giusta di un’altra
più semplice e meno civile. Appunto perchè la giustizia riguarda la
universale possibilità di cercare i beni, ai quali E CONDIZIONE la
convivenza e LA CO-OPERAZIONE SOCIALE, e non include che questi beni
siano di molte o di poche specie, di maggiore o di minor
pregio. Onde è pienamente compatibile col postulato anche la
concezione pessimistica della vita ; perchè, anche dal punto di vista del
pessimismo, uno stato di giustizia, che è la condizione necessaria
della universalità della simpatia e quindi della compas¬ sione,
deve apparire preferibile a ogni altro. E se anche si riguardasse come
fine ultimo la negazione universale della volontà di vivere, lo stato di
giustizia apparirebbe la condizione più favorevole perchè 1’ uomo prenda
coscienza della necessità naturale c inevitabile della propria
infelicità, spongliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e
contingente, ed effetto di malvagità degli uomini o di iniquità degli
istituti sociali. E QIESTA DESIDERABILITA dello stato di giustizia anche
rispetto al pessimismo è forse una conferma non trascurabile del
valore di universale preferibilità che gli si è riconosciuto, e a un
tempo della sua indipendenza da ogni particolare concezione metafisica.
Adunque, poiché uno stato di giustizia non è caratterizzato da
altro se non dall’ ipotesi che le esigenze di quel postulato siano
soddisfatte, non si può nè si deve pretendere di ricavare dal postulato
un contenuto determinato, ma soltanto la forma generale delle norme. Il
contenuto specifico deve essere ricavato dai fini, ai quali SI RICONOSCE
O SI SUPPONE CHE LA CO-OPERAZIONE SOCIALE SIA O DEBBA ESSERE MEZZO, e in
relazione al quali si possano definire le condizioni richieste dal
postulato della giustizia. Quali siano questi fini non si può
stabilire se non o per constatazione o per ipotesi. Per constatazione,
quando corrispondano alla osservazione della realtà psicologica in un
dato momento storico, ossia in una forma di civiltà. Per ipotesi, quando
si voglia cercare preliminarmente quali sa¬ rebbero le condizioni
richieste dalla possibilità di ciascuno dei fini isolatamente preso o di
un gruppo. (Ed è inutile a questo proposito insistere qui sulla
eventuale opportunità o necessità di ricorrere a tali ipotesi specialmente
nelle ricerche, come questa, nelle quali non è possibile la
sperimentazione). Ma tanto nell’uno quanto Dell’altro caso le
condizioni che se ne ricavino e che vengano sta¬ bilite come proprie del
tipo di società giusta considerato, presentano questo carattere : che non
sono date, ma costruite, che non sono reali, ma ideali. Ora, se noi
determiniamo quali siano le norme di condotta corrispondenti a quelle
condizioni, queste norme esprimeranno quale sarebbe il modo di operare
nella supposizione che esse siano già date e reali, e non quale sia il
modo di operare che tende a realizzarle, mentre sono date condizioni piu
o meno diverse. La prima determinazione è oggetto di un’
Etica Pura : la seconda di un ' Etica Applicata, nella quale si
consideri come fine il raggiungimento delle condizioni ideali che sono assunte
nell’ Etica Pura, e si stabilisca per approssimazione quale sia in
un dato momento storico la condotta sociale e individuale, che, nei
limiti necessariamente imposti dalle condizioni reali date, ò più atta a
favorire la tra¬ sformazione di queste nella direzione segnata da
quelle. Soltanto così l’Etica può evitare un errore del genere di
quello nel quale cadevano gli economisti della scuola Classica ; i quali,
dopo aver supposto l 'homo oeconomicus mosso unicamente
dall’interesse personale, il che avevano diritto di fare, lo consi¬
derarono poi come reale e die dero valore di leggi n aturali e necessarie
alle conclusioni ricavate da questo e dagli altri dati astratti supposti
(1). Ora appunto percliò le condizioni soggettive e oggettive dell’
homo iustus e della societas insta, sono supposte e non reali, le norme
che esprimono quale sarebbe la condotta dell’ homo iustus e della
societas iusta non sono immediatamente nè integralmente appli¬
cabili in condizioni diverse dalle supposte. I « do¬ veri » e i « diritti
» dell’ uomo giusto nella so¬ cietà giusta non coincidono coi doveri e i
diritti dell’ uomo storico in determinate condizioni sto¬ riche;
alla stessa guisa che i « diritti naturali » dei filosofi dello stato di Natura
non coincidevano coi diritti positivi delle società in cui
vivevano. Ma se si dà valore di fine all’attuazione delle con¬
dizioni proprie della societas iusta, i doveri e i di¬ ritti 1 dell’ homo
iustus diventano il modello al quale si riconosce desiderabile che cerchi
di avvicinarsi il sistema di doveri e di diritti che vale come
giusto in una società reale data. Alla stessa guisa, se la costituzione
di una società foggiata in conformità all’ipotesi dello Stato di Natura e del
CONTRATTO, si fosse riconosciuta (con verisimiglianza maggiore ed
evitando la confusione fra giustifica¬ ci) Cfr. Ch. Gide.
Principes d’ éc. poi. p. 20-22. zione etica e spiegazione storica)
come fine da rag¬ giungere invece che come stato originario, il « diritto
naturale » ricavatone sarebbe legittimam ente apparso come il tipo
idealmente giusto, al quale il diritto positivo doveva avvicinarsi e
adattarsi. Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare i
dati ipotetici coi dati reali, c la pretensione uto¬ pistica di applicare
direttamente e integralmente le conclusioni ricavate dai primi alle
relazioni che sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un
tempo e la 1 ( frittimi t à della distinzione, e la prio¬ rità logica
dell’Etica Pura surf mica Applicata. Raccogliamo in breve i resultati dell’
analisi. Una scienza normativa etica non differisce dalle altre
scienze precettive se non pe ^ il valore, che si ^ attribuisce al line
suo: il quale deve essere des i¬ d erabile univ ersalm ente jyjjma e_a
preferenza di ogni a ltro , se si vuole che sia riconosciuto lo
stesso carattere alle norme ricavate da esso. Questo fine
universalmente preferibile non nuò essere che un fine relativamente
prossimo, il quale (abbia o no anche valore per sè) sia mezzo o condizione
di tutti i fini che si considerano come « ultimi » ; e quindi non
può essere che una forma di convivenza e di */ . amw*
(l) Per maggiori chiarimenti sulla relazione fra le due Etiche cosi
intese e sulle parti di ciascuna, mi sia lecito riferirmi a quanto ebbi
occasione di dire nei « Prolegomeni ecc. » già citati. coopcrazione,
nella quale 1’ universalità dei singoli possa riconoscere tale requisito.
Ma una società siffatta ò supposta, non reale, e le norme di con¬
dotta che se ne ricavano regolano delle relazioni che sono parimenti
assunte per ipotesi, e non sono perciò applicabili direttamente a
relazioni più o meno diverse. Tuttavia la loro determinazione è non
soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal punto di vista scientifico
alla determinazione delle norme che debbono regolare le relazioni più
com¬ plicate della realtà ; necessaria dal punto di vista etico
alla giustificazione di queste norme ; perchè esse sono valide in quanto
esprimono ravvicinamento, nei limiti del possibile, di queste relazioni
reali a quelle relazioni ideali. Il che viene a dire che l’Etica Pura
fornisce all’Etica Applicata il criterio per determinare le norme, e il
valore che le giustifica. Ma non bisogna dimenticare che le
norme, sia dell’Etica Pura, sia dell’Etica Applicata, hanno il
valore che si assegna a loro, nella ipotesi fonda¬ mentale che si accetti
come valido e fuori di conte- stazione il postulato della giustizia.
Ossia hanno valore se si suppone che ogni « socio » riconosca che
una forma di convivenza e di cooperazione nella quale ciascuno abbia,
quanto alle limitazioni esterne, valore di fine a pari titolo di
qualunque altro è preferibile a una forma di cooperazione nella
quale una parte dei <? socii » abbia, per uno o più rispetti, soltanto
valore di mezzo e non di fine. Quindi, è bensì vero clic
l’assunzione di quel postulato è la condizione necessaria all’
universale riconoscimento della norma, e clic perciò, se si pone
come caratteristica della norma morale 1’ u- niversalità, rinunciare a
quello vuol dire rinunciare a questa ; ma ciò non toglie che si debba
affermare chiaramente e senza sottintesi che il sistema di norme
per tal guisa stabilito ha, come qualunque altro sistema di norme, del
quale si richieda una giustificazione, valore ipotetico ; e che perciò
questo valore ò incontestabile solo in quanto si riconosce
incontestabile il postulato. Appare di qui che è vano e illusorio
cercare la giustificazione di una norma morale nelle leggi |
naturali. Perchè ciò che giustifica una norma di condotta non è la
naturalità, ma la desiderabilità dell’ effetto contemplato ; e le leggi
naturali stesse possono apparire giuste od ingiuste secondochè si
assumano come universalmente desiderabili o no i resultati, ai quali la
conformità della condotta / ' fi 1 affo irafic-li itr
[v yJ.tA ttfilk t**' he* ìtU 'o jqie j. (1) La
conoscenza delle leggi naturali suggerirà i mezzi neces¬ sari a
raggiungere un fine; e darà modo di giudicare della come- yuibìlità di
questo o quel fine che eia proposto ; ma non serve a dar valore di
universale desiderabilità a un ordine di effetti, per il solo fatto che
ce ne riveli la produzione « naturale » a quelle leggi conduce, o ò creduta
condurre. Può essere vero (e non è da discutere qui) che l’essere o
no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in ultimo, l’essere o no
presenti ed efficaci nella co¬ scienza umana certi bisogni, desideri,
aspirazioni, credenze), sia un portato necessario della natura
stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze umane, si siano, rebus
ipsis dictantibus, modellate cosi da condurre a riconoscere nella
osservanza delle leggi naturali un valore di giustizia e di bontà;
ma anche in questo caso non ò la naturalità, che ne fa ammettere la
giustizia e la bontà, ma è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità.
