Grice e Labeone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma).
Filosofo italiano. Marco Antistio Labeone. Ha larga cultura filosofica uno dei
maggiori giuristi dell'età augustea, M. Antistio Labeone, ma si ignora se segue
un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura, ma Labeone rifiuta il
consolato offertogli da Ottaviano perchè conseguito prima di lui da persona
meno anziana. Labeone appartenne al partito repubblicano. Si dice che
Labeone abbia scritto 400 libri di cui restano frammenti. Si ricordano fra
gli altri: "De iure pontificio" -- in almeno 15 libri, diversi "Commentarii
giuridici", 7davd, "Responsae", in almeno 15
libri, "Librì posteriores", in almeno 40 libri. Labeone
s'interessò anche di studi logico-grammaticali.
Grice e Labriola – implicature – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Cassino). Filosofo italiano. Grice: “Labriola is good; he reminds
me of pinko Oxford!” -- Essential Italian philosopher -- Con particolari
interessi nel campo del marxismo. Nacque da Francesco Saverio, insegnante
ginnasiale di lettere, e da Francesca Ponari. Il padre, oriundo di Brienza, era
nipote diretto di Pagano. Si iscrisse alla facoltà di filosofia di Napoli,
città nella quale la famiglia si era trasferita. Qui studia con Vera e Spaventa,
il cui appoggio gli procura un posto di applicato di pubblica sicurezza nella
segreteria del prefetto. Scrive Una risposta alla prolusione di Zeller,
un'opera in cui osteggia il neokantismo contro ogni ipotesi di un ritorno a
Kant. Rivendica l'attualità dell'hegelismo. Conseguì il diploma di abilitazione
e insegnò nel ginnasio Principe Umberto di Napoli. Il suo saggio, premiato
dall'Napoli, sull'”Origine e natura delle passioni”: una significativa presa di
distanze dall'idealismo in favore del materialismo. Scrive “La dottrina
di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele”, premiata dalla Reale Accademia di Scienze
morali e politiche di Napoli. Consegue la libera docenza in filosofia della
storia e si mette in aspettativa in attesa di ottenere un incarico
nell'Università; scrive la dissertazione “Esposizione critica della dottrina di
G. B. Vico” e collabora con il giornale svizzero "Basler
Nachrichten", al quale invia corrispondenze politiche, al quotidiano
napoletano "Il Piccolo", fondato e diretto da Rocco De Zerbi, futuro
deputato e leader dell'Unione liberale, un gruppo politico al quale Labriola
aderisce. Entra anche nella redazione della "Gazzetta di Napoli" e,
nel febbraio 1872, in quella de L'Unità Nazionale, diretta da Ruggiero Bonghi,
al Monitore di Bologna e alla Nazione di Firenze, nella quale escono le sue dieci
Lettere napoletane. Si dichiara herbartiano in psicologia e in morale,
pubblicando a Napoli i saggi Della libertà morale, dedicata ad Arturo Graf e
Morale e religione. Trasferitosi a Roma, ove muore di difterite il figlio
Michelangelo, supera il concorso alla cattedra
di filosofia e pedagogia all'Roma. Pubblica il saggio Dell'insegnamento della
storia e l'anno dopo è direttore del Museo di istruzione e di educazione: sono
anni in cui Labriola mostra un particolare impegno verso il miglioramento del
livello professionale degli insegnanti e la diffusione dell'istruzione di base
della popolazione, inteso come primo passo per una maggiore democrazia del
paese. A questo scopo s'informa sugli ordinamenti scolastici dei paesi europei:
nel 1880 pubblica gli Appunti sull'insegnamento secondario privato in altri
Stati e nel 1881 l'Ordinamento della scuola popolare in diversi paesi.
Contemporaneamente Labriola abbandona le convinzioni politiche di moderato
liberalismo per approdare a posizioni radicali: oltre alla lotta all'analfabetismo,
auspica l'intervento dello Stato nell'economia, una politica sociale di
assistenza ai poveri, il suffragio universale che permetta anche a candidati
operai l'ingresso al Parlamento. Ottiene la cattedra di filosofia della storia
all'Roma e inizia un corso di storia del socialismo. A seguito di notizie che
danno imminente la stipula del Concordato con il Vaticano, Labriola tiene
all'Università la conferenza Della Chiesa e dello Stato a proposito della
conciliazione, considerando una minaccia per la libertà di pensiero ogni
accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza nella vita pubblica italiana. Il quotidiano romano La Tribuna pubblica una sua
lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere «teoricamente socialista ed
avversario esplicito delle dottrine cattoliche» e nella conferenza Della scuola
popolare, auspica l'abolizione dell'insegnamento religioso. Sul giornale
Il Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica contro le manifestazioni; tiene
agli operai di Terni un discorso su Le idee della democrazia e le presenti
condizioni dell'Italia, in cui afferma di impegnarsi personalmente in politica
e dichiara di desiderare un «governo del popolo mediante il popolo stesso» e la
formazione di un grande partito popolare. Scrive che «I parlamenti, come forma
transitoria della vita democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo
del proletario» e il 20 giugno tiene nel Circolo operaio romano di studi
sociali il discorso Del socialismo commemorando la Comune di Parigi.
Nell'ottobre Labriola saluta il congresso della socialdemocrazia tedesca a
Halle scrivendo che «Il proletariato militante procederà sicuro sulla via che
mena diritto alla socializzazione dei mezzi di produzione ed l'abolizione del
presente sistema di salariato, fidando solo nei suoi propri mezzi e nelle sue
proprie forze». Nel 1890 entra in rapporto epistolare con Engels, che
conoscerà a Zurigo, e con i maggiori dirigenti socialisti europei, Kautsky,
Liebknecht, Bebel, Lafargue, mentre rimprovera a Filippo Turati, il più
prestigioso leader socialista italiano e direttore della rivista Critica
sociale, superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degli avversari
politici. Vuole che il Partito socialista, che deve nascere ufficialmente con
il Congresso di Genova del 14 agosto 1892, sia un partito di operai e non di
intellettuali positivisti borghesi. Vede nei Fasci siciliani un concreto
esempio di socialismo popolare e rivoluzionario e lamenta che il marxismo non
riesca a essere compreso in Italia. Fa lezione sul Manifesto di Marx ed
Engels e scrive a quest'ultimo, di star facendo un nuovo corso «su la genesi
del socialismo moderno» ma di non riuscire a risolversi a scriverne un saggio
per l'ignoranza su tanti «fatti, persone, teorie, etc, che sono tante fasi,
tanti momenti né sentiti né conosciuti in Italia», come ribadisce a Victor
Adler che «il marxismo non piglia piede in Italia». Su sollecitazione del
Sorel, scrive In memoria del Manifesto dei comunisti, il primo dei suoi saggi
sulla concezione materialistica della storia, che esce in francese sulla
rivista del Sorel, Le Devenir social; lo spedisce a Engels in luglio,
ricevendone le lodi. Anche il giovane Croceche ne promuove la stampa in
Italiane è influenzato tanto da attraversare il suo pur breve periodo di
adesione al marxismo. Nei due anni successivi Labriola scrive altri due saggi,
Del materialismo storico, dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo
e di filosofia. È sepolto presso il cimitero acattolico di
Roma. Schematicamente, possiamo suddividere il percorso filosofico e
politico di Labriola in tre diversi momenti: innanzitutto fu propugnatore
dell'idealismo hegeliano (influenzato da Bertrando Spaventa, del quale fu
allievo a Napoli); successivamente, possiamo distinguere una fase contrassegnata
dal rifiuto dell'idealismo in nome del realismo herbartiano, ed infine, il
momento della maturità, in cui aderisce pienamente al marxismo.
L'approccio di Labriola al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart, per cui è
più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi come Karl Kautsky. Egli vide il
marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla storia, ma
piuttosto come una filosofia autosufficiente per capire la struttura economica
della società e le conseguenti relazioni umane. Era necessario aderire alla
realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo voleva considerare la
complessità dei processi sociali e la varietà di forze operanti nella storia.
Il marxismo doveva essere inteso come una teoria ‘critica', nel senso che esso
non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad interpretare le
contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo al centro della
sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque la concreta e
materiale "prassi" umana. La sua descrizione del marxismo come
"filosofia della prassi" verrà ripresa nei Quaderni dal carcere di
Gramsci. In pedagogia Labriola avvertì l'esigenza collettiva dei tempi
nuovi, il bisogno di una scuola popolare che servisse da reale tessuto
connettivo dell'Italia post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e
fine dell'evoluzione morale (e complessiva) delle classi subalterne.
Nella monografia Dell'insegnamento della storia, del 1876, dedicata alle più
importanti questioni della pedagogia generale, Labriola aveva asserito la
centralità dell'educazione alla socialità: il metodo pedagogico doveva essere
quello della ricerca critica e di dibattito e di sperimentazione, unica via
capace di condurre alla padronanza del pensiero logico-razionale e in grado di
formare personalità aperte alla ricerca e al confronto (non a caso i primi
studi di Labriola erano stati rivolti a Socrate e al metodo socratico).
Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per Labriola era necessaria
un'attenzione maggiore ai prerequisiti logici piuttosto che alla struttura
interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che egli
chiama un'epigenesi analitica. Celebre fu una sua conferenza tenuta
nell'Aula Magna dell'Roma, discorso
sollecitato dalla stessa Società degli Insegnanti della capitale, che poi ne
curò la pubblicazione in opuscolo. Era necessario dare concretezza a
piani di istituzioni scolastiche entro le quali le didattiche si sviluppassero
non da una deduzione della teoria, ma come risultato di lotte politiche, di
ideali sociali, di tradizioni storiche, di condizioni ambientali. Per Labriola
proprio l'azione dell'ambiente storico sociale sugli uomini e la loro reazione
ad esso costituiscono il tema dell'educazione. Per cui « le idee non cascano dal
cielo ». Il metodo deve partire dalla prassi, dalla pratica e non dalle idee,
dai principi astratti. Il nucleo essenziale della pedagogia della «
prassi » sta nella percezione della connessione dell'opera educativa con le
condizioni dello sviluppo economico-sociale. Trockij conobbe «con
entusiasmo» l'opera di Labriola nel 1898, quand'era detenuto nel carcere di
Odessa. Egli scrive nelle sue memorie che «come pochi scrittori latini,
Labriola possedeva la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'era
impacciato, certo nel campo della filosofia della storia. Sotto quel
dilettantismo brillante c'era vera profondità. Labriola liquida egregiamente la
teoria dei fattori molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di
lassù i nostri destini». Trockij aggiunge che dopo 30 anni continuava a
rimanergli in mente «il ritornello Le idee non cascano dal cielo». Opere
Una risposta alla prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo
l’Etica di Spinoza, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed
Aristotele, Napoli, Stamperia della Regia Università, Della libertà morale, Napoli, Tipografia
Ferrante-Strada, Morale e religione, Napoli, Tipografia Ferrante, Dell'insegnamento
della storia. Studio pedagogico, Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola
popolare in diversi paesi. Note, Roma, Tip. eredi Botta, I problemi della filosofia della storia.
Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della scuola popolare. Conferenza
tenuta nell'aula magna della Università, Roma, Fratelli Centenari, Al comitato
per la commemorazione di G. Bruno in Pisa. Lettera, Roma, Aldina,Del
socialismo. Conferenza, Roma, Perino, Proletariato e radicali. Lettera ad
Ettore Socci a proposito del Congresso democratico, Roma, La cooperativa, Saggi intorno alla concezione materialistica
della storia I, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma, Loescher, Del
materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo di
socialismo e di filosofia. Lettere a G. Sorel, Roma, Loescher, B. Croce, Bari,
Laterza, Da un secolo all'altro.
Considerazioni retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la
libertà della scienza, Napoli, Tipi Veraldi, A proposito della crisi del
marxismo, in "Rivista italiana di sociologia", Scritti varii editi e
inediti di filosofia e politica, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce,
Bari, Laterza, Socrate, Benedetto Croce, Bari, Laterza, La concezione
materialistica della storia, con un'aggiunta di B. Croce sulla critica del
marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni sulla storia e il materialismo
storico; In memoria del Manifesto dei comunisti, Brescia, Studio Editoriale
Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia e socialismo in Italia,
Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Luigi Dal Pane, I, Scritti e
appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La dottrina di Socrate
secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano, Feltrinelli, Ricerche sul
problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano, Feltrinelli, Scritti
di pedagogia e di politica scolastica, Dina Bertoni Jovine, Roma, Editori
Riuniti, Saggi sul materialismo storico, Valentino Gerratana e Augusto Guerra,
Roma, Editori Riuniti, introduzione e cura di Antonio A. Santucci, Il
materialismo storico, antologia sistematica Carlo Poni, Firenze, Le Monnier, Pedagogia
e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e introduzioni di Demiro
Marchi, Firenze, La nuova Italia,Scritti politici. Valentino Gerratana, Bari,
Laterza, Opere, Franco Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici e politici, Franco
Sbarberi, Torino, Einaudi, Lettere a Benedetto Croce. Napoli, Istituto italiano
per gli studi storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era della concorrenza
al monopolio. Nascita e lotte del socialismo. IV saggio, incompiuto, della
concezione materialistica della storia, Lecce, Milella, Scritti liberali, Bari,
De Donato, Scritti pedagogici, Nicola Siciliani De Cumis, Torino, POMBA, Epistolario
Roma, Editori Riuniti, Roma, Editori Riuniti, Roma, Editori Riuniti, Lettere inedite. Roma, Istituto storico
italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica italiana Corrispondenze
alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di Stefano Miccolis,
Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti, Milano, M&B
Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI, Giordano
Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni
della Normale,. Tutti gli scritti
filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,.
Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione
l'edizione nazionale delle opere di Antonio Labriola, istituita con decreto del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, A.Savorelli
e A. Zanardo, Bibliopolis, I problemi della filosofia della storia e recensioni
G. Cacciatore e M. Martirano, Bibliopolis, Da un secolo all'altro. Stefano
Miccolis e Alessandro Savorelli, Bibliopolis,. Copia archiviata, su
archividifamiglia-sapienza.beniculturali. L. Trotzkij, La mia vita,Carlo
Fiorilli, Antonio Labriola. Ricordi di giovinezza, in «Nuova Antologia», Giuseppe
Berti, Per uno studio della vita e del pensiero di Antonio Labriola, Roma, Ernesto
Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani: Milano, Luigi
Cortesi, La costituzione del Partito socialista italiano, Milano, Sergio Neri,
Antonio Labriola educatore e pedagogista, Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio
Labriola, la vita e il pensiero, Bologna, Demiro Marchi, La pedagogia di
Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e
nella cultura italiana, Torino, Stefano Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e
scienze dello spirito alle origini del marxismo italiano, Milano, Giuseppe
Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio Labriola, Roma, Filippo Turati,
Socialismo e riformismo nella storia d'Italia. Scritti politici, Milano, 1979.
Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali, Bari, Stefano Poggi, Introduzione
a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi, Antonio Labriola. Dalla filosofia di
Herbart al materialismo storico, Bari, Franco Livorsi, Turati. Cinquant'anni di
socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi, Ordinamento politico e società
nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio Areddu, Sulle lettere di
Antonio Labriola a Benedetto Croce, Firenze, Renzo Martinelli, Antonio
Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende del
marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce
nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini,
"Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo",
in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale M. Guidi e L. Michelini, Annali della
Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e
nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A.
Labriola, "Il Cronista", Antonio Labriola e la sua Università. Mostra
documentaria per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di
Antonio Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio
introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia,
Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi,
contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007.
Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica,
Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis,
Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica,
Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio
Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,, Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale
di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro
Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Antonio Labriola, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Antonio Labriola, su Liber
Liber. Opere di Antonio Labriola, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio
Labriola, su Progetto Gutenberg.
L'Archivio Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio
Labriola, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Roma. La personalità storica di
Socrate Socrate o gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate.
Carattere di Socrate. Osservazioni su le fonti. Orizzonte delia coscienza
socratica Posizione di Socrate nella
storia della religione. IElementi della coscienza di Socrate. Del valore
filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del
formalismo logico. Limitazione del sapere umano. Socrate e i Solisti. Pretesa
soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti
storici e psicologici. Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione
formale del metodo socratico. Della differenza fra rappresentazione e concetto,
e del principio d'identità. Dell' etica socratica in generale, e del concetto
del bene. Conoscere e volere. Equazione fra volere c sapere (ptù&i cautdv).
Fondamento della pedagogia socratica. Le forme concrete della vita elica È
Socrale un riformatore? L’individuo e le sue relazioni domC5tiche. L’ individuo e lo stato. Vili.Delle virtù. Generalità.
Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e
del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità c del
sapere. Del bone. Della felicità. Del
sapere. Del divino e dell’anima umana nell’orizzonte socratico. Il Concetto del
divino. II concetto dell’ anima. Riepilogo e conclusione La personalità
storica di Socrate. Socrate e gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della
coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni su
le fonti. Orizzonte della coscienza socratica. Posizione di Socrate nella
storia della religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del
valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del
forma- lismo logicoLimitazione del sapere umano. Socrate e i Sofisti. Pretesa
soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti
storici e psicologici. Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione
formale del metodo socratico. Della differenza fra rappresentazione e
concetto, p^^- e del principio d'identità. Dell'etica socratica i?i
generale, e del concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione
fra volere e sapere (yvttjtì-t. aauxóv). Fondamento della pedagogia
socratica. Le forme concrete della vita etica . È Socrate un riformatore?
L'individuo e le sue relazioni domestiche L'individuo e lo Stato. Delle
viriti. Generalità. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione
della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene,
della felicità e del sapere. Del bene. Della felicità. Del sapere. Del
divino e dell'anima umana nell'orizzonte socratico. Il Concetto del divino. Il
concetto dell'anima. Formalismo logico. Senofonte e Platone (') mettono in
bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse
ripeter sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il
libero corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea
esprimere il suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla
maniera di Gor- gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto
il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera sdegnosa
e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di spirito, ed
una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo conteneano in certi
limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi uditori ('). Questo fare
era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più, perchè rinunziare al
mezzo tanto potente della persuasione ora- (i) Sen. Meni. IV, 4, 6. Plat. Gorg.
p. 490 E. Lo Strùmpell fa rilevare molto vivamente la differenza che correa fra
i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento formale. toria non potea non
sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche fac- cende
dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse Socrate di continuo
all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per ripeterla ogni
istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era egli forse un
mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea forse in
serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui- stioni ?
Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti disparatissimi, e
quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta
degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla ripetizione monotona delle
medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di
pronun- ziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni
stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si
potesse apprendere, come avvenne (i) Lo Zeller ha molto bene criticata l'opinione
or- dinaria, che fa di Socrate un moralista popolare, op. cit., voi. II, p. 73;
ma noi non ci accordiamo con lui nella determinazione del valore filosofico del
dialogo socra- tico; la qual cosa abbiamo voluto dire qui recisamente, per
evitare ogni ulteriore polemica. più tardi, le relazioni morali
nell'astratta uni- versalità della massima, o formulare netta- mente una
esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia dirsi di
Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i pfermi che avean
raccolto dalle acci- dentali conversazioni del maestro, che a di- scutere sul
valore positivo di questo o quel principio ('). Quella monotonia notata dagli
avversari non concerneva che l'esigenza della formale evidenza e certezza del
discorso; ed era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi presuppo- sti, nel
lato formale d'ogni quistione. Ma questo formalismo non apparisce ancora in
Socrate come già isolato, e distinto dall'og- getto della ricerca, e come
presente alla co- scienza del filosofo per sé ed obbiettivamente; perchè agisce
solo come reale esigenza di • (i) Vedi su questo punto Hermann: Gescìiichte
ecc., p. 257 e seg.; e lo stesso autore Prof. Ritler's Dar- stellung der
sokratischeti Systeme, Heidelberg, 1833. Hegel è stato uno dei primi a
riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la determinazione del
prin- cipio filosofico di Socrate, op. cit., voi. II, p. 105 e seg., e cfr.
Biese: Die Philosophie des Aristoicles, voi. I, p. 28 e seg. colui,
che ragionando avverte per la prima volta, che il ragionamento dev'essere
conse- guente, fondato ed evidente. La maniera corretta e cosciente del ragio-
nare è nella nostra coltura filosofica cosa troppo ovvia, e la nostra
educazione ci for- nisce ben presto dello schema logico della definizione,
della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo stesso indurre, dedurre, ed
argomentare perfettamente, ed aver co- scienza della forma logica per sé
stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore : ma tutto ciò era
allora impossibile. In So- crate l'esigenza del sapere esatto e formal- mente
corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un bisogno intrinseco
di certezza e di acquiescenza alla normalità di una opinione chiaramente
concepita, un la- voro che si compie per la necessaria coeffi- cienza dei vari
elementi etici della coltura e della tradizione, e non può ancora presen- tarsi
allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se noi ci sforziamo per poco
di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che la coscienza anche più
colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa nella storia, nella
poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei sapienti; e se
guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed inconsapevolezza d'
intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora intendiamo quanta profondità
filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la parsimonia stessa dei mezzi da
lui adoperati diverrà più degna di ammira- zione, perchè è pruova evidente
della ener- gia, con la quale egli seppe avvertire la ne- cessità di correggere
ad una stregua costante tutte le incertezze della conoscenza ordina- ria, e
fermarsi poi ed insistere tutta la vita nel criterio acquistato. I presupposti
logici, ai quali tutte le qui- stioni del dialogo socratico sono riducibili,
consistono nella epagoge e nella definizione; e noi cercheremo in séguito di
esporre il modo, come queste due funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte
scientifico che Socrate s'era tracciato. Per ora basterà aver notato, come
questa è la prima volta che nello spi- rito umano si sia fatto palese il
bisogno, che prima di determinare la natura, il fine, ed il valore degli
oggetti, bisogna acquistare una coscienza precisa ed inalterabile delle condi-
zioni in cui deve trovarsi la conoscenza, per- Labriola — Socrate.
!Hl<^3 che possa dirsi certa ed evidente. Tutto quello che la
speculazione posteriore ha strettamente designato come elemento logico del
sapere, e che ha cercato successivamente di sceve- rare dalla natura immediata
e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti del soggetto pen- sante, apparisce
nella sfera della ricerca so- cratica come qualcosa di affatto connaturato con
le esigenze pratiche di colui che ricer- cava; e senza isolarsi dai motivi che
l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di sufficiente evidenza nella
coscienza, tanto da rimanere, non solo principio efficace in So- crate, ma
costante centro ed impulso di ogni posteriore attività scientifica ('). (i)
Indem die Philosophie des Sokrates kein Zuriick- ziehen aus dem Dasein und der
Gegenwart in die freien reinen Regionen des Gedankens, sondern aus einem Stucke
mit seineni I-eben ist, so schreitet sie nicht zu einem Systeme fort etc.
Hegel, op. cit., p. 51. Da questo e da altri luoghi può scorgersi, come Hegel
avesse un concetto più schietto della filosofia socratica, di quello che hanno
formulato molti scrittori posteriori, non escluso lo Zeller; il quale, sebbene
dica di non volerlo, parla sempre in una maniera troppo astratta del principio del
sapere, e ricade nell'errore di Schleier- macher e di Brandis.
Determinazione del valore del formalismo logico La caratteristica, che noi
abbiamo data dell'attività filosofica di Socrate in generale, pare risponda a
quello che già s'è detto da altri; e che non serva se non a rifermare
un'opinione corrente, secondo la quale So- crate sarebbe stato il primo che
avesse avuta una chiara coscienza del valore del sapere ('). Si è, infatti,
detto più volte, che l'idea del sapere sia la scoverta di Socrate, e che ces-
sando per opera sua la esclusiva ricerca del mondo naturale, la filosofia fosse
divenuta la scienza dell'idea, del soggetto, dello spirito e così via (^).
Senza la pretensione della novità, noi riteniamo per erronee una gran parte di
quelle caratteristiche; e perchè at- tribuiscono a Socrate una consapevolezza
maggiore di quella ch'egli s'avesse, e perchè devono poi fare molte congetture
per spiegare ed intendere la natura dell'etica socratica. Ba- Per es.
Schleiermacher. La forma più esagerata è quella del Ròtscher, il quale parla di
Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit., passim. sterà notare solo
questo, che partendosi dalla supposizione, che Socrate avesse avuto co- scienza
del sapere preso per sé stesso, come forma o attività in generale, non solo si
cade nell'inconveniente di non poter trovare un solo luogo di Senofonte che
confermi questa opi- nione, ma si è poi obbligati a fare una qui- stione oziosa
su la natura empirica o a priori del sapere socratico, che non c'è motivo al mondo
per proporsela; e, in ultimo, si è poi costretti a ritenere, che Socrate abbia
in virtù di una scelta, e per certe ragioni teoretiche, limitato le sue
ricerche all'etica ('); mentre la repugnanza contro le indagini naturali deve
in lui ammettersi, non come un risultato dei criteri logici che applicava, ma
invece come una prima e semplice esigenza delle sue con- vinzioni religiose.
Abbiamo invero detto, che il valore filo- sofico di Socrate consiste nella
esigenza di un sapere normale e certo; ma la forma li- mitativa, con la quale
abbiamo espressa que- sta opinione, esclude di fatto tutte le caratte- ristiche
alle quali può in apparenza sembrare (i) Vedi specialmente il Bòhringer, op.
cit., p. 2 e seg. che ci avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la
prima volta come una potenza deter- minata, e serva a correggere l'opinione e
la tradizione, ed a condurre come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte
le complica- zioni e le incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il
concetto del sapere abbia rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da
segnare esso stesso il termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal
confronto di Socrate coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la
consapevolezza che egli ha potuto raggiungere della sua posizione storica ('),
si viene a confondere due ordini di criteri del tutto diversi perchè dal
giudizio che noi riportiamo su la importanza di una personalità storica, non
può indursi qual grado di consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto.
Il valore filosofico di Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte
della sua co- (L'Alberti specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una
piena coscienza del proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile
errore, dal momento che s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un
documento biografico; vedi op. cit., p, 13 e seg. scienza; nel quale noi
abbiamo rinvenuti mo- tivi di natura più immediata, più complessa, e più
personale di quelli che conducono esclu- sivamente alla conoscenza speculativa.
Questa determinazione intrinseca della sua attività ci fornisce ora di mezzi
sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la congettura, il processo
genetico della sua coscienza filoso- fica, che è stato impossibile d'intendere
su la semplice testimonianza delle fonti storiche. Socrate non occupa
immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercè l'ac- cettazione o
la critica di una tradizione teo- retica; e per questa ragione stessa non
arrivò all'affermazione astratta del principio logico della certezza, come
regolativo della ricerca e correttivo del conoscere comune ed incon- sapevole.
Le condizioni speciali del suo ca- rattere lo aveano predisposto a sentire
prò-, fondamente il bisogno di una religione intima e depurata dalle
esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo tenesse libero
dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni correnti: e quella
naturale pre- disposizione toccò il suo soddisfacimento in un concetto della
divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia del mondo, e
la libertà umana come predeter- minata al bene. La costanza, la fermezza
d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza della
inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose perchè
riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la sua in-
telligenza, predisposta alla riflessione, a cer- care una norma costante dei
giudizi, e tro- vatala egli persistette ad applicarla come stregua alla
condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli, che il
materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella lingua e
nella tradi- zione ed espresso nella coscienza politica dei contemporanei, se a
prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti con- dizioni della
natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di consapevolezza, che le
sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il bisogno di fare
entrare nel- l'animo altrui l'intimità e lo spirito di con- seguenza lo fece
divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In questa nostra
maniera d'intendere l'at- tività filosofica di Socrate trovano un posto na-
turale alcune opinioni, che incontestabilmente gli appartengono, e che
altrimenti non sa- rebbero spiegabili ; ed, oltre a ciò, molte quistioni, che
si son sollevate su la dottrina socratica, rimansfono escluse di fatto. Tocche-
remo alcuni di questi punti. Nel concetto che Socrate s'era fatto dello
Stato apparisce, più vivamente che in qua- lunque altra delle sue definizioni,
il contrasto (i) Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6, 21-29. (2) Vedi il Jacobs,
Vermischte Schrifteii, voi. II, p. 251: Jene Sitte enthalt ebeti so, wie die
Liebe zum andern Geschlechte, alle Elèmente des Edelsten und des
Nichtswiirdigsten, des Lasters, des Besten und des Schlechtesten in
sich. che correa fra la novità
delle sue filosofiche esiorenze e la naturale tendenza alla conser- vazione
delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal
convinci- mento religioso e da una profonda abnega- zione. Il principio
normativo della consape- volezza non gli consentiva di ammettere che la
potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti
potessero costi- tuire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello
Stato ('). Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale cono-
scenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad
una legit- tima ambizione politica (^); e questa diviene per sé stessa un
dovere, quando è sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la
specifica intelligenza dell'individuo rispondono alle normali esigenze della
vita politica. Al- l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate
disporre i suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare
una chiara e perfetta notizia degli obblighi spe- (i) Mem., e Plat. Apol. (2)
Mem., Ili, 6; e IV, 2, 6 e seg. SOCRATE ciali che spettano a questo
o a quello fra gli amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua
politica nel principio che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta
nel sapere. L'importanza di questa massima in- novatrice ci fa apparire
l'attività socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti
tradizionali della politica greca, perchè, in virtù di essa, il dritto
ereditario della monar- chia e dell'aristocrazia, ed il concetto demo- cratico
della maoraioranza erano recisi nella loro radice e subordinati alla necessità
di una generale rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista
della consapevo- lezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi
non sappiamo scorgere in tutto questo l'esigenza o il presentimento di una
radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale
fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sa- pere, di cui parlava
Socrate, non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami
della pubblica amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie
univer- sali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece
Platone, ideare la costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione
delle sfere sociali fossero determi- nate dal concetto psicologico della
gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha co- lorito e carattere
esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esi-
genze della vita per regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà
estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la ori- ginalità per farla
rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, mal- grado
l'apparenza di una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l'ubbidienza alle
leggi come impreteribile ('); e, fedele all'antico principio ellenico della
sostanzialità dello Stato, fece dipendere il bene dell'individuo da quello
della comunità. E considerando la sua attività filosofica come parte integrale
dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento,
che la condanna pronun- ziata contro di lui non fosse che una legittima
manifestazione dell'attività dello Stato. L'opposizione fra il vecchio e il
nuovo, fra il concetto sostanziale e l'esigenza di una per- [Mem., IV, 6, 6.
(2) Mem., HI, 7, 9. (3) Mem., IV, 4, 4: Plat. Apol., 34 D e seg.; e cfr.
Phaed., 98 C e seg. sonale sodisfazione nello Stato, si chiarì mag-
giormente nelle scuole socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale
politico non deve essere inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico, né
come un segno precursore del Cristianesimo (^), ma conviene sia spiegato come
un progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve
consistere nel sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una
tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del
tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o
quello dell'esercizio speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico
bene o al manteni- mento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea
fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il
concetto del fine cui l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi
dell' individuo all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica
senza (i) Come vuole Hermann. Come vuole Baur. Vedi su questa quistione lo
Zeller, Der Plato7iische Staat, in seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei
citati Vortràge ecc., pp. 62-82 incertezza e divagazioni. Sotto
questo riguardo il calzolaio e lo scultore, il pastore e l'arconte, il marinaio
ed il generale ecc., perquantovarie le loro occupazioni e diversi i finì cui
sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell'esercizio metodico delle
loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente
la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di questo o
quel dialogo, perchè in tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola
con- clusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che abbia
nettamente formulata l'esigenza di una tecnica speciale delle arti e ravvisata
la necessità, che a capo di ogni pratica occupazione deve esser collocata la
riflessione normativa: e, per le cose già espo- ste, non fa mestieri che
chiariamo meglio questo pensiero, perchè altri non creda, che egli intendesse
conciliare la pratica e la teo- ria, l'arte e la scienza. E qui cade in
acconcio di osservare che la meraviglia, con la quale molti hanno ri- guardato
il dialogo che Senofonte riferisce con la meretrice Teodota ('), non ha fonda-
(i) Mem., Ili, cap. ii, mento che nella natura delle nostre morali
convinzioni. Quel dialogo, che non deve essere addotto a provare che la
principale preoccupazione di Socrate fosse la ricerca dei concetti ('), né può
essere inteso come interamente derisorio, perchè l'ironia è un momento
ofenerale della conversazione socratica, mo- stra, a nostro parere, che il
mestiere della meretrice potesse anch'esso nei suoi elementi affettivi venir
subordinato al criterio socratico di un esercizio normale e riflesso. Quel-
l'arte non destava allora gli scrupoli esage- rati, che noi moderni siamo
soliti di provare contro ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di
una morale precettistica. Anzi, per le speciali condizioni della famiglia
greca, sviluppava soventi nelle donne libere un grado di cultura superiore di
gran lunga (i) Come fa Zeller. Questa è l'opinione di Brandis: Enhvickelungen
ecc., Vedi su questo argomento Hermann: Privatalterthilmer, con tutte le
autorità ivi addotte, e specialmente John : The Hellenes, the history of the
mannei's of the ancient Greeks, LE FORME CONCRETE DELLA VITA ETICA a
quello della donna legalmente ritenuta nelle angustie del gineceo. E a
terminare questo schizzo della coscienza politica e sociale di Socrate osser-
veremo, che egli, col rilevare l' importanza dell'attività cosciente, nobilitò
il concetto del lavoro, facendone uno degli elementi costitutivi dello stato e
della famiglia. Questa veduta era allora qualcosa di nuovo, perchè diretta a
reagire contro un pregiudizio, fon- dato nella costituzione sociale dell'antica
Gre- cia e già da gran tempo invalso, che facea considerare come indegna
dell'uomo libero la produzione ottenuta col lavoro manuale. Se Socrate abbia o
no superato il particolarismo ellenico, e se ritenesse per giusta come vuole
Senofonte, o per ingiusta come vuole Platone p), l'offesa arrecata al nemico,
nella grande incertezza dei criteri seguiti dai vari espositori noi non
sappiamo affermare. Ad ogni modo, l'autorità di Senofonte ci par- [V. Jacobs, “Vertnischte
Schriften”. Meni. Crit., e Rep.. Questa è anche l'opinione dello Zeller.] rebbe
da preferire, e la maniera arbitraria come si è voluto da alcuni interpetrarla
ci pare infondata e priva di ogni verosomi- glianza ('). (i) Il Meiners:
Geschichte der Wissenschaften, pone una distinzione arbitraria fra il male
arrecato sensibilmente all'inimico, e quello che può toccare il suo benessere interno,
negando che quest’ultimo sia incluso nel xaxcòj iioistv di Senofonte. Né meno
infondata è la supposizione del Brandis, secondo la quale Senofonte non avrebbe
espresso interamente il pensiero di Socrate. Strumpell tenta supplire Senofonte
col Gorgia. Antonio Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo,
socialismo, partito socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di
Labriola, Labriola su Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia
della storia, dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce,
all’origine del socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento
creative del comunismo in Italia. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice
e il Vico di Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Lacida – Roma –
filosofia antica – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to
the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice e Lacrate – Roma –
filosofia antica – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to
the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice e Lacrito – Roma –
filosofia antica – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to
the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice e Lafeonte – Roma
– filosofia antica – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to
Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”).
Grice e
Lagalla – filosofia italiana –la teoria geocentrica – la terra al centro del
universe -- Luigi Speranza (Padula). Filosofo italiano. Grice: “I
love Lagalla: the fact that he was an Aristotelian when everybody in Florence
was a Platonist!” Figlio di Roberto, alto funzionario della burocrazia
vicereale, e Vittoria Rosa. Studia filosofia. Ancora bambino, perdette i
genitori e fu affidato con i fratelli alla tutela di uno zio paterno, Girolamo
Lagalla, che lo avviò agli studi di filosofia. Volle trasferirsi a Napoli per
proseguire nella sua formazione. Si iscrisse ai corsi di filosofia dello Studio
ed ebbe come maestri G. Stillabota, F.A. Vivoli e B. Longo. Affidato dal
Collegio degli archiatri a G. Provenzale e G. Caro per un periodo di tirocinio,
sembra vi si fosse condotto con una tale competenza da meritare, nel 1589, i
gradi accademici "nulla pecuniarum solutione". Nello stesso anno,
grazie a Longo, divenne l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia
di stanza a Napoli, con la quale si diresse verso le coste laziali, per giungere
poi a Roma. A Roma avrebbe conseguito
una nuova laurea, in seguito alla quale entrò al servizio di Santori, per il
cui interessamento ottenne da Clemente VIII l'incarico di lettore di filosofia
presso la Sapienza romana. Cura per Facciottola stampa di un commento ad
Aristotele, “De immortalitate animae ex sententia Aristotelis libri septem”, precoce
manifestazione di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla
quale Lagalla si interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che
contribuì ad attirargli sospetti di eterodossia. Altre opera: “La circuncisione di Cristo”. Al
problema dell'anima Lagalla. dedicò corsi della lettura ordinaria di filosofia,
che tenne alla Sapienza. Queste lezioni furono raccolte in un manoscritto dal
titolo “De anima commentarii”. Allo stesso argomento è dedicato il penultimo
volume dato alle stampe dal L., il “De immortalitate animorum ex Aristotelis
sententia libri tres” (Roma). Lagalla, pur riaffermando le posizioni della
tradizione tomistica sulla questione dell'anima umana, secondo le quali l'anima
intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta quelle di
Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli, ritenendo che
non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove eternamente, ma
piuttosto come “forma informante”. Morto Santori, si fosse avvicina a Pietro Aldobrandini,
entrando al suo servizio. Conobbe Cesi, al quale fu legato da una cordiale
amicizia. Se questa non diede luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei,
malgrado una precisa richiesta da parte di Lagalla., fu solo a causa della sua
marcata professione aristotelica[. Cesi lo presentò comunque a Galilei quando
quest'ultimo si recò a Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con
esso realizzate al giudizio degli autorevoli astronomi del Collegio romano,
nonché di influenti membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne
derivarono alcuni incontri, durante i quali Lagalla., incuriosito dall'
"occhialino" galileiano, lo sperimentò e fu intrattenuto da Galilei
con l'esibizione delle "pietre lucifere di Bologna". Da ciò che vide,
trasse spunto per due scritti, pubblicati in un unico volume, il “De
phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. Gallileo Gallileo nunc
iterum suscitatis physica disputatio… nec non de luce et lumine altera
disputatio” (Venezia). Atteso con
impazienza da Galilei, che fu costantemente informato da Cesi dei progressi
nella composizione, il libro deluse l'ambiente linceo. Nel primo dei due scritti, pur difendendo la
verità ottica di ciò che mostrava il telescopio, cerca di spiegare l'irregolare (la scabrosità
della superficie lunare) come prodotto del regolare, attraverso una sorta di
estensione di un principio di regolarità (invariabilità dei cieli e dei corpi e
fenomeni inclusi in essi), cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica.
Le asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense di
"etere", più opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel
secondo scritto Lagala. racconta una discussione sulla natura della luce avuta
con Galilei, Cesi, G. De Misiani e G. Clementi: dopo aver ribadito che la luce
non è una sostanza, ma un accidente o una qualità reale, tratta delle
"pietre lucifere" e, contro l'interpretazione di Galilei, osserva che
la luminescenza delle pietre non è una proprietà del minerale non trattato, ma
una conseguenza del processo di calcificazione, che rende la pietra porosa e in
grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di luce, poi lentamente
rilasciata; con ciò esclude che possa essere il prodotto della riflessione
della luce solare sulla Terra da parte della Luna. A proposito del primo dei due scritti,
Galilei meditò di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso Lagalla,
di cui le note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro
preparatorio. Tale risposta non arrivò, ma i rapporti tra i due divennero più
stretti, forse per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni
scientifiche. In occasione dell'osservazione di una cometa, scrisse il Tractatus
“de metheoro quod die nona novembris anni presentisin Urbe apparuit sopra
collem Pincium” e poiché quest'opera pareva, in alcuni punti, accogliere le
posizioni di Galilei, fu attaccato di scarso aristotelismo. Si convinse così a
chiedere a Galilei e a Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando
l'occasione (la morte di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fece
niente, ma anche in questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero
saldi. Aumenta intanto la sua
insofferenza verso gli ambienti romani che lo guardavano con crescente
sospetto. La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento
di Allacci. Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato
incarico al di fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con
attenzione la proposta di trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le
compromesse condizioni di salute (soffriva di una malattia urinaria, forse una
ipertrofia prostatica con complicanze) e il timore che l'inclemente clima
polacco potesse peggiorarle lo portarono a rifiutare. Continua a praticare la filosofia,
l'astronomia, e segue il suo protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari
luoghi d'Italia. Gli è stato dedicato il cratere Lagalla sulla Luna. Altre
saggi: “De phaenomenis in orbe lunae
novi telescopii usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die
nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce
et lumine altera disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis
Sententia”(Roma); Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 323; cfr. Kristeller,
II,444 cfr. Edizione naz. delle opera, Firenze, Biblioteca nazionale, Galil., Favaro,
nell'ed. naz. delle opere di Galilei, X indica una stampa apparentemente
irreperibile, Roma; ma Heidelbergae. Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giano Nicio Eritreo [Gian Vittorio Rossi],
Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, I, Coloniae
Agrippina, Leone Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani, Istoria degli anni santi” (Napoli);
“Dizionario istorico” (Napoli); F. Colangelo, Storia dei filosofi e dei
matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae
patrum bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno” (Messina);
G. Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani,
Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte, Roma, ad ind.; M. Bucciantini,
Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e momenti della cultura
salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno, Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere
del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione
nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è pubblicato
il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G. Gabrieli,
Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary bibliography
about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia napoletana’ ‘il
filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him Italian!” -- Iulius
Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un aristotelico che dialogava con
Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the earth is flat; la terra e al
centro dell’universo, la pietra di Bologna, la kryptonite, la luna,
l’immortalita dell’anima, animo, spirare, peripatetici, licei.Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Lagalla” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lamisco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. He was a Pythagorean and friend of Archita di
Taranto. When Plato ran into trouble in Siracusa, Archita sent Lamisco to
rescue him – which took him ‘two weeks and a half.’
Grice e
Lamanna – il risorgimento fiorentino – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Matera). Filosofo italiano. Grice: “I
like Lamanna – a very systematic philosopher especially interested in the
longitudinal history of philosophy – he wrote on economics during controversial
times, too!” Linceo. Figlio di Angelo Raffaele Lamanna, calzolaio, e da Maria
Bruna Pizzilli, filandaia. Fece i primi studi in seminario e poi nel Liceo
classico della sua città. Si trasferì a Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna
a Messina e Firenze. Pubblicò un commento alla Dottrina. Autore di un fortunato
manuale di storia della filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei.
Diresse la "Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli. Stabilito,
per Lamanna, che la religiosità sia un'esigenza naturale dello spirito umano,
egli rileva le contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere” (“is”) e
il dover essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita come
razionalità e ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale e
disordinata, così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la
concreta limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la
necessità dell'esistenza di Dio. Analoga
antinomia gli sembra esistere tra morale e politica che a suo avviso può essere
risolta trasportando nell'attività pratica la riconosciuta razionalità
dell'ordine trascendente e divino, che è di per sé bene assoluto. In questo
modo l'operare umano si fa etico ossia, secondo Lamanna, realmente politico,
realizzandosi concretamente nell'ordinamento giuridico e, così come
nell'operare razionale si concreta la vita morale, da questa si raggiunge
l'armonia in cui consiste la bellezza. Saggi: “Lo spirito – l’ispirante” (Firenze),
Kant, Milano, “La polizia di Platone e gl’uomini”, Milano, “Filosofi italici
d’eta antica” (Firenze); La filosofia del Novecento, Firenze); “Il bene per il
bene” (Firenze); “Il regno di fini” (Firenze); Scritti storici e pensieri sulla
storia, Padova); P. Piovani (Torino); Pietro Piovani, Tra etica e storia,
Napoli); Martano, L'esperienza speculative, in «Filosofia», G. Calò, Il
pensiero, Napoli, G. Calò, Studi e testimonianze, Matera, Dizionario biografico
degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani. Grice: “Lamanna
was concerned about the idea of the state, which is not an easy thing. More
specifically, the concept of the ITALIAN state. In his history of philosophy
for ‘i licei classici’, he rewrote his Manuale di filosofia into a ‘Sommario’.
– The history goes smoothly up to Kant. The third volume is about MUSSOLINI. He
is the only philosopher he cares to capitalize. He also capitalizes fascism
into FASCISMO, which is odd seeing that his main source is Mussolini’s own
entry for ‘fascismo’ in the Treccani which does not give it such a status. The
third volume is ITALO-CENTRIC, from Vico onwards, Farlingieri, and notably
Gentile to end with MUSSOLINI. The idea is presented by Lamanna as a
‘riconstruzione dello stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’ – il stato
liberale Borghese is in ruins – and although he plays with the ‘socialist
state’ he does not consider it within the realm of the proper history of
philosophy when he talks of French illuminism. So his concern is wht the idea
of the state in the liberal party – the philosophy of the laissez faire. It
provides NEGATIVE freedom. Freedom from the other. And there is competition.
Also as he notes, liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly
‘equal’ for every member of society, so that liberalism only pays lip service
to liberale. With the socialist state, the problem is the opposite: the state
becomes a gestore – and there is this idea of an endless dialectic among the
classes. So how does Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato
fascista’ – Had Lamanna continued from Kant to Fichte and Hegel, the student
would be more prepared! Mussolini’s idea of the state is Hegel’s – it is the
NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks of the ‘individui’ of this nazione, he
means the Italians (not the Jews, etc.). SO this NAZIONE however, is MORE than
the sum of its individui. Individui come and go – but the state remains. The
state becomes governo. Mussolini’s prose is machist and homosocial, and Lamanna
has to lower down the rhetoric, but nothing is said about Germany. It is ITALY
which is seen as proposing this new or novel idea of the state (after la
rivoluzione fascista of 1923) with a Kantian approach. Since Lamanna has only
read Kant seriously, he applies Kantian categories here: Mussolini’s fascist
state gives each individual POSITIVE freedom – to be a slave to the CAPO or
Duce who ‘knows’ how to command. Lamanna quotes from Cicero to the effect that
it is obeying the law that makes us free. The emphasis is constantly on th
azione or prassi, which is understandable since the pupils are supposed to
learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is candid about
this. When ‘I all started it’ I did not know where I was going. It was the
ANTI-PARTY movement --. Lamanna provides the editorial. During the ventennio,
this action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE NATION,
becomes legalistic, a party is formed, and indeed a government (polizia,
politeia) established. But Mussolini accepts castes in society. Even the
religion, a civil religion, is subdued and one can very well be allowed to
worthip the God of the Heroes.It is an ‘etica guerriera’ and it targets the
giuventu – the youth or male youth --. Being commanded by one know knows is a
privilege. Ths is interesting because this was conceived after the temporary
successes in Africa – Mussolini romano e africano – and before the problems of
the second world war. For the first time, Italians FEEL they are part of a
NATION. The seeds were in the Risorgimento, but this got stuck with a liberal
kind of state, which only provided negative freedom, and where the initial
conditions were unequal. Lo stato fascista does not play with parlamentarism,
so the Congress is closed, and the only party is the national party. Jews are
excluded from PUBLIC service (even if some wrote panegirici for fascism, like
Mondolfo). The philosophical foundations are found in Hegel. If Hegel
concentrated all in the Kaiser of Prussia, Mussolini does so with himself.
Gentile did not really help, although he was the official voice of fascist
philosophy --. The student of philosophy then was taught the lessons of history
(philosophy was IDENTIFIED with its history) and indoctrinated in the final
stages into a particular IDEOLOGY. The tone is catechistic, and there is no
idea of dissent. Lamanna however emphasizes that the stato fascista still
recognizes the indidivuality and the personality of each member – as the stato
comunista or socialista would not!” Eustachio Paolo Lamanna. E[ustachio] P.
Lamanna. E. Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna. Keywords: il risorgimento
fiorentino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lamanna” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Lami – la ragione degl’antichi – la tradizione della polizia romana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I like Lami; he has written interesting approaches
to Plato and Aristotle.” Si laurea e insegna a Roma. Saggi: "La ragione
degli antichi” (Giuffrè, Roma); "La politica di Platone” (Rubettino,
Cosenza); "Tra utopia e utopismo" (Cerchio, Rimini) "Qui ed ora
-- per una filosofia dell'eterno presente" (Cerchio, Rimini); "Il
libro Manifesto – in difesa dell’oggettività" (Heliopolis, Pesaro); G. Sessa,
"Voegelin -- Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia politica Filosofia
della storia nuova destra. Letteratura e Tradizione//miro renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/
Scuola Romana di Filosofia Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola.
E’ davvero difficile per me, ricordare Gian Franco Lami. In questi giorni, ho
dovuto farlo più volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua
memoria, a cominciare da domenica quando, in un gelido pomeriggio invernale,
improvvisa e sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante
la presentazione di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come
relatore, anche lui. Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo
incontro, quando io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di
assistente di Augusto Del Noce. Fin da allora, non si trattò di un semplice
rapporto professionale, in quanto Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo
frequentavamo, l’amore per il sapere autentico, quello che si tramuta in
testimonianza, in vita. Mi coinvolse immediatamente in un progetto ambizioso:
quello di introdurre in un paese dominato culturalmente dalla Sinistra, il
filosofo della storia Eric Voegelin, allora praticamente sconosciuto. Il
risultato di questa ricerca, alla quale ebbi l’onore e il piacere di
partecipare in prima persona, assieme a Giuliano Borghi e pochi altri, si
concretizzò nella pubblicazione di una serie di antologie voegeliniane (qui è
bene rinviare a Eric Voegelin: un interprete del totalitarismo, Astra), che
fecero ampiamente discutere. Il merito maggiore, conseguito da Lami, in questo
ambito di studi, fu di individuare nel filosofo austro-americano, un diagnosta
della crisi della modernità. In particolare, attraverso l’analisi e la
traduzione di Ordine e storia, opera monumentale, Egli presentò l’esperienza
classica della ragione, quale unica terapia possibile delle devianze
neo-gnostiche contemporanee (si veda, prefazione a VOEGELIN, Israele e
rivelazione, Aracne, ma anche Lami, Introduzione a E. Voegelin, Giuffré).
Fece propria, in modo critico e originale, l’eredità di Del Noce, secondo
modalità più profonde rispetto a chi, tra i suoi presunti discepoli, scelse,
come il Maestro, una via di fede. La cosa, è facilmente deducibile dalla
lettura dell’organica monografia che egli dedicò al filosofo cattolico
(Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani), da cui si evincono tanto la
gratitudine per il discepolato e per gli insegnamenti ricevuti, sostanziati da
un metodo rigoroso d’analisi quanto le differenze speculative essenziali,
dovute alla valorizzazione filosofica, propria di Lami, delle qualità virtuose
dei singoli, nell’ambito pratico-politico. A questa scelta, che peraltro
individua, nello specifico, il campo d’indagine della scuola romana di filosofia
politica, che a Lui faceva e fa, tuttora, riferimento, hanno fortemente
contribuito gli interessi per gli autori dimenticati del novecento. Tra essi, TILGHER
e EVOLA. Al primo, dedicò un volume significativo (TILGHER, un pensatore
liberale, Seam), nel quale evidenziò il tema della pluralità delle morali, come
caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo Lami, lo avvicinava al
filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individuava effettive vie
realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del santo,
dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo, dette alle stampe la prima
monografia filosofica (Introduzione a J. Evola. Un passo per la vita e un passo
per il pensiero, Volpe). Inoltre, quale collaboratore della Fondazione Evola,
ha curato diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei quali, come pochi, è
riuscito a contestualizzare storicamente l’opera del pensatore romano e a
coglierne il valore, in un lavoro esegetico sempre aperto alla
comparazione. E’ proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono
dipanate, nel corso degli anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che
Egli leggesse EVOLA, tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli
strumenti della tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete
a quest’ultimo, interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di
matrice cristiana del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana.
Stigmatizzò sempre negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della
visione del mondo ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla
quale la civiltà greco-romana tanto aveva insistito. La cosa, è particolarmente
chiara nello studio dedicato a questo specifico tema (Socrate Platone
Aristotele, Rubbettino), nel quale tentò di presentare il simbolo epocale del
mondo antico, la “vita contemplativa”, come realizzantesi pienamente nella
dimensione della Città, a testimoniare della contrapposizione tra tensione
utopica tradizionale, e scacco utopistico, tipicamente moderno. Tema questo,
attorno al quale spese le sue energie intellettuali nel recente volume Tra
utopia e utopismo (Il Cerchio). Corrispondere a quella che è stata la via
da lui indicata, ad un tempo ideale ed esistenziale, a quella che egli definiva
una filosofia dei pochi, del divino e dell’ordine, è compito complesso e
gravoso, al quale comunque, chi come me, gli è stato vicino, non può
permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria della Sua luce interiore,
che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”, o in chi lo ascoltava
nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto lavorava, dai
Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua assenza. Ma, più
in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e presente, che si
realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti, come Roma (ma non
solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento spirituale più
prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia dell’eterno
presente, di prossima pubblicazione per i tipi de Il Cerchio). L’università di
Roma, con Lui ha perso una delle ultime personalità carismatiche, in grado di fare
Scuola. Personalmente, non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo
mondo, della Sua amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto
da Area. Grice: “Lami touches some crucial points. For one, he criticizes
Jowett for mistranslating Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’
– Politeia --. Lami as a Roman hates the Pope – who does he think he is? The
Papal dynasty is take in that they cannot reproduce. So we must go to the
civil-political organization of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’
of Romolo. La citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione una. Espressione
varie e tradizione una. With the birth
of Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to
mean ‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the
old Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for
Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all
this – and more --. Gian Franco Lami. Lami. Keywords: la ragione degl’antichi, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Lampria – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo italiano. Tutor of Aristosseno di Taranto, although he seems to have
taught him music rather than philosophy.
Grice e
Landi – semiotica economica – prinzipio di economia dello sforzo razionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I
would call Landi a Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso della
dottrina del ‘segno,’ vis-à-vis- scienze umane e antropologia, apportato un
notevole contributo agli sviluppi alla semantica (senso) e la pragmatica
(prassi, pratica – ragione pratica) -- crt, cercando di unificare la dialettica
romana e fiorentina con quella oxoniense.
Diplomato al Regio Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano.
Studia a Pavia. Insegna a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può
suddividere in tre fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica),
nonché l'analisi dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria
della “produzione” del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento
è l'omologia tra la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E.
R. E.). La terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e
teorizza l'”alienazione” dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica
communicativa (Bocca, Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione
e parlare comune,” – cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare,
implicARE, -- ‘common’ is Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to
extra-ordinario. Marsilio, Padova. La semiotica e “Segnare” come lavoro e mercato, -- cf. Grice
against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational effort – but
remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with ‘rationality’ as
being co-operative. And Grice’s remarks about the independence of the two
thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational. Bompiani,
Milano, Segno ed ideologia (Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani, Milano); “Ideologia”
(Mondadori, Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza dei segni, o
teoria? – cf. Grice on philosophical psychology,’ folk science of psychology –
ceteris paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws of psychology
– “That’s why we call them ‘psycho-logical’ concepts, or theoretical terms, --
psychological theory --. Theory Th. (Bompiani,
Milano). Cf. Grice on the boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’
y is a consequence of x, x means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale
ed eccedenza, Scritti su G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo,
Padova); “Semiotica Filosofia del linguaggio
su ferrucciorossilandi.c om. Grice: “Landi takes economics seriously, as
did Aristotle – unfortunately, those researching onto Landi hardly quote from
Aristotle!” “While the Italians think that Landi is being very Original, we at
Oxford don’t! Game theory, strategy theory, and efficiency theory are all basic
to ‘oeconomica’ in most pragmatic models of efficient communication – “Information
is like money!” – Cf. la teoria del valore e le formulae dell’egoismo,
l’altruismo o non-egoismo, Meinong. Teoria formale del valore. I valori
egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy.
Gli valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono
espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta
dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal
unicasi va speciali, così, quando
adopera i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore
egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere
questo o quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE
riferentisi. Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra
parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la
circostanza concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione,
formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono
più, allora si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una
lettera in un binomio o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato
o sia attuato. In che modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo
scopo della volizione? Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di
valutazione, la domanda può formularsi così. Come i valori possono entrare in
connessione tra loro? Si noti però che la connessione deve stabilirsi prima del
cominciamento della volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le
co-esistenze casuali restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla
volizione e l'oggetto della valutazione concomitante possono correre varie
relazioni. C’e una relazione d’identità. Ciò che il artista o un politico come Mussolini crea non
soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in qualche modo come un BENEFICATORE di
tutta una sfera di uomini – la nazione italiana. C’e una relazione di
CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o anche di più cose. Per
esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un bel tono. Ma il piano ha
anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia molto vigile (+), il
quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora bene (+), ma che fa
rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme: a) lo scopo
è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio, promuove il
movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua nazione (+),
ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che come EFFETO
di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per . Ora torniamo
alla domanda principale. In che modo il valore morale di una valutazione
dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio della volunta,
dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di valori, “g”,
“T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti concomitanti. Però il
caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI VOGLIA UN PROPRIO
NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le quali, liberamente
combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola dei valori. Per
l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di volizione si
aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le variazioni di
valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’
(benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più importante è
qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO DANNO. È
evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore di (i) e
di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il valore con
“W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI,
sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE al
beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno si
danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza
concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la
circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula
sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione
materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr. glianze. Invece
L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il
valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più
grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9).
Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione
egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si
aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o
anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le
due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se
oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U).
Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si
associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La volizione
altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per attuare
il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza aggrava il
male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u). Il fatto
concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore della
volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W
u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) >
W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U)
W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U).
Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo
non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime,
“g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto
interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere
così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’
diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione --
ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto
che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione
dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del
valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo
NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare,
che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è
completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi
tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo
indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della
volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione,
che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e
negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una
doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano
egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai valori “T”,
“u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO
VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U =
(non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni ed
i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di
“Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione
delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al
polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto.
Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi
quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali,
l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più
esatta. (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a
trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle volizioni. Si
ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”, che esprima il
mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona, ma che non mi
sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio
di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro
(ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di non volere il
male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per circostanza
concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione finale sarà
(gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta
gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali
procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i due bi-nomi di queste
volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la coppia dei due binomi
yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza pratica. Il primo
bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime
il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel senso o grado
*massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la grandezza morale di
un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi della più comune
fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di linea dei valori
morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta espressa da questo
bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto d'INDIFFERENZA al
TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di questo binomio del
progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che vanno dal più SANO
EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo. Reciprocamente, la
rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le
volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono adunque tutte le
quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due bi-nomi anzidetti
suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse proprio e
l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi interessi, dalla
portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della valutazione. I momenti
“u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”. Intanto è certo
che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova
sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre il valore
altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra del zero
ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i termini dei
due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una semplice
osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse
altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse
altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande
interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più
basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto
di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può
esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti
proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e
“r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono
necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti
0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è
però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi
nell'interesse altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più
grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura
RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare.
È F , 1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru)
= 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0
lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure evidente, che la trascuranza di un
interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo
interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore dell'altruismo di venga
allora infinito, come nella seconda formula. Osservando però bene, questi casi
non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà pure che il valore del
sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene
sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al
sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si sta per
rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula. Non si
può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina
un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare
nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò,
basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni
volta una costante “c” o “c '”. Queste
formule non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T =
0 0 g = 00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C,
lim W(gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE
dall'altra. Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le
variabili congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro
per grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule
diverranno altri. Si avranno così le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' .
Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso
senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario.
Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per
esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora
si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di
meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI
LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande
ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O
“c” corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente
di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due
formule diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i
seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di
alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la
formula del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. .
g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e
limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne
ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con
una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni
staranno, secondo la formula principale or ora ricavata, in un
rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale.
In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo)
o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o
TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il
NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, …
n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme
superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti
sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di
mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una
volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta
ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO
D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O
INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui,
positive, o, come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g”
e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso
attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)=
>. Passamo ora ad esaminare un'altra
coppia di binomi: gr g+1 1 T (go+
1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa
dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Ferruccio Rossi-Landi. Landi. Keywords:
implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landi,” The Swimming-Pool Library,
Villa SPeranza, Luigi Speranza, “Grice e Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza,
“Grice’s principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical
semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and
excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Landino – La sforziade degl’italiani -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Grice: “I love the way a philosopher can be judged by his
fellow citizens and by furriners: Landino’s “De Anima” fascinates the Germans,
for example! While his poetry fascinates the Americans, as I Tatti testifies!” Nacque
da una famiglia originaria di Pratovecchio, nel Casentino, e compì gli studi in
materie letterarie e giuridiche a Volterra. Gli venne affidata presso lo Studio
fiorentino la cattedra di oratoria e poetica che era stata del suo maestro
Marsuppini: Landino, sostenuto dai Medici, era stato avversato da non pochi
personaggi in vista, come Alamanno Rinuccini e Donato Acciaiuoli. Tra i suoi
allievi ci furono Poliziano e Ficino. In quel periodo ricoprì anche incarichi
pubblici, facendo parte della segreteria di Parte guelfa e della prima
Cancelleria. Tra i suoi viaggi, spicca quello a Roma. La sua prima
attività fu poetica, con la Xandra, una raccolta di componimenti dedicata
inizialmente ad Alberti e de' Medici. In campo filosofico scrisse tre dialoghi:
il De anima, le Disputationes Camaldulenses e il De vera nobilitate. La maggiore fama nei
secoli di Landino fu però legata alla sua attività di commentatore dei
classici. Diede alle stampe il Comento sopra la Comedia di Dante, su Orazio e
su Virgilio. Traduttore dal latino in fiorentino della Storia natural di Plinio
e la Sforziade di Giovanni Simonetta Il volgarizzamento pliniano fu un vero e
proprio evento: per la prima volta anche chi non conosceva il latino poteva
leggere la più importante e vasta enciclopedia del mondo antico (tra i suoi
lettori Pulci, Colombo e Vinci). Per i meriti acquisiti, la Signoria
fiorentina gli assegnò una torre nel Casentino e una pensione. Venne
ritratto tra illustri fiorentini a lui contemporanei da Domenico Ghirlandaio
nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Saggi: “Orazione alla
Signoria fiorentina incipit della Historia naturale tradocta di lingua latina
in fiorentina”; Xandra, “De anima”; “Disputationes Camaldulenses; “De vera nobilitated”;
“Comento sopra la Comedia di Dante”; “Commento a Orazio”; “Commento all’epopea
eroica di Virgilio”; “Historia naturale di Caio Plinio Secondo tradocta di
lingua latina in fiorentina al
serenissimo Ferdinando re di Napoli”; “Orazione alla Signoria fiorentina quando
presenta il suo Commento di Dante, Firenze, Niccolò di Lorenzo, Formulario di
epistole, Firenze, Bartolomeo de' Libri. Il testo si può leggere in edizione
critica. Carmina omnia ex codicibus manuscriptis primum edidit A. Perosa
(Firenze); “Disputationes Camaldulenses” Lohe (Firenze, Sansoni); C “De vera
nobilitate, M. T. Liaci, (Firenze, Olschki); R. Cardini, La critica del Landino”
(Firenze, Sansoni). Dallo stesso studioso è stata allestita la raccolta: C.
Landino, Scritti critici e teorici, Cardini, Roma, Bulzoni, Comento sopra la
Comedia, I-IVProcaccioli, Roma, Salerno editrice, Questo commento è stato solo
parzialmente edito (la sezione relativa all'Ars poetica): Cristoforo Landino,
In Quinti Horatii Flacci Artem poeticam ad Pisones interpretationes, G. Bugada,
Firenze, Sismel, R. Fubini, Quattrocento fiorentino. Politica, diplomazia,
cultura, Pisa, R. M. Comanducci, Nota sulla versione landiniana della Sforziade
di Giovanni Simonetta, «Interpres» Uno studio complessivo, sia filologico sia
storico-culturale, dell'opera in A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano” (Messina,
Centro di Studi Umanistici). Questo testo proviene in parte dalla relativa voce
del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto
Museo di Storia della Scienza di Firenze, Orazio, “Artem poeticam ad Pisones
interpretationes. G. Bugada, Firenze, Sismel-Società internazionale per lo
studio del Medioevo latino, Galluzzo, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano Messina,
di Studi Umanistici, Treccani Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Lee Sorensen. ALCUIN,
Ratisbona. Liba secundus uaut Eandetn otionanft in anibus denrchedas. Ars
enim natnratn quoad ua Itt feropq imitatur . Sed nefeio quo pado cum de
eqmaloquoditi uita K iriorio iMispanaturanucttigadum nobis
propofuannus:iam fecundo in naturam rcla« bor.lta^ bacomifla ad illud
tademrueamusipcimuniq^ omnibus philofopbis omnibmi cbtifiianisaudoribusnonin
eoquodabadioneproueninfcdin fo» h ratione coUocemus.Non enim quid fadum
iinfed qua mente fadum animad uettunt.Quapropter quatuor ueluti principia
ponunt.Cum enim fe nobis ilu quid offert:mouctuc ea te fic oblata uis
quzdam animorum nofttorumsut illam cognofcat:tandem<p decernit aliud
bonum efTc/aliud contra maium:Quapto ptrrcumiam feferes obtuleritrcum iam
fecundo loco (it de ea iudicium fadumt adtamr tertio loco uoluntast ut
hoc quidem fequamur. Illud vero fugiamus. Qua quidem uoluntate ita iubente
motus poftremo in corpora infurgut : ut id tncmbraezc quantur quod noiunusancea
de creuerit.Ncffi igitur a duobus illis ptimisprindpiisnetp ab boc
poftremo uitiumfpedatur:led a uoluntate qua in ordine tertiam pofuimust. Non
enim eo V erres pcccauit quod tabulz ftgnac^ ac reliqua ftculorum
preriofilTima fupeliez illi fefe ofFerretiNon rurfus quia iudica ret
forefibi ex ufu huiufccmodi ornatu abundaretfcd quia rapere uoluit cu
uf«p adeocz fola uoluntate res pendat: ut etiam ft non rapuerit :tamen
quia rapere uo luerit fitelus commifllim fitxNon enim interfecerit ne an
non interfecerit: fed uo lueiitne interficere in culpa
eft:Defueruntuires.P.CIodio quominus Annium Milonem oeddere pofTetxQ^ua
quidem in re fi naturz uitium quzras t pcccauit ea uis:quzmentis
propofitum non implcuit:fi uero ad morem teconuertas non aduscorpord
motus fed uoluntatis adus crimen concipit: Dicetur^ iure homi< dda
Clodius quia Milonem uoluit ocddere:Fac autem ocddifte cum minime ta men
uoluerit exddere ftarim crimine abfoluetur. Qui enim non ex uoluntate:
fed uel ex infirmitate uirium quas modo pofiii uel ex infdiia rem quampiam
c6 mittunnii non modo culpa carent:uCTum etiam cdmiferationefzpiftime
digni putanmr.Q_^uis enim cum illud de Cephalo in procrin legit etiam fi
fabulofum putetmon iolum illum crimine liberat:Sed fumma
infupercomifetatione profe quituRcum animaduertat hominem ex infdria dum
feram uulnerarc putat : ca^ tifiimam fibi coniugem percuEiffeteuius morte
in fummum moerorem acludu paulo poftcafuruseifett Videsigiturauolutatisadu
ueluti a fua origine uitium in monbus flum: Verum cum iam conftet
imbedllitatem adionis prouenire ex infirmitate primi agentis rem hanc
planius exponendam cenfeo: Videamus ita^ in quo defidatuoluntas ante
commifllim fadnus.Qui quidem defedusfibi a natura non
erinfemperenimadbzrct/femp^ pcccaret:ne^ rurfus eftcafu bc for luna:eflet
enim extra nos. Est igitur uOluurius.S'ed ut uideasundeifit error boc
aedpe. Visdus rd quz agit ab eo agente perficittu quod fupra fe eft:Donec
enim id quod fecundo loco agit perfeuerat in ordine primi agentis munus
fuum abfo lute peragit:Sinautemao illo declinet nullum iam remedium eflqn
aut fiatim aut paulo poftdefidattin gyrum uertitutdrculus qui manu humana
torquef» Hic idem fi nunu dedinet a mom ceflabit: Ergo igitur ut ad rem
redeam nupa dicebam duo cflic pdndpiarquae uoluntatcm aateire nttRes quz
fefe nobis oSu a : k [ t Oerumniobonp nttitt K
uii gucdam ilfas oblatu fufdpiatt At cum qiiicgd bnhi!!»ttb£ A Ut
moueri poffifaliguidhabeat proprium a quo moucaturmoo omnis pcrap& di
uis omnem appetitum mouebit. Nim quz fmlibilia percipit cum dutaiatape
petitum qui a renfibus e(i mouere ualaiRatio autem proprie uoluntatem
mouc bitiRurfuscum latio uaria bonorum genera percipere
poiritcuiuilibetautcm& proprius finistEtit uoluntatis quoq^ pprius
nnis k primum quo moueatiu n5 bonum quodlibetifed certum aliquod ac
pncfizum.Siigit" mensnofira acuolo tas perceptione eius
rati6ismoueac7quz tedum bonorum malotu iudiciuiB teneat reda indeadio
exorictur. Sinautem ab iis ezorit" quz falfo fenfuum iudb do bona
efle deaeta Tunticum minime flnt bona Ibtim peccat in uiu 6tmorib9
uoluntas.Peiueriio igit" ordinis qui cft ad rationem & ad proprium
finem gignit peccatum in adione. Ad rationem quidem cum ad fubium fec
fiis perceptionem uoluntas fertunin id quod fi rede pcrfpidas bonum non
efiifcd quia fuis ilicee brisrcnrusdemulfitia Dillisbonumiudicatat.Efirurrus
cum ratio ipfa minime decepta id bonum efle decemittquod uere bonum dici
potcft.Hcx tamen tepo* re aut hocmodobonumefie negatur. Voluntas tamen in
id fertur nu llam ordi* nis tanonem babens.huiufccmodi igitut ordinis
peruerfio uoluntaria eihpptc reaqi uitio non caretsLoquacior fortalTc fum q par
cfi in natura mali. Addam ta men ex iis argumentationibus quibus
demonftracum efimalum nullam efienda am eflesati^ ob eam tem per fe
fubfifierenon polle: facile animaduerti id aliquo in bono feroper efle
oportere: Verum idem hac quoip ratione probatur. Cum malum dicimus priuationem
dicimus:hoc enim iam conuicnPnuatio autem ipla K foima qua res priuatut
in eodem funt.ld autem quod formz fubiidtur huiuTce* modi cil/ut fua
natius facultate formam fufeipere ualeat:Hoc autem quis bona negabit cum
eodem in genere & ipfa fiue facultas fiue potentia Scadus qui inde
cll omnino confilhnt.Prxterea malum ta folum ratione malum didiT quia nev
cct. At non ncKct malo.ElTc enim bonum fi malo pemitirm afiFcrrct.Nocet
igitur bono.Nonautefi de rei forma loquamur noceret nifi in eoelTet. Quzenimcz
citas polyphcmo nocebitinifi fit in polyphemo excitas: Verum cum uulum
boa no opponatur:quo pado utn^ idem erit fubiedum.oppofiro 9 t enim
altc^/alte tum pellinhoc fi dicas ita tibi refpondebo.Q^uicquid ens did
poteft idem 8C boa num dicitunNon autem abfurdum cll ut non ens in ente
fit:quzlibct enim ptia uatio in aliqua elTentia c(l:quz cll ens tamen non
efi in ente fibi oppofito. Si enim czeitatem dico hoc non eos comune
quide minime eft ut uifum ubi^ tola lat:Ergo non ell in uifu uelud in fuo
fubicdo fcd in animaote.Q_ux quide om nia eo teduntiut non pofliit iu
fummum malum inueniri:ut inuenitur fummn bonum.Q^uod enim fummum malum
fututum fit id fine alicuius boni cofora tio elTc oportet. At nullum
malum a bono omnino feparatu efle inuehies.C^ua doquidem ut paulo ante
ofiendimus fuas in bono radices malu egit:& in eo luu ut Ita loquar
fundamentum iedt:Ptztctea fi mihi dabis aliquid fummum malis fututum effe
id ita fua eflentia malum futurum erit/ut fua eflenda fummum bo num clfc
uidemus. At malum eflentiam nullam babae iam demonfiratu efi. Ita quod
ptiouUD pdndpiii eft eus cflcpo^too cogn ellet pti^
IaP.Vitg«M.AIl^o.Liba tettius
cipranificflctcauraiitidepcadcretttDafiautcaurambotiucfre dirimus. A 4 de
& boc^uTa enim qux per fe caufa diatunfcmpcr prior eft illa quz per
accidens caula dicitur. At malum non efi caufa niri per accidens.Non
igitur inuenimr (u Inum malum.Hatc funt quae de plurimis longecp
«ccllenrioribus quz Leo Ba ptifia memoriter diluride ac copiofe in
tantorum uirotum confriTu difputauit t mcminilTe ualui.ln quibus cum
abunde Laurentio fatilTadum efletxfol^ ia me* ridiemalccndi(ret:nos omnes
ita adbottante Mariotto hofpite libetaMimo to» Kzimusiillumf fecuti ad
tefidenda corpora difi:ellimus. CHRISTOPHORI LANDINI FLORENTINI
CAMALDVLENSL VM DISPVTATiONVM AD ILLVSTREM FEDERICVM VRBINATVM PRINCIPEM
LIBER TERTIVS IN.P. VIRGILII MARONIS ALLEGORIAS. I Vm Satuiffem cum
fermonem Illuftriilime Federice litteris mandate/quem Leo BAPTISTA
Albeitus no finefumma oiumquia&cruntadmirarione:at(^ftuporede iis
Hgmeris habuiflct>inqbus.P.VirgiIius j>fundiflimam illam
fcietiam i occultatcqua fummu bois bonum diuinitus defcribit:&
quU ^ uia ad id ^ Hcircamur/mirificc exprimit: uercbar ne in nonui
1 holum reprehcnlionem incidcrem:qui cunria ex fui ingenii
imbecillitate tnericntcs:& Maronem ipfum nihil przter fabellas:quibus
ociofas auditoru au« icsdcledaret cdmctum rae credant:& nos pro
arbitrio nodro quz dicimus ottu uia finxilTe exifiimcnt. Qui quidetn fi
quid poctz fint: fi quam eorum origo ue tufia appareat fecum teputentifi
q magna/q uaria dodrina plurimi in eo artifii<
rioflorucrint/confidcTcnncogoofccntprofedoidquod grauilTimorum philosophorum
iudido comprobatum uidemus/nullum efie feriptorum genus : qui
autmagnitudine cloquentiz.aut diuinitate iapictiz poetis pates fuerintr Qua
quidem ce Arifiotelem uirum excellenti ingenio & dodrina pofi Platonem
om nino fingulari motum crediderimrut eofdem prifds temporibus theologos
poe tafi} fuine a£btmet;Et profedo fi poefis ipfa quid fit diligentius
inturamur:fad k erit nofle non cfle illam unam ex iis artibusrquas noflri
maiores/quoniam reli quis excellentiores funt/libctalesappcllarunnin
quarum una altera ue fiqui 0 o* lucrunttin maximo funt femper pretio
habiti:fed cfi res quzdam diuiniortquz uniuerfas illas compledcns certis
quibufdam nu meris aftridatcerris quibufdam pedibus ptogrcdienstuariifi^
luminibus ac floribus diftinda/quzcutp homines qjotnt/quaecn^ norint:
quzeu^ contemplati fuerint: ea miris figmetis exoractr atip in alias
quafdam fpedes traducattut cum aliud quippii multo inferiusimul (09
humilius narrare uideantur:aut cum metas fabellas ad ceflantium aures ob
kftmdas ludere credantur:tum maxime cxcclla quzdatfic in ipfo diuinitaris
fbn tctecondita pTonunt:Q_uo quidem gratilTimo errore tandem animaduerfo
au ditoc non Colum in fummam rerum cognitionem deucniat: fed mira eriam
uolu ptatccz figmento pctfundatuc.Q_uam quidem temdiuinam potius s
humani f iii fn.P.Virg.M.AIItgo* cfle cu! potius f
Platoni credidcrimnilr rnim in lonr dicit pot ffm non arte yana
tradi;f<d diuino furore npftras tnentesirrepne.ln co aurem qui phxdrua
infcnbitur/cum tria alia diuini furoris genera expliraflet/quaitum
furoretn/quc poeticum elfe uult/huiurcemodi([ni fallor^fentcntia
exprimir.Rcfeit enim da ibcxleftibusredibusucrfarcntur animi no(lri/&
cius harmonix quxinxtema dei mente confiftitiK eius quxcxlorum motibus
conficitur/illos participes fuit fe. Verum cum deinde monalium rerum
cupiditate degrauati/propterca^ ad ia feriora iam deuoluti corporibus
incluti tint:tunc terrenis artubus ac monbodia membris impeditos/uix eos
concentus qui humano artiHno comparantur/auri bus padperc poflerqui &
Ii a cxledi harmonia longe abfintinihilominus quoni om ucluti fimulacra
quxdam ac imagines illius funt/nos in tacitam quadam cx< Icftium recordationem
inducuntiacardcntiifiroa cupiditate ad antiquam patrw am reuolandi
inflammanciut ueram ipfam muficam/cuius hxc adumbrata ima go
lit/pnofcamus.interim uero quo ad pemiolcdilT mum corporis carcerem noa
bis licet/bac noftra illam imitari cdtedimus.non uocum modulationibus
ueluti uulgares quidi & leuiores mulici cofucueruntrquos aunu frufus
demulcete po( fe no negauerimtquicq aut prxterea prxihre polTe no
cocedorSed grauiori quo« dam iudicio diuinam harmonia imitati/ pfundos
inrimof<^ mentis fenfus elega ti arminc exprimutsat^ diuino furore
concitati res frpe adeo mirabilesiadcoq^ fupra humanas uirescofticutas
gradi fpiritu proferunt: ut cum paulo poft furoc ille iam
refedetitifeipfosadmirentVat^ obllupercant.Q_uapropter non folum auribus
adulant" ifed fuaui nedarc/& diuina ambrolia mentes demulcet . hi
igic diuini uates funt/& faai mufarum facerdotesihi iure optimo
fandti ab Ennio ap E elbnt":his folum diuiniiuscocefl'umeft/ut
carmine modo iocude fuauiteripla entitmodo grauiter alteq; furgetitmodo
uchemeti impetu ruerirmodo in leda ti amnis morem fluetiinonunq copiofe
exundantiinonunq breuiicr atqt copref fef gredicnti/quocui^ uelint
auditorem rapiat.quiobrcm quonia diuimor uche metior^ in
iilisfpiritusinfurgitiab huiufmodi ueheroeria uates appcllant.Grxa
dautipfos poetasdixeruntteo quod apud illos facere figniriut. At .di»
ces fonafle none 8C reliqui feriptores fuo^ libto^ poetx id eft effedores
iuie dici poiTunt ( poflunt illi quide. Veru quoniam hi foii & dicedo
limul & intelligedo ni reliquos oes longe fuperant/nomen id quod
oibus feriptoribus comune etie opottuitsucluti fuum ac pprium fibi
uedicauerunt.Etpiedo quicuqi uates boc noie digni fueriitiii fupra
humanamuim aliqd pofle uili funticuius rei teftimoe DIO elTe poflunt
prifei illi uiri:quos poetas fuifliecoflatinam apud hebrxos Moy fes uir
bello inuidus:qui 6C xgyptios ab xthiopibus SC ab xg 3 tptiis hebrxos
lib^; rauitmdne cius ucrlibusiuerlibus enim uolume cofalplitiocm
diuinitate cofai plitiocm diuinitate coplexus cft.uir adeo prifeus/u t
cum odoginta iam natus an nos iudxos e leruitute educeretrCecrops athrnis
r^aret.Nam qux ea fint qux Idumxus lob fuiscanninibus madauit:ormine ex
iis chriflianis qui paulo dudi ores babet /latere puto. At hic ut ex
libro fuo coiedari licet tertia xtate poli iftael tutPcftincc nuc
{>fcqr quata qliaue fint qux catminib^^Oauid regis:q d^iiJii Si
Jonumis i qux dcutctonomiuquc Ibix catico codnent" tEgregiu dno
inudu/^ Lib« tertiiur cotitinuab dekiceps ferie r<rfiiper rctetitum : ut
iion modo poe tx : uerum exte^ ri 9uo(^ rcriptorcsquicutK^remaliguam
maiorem litteris mandarent:eam ua^ tiisHgmentis/uariisfigurarum
integumentis obfcurarent : putabant enim fo teii negodumdifibcilius
ccdderent : ut fi: gux rciip(i{rent: maiorcmeflentdi> gnitatem
audoritatemc^ habitura : 8C 9U1 percepiffent : guoniam non fine la^ borc
at(^ induftria id afreguerenturtea pluris elTe faduros.maiorem^ inde
uoluptatem percepturos fi guz ipfi tenerent minime fibi cum indodis commu
ciaclfent.Hac igitur ratione a fandis facrifi^ rebus profanos arcebant*
non inuidiamoti/fed ut aliguod inter follertem at<^ mentem diferimen
appareret: cum non idem ociofusguod ftudiofus affeguetetur: fic enim dC
premia guz dodis debentur folis illis proponebantur exteri ut iifdem
artibus quando leKguis noD prohccrent / niterentur fummopere
accendebantur. Difficultate enim inopia rei mortalium ingenia acuuntur :
uindt^ onmia la bor impro bus: & du ris um ens in rebus egeftas 2 Q_uam
guiiguam feribendi ratione grxi* d guoi^lccutimntfguortim & Orpheum
thracem:& atheniefem Mufeum/& thebanum Linum antiguiflimos fuiffe
accepimus: Verum Lini Mufei^ uiz uciligia eztant: Orphd autem poemata in
quibus multa deui diuinainecpau ca dererumnatura continentur 2 ad eam
quam diaimus formam confcnptitaf fe/fadle efl cognofeere 2 de reliquis
uero qui deinceps doruerunt/nihil dicam: Fabularum enim figtUenta quibus
aut deorum/aut rerum naturam /aut ea gu» ad uitam& mores pertinent
obfcuriusquidem/fed maxima cum dignitate ex^ primunt : rem manifeffam
reddunt • (Quapropter cui mirum uideatur:fi otn*
nisxtas:omnesnationes:Omnesguialigua ufguamdodrinacxcelluerint: poc
tasfemper maximi fecerint.Nam ut reliquos adprzfens omittam/q multos q
maximos in philofophia locos Ariftotelestanms uir poetarum tcflimonio
cot<» roboranquibus quidem nifi tatu tribuifletmunqua netpde poetis
duosme^ de arte poetica tres libros accuratiffime confaipfiflet . (Quanti
autem hoc bomi num genus Piato fadat: ipfe in libro de re.p.fadle
offendit: q uoniam n ihil uei» jbementius mentis intima penetrare/qua
poefim affirma. At dicet aliquis no ne in libro de legibus idem Plato
poefim reiidendam ccnfctmufquam ille hoc. Sed eam rdidenda/dmonet: qux
more tragico pturbatos animos imitatur;qux uee to laudes canit
deoru:patria inffituta defcribitimores edocet:probosuiros extol
]it:iroprobos deprimit/aedpiendam iubet.Deni^ nonullis in lods aliquod
poe tarum genus uitupetari ab hoc philofopho inuenias. Poefim autem ipfam
qua donoutdiuinamextollit.quasquidem res cum diligentius fecu
reputauerint qui confilium noftrum damnantifentetiam illos fuam
immutaturos exiffimo: qui tamen fi nos carpere uoluerint:potius
temeritatis arguantiquoniam ea qux fupranoftrasuires funt/aggreffi
fuerimus: qua aliquid quod Maro non uidc^ tit 2 nos uidifTe putent 2 Ego
autem quauis non tantum mihi arrogem :ut hu^ ius poetx diuinitatem fatis
pro dignitate explicare pofIim:non tamen inutile fii turum putauirH noff
ra indufiria/quantulacunc^ ea fit/dodiores uicos ad tnaioif ra de Aeneide
demonftrandaexdtar 02 qui cum nos non omnia potuiffeintelli indigo^oiK no
otn&mq ioiufta aduerfus nos induti^utbca^ca
coi* Ia.P.Virg<M.AnegoJ nim lutun erga Iiuiurcemodi dodris»
cupidos adtadiS errata Uoftra conS gant i ii qua detint addant t Q_ua
quide in re non modo emendari me xquo animo fctam:r<d ultro iam nunc
omnes qui hoc polTunt ut id faciant uebemc ter oro. dam »m maxi me
propriu m hominis p utem» 8t quod jpfe. uiderit U> ^ter aliis oftendet
er & qu od ne^t fiudipie adijj^ercum in hoc fibi Ipii in il lo
reliquis profuturus iitu^o 6c uitam inftitui s ut fic quicquid in me efi
iiberalif fime effundamtflC a nullo mortalium quz mihi delint/fumere
dedigner:ad que autem nofha hrc potius qualiacun<p imt fcribamiquam ad
te iUui^ime Fcde tice:qui& Maronis
pra;tercaKeTos&udiofiirimusremperfuetist& cum reliqui iulue
principes in eo omnem indufiriam ponannut quamaximos fibi tbc£uitos
comparent i auri^ at^ argenti aceruus magis magifi^ indies aefcatitu maxu
mam tuarum opum partem in mularum /& eorum qui mulas colunt omsmen ta
liberaliffime effun^s : ut iam quemadmodum Homericus ille Agamenon
coniidebat/fi decem aliifibiNefimesadeircntiforeut breui Troiam apturus
eflett fienospro comperto habeamus fi Itali populi non diam decem ut iliet
fcd duos przteta Fedcricos haberent t breui futurum /ut uniuetfa italia
alterz AthenzfutunfitrfeddeczterisaliolocoiNon enim in hunc fermonem
hoc tempore uemmus t ut quequam arpamus t fcd ut te fic dc litteratis
hominibus meritum/quamaiimispofTumuslaudibus profequamuri qui quauisfolus
ex omnibus qui in imperio confiituti funt/has parta tuearis : amen iu
late patet tua in oes litteratos liberalitas: Ut non pauciora ez a fiC
poetae BC ontorat & om niuffl rerum feriptora prouenturi fintsqua ii
fuerint t quos olim Nicolaus lUe quintus pontifex mazimus:quem omnes
uidimus fuis pulcherrimis muneris bus/ac maximis pretniisprouoauittqui
quidem tuo beneficioad ftudia czdta ti:8t fibi gloriam fua dodrina fua eloquentia
ucndiabunt.6: te ulem roufape E atronu etiam tuc cum multorum
principum /qui & nuc uiuunt/& olim regna« ut/fama fepulta iacebit
in xtema femper^ recenti memoria uiuum retinebut. Veru haec quoniam omni
luce clariora fuDt;longiusprofequenda non cenfeot Praefertim cu ipfa iam
ra poftuletaut diuinum dodimmi uiti Baptiftz Termone ego quantum memoria
repetere poteto/Tuo ordine referam.Ille enim cum bci> ne mane ad
confuctum locum ueniflemus : 8i min audiendi cupiditate inflam mati ab
eius ore Tummo cum filentiopenderemus/huiufccmodi principio dil/
putationem exorfus cfi|£)um eius poctz mentem tibi Laurenti aperiri cupias
r qui uel ex omnibus re^onibusaquarumbabiatorcshifioriacognofant
suci cxotnnibuslzculissqukadnofhamur memoriam acriptorum beneficio
per uenerintsfi non primus primo tamen par aequalif(^ exifiatsno poflfum
meo oea tionbingreflu tantzrei magnitudine non penitus pctturbaii.Ncmo
modome diocri fit dodrina imbutus hunc uirn ui ac copia dicendi ipfnn(^ut
ita loquar) eloquentia fuperare unquam dubitauit.Nam cumtraindidionefiue
figurae rrnt/fiuc charaderasin quotum uno fiquis excelluerit maximam fit
glotL - am adeptus. Quis non uidetnon folum in lingulis fuis uoluminibus
fiiv* mlos adimplet Verum paucis liepe uctfibtis ita
omnacofudific/aepennL: fcuific/ut miro quodam temperamento u clotifidiucifcuoc
BcoocctuMluaf^ t«a Z iotl dk\ M aia uFdi £ II
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cottfiaabt/incredibilefli auribus uoluptate pariat. Ex quatuor aut
riie& di generibus ita opus contcxitiut ne ocio copiame^ negocio
breuitas defit. Vi dcbisquxdaruaficdtatc at<j ariditate
placerctquzdamuetoueluri flofculis ib lufhau at^diftintSa deledare.Sunt
deni^ eunda eo attifido confirudaiut un# deoiaadoe elocutionis genus
exempla potius qbincrumas/fcriptumDulIum inuenias.Adde ad haec
cognitionem hifioriatai Adde quadiligentillimus and» quitaristt
oonmodonofliaturctuifed&grzcaru/&omm nationu inuelliga#
torcxriterittqptilconjmuaborumobretuatiinmusfueritiq elegata quxdain Boua
ex fe fotmaucritiqua f pric omniu uim tenuerit . Prxterco ius duile: omit
loiuspontiridu.nihil dicodeiurcauguratqus; oiaita tenuitaitnonab aliis
accepilTeifed ipfc conftituiOie uideatue.Hzc igitur & cotum limilia fi a me
tibi ex« pheanda pctaestac ut fifiguk» in eo poeta locos diligeorius
apetiiem contende tes: 8C operofum fimul & difiidle mihi negociu
imponetes.Q_ uis enim illa pub chetrima cxcdlentiiliinaf/ac fummo
artifido tccondita non ludicct: fed funt ta nicri a multis iifdcm^
dodisuitis patefada.Q^uodaute petis id & multo di»
uiiuuscfttKmagisinobrcuroUtetiKanullo quod ego quide rdam/badenus fua
ferie patcfadum.quod ne^ gtimaricus nc^ tbetot nouerit.fed fi ex intimis
philofophtx arcanis eruendum. Vis enim nolTe quid per fua illa enigmata de
Ae ncaectrotibusidc^ dus hominis in italia profei^one fibi Maro
uoluerit.Q^ua qua (untnonulli/qui di ea quae paulo ante dicebam promaximb
admirentutt at^ in ipfis fuma abfolutam^ poetx laudem contineri putent:
nihil maius in eo uate fu^icent' :Q_uos tamen fi roges quid fibi in ea te
Virgilius perficere uolue ritiHometumimitandu fibi propofumeafibtmabut:
Addent^ ne^ ingeniu ne dodrinamtquo minus id pilare pofTet fibi
defuifreiQ^uod nobis cu dederint fuccubat penitus necefle efl. Habemus
enim ^ut gramaiicope iiinita pene tutba
omitta^multoseofde^grauifTimosphilofophostqu i Homerii ocm zgypriopi
dodrina haufilTctca^ more illote uariis hgmetis adubraffe cotcdat.Q^ua in
fen tcnria nili Ariflotelcsfuiiret nunquahomeriaruambiguitatii libros
fexfcripfif fet.Na quid Balilius Bi dodrinz magnitudie/K mo^ fanditate
magnus co^o minatus de homine fentianfacileefi iudicare:qui tota Homeri
pocfim laude/ uittutis continete dixit /fccutus ut puto Anaxagoram
Claxomeniiitqui quidem idem de hoc poeta aSirmauit t Arcbefiias ucto mediz
academiz inudor tra Ho mero tribuitiut nunqua fe iniedu tecepcritiquin
prius aliquid ex eo legerit: Sed & inlucem le ad amauum ite
dicebatiquo hin dus legendi maior copia daretur, yctum quid reliquos nunc
colligamtcum unius Platonis tefiimonio nihil fit, quod probari non
polTitlls igitur in eo uolumine quod de (umo bono fcripfit . omnes artes
huc diuinz fiue humanz illz fint in unum Homeri poema uciuti r in
proprium receptaculum confluxifle afHrmat. Quamobrem animaduettens Mato
dodrinam huius hominis ex zgyptiorum (acerdotum fontibus bauftam
fimillimamcum Platonicist quorum QudiofifTimus fuit/rauonem babere eam
uT^adeo admiratus dl:ut idem in fuo Aenea efficere uolucrit : quod ille antea
in Vlyxc finxerat^ Q_uaproptet pulcherrimis poeticif:^ figmentis eum
nobis unw i^oiinai^qui pluri^, a^ aux^nis u itiis pauwim expiatusue
dckeps 'i4'1 4^; , r»v I f •*/ .«MI inr ;
iRft. Ia.P.Virg.M.AIfegdi' mitis uiituHbiu
IlluftratusidquodfummahotmnibdliaeStquoiI^ tufi &pl
ip6t/tatnnlal^equnec^VcTdcu illud mrera
diuinanunfpcca msnullusafTequii latione conlidcre a Platone
didioirctylimul SC illud didicit co antbt minime perueniripofle/q animi
nofhiuirtutibns illissquz deuiu K moribus funtex^ piati penitus
reddantur.Cum Socrates i pfe puru impuioiittiogetc fas c$/cfle neget. Quapropcet
non folumflnes bonoru nobis miririceezpreirittVerum etiam qua uia qua ue
ratione eo cuadere tandem homini liceat demonftrauitt Ne qua pars eius
philofophia; /qui gtxd ethicen/nos de uita & moribus nomp
namus:prxtermitteretur:in ea enim nos nihil aliud quammus nili primum bo
notum malorum^ iincstdeindeofScia/quibusueluti uia quadam ad eosdem
ducamur.Laboriofum omnino negodum/at^ omni difficultate plcnum:diui num
tamen & quo uno foelix limul atip fapiens homo effidaturtdeo^ iungaf*
Soli enim fapienti fas eft ufi^ adeo deo c6iungi:ut nihil quod
feparcr/intercink ce poflit. Deus enim ueritas eft .Q^uis aut nefdat qui
uerum mente non pettin gat/eum lapientem efle minime poiTet^os autem cum
quatuor lint qu 2 in feru ptoris mente aperienda inue(tigemus*in rem
nolfram futurum puto: ut certos ia terminos drcufaibamus: quos in poeta
interpretando egredi non liceat. ES igitur cum id quod geffum Iit
quxrimus: quam hilforiamappelbnt/ut cum le gimus apud Matonem haud ptocul
inde dtx Meda indiue^ qoadrigxdiSa lerant.C^uxrimus itidem non quid geSum
litifed qua ratione geSum nt:ut eS illud At tu didis albanemanetes.Nam
eoloco dcmonfhatproptereadifcerptu a quadrigis elTcalbanorum regem
/quoniam illein fide non manlilTet.hic gta&« dethimologiam
dictuit.Q_uxrimus& tertio in loco an ea qux dicantur pu^ gnantia
inter fe lintr Alibi enim didt ChriSus patrem fe maiorem efle:alibi ego
&pater Idem fumus.Q_uapropter cum ita interpteumur/ bxc ut minime intec
fediiridereo()endamus:Analogiam (equimur. Interpretamur poftremo aliqd
per allegoriamtquod tunc fit cum non qux uaba (ignificant
intclligimus:fed quiddam aliud fub figura obfcuratum.Scribuntpoetx
Amphionis lyra motos m lapides/ut fua fponte in thebanorum moenium
flruduram coirettper quod figmentu quid aliud intelligimus:nili
fapientillimi uiri cloquetia effedum eifer ut Boetii populi qui hadenus
ad omne rone ueluti lapides Supidi:K aduetfus oem humanitate durilfimi
czi(ferent:e fyluis ac luflris in duitatem uenirentrac poSremo legibus
qux ad comunem ufum latx cfTennultro fefe rubiicerct. Nos igitur reliqua
tria genera hoc tempore omittemus:at(^ in ipfa fola allegoria uet
fabimur:ut quid per Troia(n:quidpCTxneam:quid per italia/ reliqua^
huiu& modifibiuelituideamus. froixigit" oritur
Aeneasrperquautberedeut puo to prima bois asutem intelligemus.in qua cu
ro adhuc ois cofopita (lufolus fen fusregnat: At^ ipli mottales/quia ea
xtate fapientia ne furpicaot' quide ea fola fibi proponut qux philofophi
prima naturx appellat.Ni cu oe aial (ibi a natura comendatu (it:in primis
feipfum diligit:deinde o^s corporis partes ita integras: ualidafip hne
cupit ut ufui (imul fit pulchritudini fibi (int: maxime autem uohi
ptatibus demulcetur flc quauis animum fefimul corpur^efTeintelligattat^
Utru^ faluum efb cupiautamen in iis qux in animo apetenda funt/ quoniam k Liber
tertitu BOO dbm plane ilhcogOolat minus laboratsea autem quz
corpori corporeilm uoiuptanBus conducunt/anxie expetit. Sunt enimflbi
abipfoortu iamnotif.> fima>Q_uaptopteiT cum in hac zutcnaturxui
potius trahamur/g nofharum adionum domini efTeualeamusmel minimum ucl
omnino nullum uirtuduw do^ locum relinguamus:cum que agimus
eanccuoiuntariaflnt:neccum de ledu aliquo fiant . Ita^ in puero uirtutem
e(1'e nemo dicet. Verum ubi iam pro gtcflu ztatis rationis lumine aliquo
illufirari indpit mens noftra s tum demum tanm in nobis conlilii
apparet:uta prauisreda difcerncrcualeamus.Eft enim iam ad illud
pythagoricxlitterxbiuiumpcrucntum/fic iatnuitzneTciuseiton utcil apud
P^um.Deduxit trepidas ramofa in compita mentes. Vnde cum di fceflciimus
nccefle efitut uel reda pergamus : uel in finifira deiledamus . Nam quz
deinceps agimus/quoniam ceru quadi ratione agimus/fi reda fuerint uit
tutitfin contra uitioadlcribuntur.Troiz igitur 8t Aeneas limul fit
Parisa/un tur. Verum alter quoniam Venerem Paladi ideft uirtuti f
uoluptatem ante« poni neceife efitut una cum Troia pereat. Alter autem
ducematie Venere fe ab omni incendio explicat. Q_uod quid aliud
intelligamus/nifi cos/ qui ma^ gno amore inflammati ad uen cognitionem
impclluntur/omnia facile confer qui pofle. (Quapropter Venerem diuinum
amorem rede interpretabimur. Sed tu LAVRENTl ncfdo quid iam diu uclle
dicere uiderisiCupio quidem inquit LAVRENTIVS t Ni uerear perpetuum tux
difputationis filum intec nimpae.lmmo potius iflo modo inquit BAPTISTA:
Nam cum uniuerfus hiefermo non ad oflentandum ingenium/ neq; ad gloriam
comparandam a nobis infticutus fit : fed ut honeflifiimx- uoluntati tux
obtemperem: fit fi quid in me dodrinx efi/id libenter cfiFundam :
interroga : interpeilaiobiice: confuta pro arbitrio tuo.Hac enim uia id
quod quxrimus uerum/ dilucidius appare^ bit. Vtar quod mihi
permittis/arbitrio inquit LAVRENTIVS utrum id non tui confutandi : fed
mei erudiendi caula . Miror igitur cur tu Venerem amo.« rem interpreteris
eum prafertim amorem : qui non modo cadus/ uerum cti« am diuinus fit. Ego
enim Venerem non folum apud poetas : fed etiam apud reliquos
feriptoresita fumptam uideo: ut per eam nonnifi maris foeminz^
coniundionem fignificarc uelinr.hinc illud Terentianum, ^e Cerere fit Bac
chouenaemfrigefceretEt ipfc in bucolicis: Parta mez uenerifunt munera. (Quapropter
fi uenerem pro huiufce modi'coniundioneponas:quxbadenua dixidi/ea omnia
inter fe pugnate uidebuntur . Sed eft fit aliud qu^ nifi tu mi< ili
petfpicuum reddas ego minime explicare ualeam. (Qui enim fit ut cum duo
fintuiri Aeneas at^ Paris: Alter quoniam Palladi Venerem prxponattnecefle
fit ut una cum Troia pereat : Alter ueto quoniam prxeipienti Veneri
obtempe reriomne periculum incolumis cuadat.Ego enim non uideo cur fi
bona fit Ve nus Paridi noccat:fi mala prqfitAenex.(Qux quidem dum cogito/in
eorum potius Icntenciam labor:qui rem omnem ad eam flellam qux hoc nomine
ap pellet'':flt ad ipfam bidoria referut : Putat enim qd* te no fugit/qua
hora a Troia Italia uerfus jificifcerct Aeneas:librz fignu qd* domiciliu
ucnetis 6ad nfm hoc hcaifpcpu afiacdifli^lpfam Y^ete in medio czlo loui
fuide roniundam. i T MLO' It
(k 1 l •M »,H'. In.P.V>rg.M.AUego<.'