Onde per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano possibili,
almeno teoricamente, più Etiche diverse; possibile, per esempio, (sebbene
l’accoppiamento esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiu¬
stizia, quando si assuma come postulato la prefe- ribilità di una
comunione sociale in cui una parte non abbia che diritti e un’altra non
abbia che do¬ veri. Benché allora 1’ Etica si sdoppierebbe in due
Etiche diverse, anzi opposte : l’Etica degli uomini- fini c l’Etica degli
uomini-mezzi; o, per usare le parole del Nietzsche, la Morale dei padroni
e la Morale degli schiavi ; e la medesima condotta sa¬ rebbe,
seguita dagli uni, giusta, seguita dagli altri, ingiusta. Che
una « giustizia » di questo genere ripugni alla psiche del socius per una
ragione analoga a •quella per la quale ripugna alla psiche dell’
uomo logico ammettere che un rapporto tra due cose o fatti, sia
vero per gli uni, e falso per gli altri, è credibile; (sul presupposto di
quella ripugnanza, si fonda, io credo, la giustificazione etica
della coazione e delle sanzioni). E certamente rimane aperto qui un
campo ulteriore di indagini intorno ai problemi che riguardano il come e
il perchè il postulato che assumiamo possa e debba essere ac¬
cettato ; e se alla esigenza che esso esprime si possa o si debba
assegnare un ufficio, e quale, nella interpretazionetotale del mondo, dell’
uomo e della storia. Ma da queste indagini, le quali sono di natura
metafisica, la costruzione scientifica del- l’Etica, come qui fu
abbozzata, può e deve tenersi indipendente, per una ragione analoga a
quella per la quale l’igiene è e si mantiene indipendente da ogni
questione intorno al fondamento e al valore del postulato assunto da lei,
e dal quale deriva il valore normativo dei suoi precetti: — che un
or¬ ganismo sano sia preferibile a un organismo ma¬ lato. —
Perciò, finché si rimane nel campo della ri¬ cerca scientifica, la
sincerità richiede che, anche nell’Etica, malgrado ogni interiore
certezza, questa condizionalità del valore delle norme sia
esplicita¬ mente riconosciuta, e che anche nei termini si eviti 1 ’
equivoco, e fin dalle parole sia bandita ogni pretensione a un valore che
non sia condizionato al presupposto assunto. Per questa
ragione, oltreché per fissare rispetto alla dottrina dello Spencer le
differenze notate nel modo di intendere il fine, e di concepire la società
* giusta e 1 ’ uomo giusto, e la priorità non soltanto
logica ma giustificativa di un’Etica rispetto all’altra, LUa p«A* è
conveniente, sostituire ai termini « Etica Asso- ‘fvulfyh luta ed Etica
Relat iva » i termini « Etica P ura V'.',:r , ì ' pvi n l iuta i v
a » i ieri mmi « e~=r . 1 ", della giustizia ed Etica
Applicata della giustizia ». (^ 3 ; n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r
_ l n effetto, necessario od 'GlfiULiffil opportuno determinare quali
dovrebbero essere le norme di condotta nell’ ipotesi che, osservate
pre¬ liminarmente le condizioni della giustizia, fosse
assunto come fine l’adempimento delle condizioni richieste dalla
universale solidarietà, si avrebbero due ulteriori sezioni dell’Etica :
l’ Etica Pura della Simpatia e 1’ Etica Applicata della Simpatia. A
leggere questo titolo, quelli che il Varisco ha chiamato felicemente « i
filosofi dell’ oramai» e quegli altri che si potrebbero chiamare i
girasoli della filosofia (i due tipi coincidono in parte, ma non in
tutto) c’è da scommettere che sorrideranno. — Non è « oramai » pacifico
che di una scienza della morale non si può parlare? E vale la pena
di perdere il tempo attorno a un problema « oltre¬ passato »? — Io mi
rassegnerò a lasciarli sorridere; ma non son persuaso dell’ oramai, e
trovo che il problema è tutt’ altro che superato. La quale per¬
suasione per altro non garantisce nulla, pur troppo, rispetto all’ altra
faccenda del perder tempo ; per¬ chè il tempo si può perdere, e far
perdere, come sappiamo benissimo tutti, anche trattando di ar¬
gomenti non « oltrepassati ». 'Dico dunque che il problema, almeno
nel modo nel quale credo che debba essere posto e ho cer¬ cato di
porlo, è più vivo che mai e di interesse capitale così per l’Etica come
per la Filosofia del diritto. E chiedo scusa fin da ora al lettore se
dovrò, richiamandomi a cose già dette, parlare, più spesso che le buone
regole non consiglino, in prima persona. • • 1. —
Quando sostengo la possibilità e la legit¬ timità di una scienza
normativa morale, non in¬ tendo che una tale « scienza » possa o debba
so¬ stituire la metafisica, e bandirla proprio da quel campo che è
il vero vivaio dei problemi metafisici, il campo delle idee e dei
sentimenti morali. E nem¬ meno che possa pretendere di costruire la
morale , « F unica vera morale » erigendo a norme della condotta
certe leggi naturali cosmiche, o biologiche o psichiche o sociologiche o
storiche, alle quali si presuma di dare valore imperativo. La tesi che
ho sostenuto e sostengo è diversa. Una scienza normativa
etica, non può, al pari di qualsivoglia scienza pre¬ cettiva, consistere
in altro che in u n sistema di re ¬ l azioni e di legg i, le quali hanno
valore di norme da seguire nell’ ipotesi che sia assunto come fine
quel- F effet to o quell'ordine di effetti, del quale esse ’-ggi
esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibo¬ sco dalle altre, perchè s
uppone che al fine suo [MJLjcTalfA Ò)lCJUjLt>
'ittl- , del quale esse ’Sl'Kp tkf
si a rico n osc iuto un valore di universale pref eribilità
e precedenza sopra ogni altro fine. Perciò una
determinazione scientifica di norme etiche richiede due condizioni
: l.° Che il fine sia umanamente possibile; cioò tale che se ne possa
stabilire la dipendenza condizionale da una certa forma di condotta
collettiva e individuale. Di qui dipende il carattere scientifico della
costruzione ; perché la relazione che lega le norme con quel fine
potrà essere lunga, complicata e difficile, ma non richiede ad essere
conosciuta altri mezzi che quelli di una indagine scientifica.
2.° Che sia ammesso come postulato che il riconoscere al fine assunto
valore di universale pre- feribilità e precedenza rispetto a qualsivoglia
altro fine umanamente possibile, è un 'esigenza morale. É
ovvio di per sè che se si ricusa di ammettere questo postulato o se ne
nega la legittimità, la de¬ terminazione delle norme di condotta
richieste dal fine contemplato non perde nulla del suo carattere
scientifico ; ma le norme non hanno valore morale. Ossia, il valore
morale delle norme così ricavate ò relativo alla accettazione del
postulato; e la de¬ rivazione scentifica di un sistema di norme dal
fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza della condotta
morale; ma la scienza di una certa condotta; la quale è la condotta
morale, se si am¬ mette e in quanto si ammette quel postulato.
Ma è altrettanto ovvio che non avrebbe senso, o sarebbe al tutto
arbitrario e fuori di proposito, l’attribuire in ipotesi al fine un
valore che nes- ’ v '’’ suno fosse disposto a riconoscergli, e
assumere come Ua esigenza morale una esigenza che non trovasse
nella */ r f>' r \ c < ’• ' a • fi «.e realtà nessuna
corrispondenza. Ed è perciò che ho- cercato di porre in chiaro in primo
luogo quale fosse l’esigenza caratteristica del valore morale di
una norma ; poi, se si potesse assegnare un fine umano, e quale potesse
essere, che rispondesse a queste condizioni. Non è il caso di
ripetere il già detto (1); qui ne ricordo soltanto le conclusioni : — che
l ’esi- genza che assum o, e, credo aver dimostrato, legit¬
timamente, come caratteristica di una norma mo- r ale ò quella di una
universale giustizia ; e che il fine che soddisfa a questa esigenza non
può essere che una forma di società umana tale, che tutti i sodi
trovino nelle sue stesse condizioni di esistenza la medesima o
equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla
ricerca di qualsivoglia dei BENI AI QUALI LA CONVIVENZA E CO-OPERAZIONE SOCIALE
E MEZZO. Supponendo dunque ammesso il postulato sopra detto, non ho fatto
e non faccio una ipotesi arbitraria; poiché Tesigenza della giustizia,
alla quale il postulato fa appello, è la più profonda e più tenace e più
incoercibile dell’uomo in quanto è socius, cioè in quanto è
soggetto di moralità e considera se stesso, ed è considerato, come
persona a pari titolo di ogni altro socio. Mi riferisco, qui e nel corso
di questo scritto, a quello clie che lo precede nel presente volume, e a
un altro studio : Prolegomeni a una Morale indipendente dalla Metafisica,
Pavia, Bizzoni. Tuttavia per quanto possa parere ed essere le¬ gittimo
prendere per concesso qu esto postulato, non bisogna dimenticare, ma anzi
importa rilevare chia¬ ramente , che il fine e le norme
corrispondenti hanno quel valore che si attribuisce a loro,
soltanto nell’ ipotesi che lo si accetti come valido e fuori di
contestazione. Se non 6 ammesso, ò vano pretendere clic la
costruzione normativa valga a farlo accettare o possa obbligare ad accettarlo.
Essa non può che mostrare la coerenza delle norme proposte col fine
assunto, e di questo colla esigenza della giustizia ; e mostrare con ciò
che non si può ragionevolmente ammettere questa esigenza senza ammettere
il va¬ lore di universale priorità attribuito al fine, e quindi
alle norme. Ma che l’esigenza invocata sia ammessa in realtà, o sentita
come tale, ò un dato di fatto che la costruzione normativa trova, se
c’è; ma che non pone essa, ne per sò vale a mutare. Adunque la
scienza normativa morale così intesa si riduce alla determinazione delle
norme di condotta valide per una coscienza che anteponga a ogni
altra esigenza l’esigenza della universale giu¬ stizia. Se in ipotesi
volesse determinare le norme di condotta per una coscienza per la quale
valga come suprema l’esigenza egoistica, le norme risul¬ terebbero
diverse. Ma il procedimento sarebbe il medesimo ; la deduzione sarebbe, o
si può concepire che potrebbe essere, ugualmente ragionata e
scien¬ tifica. E del pari se si assumesse come regolatrice
l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia incon¬ dizionata di sò agli
altri, o qualsivoglia altra esi¬ genza e un fine possibile
corrispondente. Di qui si vede quanto sia superficiale c
vuota di significato l’opinione tante-volte ripetuta, e che forma
quasi il leitmotiv di un’ opera che ha latto gran rumore, che la ragione
non ci comanda che l’egoismo. La ragione per sè non comanda nulla. NE L’EGOISMO
NE L’ALTRUISMO -- nè la giustizia. La ragione cerca, e mostra, se le
riesce, i mezzi che servono a conservar la vita a chi la vuol conservare,
a distruggerla a chi la vuol distruggere; ad¬ dita ai pietosi le vie
della pietà, ai giusti le vie della giustizia, e le vie del proprio
tornaconto agli uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè
più « razionale » dell’altruismo, nè il regresso più razionale del
progresso, nè la conservazione del- l’individuo più razionale di quella
della specie, nè 1’ utile proprio più razionale che 1’ utile della
col¬ lettività. Razionali non sono i fini, ma le relazioni
dei mezzi ai fini (1). Ed è così ragionevole che dia la -- Dire che
la ragione non consiglia che 1’ egoismo equivale a dire che una condotta
non egoistica non si può RAGIONEVOLMENTE GIUSTIFICARE. Ossia viene a dire una
di queste due cose : 0 che di un fine non egoistico non si possono
assegnare mezzi possibili, e vita per un’idea chi pregia più l’idea che la
vita, come che taccia la verità per un ciondolo chi ama più i ciondoli
che la verità. Ma forse dicendo così si è ancora giusti verso
la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso della ragione può avere, come
non dubito che abbia, una efficacia indiretta nella valutazione dei fini,
non è dubbio che questa efficacia si esercita in favore di quei
fini e di quelle norme che rispondono alla quindi non si può
determinare quale sia la condotta atta a rag¬ giungerlo ; cioè che si
tratta di un fine fuori di ogni efficienza umana. E in questo caso non ci
sarebbe senso a proporlo come fine dell’ operare nè in nome della ragione
nè in nome di qualsivoglia altra cosa, dal momento che qualsiasi condotta
sarebbe rispetto ad esso indifferente. Oppure che un fine non egoistico
non è mai fine per sfi, ma ha bisogno di essere giustificato da un fine egoistico
al quale sia mezzo o condizione. Ma il valore per sè di questo fine
egoistico ultimo, al quale si riporta la giustificazione, non può essere alla
sua volta giustificato, ma deve essere un dato di fatto reale o supposto
; il quale dunque, appunto per ciò, è fuori di ogni ragionamento. E il
vero senso dell’ affermazione in discorso è allora non che « la ragione
consiglia l’egoismo » ; ma che « gli uo¬ mini sono tutti e sempre e
inevitabilmente egoisti (poiché i fini ai quali soltanto riconoscono
valore per sè sono fini egoistici) ; e quindi, finché sono e rimangono egoisti,
non possono trovar ragionevole altra condotta all’ infuori di quella
suggerita dall’ egoismo ». Sapevhm- celo ; ma non vuol dire che l 'essere
egoisti sia più ragionevole die il non essere. D’altra parte,
posto che gli uomini fossero inevitabilmente egoisti, anche il precetto o
il consiglio di non seguire la ragione, dovrebbe, per avere valore
pratico, fare appello in ultima istanza a in fine egoi¬ stico, nè più nè
meno di quel che farebbero nello stessè caso i con¬ sigli della ragione.
Con questo bel risultato : che gli uomini rinun¬ cino ad essere
ragionevoli per.... continuare ad essere egoisti. tendenza caratteristica
dell’attività razionale : l’universalità. Ora nel campo dell’attività pratica
il fine del quale soltanto si può concepire universale il
raggiungimento, e la norma, della quale soltanto si può concepire
universale l’osservanza, sono un fine e una norma conformi all’esigenza
della giustizia. Ma, tornando al nostro argomento, anche il riconoscere che il
fino e le norme determinate in conformità al postulato hanno, e possono
avere essi solamente, la nota razionale dell’universalità, non ne
toglie il carattere necessariamente e insupera¬ bilmente ipotetico;
perchè se il loro valore si fa dipendere da questa loro universalità, si
prende per concesso che l’universalità sia assunta come criterio di
valutazione; ossia che dell’esigenza ra- (1) iSon trovo che si sia
dato il peso dovuto alla considerazione che non solo l’egoismo, ma neppure
l’altruismo può fornire una regola di condotta, che si possa concepire
nei rapporti tra gli uo¬ mini universalmente e costantemente osservata,
senza contraddizione, o senza che sia necessario supporla subordinata
alla sua volta a una norma di giustizia. Perchè sia possibile
l’abnegazione e la ri¬ nuncia incondizionata di sè agli altri, bisogna
che gli uni si sa¬ crifichino, e gli altri o qualche altro accettino il
sacrifizio ; cioè che gli uni seguano la massima dell’ altruismo, e gli
altri o qual¬ che altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che
nessuno debba poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il sacrifizio
si riduce a un tacito scambio di servigi reciproci), bisogna che la
condotta altruistica di ciascuno non impedisca o limiti una pari condotta
altrui¬ stica degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta
sia governato da una norma di giustizia. zionalc e teoretica dell'
universalità la coscienza faccia una stima pratica, attribuendole un
valore e un’ autorità superiore ad ogni altra esigenza.
Concludendo: la scienza normativa etica, alla quale mi riferisco, è
la scienza della condotta ri¬ chiesta da un fine conforme all’ esigenza
detta. Se si riconosce come caratteristica del valor morale di un
fine e delle norme che ne dipendono una esigenza diversa, o se si pone
come congruo ad essa un fine incongruo, o si assumono come con¬
dizioni conformi all’esigenza di una universale giu¬ stizia delle
condizioni clic negano o limitano questa universalità, le norme
riconosciute e accettate come morali saranno diverse. 3. — Ma
non concluderebbe nulla contro la tesi che difendo l’opporre che le norme
o alcune delle norme in effetto tenute o seguite come morali sono
diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate in conformità al
postulato assunto. Perchè qui non si tratta già di esporre (piali sono le
norme accettate, o di farne l’apologia ; nè di cercare che cosa bi¬
sogna ammettere per accettarle; ma di determinare quali sarebbero le
norme della condotta morale nel- l’ ipotesi che si accetti il
postulato. Insomma si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa ne
segua. Ma per negare valore scientifico a una tale co¬
struzione ipotetica bisogna negare la dipendenza condizionale del fine
assunto da una certa condotta collettiva e individuale; e per negarle
valore morale (1), bisogna negare il valore morale dell’esi¬ genza, o
ammettere che essa è o dove essere subor¬ dinata a un’esigenza diversa.
Finché non si giu¬ stifica nè l’una nè l’altra negazione, il
dichiarare « oltrepassato » il problema vale poco; e il sorri¬ dere
vale anche meno. Perchè esponendo questo concetto io non mi
sono dissimulato le difficoltà e le obbiezioni possi¬ bili; sopratutto
quelle che fanno capo alla afferma¬ zione comune della impossibilità di
una determi¬ nazione di norme morali che non si fondi sopra una
dottrina metafisica. Questa questione anzi ho esaminato di proposito, e
le conclusioni di quell’ana¬ lisi non furono confutate. Avrei dunque, «
in tesi di diritto » ragione di ritenere spostato l’obbligo della
prova. Ma nel fatto, come tutti sanno, ò sempre chi dissente
dalle opinioni stabilite che ha torto; e deve rassegnarsi a battere e
ribattere per tutti i versi lo stesso chiodo. ì. — E prima
di tutto occorre qualche parola su quella che si potrebbe chiamare la tesi
scettica, (,1) Che essa possa e debba aver valore anche dal punto
di vista del Diritto è cosa evidente ; ma come c quanto non sono
questioni da risolvere cosi di sfuggita. della
impossibilità di una qualsiasi determinazione di norme morali.
— Il fatto etico è contingente, multiforme e variabile in ogni
circostanza, e sfugge ad ogni ten¬ tativo di determinazione razionale.
Oltredichè esso dipende dal sentimento e dalla volontà e non dalla
conoscenza, e non si può ricavare da un processo di deduzione logica.
— Questa tesi ha il grave torto di confondere la morale colla
mora lità ; confusione sulla quale dovrò tornare anche più innanzi.
« Il fatto etico ò variabile ». Certamente. E il fatto giuridico,
che ò una specie dell’ etico, non ò esso pure variabile? E forse perciò
non si stabili¬ scono nonne giuridiche determinate e precise, e non
si considera questa determinazione come un’e¬ sigenza della vita sociale,
e non si misura dalla sua precisione e coerenza il progresso della vita
e della coscienza giuridica ? E non è un luogo comune la lode fatta
a Roma di maestra del diritto ? Non si venga a dire che il f atto
"iuridico riguarda solo la non, come la inorale, anche e
sopra tutto la interna ; qui si fa questione, anche per la morale,
appunto, della con¬ d otta ester na, nella quale la moralità interiore
deve pur tradursi ; ed è assurdo dire, per esempio, che non ha
senso il precetto « non frodare », e vano cercar di determinare in che la
frode consista, per- La. •H. i tìtou - w/# i-yW
t Aj.oiU? dolori* ché la frode è,
forse più che qualunque altra cosa al mondo, contingente multiforme e
variabile. È pur fuori di dubbio che l’operare in un modo
piuttosto che in un altro, dipende dal sentimen to e dall a vo lontà, e
non dalla co noscenza del precetto ; e che non si può dedurre da nessuna
com¬ binazione di premesse l’azione. Nessun congegno di
premesse, nessun processo logico, nessun sistema di conoscenze pone in
essere la benché minima cosa ; .A}* VcttmaJ. ’l| conseguenza di un
ragionamento ò sempre fin g iudiz io, non un ’azion e ; nella
morale come in qua¬ lunque altro campo; l’azione., potrà.. o non
potrà seguire, secondo che le disposizioni sentimentali c. volitiv
e sono tali o tali altre; potrà anche seguire senza che ci sia il giudizio.