Q_uibus oibus poftendebat" foelidtas illi tegtia^ per muliere
peruentufoioJo' uem enim regnU ptzeflc non ra odo H omerus (ignificat qui
reges ; id enim eS a loue nutritos rcribit.Sed & mathematici ide
ditant.Salutareenini omnino ITduseQsquonia inter Saturni frigus K Marcis
ardorem colloatu opti moeemperamento Iit: 8i propterea eundis euentibus
profpcrum . Nam cum ui tam noftram praxipuefol&luna gubernet: iccirco
lupitet omnium nobis fa luberrimus eihquia foli per omnes
numeros/iunzautem per plurimos coniuo dus eft.Refecunr etiam in initio
mundanzfabricziouem in ariete dotniciiio tuncafcendcnte fui/Te. Volunt
illum inducere leges/caliicatem/mirericordiam in egenos K calamitate
opprelTos. Veridicos homines fadt/& uere amicos fine fraude fine
dolo: Saturni fzuitiam frangit fiCquzcun^ ille mala infert:hicaut tollit
aut minuit.Q^uapropterfcite Petii us . Satutnumip grauem nolito loue
frihgimu s una: Oeni^ fi in alicuius ortu fe bene habeaticum ille hominem
for tunatumreddit.bfinimehzc dilpliccnt inquit BAPTISTA. Sunt enim ex
15 ma dodtina eruta: 8C hifioriz uehementer accommodata. Verum cum
omnis nofira difputatio nullam hilloriz ratione habeat i Sed eam qui
totiens gtzco uabo allegoriam nomino/exprimete conetut/non uideo cur ea
qua adhibui in terpretatio iure amitti non pofiit : Si enim iis omilTis
quz de Aenea deqj cztctis troianis prifei faiptores tradidere/pro arbitrio
licuifiet poetz non modo finge te:fed SL peruertere & addere &
fubtrahere.Si deni^ nulla hifioriz ratione liabi ta id folum tentaret quo
pado per Aeneam cum nobis uirum informaret: qui ta dem fapiens beatufqj
citet futurus/nonueneremfortafiefed cupidinem aliud ue numen
pofuiflet.Sed cum ita poeticum figmentum profequi inSituifiet: ut tamen
ab hilloria non difccderet:cum Aenez matrem fuilTe & exilii ducem na#
uiganti filio fc przQitilTe Vennem IcgilTenfuit cx iis quz aderant res
perficiedat non autem nomina fingenda. Hoc enim plus negocii poetz cll
qua reliquis/ qui alio figmento rem obfcurateuolunc. Illi enim ab omni
hiftoria foluti pro arbitrio ea cominifcuntunquz magis rei fuzjpromendz
quadrent. Quodut ! )lanius teneas/unum de multis excmplicaula proponendum
cenfeo.Placuitil I primo huius fabulz audori ollendcrc quz in tempore ex
materia gignuntur: ea omnia in interitum cadae/ quatuor dutaxat clementis
exceptis: quz principia (unt oibus rebus generadis Duos igitut comentus
ell deos Saturnii at^ Opima & illum temporis fjmbolu obtinere
uoluittquod gtzcu nomen indicat. Cro# nos enim qui Saturnus ell ab eo
fubtrada harpitatioe deducifrquem ipfi chro non appellant. At quis ntfdat
tempus grzce chronon dici. Per Saturnum igitut teropus:perOpim
fiuerhcamterramintelligit. Addit deinde Saturnu pmnes quos de
thearufccpilTct filios uoralTe prztcr loue lunonc Neptunnu Plutonem. Qua fabula
exprimit omnia quz ex materia funt prartctipla quatuoc elementa tempore
conteri : at^ in interitum deduci. Quorfum igitur hzc ne reliquum fabulz
profequar : nempe utintelligas licuilTe huic homini pro arbitrio quzeum^
uolebat fingere: ut quod de rerum procreatione fentie## bat : commode
exprimeret : cum nihil aliud prztcr phyfices particulam fibi
propofuiflc.Maroni» autcih longe alia rado cfi: qui cum Aeneae res io laudem' I
II Litxr tertius AngulH ezoritatidas t ft librum iprum omnibus
poeddsluminibasitluftrandum fibi fumpfiflet t non iis qux ipfe uio
ingenio digeret t (ed iis quz hiftoria porrigit banc fuprcmam ingemi fui
laudem comparat . Mirus profedo uir qui non ex op tads fed ex datis ha
opus intexat : ut cum hiftonam minime deferat :pet eam rame illaedibili
integumento humanam fcelicitatem exprimatiHabcs^ut opinor^qua ratione
uenaem pro diuino amore ponae coadus iit . Q_uod ita tamen rede pro cedit
< ut ni£ ab iniquis reprehendi non poiTit. Videmus enim Platonem in eo
fa mone quem phatdtum nominat : Aphr^iten/quaic nos uenaem
nuncupamus: oqn lafouololum fed & diuino amori ptaxiTci Verum quam
uenerem piatonie cua poeta Aenez matrem eife uoluerit : faale
intelligemus ii quzdam paulo altu uscxipfoPlatone repetamus.
PauCmiasigiturin fympofio duas ueneres comme morat/aketam
czlcfiem/uulgarem alraam . prinum autem czio natam refert: cui nulla
mater iit . Q_uod cum lingit eam intelligentiam iignihcat/quz in angeli
me te poiita amore ingenito ad dei pulchntudinem intelligendam
rapirur/quam quo numproculabomnifflaterizconfortiolitiinc matre prodiidam
dicit. Secudam uao uenaem mundi animz tribuitiita ut patre loue : matre
uero Dione eam na» tam feribat . Manat enim ab ea ui quz in anima mundi
eft : & uim creat quz infe« hora bzc omnia gignat & mundi fyluam
fubeat : Vtra^ igitur fibi ingenito amo ce rapitur czlefiia ilU ad dei
pulchritudinem intuendam : hzc uao ut eandem pul chritudinem e fylua
conforma. Sed hzc parum ad rem: Animus autem noda cum&ipGe
fimilesquafdamuires habeat inteliigendi at<y gignendi / duas itidem
ueiierahabaedicitur/quas gemini comitentur cupidines. Cum enim corporea
puichnmdo oculis nodtis obiicitucrmcns noftra^quz piima uenus eft}eam non
quia corporea litillcd quia limulaaum diuini decori admiratunar^ diligitiea
quz ueluu uia quadam ad czlos effenur : Gignendi aurem uis: quz fecunda
uenus ell formam gignae huic limilem concupifcir . uapropter uterqi amor
iure dicitur utaltcrcontemplandzaltergignendzpulchficudinis
defidcrium fit. Nemo igU tur nifi totius rationis expas fit duos iflos
amores damnare audebit t cum uta qj humanz naturz neceflariusfit: Nerp
enim diu efremortalium genus finefo bolis propagatione t neij ruifus
beneefte fmcueri inuefligatione potait.Prza ttantiuri igimr illa ucnae
duce in italiam perucnire potuit zneasiAc dices cui hzc fecunda fi
bonacfl paridi nocuit: quia illa male ufuscfl. Vir enimgignen« di autdior
quam reda ratio didatfitin ea re plus quam oportet occupatus /in Ibiis
corporas uoluputibus meretur . Quo fit ut 6i primam quz ad fummutn bonum
dudt omninn deferat : & fecunda pcffime abutatur : proptaearp in om
nes animi petturbanones incidat: ueritater^ defpctata mifaq^ efifedusin
omne indignitatem dcfccndat^Efi ut dixi diuious amor fi Platoni credimus
dcfideti« um redeundi a corporea pulchritudine ad diuinam contemplandam:
Non ta« uencum diuinam defidetamus eam quz oculis
pcrcipitur/contemnimus.Nam qui aliquid appetit hunc illius quom rei :
quam appetit imagine delcdari ne« ceffe cfi. Verum funt quidam ita hebeti
ingenio: ut mentem a fcnfibus nullo modo feuocate poffint: hi ueiam
pulchritudinem non norunt. Huiufccmodi igitui amot adultctinus cfl /
& a uao degenoans: quem lafduia ac
pcocadtas g In.P.VJrg.M.AIIego» frtnpff cotnit3tnr:quem
diffiniunt cupidinem eius uoluptatist que e cotpdo rea Forma percipitur
rrede qux dicunt cum ardorem animi in fuo cotporetnot tui in alieno
uiuenns i quod fecums poeta quidam dixit J , I Plato ucio ait illum
natum ab humanis morbis follicitudineqi plenum . At quis non uideat
illum nerp confilium in fe nc^ modum ullum habere. InefTci^ in
coiniurias/furpi# dones/ ac reliquas illas omnes peftes : quas fidelis
Feruus Terentiano phzdtix prudenter oftcndit.Habes(urputn^dupliccm amorem
uerum illum fidiuino: de quo paulo ante dicebam /& hunc falfum &
adulterinum: & qui uetoamo ri talis fit qualem aut amico adulatorem:
aut medico coquum efifeuidemus: cui quidem cum fe totum dedidiffet Paris
uiia cum Troia periit. Aeneas autem cz lelii illo duce paulatim ex
troiano incendio ideftex corporearum uoluputum ardore fe expediens li non
reda nauigatione id enim humanz condidoni : aut nunquam aut raro
conceditur: ut eodem remporelicfiulcitiam exuat. &rapiens efficiatur:
tamen poft multos errores in luliamad ueram fapieutiam pcrucnit. Q^uam
quidem nauigationem cumfudorislabonfi^ plcniliima fit/nemouna quam nili
fummoillius amore inccnfus difficultatem omnem perferre paratus fit penitus
perficiet. Amor enim uerus/ut apud eundem Platonem /offendit Eriximachi
oratio omnium naturalium rerum creator effat^ feruator : eo emn fimilia
omnia ad eaquz fibi fimilia funt perhenni concordia ttahuntur.Effitt dem
omnium maximorum artium magiffer. Nemo enim aut artem inuenitiaut ab alio
inurntam addifcit : nili inueftigationis obiedatio/K difeendi cupido ia
dtet . uam quidem rem fi non apette offendit : obfcudus tamen ut poeta«
rummos efl / figuificat noffer Virgilius.Cum enim in georgicis fe uen
cogni» donem reliquis rebus prxponere dicat difficultatem ipfamfumma
amoris ui fu peraturum his ueibis demonffrat.Me uero pnmum dulces ante
omnia mulas Q^uarum facra fero ingenti pnculfus amore Accipiant . Ingenti
ergoamotela« boies fummos:quiin factis mufarum/ id eff in rerum
cognitione fubeuodi funt fe laturum affirmat |0 uinus enim amor/nii aliud
meditatur: nil molicurmui Ia alia in re laborat t nihil tentat: nihil
nititur /nili utiam corporex pulcbritu^’ dinis afpedu concitus addiuinam
nos pulchritudinem rapiat. Dum enim cor/ porcis tenebris demetfi funt
animi noffti diuin i non recognofeunt : nifi umbris & fimulacris
quibufdamtqux fefenoffris lentibus obiidunt . Q^uam quidem rem non folum
exprefferunt prifei ex grzcia pbilofophi : in quibus Pythago» ram
Empedoclem Heraclitum :fed longe ante alios Platonem enumerare poC* fiim
tSed Bi chrifhani ab eadem fententia minime difcedunt: Nam & Paulus
& qui Pauli auditor fuit Dionyfius areopagita cxleffuac diuina : qux in
fetu fus non cadunt/pet ea qux fenfibus percipiuntur /cerni uolunt . Inxc
eff igu tur illa uera uenus: qux mentem noffram ad diuina erigit: qua
matre quisoc Idat natum xneam nomen abeo quod effxneos id eff a laude
dedudum.Vb rum enim ad omnia magna dCexccIfa natum : quis non fummis
laudibus proe fequaturf Verum&ipfea uolunrate delinitusdrca Troiz
defenfionem laborat Xioiamcoimpdiuatuturztin quibus, uoluptatescorpotex
plurimum uigent/ Liba totius intoprctari licet : prima
enim >tate’cum ipfa ratio non dum fe exdtare : ft fuas ui CCS
explicare poflit / etiam qui magni at^ admirandi uiri futuri funt uoluptate
de mulcentur: prima naturas ueluri fumma admirantur: di quoniam diuina
qux fint nem nouaunt : beatiflimam eam uitam putant : per quam uoluptate
frui lice at * Hi igitur quid fummurn bemum rit : nondum compei tum
habent: Veni cum illius acquirendi fummo ardore inflammentunpaulatim bxc
omnia qux dixi pri ma tiaturx aduca momentaneai^ efle animaduertunt. H
abet enim hanc irim ue tus amor : ut paulo ante dixi / ut mentem
ucbementn exacuat : magifterep illi re^ cum inuenieodarum paulatim fit t
ut nibil eam latae poflit . Q^uapropta egre« ei llud qi^ £Ulete poifit
atuanton : Deinde cum nihil dfficik puta / modo re amata potiatur : omnes
labores tolaat : omnes difficultates fupetat . Hxc eff ue* nus illa non
uulgaris ; qux materix admixta utm haba ^gnendi/fed illa cxicflis ab
omtii materia remota : qux a mente noflra eft : ipfamq; mentem excitat;&
Iu* cem illi liiam nobis badenus incognita in node id enim efl in nofita
infritia oflen dit t fc^ deam &taurfeenim indicans fua diuinitatem
demonftrat : admonet^ non peme feruari Troiam id eft originem corporis
qux necefle eft ut pneat . Hxc eadem oftendit uoluptates cotporeas non
Tolum ab ipa lacena id eft a feipfts/ut in beftema difputatione diximus
cotrumpi : fed ab lunone a Pallade at^ a exteris di is: Nam deos Troiam
populati quis ignoret fDiuina enim omnia uoluptatibus aduafantuc . Sed in
primis Pallas . Hxc enim fapientix fjmbolum obtinet. Sapi entia autem non
folum uoluptates contemnit : uerum eriam (fummopae exhore ret. eft quod
de lunone quifquam dubita : qux quamuis regnomm dea ha beOiiriproptaca in
hxc caduca ac mottalia magis ptopenfa uideatur: tamen cumlidmmes
imperandi aipiditate nullum labotem pafetre recufent t omnibus
uoluptatibus bellum indiaint : modo eo perueniant unde poflint reliquis
impe* ritare: Deos autem minime uida Aeneasdum pronoluptate pugnat .
Nubium cniBiteilebtiscnnnis ei ptorpedus eripitur . Sunt enim animi
noftri ita a deo aea diutfuapte natura facile omnem utritatemconfequantur
. Sed a materia corpo* ea quam philofopfaifyluam appellant: omnia nobis
mala proueniunt.llla enim tardat heb^t at^ pemirbat mentes noftras::
at<^ tenebris obfcutat . Sioiim ex in fritia omnia uitia ptoueniunt :
Q_uaproptcr & Chty lippus & reliqui ftoici per* turintiones omnes
a fallis opinionibus oriri dicunt :(^uodtamai longe ante feoferat
Mercurius ille: quem grxciob ingenii diuinitatem Trimaxinnimappei* hnt..
Siigitur omnia uitia ex infritia ptoueniunt . Infrit ia autem ex corpotea
calu ginecft/utPIato putat /erunt omnia uitia a corpore. Q_uam caufam
prxeipu* am fuH&idixerini / ut is quem paulo ante nominaui Meteutius
fyluam malignita* temappella:fedderyluacommodiordifputandi locuspaulopoft
dabitur. Pu* gnat igitur xneas pro uita uoluptuofa: illat^ demerfus deos
uidae nequit. Verum cuminhuiufcemodi miferia non delit amor neri
inueftigandi / ualetipfeamot mentem excitare:utfecoUigens tenebras
difaitiat:flt uideat quibus numinibus Trcria cuertatur . Ducetp eodem
amore pa medias flammas at^ hoftes ita tutum anipit . Et profedo uolenti
ad tes arduas profleifri / hinc mira quxdam'uolupta* tum : qux defoendx
funt cupiditas ucluti flamma quxdam illinc laborum ^difiS*.
In.P.Virg.M.AIIego. cultatutntp terror / qui aduerfus honeftatem
afliduo pugnet fefe opponfit. Q_uz omnia ducente Venere Araex cedunt. Nam
niii amor abfit : netp ram blandas oo luptatescontcmnere>ne<^ tam
duras difficultates fuperare pofTemus. Venit igu tur domum ut familiam
omnem componat : at^ inde ex urbe proficifatur. Ri^ dit enim in fe ipfum
animus t omnef^ fuas uires : at<p uirtutcs gux uariz funnad
profcAionem / id enim eif ad ueri cognitionem / quam Troix nunquam
afTeque^ retur : fuo ordine componit / omnia^ (ibi ex uoto fuccederent :
(1 pater filium fe qui uelit.Verum negatAnchifesfe ex Troia difcefTurum»
Hoc ueroquid (ibi ue lit : (i me roges ego (ic puto. Aeneas huiufcemodi
parentibus natus efi : ut Venus dea : Anchifcs mortalis (it : homo enim
ex animo qui immortalis diuinufip eftiK ex corporemortali Kcito in
interitum cafuroconftactMmsigitur originem fuam femperfufpicit: ad eamcp
redire cupiens Troiam auidiflime dcferit . Senfus au« tcm qui a corpore
funt corporea incorporeis pratponunt . Hinc igitur alTiduum atrox<^
certamen illud exoritur rpiritusaduerfus carnem ut noftti dicunt t cum
mens totum hominem ad diuina trahae conetur t BC fenfus in potefiatem
tedige« re / 8 C fibi obtemperantes reddere cupiat . Contra uao fenfus
feculcnto elementa rum potu ebrii / 8 C lahea obliuione grauati nihil
nili caducum & tenenum cupi» unr . Anchifes igitur id efi tenenus
pata i 8 i ea qux a chrilHanis uabo parum tri» tofcnfualitas appellatur 2
Troiam fedeferturum negat .Mauult enim perire fen» fus / quam uoluptate
priuari . Mox tamen cum filium omnemq; domum t id eft totum hominem
periturum audiat 2 cump cxleftibus monihis meliora monea» tur 2 mutat
fententiam/ab Aeneai^ fublatus exportatur : molliltitna enim bxc at« ^
eneruata animi pars ad fummum bonum nunquam fat t fed i pfa potius
inficr» tur . Hxc de ancbife j Aeneas autem cum iam incendii 2 armorumcp
pericula eua» ftlVct ; atep incolumis urbem e(Tct egrelTus : ingentem
comitum afduxilfc nouo# rum inuenitadmiransnumaumtqui quidem undi^
conuenerant animis opi» buf^ parati in quafcunt^ uriit pelago deducere
tereas.t & rede quidem. Nani ca tandcmcferuitioincendioi^ uoluptatum
fumus liberatit e(f<^ iam animus redi uaiqtinueniendiauidus/tum plunmx
animorum uires 2 quxhadenus ignauia torprbant :ucbementa excitantur 2 8 C
bene in(fitutammentcra quocunt^ uocae uerit / fequuntur. Q_uo quidem
tempore ne a redo itinere omnino aberraret xneas / Iam iugis fummx
Turgebat luciret idx t Ducebattp diem . Eff enim ludBtr uenerisfydust
quodurfolem lunamip omittam 2 omnium quinque fteliarum quas nolfri
aratiles grxei planctas uocitantt lucidiflimumlitizodiacum autem odo ac
quadraginta diebus fupra trecentos perficit / nunquam a fole longius fex
& quadraginta unius (igni partibus difcedens . Verum/quoniam modo
pcxcedit/ modo TubTequitur 2 folem non eandem (lellam fed duas eife
prifei crcdidcrunttpti mum autem Pytbagoram extitiffe ferunt :qui in eo
apud grxeos unum depreben derit .Cum igitur folem prxuenit lucifer
dicitur : uefperus autem cum fubfequi» tur . Rede autem lucifer prxuius
foli eff . Stella enim uennis/is enim amor efi ue ri inueniendi / ei
exoritur 2 qui iam uiram uoluptari obnoxiam deferir 2 dudt^ di em 2 nam
rationem excitat talis amor / cuius luce illuSrati uetum noffe ualeamus.
Apparet autem a idamonu id eft a pulchritudine.Idos eoimapudgntos formam
figaificat. Amor autem apud Platonem pulchittudioisdefideri um diffii
S , Q_uapropter in ipfo pudor nos a turpibus auoc^: cupiditas ucro
czcellen quztj boneiia rapit . Fertur igitur Aeneas duce m are exui in
alt um incertus quo fata ferant ubi iiftae detur . Q uz omnia non fine
fumma fapientia a poeta ponuntur: facile enim cognofeit Troiam
relinquendam :&fummi boni princi' panun uoluptati minime e(Te
tradendum. In qua autem re fummum bonum coii
tiatnondumcognofcit.lureigitur exui appellatur. Nam ab eoquod habuit cie
dus eft : ne^ dum id quod ucluti proprium poflideat inuenit . Mari autem fermt
quia animi nofiri quocun^ moucantw nulla alia re niii appetitu mouentur :
qui quam fimilis mari iit paulo poft aperiam ii pauca prius de appetitu
dixeto^ft igi^ tur fenfus & uis quzdam in animis nofiris t quam
cogitandi nominant : cui bono tum malorum*^ iudicium a natura demandatum
efi , Non nunquam autem ita iudicat buiufcemodi uis : ut nihil prarter
fenfus refpiciens : 8L ueluti illorum illc« cebris attrada &
uoiuptatis oblato ptzmio corrupta quod pecudis bonum eft i{v fa hominis
bonum decernat . Si autem eadem cogitandi uis falutari rationis lumi ne
illuftretur : & eius norma dirigatur : non id bonum eife iudicat / quo
fenfus de mulcentur ; fed quod reda didat ratio : quod uemm (implexi^
bonum cui iit ne« ^interire ne^ corrumpi pofiit. Cum igitur huiufcemodi
uis bcx bonum illud ucro malum elfedeacuerit excitatur in nobis alia
quzdam uis quz ad bonum afei Icendum / malum^ declinandum infurgat .
Huncautem appetitum omnes ap« pellant . Sed &, eum duplicem efle
oportetialtrtum qui ab eo iudicio quod folus fenlus fcdt femper pendeat :
nibil^ cum ratione expetat : alterum qui nihil omni no fcqiutur t niii
quod ratio prius pra^epent : primum illum libidinem : hunc fe eundum
uoluptatem nuncupamus . uaptopter erit appetitus quo animi honii
num ad bonum afdicendum/maium^ declinandum moucantur / redus quU
demiiaratione/contraii a fenfu.Quaptopter pulcherrimo enygmate diuinus
Elato cum animum noibum ueluti cunum pofuilTet : aurigam ilii duofep
equos adiungit . Nam ueluti equis currus trahitur : iic animus ab
appetitu duatur . Fe.< mnt autem equi non fuo arbitrio : fed imperio
aurigz a quo reguntur eodem pa» do appetitus nihil ex fe agendum decernit
. Sed quod iam ab aii a ui deaetu m eli fequitur . Q^uarc autem equorum
alterum album pulchettimum^ i at^ hono« tis cupidum : Bi qui non minis
ui<^ / fed cohortatione ratione^ regatur. Alterum nigrum inglorium
& contumacem hnzerit ex iis quz paulo ante a me de duplici appetitu
dicebantur perfpicuum eft. ExprefVit enim per bonum rationalem : per B^um
ucro irrationalem appetitum quo animus fertur : at<^ hzc de appetitu :
quem quidem mari limillimumelTe quis negaueritr Videmus enim mareftnuL»
lis uentis uetbcretur fedatum tranquiliumtp perdurare. Sin autem
diuerfistun datur uentis: in geauiflimas turbulentiflimaftp tcmpeftates
infurgir : Sed hzc eadem in appetitu dcprzhendastFac illum uacarc a
pcttutbationibust nihil ni fi rede appetet : Fac rurfus iliis uehementer
uezari : quos iam ftudus quasuc procellas intuebere: Quapropter
illud elegannflime u^tio^ irarum 6)s d^t (ftu. Illud autem tibi fortalTc
occurren/ quod non bene iis quz diximus cohzrere uideatur : Nam fi
radonali appethufertur zneas : fi iam uitam uoluptu g ii*
In.P. Virg. VIRGILIO M. AIIego. ofatn damnault t unde nunc
illud quod patnx liHota lachrimajupotfutnij^KliQ* quit . Q_uod enim
odifle iatn coeperimus: id non lachrimantes : fed Izti fugcR fo letnus t
Sed uoluic Virgilius primum a uolupcatc ad uirtutem difcelTum demoo' I
firare . In quo cum temperati non dum fed continentes fimus : agimus illud
qui> I dem t fed cum diu uoluptati aifueti illius illecebris
demulceamur t non nili zgte , ab ea diuellimur : imitemur^ fenes tioianos
: qui cum Helena ut grxconun tro> ianorumtp certamen fpedarct mcenia
confcendilTet admirabatur cum (hiporemu lieris pulchritudinem t ea^
uehementer deledabantur : uetum tantorum maltv rum illam caufam eflie
animiduertentcs : abeat dicebant potius Helena: quamp pter illam pereat
Troia . Quod ut plaiuus intelligas . Q_ucmadmodnm tordnk do uirtus eft /
qua dura omnis ar^ afpera inuido animo ferimus : lic tempcran» tia
aduerfus uoluptates armamur : in qua quoniam iam habitum contraximus li
ne ulla difficultate aut moleffia negocium conficimus. Quod li habitus
nem dum contratSus Iit : Si tamen illud idem efficere tentamus t tandem^
effiamusfi nitimum quoddam 6C uiriuti proximum nancifeimur / ut nondum
temperantes effedi tamen abftineamus quamuis xgre & non line luda: Quz
contmenna di citur in qua li diu exerceamur : paulatim temperantiam
acquirimus : htij uirtus id quod hadenus uirtus non erat : fed ingrelfus
ad uirtutem . Hoc igitut intcrcft intcttempcrantiamfiicontincntiam. Namquamuisutrai^
idem przdet:conti« nens tamen eo detenor eft/quia cum dolore ablhnetmec
ctt fatis Armus aduerfus uoluptates Tempuans uero bene uolens Iztufk^
abffinet.quod li itidem de ineo Anente intemperantem inuelliges: facile
ell uidere quanto a temperantia condoe da fuperatur i tanto incontinmte
ipfum intemperantem pemitioliorem elfe : I na continens enim quia non dum
in uitii habitu ell rationem difeemit : prindpiui| Knct:pugnatm aduerfus
malum: fed tadem magnitudine cupiditatis & fui animi imbecillitate
uidusucluticmtiuus in feruitutem rapitur . Vetum uc qua; uctbts adumbro
ea exemplo exprediora reddantur t dicimus continenum a pruicipiofii ilTc
Didonem: quz quamuis Acnez amore teneretur : tamen adeo lunliter repua
gnat/utmori malit :q pudorem uiolare. Incontinens autem paulo polf
redditui cum fororis oratione uida pudorem foluit . Prius enim fortiufcula
adhuc ita pua gnabat : ut uidrix cuaderet. Deinde eneruats omnino
pugnando fuccumbit.pua gnatenim incontinens/fedfupaatur. Intemperans
autem in habitu uitiiconfti< tutus omnem rationem amiDti ne^ pugnat
aduerfuscupiditates: quin illis uo» lens gaudmfqi obtemperat : quippe in
quo adeo deprauamm Iit iudidumtut qdf tnalum fit bonum rlTe dicat. Sed ut
iam ad inffitutum redeamus : non dum tem' perantia munitus erat zneas :
nuper enim ea ratio in homine uluxcrat: ut uolupts tum fordes intueri
poffet : nei^ rurfus tempeians : aut incontinensinon enim io de fe
expedilTet. Sed cum hincilleccbrx uoluptatum traherent : illinc honefti
uui pulchritudo ad omnia excclfa cum erigeret/demuiccbatur quidem a
uoluptate cam feolibusfuauilTtmam iudicabat : non potccatip non zgte ab
ea diuelli.51i da enim adulatrix voluptas efi.uehementcr fenlibus
applaudit: ut etiam gcQ’tolioiit animi qui funt illa capiantur .lu cnim
fuauiter nos irrepit aut totos pau lanm occupcttSmgjt igitm comn ucac ft
guis lachiimaiu taincta littcin
tioiaiu ti s h P U Ii 9 si Q lu ia K a» 10 k liu tic adi li] tu »1I» bi » m inii tta ip DOi tUU) aoi pqai V» 'Z tiO* iJuti idtai am i&:l» oap jiua riKil apoi at(p tdib ;iup» ib<# ico^ Jki» «0 lolf J0t ^0 'Df> 0f Libettmiiu Klinquittquonii
c6tines. Quod H unam tcpnitii adcptua fuifTn no lacbrimSs fcd lema
reliquidet : po<ta enim non ipfum a principio fapientem fingit:£C una
uircure ornatum t (icd cum qui a perturbationibus animum uendica» K
cupiens fe paulatim a uitiis redimat t k poft uarios errores in italiam id
eft aducram fapicatiam pnumiat» Nam quznos de continentia dc^
incontinen eia diximusan quibus fenfus pugnat U ratioiuidiTim^
uincuntacuincunmr. eadem de reliquis uitiis ac uirtunbusintelligas mtn
quas mediae funtaffcdio nes nullo adhuc habitu latis Hrmxifcdquz modo ad
has modo ad illaimpel lantiquisfortadeinuiu ciuiiiin qua quz ad bonum tendunt
incohau potius quam pctfcda lepenas/non nulli uittutes nominarent . Sed
profici fcatur iam no &rAcncastuerum quo tandem exui pn altum
feretur: Nempe in thraciamre^ gionem patrue fininmam/fiC terram Matd
confcaatamnnquanupn Polynco ftoc holpitem fuum Polydorum ut auro
potiretur interemerati Erit autem aua titia; fjtnbolum thtada.Nam ipfe
paulo poft : Fuge littus auarum . Vnum cum duplex auaritix genus fit. Eft
enim auarus 8C iis qui inde rapit unde minime con ucnitideis qui cui
dandum eft ei minime dat.primum illud genus perthraciam cxpdmimroi enim
in illa Mars colitur.-quisncldt habendi cupi ditate plurima a mortalibus
bella geri. Sed ne^ Polyneftor borpitisintcrfedots6( Tuorum bo» Domm
raptor quicquam expreftius quam auaritiam rapinaft^ denoubit < Cur igi
tur prima inthraciam AeneznauigatioeftrQ^uiacuma uolupute difceftimus
at<j non dum uerae uirtutis habitum contraximus facile ex ilia in aliam
cupidita« tcminadimusiinfurgitip habendi libidoibeatilTimam enim uitam
multi feade< ptos putantifi opibus maximifip diuitiis reliquos
mortales fupecet:Q_ua cupidi tace inflammati non dubitant non modo
nefaria: uerum etiam laboribus pericu lil^ refcitiftima bella fuTciper e.
Ingens profedo ftultitia:6i ab coanimo profeda: qui & fi uoluptates
contempferitcnihil adhuc altum furapete poiTit.Habet enim auaritia
pccuniz ftudiumiquam nemo unquam fapiens optauit. Nihil enim illa
mobiliusinihil quod magis fottunz temeritati fubiiciatar.Q_uapropter rede
Sa luftius auahtiam ita malis uenenis imbutam dixittut animum cotpufij
uirilc cf< foemineuquando quidem Si ad omnem humilitatem infimaTqi
fordes dcTcende tccogic:&inomnemcrudelitatemproreuili(Iimainfurgete.lpra
enim perfidia am pctiuriumip edocet:cot fraudibus: linguam
mendaciis:manum uenenis/fer.» to^ in aliorum pemitiem inftruit. Apud eam
quid fandum efle poteft: cum ho.*tes quoip qu^Polydori exemplo docet poeta
minime incolumes fint. Nemi nem tamen mirari oportet fi Ancas fapientiz
quidem cupidus minime tamen ad buc fapiens in huiurcemodiuitiumprolapTus
fit. plurima enim inuiu humana Uidemusiquzquauis caduca momcntaneaip
finntamen morulcs pro maximis admirantur: quz quidem omnia cum ucnalia
efteuideantipecuniz prz czte^ ris ftudent.Q_uotus enim quifi^ repetitur:
qui non putet quod genus ficfoc mm regina pecunia donat t quis non totus
commouetur : cum auditi Si b^ ne numatum decorat fuadela Venuf^ . Verum
qui duce Venere fertur Si tna gnarum rerum amore incenius cfi/pauladm
errorem recognoliit. uitiumip abominans Xfaradz auariflimutn lictas fugit
, At^ cum iam fecundo deceptus i In.P.Virg^.AlIego. falli
deinceps turpi/Timum mirerrimumep iudicet Apollinem: cuius oracula ue
riiTima e(Te audient confulendum iudicac: Retur enim (i ex illius dei
ptxut pris uitam inftituat futurum. ut mifet ciTe non pofTit. Q^uaproptei
nauiga> donem in delum fumit: per Apollinem autem qui fol cft: quid
aliud quam lapientiam intelligemusf^Nam ut id omittam quod ut fole eunda
qux in lien fum cadunt illuftrantur:(ic lapientia illuftiatus animus
eunda profpicete ua. leat uideamus reliquam eius plancta: naturam. Sed
illud in primis. Nam cum Heraclitus fontem caelefiis luds appellat.
Cicero [CICERONE] ueto ducem carterorum lu« minum ea ratione dixit:
quoniam fui luminis maiellate praecedit: dixh itidem ptindpem dixit
moderatorem: Nam SC ita eminet/ ut ptopterea quod buiut> modi folus
appareat fol uodtetur : curfus reliquorum recurfuf^ipre mode ramr.
Nam certa fptii diffinitio eS ad quod cum quaim erratica ftdia recc' deos
a fole peruenerit tanquam ultedus accedere prohioeatur agitur retro.
Rurfus autem cum certam partem recedendo attigerit : ad diredi curfuscon
fueta reuocatur.Q^uapropter non iniuria & mens mundi cor czliapri«
fcisdidus ell:Q_uz omnianon ne fapientiz quadrant Non ne fapien^ tia
reliquas animi uires przcedit : non ne illis moderatur C Q_uin etiam li
uim huius fyderis diligentius aduertas iurc datur fapientiz dicetur: Nam
ut a Saturno ratiodnandi a loue agendi uim : ut a Marte animorum uehe«
mentiam at^ calorem aedpimus; uta Venere deliderii motum fumimus: &
quod loquimur atqi intcrptztamur a Mercurio cft: ut deni^ a luna quod grz
ci phyticon idcll gignendi augendic^ uim habemus; (ic ipfe fol quod
friamus: quod^ opinemur nobis prxllat : Sed hzc de Apolline. Deli autem
nomen S ipfumnon nihil ad rem affert, grzce enim manifeflum flgnificat.
Loca enim quibus fapientia przfidet : clara femper manifefta^ fuat.Q_uod
autem tot»> us infulz Anius imperet: qui & rex hominuni.&
deorum facerdos iittnonca ret ratione : Sapientia enim humanarum rerum
cognitionem continet. Qua ptopternihilnouum fapienti accidere poteft:
quippe qui omnia iam percepo> rit : quam quidem rem nomen regis
oftendit. Anius enim didtut quali id elf (inc nouo . Hic igitur
hofpitio Aeneam fufdpit: SC pio* fedoipfa fapientia animi nolfti aluntur
. Veneratur autem templa : at^ ea retn pia quz faxo uetullo conftuida
fint.Nam quid obfecro te: aut flabilius im* mobiliufi^ : aut antiquius
ipfa fapientia deprehenditur : quam fapientiflimus ille omnium bebrzorum
S^omon ab initio Si ante fzcula creatam fxcula aea ta effe uerilfime
didt.Sed tu quid me o LAVRENTI fubridens fpedas.Non polfum inquit
LAVRENTI VS dodillimorum uirotum ingenia non admirati lztuf(|:quz a
principio de hifioiia decp allegoria dixilli mecu repeto :Q_^uis enim non
obfiupefcat huius poetz confilium .Q_uicum apud Cioatiumueri
umlegilTetinDelo aram elfc Apollinis genitoris: in qua nullum animal
facrifi atur: quam Pythagoram ueluti inuiolatam adorauiffe fetunt :
legiffct eti^ am Sc apud Epaphum : Delon ne<^ antea nem pofiea tettz
motu uexatam: femper eodem manere luo legiifet: & apud Thucydidem non
mirum elfc fi przlidio tebgionis tuta infula femper fit : cum teucreruia
locotumfibi acccficrit Liber tertius
coBtltiuafaxIeiurdetn firmitate: Cum igitur bacc legilTet itafcnblt/ ut
eodem tempore ex antiquitate hifioriam eruatiponit enim Aeneam Tolis
przcibui deum uenerari:K templa antiquo Taxo confirudaefTe/ficbxc cum
ponit fimul ea affert quz per allegoriam Tapientiz conueniant . Dices
quid in cacteris : hoc idem. Sed nefdoquo pado hic me locus in quo
hifioria non minus qua allegoria latet:mul to magis mouinSed perge
obTcaomolo enim mea interpellatione mihi ipfi audi endi cupidiffimo
moleftiam ex mora afferre. Datur igitur ab Apolline oraculu inquit
BAPTISTA zDardanidx duri quz uos a fiirpe parentumzPrima tulit tel^ Ius
eadem uos ubere Izto Accipiet reduces:antiquam exquirite matremzHic do#
mus znez eundis dominabitur oris:Et nati natorum 8C qui nafeentur ab
illis. Q_uo quidem oraculo quid diuinius excogitari poffit non reperio:Q^uid
enim faomini(alutarius:quidconducibiliusefi:qu3 originem Tuam noffexin
quam cu redire potuerit /tum demum fit futurus beatiffimus: Dixit igitur
pluribus/ne a poeta difcederet Maroxquod grzci duobus tm uerbis
expediutxqui omnium ora# culorum quz Apollini tribuuntur maximum
effeuolunt i«r</7>> V nofceteipfumxVerumut haxea nobis
planius explicenturxOmnesquicuh^un# quam de fummo bono feripTerunt
philofophi in eo fi non uerbis re Taltem con# IraTeruntxutbenebeate^
uiuere fit apte conuenienterq; naturz uiuere t Verum ubicoiamdeuenturn
efl/ut fit hominis natura diffinienda : tunc innumerabi# les
pemitiofilTimi^ errores emanant: cum animorum nofirorum ui ignorata
plufquampar efi corpori attribuatur. Nam cum ex animo corpore^ conflare
bomo dicatur . & alterum brutum/caducumt^ at(^ facile in interitum
pronuma Alter mcorrufmbiiis immortalis diuinuft^ fitxpaud omnino ita
mentem a fcnfi# busfeuocat: ut feanimi nobilitate imniortales cogoofcant:
corpufcp in nulla pene parte habendum cenTeant.praedpitur ergo Troianis
ut eo reuertantur de originem ducunt . Duplex autem illis origo efi.Nam
Teucer Scamandri cu# iufdam filius profedus ex creta infula in Phrygiam
uenit;62 una cum Dardano Kgnau:t ; Dardanus autem prius SCipfe in Phrygiam
ueneratatnon ex creta: ut ille fed ex italia: nec mortali patre natusxfed
ex deo loue. Veniunt igitur am# bo in Phrygiam id efl in uitam: &
pnmam ztatem quam perTroiam fignificari di ximusxfed hic a czlo ille a
mortali. Ad huius enim animantis /quem hominem dicimus compofitionem
animus a cziefii corpus a mortali patre prouenit.Q_^ua# propter cum
primam nofiram onginem inquirere nos Apollo iubeticuius ora# culum efl
Nqfce te ip Tum : non quid corpus fitxquid ue illi conducat inuefiiga# re
iubct.Sed quid animus fit 8C quo pado fecundum animi natutam uiuere fodi
ces effepoflimus inquirendum mandatxQ^uam quidem rem ut ezpreflius
fignifi caietannquam didtxEfi enim animus fi non tempore/ut Platonid
uolunt digni tate Tua at(^ excellentia prior: Optimum igitur oraculum:
Sed quid prodeft fi illud male interpretatur Anchifes . Hic mortalis
Aenez parens omnia ad lenfns referens ibi (edes collocandas cenfet ubi
prima corporis origo fit. quafl prima naturz non animi fed corporis
fpedanda fint t Quaraobrem non ia Italiam fed in Cretam enauigandum
proponit: qua in infula multa mala Tubi# bui fint Ttoiani* Nam cum (ummum
bonum non iis quae animum: fed quaa In.P,Vtrg.M.AlIego.
corpus fpcdcnt natura noftra ignorata reponimus necefle eft/guoniaft illa
pati> io po(Hnpe(lem/ac demum in interitum cafuraiint/ut non
bearirredmiferi fiu turi (imus:TuIerunt ergo prxrium ob ftuitiriam
Troiani:gui in italiam nauiga» te iulTi actam ptticrint:Si enim in italiam.i.in
originem animi redeant Troiam percipiunt cognitionem rerum diuinarum in
qua fola flabiles & manfuras feda inueniuBt ; Hic enim domus Aenea;
eundis dominabitur oris:Et nati rutorum & qui nafeantur ab illis . In
aeta enim nullum e(l Aenex imperium. Na corpus ne^ fe nerp aliud
mouet:fed iners brutum^: 8C line fenfu iacetrnec quicquara Ii ne animi
auxilio ualet.ln italia uero imperium latepatet.Corports enim domina tor
& redor eft animusrin nullam^ nin uolens fauitutem cadit . Cunda
autem fue cognitioni rabiiciuSe enim pafe uideticum autem deum cognofccie
tem/ ptat fuz menris acie ad fuperiora erigimr. Colidaado oia
fpedat:Rimatut occulta. Videt abfeiitia:breuicp temporis momento
uniuerTas mundi oras anv bit:Defcendit ad interiora: Afcendit cxlum .
Adxret deo: in quo efl patria fua:Et ? uoniam imorulis eft hxc
femper facit : Quapropta eius imperiu eft aeterna :
ixcaprincipioquauisdiuiniscflentmomtiprxcepris cognoicere no potuerat
Troiani: Nunc uao calamitates eipaticognofamt.Epimetheo quidem ferius:
Sed uidete quxfo quam admirabili ingenio reliqua profequaturtCum pefie
labo rarent Troiani danmatfuam oraculi interpretationem Anchifes.Nam
poftqui diutius debaccliatus eft homo dum fenfibus obtemperans omnem fpem
in rebus caducis reponit/tandem ufu Si experientia dodior redditus
animadueftit no fua« fifle acta Apollincm.i.nunqua pofleefte homines
beatos ex iis qux mortalia fntt Cenfaigimr alibi
quxrendamfoelicitatenuVenmi non dum tanta metiris arie
ualenutquainrcconliftatdifcernercpoiritrNa humiproftratusanimus/St fieri
gi nitatur tamen corpote'obrutus qu x in/cxcclfo collocata funt non nili poft
mui tum tempus difeemit: At dii penates eadem dicent qux didurus efliet
ApolIotPu tabantenim antiqui deos penates elfe ex animisiuotummatoTumtqui
clari ilhi^ ftref(^ multis egregtiftp uirtutibus fuilTent quali deos
domcfticos: Ergo Si hos animoru noftro^ excellentiores uires
intapretabimur:quales funt ratio intelle# dus atqr iDtelligcntia:Q_ux
hadenus furentibus fenlibust Si omnia tumultu co plentibus nihil
fanuiudicare poterat: Nunc autcpoftquamfuograui damnoeu pertus eft homo
fenfuu iudicium falfum elfe illos a tribunali quod tumultuo&oc
cupaucrant deiicit:& luris dicundi potcftatem iisjuiribus quas paulo ante
nomii> nauipermittinillx autem cum iam fcnlibus parentioribus ut atuc:quippequipu
dorc confufi nihil amplius audeant/K cum eorum iudicium diuturnus iam
ufus at^ experientia confutauerinparaciam non amplius prxeipne
deaeucrintrfc a tumulmcolligunt:at (pfeipfascxdtant:fumma (^
contentioeruftitix nebulis fua luce fugatis mentem^ ab^iniquiffimo
fenfuum iudido prouocauit ita a aetenfi domicilio abfoluunt : ut tamen
italicam profedionem fuo dcacto 'edicant, /ii* dunt^ proptnea fux
fententix ftandum:quoniam eadem iubeant quxipfe Apol lo a quo mittuntur
didurus fit: Etprofcdomcns noftra multatum rerum ufu iam dodior reddita
multa, 'ex fe cognofdt:qux fapientia ptxdpere confueuitt Nec ucto
quempiam moueatli deorum pcnatii oratione pctfuadcatut
Andrifas I t ( I I P n u d fi D B
B< P> h Jrj-B S ® Liber
tergus Nitn ubi ndo pneualerc iitn crprrit : appetitus Hli
rubiicitunMuItS iatn profeoe nintdiipcnatessquiquz obfcunus Apollo
fignificauerat prrfpicue enodaruntt docent«piniuIuadrcrum diuinarum
cognitionem enauigandum rfle: Beatus profedo Aeneas (i decretis ftarett
(i quod bonum efTe cognouit:id ita mordicus arriperet ut nulla re inde
po(Tet auclli:Non enim totiens a redo curfu deiicere^ s Veru non is adhuc
uir eft qui conftanti habitu in hisobdurauerit:& per (uma t&
perantiam a rerum moruliu cupiditatibus (it penitus purgatustfed inter contine
tia; at(^ incontinentiz uarios frudus uacillans fzpe cum ad aliquod Tparium
fuo uento procelTerit: nauisfubito a redo curfu deiicitur . Non enim is
gubernator clauum tenet qui fummo nauigandi artiBdo arperrimam etiam
tempeftatetn fupcrarcualeattfed Palinurus t qui poftquam ceruleus fupra
caputaftiiit imber nodem hyememt^fercns.poftquam inhorruit unda tenebris
: poftquam conti» nuouenti uoluiit maretmagna^ rurguntzquora:& quz
fequuntur.ipfe diem nodemt^ negat difcernereczios nec raeminifTeuiz: Diximus
a ptindpio foloap petitu moueri aniraumtdiximus itidem duplicem e(Te
appetitum alterum qui a fblis feniibusexdtetutitationi^
aduerfeturidicatnttp libidotalterum qui ratione pareat:uoluntaf(^iure
nuncupetur. Qui quidem (inauiprzfuifTetiporerat ea am aduafantibus uentis
iter redum tenere, oed przFuit Palinurustis enim eft qui folisfeniibasob temperatiuirefij
aduerfus uentosinterprxtari poteft enimgrzce retro uentis didtur quali qui
in contrarium refetat. Hic igitur infurgcntibus
pertutbationibus/uehementioriburi^ cupiditatibus
uelutitcncbiisanimuminuoluetibuscum ipfenulla rationis luce illuRracus
(it dicsano dibusideftucrumafairodifcerncrenrgat.Magna profedo
hominum ioldtiatmazima^ fenruum perturbatio qui ita rationi aduerfanturi
ut quauisil la fzpe infarg.it t ut animum ab illorum nefaria tyrannide
feruituteq; eripiattipfa uclutiiulbirima regina ueramuelit inducere
libertatemitamen cum nondum uiresfuasrecupetaueritmDpercp a diuturno
exilio reuerfa a paucis fuorum ciuin cognofeatur fzpe antea qua dus regni
quod (ibi iure dcbctur/polfeinonem recu» peret ab lilis repellitunquippe
qui multos iam annos tyrannidum tenentes omni largitionum genere
appetitum corruperint : illum cp adeo demulfcrinttur malit io feruitute
uolaptuofc degere qua honorifice in libertate laborare. uamob» temcum
acbrainterillos przliac6mittantur:difcedic fzpeuida ratio, lllicnim
parere rccuCiDS Palinurus nihil (anum fentit : Eiufcp ilultitiaatcptrmeiitate
cd» mittirurtuc dedituto curfu t quem penates dii prasceperantin
(Itophadas infu» lasdeclinetur. Hunc autem locum nos ni fallor
auaritizuitium redeinterprzta bimur/non illud tamen quo inde rapimus
tunde minime conuenitiid enim nobis Thrada ddignauit. Verum aliud quod
tunc patratur: cum ex iis qux iam peperimus minime illis (ubuenimus :
quibus tus naturacp ac humanz fo detatis uinculum fubueniendum poftulat .
Oodus enim'iam Fragilitate rerum buroanarum Aeneas ad diuina ratione id
efflagitante / ferebatur. Sed appeti* tus aduerfus illam adhuc contumax
ftaredeaetis non potuit. Verum ad ea quae uulgus admiratur rurfus
conuerfus diuitias cupit. At quoniam multum de pti*
fiuufcritateitniautufuctaUndui nc^rapiaisilJafibicompatatecoBteodit: fcd
In.P.Vitg.M.AIIego. per (oBUS fordes plus qustn psr eft
parto pacens nullo libmlitatis munere fiigiei DC(p (ibi nc(^ Tuis
beneficus eft.Q_ux quidem cum facit fe parcum non auarutn
prsdicatiprzfert enim fpeciem boni uiri cum peflfimus Ar. Q_uaproptcrnon
io« iuna harpyz ipfz uirginea facie Angunturdimulanc enim
pudorcmimodtfHaou robrietatem^iomneri^ uirtutesprzfe ferunt. At earu
ucntris ptoluuies fcedifli< tna eft.Q_uisenim
po(TetauaritizfordesexpIicare:quis qui turpis hominis di uitis eiufdemtp
tenacis uita fdt latis referrer Cum furor bau d dubius s cum ftene As
manifefta At egenus uiuereiut diues moriaris. Quid miru igitur A earum fu
des palidafcmperc fame & macilenta AtiNarahuiulizmodi homines iure tanta
• locomparamussqui inter aquas.interi^ uaria poma confbtutus Ati tamen
at^ fameconAdturiNam utcumulusdiuitiarumacrcatiprcinterim ruum/utillete«
. centianus Gcta defraudans genium partis abfbnct ac timet uti:Q_uod
autem ua ds Angantur manibus ratione non aretiNihil enim remittunt quod
femel ctpe> nntauariiQ_uinfunt adeoperainoA auarinxundiut hominem ad
dtuma qua dam natum ab alnlTimis curis ad hzcinfenoratrahantifiC uelutide
czioin terras K e lucidis fjderibus in profudilTima tartara trudant.
Auertit enim nos at^ feuo« cat habendi cupiditas a cognitione carum reru
quibus folis Axiiz animus ciTe po( At. Sapienter igitur adiugit.TrilHus
baudillis mdiltunec fzuior ulla peAisidtjia deum ftygiis fefe extulit
undis: Non autc Aulta rado poetas impulittut ex Thau« inante patre: matre
Helcdraoceani Alia natas harpyas fabulentur.Thauroan« tem tede
admiratione dicemus grzci enim admiran dicunt. Cu cnimobfummafiultitiam
diuicias maxima bona putemus cum aut bona non Antaut minima
bonaiproptcreaq^ illas adrairamut:cuenit:utcx ca admiratione cupiditas
habendi nosinflamct.Ncmo enim cupit caquz negligit:at(j contenv
nit.Suntautem ex eamatrequzAt Oceani Aiia:Nam liquis maieriam diuinarn
diligentius conAderct:omnia mari Amillima in ea uidebit.Vt enim mare in
afli' duo motu cAicundac^ incofacilemifcentunat^ pcnurbanturaAc diuitiis
ai<jf opibus nihil Auxibilius inuenias:multiq) tumultus ac fzuiAima
bella inde ezota tur. Hz igitur c£.'n paflim armenta gtegcfij pafcant :
nihil inde Abi ad ncccAiu tem fumunt. nihil aliis
rumerepermittunqvcrumfiC ab hocquoq^ regenereaua tinz quando^ explicat
uir fummi boni acquiredi cupidus. Relin querat olim uo luptates.indderat
in rapinasiquibusquo^ damnatis otacuium confuliti A quo
accipitnofceteipfum:in quo errat Ancbifcscum ea ad corpus refcrctrquz de
ani tno przcipiebanturicauturqi^ruo damno fadus errorem cognofat:
conAlium inutat:rclida(^ creta tendit in lauum . Verum rurfus
perturbationibus uexatus animus ad diuicias rutfus refluit: non tamen ad
eas quas rapinis ut hadeoust fed quas nimis fordida pat Amonia comparet :
Sed & boc quo<^ uinum effc cognofccns / proptetea^ damnans < ad
Helenum per hoftcsproAafatui. bes igitur quare in harpyarum infulam
delatum mixcrit Aeneam y?^uod ue^ IO ab ipAs uefd prohiberetur iam
parariscpulis inde efliqnia eam uim habet auarina/ ut qui etiam dinflimi
Antfame penrequamuci minimam acerui par« Aculam imminuae malint JAcmis
tamen eas pepulerunt Troiani: Nam di aua AAacxifflbcdllitateat^ builitate
animi tuliaf':qiiz ci cAiut&fctia & tnulict«' i-% « % % t ik tltl
I- 11 1 1 1 1 1 ^ I J J- 1 1* I i I- 1- i •j mii
oa* iff Liber toriiu <aIcgux'tninori animo
runtauarioresTemp^e pncbeact/tunc Fadle pellitur fi foitemgcnercfum^
fumamus animum ^6Ilcedit e fitopbadibus a;neas t fed non prius quam cnfle
a ccleno oraculum aedpiat < mendax omnino uates Bc in E s
fubdola } & quz uctborum firepitu honorem inde incutere uelit unde ni
timendum : bed profedo hoc morbo laborant auari i Nam fi quando ho« ncOa
quzdam SC una ratio lilos ad diuina exploranda erigat < propterea^
huma na bzcfiC mortalia negligendafuadeatrihtiminfuigit ex auaritia metus
(i rem noftram familiarem negiigentius curemus fore ut (i fame pereundum
x Sed ne« fiauot fiuItilTimt homines quam paucis natura contenta (it i
quam facile t quam minimo fumptu eius diuitiz comparentur: Efi autem
fames iis timenda qui in anesqui infinitas cupiditates & quz ne^
neceifariz ne<^ naturales lint fibi exple das propofuaint : quorum
uotago um lata tam profunda efi : ut nulla auri ui t nullo gemmatum
iapillorumtp cumulo repleri queat . Q_ ui autem ita uitam ia* fiituerunt
> ut fola fe uirtute bntos putent : animum^ non corpus ditandum ^
ponant : his omnia femper abunde adaunt t Q_uam quidem rcm:quo tibi pia*
nius exprimam :at^ adeo potius oculis fubiiaam.ptopone tibi duos
diuetlifii^ mz quidem fottunz/fedeiufdem pene ztatis utros
Alexadrummacedonumte gem/& Cynicum Liogenem utrum ditiorem
iuch'cabis:uide quid dicas. Maximi Alexandro thcCiuri erant plurimi
tobuRiflimi^ exerdtus (ibi militabant : Imperium latilTimum poflidebat. Innumerz
pene nationes acpopuli ex Europa A(ia* ^uedigales huic erant.Diogene
autem quid potcftangu(liusexcogitari:qui prz tet rimofum illud uas e
figulo acceptum : quo l'e recipetet ut e frigore calorctp tuf
tuselletnetuguriolum quidem haberet : quem eodem panno in utroi^
folftirio obfitum confpiccrcs : cuius auda olera etiam nullo file
al*perfa beati (limorum re gum dapes fuperarent. Vttum igitur horum
ditiorem Laurenti iudicabisr Ego q dem inquit LA VRENTl VS h a deptauatilTima
confuetudine : quz altera pene in nobis natura cfl dirce{l'eto/& rem
totam fenfiiu iudicio exclufo rationi cogno» lixndam tradam beablfimum
Diogenem:miferrimum Alexandrum proferre no dubitabo . Vehementer enim iis
aifentior : qui in diuitiis penfiiandis non quam tum tuii^ adiit : fed
quam abunde id quod adeft fibi futurum (it animaduerien» dum cenfent.Si
emm is diues eft cuius cupiditanbus adeo fatis fupercp fadum (it ut nihil
pczterea defidcret quis Diogene ditior :qui cum (lue pafiurem (iue arato
rem quendam cauis manibus aquam e fonte ad potum haurientem uidiifet : po
culum quod ad eundem ufum hdile gerebat ueluti fuperuacaneum abnaedum
putiuu . Q^uis rutfus Alexandro pauperior : qui podquam a Democrito ut
p\i* tophilofophoplureselfe mundos audiuaat : lamentari non crilauit
tanquam nulla ratione diues effici poffet nili illos prius imperio fuo
adiecilfcif Rede o Lau tenti de utro^fentis inquit BAPTISTA. Q^uamobtem
cum idem rex motus animi tranquilliute quam in Cynico cognouerat ita
pronuciaiTcticupcrem Dio* genes e(Te nifi cifem Alexander : magna ex
parte fiultitiam fuam indicauit : cum in fummis opibus zgere : quam in
fumma inopia ditefeae mallet . Q^uamobte difeant homines quam paucis
natura contenta fic s quod cum didicennttoracu# ium a Cclcno zditum
&cile tldcbunt:quamuis ipla ut otadoni liiz fidem faciat r lD.P.
Virg.M.Allcgo. diat fe ca pronunciare guz Phabo pater otnnipoteos
flbi Pbccbus Apollo pn« dixit . Natn rempn auari qui funt : uiriutn quo
laborant fallis uirtutum limula» cbtis tegere conantur.
NatnquzmoEraauaritia eftream patlimoniatn uocants & aut deorum t aut
maximorum uirorum audoritate famem timendam pctfua» dete conantur .
Oolofa profedo cupiditas : & quz cos etiam quos prudendotes putamus
fzpe decipiat . Aduerfus cuius fraudes illud unicum remedium cft nof fe
ea quz hominum ftultilfima cupido ad uitam degendam neceffaria putabnoa
modo nihil peodelTc i fed omnium noftrorum malorum caulam exiiiae.
Deferens igitur Harpyarum infulam Aeneas ad Helenum enauigatrEll au» tem
Helenus 8C uates K conduis«|Q_uapropccr rede ilium dicemus ingeni» tam
nobis rationem & ueri lumen quod natura in nobis refulget,: quod nos
fallis bonis decepti confulhnus ut in redam uiam ab erroribus reducat»
Ipfe autem uates uera przdicere poteft : fed ditfidle eft ad illum
petuenitei cum Iit itet pn medios hoftes tenendum : Nam 8i fenfus omnes
8i apped» tus fenlibus obtempetans uolentibus nobis in uetum iudidum
delcendcrc (em» per aduerfantur:,At(p adeo nobis confultantibus
obfirepunt: ut uix radonem adire & uera bona a fallis fecetnerc
poflimus. Verum cum ad Helenum perucne rimus iuuat cualilfe tot urbes
argolicas medios fu^m ten uilfe pa hgges : Supe» rads emm
perturbationibus iratiquilla'quTdai^ r^nquitut mens: in qua lecxd tans
lux radonis nobis ucrum oftendit : Q^uo dodior fada mens agnofeit itali»
am t quam propinquam elfe putabat uia inuia longe diuidi : multum^ matis
ef fedreueundumi & ad inferosdefeendendum antea quam quietas in
Italia fedu collocet : uz quidem omnia quanta ratione dicantur ; faulius
cS mente coo pledi quam uerbis exprimeret poliquam enim animus non dico
profligatis /fed magna ex parte repreitis uitiis per medios / ut diximus
hoftes in lumen luz luca defeeudit Itum demum aduertitfummum bonum: quod
in propinquo coUo« catum habemus putabat poculabclleioporterei^ nos amplo
dreuituMariamo ftris obfelfa peraauigare : Nam inter ipfam
contemplationem : hanc quam ui uimus uiuminteriacet is quem iam totiens
appetitum nomino uelutiturbulcn» liifimum mare: quod fcyllacharibdifcp
pernitiofiirima monlha infeftum red» dant: Si tamen eft pei hzc loca
enauigandum li in Italiam uenire nolumus : Oi» ximus enim a principio (i
rede memini nulla alia ui nilT appetitu animum motu ti . Sed quoniam de
duobus iis monftris dicitur a poeta : facile eft ex ipfis fabulis quid
fibi uelit coniedari : Nam cum eas foeminas rapaci fhmas fuilfe memorizf
proditum Iit : non ne per eas commode exprimi animi nimias cupiditates
dice» mus : quarum prindpes luxuriem at^ auaritiam eife nemo dubitat .
Scjlla e^o s glauco adamata ucneteasuoluptates exprimet: quz maxime rebus
nofttis fio» rcndbus uigent : Nam quod eius uniunia pubes m canes
latrantes conuerlafu/? uantum ad negodum faciat : fadle eft cognofccre.
Chanbdim ueroipli quof Icrculiboucs quondam fubripereaufam quis non
intelligat limulai tum no» bis auandz refene : 8I qnoniam ab ca non ita
in rebus fxliatei fuccedenubus ut gemur quemadmodum a libidine. Sed tunc
potius cumnimisanguftiisdiuida nun terminis incluli uidemur : ac ob eam
oufam minime nobis noUxa placent
: ii •p. a MI ia Bi
itk iw “!f lab ipoK
imi». okib! abii l{DKd
biW uocA \^2Dli
.qmX (uitbi SUID* jniisi^
uin®^ iCID# aajb crlb<
jola* OUfl^ 1^1^' amba* mfiaeKccT^ eflcopinaiaut t
iccirco dextrum a fcylla : Icuum a cbarybdi latus obfi dcri Mato dixit
(quoniam altera in rebus quas aduetfas putamus t altaa in iis quibus
uebcmenter deleAamur : nimis nos urget. Quz cum Baptifta dixiflct : at^
refumendi fpiritus caufa aliquantulum obdcuiflet. Admiror inquit Laurendus tam
magnx tam^ reconditx dodrinz diuinitatem . Verum quanto me iffa tnagis
deleant / tanto magis cupio : ne minima quidc m in tota re mibi dubita»
donem relinqui . (tai^ utar ea quam mihi conceiTi^ libertate uel licentia
potius : At^ ut iamioulligas quid illud (it (quod nili tibi aliter
uideamr/ planius heri cupio . Odenderas a principio ea ratione politum
ellc a Marone Troiam zneam cekquifle t quoniam lam uir ille corporeas
uoluptates contempriflet t per thraci» amuero at^ dropbadas utrun^ auaridx
genus exprelTum cfTe uoluidi : Cur igi» tur (i buiufccmodi iam uitia
exuerat Aeneas ( rurfusnunc ut illa uitet ab Heleno moneturC Dcle&at
me tua interrogado o Laurend inquit BAPTISTA t Oden» dit cnimmaion quodam
iudicio quam idbxc xtas gerere foleat te ea qux dixi c6 fideralTe: Veium
quo omnia tibi plane pateant: memineris non eum uinim a Virglio [VIRGILIO]
produci AENEAM Aeneam: in quo uirtutum habitus conoboratus fit. fcdqui
pro uirtuteaduetfus uida ita pugnet tut non (inemulta difficultate per
continen dam uincat : nonnunquam etiam uelud incondnensuincatur.Q^ui
ueroin Ita liam id enim ed ad diurnarum retum inueibgarionem uentuius ed/
huic non fa dsed : ut continens fit . Nam quamuis condnentia a
cupiditatibus arceatitamen S uoniam in affiduo certamine
uerfatur:non przdat eam animis nodris tranquil
tatcm/quaadrestamexcclfascognofccndas opus ed . Q_uimobrcm egenus ipfa
temperantia uirrute undi^abfoluta: & in ipfo pene cerdo uirtutum
ordine corroborata /qua qui inlbudi fuirt/nonfolumonuies cupiditates Tupc
Tantiue» lum edam illatum penitus obiiuiftuntut . H oc autem habitu nemo
mortalium fe corroboratum in confidat : nili plurimis afliduif^ adionibus
prius ad eum co fequendum fe exercuerit : Q_^ux res line longioris
temporis interuallo effici nem poted . Huiufcemodi igitur temporis moram VIRGILIUS
poetice quidem fed opd me tamc exprelTic : cum dixit : Prxdat trinaaii
moeras ludrare pachtnni . Ceffan tem longos/ Sedteunfledere curfus. Quod
autem moneat ut eo quem dixi ha» bieurn fe con firmet xneas uerfus unus
indicio elTe pet^d . Adiungit enim quam fcmel informem uadouidilfefub
antro rcy1lam:Q_uamobrem icdiflime uni» uerfum locum concludemus neminem
poffeipram dminitatem attingere : nili perlongum prius intefuallumeuih:
quem dixi habitum ita contraxerit: ut non modo non rapiatur a fcjlla :
fed ne femel quidem ipfam uideat . uod quid ali nd fibi nuit : nili
ita obiiuifeatut cupiditatum omnlumtut nunquam illx in con ipedum
fuxmentisredeantrperpulchrc per^ commode omnia ida inquit LAVRENTIVS. Verum
quid tibi paulo ante explicare libuerit: triplici illo ordine oir tutnm
non plane intclIigo.Res inquit BAPTISTA huiufcemodi ed : qux &: Iz pe
alias maximo tibi ufui & prxfcnti fermoni apprime neceffaria futura
linOiui» nus enim Plato cum uirtutes de uita Sl motibus eafdem quas
exteri pofuilTet:ita sd podremum illas diueilis Gue ordinibus Gue
generibus didinguit :.ut alia qua dam ratione ab iis illas coli odendat :
qui ccetus ac duitates adamant t alia ab iia h ii i
} I *• ![ i tl'<: In.P.Virg. M.AIIcgo. qui
omnan mortalitatem dedifcnc cupimtes/ft humanatum rerum odio taoii •d
fula diurna rognofccnda eriguntur : alia poftrcmo ab iis qui ab omni
iamc6« tagionc expiati in folis diuinis ueriinturtprimas igitur ciuiles
dixir/fecundas pw gatorias/ac tertias animi iam puigati.Eft enim triplex
hominum rcAe & ex ratitv oe uiuenbum ordo.Horum trium inferior eft
eoru qui io fudali acciuili uita dt gentes rerum publicarum
adminiftrationem fufcipiut.His {iximi fed m ercdioti gradu confiituti ii
funtiqui a publicis adionibus ueluti tepcftuoflsiac procellolis Kin qbus
fortuna; temeritas oino dominet'' :fe in portum tranqllitatis trafferuot
& a turba io odum fe tecipietes/ quirta uitam degutinon ita tn ut no aliqd adhne tefictaduerfus
quodIudadumlit.SupremoautIocoeoscerncsqui penitusa re« rum humanatu
concurfitionerac tumultu remoti nihil cuius panitcdum (it/c&
mittut.Eft autem oibus his ordinibus hoc c6munr/ut uirtute dure ciida ad
boni redi^ normam dirigati Verum qa in uita duili cupiditaribusiac
pturbationibus omnia tumultuant hifip non oiu xgre refifti^ rdicunt in ea
hoium genere uiitm tesi DcohataspotiusqabfolutastQ_uaproptetidinillbptadcntiac6tendit/utm
bil agatuticuius non polTit ratio (^tem probabilis reddi i Fortitudo uero
animd fupra omne piculum at<p moetum affett : & nihil nifi turpia
timenda admonet. Tcm{watia autem oftedit fola honefta appeicdainulla in
re moderationis legnn excellcdamioea cupiditates iugo ronisrubiidendasiluftitta;
poftre moptesfuni: utunicuimruumredd»’' iutxquoiureoesuiuant.lnrccudoautilioh>iumgene
tctqui ea it ronea negodo in odum uendicat/ut liberius poflit rerum
diuinaium conicplationi incubcrcifunget munetefuoprudciiafifpretis oibus
mortalibus rebus &cxleflium collatione pro nihilo habitis omni cura
omnim cogitatione ad diuina copuertat" .Temperitia autem cum ea
folum nobis cdce(Utit/bne qui* busferuari uita non polTiticaitera omnia
fcueriffimoiudidocontenendarf^upeii datp pronuciabit.Sed necaberit
fortiiudo qu* afliduo pridpiatiut nullum meo moduminullumlaboreminullu
periculum horrefeamus/quo minus redo 8£w petuo^uti**' - j 1 n- ». • •
tuo^ut ita loquar)curfu ad cxlcftia & ad origine fuam icdat animus.Diccs q
d luIhtia.Hoc jifcdo minus libi imponctiut reliquarum uinutu cofenfum in
hu iulcemodi ppoAtum firdatilfti quo^utrupiarcsaduafuspturbationcspugnit
fcd fadiius fupcratsfei^ paulatim expi .tos reddunt.Q^uapropter uirtutes
ipCrin illis purgatoriz appellantur. Verum audi iam tertium illud eorum
genus/quota animi ab omni uitiorumlabe ^cul ab Ant. Hi igit' in eo
prudentiam exered/non ut deledu quodam habito diuma terrenb prxferantifed
iit illa fola nofcantifuU J ueluti nibil aliud At intueantur.
Adhibent autem temperantura non ut cupi* tatescoberceatifed lilas
penitus ignorent.Eadem ratio erit fortitudinis.llla eni pernitbariones
non uincicifed ignoratiQ^uin opubic dura at^ horreuda Abi of
ferrirnon ut uidoriamaiTequacurired ut in eorum obliuione perpetua
riimiuts ^ 'ifidiligentetinfpides/fadiecognofcesidabhelenoadmo
petduret.Q_uxomniaf ^ neri xneam
non pofle illum fedes in Italia qetas ftabi colloare/niA priiis ad
boc tertium uirtutum genus peruenerit : (^uid ergo hadenus : nonne
Troiam
deftrueiatjacthradamftrophadefipteliquerat.Defenieiatquidemjred nondum
$mca uitia fugiflct/illadcdilutc poterat Jiunc autem non ut
Moliirnt^iP Liber tettiai «Birittaib^ deponatt^od tam
feceratered ita de tnte deleat: ita perpetue obK tuooi roaadntut nunquam
eorum memoria illum rubeat:Cu autem prz omni bus rcbua iterum at(p iterum
1 unonem pbcandam moneatsqua quidem adua •imte Italiam nunqua podturua
(itmdnc nobis documentum eftroaximum nui Ium ex innumeris uahif^ uitus
eflieta quo etiam ii qui ad quzip ezceifa eriguiu lur t scgriiu liberetur
quam ab bonorum imperii^ cupiditate.Fadle eft enim cd temnere uoluptatesa
qui iam maiora mente conccpit.Diuittasuero &li fpecie maximorum
bonorum a principio nobis oftendantipoftrcmo tamen ab excelle tianimo
negiiguotur.Atucrohooorcsmagiftratus& imperia quoniam exedi' lens
quodda & eminens in fe cotinere uidetuunfpecie decori at<p magnifici
ztu* mum etiam excclfum deripiuntiNamcum cupiat ille fefe qua proximii
deo red deretanimaduertac autem nulla alia te nos magis deo fimiles efle
qua dandis bc ncficiisiNt^ hzc przftari ab hominibus pofle nifi in fumma
reru poteftate coo flinitifintiaocenduuruebcmenti quadam cupnditate ut
reliquos antecedat: Eft enim natura nobis iditu/utfcnm (upiores in rebus
oibus euadere cupiamusiCe dcrcauteautfuccumbeieturpimmumputemus.Q_uz quidem
naturalis cupv» ditas nifi reda ronc temperer in ambitione ac pofttcmo in
tyrannide nos rapit: in qua muka aduerius humanitatem audelia tetra
nefariaip comitthnus : cu natura ipla nifi deprauata fuerit ad
magnanimitatem erigat nos ad fupetbiam ft dominatum omnia rapimus.Hinc
fraudes:hinc czdes : hinc reliqua imania
fiagitiainfurgunt.Q^uibustcbusipfam humanitatem exuri in truculcntilTima
monfiu conueitimur.Non igitur fine fiimma lapinia ad Cyclopum littora
ht> Dti dedudt diuinus poctatut ofiendat qui magna quzdam &
cxccifa petuntten nulla certaratio anima reganfefe falli & pro animi
magnitudine in imanitaicla bi.Scd hzcquocp loca miferia ad fc fugientis
uiri admonitus qua primu cifugit Acncas.Quid enim aliud nobis cxprciTius
cfiFmgerc:at^ipfis(^ucica loquar^ oculis fubuccrcpotcfiambitiolarofiC
fumma efferitate deteflandam 1)^300103 uitam quam cyciops Polipbemu$:qui
procul ab omni hominum confortio hu manis carnibus paicatur^^ inter
luflra feraru fola uita agat . Nonne enim iure Andropophagostfic enim eos
appellant grzci qui humanis arnibus uefeun' nmilloscl Te dicemus: non qui
carentia iam anima corpora id enim multo ma gnto Uerandumefiiinfuas
epulas conucTruntifed qui uiuentes omnibus ctu» oatibuscrudelilTimc
exeduntiqui ut aut tytannidem|fibi comparentiaut iam cd
paratamtutcnturioptimumqueipuirum & iufhzqui ac libertatis
amatoicm lzuifiiimemteTficiuat. Q_ui utfcelerariirimi uori
compotcsc£Ficiantut:aonmo do fingulos homines ttuddanttfed totam
urbem:ne^ folum totam urbemifed integras nationes ferroigni fameij
populantuncun^ libidini militari fubiid« imttQ_ui nc^ agris cultoribus
fpoliaietne^ hominum pecudum^ przdas abi gete uomturiqui pueros tcncraf uirgines
ex parentum complexu aut ad mor tcmautadlibidinemrapiunnqui caftarum
mationara pudicitiam expugnat: qui publica acpriuata faaa
ptofanacpzdificia funditus cuertunt:S qui modo in florcnrifiinu re
publica ampIifTimum dignitatis gradum fumma cu gloria ob tincbantitot
nunc oibux foituiuslpoliatosmmiraritni feruttutc abducunu V'
I.4 In.P .Virg-M.AIIego. uos igitur cydo^quos leftrigonas cum
iftorum imani fcttida cofErcnaif Q_^uimobrtm uir iummi boni cupidus qui
antea non bene infttcuta animi (oi magnitudine quacun^ uia ad honores
imperia^ nitebaturmunc demum tam nefariam crudelitatem quam primum eam
nouit deteftatunnouit autem a ma dlenta rqualenci<| achemenide forma
per quii lapiens poeU omnes calatnittla quz ex tyrannide generi humano
perueniunt s latenter (ignilicauiticum dues paulo ante omnibus
ampiifhmotum honorum gradibus honefiati/ ad rern ino piam cxtremai^
famem cdpellunturicum illudiis mortis moetu latere ct^un^t Rclida
enim ariffmu patna ignobililfimis obfcurilbmirip lods exulant: Q_ua:
quidem miferia edam li in graium hominem & Aenex hodem cadatitame non
poted ipfequi uit bonusauc fu aut elTe dudat ad fummultyrannidis odium no
impelli*Q_udigitur Maronis fapiendamnoniureadmiretunqui uirumm ita
liamuentutum maria at^adiaceda littora tam horrendis mondris obfefla ita
caute dreuire iubetiut illis omnibus euitads in Siciliam incolumis perueniat
un de breuidiffius curfus in italia dc.Fadle enim ed homni qui fe ab omni
ii auari» dxfpcdecxpediucntomnemip iniuditiaatipeiFentateexuedtiadreru
magnis rum cognitionem edgi iprxfctdm fi iam in Sidliam uenerit.Ed aut
Sidlia nue in(u Ia olim uero italix coiumdai Bt condnends parstfed uenit
medio in pontus K undis hefpenum (iculo latus abfddittarua^ Si utbes
littore didudas angudo interluit zdu.lta enim abimortali
deoapnndpioaeataed diuinitas animoti nodrorumiut una cademi^ dt pars
infedot rdniside qua paulo pod ent didin^ dius difputandum di parte
rupertori.Scd quoniaipfa ,in agendis rebua uerfaf drea ea quz loco 6i
tempore citcdfcnpta adiduam mutadonem redpiunt euenit ut interucnientibus
Uanis pettutbadonibusiquibus prudenda decepta (xpe pto bonis mala
cligitiratio ipfa inferior illis uelun uehemcdlTimit fludibus alfiduO
percu(riabitaliatandemdiuellacur:6(aruperiodradonead appedtum defid>
at Q_uz omnia quauis ita fint unde tamen breuiot ciufusad italiam.i.ad
eo»' teplatiunciquz m ipfa ratione fupedod polita ediquaa ratione
inferiod quz per Siciliam lignidcatur nihil repedes przferdm humato
patenteique nos mol bticm quanda eneruata homini a fenfibus
prouenienteinterpraetati fumus.NS quam enim ad ueram contemplationem
deuenicmusinifi pdus ipafut ebddia notum uerbo utar)fenfualitasnon modo
earinda uerii eria penitus fepulta in nobis fuerit. Q_uapropterli rede
animaduerds de Anchife mocte meminit poeta de fepultura non meminittno
enim in iuliam ed uenturus.ln quinto ueto libto celebratur funusiut demu
fepuito Anchife in italiam cotenderc lice «.Apparatis itai^ rebus oibus
Aeneas ex dciliafoluens paulo pod italix pot/ tus fubite fperat.Ne(p
fuilfet a fua fpe deceptus (i lunonem aduerdiTimam . bi dea ex Heleni
przcepto antea placauiffct.Odendimus paulo ante lunonoa honopi impcriiij
cupiditate expnmeredn qua quidc « fi Aeneas ita fe geiatiut nihil
iniude/nihil audeliter in reru adminidtadone aduius fit.faocenima Po
lyphemo fuga indicauit nihilominus cum in confpedu Italix iam fiti& in
li nunc pene fpeculandi conditurus: Animadueitat^ non poife in rerum
diuiu nuncognidonedcucnidsnifi humana haec omnia cotenat/nidtut ille
quidf Liber tettiiu rem perficere . Std appetitus qui nou dum
ratione fubiedus fit omnino ro> pugaat:faKU 9 argumentationibus
perfuadet noncireaurneg]igendoihono« tes/autimpia relinquenda
.PercomodeotnqiUate inquit LAVRENTfVS tC ad rem uehementer appofitx.Sed
unum efl de quo SC fi fortafTe confentanea fu fpicer > tamen fentendam
tuam uehementer cupiam.Na quid fibi obfecro uult ^fficilis ilia &
apprime moiofa dea luno. Si enim manentibus TroixTtoianis iiafcebaturscur
deinceps iifdem illis in italiam enauigatibus adeo boftili animo
aductlatunan fortaiTequiautracp uiuambltiofoK imperii cupido aduerfa Et.
ifibne ipfum inquit BAPTISTA. Atnbitiois enim dea olim Aenex irafeebatun
quiuoluptatibus dclinitui nihil honorificum quacreretmunc autem rurfus
ira fdtnncum uideat illum ad altiora quxdam eredum ea qux exteri mortales
in admiratione habentsotnnino contemnere. Omittens enim illa que
primum gradum in uita duili tenent non motulia amplius ifed immortalia
quxrin mi rifice ictura poeta.Vix e confpedu SicuIx telluris in
altum Veb dabant Ixd j K fpumas falis xre ruebant. Cum luno
xtemum feruaru fub pedore uulnus: quae deinceps fequuntur: Ratio enim
uiuendiiqux honoribus inferuit cum animadueitatfc ab Aenea deferiia quo
olimquo^cu ille uoluptatemtociu^ amaret
negledafuaatyuehementadolet.Cognofcit enim fi ROMANUM IMPERIUM ed fhtuuturforeiut
fua Carthago ruituta Et: Q^uisenimnon intelligat E ad c6tcplationem:qui
ptxftanti ingenio funt uiti accefferint/illos ciuiles actio.* nes
ccdercrturos.Oolet igitur St pfeotiiniutia admonita pteiitotutcminifdt.
Manet enim alta mente repoEum ludicium paridisfpretx^ iniuria
formx. Et genus inuifum & rapti ganymedis honores. Q_ux
quidem fabulx E diligentius conEderentur nihil aliud nobis prader de*
ditauoluptanbusuitam referct:Nam Paridis ludicium in quo lunonl Venus
prxferturiquid aliud cefeasniEuitx honorum cupide molle enetuata^ 8(uo
luptatibusaddidam prxponi: Genus autc inuifum.i.louis Eledtxt^ adulteri'
um:acpoSremo raptum Ganymede nemo modo mediocriter eruditus Et alia
traduccuHisigituraccenla luno naufragio Troianos perdere tentat . Verunx
ne noseaquxfubhuiufcemodi tempeftatis Egmento recondita funt ulla ex
pattelateant:neuequidluno:quidxolusiquidneptunnusEbi uelit incogni' tum
relinquatur:pauca de animorum noEroruui at<^ natura repetenda funt.
Illud tamen pmonebo cuenireiut eadem ad multos locos enodandos adhiben da
Ent t Q_u« E fcmel a’me expteEa exteris deiceps in locis ueluti ia cognita
file tioptacanc luideo me qd* fumopete cupio breuitati inferulturu.Sed
rurfus cu eodieteprKc/EEcagamus/duplextibionusipoEturus Emieritenim eode
tpe 8C memoria qd alibi didum Et repetendum: K quod interim perpetuo
orationis filo contexif' : Ene ulla inteccapedine:percipiendum malo loquacior
etk/q oomittere ne ingeniu eodem mometuo in plura diEradum:ucl minima
difpu lationis paidcula incogmta ptaucrmlttcre cogaturiCum igitur ad id
quod pro Ia.P.Virg>M^IIfgo* tPrn/f
<«•’<»' «*• 'v'»^ prium noSnim^ tft:quod(^ a noftrz
onginls diuimtate traximus t id eSsdt» tiocinandum/ad concemplandum/ad
intelligendum mgitDut:eam animi pai> tcmadhibcmus:quamgrzci nos mentem
nuncupamus. Verum hae mutiifed przcipuc Platonici chriffiani^
philofophi duplicem elTe uolueruntt 4 alteracu inrctiorem quam rationem
appcllant:diuiniorem alteram & fuperioro TIfct. qu- i
4eIIedumnuncupant.Q_U3propterfapienter Auicena animos noftroi ur t
alterum lanu duplici ore inllgnitos e(Te dizitiut hoc furfum uerTum ptia
r .na altilTima per (apientiam rufpiciamus.lllo uero res mortales &
adioneshua manas per prudentiam adminifhemus.Diuiditur igitur mens in duo
rurfum in tapientiara/deorfum in prudendamrquz Ht reda rerum agendarum
ratio qua iiinuirumfiC mulieremrutuirrupcnor iit ®at:Mulier
inferior 8l regatUR Q_uapropteregregiei!lud:^lioieiliniquitas uiriiqui
mulier bencfadensrnd ^ enim przponitur iniquitas uiriliszquitari
muliebri: Sed commode exprimitut * I 'tedius eum agereiquideiideriorerumczieftium
raptus plurima corporis &fo cialis uitz commoda negligat: quz res
uideturiniquatquam eum : qui ut nuW Ium uitae ciuilis officium
deferat:czlcftium rerum curam omittit : (^uz cura ita (intiuideamus quz a
Marone dicuntur: Nrmpe zoium lunonis przdbus uentostquoslouis iulTu
regere debet/in mare cmififTeiqua tempeflate obrui poterant Troiani nili
illis aNeptunno rubuentumfuilTct. Quo in loco fi ui tz ciuilis cupiditas
(it luno commode zoium inferiorem: neptunum uerofu« periorem hominis
rationem interprztabimur. Non igitur mirum liabhono» rumae imperii
ardentilTima cupiditate ratio illa inferior (lediturrattp de fuo gradu
deiieiiur. Referunt fabulz zoium uentisprzpolitum aloueefleiut iuC>
TuAioillos BC intra carcerem cohiberet&indeemmcreceru quadam lege
ualc4 at. Q^uamobrem celfa fedet znius arce Seeprta unfDS mpHit^ apimos:
K teinperatiras:_8£,iilud N i faciat maria ac terra stcilumq: profundum. Quippc
fei^tfec^ rapidi : uertantep per auras. Et profrdOt&infiituti funt
animi noflri ^etum omnium fumnioatcfiitcdotut cum Iit in nobis ea pars
quz ad tes afeifeendas fugiendaf^ inlurgit : przponatur libi ea rationis
particula : quz infenor cum(it:adres omnes agendas rede appetitum moueat.
Ratio auum - Iplis mortalibus indita non a corpore efttfcd
aloue.Hzciguurdumfuo co ditori obtemperat celfa arce fedet:quia nihil
humile cogitat: fed quztp aigre^ gia: attp excelfa meditatur : teneti^
fceptra.Nam totius uitzadminifttatianein habet: mollit^ animos /&
temperat itas: cum nimiis cupidiutibui appetii tum cohercet : at^ inna
modelliz fines continet : Sin autem ita lunonis blan>' ditiis
demulceaturiut fuz naturz propriz^ originis immemot rerum rettena rum
cupiditatibus irretiatur/ totum lilife przbet : eiult^ iuffu non autem lo
uisuentos/hi enim penuibationcsrunt/emittit.llli uao mare quem
apped<> tum cflic diximus paulo ante tranquillum ex diuafispartibus
ferientes bor« tendas tempeflatcs excitant: hebetant enim tadonis adem
honorum cupidi tatesrquz uelud nubibus obdudauerum bonum a falfo non
difccrnitiip fumcp appedmm : qui a fenfibus originem dudt: non modo non
refhnguit ardaemractum ultro inflamat: &gcntemiunonisinimicaseaautcft
mens no / » Liba totius ItlbulluQanitn rnunicotit^tm:diuinatuin
autftn cupida/mratiis perturbati poibusobtuae nititur.Scd rcaeo ad
lunonemillla enim cum tecencitiiuriaanti / MUm (H)i uulnus refrkafictiira
plena in zoiiatn tendit. Kimbofum in patriam loca fceta furentibus
auibis. Cidlidaomnino dea guz regionem ad ea quzcupiebatpaHcienda
fibi deligat nott'ignotauic:Cum enim raum humanarum amor nos ad diuinarum
cogniti onem abfttabae nititurrin zoiiam patriam uento^rad enim eft in
appeti tum p tuibationibus expofitum ueniat necefle efi. Verum iouis
iuflli hoc regnum zoio commiffum cds Nam ri deo obtempaemus rationi fempa
obtemperabit appeti tU&Redifljme enim Platonicum illud bpnp uiro
legem deum ellr : malo autem bbidincm:Quaobrem huiulcemodi
rarionemdeprauare aggreditur Iuno:& ue iuriti qui caufz (iiz
diflFiduntrfit fallis rationibus perfuadae/& largitionibus cor tumpae
iudices patanttita ipla zolum adoriturteonaturep oftendere zquum elTc
4tillc gentem fibi inimicam Italiam attingne prohibeat. Perfuade^ zolustfe^
cn da M iulTu lunonis fadurum redpit:Q_uin quicqd imperii habet/id omne a
iu BoUe tecognofcit.Nam nili inflametur appetitus cupiditate rerum
terrenaruiatrp illp uduti mare ucntls turbet rminime uideretur indigere
uita nofira impio ratio tus.Hocigi^ padotromnia lunoni debere ratio
fatetur ueluriquz(^nifi pturba lioaesaflint^aibil habeat in quo fuum
impium exerceatrac decepta cupiditate ea tum raum quas magnas putatmentis
habenas remittit/ac mare perturbattquoni •tUturbulemimis cupiditatibus
appetitum codut.Quibuszneasqui ad cxle^ Bium rerum contcplarioncm
tedit/adeo labo^ paiculorut^ magnitudine infrio giturtuta
jppolitodciiciat" :Et ^fedo cum appetitus quo folo animus moueturr
ftquonosad fummum bonum duci oportet/aKonosrapiat/infurgit atrorilTima
iUa tempeftasrin qua eripiunt fubito nubes czlui^ diemt^ teucroru ex oculis .