Verissimo e giustissimo. Ma non conclude nulla al proposito. Perché qui
è questione non di fare, ma di sapere quel che con¬ venga fare, chi
si proponga e ammesso che si pro¬ ponga un certo fine. Ora lo stabil ire
queste rela¬ zioni tra un certo fine_e certe operazioni necessarie
a raggiungerla é ufficio della conoscenza, non della volontà ; e io spero
che nessun voluntarista vorrà sostenere che è indifferen te a chi vuol
andare, po¬ niamo, a Canossa, conoscere quale sia la strada per
arrivarvi. E il dire che non è la conoscenza nè di un certo effetto, nè
dei mezzi, ciò che fa vo¬ lere l’effetto e volere i mezzi, non toglie
nulla al- Pufficio specifico della conoscenza; anzi, e
appunto perciò, lo determina. E rimproverare a un sistema di norme
di essere per sè inefficace a muovere Fa¬ zione non ha senso ; come non
avrebbe senso pre¬ tendere che una formula chimica produca essa il
composto del quale indica la combinazione. L’ uf¬ ficio delle norme
morali, come di ogni altro sistema di norme qualesivoglia, non può essere
che un uf¬ ficio informativo, non formativo ; di guida, non di
stimolo, di indicatore, non di propulsore. E quelli che adducono, per
mostr are l a inanità di una co¬ s truzione norma tiva, l a dipendenza
dell’ azione dal se ntimento e dalla volontà , non si accorgono di
confondere essi il conoscere coll’operare, cioè, come' s’è detto, la ni
qrfllo_nnIlp mo ralità, la determina- zio ne_delle norm e colla c
onformità alle norm e. Senonchò si può soggiungere che la
determina¬ zione in questo campo non serve, perchè la cono¬ scenza
delle norme si sprigiona volta per volta come da sè fuor dalle
circostanze, per un intuito naturale che è più fine e delicato di
qualunque de¬ duzione scientifica. E così viene in campo, accanto
alla tesi dell’ impossibilità, quella dell’ inutilità : — l a cos cienza
morale rende inutile la dottrina mo¬ rale. Lasciamo per ora la difficoltà
capitale che nasce dal fatto stesso da cui è nata la riflessione
critica della morale: il fatto della diversità di contenuto nelle
coscienze morali diverse; e poniamo — senza concedere — che 1*i ntuit o
basti per tutti e sempre a segnare caso per caso la via. Non ne
seguirebbe ancora l’inutilità di una ricerca che si proponesse la
determi nazione sistema tica del fine a cui .intui ¬ ti vamente tend e e
delle norme che intuitivamente segue la co scienza mora le. Come la guida
istintiva dei bisogni (^feUe^enTazioni non basta a rendere inutile
l’igiene; o come non basta a condannare la conoscenza fisiologica, per
esempio, della dige¬ stione, il fatto che digeriscono bene, anzi di
solito digeriscono meglio, quelli che non sanno di quelli che sanno
come la digestione avvenga. E veniamo alle obbiezioni che toccano
diretta- mente la nostra tesi. In primo luogo si può osservare che
la p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso che dichiara
di voler tenersi estranea a qualunque af¬ fermazione di carattere
metafisico, presuppone una certa soluzione di un problema essenzialmente
me¬ tafisico. Perchè, assumendo come fine morale un ordine di
effetti umanamente possibile, pone come risoluto il problema se il fine
supremo possa o debba essere umano o sovrumano, relativo o asso¬
luto; risolve cioè, sia pure negativamente, un pro¬ blema metafisico.
Cerchiamo di intenderci. Si supporrebbe risoluto il problema, se
assumendo un fine (diciamo per brevità) umano, si ponesse questo fine
come ultimo assolutamente, come definitivamente supremo; cioè se
gli si assegnasse un valore assoluto ; e si ne¬ gasse la possibilità di
una ulteriore valutazione del fine stesso ; di una
sopravalutazwWe^Tciafisica, per la quale sia creduto mezzo alla sua
volta, o condi¬ zione o preparazione di un fine sopraumano. Ma
questa possibilità 1* ipotesi non la esclude. Si dirà che in tal
caso il fine umano non è più il vero fine; e che perciò le norme debbono
essere ricavate da quello a cui si dà davvero valore di fine
ultimo, valore assolutamente, non relativamente, supremo; e che questa
necessità riporta il problema della determinazione delle norme in piena
metafì¬ sica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non capire
come da un fine assoluto si possano ricavare delle norme per la condotta
in condizioni finite, da un al di là le norme per un al di qua; e
dubito che quelli i quali dichiarassero di capire, equivo¬ chino
sui termini. Perchè non si potrà mai dimo¬ strare un legame di
condizionalità tra un certo modo di operare o un fine sopra natura le ;
essendo il proprio e caratteristico del sopranaturale c del
sopraumano di esser fuori dalla efficienza naturale e umana. Se si
considera il fine sovraumano come un effetto che può essere condizionato
da mezzi puramente umani esso cessa di essere sovraumano (Urmson, Saints and
heroes). Ma se invece rimane tale, cioè trascende la effi¬ cienza umana,
si potrà bensì credere ed affermare che a raggiungerlo si richiede una
certa condotta, ma non si può assegnare una relazione di condi¬
zione tra la condotta ed il fine, cioè non si può ricavare dal fine la
norma. La riprova si ha nel fatto, evidente ad ogni osservatore non del
tutto superficiale, che, anche nei sistemi di morale teo¬ logica o
metafisica, quando si tratta di determinare le norme che debbono regolare
la condotta nelle relazioni della vita comune, famigliare e
sociale, non è più il fine assoluto quello da cui si deducono le
norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia re¬ moto; un certo ordine e un
certo tipo di vita in¬ dividuale e sociale. Le norme dedotte
da questo fine subordinato si presentano bensì come derivate aneli’esse
dal fine assoluto, perchè si assume quello come posto o vo¬ luto o
necessitato da questo ; ma in che modo dal fine assoluto si ricavi il
fine relativo, come e per¬ chè, per raggiungere o approssimarsi a quel
fine sopraumano, sia necessario tendere a questo fine umano, non si
dimostra nè si può dimostrare. E quando par che si dimostri, gli è che si
è assunto tacitamente e come incorporato in modo surrettizio nel
fine assoluto il fine relativo, che poi se ne deriva ; cioè in ultima
analisi non si è fatto altro che porre o assegnare un
valore sopraumano al fine umano; ossia si è fatta (fucila che ho
chia¬ mata una sopravaluta;ione metafisica di quel certo fine umano
dal quale in realtà sono ricavate le norme. Xon è dunque vero
che assumendo un fine umano si risolva, o si postuli una certa
risoluzione di un problema metafisico. Non si la che ubbidire a una
esigenza, la quale sussiste sia che si risolva positivamente, sia che si
risolva negativamente il problema intorno alla natura del fine
assolutamente ultimo o supremo; un’esigenza logica alla quale non
si può sfuggire: che un sistema di norme di condotta individuale e
sociale non si può stabilire se non in relazione a un certo fine,
esplicitamente o implicitamente assunto, che dipenda condizional¬
mente dalla condotta, cioè che sia umanamente possibile. 0. —
Ma non è un’altra esigenza, un’ esigenza propriamente morale, che il fine
abbia un valore assoluto e non soltanto relativo? Non discuto se sia o
non sia ; perchè si tratta in ultimo di constatare un fatto di coscienza,
e per la constatazione di un fatto la discussione non ap¬ proda.
Poniamo che sia. Forsechè le dottrine che pon gono un fine assoluto fanno
qualcluTco^ ~~di me glio che postulare la possibilità di quel fi ne
e postularne il valore ? Cioè supporre che quella possiljilità e questo
valore siano dati nelle intuizioni o nelle credenze, dalle quali li
prendono, per dir cosi, a prestito, e sulle quali fanno assegnamento
? E se è cosi, e non può essere altrimenti, se la cre¬ denza nel
fine e il riconoscimento del suo valore assoluto, e la derivazione da
esso del (ine o dei fini relativi della vita finita, non possono
essere dati o fondati dalla dottrina, ma soltanto assunti o
affermati, è facile vedere che la dottrina vale per la coscienza clic la
sente e, direi, la vive già, e che accetta Vaffermazione perchè la trova
corri¬ spondere a ciò che è già dato in lei stessa ; ma non vale
essa, la dottrina, a far accettare queste sue affermazioni a una
coscienza che intuisca e senta c creda diversamente. La costruzione
dottrinale metafisica non riesce dunque clic a fare appello a un a
intuizione o a una v alufazio ne di cui ammette o suppone 1’ esistenza,
ma n on a farla sorgere dove manca ; e quindi, di fronte a una coscienza
diversa da quella che essa suppone, si trova nella stessa
condizione della costruzione non metafisica. Cioè vien meno alla ragione
per la quale il valore as¬ soluto del fine è richiesto.
Questa ragione, se il valore assoluto del fine non è già assunto
come una constatazione di fatto, consiste nella pretesa illusoria che la
dottrina possa e debba assicurare per questo modo alle norme una
validità universalmente riconosciuta ; e nasce da una preoccupazione
pratica analoga a quella dalla quale è ispirata l'altra pretesa che
l’Etica dia alle norme autorità imperativa. Ed eccoci all’argomento
capitale: 1’ esiggenza del carattere imperativo della norma.Ho già
ripetutamente segnalato l’equivoco sul quale si fonda la pretesa esigenza
dell’obligatorietà della norma morale. È in fondo il medesimo già
notato più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia •della
conoscenza a determinare l’azione ; l’equivoco di con fondere la morale
colla moralità, la norma col la conformità alla norma : e quindi di
preten¬ dere da una dottrina quello che nessuna dottrina nè
metafisica nè non metafisica può dare : la garanzia dell’osservanza, cioè
1’efficacia esecutiva. Il linguaggio favorisce anche qui il persistere
dell’errore; e l’uso di definire 1’ Etica la scie nza o la dottrina de i
-doveri, contribuisce a ribadire il preconcetto. nato dalla preoccupazione
pratica, che compito di una dottrina morale possa o debba es¬ sere
quello di costruire o fondare delle norme ób- hliyatorie. Mentre l’etica,
dico qualunque dottrina etica,__non può fare altro che dedurre, o
indurre, o comporre a sistema, delle norme o ilei precetti, i quali
hanno valore di doveri, se e in quanto la coscienza concepisce, o meglio
sente e vuole , come dovere, l’osservanza dei precetti stessi, o la
prosecuzione del fine (o dei fini) dal (piale quei precetti Yi
(yivuni l&u vuxnrib I nei
— sono derivati. E se anche tutte le coscienze uni¬
versalmente, in ogni tempo e luogo, concordassero nel sentire come
obbligatoria 1’ osservanza di una certa norma, non per questo si potrebbe
dire che l’imperativo è un carattere della norma ; l'impe¬ rativo
sarebbe sempre anche in questo caso un ca¬ rattere del motivo che spinge
all’ osservanza della norma ; un dato della coscienza che la
abbraccia, che la riveste e la investe di questo motivo, clic la
sente così. Quale sia la preoccupazione pratica da cui nasce
e si alimenta il preconcetto, e. quale, sia il processo per cui si viene
ad assegnare alla costruzione nor¬ mativa un compito al quale essa non
può soddisfare in nessun modo, ho pure già cercato di mostrare
altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto non mi par privo di interesse
mettere in chiaro con 1’ a- nalisi come i modi, nei quali può essere
interpre¬ tato e tentato il proposito di « fondare una norma
obbligatoria » si riducano a postulare l’esistenza dell’ obbligo, quando
non riescono a una forma più o meno larvata di imperativo ipotetico. E
come poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo categorico
per dato o postulato, non se ne possa ricavare la determinazione delle
norme; ma si ri¬ chieda perciò l’assunzione espressa o sottintesa
di un fine, o di un criterio di valutazione e deriva¬ zione,
estraneo e indipendente da quello. Il compito di assegnare una norma
che abbia autorità obbligatoria può essere, e lu in ef¬ fetto,
inteso in più significati diversi ; i quali si possono ridurre ai quattro
tipi seguenti : 1. ° Dimostrare che la norma proposta corri¬
sponde a un sentimento, a un motivo, a una di¬ sposizione che si
manifesta nella coscienza come •obbligo. — Allora il senso reale ò, non
già che la do ttrina dia essa autorità o bbligatoria alle su e
norme; bensì questo: che essa riduca, traduca o formuli in norme i modi
di condotta ai quali la coscienz a si sente obbligata. Ma così la
categoricità del precetto è constatata e assunta, non posta, nè
fondata dalla dottrina ; e la norma obbliga solo se •ed in quanto i suoi
comandi ripetono i comandi della coscienza; il suo tono imperativo è
un’eco, e vien meno se tace la voce della quale assume il
tono. 2. ° Presentare le norme come ordini di un Potere
(qualunque ne sia la natura) irresistibile, che costringe volenti e
nolenti a seguirlo. — In¬ tesa così l’autorità non viene nò dalla natura
delle norme, nò da quella del fine a cui sono ordinate, ma da quel
Potere del quale l’Etica fa, per dir così, la presentazione ; anzi il suo
ufficio si riduce in realtà a quello di interprete ed araldo di quel
Potere ; che essa non pone, ma a cui là appello, e che suppone sia
riconosciuto dalle coscienze alle quali parla in nome suo. Ad
ogni modo l’espressione analizzata, se si usa ad indicar questo ullìcio,
è del tutto abus iva; l’espressione esatta ò questa: compito dell’Etica
ò di determinare quale sia la legge imposta da quel potere indis
cutibile e irresist ibile, di cui si am¬ mette o si riconosce
l’esistenza. 3." Dimostrare che ciò che la norma prescrive
dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra ogni altra cosa : cioè sarebbe
voluto in effetto, se, invece di essere come ò, 1’ uomo fosse diverso ;
seguisse la sua vera natura, fosse giusto, o perfetto, o realiz¬
zasse un certo tipo ideale. Ma è chiaro che in questo senso non si
là che o determinare il fine in l'unzione di un certo tipo ideale,
o il tipo in funzione del line ; ossia, in al¬ tre parole, determinare la
relazione che sussiste tra una certa natura e una certa condotta. La
qual relazione per necessaria che sia, non si vede come [tossa far
nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si pensa di fondare in tal modo 1’
obbligatorietà, ma¬ nifestamente si suppone ebe il conformarsi a un
certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già sentito come obbligo; e
si rientra, quanto al fon¬ damento di questo, nel primo dei casi
enumerati. Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere uomo
davvero, giusto, o perfetto, deve proporsi un certo fine o seguire una
certa condotta, si avrebbe non piii un imperativo categorico, ma un
imperativo ipotetico. Dimostrare che ciò che la norma
prescrive, dece essere voluto universalmenta e incondiziona¬
tamente. — Questo ò manifestamente il significato che pare più proprio, e
nel quale intesero e inten¬ dono l’esigenza i moralisti i quali credono
di po¬ ter ricavare l’obbligo dalla natura del fine che assumono
come ideale etico. Ma l’intendere la tesi così, implica che si ammetta la
possibilità di una di queste due vie : a) o derivare 1’
obbligatorietà dal valore riconosciuto al fine, assumendo questo
riconoscimento come dato o postulato ; h) o deri¬ vare dalla natura del
fine l’ obbligo di riconoscere al fine stesso un tal valore. E l’una e
l’altra di queste due tesi deve essere considerata distinta- mente
e un po’ più a lungo. 9. — a) — Posto pure che al fine assunto
fosse riconosciuto in realtà universalmente valore di sommo bene,
non ne seguirebbe in nessun modo che il sentirlo e riconoscerlo come
sommo bene porti con se il sentirsi obbligati a volerlo e cercarlo.
Questo riconoscimento non genera la coscienza del- Pobbligo, bensì ne
mostra la ragionevolezza, fa che la coscienza approvi l’autori tà ob
bligante; cioè giustifica P obbligo, posto che ci sia. Ora una tale
giustificazione riesce a questa alternativa: o serve a dimostrare che
Insognerebbe ragionevolmente tro¬ var buona e seguire la norma anche se
non si sentisse l’obbligo, perchè la norma è ordinata a quel certo fine
che è riconosciuto come sommamente desiderabile. E in questa forma la
pretesa fonda¬ zione dell’ imperativo categorico si riduce alla
for¬ mulazione di un imperativo ipotetico, che si sosti¬ tuisce o
si aggiunge al categorico. 0 riesce a un’ar¬ gomentazione di questo
genere : Siccome è bene sommo il fine, è bene l’osservanza della norma;
e poiché si ammette o si suppone che la coscienza d’un obbligo
assoluto sia necessaria a garantire questa osservanza, l’imperativo
categorico appare la condizione sine qua non, acquista valore di
mgzzo indispensabile al proseguimento del fine. Nel primo
modo si viene a dire che l’impera¬ tivo categorico è giustificato perchè
è bene ciò che esso comanda; nel secondo che è giustificato per¬
chè è bene che esso comandi in quel tono. Ma nè l’uno nè l’altro modo nè
ambedue insieme riescono a fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto
perchè 10 giustificano gli tolgono il carattere di
categorico. 11 che se nel primo caso è più evidente, non è
meno vero nel secondo. Infatti, posto pure che la cate¬ goricità
dell’ imperativo sia condizione necessaria all’osservanza della norma,
non ne viene perciò che l’obbligo sia categorico, ma soltanto che
sa¬ rebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: os¬ sia la
pretesa derivazione che se ne fa, mostra la necessità di una condizione,
non la pone in atto se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la
sod¬ disfa. In secondo luogo la dimostrazione stessa di questa
esigenza è contradditoria, perchè a convin¬ cere la necessità
dell’obbligo categorico ne assegna le ragioni ; il che equivale ad
ammettere che ve¬ nendo meno queste ragioni verrebbe meno quella
necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come categorico, finché è
utile che valga; come chi di¬ cesse un’ autorità che si fa valere incondizionata¬
mente .. .. sotto certe condizioni. Adunque, se la c Qscienza d’un obbligo asso
luto manca, la derivazione che se ne pretenda fare da un fine,
qualunque sia il valore che gli si attri¬ buisce, non può farla sorgere;
se c’è, la giustifi¬ cazione riesce ad assegnare le condizioni della
sua validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo
incondizionato. (1) Il che può però aver un senso, se si guarda
bene ; ma in un caso soltanto : nel caso che la coscienza la quale si
rende ragione delle condizioni che importano questa necessità o utilità
dell’ im¬ perativo categorico, e la coscienza nella quale 1’ imperativo
vale come categorico, siano due coscienze diverse ; ossia nel caso
che una coscienza riconosca la necessità che 1’ imperativo valga
incon¬ dizionatamente per un’altra coscienza. Che è un senso
assai meno strano di quel che possa parere a prima vista. Oppure
finalmente si intende che ap¬ prendere ciò clic è posto come line
equivalga per ciascuno a dover riconoscerlo come tale; che non si
possa conoscere la natura del line senza sentirsi obbligati a
riconoscergli valore di bene supremo ; cioè che la conoscenza generi la
coscienza d’un obbligo. — Questa che è in sostanza la tesi di¬
fesa, tra gli altri, con grande vigore dal nostro Rosmini, è veramente
l’interpretazione tipica, più audace e radicale, del pensiero di derivare
l’obbligo dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento og¬ gettivo
nella natura stessa di quello. Ma — senza dilungarmi su questo tema
in una critica troppo nota — è inevitabile questa alter¬ nativa : o
il dover riconoscere esprime una neces¬ sità puramente logica, e non può
dare quello a cui è invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di
riconoscere il valore; o vuol esprimere una neces¬ sità diversa, e si
riduce a un paralogismo; perchè pretende ricavare da una determinazione
obbiet¬ tiva la constatazione di uno stato subiettivo, la quale
presuppone appunto resistenza di quella co¬ scienza dell’obbligo, che
crede di far nascere e senza della quale la constatazione non è
possibile. E per tal modo si ricade ancora una volta nel primo tipo
di interpretazione (V. p. 141); quando non si voglia ammettere questa
tesi : che è obbligo rico¬ noscere quel fine come sommo bene e volerlo,
così se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè sia che la
coscienza senta sia che non senta di dover attribuirgli quel valore.