Na qui paulo ante tranqllo appetitu
adrpeculationemfaebant"tinfurgentibuspa.* turiMtionibus adeo illis
oixzcant" :ut quicqd luminis a rdnepueniebat/peniti» tollat tVnde
fit ut nox atra ponto incubet. Appetitus enim qui hadenus luce ra.>
tionis illulhabac'/nuc illa amilTa in tenebris uetfatur. Adeot^ zfi uat hoc
maretuc lii aqlone fetuntur/hzc enim elatio quzdam elliquz a rebus
fecundis profluit. Alii in fummo fludu pendentmam fupra fuas uires
difficilia ardua^ aggrediens tes amdi foliciti^ perpaua expedatione
pendet. Alii terram inter fludus tangens tcsabipfa fortuna dnedi
mifetiarum cumulo obruuntur.Sunt deniip qui in fas alatcntiacontorqurantur.Nam
multi cum impetu perturbationum ad huiuf^ cemodi cupiditates explendas
ternae ferunturiin uariatp pericula fibi improuifa inddunt.Sunt poftremo
quos auaricia ueluri in fyrtes ttahat.Nam quis non uis daefle aiam quorum
nauis demergatur. Vnde utre omnino apparent rari nan tes in gurgite
uaftoiNam ex inumera mortalium turbaiquos perturbationum p
cclh]dcmagit:paud emagae ualentiFado enim habitu pauci ad portum enare
pofluntiprzfertim cum ipfe gubernator a temone tcuulfus imo in przceptls
deie dus in profundum ruitiCum enim ea animi pars quz uitz regedz
przpolita eft fuaiicde deiidtur/adum iam de uniuafa te cite quis non
putarHzc autem otns Iliacum lunonis zoli^ culpa acddiftenttinterim
Neptunnus commotus graui* i In. P.Virg.M.AIlego.
tate t<tnpcfta^sf>Ia'd(]uin caput ex fumma unda
cxtuIk.N(ptaliutn mum macia deum cfTe finxerunt: Dico aut fummumiguia
alia quo^smaf^o» mina extann&ptofcdo plutea uires appetitui
prxfantimouet' enimilfe iudit» fcnfuumrmouct" tonis inferionsifummum
tamen impium fupioii ronirefenu tur.haec igif r^tio quam nuc neptrai
nomine (ignifiat poeta cum oibuspturba« tionibus rapi uexariip
uideat:caput e fumma unda ueiuti ex fpecula rifetttVnde ipfius appetitus
fludus jicellafip animaduertes aium illius furore in pram pinum rapi
cognofcitinei^ folum tcpe(htemfmtit:fed etiam ipfam lunonisdolisexdta tam
intucc :Nouit enim reda ratio aium ita afFedum:,ppterea in hasmiferiasitw
ddiffeiquonia falfa bonop: fpe decepta inferior ratio urntos no modo non
cohi> buerit:fed ultro emiferinC^uamobre utfubitn tato malo remedi uni
affecat cuje zephyrui^iac reliquos uctos ad feconuocas grauirer
increpariqui impio titanum fanguineorti/deo^i regnum
infeftareaudeanReferut enim fabuix uctos Aftrd filios fuilTeiAftreum aut
unum ex iis titanibus eifedicunquiimani impietate ad« uerfus deos
imortales temeratiu bellum fumere lint aufi.Hxcigi^ in fabulis rcr>
periesi Non aut CICERONEM reliquofip dodiflimos uirosaudiamusiquidoa ali
ud cum diis bellum gerere qnaturxnolhx repugnare interptabimur;Q_ua qui
dem re quid magis temeratiu rflepolTit non rcperio:nam queadmodutn cosUi
demum fapietes Bi dicimus Sc frntimus:qui naturam optimam ducem fequund
ita illos (hiltos temerariofep putabimus:qui ab ea oino dcfcifcut.lure igic'
uentM c titanibus ortos iinxeruuquonia ptuibjtioncs a temerario
fempi&nalurc repu gnante iudicio pueniunt. Audax igitur facinus
comittunt perturbationes i qux flultitia 6i temeritate humana gente
appetitum diuinitatis nolhx id eft tonis itm perio fubiedum turbare
audeant.Quaraobrcm iufte a neptuno obiurganifues ti:fu(lcc^ impium pelagi
fibi uedicat ncptunus/cum in bene inftituto animo hw iufcrmodi illud e(fc
oporteat ut folo mentis iudicio moueatur. Ad huiufccmodi igitur fentemiam
commode polfe ttanffcrri xolum/at^ neptunum putaui.Qod (1 qua in parte
fatis tibi fadum non e(l:aut li quid in mentem urnitiquod aptius IcKo
quadret:promas illud licet: Nihil enim c(l quod uereatis:aut pudore
impe< diaris:Nam neminem ex omnibus qui uiuuntiuucnics/qui aut xquiori
animo refutari patiatur:q ego fero/aut auidiusqucxlnefcicntaddifcat: Necp
eft etiam quod dicas huiufccmodi fenem ego adolefcens. Vidi enim multos
ex iis qui & ha bentur & funt dodiflimi nonnunq admonitu etiam
indodilTimi hominis in at rum rerum cognitionem ueni(Te:in quam fuo ingenio
tam diuturno nunquatD tempore hadenus uenerant.Ego inquit Laurentius quid
aliis euenerit ncfaoiiiu hi tamen nunq tantum arrogabo. Verum quia
accidere in tanta rerum copia at^ uirictatc dodilTimis quibufc^ folet/ut
cum plurima eodem tempore fefe med of ferant: nonnulla fint:qux fic fi
non explicent" :facile umen Sc reliquorum fimili* tudine percipi
pofiint.Sint etiam & alia qux quamuis enucleate planecp ediflicrae
turihcbetiori tamen ingenio qui funt illa minime confequant":utar ea quam
mi hi pamittis licentia:& quoniam de confugio xoIi:at(^ deiopex nihil
a te didum cftipetam nifi id omnino inutile ducas:ut fi quid ea in
fabella fitiquod ad rcno< fisata confciat/nobis explices. At dices n
unquid tibi m mentem uenit i ac edam Liber tertiuf
|nthinuHorib^tne(!erat!ges«Vcnicqdetn.Kamaiffi nKo adiuiDis ad
humana abducenda cftinullum pene maius przmium proponi pote(l:g pulchrum
cafiu^ m coniugium:inde enim cupiditas ilia naturalis:quz eft
coniundionis maris SC fttminaeezpIetur.lndefoboliseft|>pagatio:quxquidem
non fotum uoluptatiii tuul ac ufui nobis cd;uetuffl etiam pofteritati
confulit/ut etia morrui aliquo mo do ih illis uiuamus.Ulbucipfum inquit
BAPTI5TA nec modo |>po(itx quxlH oni rationem habcas/quicq eft
prxterea defiderandum.Nam id hoc in loco aperi amiquod alio paulo pofi
foret aperiedum*Prifci igit" illi qui de deoni natura fcii»
pferunritria ibeologiz genera pofuerutiunum fabulofum/quod grzci mithicon
nomtnant:quo quidem populum ociofum in theatro oblec^rent: Alterum nata
rale/idenimeft phy ficonrper quod comode uimnaturxexprimuntiut cum per
iatumumhlios omnes przter illos quatuoruorantem tempus nebis denotant:
^itodii quatuor elementa ezcipias:omniafua edacitate confumit.Tertium
uero iccirco ciuiJeappcllant:quia inde ad benebeareqj uiuendum przcepta
promatur Coofueuerc igitur poetx quibus nihil dodius reperias/hzc omnia
ita confunde* re:at<p m unum comifcereiut optimo quodam temperameto
eodem tempore & aures fummauoluptacedemulceant:& mentem recondita
dodrina alantiac nos adredum at^ honeftum & ad ipfum fummum bonum
deducant: Nos aur quo^ ciam A hzc omnia exadius in Marone ^fequi
uoIuiiremus:nimis operofum ne godum |>poni uidebat" duobus primis
generibus obmiiTis intra ciuilis generis ca cellos difputationem noAram
mcluAmus.Q_uapropter illud paululumtqd mo* do de fabula
decerpferas/noftro operi conducet: Nam reliqua phy Acen fpedanr. Dicunt
enim Pbccbi Aurorzi^ Alias.xiiii.fuiiTe eafcp lunoni nymphas attributas
exiliorum enim intcrptatione luno aer cA* Aeri autem feptem quzdam
attributa fuiit.Septem itidem in aere^ignum''.Q_uz omnia ipAus folis tunc
maxime cum in noftro hcmifpcrio ueriat :opera proucniunt.Sed ut de primis
priori loco dica tur eft aeris ut leuisAt:ut mobilis:utcalidus:ut
humidus: utferenus: uttacitumP Utlpirabilisxbasigic ueluti feptem nymphas
finxerunt poctz:earutn autem quz in aere gignunt pi imam ponunt quz Ins
appellac'':Cui etiam attnbuut tres ueiu li minittras pluuiam grandinem
niuem.ln his enim contingit ut nubes fuli oppo Dat :fcd eft id^ut ita
loquar^nubiu corpus ut alia fui parte denfum/ut alia denii^ us/alu den Aflunum
At.Q_^uapropter a prima fubrubeus/a fecuda ccruleus/a ter<« tia niger
color perucnitxContra ucro partes quz in ca purz funt croceumiquz ue ro
puriores uindemxquz poftremo puriftimz album colorem remittuntibzc igi
tur piima ex alus feptem nympha eftxquam deinde fex fequutur phy thon
come.* ta fulmen ronitruumxcxhalatio ac tcrremotustdeqbusfuo ordine
difpacarc no grauereniuriniii ex tnbus illis quz dixi generibus ciuile folum
profequi conftitu ilTemus: Vaum cum uoies bzc probe & quid qua
ratione gignantur: faci* ]ccognofccs.Sunteniminiisquzmeteora
appellanturab Ariftotele quidem pr acute:ab Aiberto uero cui magno
cognomen eft etiam aperte petferipta. Quod autem dciopeam omnium
pulcherrimam fe daturam pollicetur luno ratione no carenEft enim ca in
aere facies quz ferenitas didtur.(^uz res autein magis io cu pidiutem
tcruin humanarum trahere zolumpotetauqDamfctena czii facies ; p
1 1 I'. Perplacent ifiainquic LAVRENTlVSs at ita perplacentuit
nihil in iis prxt» rea deiideretn:perplacent quo^ quz tu de ratione
appetitu^ diziftitfed uide at pugnantia Ioquaris.Natn(ire^tnemini/tu
paulo ante xoluminferioiemratu netnelTcuoIuiditnuncncptunum fuperiorem
ponis:redeutru^:Verumcn hic impetiutn fibi non autrtn illi datum
dicattnon uideo cur zolo quotp non conoe datur:ut mare uel io mittendis
uel coheteendis uentis:aut extollat aut fcdett No co inficias inquit
Baptifta pertinere ad hanc inferiorem rationrmiut cum deage dis rebus iudicium
habeat/ipfa appetitum & ad raquz afeifeenda funtimpellati & ab
iis quzfunt fugienda auocet.Vcrum quemadmodum in bene inlhtutare publica
fupremus quidam magifiratuscreaturicuiusatbitrio £d ii omnia getan^t alii
tamen aifunt minores magiQratusiquibus fingulis fmgula committantunili
totius uitz imperium in mente confi(ht:ita tamen ut infenor ratio appetitui ea
Ic ge propolita (itsut nihil niii rede iudicet.Q_^uod ii illecebris rerum
humanatum decepta non rede fentiat:fcd iint eius iudteta falfa/adeft
fupremus ille magifha* tus ad quem prouocare liceat:Q_uapropter rede
faipcura eil zoium no niii clau fo carcere regnare: quoniam in uita hac
communi ac ciuili potius cohibetur appe titus ui quadam rationistquam
quietus tranquilluf^ tcddatur:non enim in bo nas
affcdionesconucrtuntur:red potius moderatione cohercenturjRatio autm
fuperior cum caput ex undis exculittemiiTamt^ a lunonc hiemem
cognouitteun da in tranquillitatem redigit. Emittit enim raput ex undis
cum fe a corporea mo letqua hadenus obruta opprimebatur ucndicans ipfa fe
excitaUat^afeniibus fe uocattquo tempore non folum cognofeit qua hieme
opprimatur zneasne in Ita liam tendat:uerum etiam tantorum malorum caufam
lunonem id eft rerum bu manarum cupiditatem ei1'einteliigit;(^uamobrem
uentosqprimumanutire* mouet : Nam uacuuspertutbationibus appetitus
rationi obtemperantior reddi tut lllofq) ut deterreat maiores poenas fibi
daturos minitatur : quam illi ab Aenea acceperint: nec iniuria . Nam
appetitus a perturbationibus inuafusad tempus uexatur « Intelligentia
autem illa fuprrma fi imperium fibi uendicae tit/ quoniam fummo lumine
animus illufiratus nunquam deinceps nec ded pitut:nec labitur : neccfle
eft ut perturbationes: quarum genitrix falfa opinio fuerat in nobis
penitus fepultz reddantur. Q_uapropter non fimili pasnaco milTa uenti
Neptuno luent. Sed undz quz fequantur . Remotis uentis ou« bes dirperfas
in unum colligit Neptunnus: at«^ colledas fugat: Efi enimboc
intelligcntiz:ut a principio fingulas falfas opiniones profequatur : in
unum congerat : atq^ demum confutet: quibus confutatis tum demum folis
lUe ce: ea enim efi ueri cognitio eunda iiluftrantur. Q^uio 81 dmothoe
& totos naues a fcopulis abducunt. Cimothoe per undas currens fi
gtzcum uerbum aduertas faale interpretatur. Triton autem neptunni tubicen
babetur. Iftaigi tur duo numina afcopulis cupiditatum naues reducuntr quia
cum tedum DOuerimus/uana relinquimus. Scientiam autem autnofiro ingenio al Tequimun
cum id fua uclodtatc pet eunda difeunat t aut dodtina aliunde accepta pd«
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tertius tnumilluddmotlioesuelodtasciprimir hoc autem tnton signifiat. Mam
ut Cubidaes fuo przconio mandata prindpis manifcftiQtidc dodrina quid
ucriras 4ieIitaperit: quod autem prorpcrocurfu per pacatum mare utatur
neptunus fadleprobatur.Nam cum pacatus eftab omnibus perturbationibus
appetitus ita per eum labitur ratioiut nufquam ofFendat.Diximus de
tempeftate.Nuc ad reliqua pergamus: Neptuni beneficio ex tam manifefto
peri culo erepti Troiani cum fefu fradi(p Italiam utpote longinquam
terram contingere pofTe defperatent:extemporaneo ac^ minime przmeditato
confiiio ad propinquum carebam ginenfium littus uela dirigunt: puto
uosmeminifTeitaliam fpecu!ationis:cartha ginem adionis figuram habere.Quapropter
id nunc exprimit poeta quod in humana uita fxpe ufu ucnire uidemus sSunt
enim multi:qui cum ne<^ in uoi^ luptatcne^ in diuitiisnet^ poftremo in
honoribus fummum bonum inueni^ ant ad ueri cognitionem fefe conferant;
Verum cum fe humana omnia Facile poircconcemncrci&reorfum ab hominum
coctu contemplationi incumbere cxiftimenniamtp rem aggrediantur uix illam
reliquerunt cum tantum relidam tum rerum defiderium infurgitiadeo^ ex
recordatione tantarum illecebrarum cffeminanrur : utrurfusin fummaspcrruibationes
incidant : qux quauts tan« dem fumma ratione fedentur:adeo tamen defefTi
defacigatit^ relinquuntur ant mi nodriteum non fine difficultate tam
horrendam tcmpdiatem euaferintiut latis fupert^egiffe putent fi
focietatem humanam incolentes qux immania 8i humano generi pernitiofa
funtuitia effugiant. Virtutes autem fi non exadas; ati^perfcdas/incohatas
tamen retineantifi: cum difficultate dus uitzqux in
ucnfpeculatione'pofitaefideccrreantut:animaduettantqux hutufccmodi ui^ tz
genus humanam pene imbecillitatem excedere cum Arifioteles maius aliV
quid quam hominem effe qui hzec poffir affirmet fecum fic
ratiocinantur.Non- parum erit uoluptatum incendia euafiffe : Thracenfium
rapinas euicaffe : hac harpyarum fordes & Cyclopum immanitatem
refugiffe . Nunc ucro fi id non. pofiumus: quod diuinitatis potiusiquam
humanitatis effe uidetunillud quis reprehendet ut in hominum locierate ad
quam colend >m tucndamiaugendam ^ nati fumustuerfati prudenter iufte fortiter
deniqi ac temperate uiuamus/ pa rati pro pania ac parentibus nullum
laboreminullum periculum deuicemus.. In omnes qui nobis
fangumeconiundifunt pietatem obferuemus: Ciuibus nofiris aut egenis
liberaliterfubucniamus: aut errantibus redam uiam demo- firemusiaut
iniuriaoppreffos confiiio opera gratia audontate<^ noffra fub«'
leuemus.Speculationem ucro magnarum rerum in maturiorem zratem anp
inipfam fenedutem : quz a multis perturbationibus i quibus huiufcemodf
uita maxime impeditur liberior effefolcC reiiciamusiquamquidem fententt
am iis quz de Hyfach magni Abraz filio dicuntur : tueri fe poffe
confidunt: Nam quod de patriarcha lilo legitur egreffum effe ad
meditandum in agrum inclinata iam die ita interpretantur exiffc illum a
corporeis fenfibus adme ditandum in agrum quafi feorfum ab humana frequentia
inclinata iam die/ id enim efi circa fenedutem iam femore fanguinis
ceffante.Conanr prztereii Cuamcaufam grauiffimotu uiioium teffimonio
corroborareiqui ufutn potius lQ. P.Virg.M.AIIcgo<
triqaam aufamunde bonum (it confidcrantesadionem contemplationi aiw
teponunt. Pcxfcrtim in uiridiori aetate: in qua philofophum agere, dicere
rem publicam adminiftrare militare at^ imperare iubemtoftenduntip Platon
ip tum uakdioribus annis K nauigationes io (Iciliam : & (iudia in
Dione exerciM retSencfccotem autem in academia circa ueri inqai(itione
quieuilTe: Xen ophi» tem quorp adolefccntem in rebus agendis fummopere
laudant:Srn:m ueto in fpcculatione admirantur: & beatum propter odum
putant: Q_ui n etiam mub tos ut fapiendorex fierent plurimos populos
paagrafle oftedunt : Q^iuproptct K Homerus Vlyxem fapientem propterea
dicit:quod multorum hominum ut bes ac mores nouerit:Huiurcemodi igitur ac
plura alia in unum collig^es/qux tu fummo artificio ac prudentia nudius
tertius cum hoc genus uiucdi laudibus efferes enumerabas fpeculandi
propofimm in feriorem ztatem rdiciunt i at^ ad res ciuilcs agendas
interim fe conuertunt:Q_uod quidem uitx genus qui ui tuperabit/is profedo
iuflam ut ab om nibus uituperetur caufam prxbebit.Sunt enim fua (ibi
qutxp muneraiSt plutima quidem at^ przclaraiquibus (i rede fu
gaturi&czteris utilitatem ficfibi gloriam tranquillitaremip quoad
imbedllitai bumana patitur (ine controuer(ia pariet:Q_uapropter non (ine
fumma ratione tutus tranquillnfip portus in caithaginen(i littore
defcribituricuius formam li< tum^quzfo diligentius infpidte.Eftenim in
fece(fu longo locus:quem infula portum ef&datiMortalium enim uita
continentem: ea enim terra eft quz marU nis fludibus minus e(f expolita
nufquam hibct.lnfulam autem habet zfiuinti busafliduofurentibafip undis
undu^perculVam.Sed quz tamen ita fua mole beteat: ut aduerfus omnem
uentorum undarumip impetu immobilis fimpcr obduret : Nam cum hzc quz
momentanea funt:& tamen (f ultitia humana bo na putantur fortunz
temeritad fubieda (inticut^ amore fui mentes humanas in Cendant
conficerent profedo nos nili infula in medio mari (imus : quz quauis
unditp mari mndaturitamen uirtutibus (fabilita non mergitur.Eif autem in
16 gofccefTuiNam animus uirtutibus aduerfus fortunz impetus munitus
procul a perturbationibus feiunduscft.lllz enim obiedu laterum
repelluntur. Cu hin: fortitudo contra res aducrfasihinc temperantia
aduerfus res fecundas opponar i rede^ uafte rupes appellantur. Virtus
enim in diffidli luco polita etf.Aode qtf ita medium tenet:ut quocunt^ te
inde araoueas:ad extrema peiuemi ndutn liu unde tanquie^piti rupe labatis
gemini^ minamurinczlum fcopuli. Nam non folum noUra prudentia freti res
magnas aggredimur. Vei um multo magu
diuinoconfilioconfili.NcctemetedidumeQfubrcopulorumuettice zquota tuta
li(ere.Nam appetitus duplid lumine illuftratus ab omni feniper pemiiba
tione liba cfi.C^uod autem defupafczna corrufeis filuis6t atrum nemus
horrenti umbra imminettnon caret rationeiNullo enim in homine prudenti'
am inueniasiqut earum rerum quas fua temeritate fortuna uafat cuentus pem
tus przuideaticum tortam^ diuerfis caiibus cxponamuriut pcrfzpe Si quz
nocitura (int fummis uotis expaamusi6C ea quzfieuenircnt falutiufui ef
fcntiueluti noxia omni indufltna fugiamus tOeni^ in aduafa fronteaquz
dulces depizbcnduntur.Nam cum procul a uatiaium cupiditatum fludilMis Liber
totius botiSftifflunezur^ buiufcctnodi uita:quz (ioo beata omntae e quieta
tamen 'tcanquiUa^ (it.H uiufcemodi igitur pottum Tubcunt: qui fuprema diu
fedati ac poRrrmo difficultate deteriti fe in uitam focialc contccucnin
qua ciuilibus uirtutibua exculticuinuerrentuc laudem non medioaem
reportanti longe ta« ^en ab ea diuinitate qua quairimus abfunt. Quod aute
feptem nauibus huc iubicritiquodi^ reliquos c (copulo profpiciens
requirerenquod detnu focioru inopiam raritu uinoij rublenaunic buc
pertinent ut intclligamus eu qui rc pu« bJicamadminiflrandam fumat oes
labores omnia incdmodafubire oportera ut illoru quz fuz fidei cdmifTi
funt falutem incolumitatcmi^ conrcruet. Qua riptopter fit Acate$(^ea enim
principis cura efl^ igneexcitabit/id eft dcfides ad tes
agendasaccendetiutquz ad uidumncceffana funt minime defintifit fcopulos
Buendens abrentes requiretiquos (i tutari non poterit iis qui afTunt
confulitiillo tnm^ inopiam cu fublcuauerit etiam oratione
confolabituc:optimif(^ pcepds ita in^oet/ut admoneat non effe huiufcemodi
hoc uitz genus ut m eo fedes & gere uelimusiSed effe omnes labores ac
difFiculutes fuperandas /ut in italia per ucniamusiubi demum fedes
quietas muenietiubi etiam Troia reforgetiNam cu
uitauoluptuofaibiquzreretur eaaderatuoluptasiquzafenfibusprofeda cor
porca edet fit caduca: fit qua (latim poenitentia fequebatur.In italia autem
uolua ptasfuma prouenictadiuinaturaum fpeculatione.quz uera fimplexcp
fituo luptas quz perpetuaiquae ztema qua nullus moeror fubfequac .Hzc
enim opti tni principis adminidratio eft:na cu u ideat ciuile adione
humanz indigencizt non aute ei quz io nobis efl diuinicati inferuiteiita
in illa uerfabic :utcu quz ad mottaliu inopiineceflaria funt
^uidetinfuotutame animos ad diuina etigatt iubebit^ eos
aduerfusfortunzcafus durare: fit fe rebus fecundisquas in latio inucniet
feruare.O diuinum ingeaiu.O uitu inter ratidimos uitos omnino ex
cellencemifit poetz nomine.uere dignumiqui non chridianus omnia tamc chri
dianopr ueridimz dodrinz fimi liima proKrat.lege apodolu Paulu. libet
enim unum hinc ex omnibus ucluti nodrz religionis caput nominareiqui
uitam hu manam ad huiufcemodi notmam dirigitiut ne^ corporis necedatia
fubtrahen da:flt uero inuedigando femper uacandu cenfeat.Q_uid enim ille
fufe late<^ de Cmbinquod hic poeticis an gudiis non
coardetiMiraprofedo restut fingula pe ne uerba longidimas e
platonicaiaridotelicac^ re publica:fentetias ampledi ua IcantiSed nolo
quod quidem hadenusnurquainfeci:itaexade hunc IcKum profequi:ut reliqua
deinceps aut omittenda:aut ea celeritate przteruolanda fintiut idem nobis
eueniatiquod longam piduram in citatiiTimo curfu per« (piciennbus euenire
folet.Ii enim in puado teraporisicum id etiam magnope
tecontendanticolorcs notare uix poffuntiliniamenta autemifit corporu fimu
Iaera fit quam grzci fjmettiam nominant ne uix quidem. Q_uapropter relu
quaadtnaiusocium differantun^Oratio autem Venerisad iouemrurfuftp lo«
uisad Venerem meram textus (criem continere placet.lnferuiut enim omnia
poetico f)gmento:ita tamen:ut non nihil de mathematicis decerpat Maro:
fit unde luboyt familiam in primis autem AGUSTUM (OTTAVIANO) Augudu
laudet.Nam quz ad allegori am tcfcitc uoluffius iude folu accetfenda
cefeo unde duc^.fiu fpote fcquanf In. P. Virg.M. AIItgo.
Sin 3utc ui ingenii inuitamuntur/twtu de
grauitateruaamittunttatridtada pene reddaqtuttluc^ omittamus anxias
interprxtationes:ea(p folumaflim» tnus/quz non modo in abdico non
latentsfed ultro Tefe quxrehtibus offerant. Quod autem paulo ante ad
mathematica pertinere dixi pauds quidem fcd ,uc temporu anguSiz ferebat
no oino obfcurz in principio expolitu clTe puto.Ita^ teuertor ad Acnea^lc
enim per node plurima mete repeti ftatuit ut prima illa ccfceret loco^t
natura diUgctius exploraretSt hoics ne an ferz teneit inucdigarc. Q_uibus
untibus qualem oporteat eife rei publicz adminiftratorem egregie, a
{timit. At^ in primis illud bomericd approbat. Q_uis enim cui tot
mortalium cura c6mi£Qi Iit uu' uerfam nodem fomno impendet. Id aurem
fumma (apientia didum omnes fatebuntunEft cnim’optimi principis uel
praecipuum munus cum loca inculta uideaciut homines ne an ferz inhabitent
iibi exquirendum proponat. Na qui uitam ciuilem diligenter intueturmaria
hominum ingenia;uaria fiudia uario^ q motes inueniet. Sunt enim qui redo
honefto^ r(mperincubant:ciuili con cordiz faueancsLibertatem (aluam
eflecupiantmeroinc plufqua leges intepui blia ualete uelint.Iniuria
oppreflbs fubleuent . Superbiam fcditiolorumciuid deiedam cupiant.
Maieftatem publicam pro uiribus augeant.Religionem de« ni^iac iufticia
omnibus rebus przferat.Hi igitur iure hoics appellari polTunt: quoniam
humanz naturz officia non deferunt.Contra autem plurimos repeti as/quotum
pctulantifTima libido nihil fandum/nihil pudicum relinquat: pluri mos qui
fuma auaritia acccli/omnia uenalia habeat:& aut ueluti uulpeculz do
lisiinftdiif^p incautos decipiat:auc uiribus fuperiores cum iTnt opibus quo^
fit honoribus eos anteite uelint:quibus fapientia ac uirtute longe fintintetioress
buiufccmodi igitur uitiis deprauati homines quauis effigiem mebra:^
humana retineant/tamen quoniam mores ferinos induerunt/no amplius
hominesifed immaniffimz ferz putandi funt.Q^uapropter in humanis coetibus
longe plu« ra funt illa;quz uitiorum uepretis at<^ fenticetis unq
inculu hortent: quam ea quz ingenuis artibus prxclarifd^ uirtutibus
exculta nitefeant: progreditur igif Aeneas ut fingula diligenter
exploretinon temere tamen:fed Acacem tidiffima comitem fecum ducit:8(
armis inffrudusincedit:Nam quis unquam rede re publicam
admini(lrauit:cuius animus aut cura ac diligentia uacuus fit:aut for
tiCudinecareat. Iliis enim quz agenda funt multo antea przuidemus.bac au
tem nequid ex iis quz magna ac przclara puidimus ob moetu infedu relinqua
turtcfiffimusiCum igitur rciedo in aliud tempus contemplationis propoiito
adeiuilem uitam digrediatur Aeneas:Sit^& in ea multum elaboridd/opus
eft ut & duce matre ad illam perueniat.Nifi enim amote catum reru quz
age dz funt calefcat animus aduerfustantos:tam^uarios labores
obtorpeatnc.> ceffe eft.Fit ergo illi obuiam mater no tamen cofeffa
dea/qualif(^ uideri czlieo lis & quanta foletiEam enim fe tuc
offendit cu filium a uoluptate eo cdtilio ab ducebat/ut ad fumu tenderct:Q_uo
tempore oportebat ed inflamari amote di uinaru rerutqui & ipfe
diuinus ab omni materia 8C corpore jicul abfit.Hic adt catum reru amote
incendit" : quz corpotez Bi magna ex parte mataiademafz Liber lotiui
li
io “!• lA ab ife «pg bb aS sua tsb mt
s'4U *•. utii at». ia? r i*f
aO liii ga< 'fb fihhQ_^uapro{iter non
deam confcfTaafed humana fotma diRiffluTata fefe filio
offcit:ftin(yiuaotueiiatriziIIi appartt. Quem quidem locu planius uobis
nf primamati pauca omnino necniu ea qux nrcriTaria funt prius de fylua
rxpofur^io.Omnium tetum qux funt redum quendam ordinem eiiflere :
Trifmegiftus Homerus ac Piato oftenderunt: Atm ut quot fentirent
dilucidius exprimeret au ream cathenama naturx fonte ad innmam ufep Fecem
demitti finxeruntiqua fa> is gradibus eunda connedanturteuius origo
cifentia dei cum (it eo ordiue proce ditut ut fecundo in loco
potentiaztertio fap'entia:at<p quarto uoluntas collocet t bxc fequitur
fatum attp illud anima munditdeinceps funt cxieltes demonest (iit
xtbnriifunt aereisfunt bumedeitfunt deni^ terreni. VItima autem omnium by
le^quam nos fyluamdidmus^in infimo refidetiPoifemfingula non fine fum<
mo ufu atip uoluptate oratione mea profequi. Sed quoniam difputatidi
noftrx neceflarianon funt brcuitaticonfuIam.Q_uamobrem exteris obmiffis
deu prin apium lyluam extremum in catbena ponemus.Nihil igitur deo
fuperius . Nihil fjlua interius.nibil hocprxftantius.nihil illa uilius .
Media uero inferiora fupe« nntta fupetioribusuincuntur.Eft igitur deus
& fyluathxc autem niatetia efttex qua omnia corpora funt . Vt enim
lignarius faber materiam ex qua eunda fadat luam habet . Continet enim
illa rude adhuc lignum s K informe: Sed quo tamen innata fibi facultate formas
omnes redpere ualeatifaber autem in quafcun^ uult formas illud tradudt
tcadem ratione ad deum materia eft.Deus enim for masomncsabxtcmitate complexuseft.
Materia uero fi illius naturam infpicias formam nullam certam expreffam habet.
Verum innata fibi recipiendi faculta te t & ut ita loquar confufe
omnes continere uidetur. Materiam uero quia matet fit didtur. Ceus autem
pater: forma uero prole$.Deus enim dat.fylua redpit. *fotma nafeitur .
Q^uapropter rede Trifmegifhis patrem matremtp xtemos: pro lem uero
mortalem didt . Mater cfi materia quia finum prxfiat. Deus gignit : 8C
oeat : ac fua quidem ui . fila autem ex alterius immiztione condpit .Condpit
au teminfufione fpiritus diuinitquam animam mundi nominat Tnfmegiffus
t Q_ux res eum mouet: ut deo ofiidum patris tribuat : quoniam infundit:
SyU ux uero mattis t quia a deo condpiat: Animam denicp mundi uim feminis
hsb> bere dicit : quia a deo ipfa infpiretur in fylux gremium.
Prxtereo plurima nomi aatquibus uariasfyluxproprietatesexprimit:Illaenim
nihil ad hxcqux agi« mus : Sxpe umen totam materiam appellat malignitatem
:ne« iniuria.lpfa eni IblacauQefitutresmintentumcadant.Namquodamateria
feparatumefitid nunquam interit: Nunquam enim quod fibi contrarium fit
capiti fed illud fu« gitat femper at^ declinat: Quod vero fylux gremio
continetur: iccirco in la^ teritumiabitur: quoniam fylua/cum ad omnes quas
qualitates appellant xque lebabeatcuenittutuelutialteraHelenaintra teda
uocet Menelaum:ac limina pandat. Num dum foimas illis quas hadenus
receperat contrarias admittit: fc« cile fit ut cxtemx irrumpentes
domefticasextinguant.Q^uapropter quis illam malignam non dixerit t qux
familiares fotmas prodatiignotas admittat: K uelu ti fufiepri iam in fuam
fide m clientis caufam deferens : aduerfariiqi fufcipies per timtnam
perfidiam p eaoiaticeruf i Tardat etiam & perturbat noftras
mctesfyb k rn.P.Virg. M.AIIego « Ui t omae ab ea
uiHum nunat. Viaa enim mfcitia igaotatioa [«St At ignorationem
ipfam cz craflitudine caligine^ corporis prouenire & Plato S plaeri^
cz iis qui grauiflimi habetur philofophi audorcs funt.Huiurcemedi igi tur
rationcmotus diuinus Maro cum rerum humaiurum:8;qua; corpore no a
rent:proptrrca^ in uariis erroribus uerrenmr:amore inflametui is qui in re
pu> blica princeps effe cupittuenerem Tub mortali forma inducit Sc in
tpia lylua:guo niam eunda quz agimus in materia demerla funt illam ponit.Nec
temere umv tricis habitu ezomat : Eas enim feras de quibus paulo ante
dizimus fibi infedai das proponiuquifuis cibus rcdcconrulturuseO.Acneas
tamen non nihil diuir nitatisin ea etiam iic diiTimulante cognofcit.nam
Si (i populorum temperatocai circa humanas adiones uerfenturuamen quoniam
honelhim redum^ tuentor eodem illo amoroquo hzc caduca appetimus /
originem nollram diuinam eflie fcntimus.cum enim reIigioncm:cum luditiam
: cum animi magnitudinem atb amamus : uerfantur hzc profedo circa adiones
.Sed tamen quis non uideat illa a diuinitate proiteifei C Eft tamen
oratio uenetis non ut dcz : fcd ut hominb: K tamen nefeio quam
diuinitatem redolens : Nam cum Carthaginem proficiid lii
adeat:argumentationibusab humana prudentia profedis utitur: Nam K quz de
hilioria Didonis eruit : ea omnia falutis fpem afferunt : Si cum aliquid
funp rum przdicitmon ut deaifcd ut augut ex cygnorum uolatu przdicit .
Illud aute fumma fapientia czcogitauit poeta : ut in orationis fine fe
deam manifeftatet Ve nus : Nam cum in uita ciuili quz reda Si honefta
funt diu coluerimus ez illotn pulchritudine ad diuina quotum hzc ueluti
(imulaaa funt erigimur.His igitur rationibus a matre perfuafus
Carthaginem tendit oblitus tamen tenebris : ne illi us conatus aliquis
impediret . Et profedo fic fe res habet . Nam qui magna pru< dentia
przditi funt uiri cztnam multitudinem quam adminiftrandam fufeipi unt ita ad
redum honefl um^ trahunt : ut fua conlilia fzpilTime tegant:quz q> dem
fi palam facerent/autzmuloruminuidia: aut dulcorum infcicia impediti illa
ad ezitum minime perducerent: Vtenim prudentes medici zgrotos(^qucv tum
libido nihil falubre ezpetit])perrzpe fallunt : Sic optimi prinapes
fimutan^ do aut dilTimulando fua conlilia occulcant . Nam ut cztera
obmittam nonne qui leges tuleruntiquo maior ei audoritas inelfet/fua
conlilia alicui deo actnbu^ erunt fCunda enim ez Egerie nymphz przceptis
Numa Pompilius facere finiu labatilusciuileSpatthanorumez Apollinis
fententia faiplifife iinzit Licurgust Q uicquid Zautrades apud Atimafpos
conltituitid a bono numine accepilTedi cwt.Zamolzis autem quzcuis Scythis
tradiditiin Vedam reculitxNam q mul ta q difBdlia inter tumultus
militares rede ad ninidrauit.Q_. Sertorius cum fe ii la a Diana per
ceruam accepilfe diditarct tSed nimis multa dere przfertim ta tna nifeda:
Carthaginem ueto e loco fuperiore cernunt: quoniam ut nudius quo^ tertius
difputatum ed nuquam optimis indituris Si
legibus temperata erit res pub.nili qui illi przfunt eunda qu aut
przcipiunt aut prohibent ad eotu qax per rerum magnatum speculation emuideritu
regulam ac normam sapiennllb tne diligant. Cum autem Carthaginen lium
operam indudriam circa urbem difiandam dclaibit/nonnc pauciflimis ueifibug
onuiia colligit: quae^iia 9 c*\Ili «f m ii m ta ai lU U Kl iiM ib gia \tt\ th ‘S ipn iii^
F! jpb (f ob 09 0* xb s 3 ib <1 Liber'
tertiui edam (apfari(Cine de re pub. latprerut)t:noa ni/i pluribus libris
exprimuntur tamum enim ea parant ibiis aduarus ho(tiles impetus tuti (t nt:
uibus V^^fe contra czliiniurias priuatisxdifidisfedefenduntiHzcenim
duoprx^ fiant ut duitas efle pofiit.Poft bzc uero ad iura &
magilhatus fe conuertunt : ut nonmodoe/Te fed quod proprium hominis e/l i
cede bonefte^ e/Teualeant: Quoniam autem ad magnificentiam & ad
liberaliutem &ad uim propulfan^dam publicz opes in primis utiles funtipottus
optimi/efiiciundi ratio habetur t Poftrcmo autem (icznz ac theatri cura
non negligitunubi & corpora ad ualitudi nem &robur exetceri:&
animi publicis priuatifi^ negodis defatigatiihonefii/Ti* mis ludis
relaxati pofiint: Qua autem mente & quo confilio illos apibus com«
paraucrit : quzfo diligentius animaduertite t Si enim huius inferti naturam
con fideretis nihil illo aut induflria ac folertiaacuriusraut a/Tiduo
labore indefe/Tius (eperietis*Ouccm in primis habent quem fequanturt
cuius impenum nuquam contemnannlabores inter fefumma
zquitatediftribuuntiSummaconcordia 8C opera fua fadunt & boftes
arcent.Q^uicquid quzrituriid omne in comune qux iituriQ_ uz quidem omnia
fi in rem pu.aliquam tranfferasiplatonicam ciuitate cxmfiitues.Erat autem
in media urbe templum lunoni facrumiut ofiendatur ni bil oportere in re
pub.antiquius religione eife • Et quoniam primx in uita cluili przces
funt/utimperium non folum conferueturifcd etiam augeaturmo fuit ab re
templum ipfum lunoniiqux imperiorum dea habeturiomni cultu confcaare
longior fim:at<p etiam minutior/q tantz rei conueniat fi fingula quz in
templo depida erantiquz a regina adminiftrabantur : quz ab opificibus
efiiciebanf idU fiindiusrefetamiMultactiara in Ilionei at^ Didonis
orationecontinentur:plu« ra in congtefTu zneziplurima in conuiuio Si in
coiimdione hofpitalitacis deprz hendasiquibus uita fiatufi^ ciuilis
expnmituriQ^uoniam uero nouerat fapictif fimus uatrs primordia rerum
pub.& imperiorum uirtutibus niti: Veriiep effe Sa« lufiianum illud fi
imperia iifdem artibus retineientur/quibus acquirunturind ef fe tot
mutationes habituras res humanastiedreo primum regis reginzq; congref fum
ateligione/a bberalitate/St abomni genere uirtutum profidfci uult.Srd ita
paulatim in deterius labantur/ut quz pudidflima fuerat mulier/K in re
pub.ad« minifiranda uigiIantiiTima:turpi amore uida in odum lafciuiamip
labat ui« bus omnibus oftenditur q fadle rebus fecundis humanz
mentis a labore in libi« dinem declinent.Q_^uotiiam autem uirtutes tn uiu
fodali potius inchoatz q ab Iblutz funtiHic autem ita de uita duili
agituriut uelit exprimere quod paulo an te dicebam fundameta rerum.p.qux
ex paruis aefeunt/habere meliora initia / q exitus; iccirco reginam a
prindpio in omni re temperatam pofuit:paulo uero po fiea amote infutgente
paulatim ex temperantia in continentiam labitur : pofire» mo uida amore
incontinens iu redditur:ut demum in fummam intemperaiui»
aminddat,/Moueturautemaprindpio Dido/ut znramamet/non solum uittute quam urum
in uita cotemplationi dedita intuemur:Sed iis qux humanis cm tibus non
folum bona uerum etiam fumma bona babentunC^uis enim in ge« neris
nobiliutemiquis formx dignitatemiat^ excellentiamrquis deni^ multo ornatu
infignetn orationem inter fumma non enumaetiCurn in foro/cum in fe
t lo P. Virg.M. Allego* oituhzc BOB fapieBtum ftatcmfed
populari trutina pondereBtarfX^uofliia utro ta uica comuni pmulti
hitcreii quibus cofulroribus utaris.Muiti cnitn aut tnalo exrinplo
motiiaut rorum quos caros habrnt non res fuationibus impui n ad praua
raoum^ snon fuit abfonum ut Didonrm fororis hortatu impudici fadam
inducat.Mifere enim amis mulier plurimu^ iam de eo animi robore rt*
mittens: quod inteperata hadenusapparueratcontinctem in primis uabis qux
ad fotorem facit fefe oftedit;Nam quis amore urgeaiT /atgre quidem/fed
tameilli reftftitiSororis autem oratio ex uita comuni uniuerCi fumif iNon
enim ex philo fophia fumptis argumctationibusifrd aut uoluptate
ppoiitasaut ihcetu earu te* rum quxtantopeietimendxnon funtiniedoiaut fpc
nec firma necfolidapror pofita in fuam fentctiam adducere conaftut deniip
fpem det dubiz meri : foluat qi pudorem.Q_ua quidem re acciditi ut uidam
in incotinentiam probbertt:ln ea uero cum uerfaretunpaulatim impudica confuetudine
eo redada eftsut nulla amplius obflantr pudore furriuum amorem minime
mediteturifed impudenUi ma tffeda turpem libidinem honefto nomine
appellet: In qbus omnibus quid aliud teneat/quid conat' diuinius
poeta/nill ut Didonem grauifTimum nobis ex cmplar ^ponat/quatum
detrimetum iis qui fub imperio luiit j>ueniat/cum prin cipum mentes
pro induftria ac labore luxuria at<pignauiairrepai:lila enim qua:
paulo ante extetnos at<j peregrinos non nili breuiter ac demilTo uultu
alloqueba tut:Cuius religio fumma in deos/liberalitas in
hofpites/cofilium in urbis ex *dv ficmone/iuftitia in fuos ad czlum
ferebat ;qu* in publico nili aut diuiu* aut pu blicz rei caufa cofpici
nefariu facinus putabat. Cuius aius pudore munitus aboi pturbatione liber
pfcuerabatmuc eo furore agitat ut tota urbe ames uaget :aut li domi fine
amato fecorineat ucluti li fola fit/ar^ aboibusdeferta fummomaro*
letabefcat. Publica aut opa ita negligat/ut qu* badenus fua curatfuifip
fupnbust quz fuoyt ciuium labore ac (ludio fumma cum celeritate erigebant
iniicimperfe da interruptatp pendeat; Aeneas aut cuius cdfilium italiam
fibi propofuerat/ue* tum difficultate rerum defatigatus Canhaginem no ut
illic fcdes ponereufed ut claffem reficeret digtefliis fuerat illecebris
Didonis illedus fipofuum ^fiafcmdi abiiat:Nec deefl I uno.Q_u* ne res
tomanz oriantur/ Aenez Didonifi^ coniugi um Carthagine facicdum curet.
Verum cum id fine uenais opera pfia nonpop (et: Venus aut filium non
Carthagine uerfari:(ed in Italiam enauigare cupetihac deam dolis aggtedif
lunoiut quz Catthaginenfiomcaula faceret: eaoia Aenez beneficio fieri
uiderent .Q_uz cum dicit Maro diuina pene lapientia uitam foa
alrmdepingitiinquacumita quidam excelfoanimoucrfenfiut humana cotem
nentes ex hoc primo uirtutum genere paulo pofl in eas uenturi
fmtiquaspurga^ torias appellatiat^ inde ad illas tandem quz funt animi
purgati puenire conten dantitn illecebris rerum terrenaru ita
molliunt" lutczlefhum quas fibi folasppo fuetant/peneobliuifcanf.
Libido enim imperadi Aeneam Didoni coniugete: id aut eft uiru excellete
regno przficere cupit:Sed rem pficere non ualct nifi alfeotv atur eius
amor: Amor autem aiaduertit huiuiccmodi coniudione no Aenez/ftd Didoni
cofuli /no enim animis hotum ad maiota natistfed ipfi impio condodt»
ptzfiat Dobisad uctam fapicmiatn ^ ficild/quam in adioni^ uciDwfcd
- Liber tertius cetum sdtnitiiftratioa (apientibusii deferatur adum
iit de rebus hutnatirs opor trtifta^quauis falia e(recogoofcat:quae
libido regnandi perfuadet tjmen ailin titur;iiuc iam illa inetitusllt
ifiueeorum quibus confulendum cft mifaicordia motus sCcldiratur autem
huiufcemodi matamonium in uenatione:de qua quid femiremptulo ante latis
ut opinor uobisdiludde explicaui:Q^uodaute in fpelunca loco fubtercaneo
conuenerint:quidnam aliud indicare crediderim/ nifi cos qui honores/qui
opes/qui imperia quzrunt intra corporeas caducafc^
tesanimuminclufumgerererCuicdnubio prarter tellurem &lunonem;prxtet ^
nemorum bibitarrices nymphas uides numen nullum afiFuilTe: Q^uz omnia iis
quz de fpelunca diceba apte quadrare uideotunirrentus igitur Didonis amo
K Aeneas abeundi propolitum abiidt:& hieme quam longa eft in fummo
lu<» zu conterere non pudet.Hoc uero quid libi aliud uult nili
egregios quo<^ uiros interdum a redo curfu ambitione aduerti:&
honorum imperii^ uoluptate de« linitos hiemis afperitatem& enauigandi
in italiam dilhculcatcm exhoirefcerc» Q^uapropter nili diuinitusfubuentum
Iit excellentilfimzatc^ immortales bo^ mmumuirtutes tam pemiriofapefte
pereunt; Id ingenii at<^ beneiiciiin Circe fuilTe fcruntxut Vlyxis
fodos in uana monllra tranlFormaret: Illam tamen ica in luam potclhtem
ttaduxifle Vlyxem audimusiut Forma priftina fociis fit relhtu*'
ta.Neccgoid admiratus fuerim.Excello enim animo qui funt corporeas
Iibidi^ ties fadle contcnunt;Q_uin & cos qui illis dediti funt rede
monendo a tanra fer uitute in libertatem uendicant. At luDonemfuperare
ranOimi mortales potuco tunt:Nam qui imperandi cupiditate non
tangiturxeum omnem iam humanitas tem ruperalfe &ad dioinitatem
proxime accemfTe crediderim:Q_^uapropter ena quos in fumma admiratione
habemus: cos ita frangi huiufcemodi cupiditate ui
demusxutrelidauerauictuteinligniaulrtutisueJuti umbram fedentut: Fadle
enim ell Sardanapalli aut Heliogabali molliflimas delitiasacluxum cotenere:
At^ adeo odilTctCum uero nobisaut Alexandrum macedonemtautlulmcz*' larem
proponimus eorum res geftas:in quibus utrum^ a uero cedo^ difcedcre fzpe
uidemustra glonz cupiditate admiramur:ut illud ex Euryde impium oma nmo&
dignum eo rege a quo profertur interdum approbare non dubitemus; putem
uf^ homini conducere li regnandi caufa iu$ uiolet : Q_uz quide res una
mouit poctas/ut Herculem quem fapiente ferunt:&; rebus a fe przclanlTime
ge ftisczlumafiledaircuoluntpriusomniamonllradomaire/qua lunouis
fzuitu amfuperalTelingeceac.Illa enim non mater fed iniuftilTima nouerca
magnord uiioium rede dicitur* Non enim mortaliuroCut plzriq^ credunt }
fed czleftiu rerum cupiditas eas uirtutes parit quibus ad fummum bonum
peruenire licet: (^uor^uide nili placata prius iunone id autem
intelligjmus aid fedara ambi^ dooeallcqui no potuit HercuIes:Q_,uis
igitur hoc Aenz non condonaueritxac potius quis illius no
comifercanliDondu in italiaexillensxtis eoimeft fumaru uirtutu
habitus.fcd in ipfo curriculo ut illhuc^Edfcai:’' adhuc coftitutusiu luno
nis dolis apiat"' :uc matnmoniu cu Didone initu fedibus libi a fatis
cocel&s ppch» nat;& colilio abeudi abiedo arces Carchag^s
fudaretac teda nouare iftituac t pur^ puea^ SC ento lapillis
aon^umtquasqu impetti Uignia funt gelbrc gaudeat: ' In. P.Virg.M.AlIego*Non
eft o LA VRENTI non inqui eft hutnan* itnbedllitatls.red
cmol damfacul»ti«qua tamen condmo noOra arduum-.tatntp «xcelfum tetum
culmen ‘U»**®* BAPTl ST Ai K (imul fuo ordine de reliqui* difpuututui
uidaetut Mani^ hofpes nofter fiuuilTimus tum ex diei fpatio in iis qu*
hai^u* dida effcni civ fum^oitum ex multitudine eorum qux adhuc
dicenda quum lucis effet in ea di fputatione abfuroptum in colligens non
pertmtam in 3uitruauifl'. miuiri:utcontrac6modumual.tudinem<jno(bam^qu.b^^?uidiuapudmeeriris:mibiomnid.ligentu«nfuJendi^!^^^
difputatio longius ptoducaturiAtquiegoitidm.nqmtLAVK£NW^ idem
cenfebaraifed ne tanti uiti oratione moleftii« intapell«em/pudore i^
diebar prxfenim cu te o Manotte tuas partes fuo tepore equide mquit
MariottusiK fimul fua lolita feftiuitate BAPTISTAM manuap prehendem/nos
ad cellulas ubi menfx paratx erant reduxu. rURISrOPHORI LANDINI FLORENTINI
CAMALDVLENSIa vM niivTASvM ^ laVSTREMFEDERlCVM VRBINA- jKSrJbER
^IaRIVS 1N.P. VlRGIUl MARONIS allegorias incipit feliciter, S
Eruenerat iam fuperior libet Inclyte ac InuiiSi^me Fedence in
quotundaro hominum manus 1 qui cum dofli linti dry aiffimi quocp &
haberi 8£ dici uoluntiQ^ui quidem quauis 'de Maronis Aeneide antehac
longe aliter dC fenfiffent/8: pri* 'dicahenticouiai tamen ut puto iis
argumentanonibus : qux I nobis in probamio illius libri expofitx
fuerantimulta in eo F li rnnfcrinta elTe necate non audentiSed ea
huiufcemodi el fe Jowmduntiut non ad ethicen ut nos longa oratione
difputauimus s fed a J IhvSferendafint:ptoferunt 5 ad id qued
defendere cupiunt probandum
fcriptoresquipauloantenoararoxtatcmfueiut minime illiiteratosiqui non J L/indelMos«
acute & doaeinmpretati naturam tetum il is exponi conttn los
inde locos K ac „fpondendum ctnfemus/ut multa in eam qua diA SmriorisquoJdieifermonenosdixifl-ememiniyirgilm
nlura deorum genera inueniffet s confulto ita fcnpfifle fl£ A
^ ;,FMmffeuteademilla& aduitammottfip: 8 Caduimnaturas:Kad
wriuruoluputtm f eferantur.Verum cum confilium mettmij
tcstotafufceftacftnoircuolumusiidcenfco femper ipfo
hn«qu3nf.bie.ration.fcriptotpropomt: ^um
fipttahujomnuiniiriludingttut» ipfcqcquid narrat iqcqd tctninv 1 1 Ir £ I-
8- r K P B-t.-« . Libet ii iuiatnr referat. Hoc oun ita fit
quis non uideat ea quae ille ttadiutamdegett» M damt& ad
fununum bonum acquirendum (^dantia fcripfit no iccirco fcripfiC' B Cuquo
naturz uim ezprimeret.Sed contra cum iugi:perpctua^ oratione ea
pro (eqiutut m quibus & uitia damnet<& uirtutis pulchritudinem
eztoIlat.& ad ue I» riinuefligationem perducat/
nonnullaadiunxifTe&omandi & deledandi cao Ia b qua: fint ab ipfa
phyfice repedta s Q_uz omnia cum non propter fe t fed eoru li quae
dixi caula confaipfetit equis non uidet id fulcepti operis primum efle
feu ^ malis ultimum dicere > quod nos hefiemo fermone perpetuo quodam
filo ita ia intezuimusrut nibilineointerruptumquzn poiTis. Nam ad
idquodaptinci Sh pio przpofituffi cfl omnia deducuntur Si fcquentia iis
quz antecmerunt/uebe menta cobzTcnt:Q_uapropta quz ab iis quorum
audoiitate nituntur/ad pby fictnrclatafuntminime damno. Nam quauisca ne^
multa fmtine^intafc haaliud cz alio pendat > ut non potius membra
quzdam diuulfaequam integrn corpus uideantur t tamen non incommode
traducuntur : ne<j fententiz nofoz ccpognantiScd fac repugnare an plus
apud me reda rado qua iliorum audori^ tas ualebitrprzferdmcumfi audoriute
certandum fit eos proferte poifimus/ quorum fplendoteiiti uclud folis
luce noduz hebetentur : Nam ut omicta eos quos diligendilimus omnium
grammadeorum Seruius fingulos libros in fiogu los huius poctz locos
commemorat: ut taceam quzaMacrobio exceliend inta platonicos
phiiofophotut nihil diam de iisquz&adiuoHieronymo & a di. uo
Augufiino in hanc fententiam apud Maronem interpretantur : nonne e
noftrisOantbcm uirum omni dodnna excultum grauilTimum audorem faabe« mus:
qui eius idneris quo mundum omnem ab imis tartaris ad fuprzmum ufi^
czhimpcragcatiineolibiillum ducem fingit/in quofummum hominis bona
paquitens/miro quodam ingenio uniam Aeneida imitandam proponiciut cu paua
omnino inde excerpae uideatur: nunquam tamen (i diligentius infpicie .
mus ab a difcedat : Nam nonne fiatim a principio ea quz de medio ztatis
tem ) 3ore:quz de fyluatquz de tribus ferisrquz de montis
fublimiiam folis radiis il uftntoconfaipfit:binc omnia funt. Mitto
caetera: quz ita abdita in Oantfais poemate funt:ut non nili a paucis
iifdem^ dodiffimis dcptzhendi pofiint. przponit igitur libi ducem Maronem
in u re quz ad fummum bonum.non au tcmadpbyiiccrpedetifeduideo me nimis
cunofum in eo fuilfe : quod paruo omnino nodo confutari poterat. Quapropter
ego inilitutum repetam . Tu autem indyte atip inuidilTime Fedence ut
cztera fuperiora fic Si ilh quz in ultima quaru diei duputationc
continentur/diligentillime leges . Multa enim illic inuenies propta quz
te cum dTc : qui Si nunc es Si fempet fuifti fummo» pae
lactahacict^norcef^ ex deo confilium tuum fuilfe : quos a primis annia
bpientiz amore flagrans ita te bonarum artium fludiisaddiafti: ut quanto
ta dic tua ztas grauior fitttanto ardentius illis incumbastnam quod
reliqui prin» dpes apprime regium ducunt:ut aut multo odo uanifip ludis
mircelcit:aut au cupiis ucnarionibuf^ oe tempus tcrant:tu ne libero quide
homine nili relaxan dimtaduai aula dignu efle duxiflitred oportac eum qui
aliis imperaturus fit nWB omni dodrina excultu itddaaquq no fibi folatfed
& iis qui fuz fidei co} In. P.Virg.M.AIIegflu mifll rantjK
dum «fit agit «emplo: «dum fapienter inontt pncepto maplo limum prodifft
po(Tit.Q_ui rigis munus clTe ducat non alieno labore ueluri fu cus
inter apes alisfed pro aliorum falute laborare uiinnoaiosabiniuriupro
hibtrr/fceleftorura<j petulantiam compnmeretoibuafe «quum prxbere
curcts Hrc autem folaphilofophia nobis pracftat. Aphilofophia enim
habrmuatui pie uiuamus tui pietatem ocmabhominemuft« ab omni
fcelereabibneaniust b uapropter uere iliud ufurpabat Ariftoteles fe id a
pbilofophia afleculum efle/ Ut ea beneuolens/« cumuolupute
ficerettquzmaliuinlegumatufaccrectv I gunrurtbonis enimCut piato ait)lex
deus eatmalis autsm libido.huiufcctnodi Igitur fludia teita
exculturo/ita omni ex parte expolitum reddiderunt/ut cum a inultis quod
crimen fortunx eft imperiis finibus fupereristiis tamen uirtutibiisi
finequibusnemounquamiedeimperauit/omnesexcedas.Sed cartera omoa quibus ex
mortali humuculo te immotulem ducem reddidifli ad prxfw omit
to>Ptxcipuam autem in mnfaium ac philofophix cultores benignitate
tacinii prxterire nullo modo polTumtium animaduertam te ea in reiure
omnibus prx ferri poffe.Scimus in tata admiratione apud antiquos fuifle
Ptolomxu philadel phum ut ptxclariffimorum faiptorum laudibus etiam poft
tot fiecula florentit fima fama celebretur.Et profedo fingulatis fuit in
eo rege iuftina mitabilifip cie mentia.In te autem militarimec uirtus
illi/nec fortuna unquam drfuinSed nb bil in fuis omnibus aaionibusmagisextolliturtqua
quod regnum fuM libera liffimu oibus litteratis hofpitiu efle uoluerit .
Tantu autem iis qui aliquid fcripfif (ent debere putauittut Demetrio
phalereo no folum philofopbo grauiflimotfed oratori copiofilTimo negocium
dcdentsut fibi ad quin^ faltem milia librorum in fuam bibliothecam
congerenda curaret. Q_ua quidem io re quos furoptus fe cetitttunc optime
conieiSati poterimustcum uidetimus quantu in fola mofaya lege
elaboraueriti ut illam interpretadam ac in grxeam linguam conuenendam
abhebrxisinterprctatetur.Primo enimoesiudzos quifuperionbusbelliscapti in
fuo regno fetuirent diligmter inudligandosiat^ tingulos uicrnis drachmu
redimendos/& in patriam incolumes diraittedosmandauit: quorum numerus
adeo ingens fuinut foluta fint a rege fexcenta ulenu fupta fexaginta milia.
Dtf inde legatos ad Eleazatum iudxorum pontificem uitos sumx audori tatis
mifit Arifteaside quo paulo ante dixi & Andtea
prxfcdumfuuiMifitptxterea men< hm auteam/craterefej ac phialas donaria
in hierofolymitano templo ponendi. Mateiia uero hoium uaforum fuit auri
quinquagintatargenti uetofeptuaginta ulenuigemmatum autem atqj lapillotum
quibus uafa omab dilUnctatp funt/ ad quinm milia adhibuit/qui omnes mira
elfentmagnitudine. Q_ux liberalit« adeo accepta gratacp Eleazaro fuittut duos
ac feptuaginu ftatim ad regem mi' fent i non plxbeos illos quidem/fed ex
principibus dodiflimis ita elrdos/ut ex fingulis tribus fenos fumeret s
qui legem dei in grxeam linguam Ptolotnxo conuerterent. Q^uorfum igitur
hxef Nempe ut intelligant qui diligennus rem confiderauennt
Magnificentiam tuam erga dodrinas noOra tempelb' tt non minorem efle /
quam oLm Ptolomxi fuerit s Hoc enim folis luce cla/ liua apparebit
; Si Imperium Imperio 1 Si Sumptus Sumptibus conferantur. Libtt guattui
nfeaumnonfdlamutiiuerrzxgyptiopulentiitiimum regnum poHidebat/un^
dcaurt argenti^ inaedibilisuisproueDiretired Tyriz quo^ ac phcnictz
tnaxi^ mam partem ucdigalem babcbat.Tuos autem bnes nemo ignorat. Adde
quod quo tempore Ptolomeus regnauit/plurimos A(ia at^ Europa prineipes
habuit • qui poetas t qui pbilofophos/qui oratores/qui hiftoricos benore
opibufi^ bone |^rent:ut & li fuo ingenito (hidio illa faceret magna
tamen cx parte emulatione quadam excitari uidereturme quos opibus
uinccoatxabiifdem huiufcemodi glo tix genere fuperaretur.Tua uero
benignitas in ea tempora ineidir/ur nili ardeUi* tilbmafittfacileczterorumprincipum
auaritia extinguaturxQ^uaproptcr nulla omnino eorum munerum quz in mulas
con fers/gratia noftro fzculo eft bahim' daxinquo neminem reperias ex iis
qui nunc imperat:cu*us exemplo excitari pof» lis.Sed quicqd estes
autemres omnino przcIarifTima/id omnetuo ingenio;'U3^ ^ innata humanitate
cs.Nam ab aliorum moribus procul dircedens/unieum te exemplar
ofiFersrquem & ad fummam liberaliutem czteraf<^ omnes redas adid
aes/&ad ueri inueftigarionem reliqui fcquantur.lta enim uirtuiem adamas:
ut illam non glona dudus/fed eius amore alledus ampledaris.Euenit rame ut
qud admodum umbra corpus (emper fequitur: etiam li id corpus non
quzrarxHc < ua pie iuHe/clementeti^/ac fortiter fada non adumbrata
quzdam & inanisiTed foli da cxprclTa^ gloria fcquatutxScd res
polhilatxutiam ad noftriim heroa rrutrra^ murxin cuius adionibus tu mores
tuos ac uitx inlliiutum facile recognofces.Co ucneramus igitur eodem in
loco bene mane quarta huius difputationis dic. AN ^ cum miro deliderio
BaptiHz fermonem expetere uultu gcftucp fignificarcm^ illexurquz
explicaturus eilet iis quziamdida fuerant commodius annedrrrt: buiuiinodi
difputatiotii fux prindpium adhibuit. Vidimus badenus dodilTimi uiri qua
piudmiia ac animi magnitudine omnibus iis fotdibusxqux a corpore^ ueniunt
fc explicauerit zneasxNamne troiz periret: 8C corporeis uoluptanbus pe
nitusobruerctucmondubitauit exui in altum ferri quis incertus quo fata
ferret: pod hzc thracenfes rapinas uc eas primum cognouit mira celeritate
effugit. Ar« ^ mox in rebus dubiis a fapicnria conlilium coepir :
deceptufi]^ Anchife interprz tatione.Namquz a corpore funt facile
corporea fequunuir.uitam duilem in Oeta fibi propofuit * Sed nec piguit
errore cognito uela uentis iam tertio dare . Delatu!^
mlhropbadasaducrfusharpyarumauaritiam inuidus pugnauit. Nec per medios
hoftes ad Helenum enauigare foimidauit: Prztereoqua prudentia qua animi
przdantia iam ab hcleno dodior reddirus immanitatem cyciopu de<<
ciinauem : qua indudria ac celeritate fcyllz charibdif^ mondra euirauenr :
quo fiudio atramentis ardore defundo iam in licilta parente nauigationem
in lra.< liam rufeeperit. Verum cum lunonis dolis :zoli<^ ac
uentorumuiribus parcis fc non pollet : celTicilIequidim conlilio ad ueri
inucdigationemin aliud trm pusreicdoinaphricam eo animo diuertit: ut quam
primum per tnaris id edap> petitus tempellarem liceret : in Italiam
tenderet • Verum in ditione aduerlilTimz dezconditutus : & amore
Didonis delinitus/Vide quid pTolfit ambitio : quantu ^ ad mentes maximorum
etiam uirorum euertendas ual eat / regnandi i nquam cupiditate dclmitus
is qui reliquos iam perturbationes ac uirufupctauerant di<«
In.P. Virg.M. Allego. uinilTifflumcoafiliatnio Italiam
enauigandiomiiTtttotum^rein eo dednatt ut regnum carthaginmfium
coSabiliret : perrcueraflctcp in errore ni(i acczpifb a Mercurio non
placere loui ur pulchram urbem uxorius extruat . Regni autem & rerum
Tuarum obliuifcatur : Prxcipitur enim homini a fumrno deo ut ad fu« am
originem rcuertiuelitrQ^ux praecepta nobis dodrina quam litteratilTmKv
rum uirorum uel Termonibus uel libris accipimus i facile tradit . Rede igitur
ar« guitur arncM/quod uxods urbis t ea enim eft uita in adione polita
adminifbatio nem TuTcepeiit . Suiautem regni 8c totius contemplationis
qua Tola mentes hu> manz regnant Iit oblitus : Maximei^ hoc urgetur/ut
Ii tantarum rerum gloria ip fum non mouet i Afcanio Taltem
tuerediTuccefloricp Tuo conTulat < cui regnum lulia; t ac romana
tellus debetur: quo in loco quidnam aliud ATcanium intelligcmus nili futuram
ztemami^ uitam: qua: huic breui Atmomentanea; Tuccedit. Nam li dum intra
bzccorpu Tculauer Tanturanimino lhitantisrerum terrenarii illecebris
demulcenturiut carleflium contemplationem de Terant/ memineriot 11 in
futuram uitam uitiotum labe inquinati & nulla dodrina exculti migraaerint foce
ut nulla unquam ueritatis luce illuftren tur: Q uapropter regnabit
Aiani< us:nuIIuT<^Tuoimpecioiiniseritnilieoapatre dmaudecur i futura
enim uita ab hac quam uiuimus ea rationeiquam oftendi iure gigni dicitur
: ab eadem^ li focdida 6i uitiis tenebriTcj inuoluta Iit: tanto bono
denaudatur. Sin contra manebit fcelix at^ a:tcma : Nam Hic
domus xnez totis dominabitur oris. Et nati natorum & qui
nafcentur ab illo: Q_uzquidem mandata cum acczpilTetzneas:quid mirum
li uehementercom< motus Iit : Erat enim in eo animus qui excclTa
Temper TuTpiceret. Ita^ Te tandem excitas cupit qptimum abire: &
terras quamuis dulces relinquere. Alluetusenim poteftatibus at^ imperio
uirfi£ dulcedine captus non line dificultate diTcedit. Sed cum ucrum
bonum ab eo quod falTa opinione bonum putat" diTcetneteptv
tueritiillud tamen anteponit: Cum uero poli diuturnam conTuItationem
inla« lutata inTcia^ Didone diTcederedecemat. Nouerat enim no efle pal Turam
illum diTcedete fi IdlTct/egregie admonet cum ab huiuTcemodi rebus animum
abduce re uolumus non efle molliores animi partes confulendas: Ted clam
illis uela in Ita Itam facienda:Talia enim bzc Tunttut quanto blandius ea
appellemus : quato^ familiarius Talutemus/tanto maiori contumacia aduerTcntur
. Sentit tamen d(v los regina :&iniquo animo fert uita ciuilis a uiro
excellenti deTeritpradcrtitn li non fit alius Tapiens/qui Icxro illius
Tuccedat.binc illz quzrelz nulla libizx znca robolcmfuperciTe.Q^uamobrem
ratio inferior quam mulierem appellari dixi' mus huiuTcemodi
argumentationibus uirum egregium in uita ciuili retinereitt a speculandi
propofito auertete nititur i Primum enim ita urget ut quzrat quo modo eam
deiicrete Tublbncatia qua tam ardenter ametur. Amat enim ucbementer virum
excellentem vita duilis. lllius enim cunfiliis imperia non modo paran
tur/& parta con Teruanfuriuetum etiam augentur. Sed nec illud retinet non Tet'
uate illumlidcm quam dederat. Suavitare enim imperandi iam totum Te admi«
niHtarioni dederat zneasi Q^uio di Te moritiuam Tidc Teipturedocet; Nccinub 1i I I I t t t P u 9 0 9 u n I» P“ ca nii da ttico: iKg da dd od R.! dia b&' ht loj on IBU' «nI 1« tii AV u tua 8“ liii Ml LlOfi Odi nsilii ntoi iU IIlBl' lO* loli
niii jA«< Dlli tffll*' yb BD^ a<? J»!*Libo
gimttu to alito eucf UKloIcb Namdcflituta a uimite agendi facultas pereat
necefle cft: Dctcnetezdif&cukate hiemalis navigationis. (^uare
(Tgnifiantut labores ma^ jdmi t quos (i in Italiam uenite uolumus
fubituri fumus.pofiremo in hoc uche>< mentet mlifiit/li reuotetetur
ad Ttinam Bl ad uitam uoluptuol^ t non tamen illi efle concedendum: ut
honores relinqueret t multo autem minus cum loca fi bi incognita petat t
nondum enim nouerat Ipeculandi uitam.Dcmum ad
c6mi< fetarionemconuer{alachriinaseffundit.connubium, incoeptum ad
memoriam reducit . Q^uicquid fuaue oUm a fe acczpiflict exprobat:& ne
domum labent em dcioatobuftatur. Pofluntenim uchementercommoueri mitiora
ingcniaicuia parcntes/cum liberi aattiif (anguine coniundi/cum amici/cum
patM ne dcfci' ratrogantrne incoeptam fcxictatem relinquat przfertim cum
uer^umfitineim perium a bonis uiris defiitutum/aut Pigmaleonis
auaritiaiaut larbc tyram*de in« uadaf .Q^uodtunemagu ucnoemur cum alius
(apies qui (ibi fucceclat no telin quaf sQuz quidem omnia cum rerum
agedatum rado animis noSris obiidatr non pollumus non uebemeto
comoueriiSuccurnt enim platonicum illud quo quttum generi humano
debramus/grauifiimeadmonetiut humanitate eruere uideamur/fi humani
focietatedeferamusiucru cum aladuettatmagnus uir men tem fola eficiqua
boies fumus; ea no agendo fed cognoiicedo pcrhdrid^ louis
pcaneptucfieimotusmanetiat obnixus curas fub corde prraut.habet aut
quo|> pofitu opnme tueri poiTittNon enim inficiaf bene ^meriti ciTe
reginam. Quis enim no uideat magna humanx hnbecillitad adiumeta ab hcK
uitx genere fue* nirc:(^um BC polliceffe illius recordaturu dum fpintus
hos reget attus:Nam eu derua abfoludflimu appellabimus:qui iu in
fpecmadone dum uiuit uetfef : ut uicifliW cum ccs poftulat agat.Etgo no
fugit a uita agedi < fed inde recedit: qa cu ea no cotraxerat
matriffioniu.Non enim nati fumus ut drea mortalia uerfemur: illif{^
coniugamur.Sed neceiCtatis caufa efi illis in(iftcdum:ut tanta opere impd
damus:quantnad fodctatcconfcruandam fat fit:quaptopter (i Dido Carthagine
deledac :hoc autem efifi in adione inferior rado libenter uerfaf liceat: fit
fuperi^ ori Italia dclcdan poflem mulca ciufdcm otadonis ad eadem
fentendam trilTa^ ce. Sed fit aliquid ex mera hiftoda didumiRcIiqua ueto
qux ad plurimos uerfus dicunmt:eam uhn babet/ut libidinofum K corruptum
amorem detefienf :at^ tantxfceminx grauifiimocxcmplo nosadmooeat:ut tam
mrpem/tam pctnitio.« (am pefie fugiamus:comode aut eunda qux a PauEmia in
platonis fympofio de tutpi amore dida funtiad bde locum ttan(Feremus:ex
quibus pauca qux a nobis cum de Paride uerba fcdmus dida funt : memoria
(i repeteris intelligeris umSu mum effe Ptoperrianum illudiDurius in
terris nihil efi quod uiuat amate .Q^d* autem magno pedore curas
pcrCmfcrit xneas:fit tamen mens immota man ferit/ oftendic uirum qui
deorum prxeepris parete deacuerittiam ab inconrinenria in quam Didonis
illecebris ptol^fus fuerat/ad continendam redi(rc:tt quis amore
urgetetuntamen hone&umuoIuptariprxpofui(re.Oidonis ueto interitus
nobis pcrfpicue oflendit perire ncceffe c& eas res publicas qux a
fapientibua deferanf. Non tamen aberrabimus fi amandum at^ amentium
furorem cxtrcmainij de* f^aarionem huiulcemodi exde oilendi putemus.
Aeneas igitur deorum admi}« 1 ti In. P.Virg M. Allego»
nitu in Italiam enaiugat. Verum infurgente uentopt u! palinurus nauis
gubertia tor negat ea tcpeftate Italiam peQ poiTc.anenticur zneasiut in
Sidliam in qua in fula extindus parens nondum debitis exequi is
oraatusiacebat/dcfledat. ^uo in loco quid fibi palinurusuelitline
ncgocioex iisquz de illo paulo fupra expt’ fi cogDolcerepotcttsicum enim
huiufcemodi appetitus facile pturbationib^ob tuar' inon modo a tedo cuifu
auertic' :fed znea( haec aut excelleris uiri mens eft} pctixpc infuam femetiam
trahiteut ad patre» hanc autem imbecillitatem quama corpore cotrahit aius
iam ciTe diximustbeet intelligere ad patrem inq/quis iam de fundum
redeat»(i uero ad memoriam ea teuocaueris qua: de ficilia lam diximux non
ab re cftipfistroianisiut in eam infulam redeaaundebreuifiima (it in
lulia nauigatio»Poeta tamen cuius cofiliumefi no folii ut grauiffimas res
j>ferat:fedil Iaauatiaiocudiutciuafpergat:uttcdiumtrifiitia« pfundarum
rerum comites penitus amoueat/uaria ludopt genera interponit.Hzc igit' iu
adminiriobantut abznea ut paulo poft oibus ablolutisin Italiam elfct
foluturus.luno uerocui^in troianos o^um/nec ulla calamitas/ncc tpis
diuturnitas explere poterat : qa quo illosltaliz
j>pinquiorcscerneret:eomagisaccenderet' oblatam occafionem non 5
rztermittit:Cum enim feorfum a uiris imbecille mulierum genus deliderio
ta< em quiefcedi mcedius cofpicare^ pa irim illis ut naucs incedat
pfuaden Q_uz qdem (ic accipiteirerum terrenarum cupiditas no uiros/nam
pars fupior rationis non facile his rebus frangit' :fed ipfam inferiotenr
tonem a fupiori dUluudam p fuadetiut rerum magnatum ^poficotcicdo tedium
longioris nauigationisrefii giaud^ubieficonfidcaCiMuUetcsigit quibus
inglorium odumlongccarius (iu q honelius labor prijtiio ambiguz
miferuminter amorem pizfenris tertz fatifq| uocatia regni malignis mare
oculis ifpiciut.Namcum ratio tnfmocquzafupe* tiocipfuaU illam ad quxqj
xgregij Tequit' nuceaabfentepaularimfenfuumiiiei cebris cncruac' idoncc
tadtm uidi fc iliupi potefiati pmittat.Naucs igi^ mulieres
inwcndioafrumeicaduriunt.Hoccumdicicportauolutatcquz ad res magnas,
ferebatur incendiocupidiutum perire o(lcdit:pen(rrtauttoticlanisnifi
Eumci Ius piculum (fatim ad zn eam reiuliffeciErat enim Eumelus uir ad
mulierum cu fiodiam telidusiNam huic parti inferioti metis acerrimus qdam
cofeietiz remoc fus/cui bonaceda^ cuiz fimp funt ftmp adcfiiHzcgtzce
fynderelis didturuis (.nobis ingenita qua animus Sc ad bonefta crigiturtK
a turpibus tefugit»Hacau lem nomen ipfum uii i ajpertc demondrat; enim boni
cura facir leinterptabimr»Hicigit^Iapfaiam in facinus muKere
temaduitutefcrt:Q_uo nuncio percepto primus Afeanius ad iiaues eripiendas
aduolat : Afcanius autem celer robuduli^ magno animo prxditus
Aen»iiliuscft:quemiuceiatetptc tari licet uigotem quendam ex ip(j mente
natum : Hic autem nullo tenore pto liibemr qum contra pericula pnmus
feratur : Sequuntur reliqui t fed io primis zncas : At mulieres uiris
cogitis incoepti poenicet t A uiro enim feiunda muli* er aduerfus
appetitum minime repugnat <Q_uod (i tutfus uiro coniungattirt iam
robufbor fada/ SC ueluti e tenebris erepta tum demum acata iam cetatt/Sl
a lunonedcIuCam e(fe dolet pudet^: Non tamen incendium facile tolli^a
Nam optusalunoaeappeunuiacop^cueut ut uoluntatcmsquae, nobis ad
(uo»; tti «di r S 5 1? S B jr 3 .te e Liber quarttu
inutn bonum euehit/omnino perdat:fir^ mifera in bomine diftradio t eu
atio ratio dutat:aIio appetitus rapiat i Q^uo in loco cum mms noRra fe
tanto cer« tamini imparem cognofcattnititur illa quidem fuis uinbus/fed
limul etiam di uinum auxilium implorat id autem impetrare meretur. Nam
qui ita deu prae atur/utiaterimipfe quoad ualeat libi non delinis adeo
minime derenc.Nam quodaSaluRiofcribiturnecprzcibusnec fuppliciis
mulieribus auxilia deo« cum pararitrededidumell.Non enim inerti ac
delidi/ K qui in fummam rr^ tum defperationem prolapfus nihil contra
pericula parat auxiliatur deus. At qui magno aduetfus difih^ltatea animo
infurgit:qui nihil inaufum: nihil in« tentatumrelinquitiquincc periculis
terreturmec laboribus torpelattis profo* do fe dignum f^tcuius S dii d
homines commirereantur.Q_uapropter fapi« enter Aeneas ciun nec uires
beroumtnec aquarum uis infufa prodelTrt: ad prx*
cesconucrtiturtauxilio^impetratotcum iam quatuor naufsaiTumpraeeirentt
teliquz ab incendio feruantunCum autem naurs ad totam turbam tranfuehen
dam deeflimt terat fenis nautz conliliumutimbeallior turba in Sicilia
reiin' quctctursutbfm illis habitanda conderctur:hoc confilium oraculum
paternum louis enim iulfu locutus cR patens/ex ancipiti ratum hrmumt^
rcddidit:Q_ue iocum nili uos aliter cenrcatis/itaintcrpreubimoi. Ad
diuinarum rerum fpecuo lationem fola mens omni uirtutum robore iam
fuffulta acceditiReliquzenim animi uires quz imbecilliores funt naues/illz
enim fune uoluntas/quibus illuc ucbantur incendio
amifcrc:Q_uaproptcrreuocanda cR mens a frafibusihocau tem confilium ab.
eo uiroprohcifciturtcuimagiRra Pallas fueritteR enim a fapi entu dodus :
Approbatur autem ab Anchife fed iam fcpulto; Nam qui a ra« bonetamfubadiruntfcnrus/facilein
eius dicionem conccdunr/ przfemm lo> ue iu iubencctconuertutur^ in
rationem hoc ordinc/ut ratio ipfa etiam fupeno
remlocumarcendensafFiciacurintellcdus:llleautem£(iprein altiorem gradu
cuadens intclligcntia redditur. AR intelligentia in deum comutatur .
Hmuic&> modi igitur cofilio at^ oraculo utimrAenas.Non tamen prius
e lidlia foluict qua lacta pie tite faaatinorat enim qua laboriofitquiip
periculis plena lic h\u iuCccmodi nauigaboiNoueratquancz molis erat
romanam condere gentetSed nec Venus quicqui interea
remittitiquinuehementer pro faluce hlii anxia oia drcufpiciat.ln primis
autem Neptunum rogattac mare tranquillum reddauNa amor quo ad fummum
bonum rapimur fupiemam in bomine rationem horta tur/ut appetitum m fua
poteRate cemtineat: N epcun us om nia benign illima pol bcctuciNihii enim
denegat ipfa mens amori ad redum eam excitanti : Neqi ell ptocula
ratione/quod oRendat Venerema fuo regnoottamtlTetEReaim Ne« ptuncu regnum
marciquod quidem ducn ab illo regitur/ctanquillu eR. In hoc czii uitilia
lada dum agitanturifpumam gignunt ex qua oritur Venus . Supte« ma ergo
ratio appetitum intra fe continens in quem uiriliaczliiiccirco decide»,
re didmus/quia in appetit um a ratione adminiihatum uls quzdam cziitus ca
dittquz in eo agitata diuinarum rerum amorem proaeat t uod autem
oes prztcr unum Pahnuru incol umes in italiam peruenturos promittit i no ne
cz oxtdia^ut aiunt gtaxi^philofopbia erutu cR: Nam clalli in Italiam
tendenti In. P.Vtrg.M.AIl(go. flurimeaductbtut
appetitus /qiii a folofenAi profedustulul altum (iifpic^ Q_uapropter
rquadiu claiG prxfuitinunquam ttaliam tangere potuerunt Tnv unuSedundema
Tomno opptcfTus mari cztinguitur.Nam poftquam rado acarime ad
contemplationem conuettitur:& caducorum curam reliquit : Nt< hil
ex iis qux fenTum petmuicere pofltnt/appetiturt Vnde uniuetfus Uleappcdi»
tuspaulatimiapituctac fopmisezdnguitur: CIalCsautcmcnamline fuoguber
tutore tuta fcrtuc Neptuni promiiTis donec ad fyrenum fcopuJos
deueniretrlbi autem fluitate ciuncarpiiTet Aeneas temonem capiens nauem
in undis noAur« nistezitiNam animus nofler cum iam fibiitaliam propofucrit
fccurus fertur/ donec in uoluptatumfcopulos incidattTuncetum temonem
capiat oportet ap pedtus tationalisTquiaduerfantibusuoluptatibuscaiitra
obflfismEztmdoigw cur Palinuro Aeneas tandem poli diuturnos enores
euboids allabitur oris .In iuliam enim ucntumcll ad quam gubernatore
Palinuro nunquam perueiuflet 1 ingrefli funt Jn quo non idem curnit quod
in cartbagine Aeneasslam portum ingrefli funt :In quo non idem
curnit quod in cartbagine a portu euenifleoflcndit poeta. Ulic
enimnaues'ficli procul a rabiat fluduum in tranquillo efle uideremurmulla
tamc nant anchora alligatx.Q uapropter qua quam non omnino ucxabantuRin
aliquo tamen erant motu.1^ autem anebo ra fundabat naucs: quo oflenditur
eas ueluti fundamento nhex lint flabiles hx« rcrcoportere.Summum enim
illud bonum:quod in negociola & duiliuita a philoiophis ponitur: 8t
flinbuiufcemodireceflupofltumflt/utprocuia fotttu nx procellis uirtutum
benefido abflc:non tamen ita conflabilitum cfltquin la« bcfadan
poflit:Q_ui autem oi.'':} vum rerum libi contemplationem finem lU timum
propofuit/bic iu in tuto ac folido rationes fuascollocauit:ut nulla ui di
tnouere poirit.Nam aduentusin italiam oflendit habitum uirtutum um
con<< tradumiu:utaptopoiitauitanonfit difcefliirus Aeneas/non tame
earum uit tutumtquxfuntanimiiampurgatitNamnihil fibi diffidle iam
proponeretur/ fed earum quas dicunt purgatorias.Q^uod quidem propolitum
iam conflabis litum fortitudo fit animi robur non deferitinec ipfe ardor
rd aggrediendx. Q^uam quidem rem tunc ezpnmit cum ait luuenum manus
emicat ardens Lic tus in befpcrium: Manus enim indicat omnes animi uires
cocurreretqux e me« dio iam fublato Palinuro fefe menti ultro
fubieceranti quod autem ardens fit concurfus uehemcntiamindicatiNe^ ab te
efl quod fit manus iuucnum.Ofle dit enim animi bene affedi uires nnllo
fenio in quo tedium torpor^ ficigna«. uia efle (olet unquam
aflid:Q_uapropter non lento palTu rem agit/fed emican Verum quia dum in
corpore ezulat animus:quauis fe totum fpecuiatioai dc^ dati non potefl
tamen non curare neceflariat ea’ enumerat poeta quxnonuo luptatem fenfus:
fed incolumitatem uitx rcfpiciant. Nam quxnt parsfemi
nafiamisObfttuIainuenisfilicupatsdela feratu Teda rapit filuasinucta^ flu
mina moftratiinferiorcs igitur animi uires bxcagut. Aeneas aut quo nobis m&
exprimit" i Arces quibus altus Apollo prxfidctsHotridxip procul feaeta
fybil» kc: Antru imane petitt(^uod cu fadtad rea diutnas cdtcpladas erigit
t Na qui aliquid figurarum inuolucris fcribuntibuiufce modi rpeculatioes per
excelfu loca aprimBt. yadc illud e p(almoi(^uis afccdct ia mdee duif A et
illud = b Sj K n n i» la Ap OL ttl d bt ttn
lut % dt. QURI bii iO
ni£ fid «w Ots sed| iae N «IK Liber
quartus Nam cum in ui^tum in contemplatione pofitarum finis uerum
fit/ quo fapi^ Clite efficimurtreiSe omnino folem huic rpeculationi
mopolicumeflediiitNa ut nox tenebrz infcitiam arguunt :ita lucis dator
fol ueriratcm fignificat: Cuius exemplum fecutus ciuis noder Damhes cum ab
ignorarione rerum ad ue- ri cognitionem progrefiiim ponit fe ez node
filua<]^egreflum montem cuius iu ga foleilluilrata fint/afcendere
reflatur. Addit pratterea antrum ibi efle Sybii« be magnam cui mentem
animum^ Delius infpitac uates aperitrp futura. (^u£ quidem locum ut
diluddius-ezpritnamus pauca prius de Sybilla percurr^mt mox ad rem de qua
agitur redibo. Conflat igimt Sybillasapud grzcoseas mu» iieres urxitati
folitas t qtiz furore diuinb afflatz futura praedicerent t Eft autem
Sybilla quafi id enim efl dei fentennatquoniam dei conlilium fitn
tuitura & enim aeoles deum dicunt : quem reliqui graeci nom^
nanttQ_uanquam (iimtquiuelint fatidicam muiiaem apud Ociphos bocno
mine appellatamta qua demdereliquz futurorum confcia: cognommatz linn
faas exuariis regionibus' decem fuifle colligit. M. Vano :Q_uas ego omnes
fi quid ad rem pertinacatbitearertfuo ordine proiequi non grauarenSed ut
ui> ^.nihil ad hoc de quo nunc agitur iQ^uamobccm fatis fuerit uidifle
Sybil lam facile rerum diuinarumdoi^inam interprztari.hzc autem nobis ca
qux Apollini nota fumifine mendacio przdicitt Nam fapientiam uericatcmtp
ape» m.quodueto antium ponitiexprimic ucritatem m obfcuto latete .
Nrtpreme» tetriuiz lucos Apollini templo adiungit: luna enim corpulenta
uebementei cflifiC reliquis lyderibus inferior . Q_uapropca rerum
humanarum quz diuinis longe inferiores funt/figuram iutc habdne : 1 lia
enim lucis przpouitur: res au» tcmhumanzin fylua obrutzfunt: non enim
corpore carent:& utiuna afoie lumen recipit t ita Si ipfz quiequid
habent a diuinis habent . Collige ergo cu lapientia non modo
diuiturumterum/fcd etiam humanarum faentialit re» de Apollinis templo
Dianz lucum adiungi. Templum dtumatum rerum lo»cus efl. fylua
macenanotat.Templum laoius zdiheium deo (aaumiin quo res
fdlasdiuinasagimustab reliquis abftinemus t quoniam cum illud mgrcdi»
muria negoaisceflamustfiC foli contemplationi incumbimus.Trmplum aute a
Ozdalo conditum ponit t Q^uid igitui aliud efl zdilicare templum Apollini
nifi reddere fe idoneum ad fapientiam capiendam.Q_uod quidem tunc dcnii^
fadmusicum ab omni corporea labe purum animum ad contemplanda diuina
tranfferimus.hocautem Ozdalusuiromnibusoptimisaitibusinflrudus fa»
cuepotefliin quo tantum ingenium fucriciut Si DzdaIaCitce& tellus
dzdala a poetis tunc maxime dicatuticum maximum ingenium
oflendercuolunt.Ve» tutantem non mariinontetrainec ad meridiem infimam
nobis mudi panemt fcd per fublimem acrem ad reptetrionemiNibil enim
humileinihil terrenum fit in camente/quz ad fpecuUtionem fertur I fed ad
fublimia czlefliai]p engaturt Efl autem primus fpeculandi ingteiTus a
uitiis. primam enim cogniuonem efie oportet circa mali naturam /ut
ualcamus ab eo abAinere. Nam nifi ex» piati a uitiis fuerimus i nunquam
diuina attingemus t Vt enim idem fiepu ut icfctam/ negat Dauid
quenquamalcendctepoflc in montem domini/nifi
Ia.P.Virg-M.AlIfgo. cum qui fit innoces ihanibus 8C mudo
corde:(^uapp in foribus per qmt etat in templum aditus homicidiu
Androgei: Adulterium Pafipbzs& Icari faftus i|>onic .Hzc ergo a
principio fpeculatur Aeneas.In uitiorutn autem cognitione 'non cft
diutius imoradu.Nam Si (latim ea noile oportet: & ftatim a noris
dilco dere.Rede igitur^ fjrbillaquaiamprarmilTus Acatesacceriieratadmonef
Acne asine in tali fpedaculo Idgius tepus cdterat:Nam excellentiores
quoep uiri uad is uoluptatu illecebris alledi labercnt :hi(i.eoru cura BC
Ihidio eam elTent adrpd dodrinamtqua monemur ut paululu illud uitae ac temporis:quod
humanz ra dcoDccfrum eft non nili magnis & excellis rebus conterendii
ducamus.Hocau tem inter egregiu uiru ac ftuliumintere&.Nam alter li
femel labatur/non facile furiet Altet liquonia corpore uac
animuspauluquandotpeuia deflexerit/ flattm adeft ab Achate accerlita
fjbillatquzadredudeducattledmira profedo poetz ingeniu:qui fapientiamipGm
Tua fapientia nos edocettprima ita<^ dodri na ea efl ut purgati
mundicp templum ingrediamur : Deinde oflenditquiuis mens nollra quzdam
Tua SC a fummo deo fibi indiU ui cognofeere poflit:eogai tionem tamen
diuinarum retum huiufcemodi eflexut nili diuino lumine extu
.tusillulVremur:illamcondperenonpoirimus:Hoccum fit/quis non uidetprz
cibus & ficrificus rem efle a deo petendam: Elegit autem feptem
hoftiastquonii Teptenarium numerum multi pnilofophorum perfediflimum
putauenmttpro ptereatp fapientiz attribuitur:8t uirgo ac pallas
appellatur: Sacrificat igitur fepte qmrapientiioptat:Ne(p temere didum
efl quo late ducut aditus cctu:hoftiace tum:per aditas enim multiplicem
uariamt^ dodrinam expim!t:quaad fapien riam ducamuriHoQiiueroquz quidem
uenientibus:refe opponunt non pat uam in re difficultatem
oflenduntiHateautem non ante patebut : quam id prz dbus ab imo pedore
fufls impetrauerimus.Sumo enim animi ardore & mente illi penitus
deuota fapientia acquiritur: Vt aute Gpientiam aflequamuri promit tit le
templu Pbcebo & Dianz fadurum:fed de templo paulo fupra dixi:huc ue
to quare illud de folido mamiote Fadurum fe pollicetur / breuibus expediam:
marmor res dura ell:ac mirus in eo 6i candor & fplrndor apparet: Vnde ab
eo quod gratei fplendere dicunt nomen fumpflt: C^uz omnia in
ea mente/quz ad Ipcculationem erigitur infint nrcefle eft:Brit cn m
folida ut quemadmodum inunis fludibus fua duririz ita obfllHt feopu^ lusutipfe
integer maneat/illi ucto illidantur:difruprir<^/rclidant:ltcmens nui
lis perturbation bus frangaturifed illas frangat: dicimus przterea aliquid ez
fo lido marmore clTe.cumnon marmoreis cruftis externe exornatum fit ; fed
tota cx tnaimore conftet.O uapropter 8i buiurcemodi mentem efle
oportetiut no figna quzdam quibumpientiam exoptet przfeTat:rcd tota
exardefcensilli fetn per incumbanErit itidem fummo candore nitens: ut
nulla fit corporea labe polluta.Q_uo enim padofplendore carere poflit ea
meos cum fapimtiam na qua perceptura fit:nifi prius multis dodrinis
illuflrec%Teplu uero Pbcebo Dia nzip ponir:qa^ut mo diceba ^ &
diuinayt & buanape reru cognitio cft rapictia Dies aut fcftosfoli Apollini
illituit:qauenis cultus foKs diuinis debctur.polfi ctt & S jbilJz
penetndia: in qbus fuz fortes 8C arcana codanf : Na nifi alta totte I^bct
giMrtus. rcpofita maneant ea qax per dodnnam acquirimus 'ueluti rianai puelfa;
alHduo labonbimus:ne<p unquam pcrforarum uas adimplere
uaI(bimus:Q_uapr(v pter 6C uiri ledi fortibus przponendi funt t Nam
excellentes funt uires animi ad bbendx : quibusiqux didicerimus optime
mandentur : Curadum autem in pri Inis ne refponla frondibus (dipta
tradantur: Sed ore pronuntient ur:Non enim JibcUisfiCcommcnUrioIi SCTedmdafuntquzaddircimus:fed
menti: Ne^ ruro (iuleuium flultilium^ rerum eQ quaerenda dodrina ueluti
qui in dialedicorum fuperfluis apdunculis/ac uanis
amphibologiis/autlnanibus fabellis omne pen e tempusterunt: Vereautem
illud didumeftfybillam circa principiuih nondum pbcebi padentem eflie :
Ea enim principium nondum pheebi patientem effe: Ea enim quz cognitu
difficillima funt/fuidpete non ualent noftra ingeniola donec Apollonis
enim eff neritas^nos componat : ea enim inffrudis omnia Facilia redo •duntut
: Sed audi quid dicat Ijbilla . O tandem magnis pelagi defunde periclis:
Sed toris grauiora manent : Nihil grauius nihil uerius : Q_ui enim omiffa
ciuili uitaad eam peruenitiquz in contemplandis rebuspolitaeffiille
relido pelago^ io contipentem fefe recepit : Vita enim quz in adionibus
uerfatur : fluduati ma ti fimiliima eff : Videmus enim omnia quz in ea
aguntur : fottunz procellis ezo polita effe : Contemplatio autem cum ad
ea uertatup : quz eodem femper fe mo do habent: ne^ in intoitum cadunt in
folido hzret : Magnis itacp pelagi pericuo lisiadatus eft zneas prius
quam longis erroribus circumadus diuerfa horrendao ^ maris monffra uitare
potuerit: Diffeile enim fuit ut troianum incendium ino columis ruaderet :
laborioTum ut audelitate atep auaritia deterritus e tbracia abi ret :
Incommodum ut ambiguitate oraculi deceptus in trinacenfem pedem incio
deret . Q_uisautem barpyarum foedam illuuiem non abhomineturrQ_uamuis
iter ad Helenum per medios hofies non formidet . Q_uh cyclopum immanitao
tenonconffematurrMariaautemlicula ita caute obire: utneue Ttyllam neue
•baiybdim conrpidati^^ tempeftati a lunone zolo^ ezeitatz ita refidere:ne
nau &agium faciat non hominis fed herois eff . prztereo quz in fodis
in africano Kt« tore paffus eff : quas ilh fraudes luno parauerit : quo
amoris uinculo Dido illiga •erit : prztereo quz in Sidlia ex incendio
nauium damna acczperit: uz om« nia gtauia ac tunc periculis plena
cum perpeffus fuerit: quo nammodoin Italia duriora paffurus eff : Non
tamen procul a uero aberat fybilla : Cum enim a com muniuitaac hominum
coetu te in folitudinem ucndicaueris : tunc acriores quaf dam uduti faces
carum rcrum/quas rcliquiffi memoria admouet : & illarum de Gdepo
acenimi infurgunt morius : At^ cum obliuioni iam eam mandaffe puta tnus :
tum maxime illuum ingeminant curz : rurfufip refurgens fzuit amor':ut
nili firmiffimaancbotaiuuesfundauerit/uideatur in Afncamrenaaigaturuve
Non enim 6C li firmum fit propofitum minime inde difccderc: tamen ceffat
ccr« tamen cum aliud illecebrzolimadzuitz aliud przfens confiliumfuadeat.
Ve» tutin Italiam Aeneas:uenim eo uimitumgcnerequipurgatoriz appellantur
a quibus antea quam penitus expiau fit mens necefle eff ut acerrimum
beliu quc« adsetidum nofftt aiunt fpiritus aduerfus carnem gerat : Nam
quanto magis hzc l^ta humanam imbedllitatem funt: tantnniainri
pcriculoaggtcdimUC.Hu<i tn la. P.Virg.M^AHcgOf
inaHani enim rodctitemcum deferimus/aut in ferinam lutam per tninian
U atram bilem degeneramuc/aut heroico robore fupra hominem
erigiimjt.Q_ua< propter intenogatus quidam qui in littore
folusuagabaturquicum loquerctot rcrpondi(Tet<p mecuni loquor* Atqui
uide inquit ille ut cum bono homine 1» quaris/& rede quidem t Non
enhn facile Sicipionem inueniaaqui nunquam mi nus folua elTet quam cum
folui • propter huiufccraodi igitur difficultates ah Sj> bilJa fore/ut
cum in Italiam uenerint dardanida;/ii enim uiri tegregii funt / nolA
uenilTc. Inuenientenimaliumin latio Achillem.inuenientK lunonemaquV bus
non mediocriter uezandi Hnt i Ambitio enim quz ut in lunone ita ia bello
cofo uiro etprimitur quemadmodum troia; & uoluptati aduerfabatui i fic
& fpc culationi quam fibi przfcrri egre patitur aduerfabitur : Eft
autem ex dea natui achillcs / quia diuiiu quxdamgenerolitas in animis
noftnsiolita eft t qiuenctni ni parere i omnibus autem imperare uclit
> Hzc ft reda ratione excolatur/ueram fortitudinem parit i lin autem
contra rationem elata omnia in fuam libidinem coouertere
tenet/ambitionein creat t & regnandi cupiditatem t Q^uaproptet tt ft
uehementer degenerer a dea tamen id eft adiuina animi ui origiuem
du.itsNd autem eatolum t quz ucnturanntptzdicitSfbilla : uerum ftcaufain
tantorum malorum profert: Ait cnimuttroiamcuertuntnuptiz mulieris eatdnz:
lic ft in Italia lauinz coniugium bellum acerrimum concitabit t
coniungitur cztemz mulieri animus nofter cum omilla uirtute rebus caducis
deledatur . Q^uapio* pter uoluptas paridis troiam euertit . In Italia
uero cum nondum cupidiutem tc rum humanarum deponere ualeat animus bella
excitantur afpcta illa quidem / fed non in quibus ueluti apud troiam ruocumbatt
fed unde uidor triumphafiy parto regno redeat . Accommodate ut mihi
uidentur omnia hzc inquitAt illud quare didum fit : fed npn ueniiTc ualcnt non
intelligo.NI (i eum qui iam ad fpeculationem peruencrit firmo iam
propolito ce oportet cur illum peenitentia fequatur non uideo t Non enim
infiaot uirum etiam grauem in huiufermodi ftabili propoliro acri fzpe
morfu affici : non tamen ita magnoaf fici puto ut ad pmnitentiam
redigatur i nifi fortalTe hoc didum fu : ut multa per quandam hipctbolcm
t (icenim grzci rupcriationcin appellant / dici confueuere ut ex iis
unbis quibus peenitentia (ignificatur non peenitentiam fed fumma diC>
ficultatemoftcndcreti Ifthuc ipfum inquit BAPTi&TA : uerum uidramus
qd rerpondeat zneas : nempe id quod qui uera dodrina imbuti fuot femper
obfer^ uant : Ait enim fe ita ptzmeditaium uenifle : ut antea fecum animo
omnia euoi uerit . uz enim ante a nobis ptouifa funt ea id fpatium
przbenr/ut antea qui ucniant uel cuitari poflint uel faltem ne
tantum Izdant prouideri : Cum animus ipfefuasuires colligens
tobuftioraduerfus difficuitates reddatur: Nam queme admodum ii boftes
incautos ac nihil tale metuentes inuadamus quamuis 81 Itv co & numero
auperiores flnt facile illos fuperamus. Contra uero uel exiguz eo* piz ii
fpatium ad ea paranda affit: quz prziio conducant lulidii Timo ezcrcitiB
pares fzpe inueniunturific & nos finobifcum cogitauerimus/ quamuis
multa per corporis cogitationem accidere pofTint/ animos tamen czleM
femine oetoa atfi focotdi» ignauixy Ide dederint: aullis laboribus t
nullis
difticultatibiill ul iJi M Stl eu P ffli «I IV.N a id ni ifi m M k d Pf Liber
quartus nuDa foitunz iniutia modo uelintimpediri pofle quo minus in
originem fuam redeant inui<3i ab omni perturbationum prxiio euademus .