Ossia non si am¬ metta la tesi dell’obbligo di credere anche senza
o contro l’attestazione della coscienza. Il che ren¬ derebbe inevitabile
l’appello a una autorità esterna, alla quale la coscienza si deve
inchinare; e farebbe della morale del bene oggettivo una morale
dom- matica, che rientra nel secondo tipo. 10. — Adunque
l’analisi dei modi nei quali può essere interpretato e tentato il compito
di fon¬ dare una norma obbligatoria conduce a questa con¬ clusione:
o si intende che « fondare una norma obbligatoria » voglia dire derivare
l’autorità della norma dal valore del fine; e allora, come s’è
visto, c come avea notato chiarissimamente il Kant, non si può per
questa via riuscire che a un imperativo ipotetico; o si intende che
voglia dire assumere come dato l’obbligo e determinare le norme in
conformità a questo dato. Nel primo caso 1’ esigenza in questione
non è soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta , non
posta o dimostrata; ossia o esiste: e la sua esistenza e validità
sussiste all’ infuori della co¬ struzione dottrinale, che la postula, ma
non la fa essere; o non esiste: e il fatto di assumerla come
esistente non la pone in essere, nè ne legittima per sè
l’assunzione. Per tal modo, se il difetto capitale di una scienza
normativa etica conforme al concetto esposto sul suo ufficio e i suoi
limiti, è quello di non^ poter presentare le norme col carattere di im¬
perativo categorico, questo difetto è comune, e non potrebbe essere
altrimenti, a qualsiasi costruz ione dottrinale. die non si proponga di
derivare le norme da un imperativo categorico assunto come dato.
Ed allora resta da vedere se. prendendo l’impe¬ rativo categorico per
dato o postulato, si possa ri¬ cavare da esso la determinazione delle
norme; o se non si debba ancora ricorrere all’ assunzione espressa
o sottintesa di un fine, o di un criterio di valutazione e di
derivazione, estraneo e indipen¬ dente da quello. CJie^ i 1
dato dell’ imperatività sia per sè in suffi¬ ci ente alla d eterni i
nazione .-dei le jparmc morali è manifesto, qualora si intenda con esso
assumere null a più che la forma destinata a rivestire un con¬
tenuto qualsiasi ricavato d’altronde: nel qual caso è pur manifesto che,
appunto perciò, il dato dell’obbli- gazione rimane estraneo alla
costruzione dottrinale. Ma non è altrettanto evidente, quando si
ammetta che nel dato dell’ obbligazione è contenuta ad un tempo la
forma dell’ imperativo e la m ater ia del precetto ; ossia che da questo
dato si possa ricavare, hjUifot vtA »pUóh UàwtiH o ad esso
debba conformarsi e subordinarsi sia la determinazione del fine sia il
contenuto delle norme. Senonchè, quando si prenda come dato non
la pura ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è
inevitabilmente condotti, come l’analisi precedente ha dimostrato, a
fondare la morale .sull’autorità, superiore ad ogni discussione, di una
certa rivela¬ zione, interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica
1’ ufficio di espositrice e interprete di questa. Rilevando questa
conseguenza io non intendo affatto di darle il valore di una
dimostrazione per assurdo. La tesi nella forma a cui è ridotta ò
tut- t’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in con¬ fronto dell’
affermazione generica e ambigua che « la morale deve dare norme
obbligatorie » il pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma
appunto perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui si
trova di fronte. 12. — Tanto se si intende che la ri velazio
ne da interpretare sia in|£g^ quanto se si intende che sia esterna,
si presenta la medesima difficoltà; quella difficoltà, antica e
notissima, dalla quale t ciu* oìaI
'R\)l£lp2:\0h/& l'ileo ila. £|Avh<*
venne il primo stimolo alla riflessione e alla cri¬ tica nel campo
della morale: l a pluralità delle ri- velazioni. Poiché i
responsi della cosc ienza morale sono s toricamente diversi e anch
e-apposti, come sono divèrse e in parte op poste le rivelazioni religio
se, resta, o che si riconosca a tutte la medesima auto¬ rità, cosi
co me i l tono imperativo è. il medesimo; o che si scelga.
f Quan to alle. religion i ò .troppo chiaro che nessun
criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere a dimostrar
l’autorità di una piuttosto che del- 1’altra, poiché t utte si danno come
assolutament e certe e indiscutib ili ; e le stesse prove sulle
quali una rilevazione attesta la sua autorità sono ado¬ perate da
ciascun’ altra per asserire la propria, e da tutte risuona sui precetti
morali diversi il me¬ desimo tono di comando. Si cercherà il
criterio della scelta nella natur a del le cose co mandate o proibite,
come avviene quando si parla di m aggior sapienz a o el evatez za o n
obiltà de i prec etti morali di una religione rispetto a quelli di
un’altra? Allora è i ^conte nuto dei precetti mo¬ rali che viene assunto
come criterio dell’autorità della rivelazione. E il valore di
questo contenuto, che è così usato a provare la superiorità di una
rivelazione sulle altre, si può dunque riconoscere
indipendentemente dal suo presentarsi sotto la forma di un comando
rivelato, dal momento che è esso invocato a pro¬ vare l’autorità del
comando. Ma allora I’ulhcio dell’Etica lungi dall’essere quello di
interprete e araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice _deHc % U- t
? ^ rivelazio ni. Il che importa a ben più forte ragione che
tanto il fine quanto le norme morali si sup¬ pone che possano e debbano
essere conosciute c de¬ terminate a ll’ infuori di ogni snodale
rivelazione. cioè all’infuori da ogni appello all’autorità.
Ciò che vale per l’autorità di una rivelazione esterna, vale
per quella di una rivelazione interna. Tra due coscienze, delle quali
rispetto alla mede¬ sima azione una ponga come obbligo il fare e
l’altra il non fare, il criterio di valutazione comparativa non può
esser dato dal carattere imperativo, che è comune ad ambedue, ma deve
essere un altro. Ed anche allora il criterio che serve alla
valu¬ tazione comparativa sarebbe esso in realtà quello da cui
dipende cosi la determinazione come la giu¬ stificazione delle
norme. l i. — Non resterebbe che riconoscere ja mede¬ sim a
autorità a tutte le rivelazion i. Il che importa l’una e l’altra di
queste conseguenze: o la asso¬ luta indifferenza del contenuto per
qualsiasi luogo -“ -- e tempo; o la limitazione a
determinate condizio ni storiche dell’autorità e del valore di
ciascuna. Se non si vuol accettare la prima (1), si pre¬
senta la domanda: Questa limitazione ha o non ha
Uva*» Mi permetto di non fermarmi ad esaminare la tesi della
as¬ soluta indifferenza del contenuto. Sarebbe come sostenere nel
campo della terapeutica che ciò che importa nella ricetta è la firma
della sua ragion di essere nelle condizioni storiche, dalla cui presenza
è circoscritta la sua validità? Se la limitazione non dipende da
queste condi¬ zioni, ma essa pure non ha altra ragione di es¬ sere
all’ infuori dell’ autorità o del carattere impe¬ rativo col quale hic et
nunc si presenta, allora si ammette che, astrazion l'atta da questo
carattere di obbligatorietà col quale una certa norma si pre¬ senta
in quel certo tempo e luogo, non vi sarebbe nessuna ragione di preferire
nelle stesse circostanze una norma ad un’ altra, cioè si giunge per un
al¬ tra via all’indifferenza del contenuto (1). Se poi questa
limitazione ha la sua ragione di essere nelle condizioni storiche stesse,
entro le quali è valida, cioè in una parola se__ò relativa a queste
condizioni, allora si ammette che sono queste condizioni il criterio
della limitazione ed è la corri¬ spondenza a queste condizioni storiche
il criterio della validità. Cioè si ammette che vi è qualche cosa
che dà alla norma il suo valore all’ infuori del- 1’ obbligazione e al
disopra dell’autorità obbligante, medico, e le prescrizioni di
qualunque genere si equivalgono 1’ una l’altra. E forse è ancor meno
manifestamente falso questo che quello. Non sarà però
inopportuno avvertire che ogni questione intorno al merito dell’ agente
rimane qui al tutto in disparte. (lT E lascio^ le difficoltà che
nascono dalla necessità di ammet¬ tere un’ altra rivelazione alla cui
autorità si possa ricondurre la limitazione in discorso. dal momento
che esso serve anche a stabilire i limiti entro i quali 1 autorità è
riconosciuta come valida. Cioò si viene a riconoscere ancora come 1’
ob¬ bligazione non possa essere un dato sufficiente alla
determinazione e valutazione delle norme, e come per essa non solo non
possa essere negata, ma venga confermata la legittimità di una scienza
nor¬ mativa morale. 15. — Senoncliè a questo punto mi sento
op¬ porre un nome, un gran nome: Kant. Ma dunque non ^esiste la
Morale Kantiana ? Non ricava egli dalla volontà buona, dal dovere, dall’
osservanza della l egge perda legge, la norma morale suprema, nella
notissima formula, nella quale, indipendente¬ mente da ogni particolare
rivelazione storica, c sopra ogni speciale contenuto materiale, si
raccoglie tutto un sistema di norme razionali ? E s e la sua
morale è f m^gle. cessa perciò di avere il suo valore, e sopratutto cessa
di esistere, e, a fortiori, di essere possibile? — Certamente
a nessuno può venire in mente di negare la possibilità di un sistema che
ò esistito ed esiste, e a me, forse meno che ad altri, di ne¬ garne
il valore. Così la grande costruzione razionale dei doveri
dell’ uomo del Kant, come la grande costruzione razionale dei diritti
dell’ 'uomo che piglia nome dalla Rivoluzione Francese sono ben lungi dal
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tare il facije compatimento col quale parlano di astrazioni e di
formalismo certi fonografi della so- ciologia. Ma qui al
proposito nostro importerebbe vedere la costruzione razionale del Kant
sia fondata sul d ato dell’ obbligazione, co me pare , o non ni ut trist
o sulbesigenza dell' universalitaTche nKanTcrede bensì
trovare implicita nel concetto del dovere, ma v* /v T<
ì»-^uAtv\ 7 u-iC' che è invec e caratteristica dell’ ide
a_di ' » senza la quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap- p
robazione interiore dell’obbligo, che è propria della ^ -y j coscienza
del dovere (1). Perchè i l concetto iÌT"degg e che serve al
Kant per passare dal dato del dovere all’esigenza dell’uni¬
versalità, non è un elemento contenuto nel dato stesso e che possa
esserne ricavato analiticamente, ma (L una sintesi nella qual e insieme
coll’obbliga- zioneè già assunta l’esigenza dell’universalità che
la giustifica. Ed è questa e sigenza dell’ universalit à, non
il dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il cri¬ terio
supremo della morale. Ma a ben chiarire questo punto — come,
anche nella morale kantiana, l’imperatività non sia un dato
sufficiente alla determinazione delle norme, e come in realtà venga
assunto non solo un criterio (1) Di questo argomento ho trattato di
proposito altrove. Cfr. Prolegomeni ecc. pp. 19-88. (
C* «M. ÀtydL* UO-rutL <.TKv non ricavato da quella, ma implicitamente
anche un certo contenuto — occorrerebbe un’analisi assai meno
sommaria; poiché non è questo un argomento da sbrigarsi così alla
lesta. Basti per ora non aver omesso 1’ accenno. IL
FONDAMENTO INTRINSECO DEL DIRITTO secondo I il Vanni Il
Fondamento Intrinseco del Diritto SECONDO VANNI (*) --
Nota Critica - Il volume dal titolo « Lezioni di Filosofìa
del Diritto », la cui pubblicazione fu curata con rive¬ rente pietà
e con devota ammirazione dalla Vedova e da alcuni tra i più valenti Discepoli
poco dopo la morte immatura dell’Autore, è forse tra gli scritti
del Vanni quello in cui la sua dottrina ap¬ pare più compiutamente
ordinata a sistema, e nel quale a un tempo si rivelano felicemente
congiunte le qualità dello scienziato e dell’insegnante; e ve¬
ramente si può considerare come il testamento scientifico del celebrato
Maestro. Certo, qualunque giudizio porti sul fondamento e sulla validità
in¬ trinseca del sistema, nessuno può disconoscere la larghezza e
la profondità della coltura filosofica e giuridica, e la chiarezza della
trattazione; e sopra¬ tutto la sincerità e, direi, 1’ onestà scientifica
che ò propria di chi medita e scrive per amore disin¬ teressato del
vero. Vanni, Lezioni di Filosofia del Diritto — Bologna, Zanichelli,
. La l'ilosofia del Diritto abbraccia,
secondo il ^ tre ricerche : la ricerca critica ; la ricerca
sintetica o lcnomenologia giuridica ; e la ricerca deontologica.
Nella prima egli comprende non soltanto la de¬ terminazione
dell’oggetto, dei metodi e dei rapporti della filosofia del diritto colle
scienze affini, ma anche una indagine preliminare di critica
gnoseo¬ logica. che il Groppa li accordandosi col Fraga pane
ritiene, a mio giudizio giustamente, estranea al compito di questa disciplina.
Giustamente, finché si intende che la filosofia del diritto debba
istituire una sua propria ricerca gnoseologica ; ma non se si
intende anche di negare la opportunità di pre¬ mettere, come in fondo fa
il Vanni in queste Lezioni, quali sono i presupposti gnoseologici
accettati. Poiché ogni dottrina deve pur assumerne, di una o
d’altra speeie, esplicitamente o implicitamente. Ed è bensì vero che essi
si possono sottintendere e si applicano di solito nelle ricerche speciali
taci¬ tamente. Ma compito del filosofo è appunto, come osservava il
Rosmini, di c omprendere e fo rmulare elii aramente quello che gli altri
sottintendon o. Del resto il fatto che il Vanni voglia prender
le mosse da una v alutazione critica sulla natura e al sapere
giuridico, prova quanta larghezza di pen¬ siero, e direi, di coscienza
filosofica egli portasse nelle sue ricerche, e con quanto scrupolo
sentisse l’obbligo di rendersi conto anche dei più lontani e
generali presupposti della sua dottrina. La seconda ricerca si
sdoppia in due parti : statica, che determina la nozione logica del
diritto, inducendola dell’analisi del diritto positivo dei po¬ poli
più progrediti, e similmente dello Stato; dina¬ mica (genetica o storica)
che studia la genesi e la formazione storica del Diritto e dello Stato; e
si potrebbe anche chiamare filosofìa della storia del diritto. Alle
quali due ricerche corrispondono le parti II® e III® del volume.
Finalmente la terza ricerca di carattere etico o valutativo ha per
oggetto il problema della Giu¬ stizia, ossia del fondamento intrinseco e
delle esi¬ genze razionali del diritto. Questa, che costituisce la
parte IV® ed ultima, ò senza dubbio la più im¬ portante, perchè riguarda
quello che è il problema centrale della filosofìa del diritto; e nella
cui so¬ luzione principalmente Si manifesta la nota carat¬
teristica delle diverse dottrine. E la dottrina del Vanni, benché
l’indirizzo e. direi, la moda oggi prevalente la consideri oltrepassata,
merita di es¬ sere ricordata e discussa; perchè mentre intende il
compito della filosofia del diritto non soltanto come storico-genetico,
ma anche come normativo, (nel che si accorda coll’ idealismo) si propone
di assol¬ vere questo compito tenendosi nei limiti d’una costruzionc
puramente scientifica, ed escludendo ogni postulato di natura metafisica;
nel che consente col proposito, se non col metodo, dello storicismo
c del positivismo. Ora il difetto principale della sua dottrina,
non nasce, come può parere a prima vista, dalla pre¬ tesa e
comunemente ammessa inconciliabilità tra il compito normativo e la
validità scientifica ; chè anzi questo intendimento, chiaramente
concepito e tenacemente proseguito, di una costruzione normativa
scientifica del diritto, è a mio giudizio, un alto titolo di merito; ma
nasce dall’essersi fermato, direi, a mezza via nel rilevare a quali
condizioni sia possibile una costruzione etico-giuridica che sod¬
disfaccia a un tempo ad ambedue le esigenze. La jiottrina del Vann
i, per quel che riguarda il fondamento intrinseco del diritto e il
metodo, si può considerare come una forma di quella che lo Spencer
ha propugnato e difeso col nome di utilitarismo razionale: e infatti, pur
rilevando giusta¬ mente l’importanza e il valore del pensiero del
Romagnosi, egli la riconosce come il precedente più immediato e più
notevole della sua. Ma la trova erronea per tre rispetti ; perchè ammette
un diritto naturale; perchè pretende di costruire una norma etico-giuridica
assoluta ; e perchè Analmente lo Spencer intende le condizioni di
esistenza da cui le norme devono essere dedotte, in un senso puramente
biologico. Principalmente su questo ultimo punto egli accentua il suo
dissenso, prendendo come base, non le condizioni dell’esistenza
individuale e la legge della sopravvivenza dei più adatti, ma le
condizioni dell’esistenza sociale. Il fondamento dell’ etica sta dunque
nella necessità per chi vive in società (e la socialità è la esigenza
suprema del- 1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni ed
alle esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica dimostra
intrinsecamente necessarie quelle forme e quei modi di condotta che sono
richiesti dalle condizioni della vita in comune. Fra queste condizioni ve
ne sono alcune che hanno un’ importanza fondamentale e primaria, in quanto
rappresentano l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione;
e nell’osservanza delle quali consiste la giustizia. Ma poiché queste
potrebbero non essere spontanea¬ mente osservate, è necessario che le
azioni relative ad esse non restino abbandonate alla buona volontà
e alla spontaneità e che « con una norma di con¬ dotta irrefragabilmente
obbligatoria ed eventual¬ mente coattiva s’induca all’osservanza anche
il volere recalcitrante. Quindi in altri termini la ne¬ cessità del
diritto, il quale ci apparisce allora come una norma che ha da garantire
le condizioni fonlamentali per la coesistenza e la cooperazione umana.
Cosi non soltanto l’Etica, ma anche il Di¬ ritto viene ad avere un
fondamento intrinseco, e viene ad averlo anche lo Stato, il quale è
indispen¬ sabile alla funzionalità (tei Diritto » (pag. 314).
Xon è necessario un lungo discorso per vedere che quando il Vanni
crede di fondare in questo modo F esigenza razionale del diritto finisce
per assumere in realtà come presupposto il principio che egli
vuole, e crede di dovere, derivare apodit¬ ticamente, e al quale appunto
è subordinato il va¬ lore di necessità razionale assegnato alle norme
ideali che devono servire di modello e di criterio di valutazione.