Ha»; fecum cu iam diumcditatuseffetarneasnonpetitnuncdemumiila doceri. Verum
in limine contemplandarum rerum poAtus ad inferos deduci orat. Quo in
loco quid G* bi ueiit amez ad infaos dcfcenfus conabor paucis abfoluere i
Si pnus quid infer bus fit : Si quot modis ad eum deficendatur breuiter
demonfhaueto : Infemiim igitur plurimis ante chriQianum nomen fzculis no
folumhebrziuerum etiam cgyptii pofuerunt . Q_uz autem poft chtiftum natu
noftra religio fine ulla dubitatione de inferis de^ peenis t quas apud inferos
nocentutn animz luunt / af> firmat ea omnia ab hebrzis ni fallor
accaqrimus.Q^uz uero zgyptiorum monu mentis mandata funt ea primus ad
grzcos tranftulit Orpheus . Hzc deinde fu« is figmentis auxerut plaui^ ez
grzcorum poetis / quorum principes Homerum H^odumtEurypidem t
Arifiophanemm e(Tc uidemus . Q_uos deinde fecuti e nofirisfuntptzter
Maronem / Ouidius mlmonenfis/ biex bifpania Statius Pa» piniusacLucanus :
&quem plzri^ florenrinum fuilfe putant Claudianus: At ii omnes inferomm
ledes fubterraneas elTe & ad cctrum ufip : qui locus in fpe ta
infimus efi portendi aedidetunt: Q_uapropter fpeluncas quafdam ac terrx
hiatus przfemm fi ignem fumum ue euomant ingrmum ad inferos n5 line mu
liercularum ac rotius uulgi fummo afTenfu fabulati funt . Nam & in laconica
re< gionc Tenanis mons eft circa finem malei promontorii / e cuius
profundiifimo antro quoniam fpiritu id agente fhepitus auditur: facile
fuit uulgo petfuadere inde ad inferos defcendi.Acberufia autem palus in
epiro no procul ab beraclea abargiuo ut fauntHerculedidafpccum habet per
quam cerberum tricipitem Plutonis canem ab Hercule edudum crediderit
antiquitas : Nam de auemo lz> cu nihil efi quod referam:
uulgataenimresefi&a pizrifi^ decantata. Ac de poe tishadmus . Plato
uero eadem difciplina : qua & Orpheus imbutus ita fingula
ptofequicur/ut nihil aliud inferorum locum animis noflris efle ueiit quam
cor» pus ipfiim quo ueluti carcere includuntur . Ipfe em'm animos a fummo
deo ae* atos ponit : Q^ui quidem fuapte natura dudi In deum parentem fuum
conuer tuntur. Nec mirum . Nihil enim eft quod in originem luam cum
pollit non re uetutur. Videmus enim(^ut loco exepli hoc ponam}ignem
huc^ut ita loquar^ tenenum/quia fuperiotis ui ac femine genitus efl fuz
naturz impulfu ad fuperi ora erigi . Conuerfi autem in deum animi eius
radiis ita illuflrantur ut ubi hade nus eorum efientia per fe ueluti
informis fuerat : nunc ilb fulgore conformet' : fit 9 miro quodam modo ut
intra animi eifentiam receptus fulgor no ueluti ez^ terna quzclam Si
aduentitia res in ea refideat : fed ad illius capacitatem tradus ob
foinor quidem reddatur : 8C a fe ipfe degeneret : mend autem proprius ac
nattis talis efiiciatur.Q^uaptopter hoc duce in fui ipfius at^ omnium quz
infra fe ezi ftunt: ea enim corpora funt: cognitionem animus uenit: Deum
uero Si aav> ra quz fupra fe apparent: hoc lumine non cernit. Qui enim
fi iamconnamra« le fibi fadum efl ea quz fupra naturam fuam funt/illo
continget : I d tamen men ti noftrz przfiat : Nam per primam hanc ueluti
fcintillam deo propinquior fz> da aliud accipit lumen & clarius
quidem/quo iam czlefiiumquo^ Si fuperna* m ii ~ f l Ia.
P. Virg.M. Allego. nim remm cognitionem accipiat . Sed hxc te L A
VRENTI latere mmitne puto: Sunt enim non folum dode ac diftinde/fcd
omnino dilucide a Marfilio noftro in iis dialogis explicata : quos ille
in Platonis rympolium confaiptos fub tuo no mine zdidit : Q^uos quidem
cum quia ad te funt t tum maxime quoniam pluri mis acfeledilTimis rebus
abundant familiariflimosribi elTe cupio t Sunt illi qui» dem inquit Verum
przcipue locus ifte menti noftrzhzretsin quo geminum in nobis lumen
elucere demofttat : naturale unum & ingenitum ut dicebas : diuinum
alterum & infufum/quibus limul iundis animi noftri uelu ti geminis
fulFulti alis/totum hunc ruperiorem mundum pcruoLue poiTunt: Ad dit^li
diuino illo femper utantur fore t ut frmpet diuinis bxreant. Infimus autem hic
tctrz locus animante in quo ratio fit canturus uideatur.Q_uod nefiat
efrediuinainflitutumprouidentiatutanimusfui omnino potens flt:ualeat<p
pro fiio arbitrio uel utro<p fimul lumine cum libuerit uti : uel altero
(bIo:propte rea<^ fieri ut natura duce ad natiuum lumen conuerfus fe s
uirefi^ fuas : quz ad fabricandum corpus fpedant/diuino lumine ad
przfensomiflblolum confide.' tet : illafcp in corpore conflruendo
exercere cupiat . Rede ac memoriter tenes inquit Baptifla s confifHt igitur in
czio ut Platoni quem poeta fequitur/placere ui.< demus animus noder
ipfius diuinz naturz contemplatione pcifiuens : Verum il la quam dicebas
cupiditate infedus & ipQi cogitationis mole degrauatus in infe» ra
defeendere indpit .Verum quoniam cum de inferni finibus ex fententia
Plato nisquzritur non fimpicx apud eius philofophi fedatores opinio
cdtnoscam boc tempote fequemur :quam & animorum rationi magis
congruam putamust & dodiotibus magis placere cernimus . Hi igitur
bipartitum mundum ponunt. Nam fupremum czium quod Aplanes uocitatur
dellis^ut cd apud poeta^arde.* tibus aptum fuperorum regionem ede uolu
erunt :eofq) campos elyfios ac beato Tum infulas nominarunt : Saturni
uero fpera ac fex reliquz quz fub illa funtrrut fufep quicquid fpatii
inter lunam terramc^interiacetripfami^ tenam inferis at^ tribuerunt :
Altiffima igitur pars illa qua uel fubdentatur diuina uel condant/ne dar
uocatur i di deorum potus ede ctedimr . Inferiorem uero Icthzum/ac horni
num pomm dicunt r in hunc enim cum a fupetiori czIo per cancrum ea enim
ho minum porta diciturrprolapfa fuerit anima in ipfius hyles quz
elcmctorum ma^ terta ed tumultum incidit: quo in loco noui potus
ebrietate degrauata& ueluri temulenta effedadiuinorum obliuifcitur :
terrenatum^ rerum cupiditate ilie« da ita per fubiedas fperas dclabitur :
ut ex lingulis czlotum ordinibus aliquem cotum
motuumtquibusufuradeincepsfitin corporibus acquirat:Nam ab ea quam
faturniamdellam nominant ratioanandi& intelligendia loue agendi a
marte audendi uim abducit : fol uero ut fciat ut etiam opinetur illi
cocedittMox a Venere excepta defiderii motum mutuatur : Inde per mercurii
ac lunz czlos de fcendens ab illo pronunciandi interpretandii^ ab hac
plantandi & augendi uires acquirit : Ac podremo ad terram ueluti ad
centrumtquo gtauia omnia feruntur delata:6C corpus quafi carcerem uel
potius fepulchmm ingreda iurc apud inferos relegata didtur: Moritur enim
in corpore anima uelut in fepulchto demerfar non ita tamen t ut fauiufccmodi
morte extinguatur : licd ut ad tempus obtusturt Liber quartus quabdo
quidem illius diuinitarem noxia corpora tardatititertenishcbetaat artus
moribunda^ metnbra.-habes^fed breuiter^quid Platonidinf^um pu tcnt:&
quem animatum ad ipfum defcenfum ponant» Nam^ de tartaris fabii^
lanturpoetzea omnia animam in corpore pati manifeftum eft . In materiam
enim protrada nouam fyluz ebrietatem haurit cum illam ueluti flumine dema
gaturtFIumen autem ipfum non line exadarationeinquatuor flumina ac flj
giam paludem deducunt. Lethzu achaonta ftygem cocytum ac phegechotu>
tenitMateriz enim admixta anima eunda quz in czlis uidaat obliuifcitur.
Q_uaproptaiure lethzum nomen ab eo quod elt. ficenimobbuifei grzd dicunt
potare finxerunt. Ex hoc autem Achaon ma« nat: quzrcs gaudii priuationem
denotat: quafi Nam quod in dd contemplatione purus exiflens animus
gaudium aedpiebattidom ne ex obliuioneamitdttquo quidem amiflbt flyx
quamfadletriflitiam intere pretaberis exonaturneccite
efttftygisdemumpoflrema zfluaria coitum e£fi.< dunbQ_uis enim ex
triftitia in ludum non cadat: te autem non fugit id grz cos dicere: quod
latini lugae interpretantur. Ex diu< tumo autem ludu in furoris
infaniz^ ardorem inddere roIemustquemphe.< gethontem nominant. Ex hyle
igitur unico flumine mala hzcomnja eueniV unt:Q_uapropternon fine
fummadodrina ex letham reliqua fluenta deriua« ci finxeruntrfed hzc in
Phzdone a Soaate latius explicantur : N obis autem de multis puea ad
bunclocumtranffnenda fuerunt :at(^ ea fola quibus defeen fus ad inferos
ex Platonis fententia perfpicuus redderetur: Noflri autem qui ita a deo
animas aeari redifljme fentiunt: ut eodem momento & creentur fi; fuis
corporibus infundanturrnon eas in hoc inferiori mundo uerfari uoluerut:
ut commifla purgarent :Q_uid enim fi ante corpus non fuerant : extra
corpus peccarepotuaunnfedutfuisrcdis adionibus: quas omnino liberas
habent cz« Io aliquando frui mererentur . Conceflit enim nobis deus : ut
noflro arbitrio Ii' bere utaemur:non ut per nequitiam delinqueremus: fed
ut per religionem fi; iuflitiam nobis fummum bonum acquireremus: Verum
cum perfummam fiultiriam illud negligcntes corporeis tetrife^
uoluptatibus dciiniti maximis ua nilc^ fceleribus coinquinemur oportuit
efle locum ubi a corpore digreflx buiuf cemodi animz
fuorumfadnorumdebitiflimasposnaspcrderet.Himcautc lo cum arca terrz
centru maxime eflie uoluerut:Na cu fi; propheta eripuit deus ani ma mea
de iofernoinferiori dixerit fi; ipfc humani generis faluatorfe triduo in
corde terrxfuturuadmouerit facile couincitur centru eflctNihilenim
eflcctro infcrius:quin fi; ita in medio terrz confiflittut in medio
animante cor efle uide musiQ_ua in parte fi; tenebras exteriores/quonia a
luce remotiflimz fint:fi; de tiu flridorc quonia nulla folis uis illuc
defeendat efle nemo negauerit.Erit igitur in terrz cerro infernus:fed ita
erit ut etia ex iis quz fapietiflime a Gregorio colli gunc ad aere uflp
huc ex terrz fi; aquz caligine cralTioreptcdat^.Acrp deiferno hadenus ad
illu aut aias defcedere oe fere hominu genus dixit. Sed tn aliud alii
fentiut.Na przdpitatio illaaioru afuptcmoczloin hzc corpora ad inferos de
fccofuscdea Platone acdicuitCbriflianiuaofczleflo^ animasc fuiscoipotL In.P.Vtrg.M.
Allego. busad inferos trahi admonent. Dicimus itidem uiuentes homines
cuminid tialabuntur/ad inferos rueret Sunt quoc^ qui credant magicis
artibus 6: cat< minibus fieri uelutidefcenfus quidam/ut inde
euocarianimx poflint. Verum praeter bos quatuordefccfusqnrusquicftnonuideir
omittendus: Na £( ad in« feros tendimus/cum lumen rationis noftrx ac
induihiam in mali ac omnium oitiorum naturam fpeculandamdeiidmus. Ego
igitur libenter de te feifeitoro Laurenti cum haec omnia perceperis /
quid putes hoc Aenezdetcenfu Virgilu um exprimere uoIuifleTlamdudum quid
agas uideo o Baprifta inquit Laurcntius/ac pro eo maximas tibi gratias habeo :Quis
enim non uideatuni. uetfamhanc difpuutionem nonfolum
meisptzabusdatam/uerum etiam a me fratremij meum erudiendum elaboratam :
'Nam fiCli caeteri t qui afTunt omnes mirifice tua otatione deledcnturt
tamen eft eorum ztas ac dodrina huiufcemodi t ut etiam fine duceipfi per
fe hzc omnia cognofeere ualeant. Hos igitur duos erudiendos cum
fuiceperis : propterea^ rede netan fecus quz hadenus difputafii teneamus
/ nofie cupias fine ulla cundationequaxd. ^ rogaueris / cerpondebo: fic
enim & errata facile emendare poteris : 8i fiqd rede teneo id
tuoiudicio confirmatum firmius hzrebit. Petit igitur afybilla quam tu iam
dodrinam interprztatus es/ut ad inferos K ad parentem dedo.> cat:
Q_uod cum petit oftendit mentem przmonfitante ipfa dodtina in fem
fualitatem defcendece . Vult enim nitia quz ab ea funt penitus cognofeere:
fed uide quantum tibi ex hac difputatione debeam : nam non folum
effeciftt ut hzc a Marone diuinitusdida tenerem: fed fimilitudine rerum
admonitus ia quidfibi nofierquoi^ Oanthesuoluerit facile coniedor. fed de
hoc alias: Tu ueto fi placet ad reliqua perge: Rede tu quidem inquit
Baptifiainterprztaris; Me autem tuum ifiud ingenium ac iudicium fummopere
deledant: Verum audiquidilli auaterefpondeatut.ln primis enim defcenfum
ad infetosnul'. lius negocii eiTc demon(lrat:cum nodes diefc^ datis ianua
pateat : Q^uod pro fedo nimis etiam q utilem uerum
efi:Naracumprocliuesutfenexquo<^Te rentianus conquzritur a labore ad
libidinem fimus / facile in uitium labimur. RcdilTime^ illud ab Hefiodo
Redifiime quo^ 6i illud uel claufis oculis illuc defeendi: Nam fiue
delinquendo in uitia labimur ? [uoniam id per llultitiam fit:
llultitia autem rariflimi carent; quid obfccrote acilius inuenies :
fiue:fed t^iquos defcenfus nunc mifibs facio : quorum pro cliuitas
pcrfpicue apparet : Id autem de quo nunc agitur : quis non uidet . Mentem
ipfam ac rationem facile in cognitionem fcnfuum dcfcendcre.Ma ximum autem
fit periculum ne dum cicca lingulas corporis uoluptates uer.> famur /
ita illarum illecebris demulceamur / ut irretiti hzreamus : Facile
igi.> tur fenfus defeendit mens / non autem facile a fenfibus
rcuocatur.Id enim eftab inferis redite: pauci enim quos zquus amauit
lupiter: aut ardens euexitad ztheca uirtus diis geniti pomere : Tria ut
uides hominum gene<a ra ponit quibus liceat ad fuperos reuerti: Sed
nos prius de duobus pofirei> mis dicemus : cenfet Plato quod paulo
fupta explicatiur demonfirauimus animos nofitos rerum terrenarum
cupiditate degrauatos incorpora dcfixt> Liber giiaituf
Jcre : (Quapropter qui prius imbroda nedare<p ueTccbantunid enim eft
deo 'fiuebantur t atqi inde mirum gaudium Tumebat t nunc letheum rpoti in
re» lum omnium obliuione mnli Tunt.CQuod (i intra corpus conftitutus
ani^ musillius cogitatione ac fordibus inquineturttamdeoiis tenebris
obducitur/ utnulla deinceps fpes (it ad Tuperiorem lucem redeundi: Sin
autem TcipTuni infccoIKgms integre cafte^ degat: 6ecorporis quoad
potedeonfotrium de* clinet ipauladmcz illa obliuione qua ueluti
crapubuino(p opprtlTus obdor» tniTccbat Teexatansualet libi geminas illas
quas iam totiens nomino alascom patate. Illis autem fuffultus facile ex
inferis reiilit: &ad Tuperos rediens iii re gionemfuam reuolattper
duas igitur alas totidem uittutum genera intclligi mus /& eas quz
uitx adiones emendant: quas uno nomine iuftitiam nun» cupatt&eas
quibus in ueri cognitionem ducimur: quas iure optimo religio» nem
nominat. Illud igitur pauci quos ardens cuexit ad aethera uinus:alam
primam exprimit : & uittutes qux de uita & motibus Tunt
intelligit:cumde indeaddit diis geniti potuere figniHcat alam fecundam
:at<pipfam rrligionem quamexuirtutious iisquxad uerum ducunt conftare
uul: Placo : Hxc itaip auntopbilofopho mutuatur Maro cuius quidem dodrinx
non nihil ex ma» thematicorum fcntentia ita addidit : ut nei^ ius Tuum ac
libertatem animis adi merctmeip cxleftia corpora fuaui priuaret:Nam li
animis nolitis uimnecef» Utatcmqi f/dera afferre dicamus/non modo id in
religione noflra impium eiitr fed 6t a Tummorum philoTophorum dodrina
abhorrens : Verum ut intelli» gas ntip hoc a Platonico dogmate alienum
elfe / refert ille in Thimxo ratio» naiis animi effedionem nulli nili
deotribuendamiquoniam ipfe eiTentiam ac ^ rationem animorum
noftrorumcreat.Corpus autem ac exteras animi par» tcstuteaeffqux
concupifeit flC qux irafdCur nos ab animo mundi mutuarie Q_uapco{aer St
li mens ipTa nolha nullo fyderum imperio fubieda Iit : tamen quia nullam
adionrm ex iis unde uirtutes uitiam manant nili per fenTus ac ap» petitum
exercet: Illis autem quoniam a corpore funt uacias aut ad uirtutes affe»
dionesiauc in uitfa prcKliuitates inferunt fydera /permulti interelTe uidet ur
quo fydere nati fimus:Nr<^ folum ad bxcqux ad uicam & mores
pertinere diximusr ucrum d ad ea qux fpeculationem K ueri cognition cm
refpiciunn Nam li on» nes omnium animi eadem natura funtiunde nili a
corpore eritrquod alii inge» nioiudicio ac memoria
excellentilTimirxillanttln aliis hxcnulla appareanc: cu autem omnis nofira
cognitio ab iis qux efficiuntur ad cfficientiatn:& ab iis qux loco 8C
tempore nrcufcribuDtur ad infinira initium fumatrmulta obiicinir dif»
licultas animis noftristut intelligentiamut feientiam ut fapientiam
alTequanturt cumuircsillx:qux paulo ante dicebama membrotum : quibus
ueluti inftru» mentis utuntur deprauatione bebercant : nei^ fe explicare
poflint: cura igi» lurapud Platonem ruumlegilfet Maro nili geminas illas
alas recuperemus ad Superos redite non poffe : Cum itidem illarum
recuperationem a fyderibus caquam oilendi ratione impediri
aniroaduerterctiut a loue xquoamarrmur opus ciTe ofiendit . Hoc autem
nihil aliud eft / nili ut benignitate fydaun»ffcdionca ad icdaa adiooa
acdpctcmt^Natacum plancutum uuia uiafit ,1 In.P. Virg- M.
Allego. Videmus iouis natura hulufcemodt elTc: ut quos ille in fuo
ortu benigfle a(^e dt illi ad iuftitiam ac religionem proni reddinturrita
ut ad eas quas diximus alas recuperandas
impelbtrcolligamusigiturnetnincmabinferis rcmeate/nili al^s recuperet :
id autem non clTe fadlc nili iis qui benignitateiiderum adfupera eti
guntur . Sed quid tu.L.Marfilium intuens clanculum rubmurmuraftit Nempe
id Tolum refpondit.L.quod paucis ante diebus cum T imxum Platonis in maoi
bus babetet:mibi de anima mundi dixerat Marlilius > Cautius inquit.B.
mihi progrediendum elTe uideorcum res nobis non modo cum dodo : V erum
etiam cum mcmoriolo litifed quod de mundi anima dicis/id 6L uerum huic
lo> co apprime quadrat : cenfet enim Plato rationis fementem a
deo fadamianitnof ^ nodros ab ipfo aeatos/ac deinde mundi animz
ueltiendos corpore traditos: ut £2 corpore uedircntur:& eius
pedilTequis uiribus informarentur: Aequum enim fuit:ut quoniam
concupiTcibilis irafcibilifi^ appetitus (alutis corporis gra na func:ii
ab eodem nobis darenturtqui nos corporibus inclulilfct: Vetumquia faz
partes lubricz funtipat fuit: ut qui nobis illasin deterius facile labeutcs
dedif fet idem ipfe aliqua ex parte
aberrotibustueretur:labenter<jfubdetatct.Q_u3' propter iuflit illi
fummus pater/ut quando ipfetccirco animis nodris caufaffl obiiuionisptzditiir<t:quoniam
luteo corpore circundederit hominibus fulgo, rcmueriutis infunderet.
Huiufcemodi ita^ przccpbs obtemperans mundi animus eos omnes quibus zquus
ell/aut fomniis oraculis & portentis autio. terao quodam motu Si ad
futuri prouirionrm:6t ad diuinz legis cognido. nem perducit : ut eo duce
alas recupctcmus.Huncautemmundianimumue tetes theologia qui illos fccuti
funt Platoiuci fzpe louem appellant. Hinc pbcus lupitet inquit
pnmogenitus eft:Iupiternouiflimus;lupitercapui:Iupb ter mediu.Vniuctfa
autem e loue nata funtihinchinc illud lupitet eft quodeo. ^ uides
quodeun^ moueris i Q_uin Si ipfe Maro A ioue principium mufz io. uis
omnia plena. Sunt enim omnia plena animo munducum ijle ita totus in to to
mundo fl£ in qualibet parte totus : ubi^ uigeantutnoftrianimiin fuison.
pufculis : Hic deniip czlumueluti citharam continens harmoniam cfificit ex
di uerforum czlorum fanis: quas cum mufas appcllentiute louisiiliz
dicuntur eiremufz:Q_uantam igitur dodrinamMato tribus uerfibusincluferit/
facili, tis mente concipio : quamuerbis exprimam. Rede igitur pauci quos
zquus amauitlupiter:aut ardens euexit adzthera uictus.RedefiC illud
tenent nia liluz : Ab hyle enim(^ ut fupra dcmolhauimus ) eS omnis nodra
duldtia/ & omnibus ahimisconugio: quibus impediantur ne ad fuperos
redeant. Ve tum de remeandi difficultatibus badenus : Deinceps nero eas
exponit rationa quibus ita tuto defeendamus ut pateat reditus: Aures
autem lamusfapientiam nobis indicat dne quanonedfpcculado eligendarum
agendarum^ rerum iu dex . Ne^ mireris aurum fapientiz fymbolum apud hunc
poetam obtinere cum plzii^ idem faiptotes fecerint: Vndeillud bpiens
aurum & multitudo gfmmarum Si uas pretiofum labia fdentiz: Aunim enim
eft fapientiz uigor at(j fulgor. Ndium cx metallis auro pretiofius eft. Nibl in
rebus ^entia pluris facieadum. Fulget maxime aunim. Nihil
(apimciacll endi^ i (> i 01 ik IXI BS XD u m uv mt Bd:
od Nx m HC pn ioqi iHgg imc ttdi di(( dux BOC (jB) da. Bidi
BUi liuBi Btit imt «D!
feuii Uni OlC •Wl D« Lib«r
guartui £iu. Nulla eni^oe exeditur aurum : Nulla rea imminuit fapietitiam
t Nullis lordibusaurum coinquinatur t Nullis maculis Tapicntia deturpatur
t Sed latet arbore opaca: mulus cnim ac uariisinfeitiz tenebris ita
obruitur uerumft luco ca cnimcorpons^uc ita ioquar^bebetudo eft ita
tegitur t ut difficile omnino (it illud erueretScite enim Si a Ocmocrito
ufurpabatur natur^n in profundo ueri^ tatem demer(i(fe : Non tamen prius
in hanc contemplationem defeendere uaW mus : quam aureum ramum
deccrpfciimus . Proferpina enim ad fe ire quempi^ am (ine huiuCcemodi
munere uetat . Efi enim profeipina ipfa animi pars quz ni bil przter
lenfus contina : ad quam (i (ine fapientia accederemus nullum przte»
rearemediumdarcturiquomuiusdenobisadum eiTet.llla enim irretiti nulla
unquam effet fpes redeundi . Rede Si illud piimo^ auulfo non deficit alter
au« reus I fe ip(a enim alitur (apientu : at<p cuenit inueffigando/ut
aliud uerum ali< ud aperiat: nec quicquam percipiatur: quod ubi
perceptum (it ad aliud percipi* endum non diKat : Illud autem quis non
uideat de uero uenifime didum elTe . Nam alte inuefliganduse(l.diuina
enim &czleffia(^(i ueru inuenire uolumus^ non infima hzc at^ aduca
infpicienda funt : omnis enim dodrina a frientia ex iis efi: quz nullis
terminis circunictipta funt&in interitum non cadunt:lubet ptzterea
iam repertum rite a nobis carpi : & iure quidem ita iubet . Nam nili
cer* so quodam otdine pergamus/nibil unquam proficiemus; Addit enim
poffremu illum facile te fecututum i (i a fatis uoceris : fin autem non
uoceris : nec uiribus tunc nec duro ferro polfeconuelli.Virtutibus enim
quz mores corrigunt Si quz tedum zquumij relpiciunt ualct omnes ira
animum a fordibus purgareiut mu di e corporis migrent : Ad fupremam autem
illam rerum cognitione uenire pau ds ommno datur : at^ iis (blis qui a
facis uocantur . (Quapropter rede (i te fata uocant : Q^uod tamen ut
planius exprimam /uolunt Platonici deum poft fe ip* fum cognolcere .
Deinde omnes reliquas res : Tertio autem loco ea eunda effice lequz
cognouit : Poftrema ergo hzea fecunda : Secunda rurfus a prima depen* det
. Namomnes res ptodudt quia illas nouit : Nouit autem nulla alia ratione
: nili quia fe iplum in quo omnia funt contemplatur . Huiufcemodi itaip
ordine rria illa in deo ponunt iu ut pdmam fapientiam : Secundam
prouidentia : Ter* tium fatum nominent . Chnffiam autem cum haec eadem
(nt fallor^fentiant:Fa ti tamen nomen uiz ponere audent : non quia
Platoni irafcanturifed cum uidif fent clfe quafdam in pbilofophia
familias : quz eam fato necelTitatem imponat: ut nullam io adionibus
nobis decernendi libertatem relinquant fati nome odif fe uidentur. At nos
eum quem paulo ante dixi philofophum fecuti dicamus de* um retum caufas
id cft fe ipfum confiderare : Ddnde ortum ordinem : ac deni ^
gubematiunem rerum quas compleditur intueri t (Q uz ddneeps ita omnia
excquitut ut nullo mexio ualeat impediri i (Quam quidem rem fatum dicunt:
Q_uod fi ita eff uon abeiiant qui dicunt rationem ac ordinem rerum : quam
ita mente dd prouidentiam dicunt in rebus mobilibus ac loco Si tempore
dteuioi* pds fatum did.Te itaip fi f^ta concelTcriiu camus aureus uolens
fadiifcp feque^ c Datur igitur pauos Si id diuino quodam extra fortem
munere ab ipfa dei proui dendatcuiusconfilium ferutati nefas bomini
efirReduscoim dotdnus & reda Jn.P.Virg.M.AIIfgO*
confiliacius t fed qux mortali ingenio cotnprzhendi non poirint.Q_uis
rniffl adeo temerarius: ut noiTe contendat cur loanni: cur Pauioapoftolu
caapcruc« rit dominus : quz multis fandifrimisuirts& multa dodrina
illuftratis detegere coluerit : Q_uod exemplum late patet & ad omnes
qui in aliquo dodrinz gene te laborauerint ttanffetri poteft t ut cum
multa eodem (ludio dagrauerint t eatu dem^ operam ac laborem impenderint
alii fummum in eaatte attigerint: aliis autem uix in poftiemis confidere
licuerit . Habes quid aureus ramus meo iudb cio fibi uelit : Q^uod autrm
ad miferi funus pertinet (ic accipe . Mileri odiufa Ia us rede interpietatur
. Q^u ipropter erit eadem inanis quzdam gloria-Snt enim fummo odio digm
qui uiitutrm negligunt : unde folida exprrflai]^ manat glo> tia .
Honores ueto ac reliqua uirtutisiDfigniaredantur:Q_u 'm qui in uita ct»
Ulli res egregias adoriuntur in primis captare cunfueueiunt. Hi cn<m non
redi honedii^ amote : fed gloriz cupiditate laborant: quam dum aSequi
cupitmuS rem publicam fzpc perdunt x&infummumouium odium incidunt:
Egregie igitur luuenalis. Tanto maior famz (itis ed quam uirtutts.
Huiurccmodiigb' tur uiri animi excellentiam (iue a natura fibi in
litam/(iue indudna/atcp exetaca Cone comparatam penitus corrumpunt. Non
enim uirtutera ammt.^cd uita tutis infignia i qua; fzpius malis quam
bonis exhibentur . inanis igitur atip ad» umbrata gloria in rerum
publicarum adminidrationc exceliintioribus ferop ada hatret . Q_
uaproptet Hedoris quotj comitem mifernum fuille tingit . bi enim caritate
patriz magis quam cupidine gloriz moucretur huiufctmodi uiri beatifa
(Ima; omnino ciTent ciuitates : quibus illi przcfTcntiQ^ut igitur ad uitiorum fpe
culationrm ea gratia tendit: ut fe ab illis explicet : cum in primts
hu.ufcimodi gloriam abiiccre necciTe ed :Q_uaproptcr rede eo tempore
roifcrnus extinguitut quo zneas a fybilla prxeepta accipit . I nitium
enim ueri inuedigandi a onlctni m tcritu optime funiitiir : Ncc tamen
fatis fuerat illum extingui :nift etiam fepelu tur : ut nufq jam urdigium
illius appareat : nec unquam reuiuifcat : Q_^uud au tem illum tubicine
fuiiVc dicit : optime quadrat . Ed cnira huiufccmudi hutni« num : ut rrs
a fe gedas quam latilVimc diuulgmt : Si fuo przconio ommbus ofle dant :
Ed prztcrea zoii uentorum regis filius:Nam nibil uentoltus ed illi qui ne
gleda uirtute tc folida & cxprelfa adumbratam quandam & penitus inanem
glo riam aucupentur: unde & tumidi & inflati Si uentoli dicuntur
. Rede Si nlud quo non przdanrior alter aere ciere uiros martemtp
accendere cantu.Q_^uid eni aut Ninum aut Cyrum aut Xerfem ut hos folos de
innumeris aflaticis regibus te feram : quid qua;fo aliud impulit : ut non
contenti patriis Enibus multis popu/ lis ac nationibus beilum inferrent ;
Q_ uid apud grzcos fpartanos aut athenieo' fescxcitauit ut magnam Aftx
partem ruoimpetioadiungerent: QuidHvnni' bali ruafit ut bifpaousgalliift^
fubadisromam orbis caput peteret: i^uidapud njod(os.L. Syllam prius ac. C.Marium:
Deinde luIiuro Czfartm.CD.^PompC'' ium ac podrcmo Odauium K.M. Antonium
eo furore accendit ut ciuiltfaogui occunt^ replerentur nili infanz quzdam
famz cupiditas. Cum gloriam miis rebus quzrerent: quz dolidil Timum
uulgus dupefeere quidem cogant i fapicn Us autem ad iuihfumam
indignaiioncm fummum^ odium concuent t at Q C*1 Gi d DCt BIB I» '1 ip» a» K*» ,
tUH cnu cpi)iii 100 ad siil
itd id* ^1 afi \0 «? |lP< <« Liber
guartui mo tnodo ipfe malus non Ct huiufnmodi uiros bonos dixerit. Sed
quid (i o{v dtni que^ m hominum Ibcictatc uiti : ac pro re publica emoti
ptomptiilimi prz ter id quod patriz caritate in manifedifTimam mortem
ruebant igloriz quoq; cu piditate extremum cafum zquiore animo ferebant :
uis enim ftbi perfuadeat aut Thcmifiocicm athenicnrcm in nauali
prziio apud Salamina gcflu t aut Epa« minundamin ea uidoria qua de
Lacedzmoniis potitus efiraut Spartanum Leo eidam in tbctmopylisuirilitcr
pugnantem nihil de gloria cogitaffe. Ego enim oet^ Brutum lingulari
certamine aduerfus regis exulis filium concurrentem : ne a Sczuolam tanti
animi confiantia dexteram exurentem: ne<^ Decios illos in co jf^ifimos
hoftes iiruentes : ne^ innumerabiles alios qui patnz libertatem fuz nitz
prztulerunt famam quam de fe pofieritati teliduri elTent nihil unquam fe*
dlTe arbitror. Sed nos in re omnibus manifefla nimium fortaffe moramur.
Ita« ^ redeo ad mifemum qui cum tritonem deum prouocare audeat : iute
demens appellari pofTittQ^uid enim fiultius quam (i inanis hzc gloria a
caducis ac cito perituris tebus ptofeda audeat fe illi : quz uera eft
& a diuinis rebus proficifeitur E fumtnam temeritatem
zquiperare.Q^uapropter facile ab ea obruitur. Sed cad rem noftiamtReliqua
autem quz circa funusdeferibuntur hidoriz attp aurium uoluptati
concedantur . Geminas autem columbas geminas illas alas qs d o
fupra diximus intellige . Illas enim ducibus ad contemplandas res tendit
: t autem uoluaes ucnetis: quia oportet illas elTe ab ardenti amore : Nec
iniu tia matrem inuocat : Nam tantam difficultatem nili rapiat amor
facile fugiut ho mines < Illz autem non femel aut uno impetu/fed
paulatim uolando ad locu du eunt : Non enim hominis ell omnia momento
uidete : fed ratiocinando gtada« timacognitisad incognita
uenire:Seduidcquidfequatur:inde ubiuenere ad fauces graue olentis
aueroi. Tollunt fe celeres liquidum^ per aera lapfz:
Sedibus oputis geminz fuper arbore fidunt: Nam quz ad
cantarum raum cognitionem duces fe przbent/eas rerum terrena^ tum
contagionem id enim ell auerni teter odor celerrimo uolatu effugere opor«
tet. Duplex igitur uirtutum genus nos ad ueritatem ducit: quam fine mora
ra.> pit zneas / ut eius luce ea quz per infernum obrcutiffima funt
cernere pofTit.De ioiprio ucro auerni naturalem lod litu demonftrat. Ne
efl quod faaa ab znea petada in feriem noflrz fentenriz digerere
laboremus . Inferuiens enim fuo ar.> gumento poeta eorum lacrorum quz
ad ncaomantiam adhibeant ueteres expli cat. Q_^um autem zneas nudo enfe
Iter aifumere lubeat 6C fi hoc in Ilfdem facris obferuare confucuerint :
tamen admonetur ipfe ut robuflo animo rem arduam acediatur . Aeneas ita^
ducem haud timidis uadentem pafltbus zquat.Nam quis non uideat : quod
dodrina aliqua nobis oftendit id quam celerrime quam oiligentillime effe
arripiendum. Erat autem iter per obfcura : uel quia ut dixi ue ritatem in
obfcuto ab&rufit natura : uel quia uitiorum fedes procul a luce funt:
Q_ui enim rationis lumine illuflratut : is & uerum cognofeit /dc rede agit:
illam autem qui amiferint fua natura ignorata in ultia Incidunt •
Appellat przterea do plutonis uacuas & inania regna . Q^uo quid
ucrius dici poteftfEfi enim u ii 1 1 I!’,! i;l I
* i'i In. P.Vir g.M, Allego. nudiuftertius manifeiHs
rationibus ronuidum mala uitiatp nihil omnino ef fe; quando quidem nihil
afFcrant/fcd bonum pellant. Hoc cum prudens ue hemenf^ uates Perfius
intelligeTctrgrauilTime in eam exclamationem proru/ pit/O curas hominum
/O quantum eft in rebus inane :Vt autem quale eflet ad uin'a initium
expreflius poneret oftendit in tantis tenebris non nihil tamen lucis
apparuilTe.Nam 6C Amentis carcitate in uitium labamur a tamen circa
principia non omne penitus lumen tollitur: Prius enim incontinentes
cAicif mur quam intemperantiam cadamns.Miro autem iudidoquz
fequunturin inferorum ingreAii ponit: Si enim exfententia eius quem
fequitur Platonis deicenfum animorum in fua corpora defaibit / manifcAum
eA animum qui badenus omnium horum malorum expers fuerat in ea nunc omnia
corporis contagione incidere : Omnes enim perturbationes inde fentit:
Luduenimea riA^ angitur. Impendentia timet imotbos laboreAp experitur :
fame anp ege^ ftate urgetur : omnibus denitp quas ille enumerat
calamitatibus prxmitur : quas a corpore liber expertus unquam fuerat. Sin
autem prolapfum animor rum in uitia huiufcemodi defcenfu interpretari
uolumus non multum diuer fa ratio erit : Q_ua; enim res tanta ucloatate
commilTum facinus confequb tur quam fadi pernitentia . Q_u.r autem
pernitet is Ane ludu effe non po# teA . Adde quod confeientix Aim ulis
affiduo purgatur neceAe eA : Vrgent enim illum a Aidux curx : qux ueluti
ultrices furix poenas Aagiriorum feueriAune extinguunt: uod quam dode
quam eleganter quam expteAe pofuetit lu' urnalis quxfo recordamini .
Exemplo enim inquit ille quocunip malo cotn* mittitur ipA difplicct
autori prima hxc eA ultio: quod feiudicenemo nocens abfoluitur. Ac paulo
poA; Nam fcoclus intra fc quicun^ cogitat ullum fadt crimen habet. cedo A
conata peregi perpetua anxietas nec menfx tempore cef fat . lure igitur
ultrices curx funt in ucAibulo poAtx : Nec mirabimur A paU lentes
habitent morbi oim Aoicorum acutiflimas argumentationes intelli^^ mus.
Aiunt enim quemadmodum temperantia fedeat appetitiones: &cmcit ut
illx redx rationi pareant iconfcruat^ conAderata iudida mentis : Ac huic
inimicam intemperantiam eiTcieamcp omnem animi Aatum inflammare cd
turbare ac incitare : eoq; pado omnes ex ea perturbationes gigni . Nam
ue» luti cum fanguis in corpore corruptus eA : aut pituitabilis uere
redundat morbi xgrotationcr(p nafeuntur: Ac prauarum perturbationum
diAotunta animum fanitate fpoliat : uehementerep petturbat : ex
perturbationibus ue» ro morbi conAciuntur qux illi uocant : deinde
xgrotationes qux appellantur. Quapropter perturbatio quia
inconAanter turbide^ fe iadant opiniones in motu femper cA . Verum cum iam
huiufcemodi furor ac mentis concitatio inueterauerit : &tan quam in
uenis medullif^ infederit : tum exiAit motbus at^ xgrotatio.Na cum ex
falfa quadam opinione qux plus tribuat diuitiis quam tribuendum At
pecuniarum cupiditate inflammemur : nec adhibeatur continuo Socrati» a
quxdam medicina : qux cupiditatem extinguat manat illa in uenas efficit»
^ cum morbum at^ atgrotationem quam auaritiam nuncupamus. Rede to Liber
quartus ^detn demorbis ut mibi uideris inquit Laurentius &|ad
locum eiplicandum appoiitet Non enim philofophi folum / ut tu probe demondraui:
Sed & oratores BC poetx non corporis folum fed & animi fcpiflime
morbos di« eunt . Ergo ut morbos inquit Baptifta ad animum ita SC fene
Autem reAe refe ternus. Nam cum ipfe adcmrobur<p mentis ueluti
iuuentutem admireritt& ignauia ac torpore quodam ueluti fenio
tabefeit/ facile in uitia: ha;c autem motsanimotum eS/ eum adere uidemus
. Mala autem fuada fames quidnam aliud quaauaritiadefignat: qua homines
ad omne facinus impelluntur.' Q_ua; nam enim res alia nobis fuadet aut
iniuftilfimts bellis innoxios populos iacef (iere I aut caidesiK rapinas
exercere: aut inlatroaniis grafTati:aut uenena pa« rate: aut fidem
fallne: aut patriam at^ dues prodete:ni(i auri facta famesf Quod quidem
fi ita cft eodem quo<^ in loco erit ponenda turpis zgefias.Cii cnim
homines paupertatem: quam nemo fapiens turpem exifiimauit turpilTk mam
putent :eam^ ueluti fummum malum exhorreant /nihil repugnat: nui Ius
pudor obftat quin quo illam fugiant/ omnia uenalia habeant /nec abfunt
tembilesuifuformzletum^ labof^: Namquialuccexulcsinhistcncbrisuer •
fiintur: nihil praeter defidiofumooum quaerunt: Nec meminerunt homines
adagendum ati^ fpeculandum natos nullum laborem/qui quidem honefta^
dadiunAusfitelfe fugiendum: De lato ucto fic accipe . Philofophi qui dt«
ca prudentis acquifitioncmuerfanturanimaduettunt corpus fi fociumad rem
agendam afiumatut maximo fibi eflie impedimento : Senfus cnim qui
a.cor< pore funt nihil in feueritatis: nihil fincen/utrcAe dc his
rebus iudiute uale« ant in fe continent ; Ex quo fit ut animus fi illis
ad inueftigandum utatnrtfzpe dedpiatur:& illorum illecebris ebrius
nihil ptofpiciat . Q_uapropter mentem quam maxime pofliint a fenfibus: BC
a corpore feuocant. Aic cnim in eo qui phe don inferibitut Plato nos tum
denii^ beatos futuros fi a corporeis abfirahamur: ac deo fimiles reddamur
. Hoc autem quid aliud qua mori effe dicemusrQ^ua propter fijhuiufcemodi
uiri dum uiuunt mori medicantur: uenientem nemor tem illos trepidaturos
cenftbis.''Stulti autem qui nihil przter corpus nouerut: iniquifiimo
animo illud difiblui patientur.ReAe igitur is quem totiens nomi* no Plato
[PLATONE] ut illos philosophos sic istos philosomatos appellat. Quz omnia
ca probe nofiet Maro non illas terribiles formas elfeifed uideri
terribiles dixit.Re fiquaueroquz enumerantur &fopor& mala mentis
gaudia ac poftremo bcU luni/funz BC difeordia ad eandem rationem quicun^
uel mediocri ingenio uir fuenc facile referet . Nam qui in uitio eft is
tanquun fomnolentus ad omnem honefiam rationem obtorpefeitrNe^ ullam
uoluptatem nifide rebus turpi.» bus capit . bellum autem ac difeordiam
non modo cum aliis : fed fecum geritt cum aliud libido aliud auatitia
fibi uelit.Oefidia illum ad odum : ambitio uero ad labores aduocet.Q_ua
animi difira Aide ueluti furiis exagitatur.in ultimi au tem deferiptione
idem quod BC paulo fupra ofienderac pulcherrimo nuc ac om nino poetico
figmeco depigit. Ipfa enim in medio polita magnu fpariu occupat:
fhiAaautnulluprzbctifedfola umbra nosdeleAattfic turpe facinus ea no«
bisonditiquz nihil folidi habcatifiCquzcu magna uideant /nihil finttut
phip Ia.P.Virg.M.Mlego. gii zfopi ncmplo telido
corpore umbram fedemur > Q^uod eo quo^ ezprcC> fius notat ciun
addat in Hngulis frondibus (Togula inlidere fomnia: at^ ea quidem uana:
Nihil leuius/nihil mutabilius eft frondibus: Ea autem in qui< bus fummum
bonum reponunt ftulti:& quorum gratia rapinas fraudesmul taipalia
flagitia patrant: ut honores diuitias ac reliqua alTequantur: in qua fot
tunastemeriute pofTta Ht/SCqua facile mutentur at^ defluant: nemo eft qui
ignoret: Q_uz etiamuanisfomniis uerilTime comparantur. Sunt eodem in loco
plurima monflra non temere polita: Nam (i ca monflra dicimus qux
przternaturx legem eueniunt/ eunda flagitia ueio nomine monflra appellax
buntur / cum pmer rationis legem qua lola homines fumus exoriantur.Me
fito autem Ixionis filii putantur centauri : nam ille contempta iuftitia
abm« pto^ humanitatis uinculo populos libetos iugo tyrannidis
oppre(Tu:Q_ua^ propter eius cogitationes apnneipio aliquid humanitatis
przferentes inim« manitatemat^ eficriutemquandam tandem degenerant: Non
infdte igitur Plutarchus dimonflrat / huiufcemodi homines tanquam
fimulachro uirtu» tis adhzrentes/ nihil ITncerum/nihil tedum/fed mixta
omnia at<p nota face* re: Cum fuam quif^ uoluptatem fequatur/fummis
petturbationibus ad fu* os impetus delatus: Prolixior limqua rerum
multitudo poflulat: 11 utran^ fcyllam profequar:in iift^ nimias
cupiditates exprimi oftendam: nam Hy* dra ad dolos fraudefi^ referti
facile potcft.Fuit enim Hydra Platone tcllefo* phiflaalidillimus: nam
cuueri inuelligandi duplex modus fitpetuetas alter alter pa
fophiftiasrationeshydracauillofasatq} deceptricesargumentationes ponimus:
Cuius uno capite czfo plura renafeantur . Nam una confutata r»> tione
ille fuis argutiis plurimos fubiungit. Hanc autem Hercules igne idefl
ingenii feruore extinguit.Nei^ eft quod & hoc inter monftra
enumerandum negesiNamut uera dialedica ab omnibus
dodiflimisfummoperefemperap probata eft t lic hanc captiofam grauilTimi
femper uiti abhominati fuot : Chi * meram aut ad iracundiam iGorgones ad
uoluptatum illecebras/ quibus ftul* d in faxum conuati iccirco dicuntur /
quia nimis illas obftupefcunt.Prudca tes uero & Palladis zgide 8i
Mercurii gladio facile interimunt refetn quis no uideat : Briarei autem
ac reliquorum qui aduetfus deos bella gelferunt / fabu lamrcdilfime
interpretatur Cicero /cum id nihil aliud lic qua bene monenti naturz
repugnate : Gerion uero 11 grzcum nomen interpreteris / terrz litem
exprimet . Lis autem zterna eft terrz id eft corporis aduerfus
fpiritum.Ecitita ^ Gerion pars elfccminatior animi a fenfibus ptofeda :
quz in homine uitio fo uniuerfz animz imperat. Q_uaproptet quoniam funt
ttes animz par** tes / tribus illum infulis impcralfe fabulantur : cuius
canis iccirco biceps cfit quia cupidiute llmul & timore laborat . His
igitur monftris pettenefa* dus Aeneas uim parabat. At Sybilla hominem
cotnmouefadens ea omnia fimulachrauanacfleoftendit:llIa^ non ui
fupcranda/fed radone cognolizn da: cognita^ fugienda iubet. Poft
huiufcemodi monftra ad Acherontem Si cocytum deuenitunde quibus
fluminibus Si 11 paulo fupta didum llt:ea tame alia quadi tone
ptofequamut.A cdcupilcentia nfa uelud a fonte manat aqua: Liber
quartus' que ttygnu palude cffidt.Ne a concupifeentia primu
j>uenit cogrtatio/drnide adioquapeccamus:Achcronpo(lhzccoDatatiorfluuiusc(l:nain
per cum tt* ptimirur motusad dagitiarhic autem poft cogitationem
excitatunNrqt prerer rationem cft quod illum ingenti tumultu ferri Seneca
dicat: Non entm poteft animus Itnefirepitu reludantis confeientiz in
facinus ferti:Q^uoniam autem fauiufccmodi peccandi deliberatione uoluntas
in uitium traniitsiccirco in hoc flumine nauiculamnautamipponunt.Poftuero
buiufcemodi tranlltum id au tem cft poli peccatum/fequitur mceror/quem
refert ipfa flyx.pollrrmo maior ludus qui eft cocytus . Vt igitur ponatur
ante oculos illa^ut ita loquar} grada^ tioiprimolocoeliconfcientiz
motustfecundo deliberatio fufapiendi flagitiit poft hanc maeror ac demum
maior ludus:primum ita^ ac tertium (lyx fignifi» cat/fecundum
Acherontquattum cocytus .Sumopere me hzc deled.<nc inquit
LAVRENTlVS.nerpme offendit quod eofdem fluuios nonaduna/fed ad piares
rationes ttanfFeras. Videmus enim & grauiflimosin nollra theologia lo
cosuariismodisadodilTimisuiris intcrprctari.Habesigiturdrfluminibus in
quitBAPTlSTA:Nunc quid libi Charon uelit/confiderandu cenfeorNara
portitor has horrendas aquas: & flumina feruat terribili fqualote
charonicui plunma mento Canicies inculta iacet.uerum ut res fuo ordine
progrediatur/ non nautam folum: fed £Cniuem limul intcrprerabimurtSit
igitur nauis uolu> tas:licnautalibeteuoluntatisaibitriuni: Nauis
lurfus cocoinfuum cu fumdi ngitur.Hiceledionrm exprimittipra enim
eiedionc libetum aibitrium uolun tatem dirigit t Q_oin U per uela
eziefles incliuadones non erit abfurdum incel Iigere:Nam quo czii
inclinant/id libenter eligimusmili illis fefe ratio opponat: cuius tanta
uisell/ut etiam fyderibusdominetur.Pergrata hzc funt quz dicis inquit
LAVREntius. Video enim te chrillianorum dogma retinere: ut tamen
mathematicos oinonoirrideasiScdfequereobrecrotSenex cll chaio inquit bA
PTlSTAtqmaiali no tepore ut Platonici:quosfequic poeta/uolut dignitate
faltem & origine prior cil corpore. Adde qdzternacfl:zcemitate aut nthil ana
tiquius:Q_uaproptcr Si, arbitnu libetu in illis zternu:Sed auda deo uiridili^
fc ncdustqanuquamdeficit.Ellaut terribili fqualore &ex humeris
fordidustili amidusdepcndet.Q_uz omnia ad corpus tediflime ni fallor
referuncut : cor« pus enim ucluti ueltimemum ellanimz: quod alfiduo
mutatur ueterafeit: actz dem tabefcit.Addit duplicem oculis flimmam:quia
liberi cll arbitrii ad utmta ucliiflcdi/dC ad rationis fulgotem/8t ad
cupiditatum ardorem.non temere au tcmncc tine exadilTima quadam ratione
herebi nodifip flliusell Charon: Ce£ Iffcnim nox in nobis quz nihil aliud
ell nili ipiz ten(brz/quz abinfeinapro iieniut/nulla erit cofultatioe
opus:mens enim fumu bonu perfpicue nofccrcta &in illud line ulla
dubitatione ferret .nuquam enim eligimus nccelTatia/ac fub lata dubitatide
ois confultatio celTat :Q_ uapropter qui iam in tertio uirtutu gea
&erefunt:quas purgati animi appellani/ii prudentia in repe deledu no utunc'
t led przter ea quz lut uera bona nihil nouetutiea^ fola mtuent . Herebus
igi tur.quud uerbu grzce ab obfcuritate originem ducit:ita lefc rationi
opponit Utopuslit cofuitatioci
(^uoniauaoCutmddKeba}acmodeacccllarii&cota
la.P.Virg.M.AIlego» fuUc:opottuit bancuim ea libertate donatam
clTerut aut de plutibua unum/aut de uno <tt ne agendum pro fuo
arbitrio deccrtut. Hoc (i itaefta gratia didtuc Charon«Nibil enim iibaius
cft gratia cum fua fponteproueniattnon autem a cuiufquam merito
debcatur.Q_uaproptei cogi nullo pado uultsat(^ ea de au« fa cum Aeneam
pet tacitum nemus ucnite uidetific prior alIoquitur:Q_uiiiquit cs armatus
qui noiha ad iimina tcdis/Fare age quid uenias idbinc & comprime
grclTum>Nam cum etiam rationem ad (c ucnire uideat liberum arbitri ums Non
ante illam admiaere uult-quam difcutiat diligentius quid fibi agendu
fit.Q^ua» ptopter addiuNcc uero aladcm me Tum laetatus euntem accepilte
lacu > quu ne ad uirtutem quidem trahi uult liberum arbitrium . Verum
antea confultat i Et pofi confultarionem deledum adhibet:Q_uam quidem rem
animaduettensff billa; (Luimrubiicin NuilxbciDndiznccuimtelaferunt;&:
ut appareat illum con cogi/fcd per confuitatiomm peifuaderi aureum ramum
oftcndittllleaute ad uifam fapientiam libenter conuetticur: fiC de natura
hadenus.Nauis uero a czruleo colore confiatilile autem ex albo nigrocp
conEcitur.Conteplator enim inter iofeitiam at^ cognitionem uerfatur.Non
enim mouetur quifpiam ad in» ueftigandum luli aliquid uideat: Rurfus cum
omnia in ea re uidcrit definit fpe culari.Eadem fere ranone futilis
hngitunperceptis enim percipienda adneditt Si autem futilis &,
timofa.Nam antea quam habeatur perfeda rerum cognitio/ non ctit ita
perpetua rerum fenes/ ut nullum intermedium relinquat: Animas uao quas ut
Aeneam recipiat e naui pellit:omnes animorum affedus qui ratio ni
aduerlantur/interpretandas opinor.Sed uos fortafie nimis cutiofam nimir(^
ineptam huiurccmodi interpretationem exifiimabitisicum ita minute etiam
tni nmiaptofcquar. An tute cutiofum aut ifia minuta appellas inquit
LAVRENTlVS:quxetiamli nimis ingeniofe elicienda elTentidigna tamen funt io qui»
buscJaboresiNuncuerocum fe ultro offerant/quis ea repudietrQ^uin igitur
ptofequetetfiC qyz difputationi noftrx quadrant ne przteri. At^ in pnmis
quid libi Cerberus uclit/nobis apeiiiNam &quod cymba
gemuetitifiCquodrimofa inultam paludem acceperit : ego nifi tu aliter
fentias fic accipio/ut in altero fpeca lationis diificultatemiin altero
terrenarum uolupratum illecebras : qux furtim dum uitia fpeculamut
interfluunt/exprimere uolueritiPromptum pa immor» talem deum ingenium/^
ad omnia uerfanle in te elTe uideo LA VTENTi in» quit bAPTlSTAtnei^
commodius ifia meintapretari potuiflie fateor: Ad cer betu autem de quo
audire cupis /paulo poftucniam:Interim pauca qux omi(<
fafunt/percutramus: Ad nautam omnes confluunt animxtomant^ pnmx
tranlHuuiumpottariiteltdunt^ manus tipz ulterioris amore: Hic iguur con»
curfushocut puto fignificatomnes natura fdre.cupimus: natura autem non
omnes admittit: quia liberum menns arbitrium non omnes ad.fpcculatiooe
adtmttit : nam quod in humatorum animx cenmm annos uagentutt de zgf*
ptiorumconfuctudinc tradum: 6c Seruius & Seneca affirmant i Q^uam rem
deinde Orpheus^ad inferos tranfiulit: Vehementer uero quadrat Palinurum a
fybilla feuere calbgari: nefas enim efi cum appetitum ad
ueriinuefligatio» bem ttaduccre/qui aducHiis rationem contumax fit r Sed
redeo ad Aenca;^ at at 0
jlU, DI ii a a » 0 3 i i Liboguartuf
tat) jcm charon ad ahetam lipam iocolumetn traducit.Ipfd «tiim poft
diutumu catamen rationis Kappetttus in fpeculationtm tradudtur.Q_uo in
loroaio^ uutn adunfus fc bellum cxdtari Tentit, Cerberus enim ha;c ingens
latratu regna tnfaud petfoiutaduerforecubans immanis in antro.Scd
animaduerte qua par» 1)0 negodo omnia a Sybilla pacata reddanturrOffam
enim latranri cani porngit Q_ua uorata ille in fomnum inndit.Q_uaptoptet
occupat zneas aditum cufto« de (iepultotCerberum igitur ea fortalTe
ratione tridpitem poetae tradideruttguo* biam illum terram gux trifanam
diuiditur/interpretantur.dicuntcp grzce quali Omnia enim corpora
uoratterra:quado quidem io ea omnia reddunt.Si i^‘tut terra eft cerberus :
quis non uideat porta noflrum per cciberi latratus noftri corporis
indigentiam exprimere uoIuifTe . Cu enim ad rerum magnarum cognitionem
eriginiunhoc profedo agimustut men tem quoad dus fieri potefi a fenfibus
reucKemusremoritp dircamustnon tamen ex buiulcemodi mortis comentarione
intereat corpus neerfle putestred cft illius ratio babenda.Reclamat enim
ne fibi neceflaria fubnahastlnmrgit^ trifaud lar ttam.Tribus enim rebus
indiget dbo potu ac fomnotin quibus nifi fatis illi a no bis fiat adeo
obflrepct/ut nihil egregium meditari (inat.C^uamobrem nullo par
donegligenda e(l cura corporisrlimplicitcr tamen modelle ac omnino
fobrie/re fidendumtut cum laboribus ruperetTepoflit: nimio tamen luxu
contumax adr uerfus animum non reddaturtpaucis enim natura contenta eft :
at<p ea huiufcer modi funt/ut fine labore: fine fumptu facile
comparentur. Nam ne fortafte ad ea re me te reuocare ardas quibus Ginicus
cotctuscfti^oflincuicmdumolusnul 10 etiam lalecoditum fuauilTimas epulas
prxbere pofnttaudi ea quibus uolupta* tum patronus Epicurus acquiefdt
:Num ipfe minus uiliflimo panno:quam aut purpurea aut ccKdna ucfte a
frigore defendi rxiftimat.nu fitim nifi chio aut aete 11
uinoatinguitnum famem nifi exquiritiflimisregiin^ dapibus fedari pofte pu
tat: Epicurus inquam qui in corporis uoluptatefummum bonum ponit nullu
aliud pulmentum in coenaptzta famem ac fitim quzfiuit : quem etiam legimP
ad panem raro quicquam prztn cafeum addere folitum.Ficedulas autem ac par
Uoncsreliqua(| ilb flagitia quz & Maaobius in pontificalibus Tuorum
tempope ccenisdeteiiaturt&nosnoftratempeftateinromanorum przfulum
dipibus fir nefumma indignatione ac gemitu meminifte non poflumus ueluti
pemitiofilTi mamonftra exhorrebat : Q_ua quidem in te ego terni LAVRENTI
ficut inc zr teris temperantiz partibus iumma laude dignum puto;Nam przter
id quod plu timos iamannos utiunfiurarum articulorum dolores efFugias:uinum
non bi bis nonne pro miraculo haberi poteft/ut tu in tanta mum omnium
affluentia: in tanto urbis noftrz luxutin frequentibus
lautiflimir^proptaalTiduashofpita liutcs BC aebra fodalitia tuz domus
conuiuiis nihil intuum uidum nifi fimplex ac populare fumas: Q_uzdum
cogito redeunt mihi ad memoriam ea quo<^ quzdeFederico
Vrbinatumprindpcnon folum audiui:fed etiam propter antir quumhofpitiumfl Cueteremamidtia
fzpiflimeuidi:Inquoduce^& fiplurimz aliz^ ea magnitudine uirtutes
elucefcant/ut ueluti folis radiis minora fydera Oiancfcunt t ita hzc
illatum fplendote obruatuntamen quis non obftupefcat ta Id.P. Virg.M.AlIego;
tiu Meorinaumacrobrirtitf modicamincaftrisubiuJrtrolrt Wtn
f*t« inopia nullu inter fumtnfi duce ac extremos lyxas & alones d.(c^«
, elTe patn tfed domi quocj ac in aulatin qua cu ota ornamenta pana
fefe offerantmec uiq aut liberalitas/autmagnificeoa defideret s tamc
difcubent* illo nulli aut palalaSo aut nometano/fed Bi philofopho &
oraton ocw relin^ tur.lpfe enim a primis annis uini prciflT.mus
fuiticuius ufum paulatim inteitendo eo progtelTus eft/ut iam diu illud
omiferit/nemo eQ qm communioni epulis/nerao qui fimplidoribus
uefcatur/quibus dum corpons U.TO r fiaui(rimisinterimd Wu«o™“‘l'fP»°"J'l?“perfipefii
dum lingulis annis ualitudinis oaanduj raufa romanos
aumnmos Sfugiensadillumdiuertor:uidearmihiaSardanapall.c«rn.smAIano.conu.-
uium inddiffe/K ad aliquem foaaticum hofpitem deueniftim quo pnfc*
con. tinentix ueftigia tam uehementer me deledat/quamm notoojir hominum
qui rubris nigrifqj galeris:ac niueis riciniis totius fanditatis doannam
phtent luxm lafciuiam exaritat.Pudet enim pudet mi Uurenti pigetip
noftroju «orumm m totius rei publicx chriftianx curiam in qua integra
religione maximaij dodnia nonnullos optimos patres K tanto fenatu dignos
elTe non negaueom/iis homu nibus aditum quotidie patere uideamiquos ego
tunc demum fenatorium ordi. nem romx iure obtinere cenferem/li
Heliogabalus ib inferis redudus rurfusim peraret. Verum cu hxcme alio in
loco deploralTe meminenm agamus quod iltat. AtcB naturam noftram minimis
cotetam effe intelligamus.Q_uod cu expnmere cupet Maro
Sybillamquxueradodhinaeft inducit offam in qua & andu 8Cb^ mefcens
fimul alimetum fit/Cerbero porrigetem/qua faale & fihm? I*'
det:& in fomnu inddat.Aureu pfedo prxceptu.Nam qui aut Uutiflimis
epulis corpori indulgetiaut uaria uina exqrit ipfa crapula at(j ebrietate
« c^us contu max fibi reddit/8J animi aciem ita hcbetat/ut nihil altu
fufpicere poflit . Upt^ quidem funt ifta qux dids inqt LAVRENTlVS. Verum
de Cerberonon idem TOCtas omnes fentire uideoiMaro enim eum canem ita
latratem inducit/ut non egredi fed ingredi cupientibus
aduerfet":cuius qdem rei rationem optime a te ex Mfitam effe
intelligo. Nam huiufcemodi corporis indigentia non iis allatrat qui
corpus curadum redeutifed iis qui illo negUao ad ueri cognitione £0“«“^
ItacK ut dixi ego qd Maro fibiuelit plane tenere uideot; Veru cum apud
Heli» dum poetam ut te non fugit nobiliflimum legerim Cerberum
uenietibusauda auribufm blandiriiExire ucro nemine patiiln infidiis enim
delitefcesjqucmcua extra ianuam offendatiftatim morfu laniat s no
intelligo quo nam modo hxcoi no inter fe diuctfa non fint nifi fortaffe
alium ad inferos defccfum um Maro exprimere uoluerit.Ingeniofe tu quidem
inquit ® dit enim ad infaos xneasiqa in uitiopr cognitione tcdit:Q_uod fi
ita eu ingit™ enti aduerfabic Cerberusrodit enim hxc corpusiFac aut aliu
no ut imU nan^ cognofcat inferos petereifed in ipfa uitia labi auribus 8i
cauda bladiet Cnbe^ qppe qui illu ingredi cupiatiNam qd aliud moliunt'
iquid aliud conant perd» boies nifi ut tridpitisbelluac non folii
indigeti* fatiffadatifed oes uoluptates plcanuQ^uod fi ide ifti nonunq
pdita uita reliqua «id enim eft infaos egteoi* - >4^».Liba guam»
tcnctit tuc latrat tunr mordtt canis.Rrde igtt'’ addubitaftt.Rrdt us aut
dubitatio orm fuluifii.brd ut ad Maronis cci bttutn rrdcam facile ille
(imp KnlTtnis rpuHs arquieuitsAcneasautnn celer ripam cuaditsNon enim
lente K cum fegritie bacc adtunda funcfcd omni contentione at<]t
ardore captiTcnda. Q_uc niam aut or* do in rebus huiufccmodi cft ut primo
uitia cognolcanf .Cognita deinde effuga» lunut pofirtmo illis purgati
rerum diuinatum in quibus fummumbrnum con fidit idonei contemplatores
eifiriamur/erat illi totius bumanz uitz curfus mrn< te repetendus/ut
peripicuc intelligeret no folum quato fe fcelere adnngit qui no biliore
fui parte neglcda in uno corpore:& in iis qux a corpore fum
uoluptatib? fpem omnem reponunt. Veium etiam quata miferia opptimanf.Earo
enim uir tutum armis quibus folis uidenes euadne potuilTi nt penitus
exuti nudelilTimis fortunzidibus nudos fefe obticiunt/& ut ca»era
aduerfa/qux innumera quoti« die aeddunt omittam /mortem ipfara qux
lingulis borarum momentis impedet uelub lummum omnium maloium
rxlKHret.Q_ui quidem matus enam Ii nui la alia ptutbanone adiaans ipfe
unus nos nunq refpirare linit.Q_uaprnpter hac iirpeipfosmfantesin pnmo
uitz limine petere oftedit.Hac & in fontibus p uim mferri edocet. Hac
& libi iplis eos afferre demonfiratiqui adeo imbecillo animo fimt/ut
grauilTimis quibufdam ptutbationibus fe pares gerere nequeat. Q^ux q dem omnia
diUgenter intuens xneas decernit tadem hoc in primis fapienti prx«
fiandum elTe ut culpa uacet/mortem autem ipfam inter naturx munera eoumc«
ret/cum cz ea no folum nihil mali nobis id eft animis noftris eueni» / fed
contra fummum bonum/quonia a tam tetro carcercfoluti in noftram nanira
rcdeam5’. Q_ ua qdem ratione faceti cogemur amice at<^ indulgentet cu
illis efle adum qui antea ad buUifcemodi miferiis erepti Itnt/quam in
casinciderint diuind^omni
nomunusilludincIcobim/ttbitoDcalunonecollatumtquipfofuma in ipfam deam
arqi in matrem pietate moetemcofecuti fint/Cxtenlt^ omnibus natienb bus
ac populis fapietiotesclTe traufosputabimus/ii enim populi in thracia
funt qui fuorum onum multis lachrimis ac lamentationibus excipiunttquot
mala il« hsin uica cucnmra line enumerares. Obitum uero omni genere
lattitix ^ fcquua tur.Cogitant enim quot erunisq uariisgrauibufip fortunx
cafibus morte libera ti fint.Huiufcetoodi igitur rationibus paulanm xneas
moetum mortis deponit: Q_uin fi aur fe aut quempiam bonum uiium fupplicio
morte ue per fummaiiv iuiiam peti uidcbit non duliilHme ur Xanthippe illa
de (bcrate falrc merenti hoc cucnitetdicet.Scd quod uetumefferapientes
norunt Ihilti uero negant a nrmi« ne nifi a fe ipfo quenq Izdi polTc
affirmabitmetp quicq quod turpitudine careac in malis cuumerabiti^uin
Kfoaatica argumentatione couincctquicuipiniue fiecrudeliterip in aiiuiu
«gerit non illum fed fcipfum iniuria alficere.Eos autem omni odio infcdandosducct/qui
animum immortalem fiuptr natura itaro* bulium/ut humana omnia contencre
polTit adeo fua ftulttria enenuuerittadeo £ taua confuetudinc imbecillum
reddittut famineo amore incefus in eum pau» tim furorem ptolapfus fittut fibi
ipfc manus atruleritiK morte q fummum tC> fetnalum putabatiid quo
urgebatur malum effugere tentauerit . Q_ua quidem in te pnmum ignauiam
ai<f incttiam cotum damnat:quia fua culp in eum Lbt o ii
In.P.V;rg.MtAIkgo. dinofum atnortin inciderint quem Plato ab humani»
morbis natum affirmat: quoniam illi eofoli afficiant qui uentri ac fomno
dediti: & diuinitate fua quam aroris denlis tenebris obrui pemuferut
penitus obliti nihil praeter caduca : & aut morbo aut aetate cito
perituram corporis fortnaih reTpidunn Q^uamobrem bis pcccant.Nam 8C a
principio Tuo deiidioro ocio ac libidinofa lafduia effedum e(l ut in rem
follidtudine plenam inciderint. Deinde cum morbum fua culpa cotn dum
diutius pati ncqueant:fumma fc impietate afttingunt qui a fummo deo in
coipus ueluti in cuftodiam mifii in iuflu ipiius illud deferunt.Specula^ poii
bax extremam eorum hominum inlaniam/qui cum perfummam iuffitiam
intrati/ quillo fccuro^ odo degere poflient/per fummara tame inturiam ac
impietate pa cem pcrturbare/ac omnia mifcere maluerut.Nam aut nulb
iniuria affedi ipfi ul tto auatitia ambitione ueimpulfi ferto igni fraude
nihil tale merentes laceiletut/ aut ipii lacelTiti nihil de iure quod
hominis pprium eft difeeptantes ad uim qux faamm ed fe contulerunt: Hinc
genus humanum cui pa edeordiam in fummo odo uiuere licuaat affiduo
mifccri uidcmusiHinc multarum regionum popula dones fiC infinito;:
mortalium catdes oriri aiaduertimusmt cum undi^ quzeu^ nobis calamitates
eueniut colligerimus:nulla homini q homo acerbior pedis in.> ueniat :
Vides igit q exada lapietia hasc oia poeticis ligmetis exponantur .
quidem quoniam huiufccmodi clVe animaduertit/ut & cum fcelae dant/ fit
po£> fint etiam uido carere/placuit ut una ac limplid cdmunit^ uia
irecur.Cum autea Deipheebo iam difccirum fuerit/quonia eam iam fefc
contcplanda offerut / quz aut penitus flagitiofa (int/aut pcul ab omni
fcelae folam uittutem continet du plicem iam efle uiam oportetrut altera
in itnidram ad ui tia defledaturcAltera uf/ to indutt^tnaduirmtesdcueniat^Hociglt
inquit LAVRENTIVS fitPytba goram illum exprimac uoluiife acdiderimtqui
littaam yadinuenit.Q_uod no latuit Perfiuspoeta/cuius cdillud.Et uitz
nefeiusenor C5eduxit trepidas ramola incompita mentes» Ifrhuc ipfum
inquit BAPTlSTA.Sed uideamus quzfequa/tur. Æneas fub rupe (inidra mcenia iata
uidet triplid circudata muto, fetifica p/ fcdu tartarotum
defcriptio.Locus enim exprimendus iam edin quo uarialole/ ta
puniantut.Hzc grzci tartara ab eo quod ed tarattiiid enim cd pettutbatetex
p turbationibus enim uitia oriunc .‘cademi^ paturbatam femper peccatoris
meo» tem tencntilnduduntur autem triplici muroiquia non una ac fimplid
uia fcd tri plia peccamus.ptimo enim quodam folo animi motu ab deprauata
uoldtatc fce Ius condpimus.Secundo deinceps loco accedit adus.Q_ui
podtetno iteeum at/ iterum muItoticnf(^ repetitus habitum
obdudt.Q^uamobrcmhzctria in tat taris iure expreflit poaa quz procul a
uiro beato edic tedatur laaoruffl cartniiid uates.Ille enim fiatim a
principio dc ordif :Beatus uir/qui non abiit in condlio i
piotum.Videsiammotumprimumanimiadrcclus.Ocindc fit in uia pacatora non
dctit.Q__uid enim aliud uia cd nid ipfa adioreitquz depius repaita nd am
piius in motu ed:fed iam fedcmdbi ponit fit redda in habitu iam coadabilito.
Rcde igit fit in cathedra pedilentiz non fcdit.Q_uod autem flammifluo
phlege thontbis flumine tartara ambiant" :minimc abfurde dixit .
Odendit enim aidp/ cem itacundiz: fit arumotum zdus quibus id hominum
genus alGduo torretuta Librr quattuc Tantum fnim tH
uittoruu odium/ut & qui illis delcdati lutif tandftn pcraitoi
tiamdcdudi uitaniprattcTitan]datnncnt:urhcinrntn(^ oderim i fibi uno
ipfia aetnime iraiiantur . Nam tu donum cblTes tranfifTc dies luretn^
palufttttn:Ca ptiui tamen unico habitus dnnui inuiti trahuntur at(^ ira
furore^ exeduntur. Q^uapfciptcr tapidus flammis ambit torrentibus omnis t
Tartareus phlegethon. Nulla cnun fomax/nulb fabrorum oflirina magis
exxfluat quam feeleratorum mens» Nam Taxa a flumine contorta oflendunt
quam graues quam molefli flnt buiufccmodi motus ati^ «agitationes. Addit
ad ba;c portam munitifilma fit foli do adamante columnas: quibus locum
ita munitum redditiut net^uirorumne ^ czluolarum ui efitingi poflit >
Q uid ergo flbi uult dodiffimus uir: Nempe hoc ut puto uiros flagitiofos
ac permtos cum in tartara deuenerint : id autem eft cutn longo habitu
fcclaum mancipia cfFcdi fint/nullis uirorum monitisinullis
diuinisptxccptissnulladeniipfyderumclemmtiainde eripi pofleiQ^uaprcs'
pter iute tales homines fit larini perditos / fit grxd afotos appellant.Erit
igitur in quit LAVRENTl VS amifliim in illis liberum mentis arbitrium /
ut fit fl uelint aduirtutem redire nequeant. Video fit in hoc ingenii tui
acumen inquit BAPTi bTA . Nam breui interrogatiuncula illa
omniaconcitafli : quz a grauiflimis phr lofophis de uoluntario dem
inuoluntario quzri folent . ua quidem in re no folum ingenium
laudo/ redconfilium quotp uehrmenter approbo .Nam cum multa liefe tibi
offerant tquzfloc cuiufquam auxilio ipfe tibi foluere polTis/ea tamen ab
alio dici mauis/ut fit raodeftizquod nihil tibi arroges: fit igmiiquod
prudenter interroges flmul laudem feras . Verum facile ita huic loco
occurretur li dicemus non uoluiife poetam ineuitabilem neceflitatrm/red
eam difficultate quz impoflibilitati proxima (it demonflrare.Sed fac
etiam(^(T placet)omnrtn ex cidendi facultatem adimere . Non tamen dicemus
flagitia quz committunt in^ uoluntariacffe.quando illorum principium
uoluntaiium ruit . Nouitenimin# continens peccate curo adulterium committit:
potefl^abflinerefi uult. Peccat igitur uolcDS donecafliduishuiufcemodi
deprauatis adionibiTs eo perueniat/ut contrada iam intemperantia etiam fi
uelit abfhnerc non poffit/non tamen inui.' tus dicetur peccaffe/quamuis
tunc nolit quoniam licuerat a principio/modo uo luiffet in firmum illum
intemperantiz habitum non deuenireK^ uaproprer no magis inuituspeccaffe
dicetur/q qui fua fponte in quempiam lapidem iaciat de^ inde
pOEnitcntiadudusteuocatetfipoffet lapidem : qui per aerem fertur quoni
amnoUer hominem ferire. Ferit igitur fi! bene uolens : quoniam initium a
fua uoluntatc fuit. Sed hzclatiusapud Ariflotelem in libro de moribus
difputata inuenies . Itatp redeo ad zneam : qui ut uides urbem ipfam non
ihgredit .Nam qui uitiafpeculanmrnon uniantur interuitia
.lllorumuerouimat^ naturam a S)rbilla(^nam eunda edocet dodrina^penitus
intelligit . Procul tamen in limi ne Tyfiphonem uidet.ponit igitur furias
in limine tartari/de quib^plzra<]p quz a poetis finguntur
uelutinotiffima omittam . Plane aurem conflat placuiffe pri (as
foiptonbus quicuni^ maiori flagidofeobflrinxetint a furiis uexari t ut in
Horcfhs Alcmconifi^ matricidio uidemus . Q^uo in loco quidnam aliud expri
tount furiz : nifi inquietudinem aepotius uexationem quandam turbulentif
In.P.Virg.M.AUego. Narorima hxttd uluo quod fe ludia
neroonoanaabfolmtur. VtminU cts/ut mdida/ut d«d<cus/ut infamiam
effugias ; nemo uident : nemo a^ienfc Q
uitcftisdtaripolTitadcfttamen Sp&confciennaiquxu “*8«* Sicium rapit .
|au.ff.mum tcftimonium dior i comnncjt ^am «jb
cod*,;U^uenaled.fc^^ ilU flacellai hi fcrpentum moifus quibus
fun* nos «agitant. Habes de tun t S aurem Ufcelera. at, V «auilf.ma«iftunt
a principio enumexat . Impietatem in S in homincs.Nam & tianiam
prolem flurni naulo ante dicebam / confaentix cruciatum
dodioreinterpretantu^ ?e enm ueluti Ceuiffmus fcelcrum uindearqux
flagitio obnoxujU^ i^ na affiduo nmarur : & dum commilli in
mentem dia corrodit /curafm afliduo excitat /nec eefpirandi fpanum
ueroK fxioncm tyrannidis exemplar effe uuir/quo* Upfura cadenti
imminet affimiUs: Nunquam enim fine pe^ione uiuunt . (^uod & Dionyfius ille
iyracufanus Uamodi tamilun L illum beanffimum putanti probe oftendit /
cum illam ita int« ^s epulas ac pretiofa unguenta coliocaflct /ur
umen metu fupta caput equina feta pendentis nulla poffet uoluptate
a la . mSlto rnelius\ofcunt h^ines quam detur modo impeni
acquirendi fa<tasttuitate fciant.Ncc ueto diffiale eft intelligne quid
ftbi te ora paratx regifico luxu; cur furiatum maxima luxta
ptohil^t contmgae menfas ; Neq, emm uerius neq, «prelf.us Le
potuittqux in eam homines dementiam protrabit/ut cumpluniM^
geffeS/tum maxime fame per, re malint quam congefta fe &
pulchre Orarius Tantalo illos comptat / qui apud in miiima aquarum pomotumtp
copia fm fame^ torqueatur. Pulchre em am^ illud tCongefiis undiq,
Ciccis indormis inhians & tanq^uain SI coceti* j pidi» unquam
gaudete ubellis. Magna ptofedo nutn da qw non norunt harum rerum
poffelTioncm non propter fe ntef illatum ufum.6 uapropttrbonailia
nontede/uuliaautemtecteappmus. Sed nimis mulu quando multis iamin locis de
auanua diximus /i «deliqua uidcamu* : Saxum enim ingens ii uoluum i. Quotum
uiu per Itm mam mftriamin eo uerfaturiutCcmpcr ea prtantitamohn “ir
««/qux aut nativam aut fortunam suam confbtuu efficere nequeant i o^el^
eoii« conatus irtiti mefficacefij fint.Rourum uao udus dettndi pendere
nmw‘ Kdicuntur.quinibilranonefiiconfilM) ptzuidcnteiinihil P‘“^, deo
fe fortunx conimittilnt/ut eius cafibusuelun inter eutyp fludibus ucw
affiduo totentur.ne« uittutem ullam habent in quatn ueluu in tutum
ttanq^ him^potturoW^tteapoepofliBuHuiufcemodiigitutuUttactchqnaquxpItt r- Liber
guaitiu rimi uaria^ fuot edocet Aeneam Sybilla / dodum^ flattci ut feiUis
«pii> ct admonet : ut punis campos clyfios ingredi poflit . ms igitur
Matontm a Platonis dogmate difcedcrc diat. lllc enim cumfummum bonum in
di' uinarumtetum cognitione pofuiiretiproptetea^ ccnittctomniuuiuium
gr^ nete excellere cum opottae : qui cum Iit futurus beatus / tamen ab
iis in< dpiendum cITc oftcndit qua: Ant in uiu & moribus poliiz .
Cum enim dv uioa / quae puriflima 6i ab omni labe corporea impolluta lunt
impurus nr-< mo attingere ualeatt pcrhuiufccmodi uirtutes expiemur
neccire cU/ illis ctjita tL uitia cogDolicimust SC cognita abhominamunat^
puiilliau ndiu i.xlo^ fiia ac immortalia egredi poAumusiHac igitur
ratione iinpuilus Maio cum ad tummum bonum perducae honunem uelitt ira
Acnram iiiflicuendum curati ut primo uitia omnia edoceat/ deinde illis
cum opiaium ad campos clyAos perducat. Cognita enim uitiorum turpitudine
totum odium Boa inepuiquz quidem prima omnino lapientia cft. Audirus cnim
ad il>« km/cA,ut fiulritia careamus . Sed tu nefcioquid mirabundus
tecum animo ooluisiifibuc ipfnm inquit LAVRENT1V6. Stduide.quantum tibi
extua diTputationc debeam. Dum cnim mihi planum icddeie Maronem
ttnusi id^ efficis eodem tempore in noAri duis diuinum poema induds .
Nunc cnim demum pcrfpido quid Abi uclit Oanihcs / qui piimum ad inferos
de< (cendattat^ inde emergens, nullam aliam uiamniA
pcrpurgatoiialocaadca; Ium inucniat : Made uiitutis adolcfccns inquit
liAPTlSTAi qui non ea ib lumquz dicam Si A diffidlia Ant facile acapias.
Seu quadam Aaulitudiueou dusinde ad alia accedas/ut cum ilk maximam
laudem ex diiigcntiilin<a qua « dam ingenii atrihd^ plena imitatione
alVccutus At : tu quoqi uuuciedio<> acm laudem mcrcaris.qui bzc
omnia/quanquam uebemcutcr dilliuiuJata lint in illo poeta rccognofcas.
Ego uero inquit.L. quantum cx huc merear ipfciu« dicabis tqtianquam
ueriorne nimio in me amureiaplus noAiutnlioc ingcnk um longe pluru
facias/ qua oportet.iliud tamen Si A alicnuni a ptopolito fcf<t mone
uideatur/non omittam .Tu autem quod dicam ea laiiunc amc dida aedas
ueliin / non ut meum ueluti decretum in tanta icponam / fed ut iudtci'
iitntuum quod ego onmium reliquorum ludicioaotcponomcu uerbis elici am •
Ego a prima pene puetma cx uiaufqi patentis m Aituio adeo famibate uni
uctfum opusAorentim poecz mihi reddidi / ut pauci omnino Ant in eu lod
quos ego Aquando illi huiufecmudi oblcdamcntt gciius rcquitcter.t/ non
fa« cilc ad uubum exprimerem. Sed quid poteram puer ex um dtumo uacc
ptet maa uerba pcteipcre.Nunc autem cum uniuetfum rci argurocniu mciice
peu curro tumma admirauone cius uiii ingenium ptofequor.Na oi lu upexe
fuo te xendo pauca onuiino Ala de uirgiliaiu teia mutuari uideac ttameii
mde oia pe ne Ant.l^uiobtcmnuncnd demum inteiligo/quod nos cx Cict-roms
peepto IzpenufflccoLidinus admonete folct cc in aliquo imitadu diligctcm
oino u* dooe adhibcnda.Nci^ enim id agendum uri idem funus qui fuut
miquos imi tamut.Scd cotum ita iimilcs : ut ipla Amilitudo uix illa quidem
neq^ oiA a do dia iatcUigauit.Sed tu A uidetut ad inceptum tedi. Cum
igitut inquit. & la.P .Virg.M.Allcgo. omnibus iam
uidis expiatum Aeneam ad eamm rerum cognitionem Mato deduAurus elTettqua;
in casiis funt noncxlum fed elyfios ampos nominat. Miro profedo ingenio
u3tes/& qui eodem tempore & figmento fu o Kuerita
tiin(eruiat:Nam& (i apud inferos poetarum more heroas relcgalTct i
tamen nt hzc omnia de czio ilium fentire animaduertamus largiorem ztherem
: ac fuum folem fua^ fydera illis tribuit / ut cum a figmento nufquam
difcedat philofophizumen ucritatem profequatur . Nos autem (i quos
uirosilleincz ios reponat diligentius confiderabimusiea omnia quz primo
difputationis die de utroi^uitz genere a nobis erporiiafunt acubflime
ilium elTe complexum animaduertemus / ut K qui in rerum cognitione
reIigiofe/8; qui in adionu bus ac uitaduiliiufte uafati Hnt digni omnino
exiftant: qui in czlumuelu« ti in originem fuam redeant i Q_uapropter BC
Orpheum Si Mufeum ac reli> quos qui cafti fuerunt facerdotes : qui
phoebo digna locuti uerum reliquis ape rite potueruntsqui uaharum aitiu
inuentioneuitamcxcultiorem reddiderunt tanquam
fpeculatorescotnmemorat.Nei^ tamen eosobmittit qui aut piisar< mis aut
confilio opera induftriaat^ audoritate rem publicam dcfendcruntiK in
duiliacfocialiuita ueifati funt.Huiufcemodi ita<^ animos ab omni cor«
porea contagione expiatos cum fimplidlfimz 8C omnino incorporez naturas
fint : SC maximarum rerum capaces exiftant mullis locorum anguftiis
arcuferi ptos / nullis regionum terminis inclufos eum animaduettac / fcd
liberrime per omnes mundi oras uagareuideat: ita Mufeum loquentem indudt:
ut often. dat nulli e(fe certam domum/ Q_uin & cum ita fenoit quz
gratia cunumiarmo rum^uiuis fuit quz cura nitentes pafcere equus eadem
fequitur tellure repo* flos, demonfkat non clTe fcimroemoremeotu quz&
diuinusPlatot placo, nicus Cicero de animis noftrisfentit.Cenfent emm
adminift ratores terum.p. cum in czium recepti fuerint regendorum hominum
curam non deponere. Net^folumii quiiuflepieqt uixerunt eodem audore
iifdcm (ludiis detinen. tur corpore exuti t quibus dum uita manebat
deledabantur: Verum llagttio. forum quotp animi / quoniam multum ex
fordibus quibus intta corpora fe fadauerunt/ fecum inde trahunt a
prilhnis curis difcederc nequeunt. Vidt« ftis ni fallor longum quidem
iter / ac difficultatibus erroribufi^ plenum: fed quo tandem uir uirtutis
amator finem diu concupitum attigent. Per uari. 05 enimcafus pertot
diferimina rerum initaliam tendam s OC in quietas f&. des deuenit
Aeneas. Q^uem quidem fi imitabimur nos corporeis pedibus liberati / SC
nitido uirtutum fonte irrigari eodem uitz genere SC dum intra hzc corpora
uerfabuntur animi nofiri gaudebimus /& cum inde uoiucrint innoftram
originem reuerfi zterno zuo fruemur.Q^uz cum ita a BAPTi.STA dida fuilTcnt : ut
difputationi finem impofuiffe uideretur/nihil polfutn inquit LA VRENTI V
S in ram longo fetmone defiderare.Nam a principio ad hunc uf^ locum ita
perpetuo tenore difputatio perduda edtut nihil aut inter* niptu/aut
diuulfum/aut ptzcipicatu t in quu inter mediu aliquod rclidn omif fum ue
fit qri poffu.Sut eni oia mirabili fetie colligata/& eo ordiecotextaiut
ni hil inde demi pofTintiquin quz tcliquutur manca fmt futuraiK nihil
addi qrf J M M S IJ i J i-S rg.§S l-l 1 t-i t 1 1^4"S fi-lltt quidem
6 ab/it /multopere requlreudu uideat’.Ignofcens tamen nimiz cupidi tari
no(trz/ri td nunc rcquiram:quod cu uehementer mihi planum reddi cupii
idne^badcnusateez porituintclligisnc^locuinquo deinceps exponi poflit
teKdu uidei:Ezpefiabam enim non modo fufpenfo uerum etiam anxio animo
quid tu de iis fenrircsrquz furpiciens Anchifes fuo ordine pandit. T u ueto
dum rcbqua inter dirputandum fuis quz^ lods difiribuis/illa no ueluti
familiaria io iufteeiedarfcdtanqua aliena rine ulla iniuria czclufa procul
a tua difputatione amouifti . Q^uapropter incertus fum quid agam:Nam
ne<^ audeo te longa ora rione defatigatum quicquaprztercarogareme^ is
quz fcire cupio zquo aiu^ mopoilu carere. Hic arridens BAPTISTA meminiife
inquit te oportet oLau miri nos huiufcemodi terminis aniuetram quzfiionem
drcurcripiifre : ut quz ambagibus quibufdam/atip allegoriz figmentis
obfcurata effent aperienda pro poncremusim autem ea tequins quz fuis
uerbis fine ullo figmento enarramr. Ego tamen non ita exada ratione tecum
agam/utquodexpado debetur/id fo Ium enumerem t Sedprauerid gratis aliquid
in ea hbcraliiatc accedere uolo : Id igitur quod Maro ut Principio czlum
ac tenasicampofcp liquentes: Lucentenv ^globum lanzritania^a(ha:Spiritus
intus alit : huiufcemodi eri utftoicora de diis opinionem refetat:Longum
effe fi nunc omnium antiquorum philofo« photum de diis immortalibus
fententias referam: Q^uz quidem tam diuetfx ta^ inter fe aduerfz funt/ut
totidem pene reperiantur/quot funt eorum qui feri pfciuntcapita:Nonenimfingulzfolumfamilizfingulas
fmccrias excogitari: Sed fzpe inter fe eiufdem fedz uiri uehementer de re
ipfa diffentiunt. Verum ut reliqua ad przfcnsmiffa faciam & ad ea quz
przfenti inquifitioni confentanca funt deucniam:plzri^ ffoicotum:fed
przfertim eorum princeps Zeno uniuer« fum mundi globum mentem &
ratione &fummafapientiaprzdita habere ae« didaunt /eam^ effe ignem
quendam purifTimum ac tenuimmu . At ueluti ani mi noftri per fui corporis
particulas oes diffunduntur/ita illu per oia mundi me bta ueluti geniule
femen unde eunda procreantur/penetrarciquippe qoi uigot fcmeni^ fit omniu
procreandorum. Virgilius igitur quauis ui reliquis a Platone fuo nunqua
difcedat/tamc cum uidiffet Chiylippu in eo quem de natura deope limpfic
libro Orphei mufd Hefiodi at^ Homeri fabellas ita interpretari /ut ide
prifcosolim poetas fenliffeconeturoftendereiquod multis pofiea annis
(loici fenferuntifbtuithacinreneab iis poetis quorum fimilis effe
cupiebat diftiml> Iis putaretur /^ ipse PORTICUM fulcire ac floicis
adhauere.Na Platonis longe alia fententia eff. Ponit enim deu penitus
incorporeum:at^ extia omnem materia/ omnem^ mundum
inipfoczlidorfoexiflentem. Q^uapropteeillu hypcrcof^ mlon
appellatiquoniam eifentia sua supra cxli uerricem mancaticum tamen ui ac
providentia nufquam abfit.fed omnia circufpiciens etiam minima curet.In
phzdro enim ait. Magnus in czio lupiter citans alatum curtum inccditJ^mua
exoinanscunda.Eodem^ in libro demonftrat locum illum neminem adhuc
laudaiTe poetaiummec unquam pro dignitate laudaturum.Q^uaroobrem cum
Platonici deum eztta mundum ponantiquibus etiam Ariflotelici
alfentiuntutt Stoici aut illu per omne ut dixi mundum diffundat, qs no
uiderit Virgiliutn /i in.P.Virg.W.AIIfgo. cutn
dcutn quctn in potticu uiderat dcfcripliiTcnnimorip noftros illius
partica bs elfe a Chrjiippo acccpilTe.Cu autem prouidcntiam dci multis in
loas prafe quatutinufquara a Phtune difcedit.Non enim idem omnes
rendum.Q_uzras fottaUe quid de mundo sentiat PLATO [PLATONE]. Ccufet
quidem animam eu babcrc/a qua reliquorum animantium animz (int.bominum
autem animos abeo deo que paulo ante dixi creah:££ ratione exornari
uultiCorpus autem atip cacterasoes vires quas praner ratione mia bi seiTefamus
bomiiaiabanimo mundi elTe (ai bit.EQ enim lile dei uicatiusicuirjlua
uniuetla ueluti fua prouinda denudata Imltai^ illi uita moturai^
prxbet/non fuaui autfacultate/ledquicquidagitid uelun dei
in(humentuagit.Oeclinat igitur paululum de uia Matotat^a Pia/ tonefuo discedit.
Cum autem dei prouidentiaplunmis locis profcquicuri illi totus
adbzret.Non enim idem omnesfentiunt.Sunten:minfortunz qui calt bus omnia
ponantiK nullo credat mundum rectore moueti.Q^ua in fenten/ tia Leucippum
abdaitem/eiufe^ conduc Oemoctimm: Protagoram quo^S Theodorum ac Epicurum
repenasi^unt itidem qui Andotelem fecuti non ita odofum deu ponauut nibil
omnino curare dicant. Illius tamen prouidentia Iu nz orbem
dclcenderenoaeduntiSunt deni^K tettiiqui fitliuniucifumper/ tingere illam
uelint maxima tamen dutaxat curatr/mininu ucro omnino negli gere opinent.
At Piato ut eunda a deo fada putat/ ftc eunda illum curare exifti
mauAtipbzcdedeo.Otbeucto quo uiallim animos nodtos ab inferis ad coc/
pustat inde rurfus ad inferos tranfirefaibit ab academia cftc non
negamus: Verum si latius de re buiufccmodi dilTcrendum
propofuilTcmusiextant multo diuiniota quz a tato pbilofopbo de aiope
corpore difcclTu pferre poiTimustSed difficile oino eff um breui tempore
res arduas/ longa diligende^ otadone .ex/ plicandas bisanguftiis
includere ltaij quod roluminffat idagamus lnuenies igitur apud Platonicos
cu mille annos apud inferos fuciint animi bominn ad corpora
illosredireiatijinde uidffim ad inferos remeate.ldi^ totiens facere do
nec duodedm anno^ milia tranliednt. Hunc enim orbe perfedu extChmat.Na eo
fpado penitus purgari aios CTcduti^ptcrea^ poffe illos tu demu
purgatos/in fuam origine & adezicifes fedes reduc: Q_uod iiquis
fuerit qui pbilofophiz fe dcdacibuic ta fadiis purgado obumit:ut aceat ei
poft tria annopt milia ad fupe ros euolate: Adduc ena fiqs teligiofc oino
uixeritieu ante mille annos H purga/ ti/S purgatu (fatim in fua origine
redire: Eff prztcrea quemagnu annu appcl/ ]at:quc cuc finiri aedunt cum
fol una cu luna ac quin^ reliquis enatilibusffel lis ad eade zodiaci
parte rcdieiint. Exado igitur boc tpis circmtu:quc et si vatta sit dodoru
de illo uiro ru sententia rex tamen ac triginta millibus annoruconfi ci
plzrii^ acdidere.ccafec Plotinus omniu bominu animas ad eunde uitz babi
tu rcditutas.Hzcigif'& qualia (int/& quid facicnda/fadleexco libro
perapi cs/que nodu expolitu in manibus hic noffet Matfilius habet: nec
adhuc edidit. Vciu ego cum apud ipfum inbgbinenffdiueniffcm/cafuin cu
incides aperui/ locof^ quofdam fuma cum uoluptate percurri. Res omnino
magna eff LA V/ tcd/fl( magnis ingcniuinbus ttadata/Sprotfus digna in qua
labores. Poterit nitn no tolum maxima ac pulcherrima & homini fe ipfum
noffc cupiend per quartus
aeeelTariatedocercrcdmrummatn quo(^ admirationem rapere. Scnbit
enim non phyticcCut plxri^ folent^ fed metaphyiicc de animoru noftroru
immorta litate/utplane poffit de ea re omnem dubitationem amouere. Quem
librum cu Icges/&ha;c quz deMaronereqiuris:&plzra^ alia quz nos
paulo antediuinif fima cfle non rumusmentiti/facilec^nofces:Qux quidem
res facit ut in iis quzpo (hilafiibreuiorquelles/forta(»fuerim.l^hil
tamen eft quod breuitad ^cenfeas. Nam cum ea requireres/quz nullis eius
difputationis quam pepige camus cancellis includerentur/poteram illa meo
iurefilentio przterire. Itacpid facile fi forte obiidatur diluam. Apud vos
verododifTimiuiriquomodome purgem non invenio.Video enim dum pofiulanti
LAVRENTIO nihil d&> ncgo/duplids errati culpam inddifle.Nam quid
me aut loquadus fingi poteft/ qui quarto iam die ea eruditifiimis aunbus
uefiris inculcare non delinam : quae quadodrina efiis/uobisqua mihi
notiora fint: aut aud adusex cogitari quiim praemeditatus ad differendum
de iis rebusaccelferim quzadodilfiinis iifdci^ diuprzmeditads uids uix
faris eleganter/profua dignitate explicari folcant. Im mo quid
humanius/quid tua fadiitate dignius refpondit Alamanus effid potu
Itquameanobisodofisdilferere/quz tamen magnis vehementer cp urgentia bus
occupationibus przponere non dubitaremus.Nos autem inquit Petrus ac
daiolus/uolo enim & pro fratre meo refpondecc ne optare quidem id aulielfe^
tnuss quod ultro nobis arridens fortuna attulitiut tu tali przditusfapientia
at ELOQUENTIA VIR ea deduplid quzftione primis duobus diebus breuiter per.
Ipicueiabfoluteip in unum congereresrquz non nili per fummum
laborem:(i> mam^ indufiriamex multis ac uariis fcnptoribus cruipolfunt
.Nam Maro nis diligentifiima at^ multiplid dodrina referta interpretatio in
qua tertio ac quarto iam die uetfarisitum quia pulcherrima/tum quia
inaudita accidit no mi nori Ihiporetqua deledationc nos alfecit.Non
polfut fatis pro fua dignitate lau dariquzatedidafunt inquit Antonius :
Sed utinam Baptifia quoniam reli quamztatem Romzcon fumpfilb/ hanc tandem
fenedutem patriz uel optao ticodonare/uei illa tanquaafuociue exigenti
corpore uelisutfzpius te dema' gnis rebus difputantem audientes ciues tui
dodiores indies meliorefc reddantur: Verum has ego huius Marci partes ee
ducoiTe enim pro ea quz illi tecu intercedit nec clfitudine modo nitat facile
in sua sententia tradudurum confido. Q_uin ifihuc ia diu ago inquit
Marcusinec prius defina qua aut ronibus impc' trauero/autpraecibus
ezotnaueto aut defatigando extorfero; Sed ut confido muItum meineateiuuabit
LAVRENTll acluliani ingeniu acftudiu.NI cu inultu iam in litteris uter pfeccrit:
fitr^ multatu tetu addifceda^ ardentiffima cupiditasrcu^ cztera illis
& a natura 8C a fortuna adiumeta ad re perficiendam abunde aifintind
pariet'' ille diu adolescentibus quos cariflimos habet operam sua desiderari.
At q liceat md iqt BAPTIfta ego talib5’adoIefcctib9ounq deerot Sed
furgamus ii/SC qm primo mane uobis e in urbe redeudu.intellexifti cni pau
lo an uurcriu publicis Ifis accctfiri/qd' reliquu diei eft ualimdini
ipedamus. Quzftionu Canuldulefiu Cbrifiophori Landini [LANDINO] florentini
QuaitifiC ultimi libri Finis. CumPriuilegio. -Z.sisqfc "Moibc
scof. Questo lavoro porta nuovi elementi allo studio delle complesse
vicende inerenti i RERVM GESTARVM FRANCISCI SPHORTIAE commentarii di Giovanni
Simonetta e il relativo volgarizzamento, la sforziada di Cristoforo LANDINO.
Nel saggio introduttivo si indagano gli aspetti biografici, storici e
filologici riguardanti le due opere, partendo proprio da SIMONETTA, attivo
nella cancelleria di SFORZA assieme al piú noto fratello Cicco Simonetta, e
ricostruendo la storia testuale dei Commentarii dalle loro origini agli
emendamenti eseguiti dall’umanista POZZO in vista dell’editio princeps, senza
trascurare le vicende editoriali e le prime reazioni all’opera. Punto di forza
dell’analisi è l’aver ritrovato e studiato nel dettaglio il manoscritto
originale, nonché esemplare di dedica, dei Commentarii, già noto a SORANZO il
secolo scorso quale codice Castelbarco. L’attenzione si sposta quindi da Milano
a Firenze, entrando nell’officina testuale di Cristoforo LANDINO per sondare la
sforziada dal punto di vista metodologico e contenutistico, con un conseguente
particolare riguardo per le vicende successive all’invio del manoscritto di
dedica (copiato da Tommaso Baldinotti) a Milano, dove il testo viene sottoposto
dal Simonetta a numerosi interventi visibili ancora oggi. Chiude la parte
introduttiva un capitolo che vuole delineare la storia dello sviluppo dei
commentarii come genere nel quadro storiografico dalle origini alla fine del
Quattrocento. A seguire il lettore troverà l’edizione critica della sforziada
in veste integrale, corredata di un approfondito apparato comprensivo degli
interventi che ne testimoniano la ricezione a Milano. Grice: “Perhaps more
interesting than the fact that he loved the Achilleid, and commented on the
Eneide, is that he sold the sforzeide – sull’eroe Milanese, l’invitto Francesco
Sforza! Howell in I Medici. Cristoforo Landino. Cristoforo Landino. Grice: “I
love Landino; for one he wrote the first Italian philosophical dialogue,
“Disputationes” – for another, I love
the setting!” Landino. Keywords: dialettica fiorentina – implicatura fiorentina
– la Sforziada di Simonetta. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landino” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Landucci – i misteri del delitto Gentile e le bestie senza stato di Vespucci –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Sarzana). Filosofo italiano.
Grice: “If I had in Hardie a wonderful mentor to Aristotle, I missed Landucci’s
mentoring me into Kant!” – Si laurea a Pisa con Luporini. Insegna a Firenze. Saggi:
“Cultura e ideologia in Sanctis” (Milano, Feltrinelli); “I filosofi e i
selvaggi” (Bari, Laterza); “L’origine della scienza sociale” (Firenze,
Sansoni); “La co-scienza e la storia” (Firenze, Nuova Italia); “La
contraddizione” (Firenze, Nuova Italia); “Teodicea” (Napoli, Bibliopolis); “La
Critica della ragion pratica” (Roma, NIS), Sull'etica di Kant, Milano, Guerini, La mente
in Cartesio, Milano, F. Angeli, I
filosofi e Dio, Roma-Bari, Laterza, La doppia verità: conflitti di ragione e
fede tra Medioevo e prima modernità, Milano, Feltrinelli, A. Gnoli, Intervista,
"Repubblica", Scheda biografica su Einaudi. Sergio Landucci. Grice:
“Basically, Landucci covers all the topics of my interests, including that of
the alleged ambiguity in Kant’s idea of a ‘reason’!” UCCI, UCCI SENTO ODOR DI
SERGIO LANDUCCI – I MISTERI DEL DELITTO GENTILE, IL LEGAME CON LUPORINI, IL '68
IN CATTEDRA ("FUMMO INVASI DAGLI ANALFABETI") IL GRANDE FILOSOFO SI
RACCONTA: “MI PIACEREBBE SCRIVERE UN LIBRO SULLA DEMENZA SENILE CHE STA
ATTANAGLIANDO L' OCCIDENTE. RICORDO UNA FRASE CHE DICE: "GRANDEZZA È CIÒ
CHE NOI NON SIAMO". HO LA SENSAZIONE CHE L' ABBIAMO
DIMENTICATA…” Antonio Gnoli per Robinson-la Repubblica landucci
LANDUCCI Per molto tempo il suo nome è rimasto associato a
un grande libro che quando apparve nei primi anni Settanta fu come una meteora,
tanto sembrò strano nel panorama delle cose che allora si pubblicavano. Sto
parlando de I filosofi e i selvaggi (uscì allora per l' editore Laterza ed è
stato ripubblicato, e aggiornato, qualche mese fa da Einaudi). La sua
lettura mi colpì allora e mi rimanda all' oggi con i "selvaggi",
sempre meno variopinti ed esotici, spinti dalla disperazione ad abbandonare le
loro terre martoriate. Il paragone turba Sergio Landucci. Seduto nello studiolo
mi guarda con la sua faccia triste. Sono venuto a Firenze per incontrarlo. Si
stupisce e quasi si scusa per il fastidio che mi avrebbe arrecato: è un uomo
timido, deluso, gentile ma altresì con un retrogusto di indefinita
rabbia. Landucci è stato allievo di Cesare Luporini, ha insegnato all'
università di Firenze, subendone, dice, tutti i contraccolpi politici: «Divenni
ordinario nel 1968. Quasi immediatamente percepii un generale clima di ostilità
e rassegnazione. Con una rapidità incredibile la facoltà di filosofia adottò
una selezione alla rovescia: vennero avanti a passo di carica gli analfabeti, i
carichi didattici furono alleggeriti, i ruoli stravolti. Ho vissuto
tremendamente male gli anni dell' insegnamento e nel 2002 decisi per la
pensione anticipate. È stato così frustrante il lavoro universitario? «Lo
è stato certamente per uno come me. Mi consideravo, come si diceva allora, un
"cane sciolto". Mi stupì constatare che la facoltà si era ridotta a
una grande cellula del Pci, su cui si incistò dopo il '68 la contestazione
studentesca». I punti di riferimento furono però due grandi personalità
di sinistra: Eugenio Garin e Cesare Luporini. «Maestri indiscussi.
Mi chiedo tuttavia quanto sia stata acuta la loro vista politica. Garin fu il
grande interprete di una filosofia come sapere storico, il suo storicismo era
totalmente in sintonia con le posizioni culturali del Pci. Quanto a Luporini c'
era un inquietudine ben maggiore che lo portò a misurarsi e a simpatizzare con
le ragioni degli studenti. Non stigmatizzo il loro magistero, cui peraltro devo
moltissimo, sostengo semplicemente che furono anni in cui la politica prese il
sopravvento. Era lo spirito del tempo. « Ne facevo parte anch' io, ma
senza tessere o bandiere. Del resto non sono mai stato iscritto a nulla. Giunsi
all' Università di Firenze nel 1960, come libero assistente, chiamato da
Luporini. Quali erano i vostri rapporti? E mio professore a Pisa e
con lui mi laureai. Mi affascinava quest' uomo che nel 1930 andò in Germania a
occuparsi di esistenzialismo e seguì i corsi di Heidegger». Credo sia
stato uno dei pochi italiani a frequentarne i seminari. C' è un episodio
rivelatore del rapporto con HEIDEGGER Quando il filosofo tedesco pronuncial il
famigerato discorso con cui si insediava da Rettore a Friburgo, Luporini restò
sconcertato da quell' adesione al regime. Qualche giorno dopo incontrandolo gli
comunicò che lascia Friburgo per Berlino. Heidegger gli chiese perché. Lui
rispose che era interessato ai corsi di Hartmann. Il maestro lo liquida con un
ironico "tanti auguri"».A proposito di filosofi si è spesso detto che
il vecchio lupo, così era soprannominato Luporini, fosse rimasto l' ultimo a
sapere i dettagli dell' omicidio Gentile. Lei è a conoscenza di qualche
particolare? « C' è innanzitutto da ribadire il legame che Luporini ebbe
con Gentile, il quale lo chiamò come lettore di tedesco a Pisa, in sostituzione
di Oscar Kristeller, ebreo che dovette riparare negli Stati Uniti dopo le leggi
razziali. GENTILE aiuta Kristeller, come pure tanti antifascisti che si
rifugiarono alla Treccani e all' Università, fornendogli soldi e assistenza.
Poi chiama Luporini alle due di notte dicendogli di decidere in fretta perché
altrimenti sarebbe venuto qualcuno dalla Germania, quasi certamente un
insegnante di fede nazista».Questo è lo sfondo. Poi cosa accadde? Quando la
situazione precipita. Luporini va a casa di Gentile e lo scongiura di non
entrare nella Repubblica Sociale. Gli dice. Professore c' è gente che non
aspetta altro per ucciderla. GENTILE aderisce alla Rsi e viene ucciso in un
attentato. Si è detto che Luporini conosce i mandanti e gl’esecutori dell'
omicidio. Credo che il vecchio lupo non sa nulla, o almeno nulla di
diretto. Ci e una sua dichiarazione radiofonica in tal senso, ma credo e il
frutto di un fraintendimento. La frase di L. e questa: Cose che forse non
si possono ancora dire. Cosa le fa supporre che e frutto di equivoco? Il
fatto che accreditasse la versione offerta da Mattei, che sull' argomento cambia
più volte opinione. Fino a sostenere che dietro quell' omicidio ci e BANDINELLI.
Mai uno straccio di prova. Credo si sia perfino inventata che fu lei a indicare
al commando gappista la figura di GENTILE, che non ha mai conosciuto. Poi c' è
la testimonianza della moglie di LUPORINI Maria Bianca Gallinaro, la quale mi
disse sconsolata che la storia che Luporini sapesse era solo una leggenda, del
tutto infondata». Possibile che non ci fosse un grano di verità? «
La sola cosa che riesco a pensare è che LUPORINI e emotivamente coinvolto. Dopo
l' attentato, GENTILE e trasportato moribondo all' ospedale. Il fratello della
signora, medico al Careggi, chiama LUPORINI dicendogli se vuole vedere per l'
ultima volta GENTILE. E lui anda e vede il filosofo in fin di vita. Non credo
sia stato un bello spettacolo. Questo è tutto. Dopo quella dichiarazione
radiofonica mi permisi di consigliare Luporini a non pronunciare più quella
frase».E lui? « Non so se fu una mia impressione ma gli lessi negli occhi
un certo imbarazzo». Negli anni di Pisa chi frequentava? «Tra le
persone che hanno avuto un peso: CANTIMORI e TIMPANARO. Di quest' ultimo
divenni grande amico». So che Cantimori incuteva una certa paura per il
modo di fare lezione e interrogare. «A me, che non sono stato suo
scolaro, suscitava tenerezza». Cosa pensa della sua vita ideologica
piuttosto travagliata? « Se allude al passaggio dal fascismo al comunismo
non saprei cosa pensare. Come ad altri intellettuali gli è mancato il pensiero
liberale. Era dominato dai fatti e dall' idea che la storia sia guidata dal
potere. Usce dal Pci. Non solo per i noti episodi di Ungheria ma perché non ne
poteva più del partito. Era un sopravvissuto a se stesso. Cosa
intende? Deluso. Era convinto che io fossi una specie di longa manus del
Pci, non gli ho mai dato la soddisfazione di smentirlo. A volte con ironia
diceva: "Landucci, è vero che non basta dire viva la bandiera rossa per
essere intelligenti?". Gli ultimi anni della sua vita li passò a insegnare
a Firenze, in un ambiente che non lo amava. Prima di morire andò a Princeton
per un ciclo di lezioni e quando tornò gli dissi: "Le ha fatto bene stare
lontano da Firenze". Sì, rispose, ho evitato la noia». Poi c' è TIMPANARO.
«Era stato allievo di PASQUALI, ma invece di inseguire la carriera
universitaria, divenne un outsider della cultura. Motiva la sua scelta con una
certa difficoltà a parlare in pubblico. Ma io so che aveva orrore della
professione accademica. Ebbe rapporti difficili con il mondo e bellissimi con
le persone che amava. Per lungo tempo mi considerò tra queste. Solo negli
ultimi anni scese tra noi il silenzio. Non digerì, non accettò o forse non
seppe accogliere il fatto che mi fossi separato da mia moglie. Ma la vita va
dove deve andare e a volte non ci possiamo fare niente. Da lui ho appreso il
rigore filologico. Fu grandissimo nelle questioni leopardiane e in tutta la
riflessione sul materialismo. Ma anche sorprendentemente originale nella
lettura di Freud. È strano, ma ogni volta che penso alla vita di chiunque, mi
chiedo quanta parte vi avrà avuta il caso. Le coincidenze prese o mancate, per
lo più senza rendersene conto». Per lei il caso è stato così
incisivo? Direi che il caso domina fin dalla famiglia di origine: un
ambiente che non scegliamo, e nel quale ci troviamo gettati». La sua
famiglia com' era? « Papà avvocato, ma frustrato perché ricopriva un
impiego modesto. Mia madre maestra. Vivevamo a Sarzana. Ricordo un padre
anziano e la mamma che gli proibì di venire a prenderci a scuola, me e mio
fratello, per paura che lo scambiassero per il nonno. Lo vivevo come un uomo di
altri tempi. Anche nel lessico ricordava la belle époque. Invece di autista
diceva chauffeur, vis à vis a posto di specchio e quando chiedeva l'
asciugamano diceva passami il Amava il melodramma italiano. Invece,
melodrammatica di suo fu mia madre. Risultato: ho sempre detestato la musica
lirica! Forse perfino più di quanto non abbia detestato che mi chiamassero
Sergio». ROUSSEAU Dà l' impressione di un uomo provato dalla
vita. «Sono molto amareggiato dalla mia vita professionale e privata. Non
ho né la forza né la voglia di entrare nei dettagli, ma ho l' impressione di essere
stato irriso e torturato dalla vita. Il lavoro nelle biblioteche di mezza
Europa e negli archivi è stata la mia droga, la mia unica grazia. Non ho avuto
nessun successo ma almeno mi ha consentito di vivere». Non è
vero, il suo libro sui " Filosofi e i selvaggi" è un grande
libro. «Non diciamo sciocchezze, troppo carico di note, di troppe
citazioni in originale e, in fondo, di inutile erudizione. La sola cosa che
ricordo è una stroncatura di Furio Diaz. Scriverlo, fu un' idea casuale. Un
libro nato senza nessun presupposto. Diciamo che mi appassionava
Montaigne». È il primo ad accorgersi della figura del selvaggio e a
prenderne le difese. « Non è il primo, ma in qualche modo rovescia la
posizione di Amerigo Vespucci che presenta i selvaggi simili alle bestie.
Diversamente da Colombo che sposa la tesi antica del mito del buon selvaggio.
Montaigne dice che il selvaggio non ha Stato, non ha costrizioni, non ha
religione, non ha falsità, è privo cioè di tutti quei caratteri che soffocano
la civiltà occidentale».È la scena che prevarrà? «È solo una tesi che a
Montaigne serve per screditare la chiesa e gli stati. Gli eccidi, la violenza,
il terrore che scuotono l' Europa delle guerre di religione e che culminano
nella notte di San Bartolomeo, sono messi in contrapposizione con la mitezza
del selvaggio ». È una tesi che riprenderà Rousseau. «Fino a un
certo punto, anche perché il suo selvaggio è un uomo felice ma violento. Non
conosce la corruzione né è posseduto dalla brama di potere, ma è sostanzialmente
un individuo aggressivo. Chi porterà alle estreme conseguenze questa
impostazione è Hobbes che rovescia la costruzione di Montaigne». Hobbes
parla di uno "stato di natura". firenze FIRENZE ' «Dove tutti si fanno la guerra e
dove la vita delle persone è permanentemente in pericolo. L' immagine di questa
condizione brutale Hobbes la ricava dalle descrizioni che nel Cinquecento
vengono fatte dei selvaggi di America. Si può dire che l' Occidente fin dall'
antichità si sia servito di questo mito con le peggiori intenzioni? « È
passata l' idea, con qualche eccezione, che fossero troppo diversi da noi per
ogni ipotetica assimilazione». Al punto che ancora oggi questa diversità è
vissuta come una minaccia di contagio e sostituzione? Qualcuno, come lei sa, ha
perfino parlato di "uomo bianco" in pericolo di estinzione.
«Nelle fasi di grave fibrillazione sociale, quando il discredito si abbatte su
ogni aspetto della vita politica, il delirio - come strumento patologico -
rischia di trionfare. Mi pare di poter dire che è quanto sta accadendo e che
contribuisce ahimè ai miei stati depressivi. Sono convinto che non ci sia
nessuna giustificazione al male né all' imbecillità. Ho scritto un libro contro
la teodicea, mi piacerebbe scriverne uno sulla demenza senile che sta
attanagliando l' Occidente. Ma non credo di averne più la forza. Mi
resta questa infelicità che è come un che sovrasta le mie parole che non so più
maneggiare con delicatezza. Ricordo una frase che Luporini aveva ripreso dal
vecchio Burckhardt, è bellissima. Dice: "Grandezza è ciò che noi non
siamo". Ho la sensazione che l' abbiamo troppo spesso ignorata o, peggio
ancora, dimenticata». Grice: “Landucci has aptly explored the concept of
the ‘barbarian’. It all starts with Montaigne, an anarchist – he assumes a fake
philosophical position just to justify his anarchisms: savages are fun, happy,
and they have no state! Vespucci moe or less thought the same, but for different
reasons. Just like an ape doesn’t have a state, Vespucci says, so a savage!” --
Landucci. Keywords: i misteri del delitto Gentile. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Landucci” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Latini –l’implicatura rettorica di Publio e Cicerone -- implicatura –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Grice: “Latini
reminds me of Hardie; he was Aligheri’s mentor; Hardie mine!” -- Grice: “People
say it all starts with Alighieri; but the real ‘filosofo’ behind Alighieri
surely is Burnetto – he has chapters on ‘Platone,’ ‘Aristotele,’ and the rest
of them.” «Poi si rivolse, e parve
di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di
costoro quelli che vince, non colui che perde» (Divina Commedia). Figlio
di Buonaccorso e nipote di Latino Latini, appartenente ad una nobile famiglia. Le
fonti storiche e una serie di documenti autografi testimoniano la sua attiva
partecipazione alla vita politica di Firenze. Come egli stesso narra nel
Tesoretto, fu inviato dai suoi concittadini alla corte di Alfonso X per
richiedere il suo aiuto in favore dei guelfi. Tuttavia, la notizia della
vittoria dei ghibellini a Montaperti lo costrinse all'esilio in Francia. I cambiamenti politici
conseguenti alla vittoria di Carlo I da Benevento sconsentirono il suo ritorno in Italia. Fu risarcito del torto
subito, con il titolo di Segretario del Consiglio della repubblica, stimato ed
onorato dai suoi concittadini. La sua influenza divenne tale che a
partire si trova a malapena nella storia di Firenze un avvenimento pubblico
importante al quale non abbia preso parte. Contribuì notevolmente alla
riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini detta "pace di
Latino". PPresiedette il congresso dei sindaci in cui fu decisa la
rovina di Pisa. Elevato alla dignità di Priore. Questi magistrati, in numero di
dodici, erano stati previsti nella costituzione. La sua parola si fa
frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica. Era uno degli
arringatori, od oratori, più frequentemente designati. Nel Canto XV
dell'Inferno Dante lo incontra tra i sodomiti, violenti contro Dio nella
natura. Siamo nel terzo girone del settimo cerchio; Dante e Virgilio camminano
su un piano rialzato rispetto alla landa desolata in cui i dannati procedono.
Alighieri, che era stato allievo di Latini, è profondamente scosso, e non
nasconde verso il maestro una persistente ammirazione. Latini è il primo nella
Commedia a toccare fisicamente Alighieri, tirandolo per la veste. Altre
opera:“Il Tesoretto,” poema (incompiuto o mutilo) scritto in volgare
fiorentino, in settenari a rima baciata, narrato in prima persona. L'autore definisce l'opera Tesoro, ma il nome “Tesoretto”
è presente già nei manoscritti più antichi,
presumibilmente per distinguerla dalle traduzioni italiane del “Tresor”.
Il protagonista, sconfortato dalla notizia della disfatta di Montaperti, si
perde in una "selva diversa". Nella sua peregrinazione si imbatte
nelle personificazioni della Natura e delle Virtù, che gli illustrano la
composizione del Mondo e i modelli di comportamento cortesi. Il “Tesoretto” si
interrompe nel momento in cui il protagonista incontra Tolomeo, che sta per
spiegargli i fondamenti dell'astronomia. Influenzato da un lato dal
romanzo cortese, dall'altro dai poemi allegorici, realizza un'opera che da una
parte della critica è ritenuta tra i precursori diretti della Commedia (Venezia,
Melchiorre Sessa il Vecchio); “Li livres dou Tresor” e la più celebre, scritta
durante l'esilio in Francia, in lingua vernaculare, perche "è la parlata
più dilettevole e più comune tra tutte le lingue.” Consta di tre libri e
risulta la prima enciclopedia volgare in senso proprio. Altri testimoni sono
stati segnalati in seguito da Squillacioti, Divizia e Giola. Il primo
libro tratta dell’origine di tutto. Tra gl’argomenti affrontati vi sono
un'ampia storia universale, dalle vicende dell'Antico e del Nuovo Testamento
alla battaglia di Montaperti, elementi di medicina, fisica, astronomia,
geografia, e architettura, e un bestiario. Si trova, in questo primo libro, una
delle menzioni più antiche che conosciamo di una bussola e l'indicazione della
sfericità della terra. Nel secondo libro si tratta dei vizi e delle virtù,
attingendo sostanzialmente dall'Etica Nicomachea. Il terzo libro riguarda
principalmente la retorica. Utilizza come fonti Platone, Aristotele, Senofane, il
romano Publio Vegezio e Cicerone. Altre opera: è inoltre autore di un
altro breve poemetto, “il Favolello”, di una “Rettorica” volgarizzamento e
commento del De inventione di Cicerone, nonché dei volgarizzamenti di tre
orazioni ciceroniane (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiòtaro). Jauss,
Alterità e modernità della letteratura medievale, Boringhieri S. Sarteschi, Dal
"Tesoretto" alla "Commedia": considerazioni su alcune
riprese dantesche dal testo di Latini, in "Rassegna di letteratura
italiana", B. Latini, Tresor; G. Beltrami Squillacioti Torri e S. Vatteroni”
(Torino, Einaudi); A. D'Agostino, Itinerari e forme della prosa, in Storia
della letteratura italiana” (Roma, Salerno); Tresor. Beltrami, Squillacioti,
Torri, Plinio, Torino). Aggiunte (e una sottrazione) al censimento dei codici
delle versioni italiane del "Tresor”, Medioevo romanzo, La tradizione dei volgarizzamenti toscani del
Tresor con un'edizione critica della redazione alfa. Verona. Edizione del
volgarizzamento toscano. La colonna
posta dove è stata riscoperta la sua tomba, Santa Maria Maggiore; “Livres dou
Tresor” (Vineggia, per Gioan Antonio & fratelli da Sabbio, ad instanza di N.
Garanta & Francesco da Salo); Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tesoretto. In G. Contini, Poeti del
Duecento, Ricciardi, Milano. A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla
ricezione dal Medioevo al Rinascimento. Atti del convegno di studi, Basilea, I.
Maffia Scariati, Firenze, Galluzzo, D'Arco Silvio Avalle, Ai luoghi di delizia
pieni, Ricciardi, Milano, A. Carrannante, "Implicazioni dantesche:
Brunetto Latini (Inf. XV)", "L'Alighieri", Enciclopedia
dantesca, ad vocem, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, P. Fornari,
Dante e Brunetto, Co-Op, Varese, Poi in: Pro Dantis virtute et honore, Co-Op
Varese, L. Frati, Brunetto Latini
speziale, "Il giornale dantesco", F. Maggini, La «Rettorica» Latini,
Firenze, Galletti e Cocci, U. Marchesini, Due studi biografici, Atti
dell'Istituto Veneto", "La posizione del Latini nel canto XV
dell'Inferno dantesco"). P. Merlo, E se Dante avesse collocato Brunetto
Latini tra gli uomini irreligiosi e non tra i sodomiti?, "La cultura",
Poi in: Saggi glottologici e letterari, Hoepli, Milano, Fausto Montanari, "Cultura
e scuola", Antonio Padula, Il Pataffio, Dante Alighieri, Milano, Roma e
Napoli, Manlio Pastore Stocchi, Delusione e giustizia nel canto XV
dell'Inferno, "Lettere italiane"(poi in: Letture classensi, Longo, Ravenna; "Representations", R.
Santangelo, "Tutti cherci e litterati grandi e di gran fama": "Il
sogno della farfalla. Rivista di psicoanalisi", M. Scherillo, Alcuni
capitoli della biografia di Dante, Loescher, Torino Thor Sundby, Della vita e
delle opera (Monnier, Firenze); Alighieri Storia di Firenze Divina Commedia, Il
Favolello Il Tesoretto. Treccan Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, sRegesta
Imperii, su opac.regesta-imperii.de. Portal, su florin.ms. G. Orto, Brunetto
Latini. Tommaso Giartosio, Dante e Brunetto Latini. Tratto da: Perché non
possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, Milano, Concordanze
del libro del Tesoretto, su classicis tranieri, Li livres dou trésor, ed. par Polycarpe
Chabaille, Paris M. Giacomelli. La rettorica. Qui comincia lo 'usegnamento di
rettorica, lo quale è ritratto in vulgare de' libri di Tullio e di molti
filosofi per ser Burnetto Latino da Firenze. Là dove è la lettera grossa si è
il testo di Tullio, e la lettera sottile sono le parole de lo sponitore. Incomincia
il prologo. Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se la copia
del DICERE e lo sommo studio dell’ELOQUENZA àe fatto più bene o più male
agl’uomini et alle città. Però che quando considero li dannaggii del
nostro comune e raccolgo nell' animo l’antiche aversitadi delle
grandissime città, veggio che non picciola parte di danni v’è messa per
uomini molto parlanti sanza sapienza. Qui parla lo sponitore. RETTORICA èe
SCIENZA di due manière. Una la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel
suo saggio. L’altra insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne
trattò cosi del tutto apertamente, si nne tratterà lo sponitore nel
processo del saggio, in suo luogo e tempo come si converrà. Rettorica s'
insegna in due modi, altressì come l’altre scienzie, cioè di fuori e
dentro.Verbigrazia: Di fuori s'insegna dimostrando che è rettorica e di che
generazione, e quale sua materia e lo suo officio e le sue parti e lo
suo propio strumento e la fine e lo suo artifice. Ed in questo modo
tratta BOEZIO nel quarto della Topica. Dentro s'insegna questa arte quando si
dimostra che sia da fare sopra LA MATERIA DEL DIRE e del dittare, ciò
viene a dire come si debbia fare lo exordio e la narrazione e L’ALTRE
PARTI DELLA DICIERIA o della pistola, cioè d'una lettera dittata. Ed in
ciascuno di questi due modi ne tratta Tulio in questo suo saggio. Ma in
perciò che Tulio non dimostra che sia rettorica né quale è '1 suo
artefice, sì vuole lo sponitore per più chiarire l'opera dicere l'uno e
l'altro. Ed èe rettorica una scienzia DI BENE DIRE, ciò è rettorica quella
scienzia per la quale noi saperne ORNATAMENTE dire e dittare. Inn altra guisa è
così diffinita. Rettorica è scienzia di ben dire sopra la causa proposta,
cioè per la quale noi sapemo ornatamente dire sopra la quistione aposta.
Anco àe una più piena difiìnizione in questo modo. Rettorica è scienza d'usare
piena e PERFETTA ELOQUENZA nelle publiche cause e nelle private. Ciò
viene a dire scienzia per la quale noi sapemo parlare pienamente e
perfettamente nelle publiche e nelle private questioni. E certo
quelli parla pienamente e perfettamente che nella sua diceria mette
parole adorne, piene di buone sentenzie. Publiche questioni son quelle
nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna città o comunanza di genti.
Private sono quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna spiciale
persona. E ttutta volta è lo 'ntendimento dello sponitore che queste
parole sopra '1 dittare altressì come sopra '1 dire siano, advegna che tal
puote sapere bene dittare che non àe ardimento o scienzia di profiferere
le sue parole davanti alle genti; ma chi bene sa dire puote bene sapere
dittare. Avemo detto che è rettorica, or diremo chi è lo suo artifice.
Dico che è doppio, uno è rector e l'altro è orator. Verbigi-azia. Rector è
quelli che 'nsegna questa scienzia SECONDO LE REGOLE e comandamenti
dell'arte. Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte, sì l’usa
in dire ed in dittare sopra le questione apposte, sì come sono li
buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale
perciò fue agozetto di Federigo II imperadore di Roma e tutto sire di lui e
dello 'mperio. Onde dice Vittorino che orator, cioè lo parlatore, è uomo
buono e bene insegnato di dire, lo quale usa piena e perfetta eloquenza nelle
cause publiche e private. Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del
suo artifice, cioè di colui che la mette in opera, l'uno insegnando
l'altro dicendo. Ornai vuole dicere chi è l'autore, cioè il trovatore di
questo saggui, e che fue LA SUA INTENZIONE in questo saggio, e di che tratta, e
la cagione per che lo saggio è composto e che utilitade e che tittolo à
questo saggio. L' autore di questa opera è doppio. Uno che di tutti
i detti de' filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo
ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicerone, il più
sapientissimo de' romani. Il secondo è Brunetto de’ Latini, cittadino di
Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponere e
chiarire ciò che Tulio dice. Ed esso è quella persona cui questo saggio
appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo propio detto e
de' filosofi e maestri che sono passati, il saggio di Tulio, e tanto più
quanto all'arte bisogna di quel che fue intralasciato nel saggio di Tulio,
sì come il buono intenditore potràe intendere avanti. La sua
intenzione fue in questa opera dare insegnamento a colui per cui amore e' si
mette a fare questo trattato de parlare ornatamente sopra ciascuna questione
proposta. Et e' tratta secondo la forma del saggio di Tulio di tutte le
parti generali di rettorica. Verbigrazia. L’invenzione, cioè, il trovamento di
ciò che bisogna sopradire alla materia proposta; e dell'altre iiij° secondo che
sono nel secondo saggio che Tulio fa ad Erennio suo amico, sopra le quali il
conto dirà ciò che ssi converrà. La cagione per che questo saggio è
fatto si è cotale, che Latini, per cagione della guerra la quale fue
traile parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua parte
guelfa, la quale si tenea col papa e colla chiesa di Roma, fue cacciata e
sbandita della terra. E poi si n'anda in Francia per procurare le sue
vicende, e là trova uno suo amico della sua città e della sua
parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande
senno, che Ili fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'apella suo
porto, sì come in molte parti di questo saggio pare apertamente; et era
parlatore molto buono naturalmente, e molto disidera di sapere ciò che' savi
aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore Latini, lo quale
era l)uono intenditore di lettera et era molto intento allo studio di
rettorica, si mette a fare questo saggio, nella quale mette innanzi il
testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua
scienzia e dell'altrui quello che fa mistieri. L' utilitade di
questo saggio è grandissima, però che ciascuno che sa bene ciò che
comanda lo libro e l'arte, sì sa dire interamente sopra la questione
apposta. E in questo punto si parte elli da questa materia e ritorna al
propio intendimento del testo. In questa parte dice lo sponitore che
CICERONE, vogliendo che rettorica fosse amata e tenuta cara, la quale al
suo tempo e avuta per neente, mise davanti suo prolago in guisa di bene savi,
nel quale purga quelle cose che pareano a lui gravose. Che si come dice BOEZIO
nel commento sopra la Topica, chiunque scrive d'alcuna materia dee prima
purgare ciò che pare a lui che sia grave; e così fa CICERONE, che purga
tre cose gravose. Primieramente i mali che veniano per copia di dire. Apresso
la sentenza di Platone, e poi la sentenza d'Aristotele. La sentenza di Platone e
che rettorica non è arte, ma è NATURA per ciò che vede MOLTI BUONI
DICITORI PER NATURA e non per insegnamento d'arte. La sentenza
d'Aristotile fa cotale, che rettorica è ARTE, ma REA, per ciò che per eloquenza
parca che fosse a venuto più male che bene a' comuni e a' divisi. Onde CICERONE
purgando questi tre gravi articoli procede in questo modo. Che in prima
dice che sovente e molto ae pensato che effetto proviene d'eloquenza.
Nella seconda parte pruova lo bene e '1 male chende venia e qual più.
Nella terza parte dice tre cose. In prima , dice che pare a lui di
sapienzia; apresso dice che pare a lui d' eloquenzia. E poi dice che pare
a lui di sapienza ed eloquenzia congiunte insieme. Nella quarta parte sì
mette le pruove sopra questi tre articoli che sono detti, e conclude che
noi dovemo studiare in rettorica, recando a ciò molti argomenti, li quali
muovono d' onesto e d' utile e lo possibile e necessario. Nella quinta
parte mostra di che e come egli tratta in questo saggio. E poi che nel
suo cuminciamento dice come molte fiate e lungo tempo pensa del bene e
del male che fosse advenuto, immantenente dice del male
per accordarsi a' pensamenti delli uomini che si ricordano più d'uno
nuovo male che di molti beni antichi; e cosi Tulio, mostrando di non
ricordarsi delli antichi beni, s' infigne di biasraare questa scienzia per
potere più di sicuro lodare e difendere. E per le sue propie parole che
sono scritte nel testo di sopra potemo intendere apertamente che in
queste medesime parole ove dice che i mali che per eloquenza sono advenuti e
che non si possono celare, in quelle medesime la difende abassando e
menimando la malizia. Che là dove dice dannaggi si suona che siano lievi
danni de' quali poco cura la gente. E là dove dice del nostro comune
altressì abassa del male, acciò che più cura l'uomo del propio danno che del
comune; e dicendo NOSTRO comune intendo ROMA, però che Cicerone e cittadino di
Roma nuovo e di non grande altezza; ma per lo suo senno fue in sì
alto stato che TUTTA ROMA si tenea alla sua parola, e fue al tempo
di Catellina, di Pompeio e di Giulio Cesare, e per lo bene della terra fue al
tutto contrario a Catellina. Et poi nella guerra di Pompeio e di Giulio
Cesare si tenne con Pompeio, sicome tutti ' savi eh' amano lo stato
di Roma. E forse l'appella nostro comune però che ROMA èe capo del
mondo e comune d'ogne uomo. Et là dove dice l'antiche adversitadi altressì
abassa il male, acciò che delli antichi danni poco curiamo. Et là dove
dice grandissime cittadi altressì abassa '1 male, però che, sì come
dice il buono poeta LUCANO, non è conceduto alle grandissime cose durare
lungamente; e l'altro dice che le grandissime cose rovinano. E così non pare
che eloquenza sia la cagione (iel male che viene alle grandissime città.
E là dove dice che danni sono advenuti per nomini molto parlanti 'sanza
sapienza, manifestamente abassa '1 male e difende rettorica, dicendo che
'1 male è per cagione di molti parlanti ne' quali non regna senno. E non
dice che il male sia per eloquenza, che dice Vittorino. Questa parola
eloquenza suona bene. E del bene non puote male nascere. Questo è bello colore
rettorico, difendere quando mostra di biasmare ed accusax'e quando pare che
dica lode. E questo modo di parlare àe nome INSINUAZIONE, O IMPLICATURA, del
quale dice il saggio in suo luogo. Et qui si parte il conto da quella
prima parte del prologo nella quale CICERONE dice il suo pensamento ed dice
li mali avenuti, e ritorna alla seconda parte nella quale dimostra de'
beni che sono pervenuti per eloquenza. Sì come quando ordino di ritrarre
dell'anticiie scritte le cose che sono fatte lontane dalla nostra
ricordanza per loro antichezza, intendo che eloquenza congiunta con
ragione d'animo, cioè con sapienza, piìie agevolemente àe potuto conquistare e
mettere inn opera ad edifficare cittadi, a stutare molte battaglie, fare
fermissime compagnie et anovare santissime amicizie. Poi che Cicerone divisa li
mali che sono per eloquenza, sì divisa in questa parte li beni, e CONTA PIU
BENI CHE MALI perciò che più intende alle lode. E nota che dice son messe ordinatamente
acciò che prima si raunaro gli uomini in- sieme a vivere ad una ragione
et a buoni costumi et a multiplicare d' avere ; e poi che furo divenuti
ricchi montò tra lloro invidia e per la 'nvidia le guerre e le battaglie.
Poi li savi parladori astutaro le battaglie, et apresso gl’uomini fecero
compagnie usando e mercatando insieme; e di queste compagnie cuminciaro a
ffare ferme amicizie per eloquenzia e per sapienzia. 3. Ma ssi come dice
e signifficano queste parole, per più chiarire l'opera è bene convenevole
di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e che è 15. amico
e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che Ilo sponitore non vuole
lasciare un solo motto donde non dica tutto lo 'ntendimento. Che è
cittade. Cittade èe uno raunamento di gente fatto per vivere a ragione;
onde non sono detti cittadini 20. d'uno medesimo comune perchè
siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che insieme sono acolti a
vivere ad una ragione. Che è compagno. Compagno è quelli che per
alcuno patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa fare; e di questi
dice Vittorino che se sono fermi, per eloquenzia poi divegnono
fermissimi. Che è amico. Amico è quelli che per uso di simile vita
si congiugne con un altro per amore insto e fedele. Verbigrazia: Acciò che
alcuni siano amici conviene che siano d'una vita e d'una costumanza, e
però dice «per uso di simile vita » ; e dice « giusto amore » perchè non
sia a cagione di luxuria o d' altre laide opere ; e dice « fedele
i'-in compimento dell'altre parole ecc. Jf' cioè hediDcar .»/
aslroppiarc, m a storpiare caunano, corretto poi in raunarono — Af ad
avere una ragione, m "al avere una medesima ragione M l'uno, -If'
fuor {cfr. Tesor., vii, 54) — il' montò loro M-m parlando anno attutato -
le guerre — il.' M forme amicitio, »» forme d'amie— i^:mdichono— i^.- m
dimostrare quello — io.- Af' 7 che sapientla 7 che eloq. .»/' volle
intralasciare de genti — V-m raccolti - SI: m rachollì - 25: M son — S7 :
M-m che è coiiipannia — M' si i> — 28 : .V ad un altro — 3U' por- ciò
— 31 . .tf ' conduco insto am. fcerlo per scambio dell'abbreviatura di et con
quella di con) U ad altre amore » perchè non sia per gnadagneria o solo per
utili- tade, ma sia per constante vertude. Et cosi pare manife-
mente che quella amistade eh' è per utilitade e per dilet- tamento nonn è
verace, ma partesi da che '1 diletto e l'uttilitade menoma. Che è
sajoiemia. Sapienzia è comprendere la verità delle cose si come elle
sono. Che è eloquenzia. Eloquenzia è sapere dire addome parole
guernite di buone sentenzie. 10. TnUio. Et così me lungamente
pensante la ragione stessa mi mena in questa fermissima sentenza, che
sapienzia sanza eloquenzia sia poco utile a le cittadi, et eloquenzia
sanza sapienza è spessamente molto dampnosa e nulla fiata utile. Per la
qual cosa, se alcuno in- l.ó. tralascia li dirittissimi et
onestissimi studii di ragione e d'officio e consuma tutta sua opera in
usare sola parladura, cert' elli èe citta- dino inutile al sé e
periglioso alla sua cittade et al paese. Ma quelli il quale s' arma sie
d'eloquenzia che non possa guerriere contra il bene del paese, ma possa
per esso pugnare, questo mi pare uomo e 20. cittadino utilissimo et
amicissimo alle sue (>) et alle publiche ragioni. Lo sponitore.
I. Poi che Tulio avea dette le prime due parti del suo prologo, si
comincia la terza parte, nella quale dice tre cose. Imprima dico che pare
a llui di sapienzia, infino là dove 25. dice : « Per la qual cosa ». Et
quivi comincia la seconda, nella quale dice che pare a llui d'eloquenzia,
infino là ove dice : « Ma quello il quale s' arma ». Et quivi comincia
la terza, ne la quale dice che pare a llui dell'una e dell'altra
giunte insieme. 3: M' om. e — 4: M- pdesi — m diloclamento 7
l'util., .tf' l'utilitade 1 diloclo — 8-9: .»/ ad ongno parole, m ogni
paroleM-m om. sia.... sapienza — i-J : M' om. molto ^ i5: M-m lassa
indireotissimi (m idireuissimi) — IG: M-m sola la parlatura — 18: 3l-m
sama — .)/ giuriare, m ingiuriare — Ì9-20.- .1/ luiomo cittadino, »i mi pare
cittadino — .V-»i a' suoi — .?3 • .1/ conincìa — S4 : M insini, .)/'
inlìn là ove (cfr. Tcsnr.. xi, 1074) — So: yr-ìii dice jiarla — M-m qui -
26: M insino — m là dove —M-m la (|ual dice. (1) Questa lezione è
oonfennata dal § 5 del coniuiento: « utile a ssè et al suo paese. Onde dice
Vittorino: Se noi volemo mettere avac- ciamente in opera alcuna cosa
nelle cittadi, sì ne conviene avere sapienzia giunta con eloquenzia, però
che sai)ienzia sempre è tarda. Et questo appare manifestamente in
alcuno V 5. savio che non sia parlatore, dal quale se noi
domandassimo uno consiglio certe noUo darebbe tosto cosìe come se
fosse bene parlante. Ma se fosse savio e parlante inmantenente ne
farebbe credibile di quel che volesse. 3. Et in ciò che dice Tulio di
coloro che 'ntralasciano li studii di ragione 10. e d' officio,
intendo là dove dice « ragione » la sapienzia, e là dove dice « officio »
intendo le vertudi, ciò sono prodezza, giustizia e l'altre vertudi le
quali anno officio di mettere in opera che noi siamo discreti e giusti e
bene costumati. 4. Et però chi ssi parte da sapienzia e da le vertudi e
studia 15. pure in dire le parole, di lui adviene cotale frutto
che, però che non sente quel medesimo che dice, conviene che di lui
avegna male e danno a ssè et al paese, però che non sa trattare le propie
utilitadi uè Ile (i) comuni in questo tempo e luogo et ordine che
conviene. 5. Adunque colui che ssi 20. mette 1' arme d' eloquenzia
è utile a ssè et al suo paese. Per questa arme intendo la eloquenzia, e
per sapienzia intendo la forza; che sì come coli' arme ci
difendiamo da' nemici e colla forza sostenemo 1' arme, tutto
altressì per eloquenzia difendemo noi la nostra causa
dall'aversario 2.5. e per sapienzia ne sostenemo (2) di dire quello
che a noi potesse tenere danno. Et in questa parte è detta la
terzia parte del prologo di Tulio. 6. Dunque vae il conto alla
quarta parte del prologo, per provare ciò eh' è detto da- vanti et a
conducere che noi dovemo studiare in rettorica i : M Lande —
M' avacciatamente, ma L avacciamente — S: m si cci conv. — 0; m ODI.
cosio, M e' noi darebb»; cos'i tosto M' credibile quello, m di quello — .)/'
disse — 10: .Vi om. il 2' & — 12: .»/' et altro — 13: .»f' che non
siano — i4.- .V-m dall'altre ver- tufli — 15:m adiviene — 16 : jn a
lini : solo L nelle ; (jli altri mss. e
S nelli (.)/' nel!) -- 19: M Adunque che colui — 22: M-m torma — M ne
dil'ondono, m noi ci difendiamo — 23: il l'armi - 23-24: Af difendo — m
così altresì la eloquenzia difendo noi dal nostro aversario la nostra
cliausa — 25: m om. ne; S non sostenemo — 26: m a noi potesse ave- jjire
(li danno, .V che noi potessimo tenere danno — 28-29: m dinanzi e; Jfi om.
et. (1) Cos'i richiede il senso; la lezione nelli ò nata certamente
dall'aver preso l'aggettivo comuni per un sostantivo. (2)
Intendo ne sostenemo = « ci tratteniamo, ci asteniamo », coni' è
richiesto dal senso e secondo gli esempii citati dal Vocabolario della
Crusca. per avere eloquenzia e sapienzia: e sopra ciò reca Tulio
molti argomenti, li quali debbono e possono così essere, e tali che
conviene che sia pur così, e di tali eh' è onesta cosa pur di cosi essere
; e sopra ciò ecco il testo di Tulio CICERONE in lettera grossa, e poi
seguisce la disposta in lettera sot- tile secondo la forma del
libro. Tullio CICERONE. Dunque se noi volemo
considerare il principio d'eloquenzia la quale sia pervenuta in uomo per
arte o per studio o per usanza lo. per forza dì natura, noi
troveremo che sia nato d'onestissime cagioni e che ssia mosso d'ottima
ragione, (e. li) Acciò che fue un tempo che in tutte parti isvagavano gli
uomini per li campi in guisa di bestie e conduceano lor vita in modo di
fiere, e facea ciascuno quasi tutte cose per forza di corpo e non per
ragione l.j. d'animo; et ancora in quello tempo la divina religione
né umano officio non erano avuti in reverenzia. Neuno uomo avea veduto
le- gittimo managio, nessuno avea connosciuti certi figliuoli, né
aveano pensato che utilitade fosse mantenere ragione et agguallianza. E
così per errore e per nescìtade la cieca e folle ardita signorìa
dell'animo, cioè la cupìditade, per mettere in opera sé medesima misusava
le forze del corpo con aiuto dì pessimi seguitatori.
Lo sponitore. 1. In questa quarta parte del prologo vogliendo
Tulio CICERONE dimostrare che ELOQUENZA nasce e muove jper cagione e
2.5. per ragione ottima et onestissima, sì dice come in alcuno
tempo erano gli uomini rozzi e nessci come bestie; e del-
3: ìl-m tale — .1/' jdii' che cosi sia - 4 : m pure ili dovere così
essere-, .1/' de pur essere — .5 J/ ' la spositione — 9-tO: .»/' o per
l'orca di natura o per usanca — H: m d'ottime chagioni 7 ragione — 12:
il-m in tempo — 13: it^ lor vita per li campi in modo de bestie 7 de
fiere — 14: i/' om. e [non p. r.| —M maritaggio — M iihylosofi, m lilo-
safi — 18: M j gualianoa - 19: il^-L ignoranza, m necessitade — .»A' la cieca
la folle 7 ardita — 20: M-m per mette — M-m (fuivi susavano, l.
masusavano — 21:31' seguitori — 23: M-1U nm. quarta — 24: m om. e per
ragione — 26: il' nefa, m noscii. l'uomo dicono li filosofi, e la santa
scrittura il conferma, che egli è fermamento di corpo e d' anima
razionale, la quale anima per la ragione eh' è in lei àe intero
conoscimento delle cose. 2. Onde dice Vittorino: Sì come menoma la forza
5. del vino per la propietade del vasello nel quale è messo, cosie r
anima muta la sua forza per la propietade di quello corpo a cui ella si
congiunge. Et però, se quel corpo è mal di- sposto e compressionato di
mali homori, la anima per gra- vezza del corpo perde la conoscenza delle
cose, sì che 10. appena puote discernere bene da male, sì come in
tempo passato neir anime di molti le W quali erano agravate de'
pesi de' corpi, e però quelli uomini erano sì falsi et indiscreti che non
conosceano Dio né lloro medesimi. Onde misusavano le forze del corpo
uccidendo l'uno l'altro, tol- 15. liendo le cose per forza e per
furto, luxuriando malamente, non connoscendo i loi'o proprii figliuoli né
avendo legittime mogli. 3. Ma tuttavolta la natura, cioè la divina disposi-
zione, non avea sparta quella bestialitade in tutti gli uo- mini
igualmente; ma fue alcuno savio e molto bello dici- 20. tore il
quale, vedendo che gli uomini erano acconci a ragionare, usò di parlare a lloro
per recarli a divina conno- scenza, cioè ad amare Idio e '1 proximo, sì
come lo sponi- tore dicerà per innanzi in suo luogo; e perciò dice
Tulio nel testo di sopra che eloquenzia ebbe cominciamento per
25. onestissime cagioni e dirittissime ragioni, cioè per amare Idio
e '1 proximo, che sanza ciò l' umana gente non arebbe durato. 4. Et là
dove dice il testo che gli uomini isvaga- vano per li campi intendo che
non aveano case né luogo, 1: M' i figluoli (corretto poi
lilosofi) — M' sucra — S : M' eh ehi ì\ l'ormato — 3: in- tero è in M'-L;
il lùlo (incerto?), m inerito — 4: M Ondee — 7 : m al (|uale — 8: M-m
mali hiiomini — 9: m per la gravezza — .«' de corpo iO: M bone dal mali', hi il
bone dal male — il: M'-L animo — .V-m i quali erano agravate, M'-L li
quali orano aggravati — i2: W del peso de corpi, L de' pesi del corpo V in lor
medesimo — 14: lU-m Ivi susavano — 18: M-m nonn ào — M bestilitade — 10:
M' oiii. savio o — SI: W tralloro — 23: M' qa\ dinanzi - S4: W e cornine,
>S ha cornine. — 26-27: »l' non averla durata, L non avrìa durato — i«
K colà. (1) È lezione congetìurale, ma l'unica possìbile : le quali
si cambiò facilmente in li quali (o i quali) per effetto del molti che
precedeva, e da li quali, natural- mente, venne in M'-L anche il maschile
angraoati invece di aggravate. Che si tratti solo delle animo risulta da
tutto il periodo, e in particolare dallo parole - la anima per gravezza
del corpo ». - 15 — ma andavano qua e là come
bestie. 5. Et là dove dice che viveano come fiere intendo che mangiavano
carne cruda, erbe crude et altri cibi come le fiere. 6. Et là dove
dice « tutte cose quasi faceauo per forza e non per ragione » 5.
intendo che dice « quasi » che non faceano però tutte cose per forza, ma
alquante ne faceano per ragione e per senno, cioè favellare, disidejare
et altre cose che ssi muovono dall' animo. 7. Et là dove dice che divina
religione non era reverita intendo che non sapeano che Dio (D
fosse. 10. 8. Et là dove dice dell' umano ofiìcio intendo che non
sa- peano vivere a buoni costumi e non conosceano prudenzia né
giustizia né l'altre virtudi. 9. Et là dove dice che non mauteneano
ragione intendo « ragione » cioè giustizia, della quale dicono i libri
della legge che giustizia è perpetua e 15. ferma volontade d'animo
che dae a ciascuno sua ragione. IO. Et là dove dice « aguaglianza »
intendo quella ragione che dae igual i)ena al grande et al piccolo sopra
li eguali fatti. 11. Et là doye dice « cupiditade » intendo quel
vizio eh' è contrario di temperanza; e questo vizio ne -conduce
20. a disidei-are alcuna cosa la quale noi non dovemo volere, et
inforza nel nostro animo un mal signoraggio, il quale noi permette
rifrenare da' rei movimenti. 12. Et là dove dice « nescitade » intendo
eh' è nnone connoscere utile et inutile; e però dice eh' è cupidità cieca
per lo non sapere, 25. e che non conosce il prode e '1 danno. 13.
Et là dove dice « folle ardita » intendo che folli arditi sono uomini
matti e ratti a ffare cose che non sono da ffare. 14. Et là dove
dice « misusava le forze del corpo » intendo misusare cioè
i-2: M-m om. Et là.... come licre — 3 : M erbi ciiiili, .1/' 7 erbe crude
— 4-6: m l'a- ceano quasi per forza; poi, saltando al 2° forza, continua:
ma al([uanle ecc. — 7: .i/'-L dice quasi perciò ke ne faciano | tutte
cose per forza 7 non per ragione intendo Ice dice quasi, ma alquante ne
faceano M' che muovono — 9: M-m chi idio — 11: .1/' ne prudenza — 14: m'
de legge — 14-15: m' ferma 7 perpetua voluntà — /": .1/ egual
— 18: M' mìsfacti — M lae — .V quello e poi rasura su cui altra mano
scrisse apetito, t quello che contrario, S quello appetite V om. noi -
22: M-m non permette M-m necessilade, .V ignoranza che non conosce il
prode ol danno ~ m intendo che non è — m dal danno — 27: .M-m e tratti, L
orati — 2é?: J/ emusavano, jiiemisusavano — .u misusere, .V' misure, L
misusare — m che misusare è usare. Cioè « che Dio esistesse ». Così mi par
preferibile per il senso; e la lezione di M-m è facilmente spiegabile da
un che Mio diventato eh' idio, chi dio; è vero però che le ragioni
paleografiche varrebbero anche per il caso inverso. - 16
- usare in mala parte ; che dice Vittorino che forza di corpo
ci è data da Dio per usarla in fare cose utili et oneste, ma coloro
faceano tutto il contrario. Ora à detto lo sponi- tore sopra '1 testo di
Tulio le cagioni per le quali elo- 5- quenzia cominciò a parere. Omai
dicerae in che modo appario e come si trasse innanzi.
Tullio. 5. Nel quale tempo lue uno uomo grande e savio, il
quale cognobbe che materia e quanto aconciamento avea nelli animi
delli 10. uomini a grandissime cose chi Ili potesse dirizzare e
megliorare per comandamenti. Donde costrinse e raunò in uno luogo quelli
uomini che allora erano sparti per le campora e partiti per le
nascosaglie silvestre ; et inducendo loro a ssapere le cose utili et
oneste, tutto che alla prima paresse loro gravi per loro disusanza, poi T
udirò 15. studiosamente per la ragione e per bel dire; e ssì Ili
arecò umili e mansueti dalla fierezza e dalla crudeltà che aveano.
Lo sjaonitore. 1. In questa i)arte vuole Tulio dimostrare da
cui e come cominciò eloquenzia et in che cose ; et è la tema cotale
20. In quel tempo che Ila gente vivea così malamente, fue un uomo
grande per eloquenzia e savio per sapienzia, il quale cognobbe che
materia, cioè la ragione che l' uomo àe in sé naturalmente per la quale
puote l' uomo intendere e ragio nare, e l'acconciamento a fare
grandissime cose, cioè a 25. ttenere i)ace et amare Idio e '1
proximo, a ffai-e cittadi, castella e magioni e bel costume, et a ttenere
iustitia et a vivere ordinatamente se fosse chi Ili potesse
dirizzare, cioè ritrarre da bestiale vita, e mellioi-are per
comanda- menti, cioè per insegnamenti e per leggi e statuti che Ili
2: M' om. ci — 3-4: M-iii Or o della la sposilione — 5: M-m
loninciò (hi coro). 7 pare — M' oggimai — 6: M-m apparve — 8: il' uno
buono — iO: 31' adrinure — 12: M-m per campora — 12-13: M-w le nascose
selve 13: M-m et facciendo loro as- sapere — 14: M' grave - L'i: M' si Hi
recò — 16: M' crudelilà — 23: M-m nm. l'uomo — 24 : M-m el lo
ncomincianiento, L el chominciamenlo — 25: M'el ad amare ~ 26: M'
7datener — 27: M' chi le polesse adrifrure - m om. potesse — 28: M' enirare da
b. v. afrenasse (1). 2. Et qui cade una quistione, che
potrebbe alcuno dicere: « Come si potieno melliorare, da che non
erano buoni? >. A cciò rispondo che naturalmente era la ragione
dell'anima buona; adunque si potea migliorare nel 5. modo eh' è detto. 3.
Donde questo savio costrinse - e dice che i « costrinse » però che non si
voleano raunare - e raunò - e dice « raunò » poi che elli vollero. Che '1
savio uomo fece tanto per senno e per eloquenzia, mostrando belle
ragioni, assegnando utilitade e metendo del suo in 10. dare
mangiare e belle cene e belli desinari et altri piaceri, che ssi raunaro
e patiero d'udire le sue parole. Et elli in- segnava loro le cose utili
dicendo: « State bene insieme, aiuti l'uno l'altro, e sarete sicuri e
forti; fate cittadi e ville *. Et insegnava loro le cose oneste dicendo :
« Il pic- 15. colo onori il grande, il figliuolo tema il suo padre
» etc. 4. Et tutto che, dalla prima, a questi che viveano bestial-
mente paresser gravi amonimenti di vivere a ragione et ad ordine, acciò
eh' elli erano liberi e franchi naturalmente e non si voleano mettere a
signoraggio, poi, udendo il bel dire 20. del savio uomo e
considerando per ragione che larga e li- bera licenzia di mal fare
ritornava in lor gi"ave destruzione et in periglio de l'umana
generazione, udirò e miser cura a intendere lui. Et in questa maniera il
savio uomo li ri- trasse di loro fierezza e di loro crudeltade - e dice «
fierezza » perciò che viveano come fiere; e dice « crudeltade » perciò
che '1 padre e '1 figliuolo non si conosceano, anzi uccidea l'uno l'altro
- e feceli umili e mansueti, cioè vo- lontarosi di ragioni e di virtudi e
partitori (2) dal male. 1 : m rafrenasse, S affrenassono —
J/ " Et acade, L e ecci una (\. — 2 : il poneno (cerio per falsa
lettura di potieno; cfr. Wiese in Zeilsch. f. Rom. Pini., VII, 330, g i33), m
il' poteano — 4: m dunque — 6: it-iii om. che i — 9: W l'utilitade — i^l'
metendo '1 suo - 10: m mangiare cene e desinari 19: il sottomettere —
20-23: it-m om. e considerando.... il savio uomo — 23-24: m si ritrassono
— 24: il lore fier., M' lor fior, — me dalloro crud. — 24-25: H-m om. e
dice.... crudeltade — 26: il' e li figluoli (ma L el figliuolo) - 28: il'
partito, l. e'dipirtironsi, s partiti. (1) Parrebbe preferibile la
lezióne di &'; ma è significativo il fatto che tutti i mss. abbiano
il singolare. Invece di condannarlo come corruzione comune, basta pensare
che sostantivi astratti come « insegnamenti, leggi e statuti » siano con-
siderati formanti un complesso unico, sì da farli equivalere al singolare
(p.es. «ciò»); e quest'uso del verbo è attestato da un altro passo di
Brunetto, IO, 3, e dal Varchi, Ercolano, ediz. Bottari (Firenze, 17.S0),
p. 225. (2) Senza ricorrere ai facili accomodamenti, conservo la
lezione di M inten- dendo « partitore » in senso riflessivo : « colui che
si parte, che si allontana ». Cfr. Manuzzi, s. V., § 2.
- 18 — 5. Or à detto Tulio chi cominciò eloquenzia et intra
cui e come; or dicerà per che ragione, eanza la quale non potea ciò
fare. Tullio. 5. 6. Per la qual cosa pare a me che Ha
sapienzia tacita e povera di parole non arebbe potuto fare tanto,
che così subitamente fossero quelli uomini dipartiti dall'antica e lunga
usanza et informati in diverse ragioni di vita. Lo sponitore.
10. 1. In questa parte dice Tulio la ragione sanza la quale
non si potea fare ciò che fece '1 savio uomo; e dice « sa- pienzia
tacita » quella di coloro che non danno insegna- mento per parole ma per
opera, come fanno ' romiti. Et dice « povera di parole » per coloro che
'1 lor senno non 15. sanno addornar di parole belle e piene di
sentenze a ffar credere ad altri il suo parere. Et per questo potemo
in- tendere che picciola forza è quella di sapienzia s'ella nonn è
congiunta con eloquenzia, e potemo connoscere che sopra tutte cose è grande
sapienzia congiunta con eloquenzia. 20. 2. Et là dove dice « così
subitamente » intendo che quello savio uomo arebbe bene potuto fare
queste cose per sapien- zia, ma non cosi avaccio né così subitamente come
fece abiendo eloquenzia e sapienzia. (i) Et là dove dice « in di-
verse ragioni di vita » intendo che uno fece cavalieri, un 25.
altro fece cherico, e così fece d'altri mistieri. Tullio.
7. Et così, poi che Ile cittadi e le ville fuoron fatte, impreser
gli uomini aver fede, tener giustizia et usarsi ad obedire l'uno l'altro
per propia volontarie et a sofferire pena et affanno non solamente
2 : M-m om. e come — sanza (luale — 5: M-m Per ((ualcosa - 7 : M'
luioniiiii quelli — 13: M' i romiti, m li romiti — 14: M-m alloro senno,
L in loro senno — i7: M-m om. che — i9: M' giunta — 22: Af' si avaccio —
23: M-m om. e sapienzia — 28: m ad avere lede 7 tenere.... adusarsi — M
l'uno a l'altro. A qualcuno e sapienzia potrà sembrare un'aggiunta
arbitraria; ma siccome non è inutile, preferisco mantenerlo. per la
comune utilitade, ma voler morire per essa mantenere. La qual cosa non
s'arebbe potuta fare d) se gli uomini non avessor po- tuto dimostrare e
fare credere per parole, cioè per eloquenzia, ciò che trovavano e
pensavano per sapienzia. 8. Et certo chi avea forza e 5. podere sopra
altri molti non averla patito divenire pare di coloro ch'elli potea segnoreggiare,
se non l'avesse mosso sennata e soave parladura; tanto era loro allegra
la primiera usanza, la quale era tanto durata lungamente che parea et era
in loro convertita in natura. Donde pare a me che così anticamente e da
prima nasceo 10. e mosse eloquenzia, e poi s'innalzò in altissime
utilitadi delli uo- mini nelle vicende di pace e di guerra.
Lo sponitore. I. In questa parte dice Tulio che cciò che
sapienzia non avrebbe messo in compimento per sé sola, ella fece 15.
avendo in compagnia eloquenzia; e però la tema èe cotale: Si come detto è
davanti, fuoro gli uomini raunati et inse- gnati di ben fare e d'amarsi
insieme, e però fecero cittadi e ville; poi che Ile cittadi fuor fatte
impresero ad avere fede. 2. Di questa parola intendo che coloro anno fede
che 20. non ingannano altrui e che non vogliono che lite né
di- scordia sia nelle cittadi, e se vi fosse sì la mettono in pace.
Et fede, sì come dice un savio, è Ila speranza della cosa promessa; e
dice la legge che fede è quella che promette l'uno e l'altro l'attende.
Ma Tulio medesimo dice in un 25. altro libro delli offici che fede
è fondamento di giiistizia, veritade in parlare e fermezza delle
promesse; e questa ée quella virtude eh' é appellata lealtade. 3. E così
sommata- mente loda Tulio eloquenzia con sapienzia congiunta, che
2: ilf'-£ potuto - M' om. non — 4: Jlf> Certo — 5: M-m vinavea
charebbono potuto divenire paii — 6: M-m chelli poteano, M^-L cui potea —
M-m santa — 7: M^-L allegrezza — 8-9 : M era converita la loro natura, m
era convertila in loro natura — 9 : m onde — 14-15: M^ il fece in
compagnia d'eloquentia.... si ò cotale —M-m detto oe dinanci 19: 3/'
fede, 7 di q. p. — PO : M^ om. e o discordia — 21-22: M-m in pace et in
fede — m om. è - 23: M^ quello, ma L quella — 26: M-m et intermezza — M'
de- lenpromesse — 27: M legheltade (?«a cfr. Texor., XVII, 15) — M
somatamente, m asommatam. congiunta con sapienzia. (1) Sarà
certo da legger così, e non sarebbe si sarebbe, poiché di quest'uso dell'
ausiliare avere presso gli antichi non mancano esempli sicuri : cfr. la
nota di M. Barbi nella sua ediz. della Vita Nuova, 2, e ciò che aggiunse
il Parodi in Bullett. della Soc. Bant., N. S., XXI, 67-68. Lo stesso si
dica per s'areb- hono del commento, sanza ciò le grandissime cose non
s'arebbono potute met- tere in compimento, e dice che poi àe molto de ben
fatto in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti
i convenenti de' comuni e delle speciali persone corrono per 5. due stati
o di pace o di guerra, e nell' uno e nell'altro bi- sogna la nostra
rettorica sì al postutto, che sanza lei non si potrebbono
mantenere. Tullio. 9. Ma poi che Ili uomini, malamente
seguendo la vìrtude sanza 10. ragione d'officio, apresero copia di
parlare, usaro et inforzaro tutto loro ingegno in malizia, per che
convenne che ile cittadi sine gua- stassero e li uomini si comprendessero
di quella ruggine, (e. Ili) Et poi che detto avemo la cumincianza del
bene, contiamo come cuminciò questo male. 15. Lo
sponitore. 1. Poi che Tulio avea detto davanti i beni che
sono advenuti per eloquenzia, in questa parte dice i mali che sono
advenuti per lei sola sanza sapienzia; ma perciò che Ila sua intentione è
più in laudarla, sì appone elli il male 20. a coloro che Ila
misusano e non a Ilei. 2. Et sopra ciò la tema è cotale: Furono uomini
folli sanza discrezione, li quali, vegga ndo che alquanti erano in grande
onoranza e montati in alto stato per lo bell.o parlare ch'usavano
se- condo li comandamenti di questa arte, sì studiaroO solo in
25. parlare e tralasciare lo studio di sapienzia, e divennero sì
copiosi in dire che, per l'abondanza del molto parlare sanza condimento
di senno, che (2) cumìnciaro a mettere cioè — 2: M-in che
poi {ni, om. poi) a molli a Dio ben facto — -J: M om. duri stali — i 1 : M
conviene, M' conveiiia — IS: M-m om. e li uomini si compren- dessero —
13: M \a cunincianza (e cluininciò)3/' il cuminciamento — 16: m ave...
dinanzi — 18: M^ dopo advenuti ripete per eloquenlia in quesUi
parte (ma ri son trticiie di etpun- zione) — 19: m om. elli — 20: M El
perciii — 24: M' il comandamento.... studiavano — 25 : ilf
intralassai-o, m e lasciaro - 20: M' de molto — m om. elio. (1)
Invece di si studiavo credo preferibile studiavo in senso assoluto, come
già si è trovato, 3, § 4: « e studia puro in dire le parole *.
(2) Sintatticamente questo che ò pleonastico; ma ò attestato da ambedue
le famiglie di codici e non costituisce una rarità per il nostro volgare
antico (anzi, per Brunetto stesso, cfr. IO, 1: « avegna che... ma tutta
volta»). sedizione e distruggi mento nelle cittadi e ne' comuni et
a corrompere la vita degli uomini; e questo divenia però ch'ellino
aveano sembianza e vista di sapienzia, della quale erano tutti nudi e
vani. 3. Et dice Vittorino che eloquenzia 5. sola èe appellata « la vista
», perciò che ella fae parere che sapienzia sia in coloro ne' quali ella
non fae dimoro. Et queste sono quelle persone che per avere li onori e F
utti- litadi delle comunanze parlano sanza sentimento di bene; così
turbano le cittadi et usano la gente a perversi costumi. 10. 4. Et poi
dice Tulio: Da che noi avemo contato '1 principio del bene, cioè de' beni
che avenuti erano per eloquenzia, si è convenevole di mettere in conto la
'ncumincianza del male chende seguitò. Et dice in questo modo nel testo
: Tullio tratta della comincianza del male 15. adveniito per
eloquenzia. 10. Et certo molto mi pare verisimile: in alcuno tempo
gli uomini che non erano parlatori et uomini meno che savi non usa-
vano tramettersi delle publiche vicende, e che W gli uomini grandi e savi
parlieri non si trametteano delle cause private. E con ciò 20.
fosse cosa che sovrani uomini regessero le grandissime cose, io mi penso
che furo altri uomini callidi e vezzati i quali avennero a trattare le
picciole controversie delle private persone; nelle quali controversie
adusandosi gli uomini spessamente a stare fermi nella bugia incon- tra la
verità, imperseveramento di parlare nutricò arditanza 25. 11. Sì
che per le 'ngiurie de' cittadini convenne per necessitade che'
maggiori si contraparassono agli arditi e che ciascuno atoriasse le sue
bisogne; e così, parendo molte fiate che quello eh' avea impresa sola
eloquenzia sanza sapienzia fosse pare o talora più innanzi che quello che
avea eloquenzia congiunta con sapienzia, i-2: m nelle loro
ciltadi — M' om. et a corr.... uomini — 2: m avenia — 3 kelli aveano
sombianca de giusta sap. — 4: m om. Et — 6: M' li quali — 7: M' questi — 10: m
om. Et — 11: M' bone kavenuto era - 12: 1/' il cominciamento — i3: Jlf
chende seguita, j/i che ne seguita - 16: M et certo mo, la Certo modo M
meno di savi, m ch'erano meno che savi — 17-18: M-m non sapeano, L non
osavano — M-m om. e — 19: Jlf sin- trametteano dele cose — 21: M-m om.
uomini — M verrali — 3f' vennero — 22: M' om. delle pr.... controversie —
23: M-m om. spessamente — 24: M' il persev. - 26: M' aiutasse m adornasse
— 29: M' giunta. (1) Un costrutto più regolare si avrebbe
sopprimendo il che o inserendone un altro dopo verisimile; appunto. per
questo conservo' il che, non sembrando proba- bile che un copista volesse
complicare di suo. Questa maggiore libertà sintattica non è nuova.
- 22 — aveni'a che, per giudicio di moltitudine di
gente e di sé medesimo paresse essere (i) degno di reggiere le publiche
cose. 12. E certo non ingiustamente, poi che' folli arditi
impronti pervennero ad avere reggimenti delle comunanze, grandissime
e 5. miserissime tempestanze adveniano molto sovente; per la qual
cosa cadde eloquenzia in tanto odio et invidia che gli uomini
d'altissimo ingegno, quasi per scampare di torbida tempestade in sicuro
porto, così fuggiendo la discordiosa e tumultuosa vita si ritrassero ad
al- cuno altro queto studio {"). Per la qual cosa pare che per la
loro posa 10. li altri dritti et onesti studii molto perseverati
vennero in onore. 13. Ma questo studio di rettorica fue abandonato quasi
da tutti loro, e perciò tornò a neente, in tal tempo quando più
inforzatamente si dovea mantenere e più studiosamente crescere; perciò
che quando più indegnamente la presumptione e l'ardire de' folli impronti
mani- 15. mettea e guastava la cosa onestissima e dirittissima con
troppo gravoso danno dei comune, allora era più degna cosa contrastare
e consigliare la cosa publica. (e. I V) Della qual cosa non fugìo il
nostro Catone né Lelius né, al ver dire, il loro discepolo Àffricano, né
i Gracchi nepoti d' Àffricano, ne' quali uomini era sovrana virtude
et 20 altoritade acresciuta per la loro sovrana virtude; sì che la
loro eloquenzia era grande adornamento di loro et aiuto e mantenimento
della comunanza. Lo sponitore. 1. In questa parte
divisa Tulio come divennero quelli 25. due mali, cioè turbare il buono
stato delle cittadi e cor- rompere la buona vita e costumanza delli
uomini; et avegna che '1 suo testo sia recato in sie piane parole che
molto fae da intendere tutti, ma tutta volta lo sponitore dirae
alcune parole per più chiarezza. 2. Et è la tema cotale: La elo-
1 : M-m avogiia — 2: M per essoi-o degno d'essere 7 di reggiere,
M' paresse degno de reggere — 3: M' poi ke fuor iaiditi in pronti, m
enpronti — 4-5 : M' pervennero i reggìm. — 7 de miserissime tempeste —
spessamente — 7 : M' lempcstande — * : M-m la discordia (m echontumulosa)
— 9 : Tutti i mss. questo, S posato - M-m possa — i i : itf ' do tutto
loro " i4: M dì [olii — 18-19: M ne nelilio - M-m om. nò i G. n.
d'AII'ricano — Jlf' erano sovrane vertudi — 26: M' la vita 7 la buona
costumanca - 27: M< suo stato — m in se — 28: itf' om. tutti, ma — M'
alcuna parola — S9: Af' Et la tema 6 cotale. De la el. ecc.
(1) È possibile tanto la lezione di Af quanto quella di m; ma proferisco
questa perchè corrisponde alle parole del commento, § 6: « pareano essere
degni». (2) Il testo latino ha studium aliquod quieUtm. Lo scambio
di queto por questo era facilissimo, e forse risalo r.llo iirimo
copio. - 23 - quenzia mise in sì alto stato i
parladori savi e guerniti di senno, che per loro si reggeano le cittadi e
le comunanze e le cose publiche, avendo le signorie e li officii e li
onori e le grandi cose, e non si trametteano delle cause private,
cioè 5. delle vicende delli uomini speciali, né di fare lavoriere
(i) né altre picciole cose. Ma erano altri uomini di due maniere:
l'una che non erano parlatori, l'autra che non aveano sa- pienzia, ma
erano gridatori e favellatori molto grandi; e questi non si trametteano
delle cose publiche, cioè delle 10. signorie e delli officii e
delle grandi cose del comune, ma impigliavansi a trattare le picciole
cose delle private per- sone, cioè delli speciali uomini. 3. Intra' quali
furono alcuni calidi e vezzati - cioè per la fraude e per la malizia che
in loro regnava parea ch'avesse in loro sapienzia-; e questi
15. s' ausarono tanto a parlare che, per molta usanza di dire
parole e di gridare sopra le vicende delle speciali persone, montare in
ardimento e presero audacia di favellare in guisa d'eloquenzia tanto e sì
malamente che teneano la menzogna e la fallacia ferma contra la veritade.
4. Onde, 20. per li grandi mali che di ciò adveniano, convenne
che' grandi, ciò sono i savi parladori che reggeano le grandi cose,
venissero et abassassero a trattare le picciole vicende di speciali
persone, per difendere i loro amici e per conta- stare a quelli arditi.
Et nota che arditi sono di due ma- 25. niere : l' una che pigliano
a fifare di grandi cose con prove- dimento di ragione, e questi sono
savi; li altri che pigliano a ffare le grandi cose sanza provedenza di
ragione, e questi sono folli arditi. 5. Donde in questo contrastare i
buoni e savi parlavano giustamente, ma i folli arditi, che non
aveano 30. studiato in sapienzia ma pure in eloquenzia, gridavano
e garriano a grandi boci e non si vergognavano di mentire e di dire
torto palese; sicché spessamente pareano pari di senno e di parlare e
talvolta migliori. Sì che per sentenza 4 : M' om. e non s.
t. d. cause — 5: M-m ont.aò — 6: m odaltre p. o. — 7 M< parliei-i — iO: M' de comuni dele
piccole cose cioè che jier la lYaude ecc. parean (/^ parea) cavassero
sapienlia— lo.- 3f< pei' la molta — 17: M^ presero baldanza — 19: M'
con- tro alla verità — 20: A/' ohi. che d. e. adveniano — m avenia savi e
parladori — m le cittadi — 23: M' appilgliano a taro le g. e. — 26: M^
om. di ragione — L l'altra — 27: L provedimento — 31-32: Me dire,moHi.
mentire e di — 33:M' talocta m. visi che p.s (1) Cosi leggo
con M, piuttosto che lavogarie di ilf' o lavorìi di m: oltre a lavareria,
il Manuzzi registra esempii di lavoriera. - 24 -
del popolo, la quale è sentenzia vana perciò che non muove da
ragione, e per sentenza di sé medesimo, la quale è per neente, pareano
essere degni di covernare le publiche e le grandi cose, e così furo messi
a reggere le cittadi et alli 5. officii et onori delle comunanze. 6. Et
poi che cciò avenne, non fue meraviglia se nelle cittadi veniano
grandissime e miserissime tempestadi. Et nota che dice « grandissime
» per la quantità e che duraro lungamente, e dice « mise- rissime »
per la qualitade, ch'erano aspre e perilliose chende 10. moriano le
persone ; e dice « tempestanza » per similitudine, che sì come la nave
dimora in fortuna di mare e talvolta crescono (i) in tanto che perisce,
così dimora la cittade per le discordie, et alla fiata montano sicché
periscono in sé medesime e patono distruzione. 7. « Per la qual cosa
elo- 15. quenzia cadde in tanto odio et invidia »... Et nota che
odio non é altro se nno ira invecchiata; e così i buoni savi erano
stati lungamente irosi, veggiendo i folli arditi segnoreggiare le
cittadi. Et invidia è aflizione che omo àe per altrui bene; donde i buoni
savi aveano molta aflizione per coloro ch'erano 20. segnori delle
grandi cose et erano in onore. 8. Et perciò li buoni d'altissimo ingegno
si ritrassero di quelle cose ad altri queti studii per scampare della
tumultuosa vita in sicuro porto. Et nota: là dove dice « altissimo
ingegno » dimostra bene eh' arebboro potuto e saputo contrastare
25. a' folli arditi, e perciò che no '1 fecero furo bene da ripren-
dere. Et in ciò che dice « queti studi » intendo l' altre scienze di
filosofia, sì come trattare le nature delle divine cose e delle terrene,
e sì come l'etica, che tratta le virtudi e le costumanze; et appellali «
queti studii » che non trat- 30. tano di parlare in comune, e
perciò che ssi stavano partiti dal remore delle genti. Et appella « vita
tumultuosa » che 2: Jl/i per ragione ~ 4: M furoro, M^ fuoro
— 7 : M-m ismisuratissime ~ 8: SI durano, m duravano quantitade.... s\
elione moriano - 10: M' tempestade — 14: M' medesimo ~ 15: m om. Et — 16:
m buoni e savi — 18: m om. Et — m i'uomo... l'al- trui — SO: M> et in
lionore erano — m ad altre — M-m questi, M' certi —om. Et noia la dove — 25 :
M-m non fecero — 26 : Tutti i mss questi — 27 : M de trattare — 28: M-m
sicome dice che l. — 29: M^ appellasi, L appellansi — mss. questi Cosi hanno
tutti i codici; ma forse dopo crescono è andato perduto un sog- getto, richiesto
dal senso o dalla sintassi, come i venti o l'onde (abbiamo anche altrove
la prova che le due famiglie di codici risalgono a un capostipite già
corrotto). Pure non sarebbe impossibile sottintendere dal precedente
fortuna un soggetto le fortune. - 25 -
spessamente l'iiuo uomo assaliva l'altro in cittade coll'arme e
talvolta l'uccideva. 9. Et poi che' savi intralassar lo studio
d'eloquenzia, ella tornò ad neente e non fue curata uè pre- giata. Ma
l'altre scienzie di filosofia, nelle quali studiaro, 5. montaro in grande
onore. 10. Et ora riprende Tulio questi savi e dice che fecior questo a
quel tempo che eloquenzia avea più grande bisogno per lo male che faceano
i folli arditi nelle cittadi, e perchè guastavano la cosa onestis-
sima e dirittissima, cioè eloquenzia che ssi pertiene alle 10. cose
oneste e diritte. U. Dalla qual cosa non fugio il nostro Catone né quelli
altri savi ch'amavano drittamente il co- mune et aveano senno e
parlatura; ma dimoraro fermi a consigliare et a difendere il comune
da'garritori folli ar- diti; e però montaro in onore et in istato sì
grande che 15. le loro dicerie erano tenute sentenze, e perciò dice
che in loro era autoritade, che autoritade èe una dignitade degna
d' onore e di temenza. 12. Ma da questo si muove il conto e ritorna a
conchiudere per ragioni utili et oneste e pos- sibili e necessare che
dovemo studiare in eloquenzia, e 20. lodala in molte guise.
Tullio conclude che sia da studiare in rettorica. 14. Per la
qual cosa, al mio animo, non perciò meno è da mettere studio in
eloquenzia s' alquanti la misusano in publiclie et in private cose; ma
tanto più clie ' malvagi non abbiano troppo di 25. podere con grave
danno de' buoni e con generale distruzione di tutti. Maximamente cun ciò
sia la verità che rettorica è una cosa la quale molto s'appartiene a
tutte cose, è publiche e private, e per essa diviene la vita sicura,
onesta, inlustre e iocunda; e per essa medesima molte utilitadi avengono
in comune se fia presta la modonatrice di tutte 30. cose, cioè sapienzia;
e per lei medesima abonda a coloro che H'acqui- stano lode, onore,
dignitade; e per essa medesima anno li amici certissimo e sicurissimo
aiutorio. 1: M-m spesse volte — 2: m tralassaro — 8: m le
chose honestissime — 10: M (Iride, m diritte — 3f' Dela q. e. — 11: M'
dirittamente, m om. — 12: M' dimorato y f.: M 7 folli arditi, £ e da f.
a. — 14: M^ J montaro perciò — 18: m e torna, M 7 condoura tornerà per
ragioni, L e mosterrà per rag. — Jlf-;» honesti ~ 19: M -m ne- cessarie—
20: m lodarla — ^3: M* misuna, corretto poi misusa — 27: M' molto pertièno
devegna — 28: M> y hon. 7 illustra 7 gioconia, m illustra — 29: M sia — 31:
M^-m 7 honore 7 dignitade. 26 - Lo
sponitore. 1. La tema di questo testo è cotale, (H che dice Tulio:
Se alquanti di mala maniera usano malamente eloquenzia, non rimane pertanto
che 11' uomo non debbia studiare in 5. eloquenzia, al mio animo (cioè per
mia sentenza), acciò che ' rei uomini non abbiano podere di malfare a'
buoni né di fare generale distruzione di tutti. Et nota che di-
strutti sono coloro che soleano essere in alto stato et in ricchezza e
poi divennero in tanta miseria che vanno men- 10. dicando. 2. Et
poi dice le lode di rettorica, come tocca al comune et al diviso, e come
per lei diviene l'uomo sicuro, cioè che sicuramente puote gire a trattare
le cause, et ap- pena troverai (2) chi '1 sappia contradiare ; e dice
chende diviene la vita « onesta », cioè laudato intra coloro che '1
15. cognoscono; e dice «illustre», cioè laudato intra li strani; e
dice « ioconda », cioè vita piacevole, però che ' savi par- lieri molto
piacciono ad sé et altrui. 3. Et altressi molto bene n'aviene alle
comunanze jier eloquenzia, a questa con- dizione : se sapienzia sia
presta, cioè se ella sia adiunta con 20. eloquenzia. Et dice che
sapienzia è amodenatrice di tutte cose però che ella sae antivedere e
porre a tutte cose certo modo e certo fine. 4. Et poi dice che questi che
anno elo- quenzia giunta con sapienzia sono laudati, temuti et
amati; e dice che Ili amici loro possono di loro avere aiutorio si-
25. curissimo, però che appena fie chi Ili sappia contrastare,
poiché sanno parlare a compimento di senno. Et dice « cer- tissimo » però
che '1 buono e '1 savio uomo non si lascia M-m Lo testo èe cotale, M'-L
La tema de questo è cotale — 3: M' aliijuanti — 6: M' de fare male — 7: m
om. nota — 9: il' divegnono — 11: M huomo siguro — 13: M' troverà — 14:
M-m laudata.... che cognoscono — 15: M' illustra, L illustro — 17: A/' ad
altri — M-m nm. Et altressi e n— 19: Hin presta — M' giunta — 21 :M siae
ad intivedere, m a ad antivedere — 22: m om. Et — 23: M^ 7 temuti — 25: m Tia
chelli sappia, M' fie chelli il sappia — 37: M non so lascia. Anche
la lezione di ilf è possibile, ma forse nacque da un accomodamento
arbitrario del testo già corrotto. Invece quella di M' è spiegabilissima
collomis- sione della parola testo (la somiglianza con questo rese più
facile l' errore) e riceve conforma dal principio del capitolo seguente,
con quell'uniformità di espressione che è caratteristica di tutto il
commento. (2) Troverai è preferibile come « lectio difflcillor ».
Del resto anche in M' po- trebbe trattarsi non di troverà, ma
troverà'. corrompere per amore ne per prezzo né per altra simile
cosa. Et qui si parte il conto e fae nn' ultima conclusione in questo
modo: Tullio conclude in somma. Et però pare a me che gli
uomini, i quali in molte cose sono minori e più fievoli che Ile
bestie, in questa una cosa l'avan- zano, che possono parlare ; e donque
pare che colui conquista cosa nobile et altissima il quale sormonta li
altri uomini in quella me- desima cosa per la quale gli uomini avanzano
le bestie. La tema in questo testo è cotale : La veritade è che gli
uomini in molte cose sono minori che Ile bestie e più fievoli, acciò che
sanza fallo il leofante e molti altri ani- mali sono più grandi del corpo
che nonn è l'uomo; e certo 15. il leone e molte altre bestie sono
più forti della persona che ir uomo; e più ancora che in tutti e cinque '
sensi sono certi animali che avanzano lo senso dell'uomo. Che sanza
fallo lo porco salvatico avanza l'uomo d'udire e '1 lupo cerviere del
vedere e la scimmia del saporare, e l'avóltore 20. dell' anasare ad
odorare, e '1 ragnol del toccare. 2. Ma in questa una cosa avanza 1' uomo
tutte le bestie et animali, che elli sa parlare. Donque quello uomo
acquista bene la sovrana cosa di tutte le buone, che di ben parlare
soprastae alli altri uomini. 25. Tullio dice di che elli
tratterà- 16. Et questa altissima cosa, cioè eloquenzia, non si
acquista solamente per natura né solamente per usanza, ma per
insegnamento d'arte altressi. Donque non è disavenante di vedere ciò che
dicono coloro i quali sopra ciò ne lasciaro alquanti comandamenti. Ma
anzi S: il-m un'altra condictione — 7 : M' costui — il-m
conquesta — 8: M-m la quale; om. li — 9 : )» om. cosa e gli uomini — 11:
il' de questo t. M' molti huomini.... minori 7 più fievoli chelle bestie
— 15: U-m om. altre — 16: M' che tucti — 19-20: M-m 7 l'avóltore
dell'odore, M']j lavoltoio delanasare adodorare, L del savorare e odorare, S
et l'avoltoio del nasare et d'odorare — M-M' 7 rangnol, m il rangnolo
(ohi. tulli gli e), L a ra- gnolo — M'-L ne! toccare — 22: M' chelli
sanno - 25: M dico che {ma cfr. ^ \) — 27 : M' per la natura — 2S: M-m
nm. d'arte — 29: m certi. che noi diciamo ciò che ssi comanda in rettorica,
pare che sia a trattare del genere d' essa arte e del suo officio e della
fine e della materia e delle sue parti; imperochè sapute e cognosciute
queste cose, più di legieri e più isbrigatamente potrà l'animo di
ciascuno 5. considerare la ragione e ia via dell'arte. Lo
sponitore. 1. Poi che Tulio avea lodata Rettorica et era
soprastato alle sue commendazioni in molte maniere, sì ricomincia
nel suo testo per dire di che cose elli tratterà nel suo libro. 10.
Ma prima dice alcuni belli dimostramenti, perchè l'animo di ciascuno sia
più intendente di quello che seguirà, e così pone fine al suo prolago e
viene al fatto in questo modo: Tullio ae fiìiito il prolago, e
comincia a dire di eloquenzia. Una ragione è delle cittadi la quale
richiede et è 15. di molte cose e di grandi, intra Ile quali è una grande
et ampia parte l' artificiosa eloquenzia, la quale è appellata Rettorica.
Che al ver dire né cci acordiamo con quelli che non credono che Ila
scienzia delle cittadi abbia bisogno d'eloquenzia, e molto ne discordiamo
da coloro che pensano ch'ella del tutto si tegna in forza et in arte
del 20. parladore. Per la qual cosa questa arte di rettorica porremo in
quel genere che noi diciamo ch'ella sia parte della civile scienzia,
cioè della scienzia delle cittadi. Lo sponitore.
I. In questa parte del testo procede Tulio a dimosti-are 25.
ordinatamente ciò che elli avea promesso nella fine del pro- lago. Et
primamente comincia a dicere il genere di questa arte. Ma anzi che Ho
sponitore vada innanzi sì vuole fare intendere che è genere, perchè l'
altre parole siano meglio intese. 2. Ogne cosa quasi o è generale, sicché
comprende 30. molte altre cose, o è parte di quella generale. Onde
questa 1-2: M' (la tratto, poi corr. da trattar.; — 3: M-m
generalmente della decta- arte — 3: m però che - 4: M-m più diligente, M'
nm. più — 8: M A rinconincia — 11 : M' (luelle, ma L quello — 14-13: M'-L
richiede molte cose grandi — 16: M-m cai ver diro — 18: M-m abbiano — 30:
M-m [lorromo quel genero — SG: m quella — S8: M-m y perchè — 29: M ìì
quasi generale, m è quasi geu. — 30: M onde jvirte quella gen.
parola, cioè « uomo », è generale, per ciò che comprende molti,
cioè Piero e Joanni etc, ma questa parola, cioè « Piero, » è una parte- A
questa somiglianza, per dire più in volgare, si puote intendere genere
cioè la schiatta; che 5. chi dice « i Tosinghi » comprende tutti coloro
di quella schiatta, ma chi dice « Davizzo » non comprende se no una
parte, cioè un uomo di quella schiatta. 3. Onde Tulio dice di rettorica
sotto quale genere si comprende, per meglio mostrare il fondamento e Ila
natura sua. Et dice così che Ila 10. ragione delle cittadi, cioè il
reggimento e Ila vita del co- mune e delle speciali persone, richiede
molte e grandi cose, in questo modo: che è in fatti e 'n detti. 4. In
fatti è la ra- gione delle cittadi sì come l'arte W de' fabbri, de'
sartori, de' pannar! e l' altre arti che si fanno con mani e con piedi.
In 15. detti è la rettorica e l'altre scienze che sono in
parlare. Adonque la scienza del covernamento delle cittadi è cosa
generale sotto la quale si comprende rettorica, cioè l'arte del bene
parlare. 5. Ma anzi che Ilo sponitore vada più in- nanzi, pensando che Ha
scienza delle cittadi è parte d' un 20. altro generale che muove di
filosofia, sì vuole elli dire un poco che è filosofia, per provare la
nobilitade e l'altezza della scienzia di covernare le cittadi. Et
provedendo ciò ssi pruova l'altezza di rettorica. 6. Filosofia
è quella sovrana cosa la quale comprende 25. sotto sé tutte le
scienze; et è questo uno nome composto di due nomi greci : il primo
nome si è phylos, e vale tanto a dire quanto « amore », il secondo
nome è sophya, e vale - tanto a dire quanto « sapienzia ». Onde «
filosofia » tanto vale a dire come « amore della sapienzia » ; per
la qual cosa neuno 30. puote essere filosofo se non ama la
sapienzia tanto eh' elli intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et
opera ad avere (2) intera sapienzia. Onde dice uno savio cotale
difiì- / M-m cioè che comprende — 2: Af' nm. o J cioè Piero
— 5: M' ovi. chi — 4-6: m om. tutto il passo da che « quella
schiatla — 8: m om. per — 9: M^ demostrare — 10: jU' i reggimenti — 12:
M-m om. che b — 13: Af ' l'arti (ma anche L l'arto) — m e de'pan- nali,
.)/ 7 de sartori de panni — 16-17: m o parte d'un altro generale — 1M' de
ben p. — 20: M in podio — 22: m om. della scienzia, 3/' niii. della scienzia
l'al- tezza — 25: M sotto di sé — 26: m fue fdos, .W filis — 27 : m om.
nome — 29: M^ de la scienza — 31: M-m tuote l'altre — J/' 7 da ~ 32: M-m.
ad amare —' M' Donde. (1) Anche arte potrebbe essere qui un
plurale, come in Tesar., X, 39-40; però lo ronde poco probabile la forma
arti che subito segue. La lezione amare di M-m fu certo suggerita dai
precedenti amore e ama, e basterebbe a farla rifiutare la ripetizione di
concetto a cui si riduce. - 30 - nizione di
filosofia : ch'ella è inquisizione delle naturali cose e connoscimento
delle divine et umane cose, quanto a uomo è possibile d' interpetrare. Un
altro savio dice che filosofia è onestade di vita, studio di ben vivere,
rimembranza della 5. morte e spregio del secolo. Et sappie che
diflfinizione d'una cosa è dicere ciò che quella cosa è, (i) per tali
parole che non si convegnano ad un' altra cosa, e che se tu le
rivolvi tuttavia signiffichino quella cosa. Per bene chiarire sia questo
l'exemplo nella diffinizione dell'uomo, la quale 10. è questa: «
L'uomo è animale razionale mortale ». Certo queste parole si convegnono
sì all'uomo che non si puote intendere d'altro, né di bestia, né
d'uccello, né di pescie, però che in essi nonn à ragione; onde se tue
rivolvi le parole e di' cosi : « (/he è animale razionale e mortale ?
* 15. certo non si puote d' altro intendere se non dell'
uomo. 8. Or è vero che anticamente per nescietà delli uomini furon
mosse tre quistioni delle quali dubitavano, e uon senza cagione, però che
sopr'esse tre questioni si girano tutte le scienzie. La p-rima quistione
era che dovesse l'uomo 20. fare e che lasciare. La seconda
quistione era per che ra- gione dovesse quel fare e quell'altro lasciare.
La terza quistione era di sapere le nature di tutte cose che sono.
Et perciò che le questioni fuoro tre, sì convenne che' savi filosofi (2)
partissero filosofia in tre scienzie, cioè Teorica, 25. Pratica e
Logica, si come dimostra questo arbore. i: M inquistione, m
inquestione, L inqulslione — 2: M^ quando — 3: M enpossib'ile — (5: Mss.
quella cosa 7 per t. p. — 8: if-M' le rivuoli, L le rivolgi — il' el per bene
— .9-/0: if' lo quale questo, L la i[ualo questo — 16: m necessità, M'
neccssiladc — 16-17: .¥' luiomini in esse (L messe) — 18: sospeso, cnrr.
sopresse — 19: .1/' liuomo — 20: m la seconda che lasciare — 20-21: lU-m
om. la 2" quistione — 22.: M-m om. quistione — M-iii la natura — m
tutte le oliose - 23: M-m Et però quelle quistioni furono tre — 23-24 : M
si convenne i savi phylosoi)hy che partissero — jf > si conviene -^ 23: M
mn. e. (1) Si potrebbe anche leggere (con una costruzione più regolare
ma con una coordinazione poco opportuna) ciò eh' è quella cosa, e per
tali parole ecc. (2) Questa lezione ò comune a codici di ambedue le
famiglie, e perciò la pre- ferisco a quella di M, che pure si può
difendere facendo transitivo conreìtne e intendendo i -savi filosofi come
complem. oggetto. Et la prima di queste scienze, cioè pratica, è per
dimostrare la prima questione, cioè che debbia uomo fare e che lasciai'e.
La seconda scienzia, cioè logica, è per di- mostrare la seconda
quistione, cioè per che ragione dovesse quel fare e quello altro
lasciare. 10. Et questa scienza, cioè logica, sì ae tre parti, cioè
dialetica, efidica, soffistica. La prima tratta di questionare e
disputare l'uno coli' altro, e questa è dialetica; la seconda insegna
provare il detto del- l' uno (1) dell' altro per veraci argomenti, e
questa èe efi- dica; la terza insegna provare il detto dell'uno e
dell'altro per argomenti frodosi o per infinte provanze, e questa è
sofistica. Et questa divisione pare in questo arbore. La tex'za scienzia,
cioè teorica, si è per dimostrare le nature di tutte cose che sono, le
quali nature sono tre; 15. e però conviene che questa una scienza, cioè
teorica, sia pai'tita in tre scienzie, ciò sono Teologia, Fisica e
Mate- matica, sì come dimostra questo arbore. 4: m
cioè la ragione — 6: m sollislicha, epidicha, M' eflidica (un'altra mano
aggiunse sotìslicha) — 7: i/' tractare.... contra l'altro - 9:m, ìt', l e
dell'altro — i 1 : if infinite — M' argomenti frodolenti 7 jier infinita
pruova — 12: m apare. (1) Conservo invece di e, comune a quasi
tutti i codici, appunto per la sua singolarità e perchè sembra indicare
una differenza tra l'efldica e la sofistica- la prima dimostra la verità
di una delle due parti, la seconda pretende dimo- strare l'una e l'altra
parte. Onde la prima di queste tre scienze, cioè teologia, la quale
è appellata divinitade, si tratta la natura delle cose incorporali le
quali non conversano in traile corpora, sì come Dio e le divine cose. La
seconda scienzia, cioè 5. fisica, sì tratta le nature delle cose
corporali, si come sono animali e He cose che anno corpo; e di questa
scienzia fue ritratta l'.arte di medicina, che, poi che fue connosciuta
la natura dell'uomo e delli animali e de' loro cibi e dell'erbe e
delle cose, assai bene poteano li savi argomentare la sa- io, nezza e
curare la malizia. La terza scienzia, cioè matema- tica, sì tratta le
nature de le cose incorporali le quali sono intorno le corpora; e queste
nature sono quattro, e perciò conviene che matematica sia partita in
quattro scienze, ciò sono arismetrica, musica, geometria et astronomia,
sì come 15. appare in questo arbore: 13. La prima
scienzia, cioè arismetrica, tratta de' conti e de'nomeri, sì come l'abaco
e più fondatamente. La se- conda scienza, cioè musica, tratta di
concordare voci e suoni. La terza, cioè geometria, tratta delle misure e
delle 20. proporzioni. La quarta scienza, cioè astronomia, tratta
della disposizione del cielo e delle stelle. 14. Or si torna
il conto dello sponitore di questo libro alla prima parte di filosofia,
della quale è lungamente ta- ciuto, e dicerà tanto d'essa prima parte,
cioè di pratica, 25. che pervegna a dire della gloriosa Rettorica.