Infatti la relazione naturale e ne¬ cessaria tra una certa condotta e
certe condizioni, necessarie alla loro volta alla convivenza e
coope¬ razione sociale, serve bensì a stabilire che quella condotta
deve essere riconosciuta come un mezzo necessario al fine di conservare e
promuovere la convivenza e la cooperazione sociale, posto che
questo sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non vale a
stabilire la necessità razionale di riconoscerlo come fine; e fine
precedente in valore e autorità ad ogni altro. Il \ anni par che
intenda superare la difficoltà osservando che la necessità puramente
naturale in quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto in
una esigenza ed in una necessità razionale. « Essa allora esprime un
principio logico fondamentale, il principio di contraddizione ». Se in
forza della na¬ tura stessa delle cose c dei rapporti causali, per
ottenere un certo fine è indispensabile un certo mezzo, e per raggiungere
un certo risultato è in¬ dispensabile un certo modo di condotta,
impliche¬ rebbe contraddizione che si potesse impiegare un mezzo
diverso o seguire una condotta diversa (p. 315). Ma ò facile
vedere 1’ equivoco. Contraddizione vi è certamente tra il pensare che una
condotta è indispensabile a raggiungere un certo fine e pen¬ sare
che questo stesso fine possa essere raggiunto con una condotta diversa ;
ma io non violo nes¬ sun principio logico e non sono punto in con¬
traddizione con me stesso se, ammettendo che un certo fine dipende da
certi mezzi, non voglio il fine e non voglio perciò neanche i
mezzi. E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale all’
ordine cosmico, considerandolo come la forma più alta a cui riesce 'iì
processo della^ evoluzione universale. Perchè non si fa altro in questo
modo, che spostare il presupposto; cioè ammettere, an¬ cora e
sempre, che si riconosca valore di fine su¬ biremo a questo adattamento
all’ ordine cosmico. Il quale presupposto potrà o non potrà
venir legittimamente assunto come dato o postulato ; ma è e rimane
un presupposto. E perciò le norme ideali che se ne deducono hanno questo
valore di nonne nell’ ipotesi che si accetti come fine supremo
quel- P ordine di effetti dal quale sono dedotte. «
Ma rilevando cosi il carattere necessariamente ipotetico della
costruzione, alla quale riesce anche il « sistema delle condizioni della
vita in comune » del Vanni, io non intendo, anzi escludo, che
questo carattere ipotetico costituisca per sò un vizio proprio di questa
e di tutta una classe di costruzioni etico-giuridiche, come pretende P
idealismo metafì¬ sico. Il quale si illude di poter esso sfuggire a
questo carattere ipotetico riallacciando quel tipo di convivenza e di
relazioni sociali, che assume come modello e in conformità al quale
determina le norme ideali, a un fine di natura metafìsica, che
abbia perciò valore assoluto. Dove sono da notare, sia detto di passata,
due circostanze, a mio giudizio, decisive : Primo : che le norme ideali
sono pur sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni sforzo od ogni
apparenza contraria, dal tipo sociale as¬ sunto come modello, e non dal
fine metafisico, della cui autorità e del cui valore esso si riveste.
Secondo: che il valore assoluto di questo fine metafisico non può
essere che assunto aneli’esso o come dato o come postulato.
La verità è semplicemente che un sistema di norme giuridiche
contempla di necessità un certo ordino di vita individuale e sociale; e
che la validità dello norme dipende dal valore che si sup¬ pone
riconosciuto a questo ordine di vita. Questo riconoscimento di valore,
questa valutazione del fine è dunque il presupposto inevitabile della
va¬ lidità etica del sistema (la quale non esclude la validità
scientifica, ma non si esaurisce in questa); e la questione si riduce a
decidere se si pub o non si può assumere legittimamente come dato o
come postulato questo riconoscimento del valore che nel sistema è
assegnato al fine. Ora è nel rispondere a questa questione,
non nel carattere ipotetico, che si rivela l’insufficienza del
sistema del Vanni e dell’ indirizzo naturalistico in genere; e alla quale
del resto non riesce a sfug¬ gire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti
una risposta adeguata alla questione esige che si deter¬ minino le
condizioni richieste perchè a un ordine di convivenza e di cooperazione
si riconosca valore di fine universalmente regolatore, valore,
direi, (piuttosto che di summum bonum ) di primum de¬ siderabile ;
ossia perchè si possa ammettere che tutti i soci consentano liberamente
nel valutarlo e vo¬ lerlo come tale. E che si assuma poi, come
modello per dedurne le norme ideali, il tipo sociale che soddisfa a
questa esigenza ; cioè il tipo sociale con¬ figurato in conformità di
quelle condizioni. Ma non è rispondere alla questione il
dimostrare la naturalità della convivenza sociale in genere, o di un
certo tipo che si assuma volta a volta come modello. Questa dimostrazione
può servire a farmi trovar buona o giusta o desiderabile P
osservanza dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto o
degno di essere voluto, quel tipo di vita sociale, cbe si presenta come
suo effetto ; ma non inversamente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi
a subirlo per la coscienza della sua necessità natu¬ rale. chi potrebbe
legittimamente scambiare questo subire con un volere . e la rassegnazione
a un male con la aspirazione a un bene ? Nemmeno gioverebbe,
d’altra parte, il ricorrere a postulati metafisici. Posto che io non
riconosca l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema come
degno di essere voluto, in qual modo si può presumere legittimamente che
valga a farmelo ri¬ conoscere tale Vaffermazione (poiché qui di dimo¬
strazione non si potrebbe parlare) che esso ha un fondamento o una
giustificazione metafisica, se la ragione per la quale il sistema gli
assegna questo fondamento consiste appunto nel valore di fine che
esso gli attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli riconosco? Ma il
Vanni (per restringermi a lui. poiché all’ndirizzo metafisico non ho accennato
qui se non per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe con
tutta probabilità che per la via indicata come la sola legittima si
riesce a una costruzione pura¬ mente astratta, di un tipo utopistico di
società che non trova nella realtà storica nessuna corrispondenza; e che
si ricade nei difetti (ai quali appunto egli, d’accordo in ciò con la scuola
storica, s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o di un
diritto assoluto valevole per tutto c sempre, e senza riferimento possibile
alla variabilità dei rapporti sociali. Mentre riponendo, come
egli fa, il fondamento intrinseco del Diritto n ella conformità della
condotta alle condizioni richieste dalla vita in comune, questo
riferimento non solo appare possibile ma inevitabile. Infatti, insiste
egli nel rilevare, le con¬ dizioni della vita in comune non sfuggono al
moto dell’ evoluzione e della storia ; e se anche alcune hanno il
carattere d’una certa uniformità e co¬ stanza, altre invece variano
correlativamente al grado di sviluppo umano e alle forme di
organizzazione sociale, e sono proprie di ciascun grado e di ciascuna
forma. Il che importa che debbono variare corrispondentemente le norme
regolatrici ; os¬ sia che nell’applicazione « il sistema etico-giuridico
fondato sulle condizioni di esistenza va combinato col principio di
evoluzione e subordinato al criterio della relatività storica.” Ora,
lasciando di rilevare come con questa subordinazione si assuma sempre per
presupposto che l’osservanza delle condizioni richieste dal tipo sociale
storicamente dato, abbia, per il solo l'atto che la coscienza* ne
riconosce la necessità storica, anche valore di fine, importa notare come
si venga con ciò a rinunziare ad ogni valutazione comparativa delle
diverse forme storiche del diritto. Perchè una valutazione comparativa
richiede di necessità un criterio, il quale non può essere dato dalla
corrispondenza alle condizioni storiche. E se si prende un criterio
diverso, allora è la conformità a questo criterio e non la necessità
storica, che si assume come esigenza razionale o come giustificazione
inrinseca del diritto. È certo che se una costruzione
etico-giuridica per essere razionale dovesse rimanere sospesa, come
gli Dei d’Epicuro, tra cielo e terra, e fuori di ogni possibilità di
applicazione alla condotta individuale e collettiva, bisognerebbe accettare la
tesi del fenomenismo, e negare alla filosofia del diritto qualsiasi
funzione pratica riconducendola nell’ ambito della pura sociologia.
Ma esiste davvero questa incompatibilità? E non potrebbe essa
dipendere, invece che dalla radicale sterilità di una costruzione veramente
razionale, dalla preoccupazione di giustificare eti- Se, e a quali
condizioni, una tale costruzione sia possibile, è argomento del quale s 1
è già discorso altrove e che non può esere toccato di sfuggita. camentc
forme di diritto che non sono eticamente giustificabili, di assumere come
condizioni richieste dalla giustizia e conformi ad essa certe
condizioni, reali sì, e storicamente date, ma che sono la negzione di
quelle richieste dalle esigenze ideali? Perchè se fosse cosi, Ih conclusione da
trarne sarebbe non che la costruzione razionale ò inapplicabile
come criterio di valutazione e come modello normativo, ma che, essendo le
condizioni reali diverse da quelle idealmente contemplate, le norme
ideali non possono essere applicate simpliciter a condizioni
diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi dovranno ugualmente servire come
criterio per determinare quale sia in un dato momento storico la condotta
sociale e individuale che, nei bifidi delle esigenze reali
necessariamente imposte dalle condizioni in effetto esistenti, è più
acconcia a favorire la trasformazione di queste nella direzione se¬ gnata
da qualle esigenze ideali, ossia tende ad at¬ tuarle. il che importa che
le esigenze corrispondenti alle condizioni proprie di un certo momento
storico non siano assunte esse come esigenze razionali del diritto,
ma forniscano il criterio per stabilire entro quali limiti sia possibile
tradurre in norme di di¬ ritto positivo le norme ideali.
Ossia in breve : l’esigenza razionale segna le condizioni a cui
deve soddisfare un ordino sociale perchè possa aver valore di fine; la
realtà storica. La Dottrina delle Due Etiche di H. Spencer e la
Morale come Scienza. Per Una Scienza Normativa Morale
Il Fondamento Intrinseco del Diritto secondo il Vanni. Erminio
Volfango Francesco Juvalta. Herren von Juvalt. Juvalta. Keywords: implicature,
il metodo dell’economia pura nell’etica, il principio della cooperazione,
cooperazione e desiderabilita universale, ragione e cooperazione, cooperazione
come mezzo, ragione di mezzo, tra altruism ed egoism, amore proprio,
benevolenza, giustizia. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Juvalta on the
categorical imperative,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.
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