E sì come fue detto già indietro, questa pratica è quella scienza
che dimostra che ssia da ffare e che da lasciare, e questo è di
3:m traile corpora — 7: #' dela mudicina — 9: M' assai poteo bone
argomentare isani — 10-13 : M-m mltnno da matematica di l. 10 a l. 13 sia
partita (m si e) — 16: m om. scien- 7.ia — 17: M' noveri — 18: M [a
musica — SO: M astorlomia — M' tracta Io sponilore — 22: Af' si ritorna
(L ritorna), m Ora torna lo spoiiiloro alla prima p. — 33: m ae, Jtf' oo
— 24: m della prima parte — 25: m perverrà. tre
maniere: i>erciò conviene che di questa una siano tre scienze, cioè
sono Etica, Iconoiiiica e Politica, sì come mostra la figura di questo
arbore : 15. La prima di queste, cioè etica, sì è
insegnamento di 5. bene vivere e costumatamente, e dà connoscimento
delle cose oneste e dell'utili e del lor contrario; e questo fa per
assennamento di quatro vertudi, ciò sono prndenzia, iusti- zia, fortitudo
e temperanza, e per divieto de' vizi, ciò sono superbia, invidia, ira, avarizia,
gula e luxuria; e così dimo- io, stra etica clie sia da tenere e che da
lasciai-e jier vivere virtuosamente. 16. La seconda scienza, cioè
iconomica, sì 'nsegna che ssia da ffare e che da lasciare per
covernare e reggere il propio avere e la propia famiglia. 17. La terza
scienza, cioè politica, sì 'nsegna fare e mantenere e reggere 15. le
cittadi e le comunanze, e questa, sì come davanti è pro- vato, è in due
guise, cioè in fatti et in detti, sì come si vede in questo arbore:
18. Quella maniera eh' è in fatti sì sono l'arti e' magi-
sterii che in cittadi si fanno, (i) come fabbri e drappieri e li
1 : M-m però clic convion(3 — 3.m am. la ligura — ;>: Af'
accostumatamente M' om. ira — 10: M^ da necnto — 1 1: m virtmliosamonte — 13: m
avere, la patria e la famiglia — 14: m fare, mantenere 7 r. — 16: M-M' 7
in due guise — M' in detti. 18: m om. tutto il g 18 — M' 7 mestieri — 19
: M che cittadini fanno (lì Si rimane incerti fra le due lezioni,
perchè il senso è il medesimo e anclie paleograficamente la differenza è
lieve: forse ì citladisi oxìgìno (i) cittadini'! Adot- tiamo la lezione
un po' più diffìcile. altri artieri, sanza i quali la
cittade non potrebbe durare. Quella eh' è in detti è quella scien^ia che
ss' adopera colla lingua solamente; et in questa si contiene tre scienze,
ciò sono Grramatica, Dialettica, Rettorica, si come dimostra 5.
questo altro albore: 19. Et che ciò sia la verità dice lo
sponitore che gra- matica è intrata e fondamento di tutte le liberali
arti et insegna drittamente parlare e drittamente scrivere, cioè
per parole propie sanza barbarismo e sanza sologismo (i). 10.
Adunque sanza gramatica non potrebbe alcuno bene dire né bene dittare. La
seconda scienza, cioè dialetica, sì pruova le sue parole per argomenti
che danno fede alle sue parole; e certo chi vuole bene dire e bene
dittare conviene che mo- stri ragioni per che, sicché le sue parole
abbiano provanza Ib. in tal guisa che Ili uditori le credano e
diano fede a cciò che dice. La terza S(!Ìenza ciò è Rettorica, la quale
truova et adorna le parole avenanti alla materia, per le quali
l'udi- tore s'accheta e crede e sta contento e muovesi a volere ciò
eh' è detto. 20. Adonque le tre scienze sono bisogno a 20. parlare
et al dittare, che sanza loro sarebbe neente, acciò che '1 buono dicitore
e dittatore de' sì dire e scrivere a diritto e per sì propie parole che
sia inteso, e questo fae gra- matica; e dee le sue parole provare e
mostrare ragioni (2), 1 : Af ' artefici sanza quali le
cittadi non potrebbero durare — 3: M^ ] questa si con- tiene — 6: m Et
choncio sia la v., L Et cliome ciò sia — 7: M' l'arti liberali — 9: M- m
om. e sanza sologismo; t-S silogismo — 10: M' om. alcuno — I-i: M ragione si che
le s. p. — pruova — i7 : M-m advoncnti — 18-19 : M' per bisogno al parliere et
al dicta- tore — S3: M-m mostrare con ragiono, L mostrare por
ragione Non credo necessario, data l' impossibilità di distinguer la
grafia dei copisti da quella dell' autore, ristabilire la forma esatta
solecismo; la stranezza della pa- rola spiega pure l'omissione di M-m e
lo sproposito di L-S. (2) Che questa sia la giusta lezione è
confermato dal § precedente, 1.16 («ra- gioni per che ») ; e si noti che
mostrare con ragione o per ragione equivarrebbe a provare. e questo
fae dialetica; e dee sì mettere et addornare il suo dire che, i)oi che
11' uditore crede, che stia contento e faccia quello eh' e' vuole, e
questo fa Rettorica. Or dice lo sponitore che Ha civile scienza, cioè la
covernatrice delle cit- 5. tadi, la quale èe in detti si divide in due:
che ll'una è co llite e l'altra sanza lite. Quella co llite si è quella
che sisi fa do- mandando e rispondendo, si come dialetica, rettoi'ica e
lege; quella eh' è sanza lite si fa domandando e rispondendo, ma
non per lite, ma per dare alla gente insegnamento e via di 10; ben
fare, sì come sono i detti de' poeti che anno messo inii iscritta
l'antiche storie, le grandi battaglie e l'altre vicende che muovono li
animi a ben fare. 22. Altressì quella civile scienzia eh' è con lite è di
due maniere, eh' è ll'una artifi- ciosa, l'altra non artificiosa.
Artificiosa è quella nella quale 15. il parliere che connosce bene
la natura e Ilo stato della materia, vi reca suso argomenti secondo che
ssi conviene, e questo è in dialetica et in rettorica. Quella che non
è artificiale è quella nella quale si recano argomenti pur per
altoritade, si come legge, sopra la quale non si reca neuna 2'^
pruova né ragione per che, se non tanto l' altoritade dello 'mperadore
che Ila fece. Et di questa che non è artificiale dice Boezio nella Topica
eh' è sanza arte e sanza parte di ragione. 23. Alla fine conclude Tulio e
dice che Rettorica è parte della civile scienzia. Ma Vittorino sponendo
quella 25. parola dice che rettorica è la maggiore parte della
civile scienzia; e dice « maggiore » per lo grande effetto di lei,
che certo per rettorica potemo noi muovere tutto '1 popolo, tutto '1
consiglio, il padre contra '1 figliuolo, l'amico centra l'amico, e poi li
rega(i) in pace e a benevoglienza. Or è detto 30. del genere; omai
dicerà Tulio dello oflfizio di rettorica e del fine.
1: M ordinare, m e iliraeltero e ordinare lo siidire — 3: M^ cliolll stea
— 5: M-m si vede in due — 7: M' y reclorica — 9: M' a. lo genti — i 1 :
m-M in iscripto — M' 7 le g. b. 7 altro vicende — IS : M-m alla (certo da
((Ila), M' (|UOSta civ. — 13-14: mchS l'ima e art. 7 l'altro non art.,
3f' l'unaarl. l'altra none art. (X non art.) — 16: m su argomenti che
crede ohe si chenvieno, S secóndo la cosa — 19: M sopralla quale — 21 : J/' di
que- sta non artificiosa — S6: m e M' alFecto, ma L el'ctto — S8 : m M'
contro al f. — wchontro all'amico, M' contra amico. — 29: m li reca, Af'
recalgli a pace 7 benev., L-S recarli a p. Q n h. — 80 : m M'
oggimai. (1) Con libertà non nuova alla nostra ling'.ia antica, si
può sottintendere il soggetto, « rettorica », dalle parole « per
rettorica » che precedono. La lezione ? ecarli, appunto perchè piii
semplice e chiara, mi par da scartare : non si vedrebbe -
36 Tullio dice che è l'ufficio di questa arte.
18. Officio di questa arte pare che sia dicere appostatamente per
fare credere, fine è far credere per lo dire. Intra 11' ufficio e Ila
fine èe cotale divisamente : che nell'officio si considera quello che 5.
conviene alla fine e nella fine si considera quello che conviene al-
l'officio. Come noi dicemo l'ufficio del medico curare apostatamente per
sanare, il suo fine dicemo sanare per le medicine, e così quello che noi
dicemo officio di rettorica e quello che noi dicemo fine in- tenderemo
dicendo che officio sia quello che dee fare il parliere, e 10. dicendo
che Ila fine sia quello per cui cagione eili dice. Lo
sponitore. 1. In questa parte àe detto Tulio che è l'officio di
que- sta arte e che è lo suo fine; e perciò che '1 testo è molto
aperto, sì sine passerà lo spouitore brevemente. Et dice 15. cotale
diffinizione : officio è dicere appostatamente per fare credere. Et nota
che dice « appostatamente », cioè ornare parole di buone sentenze dette
secondo che comanda que- st'arte; e questo dice per divisare il parlare
di questo di- citore dal parlare de' gramatici, che non curanq
d'ornare 20. parole. E dice « per far credere », cioè dicere sì
composta- mente che ir uditore creda ciò che ssi dice. Et questo
dice per divisare il detto de' poeti, che curano più di dire belle
pai-ole che di fare credere. 2. L' altra diffinizione è del fine. Et dice
che fine è far credere per lo dire. Et certo chi 25. considera la
verità In questa arte e' troverà che tutto lo 'ntendimento del parliere è
di far credere le sue parole all'uditore. Donque questo è la fine, cioè
far credere; che 2: M* om. ilk'Oi'O — 3: M-M' 7 lar — M-m
per 1 udire - 3-4: M' om. Inlra 11' udicio e ripete è cotale ilivisumento
che no l'ollicio — M 7 è colalo — 0: m il' e curare — 9: t in- tenderemo
cli6 olicio è quello ecc. — m om. e — JO: il ella, mi e la — i3 : .tf' et che
il lino — 15: il apostamonle — M-m saltano dal l'ai ^ apposlatanicnto. —
10: .tf-m-.l/' or- nate — 20: m diro si ornatamente et cliom))ost. — 21 :
M-m mn. Kl c|uesto dice - 23: M-m che farle credere - 24: M-m per 1 udire
— 23: M 7 troverà - 26: M' del parlare la ragione per cui fu mutata
negli altri codici, mentre ò facile ammettere che sia derivata da
recahjli di M '. Quoista poi, a sua volta, non è che una variante di ìi
reca, con una estensione del pronome enclitico a cui contraddice la cosiddetta
legge del Mussafla (cfr., anche per Dante, in Bull. d. Soc. Dani., N. S.,
XIV, 90-91) 'mmantenenle che l'uomo crede ciò eli' è detto si
rivolve (1) lo suo animo a volere et a ffare ciò che '1 dicitore
intende. 3. Ma dice Boezio nel quarto della Topica che '1 fine di
que- sta arte è doppio, uno nel parladore et un altro nell'uditore.
5. Il parladore sempre desidera questo fine in sé: che dica bene e che
sia tenuto d' aver bene detto. Neil' uditore è questo fine: che '1
dicitore a questo intende, che nell'udi- tore sia cotale fine che creda quello
che dice; e questo fine non desidera sempre IL PARLATORE sì come quello
di sopra. 10. 4. Et per mostrare bene che è l' officio e che è il
fine e che divisamento àe dall'uno all'altro, sì dice Tulio che
officio è quello che '1 parliere de' fare nel suo parlamento
secondo lo 'nsegnamento di questa arte. Ma fine è quello per cui
cagione il parlieri dice compostamente; e certo questa ca- 15.
gione e questo fine nonn è altro se non fare credere ciò che .
dice. Et di ciò pone exemplo del medico, e dice che Ilo officio del
medico è medicare compostamente per guerire r amalato; la fine del
medico èe sanare lo 'nfermo per lo suo medicare. 5. Già è detto
sofficientemente dell' officio 20. e della fine di rettorica; omai
procederàe il conto a dire della materia. Della
materia. 19. Materia di questa arte dicemo che ssia quella nella
quale tutta l'arte e Ilo savere che dell'arte s'apprende dimora. Come se
noi 25. dicemo che Ile malizie e le fedite sono materia del medico,
perciò che 'ntorno quelle è ogne medicina, altressì dicemo che quelle
cose sopra le quali s'adopera questa arte et il savere eh' è appreso
(2) dell'arte sono materia di rettorica; le quali cose alcuni pensaro
che 1 : M sinvolve, m si involve, M^-L si muove — S : M'
quello olio. — 9 : M-m considera — 10: M' om. l)ene — 15: M-m non
ae altro — m se none a faro — 16: Af ' in ciò — 17-18 : M Olii, è
medicare.... del medico — 19: M-m Già ae d. s. (mi s. d.) — 20: M' del
fine — ogimai procederà Tulio a dire — S,4: m e tutta l'arte — Jlf
' e sapere — S3: M-m le malizie, cioè le malattie (glossa) — 87: M e
savere — tulli i inss, apresso (1) Questa è senza dubbio la lezione
richiesta dal senso e giustificabile con ragioni paleografiche: un
siriuolue in cui ri è parso un n ha originato il sinvolve di M; da questo,
per correzione arbitraria, è nato si muore di Mi L. Invece di « si
rivolve lo suo animo » (soggetto) si può anche intendere « (l'uomo) si
rivolve lo suo animo », ma forse l'espressione riesce meno
naturale. (2) La correzione è suggerita dalle parole precedenti : «
lo savere che dell'arte s'apprende». Il testo latino ha facuUas
oratoria. - 38 - fossero piusori et altri meno.
Che GORGIA DI LEONZIO, che fue quasi il più antichissimo rettorico, e in
oppinione che IL PARLATORE puo molto bene dire di tutte cose. Et questi
pare che dea a questa arte grandissima materia sanza fine. Ma Aristotile,
il quale diede a questa 5. arte molti aiuti et adornamenti, extimò che
II' officio del PARLATORE sia sopra tre generazioni di cose, ciò sono
dimostrativo, diliberativo e giudiciale. Lo sponitore.
1. In questa parte dice Tulio che materia di rettorica 10. è
quella cosa per cui cagione furo pensati e trovati li co- mandamenti di
questa arte, e per cui cagione s'adoperala scienzia clie 11' uomo apprende
per quelli comandamenti. Così fuoro trovati li comandamenti di medicina e
gli ado- peramenti per le infertadi e per le ferute; et insomma
15. quella è Ila materia sopr' alla quale conviene dicere. Et sopra
ciò fue trovata questa arte per dare insegnamento di ben dire secondo che
Ila materia richiede e per fare che ir uditore creda. 2. Et di questo è
stata diiferenzia tra' savi : che molti furo che diceano che materia
puote 20. essere ogne cosa sopr' alla quale convenisse parlare. Et
se questo fosse vero, donque sarebbe questa arte sanza fine, che
non puote essere; e di questi fue uno savio, Gorgias Leontino,
antichissimo rettorico; et in ciò che Tulio l'ap- pella antichissimo sì
dimostra che non sia da credere. 25. 3. Ma Aristotile, a cui è
molto da credere, perciò che diede molti aiuti et adornamenti a questa
arte in perciò che fece uno libro d' invenzione et un altro della
parladura, dice che rettorica èe sopra tre maniere di cose, e
catuua maniera èe genei'ale delle sue parti; e queste sono dimo-
30. strativo, diliberativo e iudiciale, come in questi cercoletti
apiiare : 2: m cliel parlaro — 3: M-m che (loggia (w dohbia)
aiiiiistare — 6: M' generi — 7: M-m giiulicalivo - IS: M-m et per (incili
comamlamenti. Af' aiiiirondo per qua com., S per qiialnni|ue com. (t
bene) -- 13-14: M-m et por lo adoperamenlo et por lo inf. — M' fedito —
15: m. M'-L sopra la quale — 19: M' dissero — ?0: m sopra la ipiale
l'uomo chonviene parlare, M' sopra la (pialo — SS: M-m di questo — S3-S4: M' 1
aix.'l- lava — S6: M-m (lice molti aiuti — M' in ciò che, m però che —
S7: Mdinvctione, hi d'in- votione - S8: M-m materie — M' de cosa {ma L S
di cose) — M^ ciasouna — 30-31: M-m om. come ecc. e la figura. Et a
questa sentenzia s'accorda Tulio, e sopra queste tre maniere è tutta
l'arte di rettorica. 4. Ma ben puote essere oh' e' maestri in questo
punto fanno divisamente intra dire e dittare; che pare che Ila materia di
dittare sia si generale 5. che quasi sopra ogne cosa si possa fare
pistola, cioè man- dare lettera. Ma dire non si puote per modo di
rettorica se non delle dette tre maniere, perciò che Tulio CICERONE reca
tutta la rettorica in quistione di parole. Et intendo che quistione
è una diceria nella quale àe molte parole sie impigliate che ssine puote
sostenere l'una parte e l'altra, cioè provare si e no' per atrebuti, cioè
per propietadi del fatto o della persona. Et ecco l' exemplo in questa
diceria che fie proposta in questo modo: È da sbandire in exilio Marco
Tulio Cicero no, che davanti (i) al popolo di Roma fece anegare
15. molti romani a tempo che '1 comune era in dubbio? In questa
proposta à due parti, una del sì et un'altra del no. Quella del sì è
cotale : « Cicero è da sbandire, perciò che à fatta la cotale cosa *.
Quella del no è cotale: « Non è da sbandire, che ricordando pure lo nome
signififica buona cosa 20. et isbandire et exìlio (2) sìgnifBca
mala cosa, e non è da cre- dere che buono uomo faccia quello che ssia da
sbandire degno né de exìlio ». 6. Grià è detto che è la materia di
quest'arte, et afferma Tulio la sentenza d'Aristotile. Et però che elli
l' àe confermata, sì dicerà di catuna dì quelle 25. tre maniere sì
compiutamente che per lui e per lo sponì- 1 : m sachosta —
2: Mi tucta — 3:m tra dire od. — 4:mL del dittare ~ 5 : M' si puote — 6:
M' lectoro — 7 : 3f ' se non le docte — om. perciò — m tutta rettorica — 9: M'
ov'a — il: M-m et por atrebuti, M' per ai trebuti — m cioè i)roiiietadi —
12: M sie o fie, m Ila, M'-L fu - 14: m om. Cicero — M^ Cicerone che
davanti il p. — 15: M' al tempo — 16: M imposta — 19: M' il suo nome ò
buona cosa — 20: M' in exilio — 21-22: m dongno da sb., M' dengno di
sbandire in oxilio — 24: J/' la conferma
Non e' è dubbio sul testo, in cui la tradizione manoscritta è
concorde; quanto all'interpretazione cfr. Maggini, La Rettorica italiana
di B. L., ediz. cit., p. 34. (2) Che et e non in sia la lezione
originaria è comprovato dal seguente né de exilio (cambiato da M< in
exilio per analogia colla prima alterazione). ~ 40 —
tore potrà quelli per cui è fatto questo libro intendere la
materia, lo movimento e la natura di rettorica. Ma ben guardi d'intendere
ciò che dice questo trattato e di Con- noscere ciò che in esso si
contiene, che altrimenti non po- trebbe intendere quello che viene
innanzi; e dicerà prima del dimostrativo. Del dimostr
amento. 20. Dimostrativo è quello che ssi reca in laude o in
vituperio d'una certa persona- le. Lo sponitore.
1. In questa parte dice Tulio che, con ciò sia cosa che Ile cause e
Ile quistioni sopr' alcuna vicenda indella quale l'uno afferma e l'altro
niega siano di tre maniere, sì inse- gna Tulio avanti quale causa è
dimostrativa. Ma lo sponi- 15. tore non lascerà intanto che non
dica la natura e Ila radice di tutte e tre, oltx'e che dice il testo di
Tulio; et in ciò dicerà chi è la persona del parliere che dice sopra la
causa, e dicerà che è il fatto della causa. 2. La persona del par-
liere è quella che viene in causa per lo suo detto o per lo 20. suo
fatto: et intendo « suo detto » quello ch'elli disse o che ssi crede
ragionevolemente ch'elli abbia detto, avegna che detto noll'abbia;
altressì intendo «fatto» quello che fece o che ssi crede ragionevolemente
che elli abbia fatto, avegna che fatto non sia. 3. Il fatto della causa è
quel detto o quel fatto per 25. lo quale alcuno viene in causa e
questione; et in ciò sia cotale exemplo: Dice Pompeio a Catellina: « Tu
fai tra- 1: in poUà collii —è: M' c\ inovini. ~ 5: .W
Jioooia, L ilice ora — 6: i/del dimoslratio, m (Iella dimostrationo — 8:
S si moslra — 13-14: il' sia in ti-o maniero.... tulio avanti, m Tulio
inprima — M-m cosa — il' sia doni. — 13: m oni. e la radice - lS-19: il-m
Persona del ]). 7 quella — 19-20: il' per lo suo facto o per lo suo
dello, m per lo s. d. e per lo s. f. intondo suo detto e latto (pielli
(nni-he il (iiielli) - SS: il-m e così intondo quello — S4 : il' ijucl
detto — SS- il' et in ipiest., m. ohi. — L siae -- 41
- dimento nel comune di Roma». Et Catellina risponde: « Non
fo ». In questo convenente Pompeio e Catellina sono le persone
de'parlieri; e la causa è questa: «Tu fai tradi- mento » — « Non fo »; e
chiamasi causa però che 11' uno ap- 5. pone e dice parole contra l'altro
e mettelo in lite. 4. Et per maggiore chiarezza dicerà lo sponitore che
èe dimostra- mento e che deliberazione e che iudicamento, e così sopra
che è ciascuna maniera di rettorica. Dimostramento. — 5.
Dimostramento è una maniera di 10. cause tale che per sua
propietade il parliere dimostra ch'al- cuna cosa sia onesta o disonèsta,
e per questo mostra che è da laudare e che da vituperare; e questa causa
dimostrativa è doppia: una speciale et un'altra che non si puote
partire. 6. La speciale dimostrativa è quella nella quale i
parlieri 15. si sforzano di provare una cosa essere onesta o
disonesta, non nominando alcuna certa persona; et intendo certa
per- sona a dire delli uomini e delle cittadi e delle battaglie e
di cotali certe cose e determinate tra Ile genti, non intendo
dell'altezza del cielo né della grandezza del sole o della 20.
luna, che questa quistione non pertiene a rettorica. 7. Et di questa
causa speciale dimostrativa sia cotale exemplo : « Il forte uomo è da
laudare ». Dice l'altro: « Non è, anzi è da vituperare ». E di questo
nasce quistione, se '1 forte è degno di lode o di vituperio, e perciò èe
dimostrativa, ma 25. non nomina certa persona, e perciò è speciale.
8. La causa dimostrativa che non si puote partire è quella nella
quale i parlieri vogliono mostrare alcuna cosa sia onesta o diso-
nesta nominando certa persona, in questo modo: « Marco Tulio Cicero è
degno di lode ». Dice 1' altro: « Non è »; e 30. di questo nasce
quistione, se sia da lodare o da vituperare. Et questa quistione
comprende due tempi : presente e pre- terito. Che al ver dire di ciò che
11' uomo fae presentemente è lodato biasmato, et altressì di ciò che fece
ne' tempi pas- sati. 9. Et sopra ciò dicono 1' antiche storie di Roma
che 35. questa causa dimostrativa si solca trattare in Campo
Marzio, 5: 3/' perciò maggioro — 7 : ìlt' cheo... cheo (ma L
clie... che) - saprà che è — 10: M' per sue propietadi il parladore — 14:
M' i parladori — m spellale o dimostrativa — 16: M' nm. et intendo certa
persona, vi om. et — 17: M' et dele ciltadi — 18: m cliase diterminate —
19: M-m et della gr. — 20: m non apartiene — ^i :?» om. speciale — M-m dimostrata
— M k cotale lessemplo - So: M-m om. è — 27: M' alcuna persona
essere M-m di tre tempi — m pres.,
preter. e luturo — 32: M-m Et al ver dire — 33 : M-m om. di
- 42 - nel quale s'asemblava la comunanza a llodare alcuna
per- sona ch'era degna d'avere dignitade e signoria et a bia- smare
quella che non era degna. E già è ben detto della causa dimostrativa; sì
dicerà il maestro della causa deli- 5. berativa. Del diliber
amento. 21. Diiiberativo è quello il quale, messo (^' a contendere
et a dimandare tra' cittadini, riceve detto per sentenzia. Lo
sponitore. 10. 1. In questa parte dice Tulio che causa
diliberativa è quella eh' è messa e detta a' cittadini a contendere
il lor pareri et a domandare a lloro quello che nne sentono; e
sopra ciò si dicono molte et isvai'iate sentenze, perchè alla fine si
possa prendere la migliore (2). 2. Et questo modo di 15. causare è
quello che fanno tutto die i signori e le podestà delle genti, che
raunano li consillieri per diliberare che ssia da fFare sopra alcuna
vicenda e che da non fare; e quasi ciascuno dice la sua sentenza, sicché
alla fine si prende quella che pare migliore. 3. Et in ciò sia
questo 20. exemplo che propone il senatore: « E da mandare oste
in Macedonia? » Dice l'uno sì e l'altro no. Et così diliberano qual
sia lo meglio, e prendesi 1' una sentenza. Et questa quistione si
considera pure nel tempo futuro, che al ver dire sopra le cose future
prende l'uomo consiglio e dili- 25. bera che ssia da fare e che
noe. 4. Et questa causa dilibe- rativa è doppia: una speciale et un'altra
che non si puote partire. 5. Speciale è quella nella quale si considera
d'ai cuna cosa s' ella è utile o s' eli' è dannosa, non nominando
1-3: M alcuno cli'era dengno — om. e signoria.... degna — 6: Tutti
i mss. omesso, S è messo — H : M-m che in essa - m M' i loro pareri, L
illoro pareri — 12: M' da loro - 13: M-m dicono — 14: M-m lo migliore —
15: M-m cassare (M 7 quello) — 16: M-m raunavano — 17: M-m non
daffare — 20: M' ressom])ro — M-m che pone -22: M' il migliore — 24: m
nel tempo futuro — ilf ' iirendo huomo(»nn L S l'uomo) M-m Questa ì;
causa, cioè cosa, diliberativa 7 doppia,. L e delib. e doppia — m una e
spetiale — M-m om. che — 27: M-m alcuna cosa — 28: M-m om. sellò
(1) Il testo latino non lascia alcun dubbio. La stessa corruzione, comune
a tutti i codici, è nel successivo § 22 (e posto), e il costrutto
insolito la rendeva facile. (2) Anche la lezione lo migliore è
buona, ma preferisco quella di M' perchè corrisponde esattamente alla
fino del § 2. alcuna certa persona. Et ecco l'essempio: Dice
uno: “Pace è da tenere intra cristiani.”. Dice l'altro: « Non è ». Et
di ciò nasce causa diliberativa speciale, se Ila pace è da tenere o
no. 6. L'altra che non si può partire è quella nella quale 5. i dicitori
studiano di provare e' alcuna cosa sia utile o dan- nosa, nominando certe
persone, in questo modo: Dice l'uno: « Pace è da tenere intra Melanesi e
Cremonesi ». Dice l'al- tro: «Non è». 7. Et già è detto della causa
diliberativa; omai dicerae il maestro del iudiciale. Ma questo sia
conto 10. a ciascuno, che Ila propietade della diliberazione èe
mo- strare che ssia utile e che dannoso in alcuno convenentre. Et
questa diliberativa si solca trattare nel senato, e prima diliberavano li
savi privatamente che era utile e che no e poi si recava il loro
consiglio in parlamento e quivi si 15. fermava la loro sentenza, e
talvolta si ne prendea un'altra migliore. Del
iudiciale. 22. Judiciale è quello il quale, posto In iudicio, à in
sé accu- sazione e difensione o petizione e recusazione. 20.
Lo sponitore. l. La natura di iudicamento si è una forma la quale
si conviene al parladore per cagione di mostrare la iustizia e la
'niustizia d'alcuna cosa, cioè per mostrare d'una cosa s' ella è insta o
centra iustizia, in cotal modo : che uno ac- 25. cusa un altro e
11' accusato si difende elli medesimo o un altro per lui; overo che uno
fa sua petizione e domanda guidardone per alcuna cosa eh' elli abbia ben
fatta, et un altro recusa e dice che non è da guidardonare, e
talvolta dice : « Anzi è degno di pena ». 2. Et questa causa si
pone 30. in iudicio, cioè in corte davante a' indici, acciò eh'
elli in- dichino tra Ile parti quale àe iustizia; e questo si fae
in corte palese in saputa delle genti, acciò che Ila pena del
S. in Iva — 3: M-m e so la p. — 4: M' L'altra la quale — 7 : Ai da
melanesi, m tra mei. - Af ' e li crem. — M-m l'altro dice — *: J/ E già
detto — U-m cosa — 9 : M ' oggi- mai dicera del giudioiale - 10: ;»/' om.
a ciascuno — m e damostrare — 12: m ohe prima 14: m om. e — m M' in loro
consiglio (ma L illoro cons.) — 14-15: A/' in loro sententia si fermava —
18: Tuttiimss. e [tosto — i9: m accnsatione, difensione, pctitiono — Tutta
mas. recusatione {ma cfr. testo latino) — 24: m chontro a iust. — m om.
che — 25: .V e me- desimo, L elli med. — 27: m fatta bene — 28: m om. e
dice — 32: m traile genti. malfattore dia exemplo di non malfare, e '1
guidardone de' benfattori sia exemplo agli altri di ben fare. Et
sopra questa materia dice uno savio: « I buoni si guardano di
peccare per amore della vertude, i malvagi si guardano 5. per paura della
pena ». 3. Et è questa causa iudiciale dop- pia: una speciale et un'
altra che non si puote partire. Speciale è quella nella quale il
pai'lierc si sforza di mo- strare alcuna cosa che ssia insta o iniusta,
non nominando certa persona; in questo modo: « Il ladro èe da
'mpendere, 10. perchè commette furto ». Dice l'altro: « Non è ». 4.
Quella che non si puote partire è quella nella quale il parliere si
sforza di mostrare una cosa essere iusta o no, nominando certa persona;
in questo modo: « È da impendere Guido eh' à fatto furto, o no? » Od « E
da guidardonare Julio 15. Cesare eh' à conquistata Francia, o no? »
5. Et tutte que ste cause iudiciali si considerano sopra '1 tempo
preterito, perciò che di ciò che 11' uomo à fatto in arrietro è
guidar- donato o punito. Tullio dice la sua sentenzia della
materia di rettorica, 20. riprende quella d' Ermagoras. 23.
Et sì come porta la nostra oppinione, l'arte del parliere (0 e la
sua sctenzia è di questa materia partita in tre. (cai). VI) Che
certo non pare che Ermagoras attenda quello che dice ne attenda C^)
ciò che promette, acciò che dovide la materia di questa arte in
causa 25. et in questione. 1 : VI exempro allo
genti — -V far malo — M il guidardone — S: M' tini benfacloro — m om. VA
— 4: M' o li malvagi seno guardano — 6: U' et una che — 7: il' il
dicitore - 9: M-m om. modo — m è da mpichare — 10: M' un altro — 12-15:
M-m om. ila nominando alla fine del paragrafo — i6: il-m om. si — i7: m
per adietro — i8:m pulito SI : M-m parlare, M' parladore, L parlatore —M
Amagoras (1) Che sia da legger cosi dimostra non tanto la variante
di M' quanto, spe- cialmente, il trovare nel § 1 del commento lo stesso
errore di Mm di fronte a parliere di M'. Conservo, coi codici, i due
attenda, quantunque il tosto latino abbia nel primo caso attendere e nel
secondo intellUjere: qui ci aspetteremmo dunque in- tenda, e
l'alterazione, per analogia col primo verbo, sarebbe spiegabilissima. Ma
anello con attenda il senso va bene; e forse una prova della somiglianza
sostan- ziale per l'autore fra attendere e intendere si ha nel § 7 del
commento, dove, riferendosi a questo passo, i due verbi sono invertiti di
posto: «non pare che Ermagoras intendesse quello che dicea, nò che
considerasse (= attendesse) quello che promettea ». Lo
sponitore. 1. Poi elle Tulio àe detto davanti le tre partite
della materia di rettorica sì come fue oppiuione d'Aristotile, in
questa parte conferma Tulio la sentej^izia d'Aristotile; e 5. dice che
pare a llui quel medesimo, e riprende la senten- zia d'Ermagoras, il
quale diceva che Ila materia del par- liere è di due partite, cioè causa
e quistione. 2. Ma certo e' dovea così riprendere coloro che giungeano
alla materia di quest'arte confortameuto e disconfortamento e
consola- lo, mento; e lui riprende Tulio nominatamente perciò
ch'elli era più novello e però dovea elli essere più sottile, e ri-
prendelo ancora però che ssi traea più innanzi dell'arte; e riprendendo
lui pare che riprenda li altri. Ma però che Tulio CICERONE non disfina (D
lo riprendimento delli altri, si vuole lo sponitore chiarire il loro
fallimento, e dice così: 3. Vero è che, si come mostrato è qua in
adietro, l' officio del par- liere si è parlare appostatamente per fare
credere, e questo far credere è sopra quelle cose che sono in lite, e'
ancora non sono pervenute all' anima ; ma chi vuole considerai*e
20. il vero, e' troverà che confortameuto e disconfortamento sono
solamente sopra quelle cose che già sono pervenute all' anima.
Verbigrazia : Lo sponitore avea propensato di fare questo libro, ma per
negligenzia lo intralasciava; onde da questa negligenzia il potea bene
alcuno ritrat- 25. tare ('-) per confortameuto, e questo conforto viene
sopra cosa la quale era già pervenuta all'anima, cioè la negli-
genzia. 4. Et se alcuno disconforta un altro che avea pro- posto di
malfare, tanto che ssinde rimane, altressi viene lo sconforto in cosa la
quale era già pervenuta all' anima. 30. Adunque è provato che conforto né
disconforto non pos- 1 : m dinanzi — 3: L dico e conferma —
4: M-m la sciencia — 6-7 : M-m parlaro — 10: M'-L non mattamente —li: M-m
om. elli — 14: m diffina (o anche disfina), ilf'-/y non examina delli
altri — m om. si — 16: M^ in qua dietro — m del parlare — 17: M-m om. si
— 18: M' et che ancora, m e anchora — SO: M' et trovare — 21: m om. già -
S3 : L pensato, S per pensato — 23: M lo tralassava, m lo lasciava — 24: M'
bene ritrarre alcuno, w lo potea alchuno ritrarre - 27 : vi sconforta —
30: M-m sconforto Manuzzi registra disfinire per « compiere » e anclie
por « dichiarare », che mi sembra qui il senso piìi adatto.
(2) Non mancano esempii (cfr. Manuzzi, s. v.) che permettono di
mantenm-e questa parola in senso di «ritrarre», come appunto sostituirono
gh altri mss. altì- sono essere materia di questa
arte. 5. Ma consolamento puote anzi essere materia del parliere, perciò
che puote venire sopra cosa e' ancora non sia pervenuta all' anima.
Verbigrazia: Uno uomo ferma nel suo cuore di menare dolorosa vita per la
morte d' una persona cui elli ama sopra tutte cose. Ma un savio lo consola,
tanto elle propone d'avere allegrezza, la quale non era ancora
pervenuta all'anima. Ma perciò che in questo consolamento non ha lite,
perciò che '1 consolato non si difende né non 10. allega ragioni
contra il consolatore, non puote essere ma- teria di questa arte. 6. Or è
ben vero che altri dissen che dimostrazione non era materia di questa
arte, anzi era materia di poete, però eh' a' poete s' apartiene di lodare e
di vituperare altrui. Et avegna che Tulio no Ili riprenda no-
15. minatamente, assai si puote intendere la riprensione di loro in
ciò eh' e' conferma la sentenza d'Aristotile che disse che dimostrazione
e deliberazione e iudicazione sono materia di questa arte. 7. Et sopra
ciò nota che dimostrazione per- tiene a' poeti et a' parlieri, ma in
diversi modi : che ' poeti 20. lodano e biasmano sanza lite, che
non è chi dica contra, e '1 parlieri loda e vitupera con lite, che è chi
dice contra il suo dire. Et perciò dice Tulio che non pare che
Erma- goras intendesse quello che dicea, né che considerasse quello
che prometea, dicendo che tutte cause e questioni 25. proverebbe
per rettorica. Or dicerà Tulio le rii)rensioni d' Ermagoras sopra causa e
sopra questione. Tullio seguita Ermagoras della causa, etc.
24. Causa dice che ssìa quella cosa nella quale abbia contro-
versia posta in dicere con interposizione di certe persone; le quali 30.
noi medesimo dicemo che è materia dell' arte e, sì come detto avemo
dinanzi, che sono tre parti : iudiciale, dimostrativo e deliberativo.
2: M' innanzi — del parlatore — 3: m non 6 jiervenuta — 5-6: M
ellamava — 6-7 : III lo chonsolò, M' il consola tutto sì clid iiropone —
8: M-m che questo cons. — .9: in e non allega — i3: m di poota.... a
poeti, M' de poeti... ali poeti — M' o di vit. — i-i: M nelle, m non le,
M' non gli — i6: M' elicgli conferma — 17: m dim., dilib. et
iiivochationo — 19: M' ali poeti et ali pailadori— 5i : M II parlieri, »i 11
parlieri?, 3/« E! parladore — m pero che è chi dicha chontro al suo dire
— S-1: A/' chelgli prom. — 26: m e questione, M' sopra questioni — 30: m
nm. medesimo — itf' nm. o Sponitore. 1. Poi che Tulio
avea detto che Ei-magoras non intese se stesso dicendo che causa e questione
sono materia di questa scienzia, sì dice in questa parte che
Ermagoras 5. dicea che fosse causa. 2. Et causa appella una cosa
della quale molti sono in controversia, perciò che 11' uno ne sente
uno intendimento e l'altro ne trae un'altra diversa intenzione; sicché
sopr' a cciò contendono di parole met- tendo e nominando alcuna certa
persona, che non si possa 10. partire e che propiamente e
determinatamente si partenga alle civili questioni. 3. Et di questo dice
Tulio che ss' ac- corda co llui, che ciò àe elli detto davanti per sé e
per Aristotile; ma dicerà omai com' elli errò in questione.
Qtd rijivende Tullio Ermagoì as- Questione
apella quella che àe in se controversia posta in dicere sanza
interposizione di certe persone, a questo modo: Che èe bene fuori
d'onestade? Sono li senni (i) veri? Chente è la forma del mondo? Chente è
la grandezza del sole? Le quali questioni inten- demo tutti leggiermente
essere lontane dall'officio del parliere; 20. che molto n' è grande
mattezza e forseneria somettere al parliere in guisa di picciole cose
quelle nelle quali noi troviamo essere con- sumata la somma dello 'ngegno
de' filosofi con grandissima fatica. Sponitore. 1. Ora
dice Tulio che Ermagoras appellava questione 25. quella cosa sopra
la quale era controversia intra molti, sicché contendeano di parole
l'uno contra l'altro non no- 5: M diceva - m ch'era chausa —
7: M^ e un altro ne trae altra d. i., M na {sic) trae, m ne atrae — 8:
M-m contendemo — 10: M' nominatamente — m sautenga — 13: Jf' oggimai —
15: M' la quale ae — 16-17: M' che ben — M-iii li senni vari — M' om. h —
M-m la l'ama — 19: M-m del parlare — 20: M-m oiii. raaltozza, ilf ' om. e
for- seneria — JZ-w parlare, M' parladore — SI: l/Tiusta,//i in vista— 24
^/-w appella- lo: M' era questione — m tra molti — 26: M ne
contendeano (1) Traduce il latino sensus con una forma che ritorna
anche nel commento; è la stessa fusione, o confusione, cho troviamo nel
francese. minando certa persona la quale propiamente s'apartenesse
alle civili questioni. 2. Et in ciò pone cotale exemplo: «Che è bene
fuori d'onestade?» Grande contraversia fue intra' fi- losofi qual fosse
il sovrano bene in vita: et erano molti 5. che diceano d'onestade, e
questi fuoro i parepatetici; altri erano che diceano di volontade, e
questi sono epicurii. 3. Altressì fue questione se ' senni sono veri,
perciò che alcuna fiata s'ingannano, che se noi credemo che ricalco
sia oro sanza fallo s' inganna il nostro senno. 4. Altressì 10. fue
questione della forma del mondo, però eh' alcuni filosofi provavano che
'1 mondo è tondo, altri dicono eh' è lungo, o otangolo(l\ o quadrato. 5.
Altressì era questione della gran- dezza del sole, che alcuni dicono che
'1 sole è otto tanti che Ila terra, altri più et altri meno. Et questa
misura si sforza- lo, vano di cogliere i maestri di geometria misurando
la terra, e per essa misura ritraeano quella del sole. 6. Et perciò
mostra Tulio che Ermagoras non intese quello che dicea, ch'assai
legiei'mente s'intende che queste cotali questioni non toccano l'ufficio
del parliere. Et nota che dice « officio » 20. però che ben potrebbe
essere che '1 parliere fosse filosofo, e così toccherebbe bene a lini
trattare di quelle questioni, ma ciò non arebbe per officio di rettorica
ma di filosofia. Donque ben è fuori della mente e vano di senno quelli
che dice che '1 parliere possa o debbia trattare di queste que- 25.
stioni, nelle quali tutto tempo si consumano et affaticano i filosofi. 7.
Or à provato Tulio che Ermagoras non intese quello che disse. Ornai
proverà come non attese quello che promise, in ciò che promettea di
trattare per rettorica ogne causa et ogne questione. 8. Et ciò fae a
guisa de' savi, i 1 : 3/' sì plenesse - 3: M-m fuori con
lioneslade, M'-l di l'iiuri 7 lioii. 4' ili l'uori d'hon. — .W grande
(juostione — mi traili lilosali — -I : m «m. et — 5 : .V diceano hon. —
M-m OHI. questi fuoro — il pai'ei)atoiici, .W parclieiialetici — 6: il' diceano
volontade (S ugg. cioè piacere) — 7: M-m se songni - 8: M' chel ricalco —
9: S il nostro senti- mento — iO: il perciò — id: il' diceano — IS: il
Hangolo ('/), "i troangholo, .W'-i triangolo, S otangolo — m quadro
— i3: il' cotanti che terra, i cotanti chella terj-a —16: m ritraevano la
misura d. s. — 17: il' che elgli diceva. Kt assai ecc. — S3: M' Dunque
ben — M' chi dice — 24: M' debbia parlare — 25: M' et faticano — S7: il-m
non inteso — 28: M-m perche (> rectorica — 29: M-m di savi (1)
La lezione di M ò incerta, ma sembra spiegata e confermata da quella di S
che risalo all'altra famiglia di codici ; un segno male interpretato come
abbre- viatura di ri può aver suggerito la lezione triangolo. Il commento
di Vittorino a questo passo non parla nò di triangolo né di
ottangolo. (2) Il latino Ila in ca. - 49 —
quali vogliendo mostrare la loro sapienzia sì 11' apongono ad alcuna
arte per la quale non si puote provare; come s' alcuno volesse trattare
d' una questione di dialetica et aponessela a gramatica, per la quale non
si pruova né ssi 5. potrebbe provare, e ciò mosterrebbe usando per
argomenti la sua sapienzia; e sopr'a cciò ecco '1 testo di Tulio.
Tullio dice in somma ciò ch'elli avea detto davanti. 26. Che
se Ermagoras avesse in queste cose avuto gran savere acquistato per
istudio e per insegnamento, parrebbe ch'elli, usando 10. la sua
scienzia, avesse ordinata una falsa cosa dell'arte del parliere, e non
avesse sposto quello che puote l'arte ma quello che potea elli. Ma ora è
quella forza nell'uomo ch'alcuno li tolga più tosto retto- rica che
no-lli concedesse filosofia. Ma perciò l' arte che fece non mi pare del
tutto malmendosa, ch'assai pare ch'elli abbia in essad) locate 15.
cose elette ingegnosamente e diligentemente ritratte delle antiche arti,
et alcuna v'àe messo di nuovo; ma molto è piccola cosa dire del- l'arte
sì come fece elli, e molto è grandissima parlare per l'arte, la qual cosa
noi vedemo ch'esso non poteo fare. Per la qual cosa pare a noi che
materia di rettorica è quella che disse Aristotile, della 20. quale
noi avemo detto qua indietro. Lo sponitore. I. In questa
parte dice Tulio che se Ermagoras fosse stato bene savio, sicché potesse
trattare le quistioni e le cause, parrebbe eh' avesse detto falso, cioè
che avesse dato 25. al parliere quello officio che nonn é suo; e così non
avrebbe mostrata la forza dell'arte, ma averebbe mostrata la sua.
2. «Ma ora è quella forza nell'uomo», cioè tal fue questo Ermagoras, che
neuno che dicesse eh' e' non sappia retto- rica no-lli concederae che
ssia filosofo. 3. « Ma perciò l'arte 1 : 3f siila pongono —
3: m trattare una q. — 4-5: M' per la quale non si porla provare — M' om.
per argomenti — 9: M^ o \)ev insegnamento parendo— 10: »i ordinato — M-m
del parlare — 11 : M-m non avesse posto (»m in et n.) — M' ([nello puote
— 13: M' che fece nolli cono. — 14-15: M-m messe, A/' in esse — M-m ^
locate le cose («4 nm. le cose) 7 lecte — 17: M dell'arti, in delle urti
— itf' grandissimo — 18: Jl/ potea, M' ]jotero — 19: ni sia quella — 20:
M' qua in adietro — S4: M-m ciò — M' cavesse detto — 25: Af a parliere —
28: M' ch'olii — 28-29: S che non lu veruno che dicesse ch'elli non sappia
retorica non dirà giù che egli sia philosopho (1) Il testo latino
ha in ea. che fece non pare in tutto rea ». In questa parola
il cuo- pre (1) Tulio e dimostra eh' elli avrebbe bene ijotuto dire
X^egio. Et dice « non è del tutto rea » perciò eh' elli àe messo nel suo
libro con molta diligenzia e con ingegno li 5. comandamenti delli altri
maestri di questa arte, et alcuna cosa nuova v' agiunse. Et qui pare che
Tulio lo lodi là ove il vitupera, dicendo che fosse furo in perciò che
delle scritte d' altri maestri fece il suo libro. 4. « Ma molto è
picciola cosa dire dell' arte », ciò viene a dire eh' al parliere
non 10. s'apartiene dare insegnamenti dell'arte, sì come fece
Er- magoras, ma apartiensi a llui in tutte guise parlare secondo li
'nsegnamenti e comandamenti dell" arte, la qual cosa non seppe fare
esso. 5. Adonque è da tenere la sentenzia d'Ari- stotile, che dice che
materia di questa arte è dimostrativo, 15. deliberativo e
iudiciale. Et ornai è detto sofficientemente e diligentemente del genere,
cioè generalmente, dell' officio e della fine di rettorica; or sì dicerà
il conto delle sue parti, sì come Tulio promise nel suo testo qua
indietro.Tullio CICERONE dice le parti di rettorica. 20. 27. Le
parti sono queste, sì come i più dicono: Inventio, di- spositio,
elocutio, memoria e pronuntiatio. Lo sponitore.
ì. Cinque parti dice Tulio che sono et assegna ragione per
che, e quella ragione metterà lo sponitore in suo luogo. 25. Ma
prima dicerà le ragioni che nne mostra Boezio nel quarto della
Topica, che dice che se alcuna di queste cin- 1-2: S scuopre
— 4: M' con non molto.... ingegni i com. — 6: J/' vi giiingnesse —
i>f-»i la dove — 7:M* fosse ladro — m poro che dello dette scritte - 8-9: M'
delli altri — om. Ma... arte — m cosa a dire — 10: M-m a dire — 12 : m
egli noi seppe fare — 14 : m dice materia — 15-17 : M' Et oggimai ae
solTicientemento detto del genere, dell' officio et del (ine dì
rectorica. Si dicerà l'autore déle sue parti — M sulficientemcnte dilig. — m
ora dirà — 20;mLLQ parti di rettoriclia — M' inveutione, dispositione,
ccc — 24: S questa — M-m che dico se alcuna Cioè «lo difonde». La
lezione scuopre di S sarà nata da un ilcuopre letto iscuopre; come senso
si ridurrebbe a una ripetizione di dimostra. que ijarti falla nella
diceria, non è mai compiuta; e se queste parti sono in una diceria o inn
una lettera, certo l'arte di rettorica vi fie altressì. 2. Un'altra
ragione n'ase- giia Boezio: che però sono sue parti perchè esse la
'nfor- 5. mano et ordinano e la fanno tutta essere, altressì come
'1 fondamento, la i)ai'ete e '1 tetto sono parti d'una casa sì che
la fanno essere, e s' alcuna ne fallisse non sarebbe la casa compiuta. 3.
Et dice Tulio che queste sono le parti di rettorica sì come i più dicono,
i)erò che furo alcuni che diceano che memoria non è parte di rettorica
perciò che non è scienzia, et altri diceano che dispositio non è
parte d' essa arte. Et così va oltre Cicerone e dicerà di ciascuna parte
perse, e primieramente dicerà della 'uven- zione, sì come di piti degna;
e veramente è più degna, però 15. ch'ella puote essere e stare
sanza l'altre, ma l'altre non possono essere sanza lei.
Tullio dice della invenzione. 28. Inventio è apensamento a
trovare cose vere o verisimili le quali facciano la causa acconcia a
provare. 20. Sponitore. I. Dice Tulio che invenzione è
quella scienzia per la quale noi sapemo trovare cose vere, cioè argomenti
necessarii - e nota « necessarii », cioè a dire che conviene che pure
cosi sia - e sapemo trovare cose VERISIMILI, cioè argomenti ac-
25. conci a provare che così sia, per li quali argomenti veri e
verisimili si possa provare e fare credere il detto o '1 fatto d'alcuna
persona, la quale si difenda o che dica in- contro ad un' altra. 2. E
questo puote così intendere il porto dello sponitore. Verbigrazia: Aviene
una materia 30. sopra la quale conviene dire parole, o difendendo
1' una i: .W manca — 3: m vi (ia, M' vi l'u - 3-4: M' dice
Boelius, che poroiù — 5: m fannola tutta essere, Af' li fanno essere
tutto alti-essi ecc. — 6: M' son parte — 8 : m om. Et — 10: m non era ~
11: M^ dispositlone — 12: M-m dell'arte — 13: m primamente - 16: m essere
o stare — 18: M' invontione (e coù semiire) — m pensamento — il' overo
simili — 19: il-m la cosa — S3: SI' om. a dire — 23-24: m pure che cos'i sia. E
sap- piano — 25: M' nm. acconci ~ 26: M-m el facto - 27-28: m chontro ad
un altra - 52 - parte o dicendo centra l'altra;
o per aventura sia materia sopra la quale si conviene dittare in lettera.
Non sia don- que la lingua pronta a parlare né la mano presta alla
penna, ma consideri che '1 savio mette alla bilancia le sue parole
5. tutto avanti clie Ile metta in dire né inn iscritta. 3. Con- sideri
ancora che '1 buono difficiatore e maestro poi che propone di fare una
casa, primieramente et anzi che metta le mani a farla, sì pensa nella sua
mente il modo della casa e truova nel suo extimare come la casa sia
migliore; e poi 10. eh' elli àe tutto questo trovato per lo suo
pensamento, sì comincia lo suo lavorio. Tutto altressi dee fare il
buono rettorico: pensare diligentemente la natura della sua ma-
teria, e sopra essa trovare argomenti veri o verisimili sì che possa
provare e fare credere ciò che dice. 4. Et già 15. é detto quello
che è inventio. Ora procederà il conto a dire quello che è
dispositio. Dice Tullio de dispositio. 29. Dispositio
èe assettamento delle cose trovate per ordine. Sponitore.
20. 1. Perciò che trovare argomenti per provare e FAR CREDERE il suo dire
non vale neente chi no Ili sae asettare per ordine, cioè mettere ciascuno
argomento in quella parte e luogo che ssi conviene, per più affermamento
della sua parte, sì dice Tulio che è dispositio. 2. E dice eh' è
quella 25. scienzia per la quale noi sapemo ordinare li
argomenti trovati in luogo convenevole, cioè i fermi argomenti nel
principio, i deboli nel mezzo, i fermissimi, co' quali non si possa
contrastare lievemente, nella fine. 3. Cosi fae il difficatore della
casa, che poi eh' elli àe trovato il modo 1 : m chontro
all'altra - 2 .• M sopralla ([ualo - M' oiii. don(|uo - 3: in o la mano
alla penna - 5: m tutto prima, S tutto - m o in iscritta, M' o in
iscriptura — 6-S:.il diliciatore prima che metta lo mani a lare — mr=.)/,
ma o maestro - 9: m Poi - 10: M' U suo la- voro — i3: M-m si veri che
possa - 14-16: M E già liecto, mi Ora e detto - M' om- quello - M-m Ora
procederà il conto quello che è spositio, .«' Si procederà il conto a dire
che k dispositione - SO: m diro il suo criMloro - Sfì: M trovai - ,W-»i ohi. i,
m om. argo- pienti — 27: M' ali (piali nella sua
mente, elli ordina il fondamento in quel luogo che ssi conviene, e ila
parete e '1 tetto, e poi 1' uscia e camere e caminate, et a ciascuna dà
il suo luogo. 4. Già è detto che è dispositio; or diceva il conto che è
elocutio. 5. Tullio dice della locuzione. 30.
Elocutio è aconciamento di parole e di sentenzie avenanti alla
invenzione. Sponitore. I. Perciò che neente vale
trovare od ordinare chi non 10. sae ornare lo suo dire e mettere
parole piacevoli e piene di buone sentenze secondo che ssi conviene alla
materia trovata, sì dice Tulio che è elocutio. Et dice che è quella
scienzia per la quale noi sapemo giungere ornamento di parole e di
sentenze a quello che noi avemo trovato et 15. ordinato. 2. E nota
che ornamento di parole èe una digni- tade la quale proviene per alcuna
delle parole della diceria, per la quale tutta la diceria risplende. Verbigrazia:
« Il grande valore che in voi regna mi dà grande speranza del
vostro aiuto ». Certo questa parola, cioè « regna », fa tutte 20.
risplendere l'altre parole che ivi sono. 3. Altressì nota che ornamento
di sentenze è una dignitade la quale proviene di ciò che in una diceria
si giugne una sentenza con un'al- tra con piacevole dilettamente.
Verbigrazia : in queste pa- role di Salamene (1): «Melliori sono le
ferite dell'amico che' 25. frodosi basci del nemico». 4. Et già è
detto che è elocutio, cioè apparecchiamento di parole e di sentenzie che
facciano la di- ceria piacevole et ordinata di parole e di sentenzie.
Omai pro- cederà il conto alla quarta parte di retto rica, cioè
memoria. i-2: m in quello che si chonvienc et il luogo....
l'ascia, charaere3: M^ cam- minate, ciascuna in suo luogo. Et già ecc. —
0-7: M-m avenonti alla ntentione (anche S intenliono) — 9: M om. od — 10:
M' sa adornare il suo dire — 15: m om. E - 16: M dignità della quale, m
M' dignità la quale pervieneSO: M' vi sono — SI m ,»f' perviene — 22 .-
M-m om. Ai — M un'altra seutenfa con un altro, m in un'altra diceria si
giungne un'altra sententia chon un altro piacevole dil. — 23: M-m dice Salamene
— 25: M' li frodolenli basci — m om. Et — 26-27: M om. e di sentenzie, m
om. piacevole el; M om. che.... parole Ambedue le lezioni sono
possibili; ma con quella di M si spiega meglio una pretesa correzione in
dice (chi avrebbe pensato, invece, a cambiare dice indi?), mentre poi il
verbo dice renderebbe superflua l'espressione in queste parole. Dice
Tulio della memoria. Memoria è fermo ricevimento nell'animo delle cose e
delle parole e dell'ordinamento d'esse. Sponitore.
5. 1. Et perciò che neente vale trovare, ordinare o acon-
ciare le parole, se noi nolle ritenemo nella memoria sicché ci'nde
ricordi quando volemo dire o dittare, sì dice Tulio che è memoria. Onde
nota che memoria èe di due maniere: una naturale et un'altra artificiale.
2. La naturale è quella 10. forza dell'anima per la quale noi
sapemo ritenere a memo- ria quello che noi aprendemo per alcuno senno del
corpo. 3. Artificiale è quella scienzia la quale s'acquista per in-
segnamenti delli filosofi, per li quali bene impresi noi pos- siamo
ritenere a memoria le cose che avemo udite o trovate 15. o aprese
per alcuno de' senni del corpo; e di questa memo- ria artificiale dice
Tulio eh' è parte di rettorica. 4. Et dice che memoria è quella scienzia
per la quale noi fermiamo nell'animo le cose e le parole eh' avemo
trovate et ordinate, sicché noi ci 'nde ricordiamo quando siemo a dire.
Et già é 20. detto che è memoria; si dicerà il conto la quinta et
ultima parte di rettorica, cioè pronuntiatio. Dice Tullio
della pronunziagione. 32. Pronuntiatio è avenimento della persona e
della voce se- condo la dignitade delle cose e delle parole.
25. Sponitore. 1. Et al ver dire poco vale trovare, ordinare,
ornare parole et avere memoria chi non sae profFerere e dicere le
sue parole con avenimento. Et perciò alla fine dice Tulio 5:
*' Però che niente — ot acconciai-e — 7: w» cene, Af' cine — M volere —
9:mom, et — il: M' senso — IS: M' quella memoria — i-i: J»/' udito — i5:
4f' sensi — 16-, m nnu Et — i8 : m olle parole — i9: M' noi vegnamo a
dire — SO- « ultra parte, hi ora dirà il conto la quinta jiarte, .W"
il maestro - S6 : m o ornare — 27: in a chi non sae prollbrere o
diro -òs- che è pronuntiatio; e dice eh' è quella
scienzia per la quale noi sapemo profferere le nostre parole et amisurare
et ac- cordare la voce e '1 portamento della persona e delle mem-
bra secondo la qualitade del fatto e secondo la condizione 5. della
diceria. 2. Che chi vuole considerare il vero, altro modo vuole nelle
voci e nel corpo parlando di dolore che di letizia, et altro di pace che
di guerra, ('he '1 parliere che vuole somuovere il populo a guerra dee
parlare ad alta voce per franche parole e vittoriose, et avere
argo- 10. glioso advenimento di persona e niquitosa ciera contra '
ne- mici. 3. Et se Ila condizione richiede che debbia parlamen-
tare a cavallo, si dee elli avere cavallo di grande rigoglio, sì che
quando il segnore parla il suo cavallo gridi et ana- trisca e razzi la
terra col piede e levi la polvere e soffi per 15. le nari e faccia
tutta romire la piazza, sicché paia che coninci lo stormo e sia nella
battaglia. Et in questo punto non pare che ssi disvegna a la fiata levare
la mano o per mostrare abondante animo o quasi per minaccia de'
nemici. 4. Tutto altrimenti dee in fatto di pace avere umile adve-
20. nimento del corpo, la ciera amorevole, la voce soave, la parola
paceffica, le mani chete; e '1 suo cavallo dee essere chetissimo e pieno
di tanta posa e' sì guernito di soavitade che sopr'a llui non si muova un
sol pelo, ma elli medesimo paia factore della pace. 5. Et così in letizia
de' 1 parlatore 25. tenere la testa levata, il viso allegro e tutte
sue parole e viste significhino allegrezza. Ma parlando in dolore sia
la testa inchinata, il viso triste e li occhi pieni di lagrime e
tutte sue parole e viste dolorose, sicché ciascuno sem- biante per sé e
ciascuno motto per sé muova l'animo del- 30. r uditore a piangere
et a dolore. 6.- Et già é detto delle cinque parti sustanziali di
rettorica interamente secondo l'oppinione di Tulio, e sì come lo
sponitore le puote fare meglio intendere al suo porto; sì ritorna Tulio a
scu- sare sé medesimo di ciò che non àe mostrato ragione perché
2: m e misurare ~ 5: M' che a chi vuole — 0: M' noia boce — 7 : M'
parlare, m Il parliere — 8: m smuovere — i/' om. il populo — 11 : M
parlantare, m p-are — 12: m mn. elli — 14-15: M' delle nari, vi sozzi le
anari — 16: il' incominci — 17: M-m om. per — 19-20: M' humili avenimenti
— m nel chorpo — 21 : M' le parole pacefiche — 22 : L di tanta jwssa — 24
: M' om. Et — mss. del parlatore — 25 : M-m levata in suso - il' le sue
parole — 26: il-m e signilichino — 27: m chinata, il' inchina, L inchinata
— 28 : M-m parole iuste e dolorose — 29: il' muove — 30: m piangerò a
dolore. Ora è detto — 31 : il' sustanziali parti — 32: M' il puote
— 56 — quello sia genere et ofifìcio e fine di
rettorica sì com' elli àe fatto della materia e delle parti, e dice in
questo modo. Tullio dice che tratterà della materia e delle
parti. 33. Oramai dette brievemente queste cose, atermineremo in
5 altro tempo le ragioni per le quali noi potessimo dimostrare il genere
e IPofficio e Ila fine di quest'arte, però che bisognano di molte parole
e non sono di tanta opera a mostrare la propietade e Ile comandamenta
dell'arte. Ma colui che scrive l'arte rettorica pare a noi che 'I
convenga scrivere dell'altre due, cioè della ma- io teria e delle parti.
E io perciò voglio trattare della materia e delle parti congiuntamente.
Adunque si dee considerare più intentivamente chente in tutti generi
delle cause debbia essere inventio, la quale è principessa di tutte le
parti. Sponitore. 15. 1. In questa parte dice Tulio che
non vuole ora pro- vare perchè quello sia genere di i-ettorica che
detto è davante, né Ilo officio né Ila fine, però che vorrebbe
lunglie parole e non sono di molto frutto, e però l' atermina nel-
r altro libro nel quale tratta sopr' a cciò; et in questo 20.
presente libro tratta della materia, cioè dimostrazione, deliberazione e
iudicazione, et altressì tratta delle pai'ti, cioè inventio, dispositio,
elocutio, memoria e pronuntiatio. 2. Et di tutte queste tratterà insieme
e comunemente. Ma però che inventio è la più degna parte, sì dicerà
Tulio 25. chente ella dee essere in ciascuno genere di rettorica,
cioè come noi dovemo trovare quando la materia sia di causa dimostrativa,
e quando sia deliberativa, e quando sia iudiciale; e tratterà si
comunemente che mosterrà come sia da trovare in catuna di queste cause, e
come 30. ordinare e come ornare la diceria, e come tenere a
me- moria e come profferere le sue parole. 1 : M-m
quella — 4 : M' Ogimai — 7 : M admostrare, ni a dimostrare — M' le pro-
picladi — 9: M-m che convenga - iO-H : M-m om. K io.... congiuntamente — IS:
M-m chente e — i3: Af' do tutte l'arti — 16: M-m quella, M -L quel — M'
detto davanti — 18: M' lo termina — 20: M-m dimostrative — 23: M'
congiuntamente; m om. e — 24: M-m om. SI dicerà Tulio — i'S : M' om. sia
— congiuntamente — S9: Af' come iu e. d. q. e. sa da trovare — 30: iii
nm. e come ornare Lo sponitore parla all' amico suo. — 3. Perciò lo
sponi- tore priega '1 suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza di
tanta opera come questa èe, che a llui piaccia di si dare l'animo a cciò
eh' è detto davanti, spezialmente in conno- 5. scere il dimostrativo e '1
deliberativo e '1 iudiciale che sono- il fondamento di tutta l'arte, e
poi a quel che siegue per innanzi, eh' elli intenda tutto '1 libro di tal
guisa che, per lo buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo
lo 'nsegnamento dell' arte, il libro e lo sponitore ne riceve- JO.
ranno perpetua laude. Della constitnzione e delle quattro
sue parti. 34. (e. Vili) Ogne cosa la quale àe alcuna controversia
in diceria o in questione contiene in se questione di fatto o di
nome di genere o d'azione; e noi quella questione delia quale nasce
15. la causa apelliamo constituzione. E constitnzione è quella eh' è
prima pugna delle cause, la quale muove dal contastamento della
intenzione in questo modo : « Facesti » - « Non feci » o « Feci per ragione
». Sponitore. 20. 1. Poi che Tulio àe detto di mostrare
e trattare della invenzione e della materia insieme, sì mostra lo
sponitore in che ordine trattò de l'inventio; ma per maggiore chia-
rezza dicerà tutto avanti in che significazione si prendono queste parole,
cioè causa, controversia, constituzione e stato. 25. 2. Causa vale
tanto a dire quanto il detto o '1 fatto d' al- cuno, per lo quale è messo
in lite, ed è appellato causa tutto '1 processo dell' una e dell' altra
parte. Et appellasi causa tutta la diceria e la contenzione cominciando
al prolago e tìniendo alla conclusione; donde dice uomo:
3: M-m di darli l'animo — 7-10: M^ chel baono — ben dire — per tua laude,
M-m dello sponitore, M ne rlcevemo, m ne riceva - 13: m o questione, ilf
' om. contiene in se questione — 14 : M-m di quella — 15: M^
constitutione ò la prima pugna — 21 : M' om. insieme — M' mosterra, ma L
mostra — SS : M delinventia, m della inventia, M^ della inventione — 23:
m tutto innanzi — Af' mi. si prendono — S7 : M' dell'una parte 7 del-
l'altra — 28: M-m la 'nlentione — M' dal prol. - 58 -
« La mia causa è giusta » cioè « la mia parte è giusta >. 3.
Controversia vale a dire tanto come causa, e viene a dire controversare
cioè usare l'uno coli' altro di diverse ragioni e contrarie. 4. Questione
tant' è a dire come '1 primo detto 5. di colui che comincia contra un
altro e '1 secondo detto di colui che ssi difende. Et appellasi quistione
una diceria nella quale àe due parti messe in guisa di dubitazione,
et appellasi questione per l'una e per l'altra parte della que-
stione. 5. Constituzione si prende et intende in quelle me- 10.
desime significazioni che sono dette davanti. 6. Stato è ap- pellato il
detto e '1 fatto'l) dell'aversario, però che' parliere stanno a provare
quel detto o quel fatto; e questo medesimo è appellato constituzione
perciò che '1 parliere constituisce et ordina la sua ragione e la sua
parte di quel detto o di 15. quel fatto. Et per ciò è appellato
controversia che diversi diversamente sentono di quel detto o di quel
fatto. Qui dice lo sponitore come Tullio tratterà della
Invenzione. 7. Et poi che Ilo sponitore àe dette le significazioni di
que- ste parole, dicerà in chente ordine Tulio tratta della 'nvenzione.
Et certo primieramente insegna invenire e trovare quelle questioni le
quale trattano i parlieri, et appellale constituzioni e dice la
proprietade di constituzione e divi- dela in parti. 8. Nel secondo luogo
mostra qual causa sia simpla, cioè di due divisioni, e qual sia composta,
cioè di 25. quattro o di più. 9. Nel terzo luogo mostra qual
contra- versia sia in scritta e quale in dicere. 10. Nel quarto
luogo mostra quelle cose che nascono di constituzione, cioè la
diceria nella quale àe due divisioni e ragioni, e Ila giudi- cazione e '1
fermamento. 11. Nel quinto luogo mostra in 30. che guisa si debbono
trattare le parti della diceria secondo rettorica. 12. Nel sesto luogo
mostra quante sono esse parti e quali e che sia da ffare in ciascuna. 13.
Et disponesi cosi 2 : Af' vale quasi tanto — 3: M'
controversia — centra l'altro diverse ragioni — 4:M' k tanto a dire — M-m
come primo — 5: m e secondo — 7: M-m parti in essere — M dn- bitatione
sanfa dubitatione — 9: M' i s'intende — 10: m dinanzi — J8: m om. VA- IO:
M' sì dicerà oggimai — 20: L a trovare — 23: m In quattro parti — M-m
dimostra - M qual cosa, m ciualo luogho — 26 : M-m sia scripta - 28 :
M'-L e la ragiono el iu- dicamento el fermamente — 29: m dimostra — 31: M
luorao (tic) .— 32: M' ciascuno M Kt diponesi, m ('dispensi, M'-L Et
dispone (1) Ci aspetteremmo o 'l fatto, anche per uniformità colle
frasi seguenti ; ma la concordia dei codici per e lascia incerti sulla
conesiione, che non è neppure indispensabile per il senso.
— 59 — il testo di Tulio per fare intendere onde procedono le
qui- stioni che toccano al parliere di questa ai'te.
Sponitore. - 14. Ogne cosa la quale àe in sé controversia, cioè
della quale i diversi diversamente sentono sicché al- 5. cuna cosa dicono
sopr' a cciò con inquisizione, cioè per sapere se alcuna delle parti è
vera o falsa, sì à' in sé que- stione di fatto, cioè questione la quale
muove di ciò che alcun fatto è apposto altrui. Verbigrazia : Dice l'uno
con- tra l'altro: « Tu mettesti fuoco nel Campidoglio »; et esso
10. risponde: « Non misi ». Di questo nasce una cotale que- stione, se
elli fece questo fatto o no, et è appellata que- stione di fatto per
quello fatto che a llui è apposto, etc. 15. Od è questione di nome,
cioè che 11' una parte appone un nome a un fatto (D e l'altra parte
n'appone un altro. 15. Verbigrazia: Alcuno à furato d'una chiesa
uno cavallo o altra cosa che non sia sagrata. Dice 1' una parte contra lui
: « Tu ài commesso sacrilegio ». Dice l'altro: « Non sacrile- gio,
ma furto ». Et nota che sacrilegio è molto peggiore che furto, perciò che
colui commette sacrilegio che fura 20. cosa sacrata di luogo
sacrato. Donde di questo nasce una questione del nome di quel fatto, cioè
se dee avere nome furto sacrilegio, e però è appellata questione del
nome. 16. Od è questione del genere, cioè della qualitade
d'alcuno fatto, in ciò che 11' una parte appone a quel fatto una
qua- 25. litade e l' altra un' altra. Verbigrazia : Dice F uno : «
Questi uccise la madre iustamente perciò ch'ella avea morto il suo
padre» - Dice l'altro: « Non è vero, ma iniustamente l'à fatto»; e di ciò
nasce cotal questione di questa qualitade: se l'à fatto iustamente o
iniustamente, e perciò è appel- 30. lata questione di genere, cioè
della qualità d'un fatto e di che maniera sia. 17. Od è questione
d'azione, cioè viene a dire che contiene questione la quale procede
di ciò, - e' alcuna azione si muta d' un luogo ad altro e d'un
tempo ad altro. Verbigrazia : Dice uno contra un altro : « Tu m'
ài 4: M' diversi — 6: M' se l'una parte — 8: 3f' un facto —
8-9: M' uno contra un altro — M' Elgli, mie— 12-13: m che 6 allui aposto,
il/' perche il facto che allui e e apposto da questione ecc. — M-m Onde
questione — i4 : M-m in nome o in facto, M' ialla dal 1° al 2° appone —
18: m M' oin. Et — M' peggio — 20: m Onde — 21: M' del nome del facto —
22: m di nome — 23: M-m Onde — m di genere — 25: M-m l'altro — 28: iW'
OHI. e — 29: M-m om. se l'à fatto — 30: M' o di che m. - 31 : M-m Onde —
mcioò che viene — 32-34: M' dico calcuna ad un altro — om. e.... ad altro — uno
a un altro (1) È lezione congetturale, ma sicura, come dimostra
l'espressione analoga del § 16. — 60 - furato un
cavallo »; et esso risponde: « Vero è, ma non tine rispondo in questo
tempo, perciò che ttu se' mio servo, o perciò eh' è tempo feriato, o
perciò eh' io non debbo rispon- derti in questa corte, ma in quella della
mia terra >. Onde di questo procede una questione, la quale Tulio dice
che è d'azione, cioè se colui dee rispondere o no. 18. Et dice
Tulio che tutte le quistioni che sono dette davanti sono appellate
constituzioni, cioè c'anno questo nome. Et dice che constituzione è la
prima pugna delle cause, cioè 10. quello sopra che da prima
contendono i parlieri, cioè il detto dell'uno e '1 detto dell'altro, e
questo sopra che de prima contendono i parlieri si è il nascimento, cioè
che muove del contrastamento della intenzione, cioè del detto di
colui che ssi difende contra le parole dell'accusatore. 15. 19.
Onde contastamento è appellato el primo detto del difen- sore e
intentione è appellata il primo detto dello accusa- tore. Et pare che il
nascimento della constituzione vegna della difensione ch'è della accusa,
non che nasca della di- fensione, ma perciò che del detto del difenditore
si puote 20. cognoscere se Ila causa o Ila questione è di fatto o
di ge- nere o di nome o d'azione, sì come appare nelli exempli che
sono messi davanti. 20. Et omai dicerà Tulio le nomora e Ile divisioni e
Ile proprietadi e He cagioni di tutte le dette questioni. 25.
Del fatto, et è detto congettìirale. 35. Quando la controversia è
di fatto, perciò che Ila causa si ferma per congetture, sì à nome constituzione
congetturale. Sponitore. 1. In questa parte dice
Tulio che quando la conten- 30. zione è per alcuno fatto che sia
apposto ad altrui, sì come davanti si dice, sì conviene eh' ella
sia provata per con- 1 : M' 0(1 cigli, VI et e — 3: m e però
ch'io — M' rispondere — 6 : M' se quelli — m OHI. Et — 10: M i parliero,
vi quello dello quale contendono da prima — 14: M di- fontu — 15: m M' il
primo — 16: M' appellato - 17: M-m che nascimento — 19: M' owi. del —
23-24: M' om. e Ilo cagioni, mn scrive le detto | cagioni I (piestioni — SS:
Moni. è — 26-27: M-vi om. è — per cometlere — 30: M' apposto altrui
— 61 — gettare, cioè per suspezioni e per presunzioni.
Verbigrazia: Dice uno contra un altro: « Veramente tu uccidesti
Aiaces, ch'io ti trovai e vidi traiere il coltello del suo corpo ».
2. Et questa è faticosa questione, ciò dice Vittorino, perciò 5. che a
provarla si faticano molto i parlieri, perciò ch'al- tressì ferme ragioni
si possono inducere per 1' una parte come per 1' altra. E poi eh' è detto
della constituzione di fatto, sì dicerà Tulio di quella eh' è di
nome. Del nome, et è appellata ilifjìnitiva. 10.
36. Quando è la controversia del nome, perciò che Ila forza della
parola si conviene diffinire per parole, sì è nominata diffi-
nitiva. Lo sponitore. 1. In questa parte dice Tulio che
quando la conten- 15 zione è del nome del fatto, cioè come quel
fatto eh' è ap- posto altrui abbia nome, quella questione si è
diffinitiva perciò che Ila forza, cioè la significazione di quella
parola e di quel nome si conviene diffinire, cioè aprire e rispia-
nare che viene a dire e che significa, non per exempli ma 20. per
parole brevi e chiare et intendevole. 2. Verbigrazia : Un uomo è accusato
che tolse uno calice d' uno luogo sa- crato et è Ili apposto che sia
sacrilegio, et esso si difende dicendo che non è sacrilegio ma furto. Or
sopra questa con- troversia si è tutta la questione per lo nome di questo
fatto: 25. è sacrilegio o furto? 3. Onde per sapere la veritade si
con- viene diffinire l'uno nome e 11' altro, cioè dire la signiffi-
cazione e Ilo 'ntendimento di ciascuno nome, e poi che fie chiarito per
le parole quello che '1 nome significa, assai bene si potrà intendere e
provai*e qual nome si XJonga a 30. quel fatto. Et poi eh' è detto
del nome, sì dicerà Tulio del genere. 3: m e viJili
trarre, M' ol ti vidi trarre — 5-6: M'-L acciò che altress'i (L altre si)
f. r. se ne possono — 7: in ora. E — *: m om. sì — W: M' la controversia
è — ii: M'-L appellata — 13: M-m om. è — 3f ' 7 ilei facto — 16: M' om sì
— 17:M' che ella airorca — M-m a quella parola - 21-22: M' del luogo
sacro — 23: M' ma e furto — 24-25: AT» se questo facto è sacrilegio furto
— 26: m l'altro — M-m dare - 28: M-m che nome — 30: m om. Ei e si
62 Dice Tullio del genere, et è appellato
generale. 37. Quando è quistione della cosa qual sia, perciò clie
Ila. controversia è della forza e del genere del fatto, sì è vocata
con- stituzione generale. 5. Lo sponitore.
1. In questa parte dice Tulio che quando è questione della cosa
quale ella sia, perciò che Ila controversia è della forza del fatto, cioè
della quantitade, e della comparazione et altressì del genere, cioè della
qualitade d'esso fatto, si è 10. vocata constituzione generale. 2.
Verbigrazia : La quanti- tade del fatto si è cotale questione : se uno à
fatto tanto quanto un altro, si come fue questione se Tulio avea
tanto servito al comune di Homa quanto Catone. 3. La compa- razione
del fatbo si è cotale: di due partiti qual sia migliore, 15. si
come fue questione quando i Romani presono Cartagine qual era il meglio
tra disfarla o lasciarla. 4. 11 genere del fatto si è questione della
qualità del fatto sì come davanti fue messo F exemplo, cioè se colui che
fece il fatto fece iustamente o iniustamente. 20. Dice
Tullio dell'azione, et è appellata translativa. 38. Ma quando la
causa pende di ciò che non pare che quella persona che ssi conviene muova
la questione, o non la muove contra cui si conviene, o non appo coloro
che ssi conviene.d) o non in tempo che ssi conviene, o non di quella lege
o di quel peccato o di quella 25. pena che ssi conviene, quella
constituzione à nome translativa, però che ir azione bisogna d' avere
translazione e tramutamento. 8: M-m o decta forfa — 9: M-m
sia — M' aiiiiellala — H : M-m senno - 14. m do fatto — i7: M-m qualità —
2'1: A/' l'accusa — 24: M convenne, M-m nm. o non (1) La frase o
non appo coloro che ssi conviene manca in tutti i codici, ma si ricava
dal latino aid non apud qiios e dal § 4 dol commento. -
63 Lo sponitore. I. In questa parte dice Tulio
della controversia del- l'azione, che quando sopr'acciò è Ila questione
e' si conviene che U'azione si tramuti in tutto o in parte, e perciò à
nome 5. translativa, cioè trarautativa- Et questo è o puote essere
Ijer sette maniere, le quali sono nominate nel testo, cioè: 2. Quando non
muove la questione quella persona a cui la conviene di muovere.
Verbigrazia: Dice uno scoiaio contra ad un altro : « Tu se' venuto troppo
tardi a scuola ». Et 10. esso dice: « A te no'nde rispondo, che non
ti si conviene muovermi questione di ciò, ma conviensi al nostro
mae- stro ». 3. O non muove la questione contra quella persona che
ssi conviene. Verbigrazia : Fue trovato che in Roma si trattava
tradimento e fue alcuno che ll'aponea contra 15. lulio Cesare, et
esso dicea : « Contra me non si conviene muovere di ciò questione, ma
contra Catellina che 11' àe fatto e fa tutta fiata ». 4. non muove la
questione appo coloro che ssi conviene, cioè davanti a quelle persone
che dee. Verbigrazia : Fue accusato il vescovo di simonia da-
20. vanti al re di Navarra. Il vescovo dice: « Tu non m'accusi
davante a giudice eh' io debbia rispondere, ma io son bene tenuto di ciò
e d'altro davante l'appostolico ». 5. O non muove la quistione in quel
tempo che ssi conviene. Ver bigrazia : Uno fue accusato il giorno di
Pasqua ; esso di- 25. cea : « Non rispondo ora di questo, perciò
che oggi non è tempo d' attendere (1) a cotali convenenti». 6. non
muove questione a quella lege che ssi conviene. Verbigrazia : Uno
cittadino di Roma era in Parigi e volea piatire contra uno francesco
secondo la legge di Roma; ma quel francesco dice 3: Jtf -HI
7 si conviene, 3/' om. — 5: Af 7 puote, m e questo puole essere — M' in sette
m. — 7-8: m si conviene — M' in contro a un altro — 9-iO: M' Ed elgli, m
et elli — M-m om. ti — 12: M-m muovere, M' muove questione — i4: Af
alcuna —16: m questione di ciò, M' di ciò non si conv. m. q. — ' 17: m
tuttavia — M-m contra coloro — 18-19: M' che si dee.... Il vescovo fu
acc. — 21: M davante a giudici, m /> davanti a giudici, M' davanti
giudice - 24: m della Pasqua — egli — 25: M' non ti rispondo ora di ciò — 26: m
M' da rispondere — 29: M' la legge romana — m il Francesco
(1) Questa è la lezione miglioro per il senso, né si trova una valida
ragione per considerarla arbitraria, quantunque dalle due famiglie di
codici sembri risul- tare un da rispondere: sarà stato determinato dal
rispondo con cui comincia la frase. che non dee rispondere a quella
legge ma a quella di Francia. 7. O non muove la questione di quel peccato
che ssi conviene. Verbigrazia : Fue accusato uno, che non avea il
membro masculino, ch'avesse corrotta una vergine; esso 5. dice: «Io
non risponderò di questo peccato». 8. non muove questione di quella pena
che ssi conviene. Verbi- grazia : Fue uno accusato ch'avea morto uno
gallo et erali apposto che perciò dovea perdere la testa; esso dicea: «
Non rispondo a questa pena, perciò che non tocca a questo pec-
10 cato ». 9. Donde tutte queste questioni sono translative, cioè
che ssi tramutano in altro fatto e stato, tal fiata in tutto e tal fiata
in parte, si come appare nelli exempli di sopra. Dice
Tullio se l'una delle dette quattro cose non fosse 15. non sarebbe
causa. 39. E così conviene che ssia l' una di queste inn ogne
ma- niera di cause, perciò che in qual causa no 'nde fosse alcuna,
certo in quella non porrebbe avere contraversia, e perciò conviene
che non sia tenuta causa. 20. Lo sponitore.
1. Poi che Tulio àe divisate le parti della constituzione et àe
detto che e come è ciascuna di quelle parti e le loro nomerà, sì vuole
Tulio provare che quando l'una di queste questioni, che sono del fatto o
del nome o della qua- 25. lità del tramutare l'azione, non è intra
parlieri, certo intra loro non puote essere controversia ; e poi che
'ntra loro non à controversia, certo il fatto sopra il quale
dicessero parole non sarebbe causa, e così non sarebbe materia di
questa arte, cioè che non sarebbe dimostrativo né dilibe- 30.
rativo né iudiciale. 2. Et provando questo sì dimostra Tulio
i: i non si dee — 4-5: m M' Klgli dico -- 7: M' Fue accusalo uno — 8: M'
nm_ perciò - m egli dice — M' non li lispondo — 9: M' non tocclia (piosto
peccato — ti: M' in altro slato, m om. e stalo - J2:M' paro — 16: M' luna
de ipicste sia - 17: M tn i|ualcosa, m in quale chosa - SS : M-M^ 7
ciascuna - S3: m provare Tulio - S3-S6: M-m om. ^ — m tralloro - 30: m quando
([U'-sto che Ile predette cose in questa arte sono si congiunte
in- sieme che qualuuiiue causa è dimostrativa o deliberativa o
iudiciale sì conviene che sia constituzione o del fatto o del nome o
della qualitade o dell' azione, et e converso che 5. qualunque constituzione
è del fatto o del nome o della qualità o dell'azione sì conviene che sia
dimostrativa o deliberativa o iudiciale. Et omai perseverra Tulio sua
ma- teria per dicere di ciascuna parte per sé. Del
fatto. 1(». 40. La contraversia del fatto si puote distribuire in
tutti tempi: che ssi puote fare quistione che è essuto fatto, in
questo modo: « Ulixes uccise Aiace o no ?» Et puotesi fare questione che
ssi fa ora, in questo modo : « Sono i Fregelliani in buono animo verso
lo comune o no ? » Et puotesi fare questione che ssi farà, in
questo 15. modo : « Se noi lasciamo Cartagine intera, everranne
bene al comune no? ». Lo spoìiitore. I. In questa
pai'te dice Tulio che Ila controversia la quale è di fatto che ssia
apposto ad altrui, la quale 20. àe nome constituzione congetturale
sì come fue detto in adietro e messo in exempli, sì puote essere in tutti
tempi, cioè preterito, presente e futuro. 2. Nel preterito pone
Tulio r exemplo della morte d' Aiaces, che fue cotale. Stando l'assedio
di Troia sì fue morto il buon Achilles, 25. et apresso la sua morte
fue grande questione delle sue armi intra Ulixes et Aiaces. 3. Et certo
Ulixes fue, secondo che contano le storie, il più savio uomo de' Greci e
'1 milìor parliere, sicché per lo grande senno che i-llui regnava e
per lo bene dire niettea in compimento le grandi vicende, 30. alle
quali altre non sapea pervenire, e perciò adoperò e' più di male contra'
Troiani per lo suo senno che non fecero 2: M dimoslraliva —
3: M' constitutione del facto — 4-6: M-m om. ot e conweiso....
dell'azione — 7 : M' Et oggimai perseguita — 10: M' in dui tempi — 11: m clie
exututo — 13: M* de buono animo — 14: m om. che ssi farà — 15: M-m, L in
terra — ikf' aver- ranne, m e veramente bene — S3 : M' Tulio la morto —
24: M* a Troia — 26-27: M' secondo che recitano le storie, fue M-m et
niilior — 29: M* per .ben dire — 30: Mie quali, m le quali oltre non
sapeano — M adopio 7, m adoppio più, M' adopero elgli M' in contro a — la non fé, L non fece
quasi tutta l'oste per arme, et alla fine si parve uianife-
stameute, eh' elli fue trovatore del cavallo per lo quale fue Troia
perduta e tradita; ma veramente in guerra non si 5. fatigava molto con
arme e non era di gran prodezza, ma tuttavolta dimandava che Ili fossono
concedute l’armi d'Achille, e dicea che nn'era degno e ch'avea in
quella guerra ben fatta l'opera perchè etc 4. Et dall' altra parte
Aiaces era uno cavaliere franco e prode all'arme, di gran 10.
guisa, ma non era pieno di grande senno e sanza molto** (D francamente
avea portate l'armi in quella guerra, e perciò domandava l'armi
d'Achilles e dicea che non si conveniano ad ULISSE. 5. Onde alla fine
l'armi furono concedute ad Ulixes, per la qual cosa montò tra lloro tanta
invidia che divennero nemici mortali ; et in questo mezzo tempo fue
morto Aiaces e fue della sua morte accusato Ulixes, et esso si difendea e
negava ; e di questo sì era questione di fatto in preterito, cioè che già
era fatto in tempo passato. 6. Inol presente tempo mette Tulio l' exemplo
de' Fragel- 20. lani, che furo una gente i quali fui'ono accusati
in Roma eh' elli aveano male animo contra il comune. Et elli si di-
fendeano e diceano che 11' aveano buono e dritto ; e di ciò si era
questione di fatto presente, cioè se sono ora presen- temente di buono
animo o no. 7. Nel futuro mette Tulio 25. r exemplo di Cartagine,
la quale fue una delle più nobili cittadi e delle più poderose del mondo,
e tenne guerra contro a Roma, sì eh' alla fine i Romani vinsero e
presero la terra ; e furo alcuni che voleano che Ila cittade si di-
sfacesse per lo bene di Roma, et altri consigliaro del no, 30.
perciò che '1 meglio ne potrebbe advenire s' ella rimanesse intera, e di
ciò è questione del tempo futuro, cioè se bene o male n'averrà se
Cartagine rimanesse intera o s'ella si disfacesse. 8. Ma poi che Tulio à
detto della controversia del fatto, sì dicerà di quella del nome in
questo modo. i: M' ne non era. — 6: M' ben dengno — 7 : M' ben
l'opera perchè, L bene adope- rato perchè — 9: m orti, e sanza molto —
10: M-m provale — 14: m iim. mezzo — 15 : m 7 dela sua morte fue aco. —
16-17 : M-m onde di questo era già (piestione... in perciò che già ecc.
(vi om. in perciò) — 18: M' Fregiani — 19: M' che fuoro accusati — SO:
SI' comune de Roma — 22 : m om. si — S6: M incontra — S7 : m om. e — M'
vollero (ma L voleano) — 28: m om. et — M' di no m pero che meglo ne potrebbe loro intervenire M-m, L in terra — Af' e questo nel tempo
futuro — M-m che bene — 31: M, L'in terra (1) Così hanno i mss. e
perfino la stampa, ma evidentemente manca qualche parola (anzi itf "
dopo molto lascia uno spazio bianco), come dire o parlare. Basti averlo
notato, senza pretendere d' indovinare. Del nome- Ai. Controversia
del nome è quando lo fatto è conceduto, ma è questione di quello eh' è
fatto in che nome sia appellato; et in questo conviene che sia
controversia del nome, perciò che non 5. s'accordano della cosa; non che
del fatto non sia bene certo, ma che quello ch'è fatto non pare all'uno
quello eh' all' altro, e perciò l'uno l'appella d'un nome e l'altro d'un
altro. Per la qual cosa in questa maniera la cosa dee essere diffinita per
parole e breve- mente discritta, come se alcuno à tolta una cosa sacrata
d'uno luogo 10. privato, se dee essere giudicato furo o sacrilego, che
certo in essa questione conviene difinire l'uno e l'altro, che sia furo
e che sacrilego, e mostrare per sua discrezione che Ila cosa
conviene avere altro nome che quello che dicono li aversarii.
Lo sponitore. 15. 1. In questa parte dice Tulio della
controversia del nome ; e perciò che di questo è molto detto
davanti, sì siue trapassa lo sponitore brevemente, dicendo solamente
la tema del testo, sopra '1 quale il caso è cotale: 2. Roberto
accusa Gualtieri ch'elli àe malamente tolta una cosa sa- 20. crata,
si come uno calice o altra simile cosa la quale sia diputata a' divini
mistieri, e dice che Ila tolse d'uno luogo privato, cioè d'una casa o
d'altro luogo non sacrato. Viene l'accusato e confessa il fatto. Dice
l'accusatore: « Tu ài fatto sacrilegio ». Dice l'accusato. Non ò fatto
sacrilegio, ma furto. Et così sono in concordia del fatto, ma non della
cosa, cioè della proprietade per la quale si possa sapere che nome abbia questo
fatto, perciò eh' all' accusatore pare una, che dice ch'è SACRILEGIO, et
all'accusato pare un' altra, che dice eh' è FURTO. Onde in questa
maniera di CONTROVERSIA si conviene che '1 PARLIERE che dice sopra
questa materia dififinisca e faccia conto IN BREVI PAROLE 3
: it 7 (li questo — 9 : M-m distrecta —10: M- sacrato — M-m per furto o per
sacrilegio, L furto sacrilegio —11: M-m con l'altro — m furto — 12: M-m che
sacrilegio, A/' che sia sacrilego — il/' scriptione — 16:Mom. detto — M'
nm. si — 18: m sopralla quale - J/' Uberto : M' tolto — 19 : m cosa
simile — SI: M-m ad veruno mistieri (m mistiere) — 23-24: M il l'atto. Et
dice laccusato — m Non o, ma furto — 27-28: m però chellachusatorc... una
diosa — 2H-29: M-m om. sacrilegio.... cli'ò — 30: jV' jjarladore — 3t: M'
didinita - G8 - che cosa è SACRILEGIO e che è FURTO;
e così dee mostrare come questo fatto non à quel nome che dice
l'aversario. Ed è detto della CONTROVERSIA del nome; omai dicerà
Tulio CICERONE di quella del genere, in questo modo :
5. Del genere. ^Z. (e. IX) Controversia del genere è quando
il fatto è conceduto e sono certi del nome d' esso fatto, ma è
questione della quantitade del fatto o del modo o della qualitade,
in questo modo : giusto ingiusto - utile o inutile - e tutte cose
nelle quali è questione chente sia quel fatto. Lo
sponitore. in questa parte dice Tulio CICERONE della questione del
genere, e di questa è tanto detto dinanzi che 'n poche parole di-
morerà lo sponitore ; e dice che quella controversia è del 15.
genere nella quale Y accusato confessa il fatto et è in con- cordia coir
accusatore del nome d' esso fatto, ma sono in discordia della quantitade
del fatto, cioè se grande o pic- colo o molto o poco. Verbigrazia. Un
gran romano quando dovea cacciare i nemici del suo comune si fuge. E accusato
eh' ha fatto danno e male alla inaestà di Roma; l'accusato confessa il fatto e
'1 nome del facto. Dice l'accusatore. Questo è grande DANNO. Dice l'accusato : « Non è grande, ma PICCOLO.
Ed è la discordia tra loro della quantità, cioè se quel male è grande o
piccolo. O sono in discordia del modo, cioè della comparazione del fatto, sì
come fue detto qua indietro nell'exemplo di Cartagine, qual fosse la
migliore parte tra disfare o lasciare. O sono in discordia della qualitade del
fatto, sì comepare in exemplo d'ORESTE che uccide la sua madre, ed e
accusato che l’ha morta ingiustamente. Ed ORESTE si difende e dice che l'à
morta giustamente, ma bene con- OM, 8:
M'in modo della qualitndo — 9: m o non giusto — 12: M' tracia — i3: M-m
detto — VI di questo — M die poclie p. — m dimora, Af' <limorra - 16-17: M'
ohi. ma sono.... del fatto — 20: M-m t>m. e male — S3: M-m nm. Ed —
So: >/' Or sono, M-m OHI. - 26: M' nm. si - 27 : M' o disfare - 2S :
M-m quantitade - 29 : M' nelexemplo di ((uestl , M-vi dotesles — 30-.il :
m nm. ot esso... GIUSTAMENTE giustamente, M' nm. si - M-m cliellavea
- 69 — fessa il fatto e 1 nome del fatto; ma sono in
discordia della qualità, cioè se 11' àe fatto GIUSTAMENTE O INGIUSTAMENTE.
Ben è vero che Tulio CICERONE non mette in exemplo della quàntitade
nel testo, né della comparazione, se non solamente della 5. qualitade ; e
questo fae perciò che più sovente ne vien tra Ile mani che non fanno
l'altre, e perciò dice che tutte cose nelle quali si confessa il fatto e
'1 nome del fatto, ma è questione della qualità d'esso fatto, sì è
controversia del genere. E poi che Tullio CICERONE à detto di questa
questione del genere secondo il suo parimento, sì procede immantenente a
riprendere Ermagoras dell'errore suo in questa controversia del genere. A
questo genere Ermagoras sottopuose quattro parti, ciò sono DELIBERATIVO,
DEMONSTRATIVO, IUDICIALE, E NEGOZIALE. Il quale suo fallimento non
mezanamente pare che ssia da riprendere, ma in breve, perciò che sse noi
ci ne passiamo così tacendo fosse pensato che noi lo seguissimo sanza
cagione; o se lungamente soprastessimo in ciò, paia che noi facessimo
dimoro et impedimento agli altri insegnamenti. Se deliberamento e dimostramento
sono generi delle cause, non possono essere diritte parti d'alcuno genere
di causa, perciò che una medesima cosa puote bene essere genere
d'una e parte d'un' altra, ma non puote essere parte e genere d'una
me- desima. Et certo deliberamento e dimostramento sono genera
delle cause. Ma o non è alcuno genere di cause, o è pur iudiciale
sola- mente, è iudiciale e dimostrativo e deliberativo. Dicere che
non sia alcun genere di cause, con ciò sia cosa eh' e' medesimo dice che
Ile cause sono molte e sopra esse dà insegnamento, è grande for- seneria.
Un genere, cioè pur iudiciale solamente, non puote essere, acciò che
diliberamento e dimostramento non sono simili intra lloro e molto si
discordano dal genere iudiciale, e ciascuno à suo fine al quale si dee
ritornare. Adunque è certo che tutti e tre son ge- neri delle cause, e
così deliberamento e dimostramento non possono 4: M> nel
testo exemiilo - 5: M' in tra le mani — iO: m om. secondo il suo pari-
mente — M mantenente — 13: M-m II (juale lue — i7 : 3/' nm. i)erciò — cene
passas- simo — 18: m stessomo - 19: M' dimora, m imped. 7 dimoro — 20:
M-m dim. — 22 : m M' causa — M-m genere 7 parte d' una medesima - 23 : M'
Ma none, vi Ma anno ale. — 26: M-m om. e deliberativo — 27: M' ch'elli -
28: M' essi... inseffnamenti — 28-29 : M 7 grandi; fors (?), m 7 grande
forma, M' 7 grandi mattezze. Genere ere. — .12 : M 7 certo — 3:i : M' de
cause... dimost. 7 del. essere a diritto tenute parti d'alcuno
genere dì causa. Dunque ma- lamente disse ch'elli fossero parte della
constituzione del genere. 46. (e. X) Et s'elle non possono essere tenute
diritte parti della causa del genere, molto meno fien tenute parti della
diritta parte 5. della causa; e parte della causa è ogne constituzione;
donde no la causa alla constituzione, ma la constituzione s'acconcia alla
causa. Ma dimostramento e diliberamento non possono essere tenute
diritte parti della causa del genere, perciò che sono generi: donque
molto meno debbono essere tenuti parte di quello ch'esso dice. 46.
Ap- 10. presso ciò, se Ila constituzione et essa e ciascuna parte
della con- stituzione è difensione contra quello eh' è apposto, conviene
che quella che no è difensione non sia constituzione ne parte di constituzione.
Et certo deliberamento e dimostramento non sono constituzione. Dunque se
constituzione et ella e la sua parte è difensione 15. contra quello
eh' è apposto, il dimostramento e '1 diliberamento non è constituzione ne
parte di constituzione. Ma piace a Itui che ssia difensione. Dunque conviene
che Ili piaccia che non sia constituzione, né parte di constituzione. Et
in altrettale isconvenevile fie condotto, se esso dica che constituzione
sia la prima confermazione dell' accusatore o Ila prima preghiera del
difenditore ; e così seguiranno lui tutti questi sconvenevoli. 47.
Appresso ciò, la causa congettu- rale, cioè di fatto, non puote d'una
medesima parte inn un mede- simo genere essere congetturale e diffinitiva
; et altressì la diffinitiva causa non puote essere d'una medesima parte
inn uno medesimo genere diffinitiva e translativa. Et al postutto neuna
constituzione ne parte di constituzione puote avere e tenere la sua forza
et altrui; perciò che ciascuna è considerata semplicemente per sua natura
; se l'altra si prende, il nomerò delle constituzioni si radoppia, non
si cresce la forza della constituzione. Veramente la causa
deliberativa insieme d'una medesima parte in un medesimo genere suole
avere la constituzione congetturale e generale e diffinitiva e
translativa, et alla fiata una e talvolta piusori. Adunque, essa non è
constituzione né parte di constituzione. Et questo medesimo suole
usatamente advenire della causa dimostrativa. Adunque sì come noi avemo
detto 3,5. davanti, questi, cioè deliberamento e dimostramento,
sono generi delle cause e non parti d'alcuna constituzione. 1
: M' a diricto essere tenute parte — 5: M-tn om. parto delln causa ì- — vi om.
no - 7: JV' tenuti — 9 : m tenute parti, il/' im. tenuti — M-m cliossi
dice — iO: M-m chella const. — 11: M-m ? difensione — M' (piella - IS:
M-m non sia la constitutione — 13: m om. Et — 14: M 1 dunque le const., m
Dunque la const. — 15: M' nm. e '1 dilibera- mento — 16-18: m om. i due
periodi — ^0 : m seguiteranno - l' 1 : M-m si convenevoli - 23: M'^
diffinitiva, m chon dilf. — 25 : M-m om. e translativa - 26: M-m om. nk - M' ne
te- nere — 2S: m il novero — il/ sic radoppia — 31: m coniotturalc
generale — 32: i wim. illusori — (i Lo
sponitore. I. In questa parte dice Tulio che Ermagoras dicea
che Ila controversia del genere avea quattro parti sotto sé, ciò
sono deliberativo, demostrativo, iudiciale e negoziale; della 5. qual
cosa Tulio lo riprende in tutte guise, e mostra molte ragioni come
Ermagoras errava malamente, e questo pruova manifestamente per argomenti
dialetici: che dimostramento e deliberamento sono generi delle cause si
che Ile cause sono parti di loro; e poiché sono generi, cioè il tutto
delle 10. cause, non possono essere parte delle cause, acciò
ch'una cosa non puote essere tutto d'una cosa e parte di quella
medesima. 2. Et così per molte ragioni o vuoli argomenti conclude Tulio
che Ermagoras avea mal detto, e poi se- guentemente dice la sua sentenza
: quali sono le parti della 15. constituzione del genere, cioè
della quantitade e del modo e della qualitade del fatto, sì come qui dinanzi
fue detto. Et in ciò incomincia la sentenzia di Tullio in questo
modo : Le parti della constituzione generale. 20. ^S.
(e. XI) Questa constituzione del genere pare a noi ch'ab- bia due
parti : Iudiciale e negoziale. Lo sponitore. 1. Poi che
Tullio àe ripresa l' oppinione d' Ermagoras delle quattro parti, si dice
la sua sentenza e dice che sono 25. pur due parti, cioè quelle altre due
che dicea Ermagoras: iudiciale e negoziale ; et immantenente detta la sua
sen- tenza, la quale vince quella d' Ermagoras e d'ogn' altro, sì
dice e dimostra che è iudiciale e che è negoziale, in questo modo :
X,. ^'^ 4: M' dimostrativo, deliberativo ecc.
— 6: M-m provava — 9: m genero — 10: M el acciò — 11 : M-m tiicta — 13:M^
conchiude Tulio Ermagoras avere — 17 : il/' comincia — 23 : m ripreso —
28: M' che e iuridiciale {e cosi sempre), M-m che iudiciale 7 che {ni om.
che) negotiale — 72 Di Indiciate.
49. ludiciale è quella nella quale si questiona la natura dì dritto
e d' iguaglianza e la ragione di guiderdone o di pena. Sponitore.
5. 1. La iudiciale coustituzioue è quella nella quale per
diritto, cioè per ragione provenuta per usanza e per igual- lianza,
cioè per ragione naturale o per ragione scritta, si questiona sopra la
quantitade o sopra la comparazione o sopra la qualitade d'un fatto, per
sapere se quel fatto è 10. giusto o ingiusto o buono o reo. 2.
Altressì è iudiciale quella nella quale è questione d'alcuno per sapere
s'egli è degno di pena o di merito. Verbigrazia : « Alobroges è
degno d'avere merito di ciò che manifestò la congiurazione di Catenina?»
e questionasi del sì o del no. Et anche questo 15. exemplo : « È
Giraldo degno di pena di ciò che commise furto ?» e questionasi del si o
del no. 3. Et poi che à detto Tulio del iudiciale, si dicerà dell'altra
parte, cioè della negoziale. Di negoziale. 20.
50. Negoziale è quella nella quale si considera chente ragione sìa
per usanza civile o per equitade, sopra alla quale diligenzia sono messi
i savi di ragione. Lo S2)onitore. 1. Dice Tulio che
quella constituzione è appellata ne- 25. goziale nella quale si
considera per usanza civile, cioè per quella ragione la quale i
cittadini o paesani sono usati di tenere i-lloro uso o in loi'o
costuduti, o per equitade, cioè per legi scritte, chente ragioni
debbiano essere sopra quella 2: m quello nel (juale — 3:
M'-L ella ragione di diritlo, S di merito — 6: m perve- nuta — 8.me sopra
la comp. — 9: m se questo giusto —il: M^ si questiona d'alcuno selglie
ecc. — 12-14: m o di morte — M-m o alabroges di Catenina et questionisi del
si et del no (m di si o di no), L e questo exemplo —16: m quistionìsi...
om. Et — A/ 7 del no — 16-17: M' Tulio a detto dela giuridicialo — 20: M'
Di negotiale — 26: M' om. paesani — 27 : M' i loro costuduti m illoro
chostuduli, M' in loro constituti — M-m equalitade — S8 : M' cliente
ragione debbia constituzione. 2. Et intra la iudiciale e la
negoziale àe co- tale differenzia : che Ila iudiciale tratta sopra le
cose pas- sate et intorno le leggi scritte e trovate ; ma la
negoziale intende intorno le presenti e future (1) et intorno le legi
et 5. usanze che saranno scritte e trovate. 3. Et questa è di molta
fatica, perciò che' parlieri s'affaticano di grande guisa a provarla et a
formare nuove ragioni et usanze allegando in ciò ragioni da simile o da
contrario. Et questa questione si tratta davante a' savi di legge e di
ragione, ma in pro- 10. vare la iudiciale basta dicere pur quello che Ila
ragione ne dice. 4. Et poi che Tulio à detto che è la iudiciale e
che è la negoziale, sì dicerà delle parti della iudiciale per meglio
dimostrare lo 'ntendimento di ciascuno capitolo dell' Arte.
15. Di due parti di Iudiciale. 51. La iudiciale dividesi in
due parti, ciò sono assoluta et assuntiva. Sponitore.
1. In questa parte dice Tulio che quella questione la 20. quale è
iudiciale, sì come davanti è mostrato, sì à due parti : una eh' è
appellata assoluta e l'altra la quale è ap- pellata assuntiva ; e dicerà
di catuna per sé. 3 : M interno — 4: i mss. futuro — M' il
presente — 8 : m in se ragioni — 9 : M assaivi, m si tratta da savi — 10:
M pur di quello — 16: M' si divido — 21 : M' luna la quale è appellata -
M-m e assunptiva (1) Per quanto la lezione di -Jf' (il presente e futuro)
sembri ottima, prefe- risco ricorrere alla lieve correzione di futuro in
future.: M* ha tendenza a cam- biare, e quindi non è improbabile che,
trovando già l'errato futuro, abbia voluto accordare con esso l'aggettivo
precedente, le presenti. Non saprei invece come spiegare un cambiamento
inutile in M-m. Dell' asoluta. 52. Assoluta è quella che in
sé stessa contiene questione o di ragione o d' ingiuria. .Lo
sponitore. 5. 1. Dice Tulio che quella questione iudiciale del
genere èe appellata assoluta la quale in sé medesima è
disciolta e dilibera, sì che sanza niuna giunta di fuori contiene
in sé questione sopra la qualitade o sopra la quantitade o sopra la
comparazione del fatto, il qual fatto si cognosce 10. s'egli é di
ragione o d'ingiuria, cioè se quel fatto é giusto o ingiusto o buono o'
reo, sì come in questo exemplo donde fue cotale questione. 2. Verbigrazia
: Fecero quelli da Teba giusto o ingiusto quando per segnale della loro
vittoria fe- cero un trofeo di metallo? Et certo questo fatto, cioè
fare 15. un trofeo di metallo per segnale di vittoria, piace per
sé sanza neuna giunta et in sé contiene forza della pruova, perciò
ch'era cotale usanza. Asuntiva- 53. Assuntiva è quella
che per sé non dà alcuna ferma cosa 20. a difendere, ma di fuori prende
alcuna difensione ; e le sue parti sono quattro : concedere,
rimuovere lo peccato, riferire lo peccato e comparazione.
S:M-m slesso — 7: M-m nm. ai — fi: M-m «m. o sopra la (luantilude — 7
invece ili 0—9: M' in f|uel facto — 12: M-m Ino - »« di Teba — 14-13: m
et cerio questo trofeo fatto faro per sengnale della loro Victoria jiiuce
per so medesimo — 16: M' la forfa — 1 9 : M-m ohi. olio per sé non dà
alcuna Cicerone dice che quella constituzione è appellata as-
suntiva della quale nasce questione, la quale in sé non à fermezza per
difendersi da quello peccato eli' è allui appo- 5. sto, ma d'un altro
fatto di fuori da quello prende argo- mento da difendersi; si come nella
questione d'Orestes, che fue accusato eh' avea morta la sua madre, et
elli dicea che ll'avea morta giustamente. Et certo il suo dire parca
crudel fatto, sì che queste parole per sé non anno difensione
10. com'elli l'abbia fatto giustamente, ma prende sua difen- sione
d'un altro fatto di fuori e dice: « Io l'uccisi giusta- mente, perciò
ch'ella uccise il mio padre ». Et così pare che con questa giunta piaccia
la sua ragione. 2. Efc questa co- tale questione assuntìva à quattro
parti, delle quali il testo 15. dicerà di catuna perfettamente per
sé. Di concedere. 54. Concedere e concessione è quando
l'accusato non difende quello eh' è fatto ma addomanda che ssia perdonato
; e questa si divide in due parti, ciò sono purgazione e preghiera.
20. Sponitore. I. Poi che Tulio avea detto che è e quale la questione
assuntìva e com' ella si divide in quattro parti, sì vuole di- cere di
ciascuna per sé divisatamente perchè '1 convenentre sia più aperto. 2. Et
primieramente dice che é concedere, 25. e dice che quella
constituzione é appellata concessione quando l'accusato concede il
peccato e confessa d'averlo fatto, ma domanda che ssia perdonato ; e
questo puote es- sere in due maniere: o per purgazione o jjer preghiera,
e di ciascuna di queste dirà Tulio partitamente, e prima 30.
della purgazione. 3: M> non àe in se — 5: M' di quello —
7 : M' Pt elli rispondea — 8-iO: M-m om. Kt certo.... giustamente — i4:
M' nm. assuntìva — 15: M' per se perfectamente — 17: M' o concessione -
18 : 3f ' domanda chelgli sia p. — m. 7 questo — 21 : m che e quale, M'
che 7 quale 6 — 23: m di chatuna — 24: M-m concede — 26: m confessa il
pechato d'averlo facto T)i purgazione.
55. Purgazione è quando il fatto si concede ma la colpa si ri-
muove, e questa sì à tre parti : imprudenzia, caso e necessitade.
Sponitore. 5. I. Dice Tulio che quella maniera di concedere la quale
è per purgazione sì è et aviene quando l'accusato confessa, ma
lievasi la colpa e dice che quel fatto non fue sua colpa ; e questo puote
fare in tre maniere, delle quali è prima Imprudenzia, cioè non sapere. 2.
Verbigrazia : Mercatanti 10. fiorentini passavano in nave per
andare oltramare. Sorvenne loro crudel fortuna di tempo che Ili mise in
pericolosa paura, per la quale si botaro che s' elli scampassero e
per- venissero a porto che elli offerrebboro delle loro cose a
quello deo che là fosse, et e' medesimi F adorrebbero. Alla 15.
fine arrivaro ad uno porto nel quale era adorato Malco- metto ed era
tenuto deo. Questi mercatanti l' adoraro come idio e feciorli grande
offerta. Or furono accusati ch'aveano fatto contra la legge ; la qual
cosa bene confessavano, ma allegavano imprudenzia, cioè che non sapeano,
e perciò 20. diceano che fosse perdonato. Et di ciò era questione,
se doveano essere puniti o no. 3. La seconda maniera è caso, cioè
impedimento eh' adiviene, sì che non si puote fare quello che ssi dee
fare. Verbigrazia : Un mercatante caur- sino avea inprontato da uno
francesco una quantità di pe- 25. cunia a pagare in Parigi a certo
termine et a certa pena. 6: M-m om. b — 7 : M-m imi. non —
8: M' Kl puotesi l'art! — o In prima — tO: M per mare oltramare, di
passavano per maro in nave — Jf sopravenne — li: mi miseli, JV/' om. che
— 14: M' edelgli medesimi — 15: M' Macliometlo, m Maometto — 17: M'
fecero grande oHerta. Fiioro ecc., m mii. Or — 19: M' noi sapeano — 21: m
puliti — S4 : m inprontato moneta da uno franeesclio
Avenne che '1 debitore, portando la moneta, trovò il fiume di
Rodano si malamente cresciuto che non poteo passare né essere al termine
che era ordinato. Colui che dovea avere domandava la pena, l' altro
confessava bene eh' avea 5. fallito del termine, ma non per sua colpa, se
non che '1 caso era advenuto ch'avea impedimentitotU la sua venuta, e
però dicea che Ila pena non dovea pagare; e di ciò è questione, se
Ila dovea pagare o no. 4. La terza maniera è necessitade, cioè che
conviene che ssia così et altro non potea fare. 10. Verbigrazia :
Statuto era in Costantinopoli che qualunque nave viniziana arrivasse nel
porto loro, la nave e ciò che entro vi fosse si publicasse al segnore.
Avenne che merca- tanti genovesi allogare una nave di Vinegia e
passaro con grande carico d'avere. Convenne che per impeto di
15. tempo per forza di venti, (2) centra' quali non si poteano pa-
rare, pervennero nel porto e fue presa la nave e le cose per lo segnore.
Ben confessavano li mercatanti che Ila nave era veniziana, ma per
necessitade erano venuti in esso porto, e però diceano che non doveano
perdere le cose ; e di ciò 20. era questione, se Ile doveano
perdere o no. Tutto altressì i Veniziani, cui fue la nave, raddomandavano
la nave o la valenza; i mercatanti diceano che l'amenda non dovea
es- sere domandata, perciò che per necessitade e non per vo-
lontade erano iti in quel porto. 5. Et poi' che Tullio àe detto 25.
della purgazione e delle sue parti, si dicerà della preghiera.
Della preghiera. 56. Preghiera è quando l'accusato confessa
ch'elli àe commesso quel peccato e confessa che 11' àe fatto
pensatamente, ma sì domanda che Ili sia perdonato, la qual cosa molte
rade fiate puote advenire. 1 : M-m avieno — S : M-m polea —
3: M' a. termine ordinato — 5 : M' al termine - 5-6: M impedimento, M* ma
nel caso era avennlo 7 avea impedimentita — il: M' nel loro porto — 13: m
una nave viniziana, 3/' una nave de Viniziani 7 passavano — 14-15: M per
un tempo per impetto 7 per f., if ' per impedimento, m di vento — 18: M^ in
quel porlo — SO: M' ora la questione — m dovea — 22: M' che por lamenda —
24 :m om. Et — 28-29: m domandasi — M' om. molto (1) Questa
lezione di w è confermata da impedimentita di Jf*, cioè dall'altra fami-
glia di codici. Lo scambio, avvenuto in M, con impedimento era facilissimo e lo
favoriva il fatto che il senso restava quasi il medesimo : « la sua
venuta avea avuto impedi- mento ^>. (2) Così leggo con w,
poiché in if e ilf ' il passo è manifestamente guasto (impedimento è
correzione arbitraria), mentre l'espressione impeto di tempo, ana- loga,
a quella del § 2 fortuna di tempo, può bene corrispondere alla magna
tempestas di cui parla l'esempio ciceroniano {De Inv., II, 98) sul quale
è modellato il nostro. Cicerone dimostra in questa picciola parte del
testo che cosa è appellata preghiera in questa arte. Et dice che
allotta è questione di preghiera quando l'accusato confessa 5. e dice che
fece quel peccato che gli è aposto e ricognosce che ir à fatto
pensatamente, ma tutta volta domanda per- dono. 2. Onde nota che questa
preghiera puote essere in due maniere, o aperta o ascosa. Verbigrazia :
In questo modo è la preghiera aperta : Dice l' accusato : « Io
confesso 10. bene ch'io feci questo fatto, ma prego vi per amore e
per reverenza di Dio che voi mi perdoniate ». La preghiera ascosa è
in questo modo : « Io confesso eh' io feci questo fatto e non domando che
voi mi perdoniate ; ma se voi ripensaste quanto bene e come grande onore
i' òe fatto al 15. comune, ben sarebbe degna cosa che mi fosse
perdonato ». 3. Ma ssì dice Tullio che queste preghiere possono
adve- nire rade volte, (l) spezialmente davante a' giudici che sono
giurati a lege sie che non anno podere di perdonare. Ben puote alcuna
fiata lo 'mperadore e '1 sanato avere prove- 20. denza in perdonare
gravi misfatti, sì come poteano li an- ziani del popolo di Firenze ch'aveano
podere di gravare e di disgravale secondo lo loro parimento. 4. Et poi
che Tullio àe detto della prima parte della constituzione as-
suntiva, cioè della concessione e che cosa è concedere, et à 25.
delle due maniere di concedere detto, cioè di purgazione e di preghiera,
sì dicerà della seconda parte, cioè rimuo- vere lo peccato.
Di rimuovere. 57. Rimuovere lo peccato è quando l'accusato si
sforza di 30. rimuovere quel peccato da se e da sua colpa e metterlo
sopra un S : M' mostra — 5 : M' elicigli lece — 6' : M'
nppensatainentc — 8 : M' nascosa — 14: M' om. bene — 17 : M^ fiato (ma L
volte) — li ([uali sono — 18: M noniianno — 19: m prudenzia — SS: m
eclisgravare, M> 7 disgravare — ni lo loro parere, L illoro pa- rere,
S il loro piacimento — m om. Et — So: M' m e a detto delle duo maniere ecc.
- 30 : M' mettelo (ma L metterlo) (1) Conservo volte appunto
perchè questa parola in itf è meno frequente di fiate Q non si può
considerare correzione arbitraria; invece fiate sarà stato sosti- tuito
per uniformità col testo tradotto (v. pag. preced., 1. 29).
- 79 - altro per forza e per podestà di lui ; la qual cosa si
puote fare in due guise: o mettere la colpa o mettere lo fatto
sopr'altrui. Et certo la colpa e la cagione si mette sopra altrui dicendo
che quel sia fatto per sua forza e per sua podestade. Il fatto si mette
sopr'altrui 5. dicendo che dovea un altro e potea fare quel fatto.
Sponitore. I. In questo luogo dice Tullio eh' è
rimuovere lo pec- cato e come si puote fare, et è cotale il caso : Uno è
accu- sato d'uno malificio, et elli vegnendo a sua defensione si
10. leva da ssè quel maleficio e mettelo sopra un altro, o dice
bene che 11' à fatto, ma un altro cli'avea in lui forza e si- gnoria il
costrinse a ffare quel male ; e questo rimovimento del peccato dice
Tullio che ssi puote fare in due guise : l'una si mette la colpa e la
cagione sopra un altro, l'altra 15. si mette il fatto sopra altrui.
2. Et certo la colpa e la ca- gione si mette sopì'' altrui quando
l'accusato dice che elli à fatto quel male per colpa d'alcuno il quale à
sopra lui forza e signoria. Verbigrazia : Il comune di Firenze
elesse ambasciadori e fue loro comandato che prendessero la paga
20. dal camarlingo per loro dispensa et immantenente andas- sero
alla presenzia di messer lo papa per contradiare il passamento de'
cavalieri che veniano di Cicilia in Toscana contra Firenze. Questi
ambasciadori domandare il paga- mento e '1 signore no '1 fece dare, e'I
camarlingo medesimo 25. negò la pecunia, sicché li ambasciadori non
andaro e' ca- valieri vennero. Della qual cosa questi ambasciadori
fuo- rono accusati, ma elli si levaro la colpa e la cagione e
3: m la chosa — 7: Af' die e rimuovere — 9: M' do malilicio - i4 :
m luna mette, M' l'una si e mettere — ^5: M' si e mettere — m om. Kt -
20: Af inmanlenenente, it/' incontanente — 21 : m cliontradire - 23: M-m
domandano — 24: M m il segnore — m e il chamarlengo — 25: m il nego di dare
la pecliunia — 26:m li anbasciadori — 27 :M' si levano miseria sopra
'1 signore e sopra '1 camarlingo, i quali aveano la forza e la seguoria e
non fecero lo pagamento. 3. Mettere il fatto sopr' altrui è quando
l'accusato dice ch'egli quel fatto non fece e non ebbe colpa né
cagione 5. del fare, ma dice che alcuno altro l'à fatto et ebbevi
colpa e cagione, mostrando che quell'altro sopra cui elli il mette
dovea e potea fare quel male. Verbigrazia : Catone e Ca- tenina andavano
da Roma a Kieti, et incontrarono uno parente di Catone, a cui Catellina
portava grande maia- lo, voglienza per cagione della coniurazione di
Roma, e perciò in mezzo della via l'uccise; né Catone non avea podere
di difenderlo, perciò eh' era malato di suo corpo, ma rimase
intorno al morto per ordinare sua sopultura. Et Catellina si n'andò inn
altra parte molto avaccio e celatamente. In que- 15. sto mezzo genti che
passavano [per la via] per lo camino (i) trovaro il morto di novello, e
Catone intorno lui, sì pen- saro certamente che Catone avesse fatto il
malificio, e perciò fue esso accusato di quella morte; ond'elli in
sua defensione levava da ssè quel fatto dicendo che fatto nol- 20.
l'avea e che no'l dovea fare, perciò ch'era suo parente, e dicea che
noU'arebbe potuto fare, perciò eh' elli era ma- lato di sua persona. Et
così recava il fatto e la colpa sopra Catellina, perciò che '1 dovea fare
come di suo nemico e poteal fare, eh' era sano e forte e di reo animo. 4.
Et poi 25. che Tulio àe insegnato rimuovere lo peccato, sì
insegnerà in questa altra partita riferire il peccato.
Ttillio dice che è riferire il peccato. 58. Riferire il
peccato è quando si dice che ssia fatto per ragione, in perciò che alcuno
avea tutto avanti fatto a liuì 30. ingiuria. i : m 7
al chamai-lingo — 4-ò: M om. ch'egli... ma dice — m nel fare — 5 : Af ' che
un altro — 9: VI om. grande — 12 : m di suo corpo malato — 15: M^ gente —
J/' m om. per la via - 16: m il novello morto — 18 : M' tn fu elgli - 1!)
: M' chelgli facto — 20-Sl : m avea nel dovea fare — o?n. e dicea che —
Jlf ' ohe noi potea fare ~ ohi. elli — 23: m pero chelli dovea fare — 25:
M-m om. si — M' insegna — 26: M' jxirte — M-m refre- nare (sempre) — 29 :
vi pero che — da\anti (1) Le parole per la via sono con tutta
probabilità una glossa o una variante di per lo camino; infatti mancano
in codici delle due famiglie. 81 Lo
sponitore. I. Dice Tullio che riferire il peccato è allora
quando l'accusato dice ch'elli àe fatto a ragione quello di che
elli é accusato, perciò e' a Uui fue prima fatta tale ingiuria che
5. dovea a rragione prendere tale vengianza, sì come apare neir exemplo
d' Orestes, che fue accusato della morte di sua madre, et esso dicea che
ll'avea morta a ragione, perciò che primieramente avea ella fatta a llui
ingiuria, cioè ch'avea morto il padre d' Orestes; e di questo nasce
cotale que- 10. stione se Orestes fece quel fatto a ragione o no. 2. Et
poi che Tullio àe insegnato riferire lo peccato, sì insegnerà ornai
che è comparazione. Tullio dice che è comparazione-
59. Comparazione è quando alcuno altro fatto si contende cfie 15.
fue diritto et utile, e dicesi che quello del quale è fatta la ripren-
sione fue commesso perchè quell'altro si potesse fare. Lo
sjjonitore. I. In questo luogo dice Tullio che quella questione è
ap- pellata comparazione nella quale l'accusato dice ch'à fatto
20. quello eh' è a llui apposto, i^er cagione di poter fare un
altro fatto utile e diritto. Verbigrazia : Marco Tullio, stando nel
più alto officio di Roma, sentìo che coniurazione si facea per lo male
del comune, ma non potea sapere chi né come. Alla fine diede dell'avere
del comune in grande quantitade 25. ad una donna la qiiale avea
nome Fulvia, et era amica per amore di Quinto Curio, il quale era
sapitore del tradimento ; e per lei trovò e seppe dinanzi tutte le cose
in tale ma- niera eh' elli difese la cittade e '1 comune della
molt'alta tradigione. 2. Ma alla fine fue ripreso ch'elli avea troppo
ma- 2 : M' allocta — 4 : M' facla prima — 5 : M' prenderne
(ma L prendere) tale vendctla — pare — 6: M' dela sua madre — 8: m prima
— J/' facto, m aliai fatto - iO: m om. El — 14: M-m quanto un altro — 16:
M' per quell'altro - 18: JW in questa parte — 19: M-m che facto — 26: M^
ora parteDce — 28: M' dela mortalo — 82 -
lamente dispeso l'avere di Roma. Et elli in defensione di sé dicea
che quelle spese avea fatte per fare un altro fatto utile e diritto, cioè
per scampare la terra di tanta di- struzione, e quello scampamento non
potea fare sanza 5. quella dispesa; e cosi mostra che '1 fatto del quale
elli è ripreso fue fatto per bene. 3. Et poi che Tullio àe detto
delle quattro parti della constituzione assùntiva, la quale è parte
della iudiciale sì come pare davanti nel trattato della con- stituzione
del genere, sì ridicerà elli brevemente sopra la 10. questione
traslativa, della quale fue assai detto in adietro, per dire alcuna cosa
che là fue intralasciata. Come Ermagoras fue trovatore della
questione translativa. 60. Nella quarta questione, la quale noi
appelliamo translativa, certo la controversia d'essa questione è quando
si tenciona a cui 15. convegna fare la questione, o con cui od in
che modo, o davante a cui, per quale ragione, o in che tempo ; e sanza
fallo tuttora è controversia o per mutare o per indebolire l'azione. Et
credesi che Ermagoras fue trovatore di questa constituzione; non che
molti an- tichi parlieri non l' usassero spessamente, ma perciò che Ili
scrittori 20. dell'arte non pensaro che fosse delle capitane e non
la misero in conto delle constituzioni. Ma poi che da llui fue trovata,
molti l'anno biasimata, i quali noi pensamo e' anno fallito non pur in
pru- denzia;(i) che certo manifesta cosa è che sono impediti per
invidia e per maltrattamento. 25. Sponitore. I.
Questo testo di Tullio è assai aperto in sé medesimo, e spezialmente
perciò che della questione o constituzione translativa è assai
sufficientemente trattato indietro in i : M' l'avere del
comune — 3:3/' diiicto 7 utile - 4: M' non si pelea fare — 7: M< om.
assiintiva - 8: M' iuridiciale — //: M-m che ella l'uo translassala —
lS:M-m emargonis — 13: M Uela quarta q. (e punto ilnpn translativa) —
15-1 (!: M' davanti cui — M-m sanfa follia — 19: M' parladori — 23: M'
cambiano - S4 : M' per mal. (1) La traduzione non è esatta, poicliè
il testo latino dice: quos non tamim- prudentia falli indamus (res enim
perspìcua est) quam invidia atque óbtrectatione quadam inipediri. Si
potrebbe proporre per congettura non per imprudenzia ; ma non sembra
contraddirvi il 8 -3 del commento parlando di '' alquanti che non erano
bene savi ,, ? altra parte di questo libro, e là sono divisati
molti exempli per dimostrare come si tramuta 1' azione quando non
muove la questione quelli che dee, o centra cui dee, o in- nanzi cui dee,
o per la ragione che dee, o nel tempo che . 5. dee. Z.Sicchè al postutto
in(i) questa translativa conviene che sempre sia : o per tramutare l'
azione in tutto, come ap- pare indietro nell'exemplo di colui che
risponde all'aver- sario suo: « Io non ti risponderò di questo fatto né
ora né giamai »; e così in tutto tramuta l'azione dell'aversario
etc. 10. O é per indebolire l'azione in parte ma non del tutto,
si come appare nell' exemplo di colui che risponde all' aver- sario
suo : « Io ti risponderò di questo fatto, ma non in questo tempo» o «non
davante a queste persone». 3. Et dice Tullio che Ermagora fue trovatore
della translativa constituzione, cioè che Ha mise nel conto delle quatro constituzioni
sì come detto fue inn adietro. Et di ciò fue ripreso da alquanti che non
erano bene savi e che aveano invidia e maltrattamento contra lui. Nota
che invidia è dolore dell'altrui bene, e maltrattamento è dicere male
d'altrui. 20. Tullio dice che davanti diceva exempli in
ciascuna maniera di constituzioni (e. XII). 61. Già avemo disposte
le constituzioni e le loro parti; ma li axempli di ciascuna maniera
parrà che noi possiamo meglio divisare quando noi daremo copia di
ciascuno de' loro argomenti; perciò 25. ch'allotta sarà più chiara
la ragione d'argomentare, quando l'exemplo si potrà a mano a mano
aconciare al genere della causa. Vogliendo Tullio passare al processo del
suo libro, brievemente ripete ciò eh' à detto avanti, dicendo che
dimo- 2: M-m si traclava — 3: M^ che dee conLra cui dee ~ 6:
M come pare — 8: M' non ti rispondo — iO: M-m Oo, M' Onde — M imparte — m
non in tutto — H : M' pare — 13 : Mi dinanzi a ([. — 14: M translatore, m
traslatotore — 15: M^ìa conto —17: 3f dal- quanti — 18 : M-m male
tractamento con altrui — 21: M-m construclioni — 22: M exposte le e. 7
loro parti — 24: Mi di loro argomenti — 25: M' de l'argomentare — 26:m della
cosa — 29: M ke detto, m che detto — Jlf ' dinanzi (1)
L'essere attestato in da tutti i codici rende esitanti a toglierlo, come
la sintassi e il senso sembrano richiedere. Forse si può sottintendere
dal periodo pre- cedente la parola questione : " conviene che sia
questione in questa transla- tiva „ ecc. - 84 -
strato à che sono le constituzioni e le loro parti, ma in altra
parte porrà certi exempli in ciascuno genere delle cause, cioè nel
deliberativo e nel dimostrativo e nel iudiciale, quando ti'atterà il
libro di ciascuno in suo stato. E da cciò si parte il conto e torna a
trattare secondo che ssi con- viene all' ordine del libro per
insegnamento dell' arte. Qual cai/sa sia simpla e quale
congitmta. 62. Poi eh' è trovata la constituzìone della causa, ìmmantenente
ne piace di considerare se Ila causa è simpla o congiunta. Et s'ella 10.
è congiunta, si conviene considerare se ella è congiunta di piusori
questioni o d'alcuna comparazione. Lo sponitore.
1. Apresso al trattato nel quale Tullio àe insegnato tro- vare le
constituzioni e le sue parti, si vuole insegnare 1.5. qual causa sia
simpla, cioè pur d'uno fatto e qiiale sia con- giunta, cioè di due o di
più fatti, e quale sia congiunta d'alcuna comparazione, e di ciascuna
dice exemplo in questo modo : Della causa simpla.
20. 63. Simpla è quella la quale contiene In sé una questione
assoluta in questo modo: « Stanzieremo noi battaglia contra coloro
di Corinto o non ? ». Lo sponitore. l. Dice Tullio che
quella causa è simpla la quale è pur 25. d'uno fatto e che non è se
non d'una questione solamente. Verbigrazia : La città di Corinto
non stava ubidiente a Roma, onde i consoli di Roma misero a
consiglio se paresse 2 : M-m om. parte — m delle cose — 4-5
: J/' Et di ciò si diparte l'autore, m 7 accio — 8: M mantenente, m
inmantanento — 9: m simplice (sempre cos'i) M' sedella — li: M-m
compi^ratione — 13: M' il tractato — 15: M (|ualcosa, «i quale chosa — /*:
M< l'exeni- plo — 21: M' m (pielli — 25 : vi iliinn chosa — SO : M-m
<m. stava — A/' ali Romani loi-o di mandare oste a fai"e la
battaglia centra loro, o no. Et così vedi che causa simpla è pur d'una
questione del sì o del no. Della causa congiunta.
5. 64. Congiunta di piusori questioni è quella nella quale sì
dimanda di piusori cose in questo modo: « È Cartagine da disfare da
renderla a' Cartagiartesi, o è da menare inn altra parte loro abitamento
? » d). Lo sponitore. 10. 1. Poi che Tullio à detto
della causa simpla, sì dice della congiunta, dicendo che quella
causa è congiunta nella quale àe due o tre o quattro o più questioni.
Verbigrazia : I Romani vinsero a forza d'arme la città di Cartagine, et
erano alcuni che diceano che al postutto si disfacesse; altri 1.5.
diceano che Ila cittade fosse renduta agli uomini della terra, altri
diceano che Ila cittade si dovesse mutare di quel luogo et abitare in
altra parte. E così vedi che questa causa è congiunta di tre questioni
che sono dette. Della causa congiunta di comparazione. Dì
comparazione è quella nella quale contendendo si que- stiona qual
sia il meglio o qual sia finissimo, in questo modo : « È da mandare oste
in Macedonia contra Filippo inn aiuto a' com- pagni, è da tenere in
Italia per avere grandissima copia di genti contra Anibal ? ». 25.
. Lo spoìdtore. 1. Poi che Tullio avea detto della causa la quale è
con- giunta di piusori questioni, sì dice di quella causa eh' è
congiunta di comparazione di due o di tre o di quattro o i :
M-m o fare — 2 : M^ om. Et — Jlf om. b — 5 : M' om. questioni — 6 : m di
più sore — 7 : M' da. rendere a Cartaginesi — 12 : m due tre o quattro
questioni — J3: m per forza — om. la cittade di — J4: M' elio a! postutto
diceano cliella si disfacesse — 17: M-m om. che — 18: m essere coniunta
di tre (luestioni dette — 21: 3/' o quale finis- simo — 22: M' incontro a
Filippo — 28: M-m di due, di tre — m om. o di quattro (1)
Certamente il traduttore ha frainteso il latino an eo colonia deducatur.
di più cose, nella quale si considera qual partito sia il mi-
gliore de' due o di tre o di più, e se tutti sono buoni e l'uno migliore
che 11' altro, per sape];e qual sia finissimo, cioè il sovrano di tutti.
2. Verbigrazia : I Romani aveano 5. mandata oste in Macedonia contrà
Filippo re di quello paese, et in quello medesimo tempo attendeano alla
guerra d'Anibal, che venia contra loro ad oste. Onde alcuni savi di
Roma diceano che '1 migliore consiglio era mandare gente in Macedonia,
per attare l'altra loro oste la quale 10. era in questa contrada; altri
diceano che maggior senno era di ritenere la gente in Italia, per adunare
grandissima oste contra Anibal ; e così contendeano qual fosse il
mi- gliore o '1 finissimo partito : o tenere o mandare la gente.
Della contraversia inn iscritto et in ragionamento. 15. 66.
Poi è da pensare se Ila controversia è in scritta o è in
ragionamento. Lo sponitore. 1. Apresso ciò che
Tulio à dimostrato qual causa è sim- pla e quale è congiunta e quale di
comf)arazione, sì vuole 20. fare intendere quale contraversia nasce
et aviene di cose e di parole scritte, e qual nasce pur di ragionamento,
cioè di dire parole e di cose che non sono scritte ; e cosi vuole
Tullio aj)ertamente insegnare per rettorica ciò e' altre de' dire a
ciascun ponto di tutte le cause che possano inter- 25, venire ; e
perciò dicerà della scritta per sé e del ragiona- mento per sé, e di
ciascuno partitamente in questo modo : Della contraversia che nasce
di cose scritte. 67. Contraversia inn iscritta è quella che nasce
d'alcuna qua- litade di scrittura Ce. XIII). Et certo le maniere di
questa che 30. sono partite delle constituzioni sono cinque : Che
talvolta pare che Ile i-2: m sia ihigloru ili lUie ecc. —
il/' o Ire o iiifi — •/: iV/' ohi. cion il sovrano — 5: M'-L (li
i|iielli del paoso, S di c|iielli paesi 7: m om. ad oste — * : hi elio mogio —
iO: m J/i in ipiella contrada — il : M' om. di — m a rilenore gente
— 12 : M contra nibal, i» contro ad Anibal — 15: M-m e scripla, If' e in
scriplo o in ragionamento — /*' : M-m i|ual cosa — 19: m quale e — 22: M-m
om. dire e che non sono scritte — 23: M' mo- strare - 24: m possono — 25:
M'E cosi — 29: M da. questa — 30:M' dale constilutioni - 87
— parole medesimo iU siano discordanti dalla sentenzia dello
scrittore ; e talvolta pare che due legi o più discordino intra sé stesse;
e talvolta pare che quello eh' è scritto signiffichi due cose o più
; e talvolta pare che di quello ch'è scritto si truovi altro che non
è 5. scritto ; e talvolta pare che ssi questioni in che sia la forza
della parola, quasi come in diffinitiva constituzione. Per la qual cosa
noi nominiamo la prima di queste maniere di scritto e di sentenzia;
il secondo appelliamo di legi contrarie, la terza apelliamo
dubiosa, la quarta appelliamo dì ragionevole, la quinta apelliamo
diffinitiva. 10. Lo sponitore. Poi che Tullio à
dimostrato qual causa sia pur d' un fatto o di più, immantenente vuole
dimostrare qual con- traversia è in scritta e quale in ragionamento; et
in questo dice primieramente di quella ch'è inn iscritto, cioè che
15. nasce d'alcuna scrittura. Et questo puote essere in cinque
modi. 1. Il primo modo è appellato di scritto e di sentenza, pei'ciò che
Ile parole che sono scritte non pare che suonino come fue lo 'ntendimento
di colui che Ile scrisse. Verbi- grazia: Una lege era nella cittade di
Lucca, nella quale 20. erano scritte queste parole: « Chiunque
aprirà la porta della cittade di notte, in tempo di guerra, sia punito
nella testa ». Avenne che uno cavaliere l'aperse per mettere dentro
cavalieri e genti che veniano inn aiuto a Lucca, e perciò fue accusato
che dovea perdere la testa secondo la legge scritta. L'accusato si
difendea dicendo che Ila sentenzia e lo 'ntendimento di colui che scrisse
e fece la legge fue che chi aprisse la porta per male fosse punito
; e cosi pare che Ile parole scritte non siano accordanti alla
sentenzia dello scrittore, e di ciò nasce controversia intra 30.
loro, se si debbia tenere la scritta o la sentenza. 2. La seconda maniera
è apiiellata di contrarie leggi, perciò che 1 : M' m
medesime — m dalle sententie — 2: me téilora -- M' si discordino — 3: M'
significa — 4: M-m o talvolta — M' che nono che scripto — 6: M-m nm. in — A/'
mdilTì- nitiva ([uestione — 11: M-m qual cosa — 13: M-m e Sbripta - m e
in ragionamento — 14 : m primamente — 18 : M om. fue — 20: M ai)iira, m
apira — 21 : M-m om. in tempo di guerra — M' si sia punito della testa —
23: M' si difende — 30: m se si dee — M' lo scritto — 31 : M' om.
maniera (1) Cfr. p. 46, 1. 30: nai medesimo. —
88 - pare che due leggi o più discordino intra sé stesse.
Ver- bigrazia : Una legge era cotale, che chiunque uccidesse il
tiranno prendesse del senato cheunque merito volesse. Et nota che tiranno
è detto quelli che per forza di suo 5. corpo o d'avere o di gente
sottomette altrui al suo podere. Un'altra legge dice che, morto il
tiranno, dovessero essere uccisi cinque de' pili prossimani parenti. Or
avenne che una femina uccide il suo marito, il quale era tiranno, e
domanda al senato per guidardone e per nierito un suo figlio. LA PRIMA
LEGGE concede che ssia dato, l'altra comanda CHE SIA MORTO. E così sono due
leggi contrarie, e perciò nasce questione se alla femina debbia essere
renduto il suo figliuolo o se debbia essere morto. La terza maniera è
apellata DUBBIOSA, perciò che pare che quel eh' è scritto SIGNIFICHI DUE
COSE O PIU. Verbigrazia. Alessandro
fa testamento nel quale fa scrivere così. Io comando che colui eh' è mia
reda dia a Cassandro C vaselli d'oro e quali esso vorrà. Api^esso la
morte d'Alessandro venne Cassandro e domanda C vaselli al suo volere e
che a llui piacessero. Dice la reda. Io ti debbo dare que'ch'io
vorrò. Et cosi di quella parola scritta nel testamento, cioè, i quali esso vorrà, si è dubbiosa a intendere
del cui volere ALESSANDRO DICE; e di ciò nasce questione intra
loro. 4. La quarta maniera è appellata RAGIONEVOLE, perciò che di quello
eh' è discritto si truova e se ne ritrae altro CHE NON E SCRITTO O DETTO.
Verbigrazia : Marcello entra nella chiesa di Santo Petro di Roma e ruppe
il crocifixo, e taglia le imagini di là entro. E accusato, ma non si
truova neuna legge scritta sopra così fatto malificio, né convenevole non
era che nne scampasse sanza pena. E perciò il suo adversario ritraeva
d'altre leggi scritte quella pena che ssi convenia a Marcello
ragionevolemente. La quinta maniera é appellata DIFFINITIVA, perciò che
pare che ssi questioni LA FORZA D’UNA PAROLA scritta, sicché conviene i
: M' si discordino - M stesso — m tralloro - 5 : M^ di genti - 6-7: m L
essere morti - Jl/' om. de' — 7 : M'-L una femina il suo marito....
uccise — 9 : m e merito — 10: M' che le sia dato, l'altra leggie — iS: m
nasce controversia — Mm sella femina — 13: m se dee — 14-15: M' che lo
scritto — i6: Jtf' cos'i scrivere — 1 7 : M-m om. coUii eh' è — 18: M' i
quali — 19: M' cento vaselli d'oro — 20: J/' la rede. [o ti voglio dare -
m om. dare - S3: M' 7 cosi - S5: M' che scripto - S6 : M-m Martello - S7 :
M' San Piero — 38 : M-m om. Fue accusato - /. trovava — 29-30 : m alcuna
legge.... colalo maliflcio, e convenevole non era che scampasse — 32 :M'
che si conviene — Mm Martello — 89 — che quella
parola sia diffinita e dicasi il proprio intendi- mento di quella parola.
Verbigrazia : Dice una legge. Se '1 signore della nave n'abandona per fortuna
di tempo ed un altro va a governarla e scampa la nave, sia sua. Avenne
che una nave di Pisa venne in Tunisi e presso al porto sorvenne sì forte
tempesta nel mare, che '1 signore usce della nave et entra inn una
picciola barca. Un altro ch'era malato rimase nella nave e tennesi tanto
là entro che '1 mare torna in bonaccia, e la nave campa in terra. E
perciò dicea che la nave e sua secondo la legge, perciò che '1 segnore l'abandona
et esso l'avea difesa. Il segnore dicea che perch'elli entra nella
picciola barca non abandona perciò la nave ; e cosi era questione
intra loro sopra questa PAROLA dell'ABBANDONO della nave ; e per
15. sapere LA FORZA d'essa parola conviene che ssi difinisca e
dicasi il proprio intendimento. 6. Già à detto Tullio di quella
contraversia la quale è in iscritta e delle sue cinque parti. Omai dicerà
di quella contraversia eh' è in ragio- namento. 20. Della
contraversia la quale nasce di ragionamento. 68. Ragionamento è
quando tutta la questione è inn alcuno argomento e non inn
ìscrittura. Quella è contraversia in ragionamento nella quale non si
considera alcuna cosa che ssia per scrittura, ma prendesi argomento e
pruova per parole FUORI DI SCRITTA a dimostrare che dee essere sopra quella
questione. Verbigrazia : Dice Anibaldo che Italia è migliore paese che
Frància. Dice Lodoigo che no. E di ciò era questione ti'a lloro, e perciò
conviene recare argomenti in ragionando per mostrare che nne dee essere,
e questo senza scritta acciò che sopra questo no è legge né
scrittura. 3: m om. della nave — M' labandona — S : M' de
Pisani — M-m di Tunisi — 6 : M sovenne, m venne, L sopravenne — M^ di
mare — 7-8 : M' usci di fuori — un altro corse a governare la nave — 9: m
campo intera —11: m et egli — 12: m pichola nave — 13: 3f' non avoa
abbandonata perciò 1. n., m non pero elli abandonava la grande — 14: M'
di questa parola, m sopra questo abandono — 15: M-m la forma — m ripete
conviene — 16: m dicha — 22: m e none — 24 : M' Qurlla controversia 6 in
rag. — 28: M' Anibal — 29 : m lodovico, M'-L loodico, S dice l'altro,
dico che no — 31 : m 7 questo e senza scritta — 90 -
Delle quattro parti della causa. 69. Adunque, poi che
considerato è il genere della causa e cognosciuta la constituzione et
inteso quale è simpla e quale è con- giunta, e veduto quale contraversia
è di scritto e di ragionamento, 5. ornai fie da vedere quale è la
quistione e quale è la ragione e quale è il giudicamento e quale è il
fermamento della causa ; le quali cose tutte convengono muovere della
constituzione. In questa parte dice CICERONE che poi ch'elli à
insa- lo, gnato che è lo genere delle cause, cioè dimostrativo e diliberativo
e giudiciale, et à fatto cognoscere che è la constituzione, cioè e qual sia
congetturale e quale diffinitiva e quale translativa e quale negoziale,
et à fatto intendere quale è simpla e quale congiunta, cioè qual contiene
in sé una questione o più, et à fatto vedere qual contraversia è inn
iscritto e quale in ragionamento, sì come tutti questi insegnamenti
paionsi adietro là dove lo sponitore l'à messo inn iscritto e trattato di
ciascuno sufficientemente, ornai vuole Tullio procedere e dimostrare
apertamente qual sia 20. la questione e la ragione e '1 giudicamento e '1
fermamento della causa ; le quali cose tutte muovono e nascono
della constituzione, ciò viene a dire che la constituzione è il
cominciamento di queste cose. Della qiiestione. 25. 70.
Questione è quella contraversia la quale s'ingenera del
contastamento delle cause in questo modo : « Non facesti a ragione
- Io feci a ragione». Questo è contastamento delle cause nella
quaied) 2: m om. 6—3: m om. cognosciuta — M intesto — Af'
qual congiunta — 4: M-m quale conti'aversia <ii scripto — m o di
ragionamento — 5: A/' oggimai sarà — 5-6: M' ha sulo il primn b — M-m il
confermamento — 6-7: M-m 7 tucte i|UOSte cose le quali conv. - 9: M
chelle, m chebbe asengnato, M' che elgli 10: M' diliberativo, ilimostrativo —
i2: in cioè qual sia — 13: M-m a facto cognoscere — 14: m quale simplice
- 17: M' amaeslra- menti — M paio sàdietro, Mi-L jiaiono in adiotro — 18:
M 7 tracio — 22: M-m um. ciò V. a d. e. la constituzione — 25 : M -L Di
(|uistione — m si genera — 26-27 : M' de cause — M-m om. a — M' il
contrastamento ~ L nele quali, S nel quale (1) Evidentemente
dovrebbe dire nel quale; ma appunto per questo non saprei spiegare come
alterazione volontaria né come svista il nella quale (dato tanto da M
quanto da ikf'), e lo crederei piuttosto dovuto a una distratta traduzione
del latino Causarum haec est conflictio, in qua constitiUio
constai. è la constituzìone, e di questa nasce contraversia la quale noi
ap- pelliamo questione, in questo modo: se fatto l'à a ragione o
no. Lo sponitore. 1. Nel testo il quale è detto davanti
insegna Tullio 5. cognoscere e sapere che è la questione; et in ciò dice
che questione è quella che ssi conviene considerare sopr' a cciò di
che le parti tencionano, e così s'ingenera del contasta- mento delle
parti, cioè di quello che 11' uno appone e l'altro difende. Verbigrazia :
Dice la parte che appone all'altra . 10. « Tu non ài fatta
i-agione, che tu prendesti il mio cavallo »; e la parte che ssi difende
risponde e dice : « Si, feci ra- gione ». Or è la causa ordinata, cioè
che ciascuna parte à detto, l'una accusando e l'altra difendendo, e
questa è ap- pellata constituzione. 2. Sopra questo si conviene sapere
se 15. n'accusato à fatta ragione o no. Questo è quello che
Tullio appella questione. Dunque potemo intendere che quando le
parti anno detto e quando l'accusatore àe apposto in. contra l'aversario
suo e l'accusato àe risposto o negando o confessando, sì è la causa
cominciata et ordinata ; e però 20. infine a questo punto èe
appellata constituzione, cioè viene a dire che Ila causa è cominciata et
ordinata ; da quinci innanzi, se l'accusato niega e diféndesi, si conviene
che ssi connosca se Ila sua defensione è dritta o no, cioè quando
dice : « Io feci ragione » conviensi trovare s' elli à fatto 25.
ragione o no, e questa è appellata questione. 3. Et perciò che la scusa
dell'accusato, a dire pur così semplicemente: « Io feci ragione », non
vale neente se non ne mostra ra- gione per che e come, insegnerà Tullio
immantenente che ragione sia. 30. Di ragione. 71.
Ragione è quella che contiene la causa, la quale se ne fosse tolta non
rimarrebbe alcuna cosa in contraversia. In questo modo mo sterremo, per
cagione d'insegnare, un leggieri e manifesto 4: M-m nel
quale - 6: M' 6 quella — m sopra quello — 10: M' facto ragione — i5: M
dopo ragione ripete che tu prendesti il mio cavallo — 13: m luna luna — M'
{(uesto — 15: M^ m facto — 15-16: M' Et questo.... comune questione — 17:
M-m posto — 19: M S l'accusa - SO: M' m ciò viene a dire — SS: M-m om. sì
— S4: M' facta — S5: M' e facta questione — S6: M-m om. Et - l'accusa —
S7 : M' m se non mostra — S8 : M' si insegnerà — 31 : m se non fosse — 3S
: M' non vi rim. — 33: M-m d'insegnare leg- gere manifesto exemplo
exemplo. Se Orestres fosse accusato di matricidio et elli non
dicesse: « Io il feci a ragione, perciò eli' ella avea morto il mio padre
», non avrebbe difensione; e se non l'avesse non sarebbe
contraversia. Dunque la ragione dì questa causa è eh' ella uccise
Agamenon. 5. Lo sponitore. 1. Si come appare nel testo
di Tulio, ragione è quella clie sostiene la causa in tal modo che, chi
non assegna e mostra la ragione della sua causa, certo non sarà
contro- versia, cioè non à difensione; e cosi la causa
dell'aversario IO. rimane ferma e non à contastamento. 2.
Verbigrazia: Vero fue che Ila madre d'Orestres uccise Agamenon suo
marito e padre d'Orestres ; per la qual cosa Orestres, per movi-
mento di dolore, fece matricidio, cioè che uccise la madre. Fue accusato
di matricidio, et elli confessa, ma dice che '1 15. fece a ragione;
se non dice perchè e come, la sua difen- sione non vale neente, e se la
difensione non vale neente non è contraversia né questione. 3. Ma se dice
cosi : « Io lo feci a ragione perciò ch'ella uccise il mio padre »,
sì mantiene la sua causa e vale la sua difensa, mostrando la
20. ragione e la cagione perch'elli fece il matricidio. Et poi che
Tullio à dimostrato che è questione e che ragione, sì dimosterrà che è
giudicamento. Del giudicamento. 72. Giudicamento è
quella contraversia la quale nasce de lo 'nde- 25. bolire e del
confirmare la ragione. Et in ciò sia quel medesimo exemplo della ragione
che noi aven detta poco davanti : « Ella avea morto il mio padre ». Dice
il savio: « Sanza te figliuolo convenia eh' essa madre fosse uccisa ;
perciò che 'I suo fatto si potea bene punire sanza tuo perverso
adoperamento ». (e. XIV) Di questo 30. mostramento della ragione nasce
quella somma controversia la quale noi appelliamo giudicamento, la quale
è cotale: se fosse diritta cosa che Orestres uccidesse la madre, perciò
ch'ella avea morto il suo padre. i : m di martecidio — 2 :
M-m om. ella — 4 : M-ni chelluccise a ragione — 7-8 : M' mostra 7 assegna
ragione — 10: M' m 0111. Vero — 13: M' om. cioè.... di matricidio — 16:
M-m om. e so la difensione non vale neente (A/' ef))unge neente) —19: m difesa
— 20: m om. El — 22: M-m dimostra — 24: M' om. quella — M-m ohi. nasce —
25: M-m in ciò a quel med. — 26: M' aveino dello — 27 : M' Dice
l'avversario — 2S: M-m si potrà — 29 : M' sanila il tuo p. — — 31 : M' se
fu Cicerone dice e insegna che è ragione; et perciò che
della ragione nasce il giudicamento, sì tratta egli del giudicamento per
dimostrare come e quando et in che 5. luogo sia. Verbigrazia : L'accusato
assegna ragione perchè fece quel fatto e conferma la sua difensa per
quella ra- gione. L'accusatore dice contra questa difensa et
indebo- lisce la ragione dell'accusato, linde di ciò che conferma
l'uno et inforza la sua difensione e l'altro la infievolisce 10. e
falla debole, sì ne nasce una questione la quale è appel- lata
giudicamento, perciò che quando ella è provata si puote giudicare. 2. Et
in ciò sia quel medesimo exemplo di sopra : Orestres assegna la ragione
per la quale elli uccise Clitemesta sua madre: perciò ch'ella avea
morto 15. Agamenon ; e così conferma la sua defensione. Ma
contra lui dice l'aversario : « Tu non la dovei punire né non con-
venia ad te punirla di ciò, ma altre la dovea e potea pu- nire sanza tua
perversità, e sanza tua così crudele opera, come del figliuolo uccidere
sua madre ». Et così indebolia 20. la ragione d' ORESTE e mettealo
in vituperoso abominio, e sopra questo, cioè sopra '1 confermamento e
sopra lo 'nde- bolimento della ragione, nasce questione la quale è
appel- lata giudicamento perciò che ssi puote giudicare. 3. Et omai
à detto Tullio che è questione e che è ragione e che è 25.
giudicamento ; sì dicerà che è fermamento. Del fermamento.
73. Fermamento è il firmissimo et appostissimo argomento al
giudicamento, come se Orestres volesse dire che ll'animo il quale la
madre avea contra il suo padre, quel medesimo avea contra lui 30. e
contra le sue sorelle e contra il reame e contra l'alto pregio della sua
ingenerazione e della sua familia, sicché in tutte guise doveano i suoi
figliuoli prendere in lei la pena. 2: M-m om. è — 3-4: M-m
che deliboragione nasce del iuilicamento por dimostrare ecc. — 5: M' om.
sia — M' assegno —7:3/' quella — 3/ difesa — 8-10: M' che rimo con- ferma
7 inforfa la sua ragione.... fa debole — M-m isforca — m la indebolisce — IS :
m a quello med. — 13: M' assegna ragione — 16: M 7 non convenia, m e non
si convenia — 17: m 7 convenia punirla — 18-19: M' om. tua e del — m la
sua madre — 21-22: M< sopra confermamento dela ragione — 23: m om. Et
— 24: M i ohe ragione, m nm. — 27: M-m om. è — 30: M' \n serocchie....
l'altro pregio Poi che Tullio aè dimostrato che è questione e
ra- gione e giudicamento, sì dice in questa parte che è fer-
mamento. E certo lo 'nsegnamento suo è molto ordinata- 5. , mente :
che primieramente è questione intra Ile parti sopr'alcuna cosa la qual'è
aposta ad uno e detto sopra lui che non à fatto bene o ragione, et elli
in sua difesa dice ch'à fatto bene o ragione, e di questo nasce la
questione, cioè se esso à fatto ragione o no. Apresso dice
l'accusato 10. la cagione per la quale elli avea ragione di fare ciò,
e questa è appellata ragione. Et quando l'accusato à detta la
ragione, il suo adversario dice contra quella ragione et indebolisce
quello dove l'accusato ferma la ragione, e questa è appellata
giudicamento. 15 Fermamento.W 2. Poi che Ila questione
del giudicamento è nata, si conviene che ll'accusato tragga innanzi i
fermissimi argo- menti bene apposti contra il giudicamento. Verbigrazia
: Orestres à detto che uccise la madre perciò ch'ella avea 20.
morto il padre, e così assegna la ragione perch'elli l'uccise; il suo
adversario mettendolo in questione di giudicamento dice c'a llui non si
convenia ma ad altrui, e così indebo- lisce la sua ragione. 3. Or
conviene che Orestres dica ma- nifesti argomenti, e dice così: « Tutto
altressì coni' ella 25. uccise il suo marito mio padre, così avea
ella conceputo d'uccidere me e le mie sorelle, cui ella avea
ingenerate di suo corpo, e mettere il nostro regno a distruzione et
abassare l'altezza del nostro sangue, e mettere in periglio la nostra
famiglia ». Ed in questi argomenti accoglie fer- 30. missima
defensione della sua ragione contra il giudicamento, e dice: « Perciò
ch'ella fece così disperato maleficio et 2: M-m ragione 7
((iiestione (m nm. 7) — 3: M' s\ dicerà (mn S dico) — 5: M-m que- stioni
— 6: M' sopralcuna causa la qua'.e appella ad uno 7 detto contra lui — 8: Mhii
om. ch'à fatto bene ragione — 9: M' se elgli, m selli — M' a l'acto a
ragione — H : M\ m* detto — i3;Jf fermava — i4: m questo e apellato -
17:,AV nelaccusalo trarre — 18: M» appostati - i9: M' clielgli uccise....
chella uccise — SI: A/ niente dolo - S3: M' om. sua — JW i fermissimi
argomenti — 29: M 7 dinquesti, »i 7 in <juesti, 3/' 7 di questi
(1) La rubrica di M (clie di regola seguo) ha qui ludicamento, certo per
effetto della parola precedente. avea pensato di fare cotanta
crudelitade, sì fue al postutto convenevole che Ili suoi propii figliuoli
ne le dessero pena e non altri >. Et questi sono fermissimi argomenti
ne' quali dice che '1 fatto della madre fue crudele, superbo e
mali- 5. zioso. 4. Et nota che quel fatto è appellato superbo il
quale alcuno adopera centra' maggiori, sì come quella fece ucci-
dendo il re Agamenon. Et quello è crudele fatto il quale alcuno adopera
contra' suoi, sì come quella fece contra la sua famiglia. Et quello è
malizioso fatto il quale è molto 10. fuori d'uso, sì com'è contra
naturale usanza ch'alcuna fe- mina uccida il suo marito e figliuoli e
distrugga un alto reame. 5. Onde questi fermissimi argomenti e' quali
l'ac- cusato mette davanti per confermare le sue ragioni et
incontra lo 'ndebolimento che facea l'aversario, sì è ap- 15.
pellato fei'mamento. In quale constiti izione non à
gindicamento. 74. Et certo neil'altre constituzioni si truovano
giudicamenti a questo medesimo modo ; ma nella congetturale
constituzione, perciò che in essa non s'asegna ragione (acciò che '1
fatto non si concede) 20. non puote giudicamento nascere per dimostranza
di ragione; e però conviene che questione sia quel medesimo che
giudicamento: « fatto è, nonn è fatto, sé fatto o no ». Che al vero dire,
quante consti- tuzioni lor parti sono nella causa, conviene che vi si
truovino altrettante questioni, ragioni, giudicamenti e fermamenti.
25. Lo sponitore. 1. In questa parte del testo dice Tullio
che, sì come per lui è stato detto davanti, così si possono trovare
giu- dicamenti inn ogne constituzione; salvo che nella consti-
tuzione congetturale, della quale è molto trattato inn 30. adietro,
perciò che in essa l'accusato nonn asegna (i) neuna 1 : Af'
avea pensala cotanta crudeltade — 2: M nelle, ÌU-L lene dessero — 3 : Mi
lor- lissimi argomenti — 5: m nel quale — 7 : M Tde agnzenò {sic), m i ro
Agamenon — m ohi. è — 8: M' luomo adopera — 9: m om. è ambedue le volte —
il : A/ un altro — IS-i^-.M' om. et, 7» e contro allo — i7 : M' ì
giudicamenti — 22: Mi se facto e. no ~ quante questioni — 26 : m om. che
— 28 : vi nella questione (1) Si potrebbe anche leggere non n' asegna;
ma in M' è scritto qui e qual- che riga più sotto non assegna, mentre la
grafia col doppio n 6 frequente in M (cfr. pag. seg., 1. 6, nonn
abisogna). ragione, anzi niega, al postutto non ne puote nascere
giu- dicamento. 2. Verbigrazia : Uno accusò Ulixes ch'elli avea
morto Aiaces. Dice Ulixes : « Non feci » et cosi nega quel fatto che gli
è apposto. Et perciò non conviene che sopra '1 5. suo negare assegni
alcuna ragione. Et poi che nonn asegna ragione, il suo adversario nonn
abisogna d' indebolire la ragione dell'accusato. Dunque nonde puote
nascere giudi- camento ; e perciò conviene che in queste
constituzioni congetturali la questione e lo giudicamento siano ad
una 10. cosa: che là ove dice l'accusatore « Tu uccidesti » et
Ulixes dice « Non uccisi », la questione e '1 giudicamento fie
sopi-a questo, cioè se ll'uccise o no. 3, Poi dice Tullio che
quante constituzioni à una causa, altrettante v'à questioni e ra-
gioni e giudicamenti e fermamenti. 15. Dell'altre parti della
causa. 75. Trovate nella causa tutte queste cose, son poi da
consi- derare ciascuna parte della causa ; eh' al ver dire non si dee
pur pensare prima ciò che ssi dee dicere in prima ; perciò che se
le parole che sono da dire in prima tu vuoli inforzatamente
congiungere 20. et adunare colla causa, conviene che d'esse medesime
traghe quelle che sono da dire poi. Sponitore.
1. Or dice Tullio : Dacché '1 parliere connosce la causa et àe
inteso ciò eh' elli n' àe insegnato per tutto il libro 25. insine a
questo luogo, quando alcuna causa viene sopra la quale convegna che dica,
sì dee il buono parliere pensare con molta diligenzia e considerare nella
sua mente, anzi che cominci a dire, tutte le parti della sua causa insieme
e non divise. Che s'elli pensasse in prima pur quella che 4:
m chelli fu aposto - 6: M' non a bisogno, m non a ragione — 8: M-m om. e
— 9: M-m la constituzione — i 1 : M' sie sopra q., m fla — i3: M-m otn.
v'à — 17: M-m e al ver dire — 18: M' in prima quello — M-m om. dicere — S
che è da dire inprlma — 19: M-m om. in prima — M' tu le vuoigli — M
isforcatamonte, m sforfatamenie congiun- gnerle — 20: M' i raunaro — M-m
elio esse medesime — S4: M'-L tutto il titolo, i' tutto il telo (tic) —
S8: i/' causa sua — S9: M' pur quello che sia da dire (Z. aggiunge in
prima) - 97 - 10.
prima sia da dire e non pensasse ch'elli dovesse dire poi, senza
fallo il suo cominciamento si discorderebbe dal mezzo et il mezzo dalla
fine. 2. Ma chi accorda bene le sue parole colla natura della causa et in
innanzi pensa che ssi con- venga dire davanti e che poi, certo la
comincianza fie tale che nne nascerà ordinatamente il mezzo e la fine.
Tutto altressì fae il buono drappiere, che non pensa prima pur
della lana, ma considera tutto il drappo insieme anzi che Ilo cominci, e
de' aver (D la lana e '1 coloi*e e la grandezza del drappo, e provedesi
di tutte cose che sono mistieri, e poi comincia e fae il drappo.(2)
Di sei parti della diceria. 76. Per la qual cosa,
quando il giudicamento e quelli argo- menti che bisognano di trovare al
giudicamento saranno diligente- 15. mente trovati secondo l'arte e
trattati con cura e con cogitatione, ancora sono da ordinare l'altre
parti della diceria, le quali pare a nnoi ai tutto che siano sei :
Exordio, narrazione, partigione, confer- mamento, riprensione e
conclusione. Sjtoììitore. 20 _ I. Poi che Tullio
sufficientemente à dimostrato la chia- rezza delle cause et àe comandato
che '1 buono parliere innanzi pensi tutte le parti della causa per
accordare il mezzo e la fine colla comincianza del suo dire, si che
sia l'una parola nata dell'altra, sì dice esso medesimo che poi
25. che tutto questo eh' è fatto,(3) e trovato il giudicamento della
1 : M' che sia da dire poi —4: M' m om. in — 5 : M' la incomincianca,
m il comin- ciamento — 6: M' che nostera (corr. moslera), L mosterra, S
mostra — 7: if ' in prima — 9-10: M' anzi che cominci.... accio mestieri
— m sono mestiere — 11: M^ i\ suo drappo ordinatamente, L affare il s. d.
ordinatamente — 14 : M^ che si bisognano -17: M' che sono sei....
petitione invece di partigione — 20 : M^ a sofficientemente dem. — S3: M'
el Dne con la incomincianpa — M-m om. sì — 24: M om. nata — 25: M^-L
questo e facto (1) Tutti i codici hanno 7 daver 7 davere, che può esser
nato facilmente dall'aver preso il de' per la preposizione di. Tanto il
senso quanto la sintassi sa- rebbero poco chiari leggendo e d'aver.
(2) Preferisco la lezione di M perchè non è probabile che la parola
ordinata- mente, che si trovava in evidenza in fine al discorso, sia
sfuggita al copista. Forse l'aggiunta If' (L) fu determinata AaW
ordinatamente di poche righe prima. (3) Cioè " dopo che tutto
questo è fatto „ . Per il che pleonastico cfr. p. 20, n. 2, p. 21, n. 1 e
qui dopo p. 99, 1. 18. Le lezioni di M^ e di L si spiegano con quelle di
M-m, ma non viceversa. causa e ciò che vi bisogna secondo i comandamenti
di ret- torica (i quali si convengono trattare con molto studio e
con grande deliberazione) ; anco sopra tutto questo si con- vengojio
pensare l'altre parti della diceria, delle quali non 5. è detto neente, e
sono sei ; e di ciascuna per sé tratterà il libro interamente.
Lo sponitore chiarisce tutto ciò eh' è detto inn adietro. 2.
Et sopra questo punto, anzi che '1 conto vada più innanzi, piace allo
sponitore di pregare il suo porto, per 10. cui amere è composto il
presente libro non sanza grande afanno di spirito, che '1 suo
intendimento sia chiaro e lo 'ngegno aprenditore, e la memoria ritenente
a intendere le parole che son dette inn adietro e quelle che
seguitano per innanzi, sì che sia, come desidera, dittatore perfetto
e 15. nobile parladore, della quale scienzia questo libro è
lu- miera e fontana. 3. Et avegna che '1 libro tratti pur sopra
controversie et insegni parlare sopra le cose che sono in tendone, et
insegna cognoscere le cause e Ile questioni, e per mettere exempli dice
sovente dell'accusato e dell' ac- 20. cusatore, penserebbe per
aventura un grosso intenditore che Tullio parlasse delle piatora che sono
in corte, e non d'altro. 4. Ma ben conosce lo sponitore che '1 suo
amico è guernito di tanto conoscimento ch'elli intende e vede la
propria intenzione del libro, e che Ile piatora s'aparten- 25. gono
a trattare ai segnori legisti ; e che rettorica insegna dire
appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa no è pur di piatora
né pur tra accusato et accusatore, ma é sopra l'altre vicende, sì coinè
di sapere dire inn amba- sciarie et in consigli de' signori e delle
comunanze et in 30. sapere componere una lettera bene dittata. 5.
Et se Tullio dice che nelle dicerie intra le parti sono le constituzioni
e questioni e ragioni e giudicamento e fermamento, ben si dee
pensare un buono intenditore che tuttodie ragionano le 1: M'
Olii, vi — S: vi làlluro — 3: M liberalione - M ancora, m aiicir — 4 : m
le IKirli — 5: M-m oiii. per sé — 8-9: Mi cliel maestro.... più avanti —
iO: m questo libro — i3: m mii. clie son — M' seguiranno — i4: in per lo
innanzi — i8: vi insegni — o»n. o dinanzi a per — i9:m exenpro — 20: M-vi
7 penserebbe — .?;: if' trattasse — S2:m ha bene — 24-2.^: Af si
pertegnono - m 7 a singnorì — M-m le giustitio — 26- M' ap- postamento —
M' in sapere — 29: M 7 nele comunanze, (L e dello), mi delle co- munanze
— 31 : m trailo parti - 32: M-m im. e ragioni, e l'ermamento — m ohi. si
— 99 - genti insieme di diverse materie, nelle quali
adiviene sovente che ir uno ne dice il suo parere e dicelo in un suo modo
e l'altro dice il contrario, sì che sono in tencione ; e r uno appone e
l'altro difende, e perciò quelli che appone 5. contra l'alti-o è
appellato accusatore e quelli che difende èe appellato accusato, e quello
sopra che contendono è ap- pellata causa. 6. Onde se 11' uno appone e
l'altro niega, al postutto di questo non puote nascere questione se non
di sapere se quella cosa che niega elli l'à fatta o detta o no.
10. Ma quando l'uno appone e l'altro difende, sì è la causa
incominciata et ordinata tra lloro. Et questo è la consti- tuzione della
quale nasce la questione, cioè se Ila sua difesa è a ragione o no; e poi
ciascuno contende come pare a llui per confermare le sue parole e per
indebolire quelle del- 15. l'altro, sì come appare per adietro nel
trattato della que- stione e della ragione e del giudicamento e del
fermamento. Onde non sia credenza d'alcuno che, sì come dicono li
exempli messi inn adietro, che ORESTE e accusato in corte della morte di
sua madre ; ma le genti ne conten- 20. deano intra loro, che 11'
uno dicea che non avea fatto né bene né ragione, e questo è appellato
accusatore, un altro dicea in defensione d'Orestes ch'elli avea fatto
bene e ra- gione, e questo è appellato nel libro accusato.
De consiglieri. 25. 8. Così aviene intra' consiglieiù de'
signori e delle co- munanze, che poi che sono aserablati per
consigliare sopra alcuna vicenda, cioè sopra alcuna causa la quale è
messa e proposta davanti loro, all'uno pare una cosa et all'altro
pare un'altra; e cosi è già fatta la constituzione della causa, 30.
cioè eh' è cominciata la tencione tra lloro, e di ciò nasce questione s'
elli à ben consigliato o no. Et questo è quello che Tullio appella
questione. 9. Et perciò l' uno, poi ch'elli àe detto e consigliato quello
che llui ne pare, immante- 2 : M ndicc — M' di.cela — m in
suo modo ~ 3 : M' in contentione ~ 4: M n lalti-o appone, m laltio appone
— M-m quel — 6: M quello che, m quello di che — 7-9: m om. al
postutto.... che nioga — M che quella cosa — M' selgli la facta — il : m
cominciata — M' intra loro 7 questa — 13: M-m è ragione - 16: M om. il
1" e 3° e, hì il 1" e S° - 20 : m tralloro — dicea chelli — 21
: m o ragione — 22: m ave fatto — 25: M' adiviene - mi tra cons. — 27:
M-m. e in essa — 28: m davanti a loro — M-m om. cosa et — 30: M'
lantentione — 31 : M-m selli alta consigliato —
m che allui nente assegna la ragione per la quale il suo
consiglio èe buono e diritto. Et questo è quello che Tullio appella
ragione. 10. Et poi ch'elli àe assegnata la cagione e la ra- gione per
che, si sforza di mostrare perchè s'alcuno consigliasse o facesse il contrario
come sarebbe male e non diritto ; e così infievolisce la partita che è
contra il suo consiglio; e questo è quello che CICERONE lappella
GIUDICAMENTO. Et poi ch'elli àe indebolita la contraria parte, sì
raccoglie tutti i fermissimi argomenti e le forti ragioni 10. che
puote trovare per più indebolire l'altra parte e per confermare la sua
ragione ; e questo è quello che Tullio appella fermamente. 12. Et certo
queste quattro parti, cioè questione, ragione, giudicamento e fermamento,
possono essere tutte nella diceria dell'uno de' parlatori, sì
come appare in ciò eh' è detto di sopra. Et puote bene essere la sua
diceria pur dell'una, cioè pur infine alla questione, dicendo il suo
parere e non assegnando sopra ciò altra ragione. Et puote bene essere pur
di due, cioè dicendo il suo parere et assegnando ragione per che. Et
puote bene 20. essere pur di tre, cioè dicendo il suo parere et
assegnando ragione per che et indebolendo la contraria parte. Et
puote essere di tutte e quattro sì come fue dimostrato di sopra.
13. Quest' è la diceria del primo parliere. E poi ch'elli à consigliato e
posto fine al suo dire, immantenente si leva 25. un altro
consigliere e dice tutto il contrario che àe detto colui davanti ; e così
è fatta la constituzione, cioè la causa ordinata, e cominciata la
tenciouB ; e sopra i loro detti, che sono varii e diversi, nasce
questione, se colui avea bene consigliato o no. Poi dimostra la ragione
perchè il suo 30. consiglio è migliore. Apresso indebolisce il
detto e '1 con- siglio di colui ch'avea detto dinanzi da llui ; e poi
ricon- ferma il consiglio suo per tutti i più fermi argomenti che
può trovare. Adunque le predette quattro cose o parti possono essere nel
detto del primo parliere e nel detto 35. del secondo e di ciascuno
parlamentare. 14. Cosie usata- 3-4: M' la ragione 7 la
cagione.... clie s'olciin — 6: M' a diriclo — m la parie — 8:m om Et -
i5: M-m cagione, ragione ecc. — i4: 3f' d'uno — y5:3f'pare— i 6 : 3f-m om.
cioè pur — 17: m pero — M' altre ragioni — 18-19: M-m ohi. pur ~ M-m in
suo parere as- sengnanJo perche — SO: M' il suo pare — 21 : M^ la
contraria partita - SS: m di tulli e q. — 25-26: Jlf' tutto il contrario
di colui ca detto davanti — 27 : M' lunlcntione — m la tencionc sopra —
S8: M' om. sono -- M 7 se colui — 31-32: in rilennu — 3/' il suo consiglio
— 33: M' ([uattro jiarti — 33: M' ciascuno che vuole parlamentare
- 101 D. 10,
mente adviene che due persone si tramettono lettere l' uno
all'altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o inn altro, nelle
quali contendono d'alcuna cosa, e così fanno tencione. Altressi uno
amante chiamando merzè alla sua donna dice parole e ragioni molte, et
ella si difende in suo dire et inforza le sue ragioni et indebolisce
quelle del pregatore. In questi et in molti altri exempli si puote
assai bene intendere che Ha rettorica di Tullio non è pure ad insegnare
piategiare alle corti di ragione, avegna che neuno possa buono advocato
essere né perfetto (2) se non favella secondo l'arte di rettorica.
15. Et ben è vero ohe Ilo 'nsegnamento ch'è scritto inn adietro
pare che ssia molto intorno quelle vicende che sono in tencione et in
contraversia tra alcune persone, le 15. quali contendano insieme 1' uno
incontra l'altro; e potrebbe alcuno dicere che molte fiate uno manda
lettera ad altro nela quale non pare che tendoni centra lui (altressi
come uno ama per amore e fa canzoni e versi della sua donna, nella
quale non à tencione alcuna intra llui e la donna), é di ciò
riprenderebbe il libro e biasmerebbe Tullio e lo sponitore medesimo di
ciò che non dessero insegnamento sopra ciò, maximamente a dittare
lettere, le quali si co- stumano e bisognano più sovente et a più genti,
che non fanno l'aringhiere e parlare intra genti. 16. Ma chi volesse
bene considerare la propietà d'una lettera o d'una can- zone, ben
potrebbe apertamente vedere che colui che Ila fa o che Ila manda intende
ad alcuna cosa che vuole che 20.
25. 1: m adiviene - 3: M^ om. o inn altro ~ 6: m slorza
— 7 : m i molti — 9: m in insegnare - M' piatire — 10: M-m neuno buono
advocato possa essere perfetto— 11: M della rectorica — 13 : «i intorno a
(pielle — 15 : m chontendono — M' conlra.... 7 parebbo — 16: Mi molte
volte manda Inno lectere alaltro, m molto volte uno manda lettere a un
altro (ma ambedue nela (piale) — 17 : M che contenda tencioni — 18: 1/'
per amore, fa e, L uno che ama per amore fa e. — 19: m tra lui — 23: M-m
om. et — 24: m traile genti (1) Le parole inn altro,
che sembrano inutili, non possono essere un'ag- giunta di copisti, ai
quali invece doveva venir fatto di ometterle, come in M* e in i.Dando a
volgare il senso limitato di volgare italico, si intende l'altro per gli
altri linguaggi, specialmente il provenzale e il francese. Brunetto vuol
dire che la rettorica di CICERONE non serve solo ai legisti, quantunque
nessuno possa divenire valente avvocato, e tanto meno perfetto, senza
averla studiata. Questa è l'idea espressa dalla lezione di ilf • ; con
quella di M-m, più semplice a prima vista, non si spiega la relazione fra
buono e perfetto sia fatta per colui a cui e' la manda. Et questo
i)uote essere o pregando o domandando o comandando o minac- ciando
o confortando o consigliando ; e in ciascuno di questi modi puote quelli
a cui vae la lettera o la canzone 5. o negare o difendersi per alcuna
scusa. Ma quelli che manda la sua lettera guernisce di parole ornate e
piene di sentenzia e di fermi argomenti, sì come crede poter
muovere l'animo di colui a non negare, e, s'elli avesse alcuna scusa,
come la possa indebolire o instornare in 10. tutto. Dunque è una
tendone tacita intra loro, e così sono quasi tutte le lettere e canzoni
d'amore in modo di ten- done o tacita o espressa ; e se cosi no è, Tullio
dice manifestamente, intorno '1 principio di questo libro, che non
sarebbe di rettorica. Ma tuttavolta, o tencione o no 15. tencione
che sia, Tullio medesimo, luogo innanzi, isforza i suoi insegnamenti in
parlare et in dittare secondo la rettorica ; e là dove Tullio sine
pasasse o paresse che dica pur insegnamenti sopra dire tencionando, lo
sponitore isforzerà lo suo poco ingegno in dire tanto e sì intende-
20. volemente che '1 suo amico potrà bene intendere l' una materia
e l'altra. 18. Et ecco Tullio che incomincia a dire di quelle partite
della diceria o d'una lettera dittata, delle quali non avea detto neente
in adietro: e queste parti sono sei, sì come apare in questo
arbore. I e. 2 ^'Olii'
/^M/ 25. Queste sono le sei parti che Tullio mostra
certamente che sono nella diceria o nella pistola, specialmente
in i: m per cholui che la manda — 2: M' essere pregando — 3:
M-m o in — 6: Jf' manda guernisce la sua lederà d'ornati^ parole — il : M
tucto lelcrre, m tutte lettere o clianzoni, M' o lo cannoni - iS: M-m o e
tacita (mi o e sjirexa) - 13: m inloruo al pr. - 14-15: M' o di tenciono
o di non tencione — da quello luogo innanci inforfa — 16: M' IH secondo
rothorica ~ 18: M^ insegnauiento - 19: M' islbiva - intendevole - 21: M'
m comincia — 22 : M' ohi. o duna lettera dittala - 23: M indietro - 24: il'
pare in ipiesto albero - Nello gchetna M' ha l" l>roomio, 3»
Divisione, ó" Uisjwnsionc - SO: M-m 7 nella pistola (ma c/r. l.
22) quelle che sono tencionando, sì come appare nel detto
dello sponitore qui adietro ; e, sì come detto fue in altra parte di
questo libro, Tullio reca tutta la rettorica alle cause le quali sono in
contraversia et in tencione. Et ben . dice tutto a certo che Ile parole
che non si dicono per tencione d'una parte incontra un'altra non sono per
forma né per arte di rettorica. 19. Ma perciò che Ila pistola, cioè
la lettera dettata, spessamente non è per modo di tencio- nare né di
contendere, anzi è uno presente che uno manda 10. ad un altro, nel
quale la mente favella et é udito colui che tace e di lontana terra
dimanda et acquista la grazia, la grazia ne 'nforza e l'amore ne
fiorisce, e molte cose mette inn iscritta le quali si temerebbe e non
saprebbe dire a lingua in presenzia; sì dirae lo sponitore un poco
15. dell'oppinione de' savi e della sua medesima in quella parte di
rettorica ch'apartene a dittare, si come promise al co- minciamento di
questo libro. 20. Et dice che dittare é un dritto et ornato trattamento
di ciascuna cosa, convene volemente aconcio a quella cosa. Questa è la
diffinizione del 20. dittare, e perciò conviene intendere ciascuna
parola d'essa diffinizione. Unde nota che dice « dritto trattamento
» perciò che Ile parole che ssi mettono inn una lettera dit- tata
debbono essere messe a dritto, sicché s'accordi il nome col verbo, e '1 MASCUNINO
[sic MASCHILE -- MASCULINO] e '1 feminino, e lo singulare e '1 25.
plurale, e la prima persona e la seconda e la terza, e l'altre cose che
ssi 'nsegnano in gramatica, delle quali lo sponitore dirà un poco in
quella parte del libro che fie i)iù avenente; e questo dritto trattamento
si richiede in tutte le parti di rettorica dicendo e dittando. 21. Et
dice « ornato trat- 30. tamento » perciò che tutta la pistola dee
essere guernita di parole avenanti e piacevoli e piene di buone
sentenze; et anche questo ornato si richiede in tutte le i)arti di
ret- torica, sì come fue detto inn adietro sopra '1 testo di
Tullio. 22. Et dice « trattamento di ciascuna cosa » perciò che,
35. si come dice Boezio, ogne cosa proposta a dire puote
1:M' pare — 4:M oin. sono — m le quali e In contr. e tencione. Et dico —
5-6: M' non sodono — m om. per te.ncione — a un altro — 8 : M'de tencione
— iO : M' 7 ae udito —il: M' om. la grazia — 12-13: M la gra — M'
sinlorca — m/ molte cose — M' m in iscriptura — Mi non, ma L e non — 14:
m lo sponitore dira uno pocho — 16: M' om. di relto- rica — 19: M-m
aconcia a quella cosa, !/'-/> a quella cosa aconcia — 23: M-m adietro,
M' a diricto — 24-25: M' m el mascolino (m il maschulino)col leminino — 3/' el
plurale el singulare — M-m pulare — 27 : m fia M' in tutte parti — 33 :
M-m nel lesto — 34 : m om. Et — 35 : m si puote essere
materia del dittatore ; et in questo si divisa dalla sentenzia di Tullio,
che dice che Ila materia del parliere non è se non in tre cose, ciò sono
dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et dice « convenevolemente
aconcio a quella 5. cosa » perciò che conviene al dittatore asettare le
parole sue alla sua materia. Et ben potrebbe il dittatore dicere
parole diritte et ornate, ma non varrebbero neente s'elle non fossero
aconcie alla materia. 23. Così è divisato il dit- tatore da cciò che dice
Tullio; e perciò di queste due 10. materie, cioè del dire e del
dittare, e dello 'nsegnamento dell'uno e dell'altro potrà l'amico dello
sponitore prendere la dritta via. Et per questo divisamento conviene che
Ile parti della pistola si divisino da queste della diceria che
Tullio à detto che sono sei, ciò sono : exordio, narra- 15. zione,
partizione, conferm amento, riprensione e conclusione. 24. 1. E oppinione
di Tullio che exordio sia la prima parte della diceria, il quale
apparecchia l'animo dell' uditore a l'altre parole che rimagnono a dire,
e questo è appellato prologo della gente. //. Et dice che narrazione è
quella 20. parte della diceria nella quale si dicono le cose che
sono essute o che non sono essute, come se essute fossoro ; e
questo è quando uomo dice il fatto sopra '1 quale esso ferma la forma
della sua diceria. E dice che è partigione quando IL PARILERE à narrato e
contato il fatto et 25. e' si viene partiendo la sua, ragione e
quella dell'aversario e dice : « Questo fue cosi, e quest'altro così » ;
et in questo modo acoglie quelle partite che sono a lini più utili e
pivi contrarie all'aversario, et afficcale all'animo dell' uditore
; et allora pare ch'ai tutto abbia detto tutto '1 fatto. IV. Et
30. dice che confermamento è quella parte della diceria nella quale
il parlieri reca argomenti et assegna ragioni per le quali agiugne fede
et altoritade alla sua causa. F. Et dice che riprensione (1) è quella
parte della diceria nella quale il 5: Mi agoisare — 6: m om.
Et — 7 : M' non varrebbe — 8: M' j cosi e divisato da ciò — 10: Jf
maniere — i3: M^ da quelle — i6: M' Et oppinione di Tulio e, m Op-
pinione di Tulio e — M exordìa — 18: M rimagnono udite, m om. a dire — 21 : M
is- sate — 22: M 1 quando — M^ m l'uomo — om. esso 23 M' forma la sua diceria — 25 : M' edesso
viene partendo, m e viene ripetendo.... del chonpagno — 28 -. M7 nfììcale (?),
m e ficliale, M' 7 afficcalle — 29: M' paro cabbia detto — m detto il fatto -
30 : M' con- fermagione — 33: i mss. responsione — M-m 7 quella
(1) Non esito a scostarmi dai codici per la concorde lezione degli altri
luoghi, che corrisponde al latino reprehensio. Il passaggio da
reprensione a responsione è facilissimo attraverso un repensione.
I)arliere reca cagioni e ragioni et argomenti per li quali
attuta e menoma et indebolisce il confermamento dell'aver- sario. VI. Et
dice che conclusione è Ila fine e '1 termine di tutta la diceria. 25.
Queste sono le sei parti che dice 5. Tullio che sono e debbono essere
nella diceria; e di cia- scuna tratterà qua innanzi il libro
sofficientemente. Ma in questo eh' è detto puote uomo bene intendere che
queste sei medesime possono convenire inn una pistola, di tal ma-
teria puote ella essere. Ma tuttavolta, di qualunque materia 10.
sia, nelle tre di queste sei parti s'accorda bene la pistola colla diceria,
cioè nello exordio, narrazione e nella con- clusione; ma ll'altre tre,
cioè partigione, confermamento e reprensione, possono più lievemente
rimanere e non avere luogo nella pistola. Tutto altressì la pistola àe
cinque 15. parti, delle quali l'una può bene rimanere e non
avere luogo nella diceria, cioè «salutatio»; l'autra, cioè
«petitio», avegnachè Tulio no Ila nominasse in tra Ile parti della
diceria, sì vi puote e dee avere luogo in tal maniera ch'ap- pena pare
che diceria possa essere sanza petizione. Dunque 20. le parti della
pistola sono cinque, ciò sono salutazione, exordio, narrazione, petizione
e conclusione, sì come ap- pare in questo arbore :
26. Et se alcuno domandasse per qual cagione Tullio in- tralasciò la
salutazione e non ne trattò nel suo libro, certo 25. lo sponitore ne
renderà bene ragione in questo modo. Certa cosa è che Tullio nel suo
libro tratta delle dicerie che ssi l-S: m ragioni 7 cagioni
— Jlf' l'aiingatore — wn. cagioni e — per li ifiiali allassa - M-m il
fermamente — 3 : 3/' il line — 4-5 : m Questo.... che Tulio dico che debbono
essere — 6 : M' m illibro qua innanzi — 7 : jn luomo -- Af ' om. bone — m
che tutte 7 queste sei — 8-9 : M tal maniera — M-m da qualunque, M^ de
([ualunque — li : 3f' in exordio — M' m 7 conclusione —12: M' om. tre e
soitiiuisce di\hione rt partigione M salta dal lo al 2" aver luogo —
22: M' pare 'in questo albero — 24: ilf intrallassò, m lasciò — 25: Af'
ne renda, L ne rende - 26: M^ cliellibro di Tulio tracia —
106 - fanno in presenzia, nelle quali non bisogna di contare'!)
il nome del parlieri né dell' uditore. Ma nella pistola bisogna di
mettere le nomora del mandante e del ricevente, c'altri- mente non si
puote sapere a certo né l'uno né l'altro. 5. Apresso ciò, la salutazione
pare che sia dell'exordio ; che sanza fallo chi saluta altrui 'per
lettera già pare che co- minci suo exordio. Et Tullio trattòe dello
exordio com- piutamente, non curò di divisare della salutazione né
di- stendere il suo conto intorno le saluti, maximamente perciò
10. che pare che rechi tutta la rettorica a parlare et in con-
troversia tencionando. 27. Et in perciò furo alcuni che diceano che Ila
salutazione non era parte della pistolaj ma era un titolo fuor del fatto.
Et io dico che la salu- tazione è porta della pistola, la quale
ordinatamente chia- 15. risce le nomora e' meriti delle persone e
l'affezione del mandante. Et nota che dice « porta », cioè entrata
della pistola, e che chiarisce le nomora, cioè del mandante e del
ricevente; e dice «i meriti delle persone», cioè il grado e l'ordine suo,
sì come a dire: « Innocenzio papa», « Fe- 20. derigo Imperadore »,
« Acchilles cavaliere », « Oddofredi Judice », e cosi dell'altre gradora.
Et dice « ordinata- mente », cioè che mette il nome e '1 grado di
ciascuno come s'a viene; e dice «l'affezione del mandante», cioè
com'elli manda al ricevente salute o altra parola di bene, o per
25. aventura di male, secondo la sua affezione, cioè secondo la sua
volontade. 28. Adunque pare manifestamente che Ila salutazione è così
parte della pistola come l' occhio del- l' uomo. Et se l'occhio è nobile
membro del corpo dell'uomo, dunque la salutazione é nobile parte della
pistola, c'altressi 30. allumina tutta la lettera come l'occhio
allumina l'uomo. Et al ver dire, la pistola nella quale non à salutazione
è altrettale come la casa che non à porta né entrata e come '1
1 : M-m bisogna contare — S-3 : M' nome del dicitore — M-m bisogna
mettere - M 7 dell' uditore 7 del ricevente, m om. 7 del ricevente — M-m
7 altrimente — 4: M' non si porrebbe — 7-9: M-m om. dello exordio — non
curo divisare salutalione 7 distemdere - ìli intorno alle salutationi —
10: M' om. et — 11-12: M' Et jìerciò funro — ciie saluta- lione — 15: m e
mèli — 16: m om. Et -17: M-m om. 1° e, hi 01». cioè — S3 : M' om. di — 24
: M' 7 altra — 2,5 : M eirectione — m om. secondo la sua afTezione cioè — 26:
M' parte (ma t espunto) — 28 : M 3/' om. dell'uomo, m om. del corpo (A
completo) — 29: iW' e la salutatione n. p. — m e altres'i — 32 : il/' ne
jiorta (1) La lezione bisogna contare darebbe piuttosto il senso di
« conviene dire », mentre qui si richiede un «c'è bisogno di dire».
- Itì7 - corpo vivo che non à occhi. Et perciò falla
chi dice che salutazione è un titolo fuor del fatto; anzi si scrive e s'
in- chiude W e sugella dentro ; ma '1 titolo della pistola è la
soprascritta di fuori, la quale dice a cui sia data la lettera. 5. 29.
Ben dico c'alcuna volta il mandante non scrive la salu- tazione, o per
celare le persone se Ila lettera pervenisse ad altrui o per alcun' altra
cosa o cagione. (2) Né non dico che tutta fiata convenga salutare, ma o
per desiderio d'amore, o per solazzo, talora (3) si mandano altre parole
che 10. portano più incarnamento e giuoco che non fa a dire
pur salute. Et a' maggiori non dee uomo mandare salute, ma altre
parole che significhino reverenzia e devozione; e tal- volta no scrivemo
a' nemici altro che Ile nomora e tacemo la salute, o per aventura mettemo
alcuna altra parola che 15. significa indegnamento o conforto di
ben fare o altra cosa; sì come fa il papa che scrivendo a' giudei o ad
altri uomini che non sono della nostra catholica fede o a' nemici
della Santa Chiesa tace la salute, e talvolta mette in quel luogo
spirito di più sano consiglio o connoscere la via della veritade
20. o ahundare inn opera di pietade et altre simili cose. 30.
Adunque provedere dee il buono dittatore che, si- milemente come saluta
l'uno uomo l'antro trovandolo in persona, così il dee salutare in lettera
mettendo et ador- nando parole secondo che la condizione del ricevente
ri- 25. chiede. Che quando uomo va davante a messer lo papa o
davante ad imperadore o a alti-o segnore ecclesiastico o seculare, certo
elli va con molta reverenzia et inchina la testa, et alla fiata si mette
in terra ginocchioni per basciare 2-3: M' anche — M-ìn si
richiude — M' ma titolo — M 7 \a. s. — 5 •m iscrive salu- tatione — 6-7:
M' venisse ilata altrui per alcuna cagione — Mo per cagione dalcunaltra
cosa cagione ; m id., ma oiii. cagione — 8-9 : M^-L ma ora per d. d'a. or
(ina L 0) per s. si man- dano, M-m per solazzo di loro si mandano — il:
M' a maggiore — M-m non debbono - 12: M* che significanza abbiano di
revercntia 7 dev. — 13-14: M' a nomici non scrivemo — M-m 7 per aventura
—16: M-m il papa scrivendo... om. altri —19: M-m di chonnoscere — M'
conoscere via de veritade— 20: M' opere (mai opera) — om. altre — 21 il/' dee prevedere — 22 M' un huomo un altro— ^ó:ni Quando
luomo — 26:M' davanti imperadore od altro, >« davante a lom- j)eradore
— 27 : Jf certo e va - ^S: in M una macchia cunpre in — M' ginocohione in
terra (1) S'inchiude è più esatto di si richiude. Lo scambio
fra n e l'i occorre altre volte: cfr. p. 37, n. 1. (2) In 3f
e' è qualcosa di troppo. Non importa dire che m ha accomodato di suo,
perchè la parola cagione come finale è confermata da M'; forse 1' errore
nacque dall'avere scritto subito pei- cagione e voler poi
rimediare. (3) Scrivo così per avere un senso, ma non presumo
davvero di avere indo- vinato; potrebbe anche mancare qualche
parola. — 108 - il piede al papa o allo
'mperadore. Tutto altressì dee lo dettatore nominare lo ricevente e la
sua dignitade coij parole di sua onoranza e metterlo dinanzi ; apresso
dee nominare sé medesimo e la sua dignitade, e poi dee scri- 5.
vere la sua affezione, cioè quello che desidera che venga a colui che
riceve la lettera, sì come salute o altro che sia avenante, tuttavolta
guardando che questa affezione sia di quella guisa e di quelle parole che
ssi convegnono al man- dante et al ricevente. 31. Che quando noi scrivemo
a' magio, giori di noi o di nostro paraggio o di minore grado, noi dovemo
mandare tali parole che ssiano accordanti alle persone et allo stato
loro. Et non pertanto eh' io abbia detto che '1 nome del maggiore si de'
mettere dinanzi e del pare altressì, io oe ben veduto alcuna fiata che
grandi 15. principi e signori scrivendo a mercatanti o ad altri
minori , mettono dinanzi il nome di colui a cui mandano, e questo è
contra l'arte ; ma fannolo per conseguire alcuna utilitade. Perciò sia il
dittatore accorto et adveduto in fare la saluta- zione avenante e
convenevole d'ogne canto, sicché in essa me- 20. desima conquisti la
grazia e la benivoglienza del ricevente, sì come noi dimostramo avanti
secondo la rettorica di Tullio. 32. Et bene è questa materia sopr'alla
quale lo sponitore po- trebbe lungamente dire e non sanza grande
utilitade. Ma considerando che Ila subtilitade perché '1 verbo non si
mette 25. nella salutazione, e che "1 nome del mandante si mette in
terza persona per significamento di maggiore umilitade, e che tal fiata
si scrive pur la primiera lettera del nome, par che tocchi più a'
dittatori IN LATINO che’n VOLGARE, sene passex'à lo sponitore brevemente
e seguirà la materia di Tullio per dicere dell'altre parti della diceria e
di quelle della pistola, sì come porta l'ordine. Et in questo luogo
si parte il conto della salutazione, e dirà dell' exordio in due guise. L’una
secondo ciò che nne dice Tullio e che i : M' y
allomperudoi'o — S-3: M-m dignilailo corporale di — m aggiunge di reve-
renza 7 ^ 4: M^ nm. S" e — 3: M-m oirectione — ([nella — 7 : m tuttavia —
M' guani ino clic l'airectione — 9-10: M' ali maggiori — M-m ili nostro
.grado — i2: M' alloro slato — M-m om. ch'io abbia dolio — i3: in il nome
— M' si debbia — 13-16: m sengnori — M-m scrivono -- m e mellone — M'
elgli mandano — 17: Af-w por sognile — 18: mom. et adveduto — 19: M'
dongiii jìarle — 20: M-mnm.ìa grazia e — 21-SS: il/' dimoslor- remo, m
dimostraiiio davanti — Af' m Et bene cpiesta — 24: JZ-m uhella subtitade, A/'
che sotti! itude — 23: M<- in salutalione 7 perche! nome — 26: M-m
utilitade — 27: M' 7 per- che.... pur una lederà — m la prima — 28: m om.
in Ialino — 31-32: L Et in questa parte — ilf' dala salutalione — 33: M'
om. ci6 — 109 - pare che ss'apartegna a diceria,
l'altra secondo che ssi con- viene ad una lettera dittata et ad una
medesima diceria, oltre quello che porta il testo di Tullio.
Exordio. 5. 77. Et perciò che exordio dee essere principe di
tutti, e noi primieramente daremo insegnamenti in fare
exordio. Sponitore- I. Vogliendo Tullio trattare dell'
exordio prima che dell'altre parti della diceria, sì ll'apella principe
dell'altre 10. parti tutte ; e certo è de ragione (i) : l' una perciò che
ssi mette e si dice tuttora davanti a l'autre, l'altra perciò che
nel exordio pare che noi aconciamo et apparecchiamo r animo dell' uditore
ad intendere tutto ciò che noi vo- lemo dire di poi. 15.
Dell' exordio. 78. (e. XV) Exordio è un detto el quale acquista
convene- volemente 1' animo dell' uditore all' altre parole che sono a
dire ; la qual cosa averrà se farà l' uditore benivolo, intento e
docile. Per la qual cosa chi vorrà bene exordire la sua causa, ad
lui 20. conviene diligentemente procedere e conoscere davanti la
qualitade della causa. Lo sponitore. 1. Poi che
Tullio avea contate le parti della diceria, sì vuole in questa
parte trattare di ciascuna per se divi- 25. satamente, e prima
dello exordio, del quale tratta in questo 2 : Af' e la
diceria medesima — 3: m oltre a quello — 5 : M-mom.e — 6: M' oxordii —
iO: m nm. tutte — M-m certo e (m a) ragione, L e certo eglie ragione — 10-li M'
luna pei che, m luna che — M-m 7 davanti si dice — 13-14 : m quello die
noi poi volerne diro — M' dire poi — 18: m dolce (cosi sempre in seguito)
— 20 : M' converrà — om. procedere e — 24 : M' divisamente, ma L
divisatamente Questa lezione è quella che spiega meglio le altre:
soppresso il de, nacque è ragione di M, che m, colla pretesa di
accomodare,' peggiorò in a ragione; la variante di L deriva certo dal non
aver inteso il significato di de ragione (= se- condo ragione).
- no - modo: Primieramente dice che è exordio,
mostrando che tre cose dovemo noi lare nell'exordio, cioè fare che 11'
udi- tore davanti cui noi dicemo sia inver noi benivolente et
intento e docile a cciò che noi volemo dire. Et perciò ne 5. conviene
connoscere la qualitade del convenente sopra '1 quale noi dovemo dire o
dittare. 2. Nel secondo luogo divide l'exordio in due parti, cioè
principio et « insinuatio », e mo- strane in qual convenentre noi dovemo
usare principio et in quale « insinuatio ». 3. Nel terzo luogo ne fa
intendere 10. donde noi potemo trarre le ragioni per acquistare
beni- voglienza et intenzione e docilitade, e come noi dovemo
queste tre usare in quello exordio eh' è appellato principio e come in
quello eh' è appellato « insinuatio ». 4. Nel quarto luogo pone le virtù
e' vizi dell'exordio. 5. Et perciò dice 15. che exordio è uno
adornamento di parole le quali il par- lieri e '1 dittatore propone
davanti nel cominciamento del suo dire in maniera di prolago, per lo
quale si sforza di dire e di fare sì che l'uditore sia benivolo verso
lui, cioè che Ili piaccia esso e '1 suo parlamento, e procacciasi
di 20. dire e di fare sì che l'uditore sia intento a llui et al
suo detto; similemente si studia di dire e di fai'e sì che 11' udi-
tore sia docile, cioè che pi'enda et intenda la forza delle parole. 6. Et
perciò dico che immantenente che 11' uditore è docile sicché voglia
intendere e connoscere la natura 25. del fatto e la forza delle
parole, sì è elli intento ; ma perchè l' uditore sia intento a udire,
puote bene essere che non sia docile ad intendere. Et di ciascuno di
questi tre dirà il conto quando verrà il suo luogo. 7. Ma perciò che '1
par- liere che non conosce dinanzi di che maniera e di cliente
30. ingenerazione sia la sua causa non puote bene advenire alle tre
cose che sono dette inn adietro, cioè che 11' uditore sia benivolo,
intento e docile, si dicei'à Tullio quante e quali sono le generazioni
delle cause, in questo modo: 1 : m Prima — MM' nm. è — 2-3 :
m liiditore sia inverso noi benivolo intonlo 7 dolco a quello ecc. — 4-5:
m ci conviene — 7-8: m nm. et — e mostra — 9: M' nensegna, L insegna dove
— JO: M' potremo — ii: M' ,allenlione - 13: M nm. in — 15: m i parlieri,
M' il parladore —17: M' perla (piai cosa — 19: ni jiiaoci il suo p. —
procliac- cisi — 20 : M-m 7 fare sicché — m attento — 21 : M' 7 fare — 22
: il/' ciò che imprenda — «1 le parole — ^.5: hi nm. e la l'orza delle
i>arole - 26: m che non 0—27: M' ohi. tre — 28-29: M' vorrà suo luogo
— chel dicitore — 7 di che ìnjj. - Ili -
Qualitadi delle cause. 79. Le qualitadi delle cause sono
cinque: onesto, mirabile vile, dubitoso et oscuro.
Sponitore. 5. I. In questa picciola parte nomina Tullio le
qualitadi delle cause, cioè di quante generazioni sono le
dicerie. Et s' alcuno m' aponesse che Tullio dice contra ciò che
esso medesimo avea detto in adietro, cioè che le generazioni e le
qualitadi sono tre, deliberativo, dimostrativo e iudiciale, 10. et
or dice che sono cinque, cioè onesto, mirabile, vile, du- bitoso et
oscuro, io risponderei che Ile primiere tre sono qualitadi substanziali
sie incarnate alhi causa che non si possono variare. Onde quella causa
eh' è deliberativa non puote essere non deliberativa, e quella eh' è
dimostrativa 15. non puote essere non dimostrativa ; altressì dico
della iudi- ciale. 2. Ma quella causa eh' è onesta puote bene essere
non onesta, e quella eh' è mirabile puote essere non mirabile, e
così dico della vile e della dubbiosa e della oscura. Adunque sono queste
qualitadi accidentali che possono 20. essere e non essere; ma le
prime tre sono substanziali che non si possono mutare.
Dell'onesta. 80. Onesta qualitade di causa è quella la quale
incontanente, sanza nostro exordio, piace all'animo dell'uditore.
25. Lo sponitore. I. Quella causa è onesta sopr'alla quale
dicendo parole, immantenente, sanza fare prolago, l' animo dell' uditore
si muove a credere et a piacere le parole che '1 parliere dice sopra
'1 convenente ; et in questo non fa bisogno usare pa- 3: M'
dubbioso — 7 : M' m cholgli medesimo — 8: M-m om. elio - M^ li generi —
10: M' dubbioso — 1 1: m io rispondo che le prime tre — 13 -.M' puole — 13-14:
M-m ml- lann dal lo al S° deliberativa — 15 : M-m essere dimostrativa —
17 : L bone essere bene non mir. — 19: M-m om. queste — 23: M
incontenenlo — 27: M-m mantenente iole per acquistare la
benivoglienza dell'uditore, perciò che ll'onestade della causa l'à già
acquistata per sua di- gnitade, sì come nella causa di colui che accusa
il furo o che difende il padre o l'orfano o le vedove o le chiese.
5. Mirabile. 81. Mirabile è quello dal quale è straniato
l'animo di colui che de' audìre. Sponitore. I.
Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale 10. convenente che
dispiace all'uditore, perciò eh' è di sozza e di crudele operazione. Et
perciò l'animo dell'uditore è centra noi et è straniato dalla nostra
parte; et in questo abisogna d'acquistare benivolenzia sì che l'uditore
intenda, sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo padre
15. o fatto furto o incendio. 2. Dunque potemo intendere che una medesima
causa puote essere onesta e mirabile : onesta dall'una parte, cioè di
colui che difende il suo padre, mi- rabile dall'altra parte, cioè di
colui medesimo che è coutra la sua madre propia. E di questo uno exemplo
si puote 20. intendere tutti i somiglianti. Del vile.
82. Vile è quello del quale non cura l'uditore e non pare che sia
da mettere grande opera a intendere. Lo sponitore. 25.
1. Quella causa è appellata vile la quale è di picciolo convenente,
sì che non pare che ne sia molto da curare e l'uditore non sine travaglia
molto ad intendere, sì come la causa d' una gallina o d'altra cosa che
sia di poco valere. Et in questa causa dovemo noi procacciare di fare sì
che 30. ir uditore sia intento alle nostre parole.
1: M' om. la — id: M' o l'uiiiino - i2: vi e straniato — i3: M' bisogna —
14: M-m om. nella oanaa di colui c'avcsso morto — 15: M a facto, m a
l'atto — 19: M\a sua iiropria madre — 26: M-m om. ne — 27 : M' non si
maraviglia — 28: hi di jioclio valoro, Jt/' de piccolo valoro — 89: Mi
nm. di l'are si Dubitoso è quello nel quale o la sentenzia è dubia
o la causa è In parte onesta et In parte è sozza e disonesta,
sicché Ingenera benlvolenzla e offenslone. 5.
Sponitore. I. Quella causa è appellata dubitosa nella quale l'uditore
non è certo a che la cosa debbia pervenire o a che sentenzia alla fine
torni, sì come nella causa d'Orestes che dicea ch'avea morta la sua
madi*e giustamente per due 10. ragioni : 1' una perciò ch'ella avea
morto il suo padre, l'altra perciò che '1 deo APOLLO glile comandò. Onde
l'uditore non è certo la quale di queste due cagioni cagia in
sentenzia. Altressì è dubitosa quella causa nella quale àe parte
d'onestade e perciò piace all'uditore, et àe parte di diso- 15
nestade e perciò dispiace all' uditore, si come nella causa de filio: O
d'un furo che fue accusato d'un furto e '1 suo figliuolo si sforzava (ii
difenderlo in tutte guise. Certo la causa era onesta quanto in difender
lo padre, ma era diso- nesta quanto in difendere lo furo. 20.
Dell'oscuro. 84. Oscuro è quello nel quale l' uditore è tardo, o
per aventura la causa è Iv^plgllata di convenentl troppo malagevoli a
conoscere. Lo sponitore. 1. Dice Tullio che quella
causa è appellata oscura nella 25. quale l'uditore è tardo, cioè
che non intende ciò che portano le parole del dicitore sì bene ne
sì tosto come si conviene, perciò che non è forse ben savio o forse
eh' è fatigato per 2: M-m eia sentenzia — 3: M' in parte
socca — 4: M-m o offensione — 7-8: M' o in clie sententia torni ala fino
— 10: m il suo marito — li: M chel deo apellollil, m chello lio appello
il, M^-L che dio appello glile comando — 13: M' quella parte dove parte —
16: M do fili?, *i demi?, Mi-L dun figluolo dun ladro - do furto, el figUiolo ~
17 : m s\ sforza — 19: M' lo furto — 24: ino oschura apellata — 23-26:
3f-»i portava — del dicta- tore - M' om. nò, L e si tosto, m o si tosto ~
27:M' om. il 1" forse — M-m 7 forse - faligata (1)
L'abbreviatura insolita ài M e m porta a supporre una formula giuridica
latina, quantunque tale abbreviatura non sembri equivalere proprio a un de
filio (la lezione di M'-L è certamente secondaria). forse nella sigla si
nasconde qualche nome proprio? li detti d'altri parlieri che aveano
detto innanzi; o per aventura la causa è impigliata di cose e di ragioni
che sono oscure e malagevoli ad intendere. Della divisione
dell' exordio. 5. 85. Et perciò che Ile qualitadi delle cause sono
tanto diverse, sì convene che li exordii siano diversi e dispari e
non simili in ciascuna qualitade di cause; per la qua! cosa exordio si
divide in due parti, ciò sono principio et « insinuatio ». Lo
sponitore. 10. I. Perciò - dice Tullio - che le generazioni e le
quali- tadi delle cause sono tanto diverse, cioè che sono in
cinque modi sì come detto è qui di sopra, e l'uno modo non è accordante
all'altro, sì conviene che in ciascuna qualità di cause et in catuno de'
detti cinque modi abbia suo modo 15. di fare exordio, tale che ssi
convegna alla qualitade so- pr'alla quale noi dovemo parlamentare o
dittare. 2, Et vogliendo Tullio insegnare ciò apertamente, sì dice
che exordio è di due maniere : una eh' è appellata principio et
un'altra ch'jè appellata « insinuatio » ; e di ciascuna dirà elli
20. interamente. E così dovemo e potemo sapere che le cause sopra
le quali dice alcuno parlieri o sopra le quali scrive alcuno dittatore
sono cinque, cioè sono: onesto, mirabile, vile, dubitoso et oscuro, sì
come apare in adietro. Et sopra tutte qualitadi sono due modi de exordio
e non più, cioè 25. principio et « insinuatio ». Del
principio. 86. Principio è un detto il quale apertamente et in
poche parole fa l'uditore benivolo o docile o intento. Lo
sponitore. 30. 1. Quella maniera de exordio è appellata
principio quando il parlieri o '1 dittatore quasi incontanente
alla 1 : M^ parladori — 3: M' mn. oscuro o — fi: m diversi,
dispari — 7:m di cose — 8:M' cioè principio 7 insiniiatione (sempre) — /
i : m dolio cose — M' dele qualitadi sono tante divei-se -- Melo che
sono— 13: M' coU'altro — i4-i5: M' si abbia s. m. in fare — A/' «hi.cìò —
18-19: m una che apjinllala ins. 7 una che ajiiiollata pr., M' uno che
sajiplla pr. 7 un altro che apellnlo ins.,7 di ciascuno — 21 : vi
.ilchimo parlinre dice — M-m 7 sopra — M' dice alcuno dictalon» — 22: M-m
honesta - 23: M* jiare — 31 : M' il dicitore ol dictatore — M-m
incontenonte comincianza del suo dire, sanza molte parole e
sanza neuno infingimento ma parlando tutto fuori et apertamente, fa
l'animo dell'uditore benvolente a llui et alla sua causa, o talora il fa
docile o intento, si come fece Pompeio par- 5. landò a' Romani sopra '1
convenente della guerra con Julio Cesare, che fece tale exordio : «
Perciò che noi avemo il diritto dalla ifostra parte e combattemo per
difendere la nostra ragione e del nostro comune, si dovemo noi
avere sicura spei'anza che li dii saranno in nostro adiuto ». (i) ■
10. Dell' insimiatio. 87. Insinuatio è un detto il quale, con
infingimento parlando dintorno, covertamente entra nelF animo
dell'uditore. Lo sponitore. \. Tullio dice che quella
maniera de exordio è apellata 1.5. « insinuatio » quando il
parlieri o '1 dittatore fa dinanzi un lungo prolago di parole coverte,
infingendo di volere ciò che non vuole, o di non volere quello che dee
volere, e così va dintorno con molte parole per sorprendere l'animo
dell'uditore sì che sia benevolo o docile o intento; sì come 20.
disse Sino parlando a coloro che riteneano la sua persona in gravosi
tormenti: « Insin a oi"a v'ò io pregato che mi traeste di tante pene
; oimai non dimando se non la morte, ma grandissimi tesauri avrei dato a
chi m' avesse scam- pato ». Et in questo modo covertamente s'infingea di
non 25. volere quello che volea, per venire in animo di loro che
Ilo scampassero per avere, da che mercè non valea. 2. Et cosie à
divisato il conto che è principio e che è «insinuatio»; omai dicerà quale
di questi due modi de exordio dovemo usare in ciascuno de' cinque modi
delle cause, cioè nell'onesto, 30. nel vile, nel mirabile, nel
dubitoso e nell' oscuro. i: M' alancomincianza — m sanza
alcliuno - 2-- M' om. et — 3: M' benivolente, m benivolo — M^ o ala sua
causa — 4 : m come fé — 5-6: M' a Romani parlando del convenente, —
cotale — 9: M diede saranno — IS: m intorno — 15: M-m i parlieri, M' il
parliere — M o dictatore — 17 : m quello che non vuole — iW' in (juello che
vuole — 20-21 : L Sitio — m teneano... gravi tormenti — 2S: M' oggimai
non domando io — 23: M' dati — wi dato chi — 26: m merco domandare — 27:
M' a divisatoli maestro — 28 : M-m (|uali — M' noi dovemo — 29: M' de
cause, M in ciascuno di delle causo, m in ciascheduna delle chause
(1) Per tutte le citazioni di autori classici, che da questo punto alla
fine son molto frequenti, rimando al mio studio su La «Rettorica»
italiana di Brunetto Latini pp. 35-50; ivi son ricercate e discusse le
fonti di questi esempii, e così riesce anche piti facile rendersi conto
della costituzione del testo. Della mirabile. 88. Nella
mirabile generazione di causa, se il'uditore non fosse al tutto turbato
contra noi, ben potemo acquistare benivoglienza per principio. Ma s'ei
troppo malamente fosse straniato ver noi, allora 5. ne conviene
rifuggire a « insinuatio », in però che volere così isbri- gatamente pace
e benivoglienza dalle persone adirate non solamente non si truova, ma
cresce et infiamasi l'odio. Lo sponitore. 1. Inn
adietro è bene detto che quella causa è appel- lo, lata mirabile la quale
è di rea operazione, sicché pare che dispiaccia all'uditore. Et perciò
dice Tullio CICERONE che quando la nostra causa è mirabile puote bene
essere alcuna fiata che Il'uditore non sia del tutto coruccioso contra
noi. Et allora potemo noi acquistare la sua benivolenza per quel
modo 15. de exordio eh' è appellato principio, cioè dicendo un
breve prologo in parole aperte e poche. 2. Ma se 11' uditore fosse
adiroso e curicciato contra noi malamente, certo in quel caso ne conviene
ritornare ad altro modo de exordio, cioè « insi- nuatio », e fare un bel
prologo di parole infinte e coverte, 20. sicché noi possiamo mitigare l'
animo suo et acquistare la sua benivolenza e ritornare in suo piacere.
Ch'ai ver dire, quando l' uditore èe adirato e curiccioso, chi volesse
acqui- stare da llui pace così subitamente per poche et aperte
parole dicendo il fatto tutto fuori, certo non la troverebbe, 25. ma
crescerebbe l' ira et infiamerebbe l' odio ; e perciò dee andare dintorno
et entrarli sotto covertamente. Della causa vile. 89.
Nella causa la quale è di vile convenente, per cagione di trarrela di
vilanza e di dispetto, ne conviene fare l'uditore intento. S
: M-m Della mirabile — ?» e solluditoro — 3 : M^ del tutto — 4 : 3/' se — m se
troppo fosse crucciato — 5: Mi fuggire — m ci conviene.... chosi di
presente - 7: m crescesi — 9: M-m ubiamo detto — i2: M^ alcuna volta —
13: m crucciato — 14: M' potremo (ma L lìotemo) — 15: M-m in breve — 17 :
M' iroso 7 crucciato verso noi, m adirato contra noi molto, — 18: m
tornarne — M alaltro modo —19: M-m nni. fare — converte — M iulì- nito —
20: M' otii. la — SS: M^ cruccioso, m crucciato — S3: in per i)Oclie
)iaroIo 7 aperte — S6: M-m darò dintorno — M entrali, M' intrarli, wi
rilrarlo sottilmente sotto coverta — S8 : M e diviene convenente m
udiviene e. — S9 : M' trarla de viltanca 7 de dispregio
117 — Lo sponitore. I. Quando la nostra
causa ella è vile, cioè di piccolo convenente sicché l' uditore poco cura
d' intendere, allora ne conviene usare principio et in esso fare che 11'
uditore 5. sia intento alle nostre parole; e questo potenio ben
fare traendola di viltanza e facciendola grande et innalzandola, sì
come fece Virgilio volendo trattare de l'api: «Io dicerò cose molto
meravigliose e grandi delle picciole api ». Della dubbiosa
qualità. 10. 90. Nella dubbiosa qualità di causa, se Ila sentenza è
dubbia si conviene incominciare l'exordio dalla sentenzia medesima.
Ma se Ila causa è in parte onesta e in parte disonesta si conviene
acqui- stare benivolenzia, sicché paia che tutta la causa ritorni in
onesta qualitade. 15. Lo sponitore. I. La causa
dubitosa, si come fue detto in adietro, èe in due maniere: 1' una che Ila
sentenzia è dubbia, sì come apare nelF exemplo d' Orestes, che per due
ragioni e cagioni dicea ch'avea ben fatto d'uccidere la madre. Et in quel
caso 20. dovea elli incuninciare il suo exordio da quella
ragione dalla quale (0 elli più ferma nel suo animo di voler pro-
vare, e per la quale crede avere la sentenzia inn aiuto. 2. Ma se '1
convenente è dubitoso perciò che sia in parte onesto et in parte
disonesto, in quello caso dee il buono parlieri 25. neir exordio
acquistare la benivolenzia dell' uditore per principio, sicché tutta la
causa paia che sia onesta. 2: M' m om. ella — m cioè di vile
convenente 7 di picciolo — ,9: 3f' -Ldelontendere — 4-5 : M 7 mezzo, m e
mezzo a fare... atento — 6: m vilanza, >/' vllezza 7 inalr. et f. g. —
7 : m tràre — 8: M' om. molto — iO: M' Dela dubitosa — li: m cominciare — i2 :
M-in om. è in parte onesta — M' parte lionesla 7 parlo dis. — i7 : M-m
cliella causa — hi dub- biosa — i8: M> om. apare — cagioni 7 ragioni —
m om. 7 cagioni — 19-20 : m in questo dovea elli com. — 21 : M' la (juale
— 22: M-m 7 per qua! (?;i om. 7) — M' sigli crede davere — 23: m om. sia
— M'-L honesta.... disonesta — 25: M' acquistare nelexordio benivolenca
daluditore — M libenivolentia — 26 : M-m om. che sia (1) Cioè «
fondandof3i sulla quale egli si propone di dimostrare la sua causa >.
L'oscurità della frase ha determinato la falsa correzione in ilf'.
118 - La causa onesta. 91. Quando la causa
fie onesta, o potemo intralasciare lo prin- cipio, 0, se ne pare
convenevole, comincieremo alla narrazione o dalla legge, o d' alcuna
fermissima ragione della nostra diceria. 5. A\a se ne piace usare
principio, dovemo usare le parti di benivo- glienza per accrescere quella
che è. Lo sponitore. 1. Quando il conveniente sopra '1
quale ne conviene dire è onesto, certo per la natura del fatto propia
avemo noi la 10. benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento
di pa- role. Perciò quando noi venimo a dire (l) noi potemo bene
intralasciare lo principio e non fare neuno exordio né prolago di parole,
e cominciare la nostra diceria alla nar- razione, cioè pur dire lo fatto;
e bene potemo cominciare 15. da quella legge che tocca alla nostra
materia o da quella ragione che sia più fermo argomento e più certo. 2.
Ma se nne piace usare ijrincipio e fare alcuno prologo, certo noi
lo potemo bene, non per acquistare benivolenza ma per crescere quella che
v' è. Et perciò in detto caso il nostro 20. principio dee essere in
parole apropiate a benivolenza. Della causa ohscura.
92. (e. XVI) Nella causa la quale è oscura conviene che nel nostro
principio noi facciamo che ir uditore sia docile. Lo
sponitore. 25. 1. In adietro fue dimostrato qual causa e quando
sia oscura. Et perciò dice Tullio che nella causa la quale
sia 2 : M' m tia — 3 : i« / Se ci paro — -i : M-m o alla legge,
J/' o data leggo — M o alcuna, )/i adalcluina, Mi o dalcuna — 5: Miw
paro, m non paro — 6 : il/i om. che h - 9: M-m nm. certo - facto pro])io
— iO: M-m sanja molto ailorn. — i i : Mi j perciò — M noi doviamo a dire,
m noi doviamo diro — i2: m alchuno oxordio — 13-15: M-m no comin- ciare ~
M' 1 cominciare do quella legge - M-m o a ([uolla ragione — 16: M' la
(jualo sia — 18: M' ben faro — 19: M-m il docto, M' in (juesto caso — 25:
M' mostrato (|ualo causa e 7 (juando sia (ma L ([uando sia) — 26: M' la
quale e (Cioè «quando cominciamo a parlare». L'accordo di Jlf e JVf
' ronde sicuro a dire, e con questo si escludo la lezione, buona in
apparenza, di m {doviamo dire) come evidente accomodamento di M.
oscura all' uditore a intendere noi dovemo usare quella parte de
exoi'dio la quale è appellata principio, et in quello dovemo noi si dire
che 11' uditore sia docile, cioè ch'elli intenda e ch'elli senta la
natura del fatto, in que- 5. sto modo: che noi diremo in poche parole
sommatamente la sustanzia del fatto dell' una parte e dell' altra. Et
poi che noi vedremo che U' uditore sia apparecchiato in via d'
intendere (1) il fatto, noi andremo innanzi a dire la nostra ragione sì
come si conviene al fatto. 10. Le ragioni delle cose.
93. Et perciò che infìn ad ora noi avemo detto che ssi con- viene
fare nell' exordio, oimai rimane a dimostrare per quali ra- gioni
ciascuna cosa si possa fare. Sponito7-e. Infino a
questo luogo à insegnato Tullio tutto ciò che ssi conviene dire o
fare nello exordio; e perciò ch'elli àe detto in quale exordio ed in qual
causa ne conviene usare parole per acquistare benivolenza, sì vuole elli
da qui in- nanzi mostrare le ragioni come si puote ciò fare ; e
questo 20. insegnamento fa bene di sapere. De' quattro
luoghi della temperanza. 94. Benivolenza s' acquista di quatro
luogora : dalla nostra persona, da quella de' nostri adversarii, da
quella dell! giudici e dalla causa. 25. Lo sponitore.
I. In questa parte insegna Tullio acquistare benivo- lenza, e
perciò ch'ella non si puote avere se non per quello che ss' apartiene
alle persone et al fatto, sì dice che quattro luogora sono dalle quali
muove benivolenza. Il primo luogp i: if-»» om. all'uditore a
intendere — 2.M^As lexordio — 4: Af' chela intenda et senta - 5: m dopo
diremo r(pe(e in ([uesto modo — 6:m la natura — om. Et — 7-8: 3f'
apparecchiato intendere, m-L
appareccliiato a intendere — 12: m a mostrare — 15: M-m In ipiosto luogo
— om. tutto - 17: M-m 7 di qual causa, M' iu quale causa, i e in quale
causa — M-m luoghi, della nostra p. — 27-28: M' da quello... alla persona
(1) L' espressione certamente è ridondante {in via sembra quasi una
variante di apparecchiato), e perciò quasi tutti i testi l' hanno ridotta
alla forma pili sem- plice e comune. Il segno 7 di M' deriva da una
errata lettura di a, che anche in quel codice ha una forma simile alla
nota tironiana. si è la nostra persona e di coloro per cui noi
dicemo. Il secondo luogo si è la persona de' nostri adversarii e di
coloro contra cui noi dicemo. Il terzo luogo si è la persona de' giudici,
cioè la persona (l) di coloro davanti da cui noi 5. dicemo. Il quarto
luogo si è la causa e '1 fatto e '1 conve- nente sopra '1 quale noi
dicemo. E di ciascuno di questi dicerà il conto ordinatamente e
sofficientemente. Tallio sopra lo lìvolago. 95. Dalla
nostra persona se noi dicemo sanza superbia de' 10. nostri fatti e de'
nostri officii; e se noi ne leviamo le colpe che nne sono apposte e le
disoneste sospeccioni; e se noi contiamo i mali che nne sono advenuti et
li 'ncrescimenti che nne sono pre- senti; e se noi usiamo preghiera o
scongiuramento umile et inclino. Sponitore. 15. 1.
Conquistare benivolenza dalla nostra persona si è dicere della
persona nostra, o di coloro per cui noi dicemo, quelle pertenenze perle
quali l' uditore sia benivolo verso noi. Et sappie che certe cose s'
apartengono alle persone e certe alla causa; e di queste pertinenze
tratterà il conto 20. sofficientemente, e fie molto bella et utile
materia ad impren- dere. Et qui pone Tullio quattro modi d'acquistare
benivo- lenza dalla nostra persona. 2. Il i)rimo modo si è se noi
di- cemo sanza soperbia, dolcemente e cortesemente, de' no- stri
fatti e de' nostri officii. Et intendi (2) che dice « fatti » 25
quelli che noi facemo non per distretta di leggo o per forza, ma per
movimento di natura. Et così dicendo Dido 1 : m Olii, si —
2: M-m om. luogo — m ohi. si — 5 : m om. si — J : M-in om. la jiersoiia —
Afiia coloro — m davanti a chui, il/' davanti cui — 5: M^ il facto — m
om. ól convonento — 6-7 : M' om. di questi — dioera lautore — m om. e
soBìcientemento — 9-10: M-m Alla nostra p. — di nostri faoti — Ai' lo
nostre colpo — 12: il/' che sono presenti — 13: M' i scongiura- mento —
16: M^ dola nostra persona 7 di coloro — 17: m aparlenentle — 20: m om.
suflicientementc — M-mom. materia — 22: m om. moiio — 2-i:M-m intende, L
intendo — 25: m diciamo per distretta — 26: M-m dicendo didio
(1) Le parole la persona sono superflue, e perciò a prima vista si
preferirebbe la lozione di M-m; ma è molto più probabile l'omissione di
parole inutili che la loro aggiunta in Af'. (2) Scrivo cosi
per analogia col § 4; ma anche la lezione di Mm, intende, potrebbe
conservarsi come una forma di 2" persona dell' imperativo (per la
desi- nenza e non mancano esempii). - 121 -
d' Eneas acquistò la benivolenza degli uditori: « Io » dice ella, «
accolsi e ricevetti in sicura magione colui eh' era cacciato iu periglio
di mare, et quasi anzi eh' io udisse il nome suo li diedi il mio reame ».
Et cosi dice che ella 5. si mosse a pietade sopra Eneas quando elli fugia
dalla distruzione di Troia. 3. Et al ver dire noi avemo merzè e
pietade delle strane genti per natura, non per distretta. Ma offici sono
quelle cose le quali noi facemo per distretta, non per movimento di
natura. Onde dice Tullio che dell'uno 10. e dell'altro dovemo dire
temperatamente sanza superbia. 4. Il secondo modo si è se noi ne leviamo
da dosso a noi et a' nostri le colpe e le disoneste sospeccioni che cci
sono messe et apposte sopra; et intendi che colpe sono appellati
que' peccati che sono apposti altrui apertamente davanti al 15.
viso, sì come fue apposto a Boezio eh' elli avea composte lettere del
tradimento dello 'mperadore. Il quale pec- cato removeo elli per una
pertenenza di sua persona, cioè per sapienza, dicendo cosi. Delle lettere
composte falsamente che convien dire ? la froda delle quali sarebbe mani-
20. festamente paruta se noi fossimo essuti alla confessione dell'
accusatore ». 5. Le disoneste sospeccioni sono le colpe eh' altre pensa
in centra ad un altro, ma nolle pone davante al viso, sì come molti
pensavano che Boezio adorasse i do- moni per desiderio d'avere le
dignitadi; e questa sospeccione 25. si levò elli parlando alla
Filosofìa, che disse: « Mentirò che pensaro ch'io sozzasse la mia
coscienza per sacrilegio (o per parlamento de' mali spiriti). Ma tu,
filosofìa, commessa in me cacciavi del mio animo ogne desiderio delle
mortali cose ».• Et così parve che volesse dire: « Poi che in me avea
sapien- 30. zìa, non era da credere che in me fosse così laido
fallimento ». Tutto altressì Elena, voglìendosi levare la sospeccione
che '1 suo marito avea dì lei, disse: «Elli che ssi fida in me
della vita, dubita per la mia biltade; ma cui assicura pro- dezza non
dovrebbe impaurire l'altrui bellezza ». 6. Il terzo 1 : M'
deluditore — 2: S m sicuro porto — 4: M' il suo nomo — Mìi dica — m il
roame mio — 5: A/' dela — 7: m M' 7 non — 0: m L ^ non por m. — 13-14: m
ci sono aposto (om. sopra) — M' appellate.... apjioste — 16: M \e lectoro
— 17: M' elgli rimovca — ciò fu — 18: M' falsamente composte — 20-21 :
M-m jiartita ....stati.... dellaccusato — 22: m centra un altro — ^f'
appone — 25: m parlando olii — 25-27: M-m Mentita chi solcasse — om. per
sacrilegio.... spiriti — 28: cacciavi (il latino ha pellebas) è solo in
L; M-m chaccia, Jf' cacciava con un i aggiunto tra v e a, s caccia via —
29: M-m paro — 31 : m schusare 7 levare — 33: m della biltade mia
modo è se noi contiamo i mali elie sono advenuti e li 'ncre-
scimenti che sono presenti. Così Boezio, contando ciò ch'ave- nuto era,
acquistò la benivolenza dell'uditore dicendo: « Per guidardone della
verace vertude sofferò pene di falso incol- 5. pamento ». Et Dido,
dicendo i suoi mali dopo il dipartimento d'Eneas, acquistò la benivolenza
per la sua misa ventura, e disse : « Io sono cacciata et abandono il mio
paese e Ila casa del mio marito e vo fuggendo i)er gravosi cammini in
caccia de' nemici». Altressì Julio Cesare, vedendosi in perillio di
10. guerra, contò i mali c'a llui poteano advenire, per confortare
i suoi a battaglia, e disse: «Ponete mente alle pene di Ce- sare,
guardate le catene e pensate che questa testa è presta a' ferri e' membri
a spezzamento». 7. Il quarto modo è se noi usiamo preghiera o scongiuramento
umile et inclino, 15. cioè devotamente e con reverenza chiamare
merzede con grande umilitade. Et intendi che preghiera è appellata
sanza congiuramento. Verbigrazia : Pompeio, vegiendosi alla pugna della
mortai guerra di Cesare, confortando i suoi di battaglia disse: «Io vi
priego de' miei ultimi fatti 20. e delli anni della mia fine,
perchè non mi convenga essere servo in vecchiezza, il quale sono usato di
segnoreggiare in giovane etade » (0. Et queste pi'eghiere talfiata
sono aperte, sì come quelle di Pompeio, talfiata sono ascose, sì
come quelle di Dido in queste parole ch'ella mandò ad 25. Eneas:
«Io » disse ella « non dico queste parole perch'io ti creda potere
muovere; ma poi ch'io ao perduto il buon 4 : M-m fossero
peno — 5 : M-m Et dicio dicondo — 6-7: m dicendo — M-m chaccialo — 8: M
el mio marito, m om. - 9: M Tullio Cosarn, m Tulio corr. in .Tulio — 12-13 :
itf' epresso — li membri — M 7 membri, m 7 i membri — La sprezzamento —
14: M-m 7 scongiura- mento — Mi panclino, m e parlino, M'-L o incliino -
13: m om. cioè — chiamando — 19: m abattagla — 20: M delli anni ilelli
amici lino, m delli anni /siche — 21: M servo in vilezza la (piale, m
servo 7 in vilczza il quale — 22-23: M-m om. sono aperte, m anlhe il 2°
talfiata — 24: M di diedi — 26: M' o perduto, m chio perduto (l) Il
testo di Lucano (Fars., VII, 380), da cui è tradotto questo esempio, ha
ultima fata deprecar, tutti i codici della Eettorica portano ultimi fatti.
Non credo che si possa pensare a uno sbaglio dei copisti, perchè un
latinismo come fati (che del resto qui non sarebbe traduzione esatta)
manca di ogni probabilità in quel tempo; sarà dunque da risalire a
un'alterazione facilissima del latino, ultima facta, che certo riusciva
più intelligibile della frase poetica originale. Quanto al servo in
vecchiezza (che corrisponde a ne discam servire senex), se po- tesse
supporsi una forma vegliezza {eelUczza) si spiegherebbe meglio come sia
nato l'erroneo vilezza; ma è chiaro che la parola servo risvegliò l'idea
di «condizione vile, meschina». pregio e la castitade del
corpo e dell' animo, non è gran cosa a perdere le parole e le cose vili
». 8. Ma scongiura- mento è quando noi preghiamo alcuna persona per Dio
o per anima o per avere o per parenti o per altro modo di 5. scongiurare,
sì come DIDONE fece ad Eneas: Io ti priego, dice ella, per tuo padre, per le
lance e per le saette de' tuoi fratelli e per li compagnoni che teco
fuggirò, per li dei o per l'altezza di Troia, etc. Or à detto il conto del primo luogo
donde muove la BENEVOLENZA, cioè 10. della nostra persona e di coloro che
sono a noi ; ornai dirà il secondo luogo, cioè della persona delli
adversarii e di coloro contra cui noi dicemo. Dalla persona delli
aversarìi se no! li mettemo inn odio 15. invidia o in dispetto.
Lo sponitore. 1. Acquistai'e benivolenza dalla persona de'
nostri ad- versarii si è dire delle loro persone quelle pertenenze per
le quali l' uditore sia a noi benivolo et contra 1' aversario 20.
malivolo; et a cciò fare pone Tulio tre modi: Il primo modo è dicere le
pertenenze delle loro persone per le quali siano inn odio dell'uditori;
il secondo che siano in loro invidia; il terzo che siano in loro
dispetto; e di cia- scuno di questi tre modi dirà il testo bene et
interamente. 25. Tullio. 97. Inn odio saranno messi
dicendo com' ellino anno fatta alcuna cosa isnaturatamente o
superbiamente o crudelmente o ma- liziosamente. M om. a — 711 lo
chose vili 7 le i»arole — 4: M' o per parenti por avere — m oin. rli
scongiurare — 6-7 : M' per lo tuo padre 7 per le 1. 7 [jor le s. de tuoi f.,
per li compagniper saette di tuoi I"., m per le saette de tuoi parianti 7
per li compagni - 8-0 : M' om. etc. — Et ora a detto il maestro — om. la
— Ì0:m dalla nostra parte — YS: 3i' odindispregio — 19: M-m om. a noi M'
deluditore.... in invidia. Et il ter^^o che sia — m loro in invidia....
loro in dispetto — 26-27: M' comelgli anno alcuna cosa facta — vi 0»».
isnatur. e o maliziosamente Noi potemo i nostri
adversarii mettere ina odio del- l' uditore se noi dicemo eh' elli anno
alcuna cosa fatta isna- turalmeute, contra l'ordine di natura, si come
mangiare 5. .calane umana et altre simili cose delle quali lo sponitore
si tace presentemente. O se noi dicemo eh' elli abian fatto
superbiamente, cioè non temendo né curando de' signori né de' maggiori,
avendoli per neente. O se noi dicemo ch'elli abbiano fatto crudelmente,
cioè non avendo pietà né mise- 10. ricordia de' suoi minori né di
persone povere, inferme o mi- sere. se noi dicemo ch'elli abbiano fatto
maliziosamente, cioè cosa falsa e rea, disleale, disusata e contra buono
uso. 2. Et di tutto questo avemo exemplo nelle parole che BOEZIO
dice contra NERONE imperadore. Ben sapemo quante ruine fece ARDENDO ROMA,
tagliando i parenti et uccidendo il fratello e sparando la madre.
Altressì fue malizioso fatto il qual racconta Euripide di Medea, che sta
scapigliata tra' monimenti e ricogliea ossa di morti. 3. Omai à
detto lo sponitore sopra '1 testo di Tullio come noi potemo met-
20. tere il nostro adversario in odio et in malavoglienza del- l'
uditore. Da quinci innanzi dicerà come noi li potemo mettere in loro
invidia. Tullio. 98. In invidia dicendo la loro forza,
la potenza, le ricchezze, 2.5. il parentado e le pecunie, e la loro fiera
maniera da non sofferire, e come più si confidano in queste cose che
nella loro causa. Sponitore. 1. Noi potemo conducere i
nostri adversarii in invidia et in disdegno dell' uditore se noi contiamo
la foi'za del 3-4: M' chaWi ahh'ia. {poi aggiunto no dalla
stessa maria) — isnaluratamente contra online M' tace ora presentemente — m al
])rosonte — M-m 7 se noi dicemo che labian — 7-8: M tenendo M^ 7 non
venerando de sig,... 7 avendoli, m curando.... do maggiori — M-m 3/' che-
labbiano — 9-10: m misericordia.... di persone M' 7 misero — M-m Et se
dicemo cliollabbiano — 12: Af' cosa rea falsa et disleale 7 disusata
contra b. u., m om. cosa — o disleale 7 contro a b. u. — 13: M' exemplo
avemo — lo : M' uccidendo i parenti, talgllaiido il fratello — M-m i
fratelli — 17 : S Euripide — M-m di medici — IS: M corresse moni- menti
in moUimenti — 20: m om. in odio et - Af' in malavoglienca — 21-22: M Da ipii
- 3f' diceremo.... li potremo mettere loro in invidia — 24 : M-m om. In
—26: M' si lidano — 28-29: Af' i nostri avorsari conducere
....degliuditori Cfr. Magoini, La ReUorica italiana di B. L., pp.
Bl-52. - 125 - corpo e dell' animo loro ad arme
e senza arme, et la po- tenza, cioè le dignitadi e le signorie, e le
ricchezze, cioè servi, ancille e posessioni, e '1 parentado, cioè
schiatta, lignaggio e parenti e seguito di genti, e le pecunie,
cioè 5. denari, auro et argento, in cotal modo che noi diremo come
' nostri adversarii usano queste cose malamente et increscevolemente con
male e con superbia, tanto che sof- ferire non si puote. 2. Cosi disse
Salustio a' Romani : « Ben dico che Catenina è estratto d'alto lignaggio
et à grande IO. forza di cuore e di corpo, ma tutto suo podere usa
in tra- dimenti e distruzioni di terre e di genti ». Così disse Ca-
tenina centra ' Romani : « Appo loro sono li onori e le potenzie, ma a
nnoi anno lasciati i pericoli e le povertadi >. 3. Et ora è detto
della invidia contra i nostri adversarii; sì dicerà il conto come noi li
potemo mettere in dispetto. Tullio. 99. In dispetto
degli uditori saranno messi dicendo che siano sanza arte, neghettosì,
lenti, e clie studiano in cose disusate e sono oziosi in iuxuria.
20. Sponitore. I. Noi potemo mettere i nostri adversarii in
dispetto degli uditori, cioè farli tenei'e a vile et a neente, se
noi diremo che sono uomini nescii sanza arte e sanza senno, da
neuno uopo e da neuna cosa; o che sono neghettosì, 25. che tuttora
si stanno e dormono e non sì muovono se non come per sonno; o diremo che
sono lenti e tardi a tutte cose; o diremo che studiano in cose che non
sono da neuno uso né d'alcuna utilitade; o diremo che sono oziosi in
Iu- xuria dando forza et opera in troppo mangiare, in nebriare,
30. in meretrici, in giuoco et in taverne. 2. Et ora à detto il
2-5: Af' om. e le signorie, poi continua: E le pecunie, ciò sono i
danari e seni 7 an- celle 7 possessioni. ¥A parentado... di genti, in
cotal modo ecc. — 6: M' come i nostri aversarii — 11 : M^ in tradimento 7
distructione de terra 7 <le gente, m in tradimenti distructioni — 12:
M-in a Romani — 13 : m lasciato — 14: M iì detta — L'i : M' o»i noi — in
dispregio (l. 17 idem) — 17: M' om. degli uditori — 18: M disulate — 19:
M octosi, m ottosi — 22: M' om. degli uditori — 23: 3f' siano, m sieno —
M' sanza sonno? sanza arte di neuno huopo - 24: m om. da neuno uopo e —
25 : m si stanno, dormono - 26: M' per sonno/ 7 diceremo, L per sogno —
27-28 : m alclumo uso — M ' 7 dicoremo — 29-30: M' de troppo mangiare .T
ebriare. in puttane — m 7 in bere — M in cliaverne M' a decto luditore come
— )?t om. Et - 126 — conto come noi potemo
acqnistare la benivolienza dell'udi- tore dalla persona de' nostri
adversarii mettendoli inn odio et in invidia et in dispetto, et à
insegnato come si puote ciò fare. Ornai tornerà alla materia per dire
come s' acqui- 5. sta benivolenzia dalla persona dell' uditore, e questo
è il terzo luogo. La benivolenza dell'uditore.
lOO. Dalla persona dell'uditori s'acquista benivolenza dicendo che
tutte cose sono usati di fare fortemente e saviamente e man- 10.
suetamente, e dicendo quanto sia di coloro onesta credenza e quanto sia
attesa la sentenza e l'autoritade loro. Lo sponitore, (i) '
1. Noi potemo acquistare la benivolenza delli uditori dicendo le
buone pertenenze delle loro persone e lodando 15. le loro opere per
fortezza e per franchezza e per prodezza, per senno e per mansuetudine,
cioè per misurata umilitade, é dicendo come la gente crede di loro tutto
bene et one- stade, e come la gente aspetta la loro sentenza sopra
que- sto fatto, credendo fermamente che fie si giusta e di tanta
20. autoritade che in perpetuo si debbia così oservare nei si- mili
convenenti. 2. Di forte fatto Tulio lodò Cesare dicendo: « Tu ài domate
le genti barbare e vinte molte terre e sot- toposti ricchi paesi per tua
fortezza». 3. Di senno il lodò e' medesimo parlando di Marco Marcello:
«Tu nell'ira, 25. la quale è molto nemica di consellio, ti
ritenesti a consel- lio ». Di mansueto fatto il lodò Tulio dicendo: « Tu
nella vittoria, la quale naturalmente adduce superbia, ritenesti
mansuetudine ». 5. D' onesta credenza il lodò Tallio in 2-3:
M' in odio deluditore, M innodio 7 invidia, m in odio, in invidia — M-m om. si
— 8: Jf' m delludilore {ma il testo auditorum) ~ 9: M' sono usi — M-m 7
suavomento {m nm. 7) 10 : i mss., ambedue le volte, quando — M' di loro —
li: M-m intesa — 13: M-m om. delli uditori — M^ deluditore — 14: M'
dicendo che buone — 15 : M-m om. e per fran- chezza — M' 7 per senno —
17: m M' om. e — 19: Jtf' credendo che la loro sententia sia si giusta —
m che sia — SO: M-m ne in simili, M'-L ne simili — 23-84: m e lodo, M' il
lodano 7 medesimo parlano — m marche metcllo M-m om. molto — Af tu
ritenesti a consellio, m tu ritenesti consiglio — 26: M ilio Tullio tu ecc., m
di mansueto fatto /7 nella vittoria — 27 : M adato, m adato, L odduce —
28: m om. credenza il lodò Tullio (1) In tutti 1 codici
l'interpunzione di questo passo è variamente errata, né metterebbe conto
darne notizia. - 127 - questo modo: Cesare volle
alcuna fiata male a Tullio, ma tutta volta lo ritenne in sua corte; e non
pertanto Tullio CICERONE era sì turbato in sé medesimo che non potea
intendere a rettorica si come solea, insin a tanto che GIULIO CESARE non
li 5. rendeo sua grazia. Et in ciò disse Tullio. Tu ài renduto a me
et alla mia primiera vita l’usanza che tolta m' era, ma in tutto ciò
m'avevi lasciata alcuna insegna per bene sperare »; e questo dicea perchè
l'avea ritenuto in corte, sicché tuttora avea buona credenza. 6. D'
attendere la sua 10. buona sentenza lodò Tullio Cesare parlando di
Marco Mar- cello: «La sentenza eh' é ora attesa da te sopra questo
con- venente non tocca pure ad una cosa, ma à ad convenire (D a
tutte le somiglianti, perciò che quello che voi giudicarete di lui atterranno
tutti li altri per loro ». 7. Or é detto come 15. s'acquista
benivolenzia dalle persone delli uditori; sì dirà Tullio coni' ella
s'acquista dalle cose. La benivolenza delle cose. Da esse
cose se noi per lode innalzeremo la nostra causa, per dispetto abasseretno
quella delii adversarii. 20. Sponitore. 1. Noi potemo
avere la benivolenza dell'uditori da esse cose, cioè da quelle sopra le
quali sono le dicerie, dicendo le pertenenze di quelle cose in loda della
nostra parte et in dispetto et in abassamento dell' altra; sì come
disse 25. Pompeio confortando la sua gente alla guerra di Cesare :
« La nostra causa piena di diritto e di giustizia, perciò eh' ella è
migliore che quella de' nemici, ne dà ferma spe- 4 : M' om.
non — 6: M-m la causa dm t. — i a me la mia primiera vila e liisanza — 7:
tutti, eccetto L, m'avea — M-m la sua insegna — 8 : M' 7 in questo (?«re i et
((uesto) — 9: M' buona speranna — 10: M-m lodo Cesare di Tullio - IS: M-m
ma ad {m a) con- venire, M-L ma dee convenire - 14: Mt per lui — i5: 3f'
dele persone — i8:M-mom. so — L sar|uista bonivoglienza se noi ecc. (ma
nel latino manca) —19: M' m 7 per disp. — 21 : M' deluditofo, m delli
uditori — 24 : m nm. in dispetto — M-m om. idi — 25: M confer- mando la
sua gente — 26: m M'-L e piena — Lo pero chella — 27 : m forma
speranza (1) Aggiungo un' a, che nella scrittura del codice può
considerarsi fusa (come avviene nella pronunzia) con quella precedente di
ma con quella seguente di ad. Bel resto basterebbe anche « convenire,
quasi come un futuro (« converrà ») scomposto nei suoi elementi.
- 128 — ranza d'avere Dio in nostro adiuto(i)». 2, Et
ornai à divisato il conto le quattro luogora delle quali si coglie et
acquista la benivoglienza, molto apertamente et a compimento; sì
ritornerà a dire come noi potemo fare l'uditore intento. 5. Di fare
V uditore intento. 102. Intenti li faremo dimostrando che in ciò
che noi diremo siano cose grandi o nuove o non credevoli, o che quelle
cose toc- cano a tutti a coloro che 11' odono o ad alquanti uomini
illustri, ai dei immortali, a grandissimo stato del comune, o se noi
prof- 10. terremo di contare brevemente la nostra causa, o se noi
propor- remo la giudicazione, o le giudicazioni se sono
piusori. Avendo Tullio dato intero insegnamento d'acquistare la
benivolenza di quelle persone davante cui noi 15. proponemo le
nostre parole, sì che l' animo s' adirizzi et invìi in piacere di noi e
della nostra causa e che siano contrarii e malevoglienti a'nostri
adversarìi, sì vuole Tullio medesimo in questa parte del suo testo
insegnare come noi I)otemo del nostro exordio, cioè nel prologo e nel
comin- 20. ciamento del nostro dire, fare intenti coloro che noi
odono, sì che vogliano achetare i loro animi e stare a udire la
nostra diceria; e di questo potemo noi fare in molti modi de' quali sono
specificati nel testo dinanti, et in altri simili casi. 2. Et posso ben
dire manifestamente che ciascuna per- 25. sona sarà intenta e starà
ad intendere se io nel mio comin- 1: m nm. Et — 3 : 3f' nm.
la — hi odi. molto — 4: m alento — 8-9: A/' o aliquanlì.... o ali iilii
imm. o a — M |)iQrRremo, vi protreremo {lat. pollicebimur) — iO: M-m owi.
bre- vemente — VI proiroromo la giuil. — i3 •M-m Quamlo Tullio a dato —
14: — J/tlavento — — 7/1 (lavante a cimi — 13-16: 3/' loro siiivii 7
dlrirvi — 17: vi malagevoli — 19: M' nel nostro exorilio — vi nm. nel
coniiiiciamento — 21 : 3f' si che noi vogliamo — 32-23: 3f ' Et
questo.... i (jua'.i.... davanti — vi om. el — 25: M-m sono noi mio com.
(1) Cfr. Lucano, Phars., VII, 349: " Causa iubet melior superos
sperare secun- dos „. Solo la lezione di M corrisponde anche per la forma
sintattica. (2) Si rimano alquanto in dubbio sulla lezione da
preferire, perchè tra un Avendo e un Quando la differenza grafica ò
lieve, data la somiglianza di una forma di A con Q. Ma il gerundio
Avendo, con una costruzione meno comune, più difficilmente può esser
dovuto a un copista; d'altra parte il quando in senso di " dopo che
„ non è dell'uso di Brunetto, clie adopra continuamente la formula "
Poi che Tullio ha detto „ "ha insegnato ,, (S'intende clie
l'inserzione di a davanti a dato diveniva necessaria leggendo
Quando). -ciamento dico eli' io voglia trattare di cose grandi e
d'alta materia, sì come fece il buono autore recitando la storia
d'Alexandro, che disse nel suo cominciamento : « Io diviserò e conterò
così alto convenente come di colui che conquistò ó. il mondo tutto
e miselo in sua signoria ». 3. Altressì fie inteso s' io dico eh' io
voglia trattare di cose nuove e con- tare novelle e dire eh' è avenuto o
puote advenire per le novitadi che fatte sono, sì come disse Catellina :
« Poi che Ila forza del comune è divenuta alle mani della minuta
10. gente et in podere del populo grasso, noi nobili, noi (i)
potenti a cui si convengono li onori, siemo divenuti vile populo sanza
onore e sanza grazia e sanza autoritade ». 4. Altressì fie intento s' io
dico eh' io voglia trattare di cose non credevoli, sì come '1 santo che
disse : « Il mio 15. dire sarà della benedetta donna la quale
ingenerò e par- turio figliuolo essendo tuttavolta intera vergine
davanti e poi »; la quale è cosa non credevole, i^erciò che pare
es- sere centra natura. Et si come diceano i Greci: « Non era cosa
da credere che Paris avesse tanto folle ardimento che 20. venisse
'n essa terra (2) a rapire Elena ». 5. Altressì fie intento s'io dico che
'1 convenente sopra '1 quale dee essere il mio parlamento a tutti tocca
od a coloro che 11' odono, sì come disse Gate parlando della
congiurazione di Catellina: « Con- giurato anno i nobilissimi cittadini
incendere e distruggere 1 : M traclai-e cose, m cliio voglia
di trattare chosa grande — 2 : M actoro, m attor.j — 4-5: M'
recontcro.... conquise.... 7 mise — 5-6: M' fia inlento sic dica.... 7
contrario no- velle - 7: M' 7 puote — 9: M storca — m e venuta.... gente
minuta — 10: m M'-L non potenti — iy : J>f' noi a cui — 13: M Altre si
— 14-15: M'-L sicome disse il santo che disse - i II mio dotto — 16: M'
partorie il figluplo — 17 : M^ -j di. poi — M-m om. la quale.... natura —
19: M-m oni. folle — m om. che venisse — SO: M nessa terra, m in essa
terra, M'-L nela nostra terra — M arape — 22: M' tocclia a tutti coloro -- 24:
M' anno nob. citt. dincendore (1) Nonostante l'accordo di
tutti gli altri codici, mi attengo a M, la cui lezione è confermata dal
testo di Sallustio: " omnes, strenui, boni, nobiles atque igno-
biles „ ecc. Brunetto non traduce esattamente, ma vuol mettere in rilievo
la dignità delle persone, e perciò ripete il noi; forse questa parola in
qualcuno dei primi apografi fu scritta no (no') e quindi scambiata colla
negazione: non potenti. Favoriva l'errore anche il tono insolito della
frase " noi nobili, noi potenti ,., mentre le parole " in
podere del populo grasso „ inducevano a considerare " non potenti „
i nobili. (•2) Intendo in essa terra (come scrive m), cioè "
nella patria stessa „ , in ipsa terra. Leggendo con 21f » nella nostra
terra si avrebbe lo stesso senso in forma più chiara; ma non saprei
allora spiegare la variante di M-m. È possibile che, omesso il nostra, un
nella sia stato letto nessa, che a prima vista non dà senso ? Invece
nulla di più facile del caso inverso, e.ssendo l's di forma allungata cosi
simile a l. — iso- la patria nostra, e '1 lor capitano
ne sta sopra capo. Adun- que dovete compensare clie voi dovete
sentenziare de' cru- delissimi cittadini che sono presi dentro nella
cittade » (l). 6. Altressì fie intento s' io dico clie Ila mia
diceria tocca 5. ad alquanti uomini illustri, cioè uomini di grande
pregio e d'alta nominanza in traile genti sì come disse
Pompeio parlando della battaglia civile: « Sappiate che l'arme de'
ne- mici sono appostate per abbattere l'alto e glorioso sanato ».
7. Altressì fie inteso s'io dico che Ile mie parole toccano a'dei,
10. si come fue detto di Catellina poi ch'elli ebbe conceputo di
fare cotanta iniquità: «Ma elli gridava ch'appena i dei di sopra
potrebbero ornai trarre il populo delle sue mani » (2). 8. Altressì
fie intento s' io dico nel principio di dire la mia causa brevemente et
in poche parole, sì come disse il poeta 15. per contare la storia
di Troia: «Io dirò la somma, come Elena fue rapita per solo inganno e
come Troia per solo inganno fue presa et abattuta ». 9. Altressì fie
intento s'io nel mio exordio propongo la giudicazione una o più,
cioè quella sopra che io voglio fondare il mio dire e fermerò
20. la mia provanza, sì come fece Orestes dicendo: « Io pro- verò
che giustamente uccisi la mia madre, imperciò che dio Apollo il mi à
comandato, perciò che uccise il mio padre». IO. Et di tutti modi per fare
l'uditore intento potemo noi coUiere exempli in queste parole che
disse Tullio a Cesare parlando per Marco Marcello: « Tanta
1 : M-m 7 lor — M' ne sopra capo — 2-3 : m dovete pensare, Mi pensale —
M-m esmarn {m esimare) de nobilissimi citi. — M' ohe sono dentro ala
cittade (anche m dentro alla) — 4 : M fue, m (la — 5-6: M' cioè de gr. —
M-m 7 da tale nominanca — 7 : M-m che latine — 8: M-m sano, M' senato —
9: M' fia intonto — lO-ll: M-m poi chelll anno conceputo di faie tanti
iniipii mali gridava (m om. gridava) — 12: M apena ornai — 13: 3f' nel
cominciamento — 14: Jf' o in jioclie parole — 15-16: M' om. Io dirò.... e
come Troia, M om. Troia [spazio bianco) m diclio 7 propongo nel mio exordio
— 19: Mi sopra che infomliiro il mio dire e fondata — m sopralla quale —
22: M-m che io ajmllo il mio comandato, 3f' chol dio Appello lo ma com.
(/.. lo mavea), 7 perciò cliella m atento — 24: M' exemiilo M-m om. a — M' parlando
a lui (1) Questo periodo è d'incerta lezione, male varianti
registrate in nota sono palesi accomodamenti, specialmente il pensate di
Jtf ' per evitare la ripetizione di dovete; co.si esmare esimare può
esser nato da una sigla di sentenziare (0 si tratterà di fmare,
fermare?). Glie sia poi da leggere crudelissimi cittadini ò con- fermato,
oltre che dal senso, dalla parola hostibiis che vi corrisponde i\el tosto
di Sallustio ; nobilissimi ò derivato dalla frase del periodo precedente.
(2) La lezione di M', che è tutta accettabile, dà ragione degli errori di
Mm: il primo elli parve plurale, e quindi si fece elli anno; il ma unito
con Mi divenne mali e portò con sé altri cambiamenti. Ma non giurerei che
tutto sia genuino" mansuetudine e cosi inaudita e non
usata pietade e cosi incredebile e quasi divina sapienzia in nessuno modo
mi posso io(l) tacere nò sofferire ch'io non dica». Et poi che
Tullio à pienamente insegnato come per le nostre parole 5. noi potemo
fare intento l'uditore, si dirà come noi il po- terne fare docile.
Come l'uditore sia docile. 103. Docili faremo li uditori se
noi proporremo apertamente e brevemente la somma della causa, cioè
in che sia la contraversia. 10. E certo quando tu il vuoti fare
docile conviene che tu insieme lo facci attento, in però che quelli
è di grande guisa docile il quale è intentissimamente apparecchiato
d'udire. Quelle persone davanti cui io debbo parlare posso io fare
docili, cioè intenditori, da tal fatto: se io nel mio exordio, alla
'ncviminciata della mia aringhiera, tocco un poco d^l fatto sopra '1
quale io dicerò, cioè brevemente et aper- tamente dicendo la somma della
causa, cioè quel punto nel quale è la forza della contenzione e della
controversia. Cosi 20. fece Saiustio docile Tulio dicendo: « Con ciò sia
cosa ch'io in te non truovi modo né misura, brevemente risponderò,
che se tu ài presa alcuna volontade in mal dire, che tu la perda in
mal udire ». 2. Questo et altri molti exempli potrei io mettere per fare
l'uditore docile, si come buono intendi- 25. tore puote vedere e sapere
in ciò eh' è detto davanti. Et perciò che '1 conto à trattato inn adietro
di due maniere exordii, cioè di principio e d'insinuazione, et àe
divisato i : M consuetudine, m sollicituiline, L
inmansuetudine —L nm. lo e cosi — M man- dila — 2-3: M-m mi possono, M*-L
io posso — m om. Et — 5: M' luditore intento, M nm. l'uditore — 8: M'
Docile l'aremo luditore — M-m proi)onemo — iO: Af' Et credo quando tu
vuoli — 12 : m nm. è —attentissimamente — 14 : m davanti a chui — 15 : 3/'
docile cioè intenditori de tutto il facto — M-m sarò nel mio ex. — 16: M'
incomincianza — M ar- rincliiera, M' aringheria — m cominciamo 7 toccho
Af' om. dicendo nel quale e la contentione — 20: M' om. cosa (ma non L)
—21: m o misura — M' ti li- spondo — 23 : M' om. io — 25 : m om. e sapere
— 27 : M' doxordio (1) È chiaro che posso io fu dall'archetipo di
M-m trasformato in possono perchè tutti i sostantivi che precedono
parvero soggetti e non complementi og- getti ; e vi dovè contribuire una
falsa lettura (cfr. un caso simile in 128, 23, seno per se io). La
lezione di M'-L è solo un facile accomodamento. ciò che ssi
conviene fare e dire nel principio per fare l'uditore benivolo, docile et
intento, sì dirà lo 'nsegnamento della INSINUAZIONE in questo modo. Oramai
pare che sia a dire come si conviene trattare le insinuazioni. INSINUAZIONE
è da usare quando la qualitade della causa è mirabile, cioè, sì come
detto avemo inn adietro, quando l'animo dell'uditore è contrario a noi. E
questo adiviene massimamente per tre cagioni: o che nella causa è alcuna
ladiezza, o coloro 10. e' anno detto davanti pare ch'abbiano alcuna cosa
fatta credere al- l'uditore, se in quel tempo si dà luogo alle parole,
perciò che quelli cui conviene udire sono già udendo fatigati; acciò che
di questa una cosa, non meno che per le due primiere, sovente s'of-
fende l'animo dell'uditore. In adietro è detto sofficientemente come noi
potemo acquistare la benivolenza dell" uditore e farlo docile et
in- tento in quella maniera de exordio la quale è appellata
principio. Oramai è convenevole d' insegnare queste mede- 20. sime
cose nell'autra maniera de exordio la quale è appellata « insinuatio ».
2. Et ben è detto qua indietro che « insinuatio » è uno modo di dicere
parole coverte e infinte in luogo di prologo. Et perciò dice Tullio che
questo tal prologo in- daurato dovemo noi usare quando la nostra causa è
laida 25. e disonesta inn alcuna guisa, la qual causa è appellata
mi- rabile, sì come pare in adietro là dove fue detto che sono
cinque qualità U) di cause, cioè onesta, mirabile, vile, du- biosa et
oscura. 3. E buonamente nelle quattro ne potemo noi passare per
principio; ma in questa una, cioè mirabile, 1 : M cioè — M'
om. fare e — S : M-m om. s\ — 6: 3f ' della ìnsinualiono — 7: m ohi. s'i
— 8 • M-m 7 di questo diviene — iS: L Kt di questa — Iti: M-m a detto — 20:
W nella maniera — 2i : m Bono dotto — S3: M-m cai prologo (m prolago
danrato), 3/' cotale prolagoS6: M-m nm. in adiotro M modi ([ualità (hi
qui è corroso, vin lo spazio fa supporre lo slesso), M'-L qualitadi dolio
cause M' cioè nollamirabile Conservo
la parola qualità attestata da ambedue le tradizioni, tanto più Clio
anche prima Brunetto usa lo stesso vocabolo. In M abbiamo modi qualità. Probabilmente
si tratta di una sostituziono o variante, che venne poi introdotta nel
testo (a mono clie non si voglia supporre un modi o qualità). ne conviene
usare INSINUAZIONE [IMPLICATURA – “He hasn’t been to prison yet” – “He has
beautiful handwriting”] per sotrarre l’animo dell’uditore e tornare in piacere
di lui ed in grazia quel che pare essere in suo odio. Adunque ne conviene
vedere in quanti e quali casi la nostra causa puote essere mirabile, e
poi vedere come noi potemo contraparare a ciascuno. E sono tre casi. Primo
caso si è quando sie nella causa alcuna ladiezza per cagione di mala
persona o di mala cosa. Che al vero dire molto si turba l'animo dell'uditore
contra il reo uomo e per una malvagia cosa. Il secondo caso è quando
il parlieri ch'à detto davanti à sie et in tal guisa proposta la sua
causa, eh' è INTRATA NELL’ANIMO dell'uditore e pare già che Ha creda sì
come cosa vera; per la quale cosa r uditore, poi che comincia a credere
alle parole che ir una parte propone et extima che Ila sua causa sia
vera, apena si puote riducere a credere la causa dell'altra parte,
anzi sine strana et allunga. Il terzo caso è d'altra maniera che sovente aviene
che quelle persone davanti cui noi dovemo proporre la nostra causa e dire
i nostri convenenti anno lungamente udito e stati A INTENDERE ALTRI e' anno
detto assai e molto, prima di noi, DONDE L’ANIMO dell' uditore è fatigato sì
che non vuole né agrada lui d'intendere le nostre parole; e questa è una
cagione che offende l'animo dell'uditore non meno che 11' altre due
Et perciò conviene a buon parliere mettere rimedi di parole incontra ciascuno
caso contrario, secondo lo 'nsegnamento di Tulio. Della laidezza della
causa. Se la laidezza della causa mette l'offensione, conviene mettere
per colui da cui nasce l'offensione un altro uomo che sia amato, o per la
cosa nella quale s'offende un'altra cosa che sia provata, o per la cosa
uomo o per l'uomo cosa, sicché L'ANIMO dell'uditore si ritragga da quello che
'nnodia in quello ch'elli ama. Et infingerti di non difendere quello che
pensano che tu voglie difendere, e così, poi che l’uditore sie più
allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose, le quali
indegnano L’AVERSARII, a noi medesimi paiono non degne. Et poi che tu
avrai allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non
pertiene atte neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell'
aversarii, ne questo ne quello, sì eh' apertamente tu non danneggi coloro
che sono amati, ma oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da
lloro la volontade dell'uditore; e proferere la sentenzia d'altri in
somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et apresso
dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore minore. In
questa parte dice Tullio CICERONE che, SE l’uditore è turbato contra noi per
cagione della causa nostra che sia o che paia laida per cagione di mala
persona o di mala cosa, ALLORA DOVEMO NOI USARE INSINUAZIONE NELLE NOSTRE
PAROLE in tal maniera che in luogo della persona contra cui pare CORUCCIATO
L’ANIMO dell'uditore noi dovemo recare un'altra persona amata e piacevole
all'uditore, sì che per cagione e per coverta della persona amata e buona
noi appaghiamo L’ANIMO dell'uditore e ritraiallo del coruccio ch'avea contra la
persona che lui semblava rea. Si come fece AIACE nella causa della
tendone che fue intra lui et ULISSE per l'arme eh' erano state d'Achille.
Et tutto fosse AIACE un valente uomo dell'arme, non era molto amato dalla gente
né tenuto di buona maniera. Ma ULISSE, per lo grande senno che in lui
regna, e molto amato. Onde AIACE, volendosi contraparare, nel suo dicere
ricorda com' elli era NATO DI TELAMONE, il quale altra fiata prese Troia al
tempo del forte ERCOLE. E così mette la persona avanti amata e
graziosa in luogo di sé ed in suo aiuto, per piacerne alla gente e
per avere buona causa. E quando la causa è laida per cagione di mala
cosa, si dovemo noi recare NEL NOSTRO PARLAMENTO un’altra cosa buona e
piacevole. Si come fa CATILLINA scusandosi della congiurazione che fa in ROMA,
che mise una giusta cosa per coprire quella rea, dicendo. Elli è stata mia
usanza di prendere ad atare li miseri nelle loro cause. Brunetto Latini. Latini.
Keywords: rettorica, le fonte della retorica di Latini: Cicerone e Publio
Vegezio, insinuazione, parlari, parlatore, controversia, auditore, animo dell’auditore,
modo, essempio di Roma antica, Giulio Cesare – rettorica oratoria togata –
sacrilegio o furto --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Latini” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Laurino – implicatura – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Laurino).
Filosofo italiano. Duca di Aquara e
di Laurino, appartenente alla nobile famiglia napoletana degli
Spinelli. Figlio unico dell’ottavo duca di Laurino, e di Giovanna
Caracciolo, figlia di Ottavio, terzo Principe di Forino, eredita i titoli
paterni. Sposa Beatrice Caterina Pinto y Mendoza, terza Principessa di
Montacuto, figlia ed erede del principe Gregorio. Sposa in seconde nozze Donna
Ottavia Tuttavilla, figlia di Vincenzo II, sesto duca di Calabritto. Allievo
di Vico, si forma al Collegio Clementino a Roma e poi all'Accademia di Loreto.
Ritornato a Napoli, divenne amico di vari illuministi napoletani, quali
Filangieri e Galiani. Autore di varie opere di stampo illuministico, in
particolare nei campi della storia e dell'economia. Il suo saggio a iù
importante, le “Riflessioni politico-filosfiche sopra alcuni punti della
scienza della moneta,” rappresenta uno dei primi tentativi di metodo geometrico
applicato all'economia filosofica. In questo opuscolo, si oppone alle teorie
monetarie di Broggia. Fa attivamente parte della massoneria napoletana,
all'epoca diretta dal principe di Sansevero, Raimondo di Sangro. Cavalerie
del Real Ordine di San Gennaro. A Napoli, fa ristrutturare il palazzo di
famiglia, il palazzo Spinelli di Laurino, trasformandolo in una delle più
suggestive realizzazioni del Settecento napoletano. Muore a Napoli e venne
sepolto nella cappella di famiglia nella chiesa di Santa Caterina a
Formiello. Saggi: “Degl’affetti degl’uomini” (Napoli, Muzio); “Della
moneta” (Napoli); “Cronologia dei re di Napoli” (Napoli, Bisogni); “Del nobile”
(Porsile); “Lettera nella quale si dimostra non esser nota di falsità, che nel
diploma di fondazione della chiesa di Bagnara si ritrovi l'anno 1085 segnato
coll'indizione sesta correndo l'ottava del computo volgare, s.d. Troiano Spinelli, Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. -- ria che forma la materia del
presente saggio: E Metodo col quale questa siè composto. I tutte le città e
popoli dell'Italia ciascuno ha la sua particular forma di governo prima, che sussestato
vinto da’ romani. Ed anche dopo ciò, molte delle Città medefime, quantunque al
popolo di Roma veramente ubbedissero; pure così fatti nomi, e tale forma aveano
di domeitica Polizia, che libere in certo modo facevanle apparire: maessen: do
stata dalla Legge Giulia a ciascuna di quelle la Roma na Cittadinanza conceduta,
che non da tutte senza con Trans 1 AN 1x IN line ill G G I O
TAVOLACRONOLOGICA compongono DI NAPOLI Dalla seconda venuta de LONGOBARDI in
Italia fino, che quelle terre furono da NORMANNI della Puglia conquistate.
PROΟEMIO trasto fu accettata, e la quale da Marco Aurelio Antonino Caracalla fu
all'intiero orbe Romano distesa, col vanto di esser parte del Capo, a Roma, ed
a coloro, che la ressero, furono tutte senza alcuna dubitazione , anche
nell'aspetto, sottoposte. tem Civitati anteferret Cic. pro Bal Cicer. Pro Balban.
Edit.Ve. bon. Edit.Venet.. (3) L. inorbeff.de Stat. hom.L.Roma. Sigon.de
Antiquo Jur. Ital. lib.3.c.1. ff. adbomnib. Rutil. Numan. itinerar. In quo magna
contention Heracliensium, lib.i cap.62.. > Giusep Aloja Ins : DE' PRINCIPI,
E PIU' RAGUARDEVOLI UFFICIALI, Che anno Signoreggiato, e retto le PROVINCIE , ch'ora:
> Ι Mich.Fiaschino Inven . e C.I. REGNO DI (1) Strabon.Geograph.lib.5p.210
E- dit. Parifienf. Parsin Civitatibus fæderisfui liberta e
Neapolitanorumfuit,cummagna| I LL 0 e Transferita però la Sede del Romano
Imperadore in Costantinopoli, varie barbare Nazioni con più fortuna di quello, che
aveano fattosotto la Romana Republica, invasero l'Italia molte volte, e
distrusfero. Radagasio Re de'Goti con dugento mila armati, cagiona danni
gravissimi, all'Italia: ma in Toscana da Stilicone resta con tutto il suo esercitu
vinto, e sconfitto. Alaricoed Ataulfo re di que' medesimi barbari che ove
Alarico dimora circa due anni, ed ove muotr, avidamente sacchegiarono. Attila Re
degl’unni in così fatta maniera quella parte dell'Italia av'egliera entrato, devasta,
che il flagello di Dio fu nominato. Genserico re de’ vandali chiamato
dall'Africa da Eudossia moglie di Valentiniano III. Imperadore, per vendicarsi
di Massimo, che avea costui ucciso, e lei ignara in prima dell'infame
assassinamento, sposata, ed occupato d'Occidente l'Impero;viene in Italia, ne
scorre molte provincie, devasta la nostra Campania e molte città di essa avendo
distrutte, in Cartagine carico di preda se ne ritorna. E finalmente Odoacreco' suoi
Eruli, e Turcilingi, invadetutta l'Italia e Re de Goti, che nella PANNONIA, ove
egli no dimorava, aveano cominciato a tumultuare, gli concedè l'Italia,
acciocchè ne avesse Odoacre discacciato; ovvero, come altri vogliono, lo stesso
Teodorico senza la concessione dell'Imperadore in vase quella Provincia, ne
discaccia Odoacre (che poscia uccise), e re se ne fece nominare. Histor, Miscell.
est cod. Ambrosiin.in Philostorg, hift. Ecclesiast. Ma Prosper. Aquitan. Chron.
Augut. De Civit. Dei lib.icaIo. Marcellin. Chron. In Sirmond. t.2p.284. Philoftorg.
hist. Eccl.lib.12 n.3 inVauclid. Chron. Idatius in Chron. Isidor. Chron. Goth.
in rebo Got., Langobard. Jornand. de reb.Get. Agnel. Pontific. Raven. in S.
Joan . Evagr. Schol. hist., Valef Ital. Murat . t. 1 p . 98 . Cassiod. in Conf.
Boet.Conf. X per essersi fermati poi nell'Occidente si dillero Vestrogoti; a modo
di locuste Roma due volte, ed una gran parte delle nostre Provincie, Histor. Miscell
,lið,15excod. Ambro. Olympiod. In Photii Biblioth. p.179.186. Jian, in Murat. Rer.
Ital., Sigebert. Chrona in an. 473. 474 · Jornand. de reb.Goth. c. 30. Histor. Miscell.
ex cod. Ambros. Axon.Valesian. Sigebert, Procop. De bella Gotb. lib. Re , e
circa xiv anni pacificamente la possiede. quista , se ne titola colle proprie
forze d a quella l'Imperadore Zenone vedendo di non poterlo Teodorico Perchè
discacciare , evolendosi renderbenevolo bella parie del suo Impero la con Reginon.
Chron. Histor. Miscell. Paul, Disc, de Gest. Langob. ex cod. Ambrofian., i
Reginou.Chron. Socrat. hist. Ecclefiafi., Jornand.de reb.Goth. c.31 8 de re-
Anon. Cuspiniana Eusippiusin vita S. Severini. znor. success. Anon Valesian. .
rer. Ital. Munic.t.Ip. Marcellin.Chron.in Sirmond.t.2 (2) L. 20 de Tironib. C.
Theodos. Z fimus Jornand.de reb. Goth.c.46 p.214 e Idat.Chron.in
Du-chesn.t.1p.186. de regnur,success., Prosper. Aquitan.Chron. Procop.de belio
Goth. Marcellin. Coron. in Sirmonds. Casiodor. Chron. Edit. Spicil. Ravenn. histor.Ven.,
Isidor, Chron. Goth. Aimon. de Gest. Francor.Sozomen.histor. Ecclefiaft. lib.9c.1.7.
Sigebert. Chron.inan.Vales. la to Marii Aventic. Chron.in Duchesne, Evagr. Scholast.hist.Eccl.l.2c.7.
Histor.Miscell.lib.15excod. Ambros. in Valef. Histor.Miscell.ex
cod.Ambrof.inrer. Sigebert.Chron. Prosper. Aquit. Chron, in Du-Chefne Marii
Aventicenf. Chron.in Du-Chesne t. Ipa I Anon. Cuspin. Ma dopo di avere e
codesto Principe, ed alcuni suoi successori in tal regno per molti anni
signoreggiato; circa l'anno della salutifera divina incarnazione l'Imperadore
Giustiniano delibera di toglierlo a codėsti barbari, col pretesto, che Teodato re
di essi non avea vendicata la morte daia ad Amalasunta già loro Reina; perchè
vi manda Belisario, che in breve tempo occupa conquistato. n cosi fatia
espedizione furono in ajuto de' Greci i Longobardi nazione che nella Pannonia
dimorava (4 ): i quali dopo , che fu l'Italia pacificata , ivi , e d in casa
degli Amici più difordini commettevano, che contro gl'inimici farenon avrebbono
potuto, perchè Narsete caricandoli di doni, contenti nel loro paese oltre a
ciòavea discacciato dall'Italia i francesi, che sotto il lur Duca Bucelino
tutta, o quasi tutta, presa, e devasiata l'aveano; perchè egli era rimastoin
nome dell'Iinperadore, Supremo Governadore di quella Provincia , che avea all'
Impero restituita: quando perque'nembi, che da'più vili, e fecciəsiluoghi
alzandosi nelle Corri, oscurano gli astri più luminosi , e più chiari , ad
istanza de’ RomanifudatalGovernodaGiustino cheerasuccedutoaGiustinianoImpe.
radore, rimosso: e dall'ingiuria unendo il disprezzo perchè eglieraEu. le
sevissuto,non avrebbe potuto distrigare. Ed alla minaccia segue l'effetto,
dappoichè ritiratosi in Napoli, stimola co'Melli Comorimurtom Marcel lini
Chronic. Aimon, de Gest. Francor. lib. 2.c. 16. |Joan. Diac. Chron. p. 300. Jornand.deregnor.Success.p.242:
Landul.Sagac. additam. Ad Miscell.p.180 Procop. De bell. Goth.lib.4č.35p.368.
Aimon.deGestis Franccr. Agath. de bell.Goth. Gregor. Mag.Dial. Excerpt. ex
Agat. hist. Aiuion. De Gesti Francor. Anast. Biblioth. Invita Joan.III. Paul. Disco de Gest. Langobard. eunuco
l'Imperadrice Sofia gli scrisse che fosse andatoin Costantinopoli a dispensar
la lana alle fanciulle; alla qual cosa fi dice, che Narfete sdegnato risposto
avesse, che tal tela egli lo avrebbe ordita, ch'ella mentre avesse vis i longobardi a conquistare l'Italia copiosa di
tutte le naturali ric chezze , la sterile Pannonia abbandonando . Il quale in
vito allegri que'Barbari circa l'anno del Signore 568. sotto il loro Re Albuino
vennero abbracciando in Italia: nello spazio di sette anni la maggior parte
colla 427 428.:utcitmpuellisinGynaceo (1)Gregor. Turon. histor. lib.4.C.35,
lanarum faceretpensadividere. Anast. Biblioth.p. 133.in Benedi&t. I.
Landul. Sagac.additam. ad Miscellap.|Aimon.deGest.Francor.lib.3.c.7.11, ? )
> dellearmi neconquistarono(11); forza fu fama Ed indi sì inanzi estesero
leloro, che Autariuno deloro Re fino conquiste, che in Regio fusse pervenuto,e
cheavendo 194 (1), e dindi parte dell'Italia, édiessa il rimanente dall'EunucoNarsete,
che a Belisario succede, dopo xvini, anni di asprissima guerra fu interamente
2.. Aimon. de Gest. Francorum O . 184
pist. lib. 5. la Sicilia rimandolli . Avea Narsete , siccome si è veduto ,
vinto i Goti , ed eziandio gli Unni (5) ; ed (4) Histor. Miscell. lib. 4 p. 94
· Aimon . de Gest. Francor. lib. 2.c. 33 Isidor. Hifpal. Marius Aventic. xi 1
Aimon. de Gestis Franc. Procop. de bell. Gotb. Paul. Diac. Paul. Diac. Gregor. Turon.hist.
Histor.Miscell. Paul. Diac. Joan. Diac. Chron. pe 300 . excerpt.Cron. per
Fredeg. Scholaft. |Landul. Sagac. additam.ad Miscell. pa hist. Miscell. c.50 .
Aimon.de Gest.Franc.lib. 3.c. 15 (8) Paul.Diac.ibid.lib.ic.5.7.D. Sigebertus,
alii. Joan. Diaz.Chron.p.300. Paul.Diac.lib.2.ca32p.436. ) ivi ivitraleondedel mare
una Colonna ritrovato l'avessecollastaper coffa, ed avesse detto , fin quì
saranno de'Longobardi i confini. (1) Delle terre occupate da Longobardi
inItalia se ne formò un Regno il quale poscia ebbe alcuni Re Francesi , e dopo
essi altri di diverse Nazioni . Era l'Italia in tempo de'Re Longobardi in due
Principati solamente divisa', in quellodei longobardi,edinquellodeGreci.Ma
passatoilRegnoaCarloMa gno , surse in quella bella parte del Mondo il
Principato di Benevento , da cui non molti anni doponacque quello di Salerno, e
finalmente quello di Capua · Nel tempo de'quali Principati per le guerre , che
arsero fra di loro furono in trodotti nelle nostre parti i Saraceni , i quali
non però , comeche molte Terre avessero conquistate, a varij Capitani
ubbedirono,almeno pressodi noinon mai e uno stato formarono . Ed i medesimi
Principati di Benevento , e di Salerno , e di Capua durarono finchè furono da
Normanni, che nella Puglia eransi stabiliti, interamente conquistati. Imperochè
alcuni Pellegrini di codefta Nazione ritornan do dopo l'anno 1000.'del Signore
da terra Santa ov'erano andati per la fede a guerreggiare , ajutarono il
Principe di Salerno da’Saraceni assediato; e riman dati da costui a casa con
grandissimi doni , allettarono a venire nelle nostre P a r ti i Paesani loro ,
i quali discesivi, ed ora al soldo del uno de' noftri Principi , oraa
quellodell'altrorimanendo,allafinefistabilirononelluogo,chediceafi in Octaba, e
la Città d'Aversa ivi edificarono : uno di loro, chiamato Rainol fo per Capo ,
Conte, o sia Console stabilendovi. Impresero i Greci inquel tempo di liberare
la Sicilia da’Saraceni , che la tenea. no per quasi due secolisottoposta ; e fu
capo dell'Efercito Greco Maniaco ,il quale chiamò a'suoi soldi una parte de
Normanni, ch'eranoin Aversa fermati, e costorovi andarono:mi dopo qualche tempo
disgustati della suaavarizia,ab bandonandolo se ne ritornarono a casa. La qual
cosa avendo conosciuto un cer to Auduino a' Gieci ribelle, propose a Rainulfo
di mandare una parte della sua gente in Puglia a torla alGreco Imperadore , che
vi signoreggiava : ed a cosi fattari chiesta Rainulfo acconsentendo', unbuonnumero
de'suoi capitani ei mandovvi, i quali avendo di repente occupata Melfi Città di
quella Provincia , ed indi altre terre ; fiffarono in Melfi la sede loro , e
diedero princi. pioad un altro Principato, che continuoffi sotto i Figliuoli di
TancrediConte di Altavilla , Gentiluomo anche egli Normanno; i quali in varj
tempi nelle n o il suo Principato. Ma I Normanni, ch'eransi stabiliti in Melfiforto
i Figliuoli di Tancredi, di ben altre conquiste saziarono la loro ambizione .
Conquistarono tutteleterre,cheiGreciaveanoin quelenostre
Parti;tolseroa’Saracenila Sicilia, ed a' Longobardi il Principato di Benevento
, e di Salerno , e fino a'lo ro medesimi Nazionali il Principato di Capua ,
siccome finalmente da una gran parte del Ducato di Spoleti i Re d'Italia
discacciarono , E di tutti così fatti Principati un Regno essendosi formato in
sul principio Regno di Sicilia del Ducato di Puglia in didi Sicilia, e l'altro di
Napoli fu nominato. Di tutte le cose qui sopra sommariamente esposte, la parte più
intrigata ed oscura è quella, che vien compresa dalla seconda venuta de' Longobardi
in ltalia, finchèle nostre Provincie da’Normanni, stabiliti nella Puglia, inun
solcor po forono ridotte.xii )1 e stre parti poi vennero . In tanto I Successori
di Rainulfo aveano tolto a’Longobardi la Città di Capua, ed Puglia, e di
Calabria, e del Principato di Capua fi diske, edindiindue Regni diviso, uno fu detto
di Trinacria alcuna volta ed pl , fu detto , ed il quale per anni 206. in circa
fu de Longobardi, o fia d'Italia l'anno 774. discese Carlo Signoreggiato. Ma
verso da Re di quella Nazione il Re Desiderio ultimo Re Longo in quella
Provincia, ed avendo preso Magno, senza mutarne la natura il Regno bardo,
trasferì nella sua Persona sopradetto, che Regno I va. (1) Paul. Diac. lib.
3.c. 31 p . 431 (2) Paul Diacon. fupplem
. Longobar. 179 varj Principati , i quali in così fatto spazio di tempo,
siccome fi è veduto, t e l a natural forma diesse fide e a gran fatiga, e molto
dubbio sa mente indovinare. De'Principati che sursero nelle Provincie le quali
ora compongono il Regno diNapoli, intempi così dubbiosi, ed oscuri, io ho
deliberato di scrivere in una Tavola Cronologica i Principi , ed i più
ragguardevoli Officiali ; gli anni de loro Regni,ed ufficii, e delle loro
morti; I loro matrimonii; e sommariamente i fatti, che quelli, o sovrani, od in
alcuna maniera dipendenti, o Tributarj posso dimostrare ei diritti delle loro
Signorie anno ftabilito; ed oltre a 7 ciòdellistesiPrincipatiuna,per quanto io ho
potuto esatta e particolare Geografia. E nella Tavola Cronologicaiohoraccoltotuttociò
che da' varj.Storici, o Sincroni,o quasi Sincroni , o molto antichi nella propofta
materia si legge scritto, e narrato, come che discordie gli n o siano tra loro
ramente appariscano;senza volerli corregere (ove avesli potuto ) o concordare;
di esaminare ne’ loro cetti il vero, o a me medesimo in altro tempo, o a dal
trui, che mi voglia in ciò precedere, riserbando; Contentandomi per orà di for
nire solamente fecondi semi di una esatta ,e diffusa storia delle nostrali cose
m e Geografia non va ancora sotto il Torchio ,in un foglio quella parte di essa
,ch' è necessaria alla present e opera, esponere, e dimostrare ho voluto e
dalla Tavola dame scritta il Titolo di SAGGIO ho apposto; conoscendo che in
efla moltissime altre cose essere potrebbono a diritta ragione.o:da altr , o da
me stesso pervenisse a' Principi l'Impero in ciaseuno de' detti Principati; e
quale fuffe la natura degli Ufficj, a cui in essi il Reggimento di Terre cra
affidato ., presso ilPopolo , o presso una parte di esso, o presso un solo uomo
:dice Cicerone: Respublica res est populi, cum bene,acjustegeritur, five ab uno
Rege, la seconda perchè suole essere degl’Optimati, ARISTOCRAZIA , e l'ultima
fi chiama MONARCHIA osia REGNO il qual nome non perde quantunque eomi, due, o
tre. Principi regnino in essa collegati, com'è avvenuta sovente tra' Ro.
maniImperadori equasisempretra 'PrincipiLongobardi, dequalinoide scriviamo la
Serie ; imperocchè una tal forma di Stato essendo molto più distante dall'Aristocrazia,
che dalla Monarchia, dalla più vicina piuttosto che dalla piùlontana, dee prender
esenza alcun fallo il suo nome. Ed oltreaciò quello, ch' èstraordinario non dee
caggionar nelle arti divisione regolare: nè codesti pochi Principi
costituiscono un collegio legittimo, in cui ciascuno la sentenza della maggior
parte deeseguitare; ma ognuno riguardo alla sua. amministrazione libero senza
alcun fallo rimane. Scrive Ubero: Monarchiam ef Se Io note , e più oscure. Ed
acciocchè il tutto con chiarezza fi abbia ad intendere, dappoichè la promessa S
$. II. Quali siano le varie forme di governo, ed i varj modi di acquistare
iRegni . N, . xili . fursero in quella felice parte del Mondo ,ora si
aggrandirono ,ora si diminuiro po,ora dalle Potenze maggiorifurono interamente
absorti, equafi distrutti.Tal volta in essi si viddero eliggersi i Principi,
tal volta si viddero in effi succedere a' padri i figliuoli nella Signoria.
Quei , che vi regnavano , furono soventi fia te uccisi, ed i Privati il loro
luogo occupando, trasmisero a'loro Posteri l'ini.
quamenteacquistatoImpero.Ibarbarichiamatiperdifesadialcuni sistabi lirono per
ruina di tutti, e desolazione. In fine la faccia dell'Italia divenne in que
tempi assai diversa da quello, ch'eraprima,echefupoi, elasuaGeo. grafia non mai
stabile offervofli, e costante . Nè di tutti così varj , e moltipli. ci
accidenti vi fu chi la storia distintamente scrivesse ; m a da pochi , e quali
a frammenti quelli,ebarbaramente$ furonoesposti,opiuttostoaccennati:eleopere
de'Scrittoridi quei tempidasinegligentiCopistifuronotraseritte,chespessefia ,
> ) 9 > no . in un'altra Edizione,che sene facesse,aggiunte. M a prima di
ogni altra cosa io ho reputato di far manifesto per quali ragioni ' Di codeste
forme di Regimenti con voci greche la prima si dice DEMOCRAZIA, feve a paucis
Optimatibes, five ab universo populo Ci:.infragm.deRepubl. Edit.Ven.oye
xiv se unius imperium folo fatis vocabuli argumento constat . Qicod tamen ita
præci Je captari nolim , rat quasiescumque plures in uno Regno Domini
esoftitere, toties Reipublicæformam mutaristatuamus. Nequeenim recte
exiftimaturusvidetur qui in Romano imperia fiquandoplures Augusti fuere,
Principatum defiisse con tenderet. Cum enim longius ila societas imperantium ab
Aristocratia, quam a Monarchia diftet, confentaneum est, ut ab ea Specie, cui
proxima eft , appella tio petatur . ItaLacedemoniis duo Regesfuerunt , idque
Regnum vocabatur necnon verum fuisset Regnum ,fi poteftas vere summa fuisset. Præterquod
extra ordinarius,atqueutitaloquar, accidentalisile pluriumconcursusplerumque
babetur.UndeformaspeculiaresDyarchias
outTriarchiasinArtemintroduce.reneccongrueret, nequeexpediret; tametsifatendum
Monarchiæ vocabulum tuncelleminus commodum. Accedit, quod isti Condomini, ut hivelbisfimiles
a Germanis Jurifconfultis appellantur , non constituant collegium, adeoque nec
mus plurium fententiam sequicompellatur.Nam ut hocjurisfit,opus eft.parto,
Condomini autem Imperium Civitatis habent eodem jure,quo plures eandem remi
fine tractatusSocietatis pro indivifo tenent. Quo cafu notum ejt;quemque
liberum J u c partis arbitrium , nec reliqucrum consensui obnoxium , retinere
la 28. ff. c o m m .divid.(1). Altri poi vi aggiungono quattro altre forti d
'Imperi , cioè i tre sopradetti , q u a n
dofonocorrotii,ovveroingiusti,edilquartoda'due oda trègiàesposti insiemeuniti, ma
Cicerone stesso condirittaragioneafferma chene'corrotti Imperi la Repubblica
non più esiste:onde di ella non possono essere così fatti Imperi:Cum vero in juftus
eft Rex,quemtyrannumvoca:aut injuftioptima
tes,quorumconfenfusfactioeft:autinjujtusipfe Populus cuinomenusitatum mullum
reperio nisi.utetiam ipfum tyrannum appellem : non jam vitiofa , rola ,
dappoiche essa nulla alla mia intenzione può giovare . Or nella Monarchia , o
sia nel Regno , abbia avuto egli il suo principio dalla for za(5),odalvolere de
Cittadini,odall'utile,odallapaurastimolari (6), abbiano questila facoltà di stabilire
solamente i Regnanti, o di conferirle anche l'Impero: Aliter (diceÜbero), ediametroinstituunt,
qui Imperium immediate a Deo esse volunt. Hi negant, Imperium ullo modo a
voluntate populi perdere, nec a civibus quicquam juris ad imperantes manare nec
adeo causam Monarchie, aut ullius in civitate potestatis esse populum, quos
inter D. Ziegle rus ad Grotium lib.1.c.3., c.4.Ethidictum P.Apostoliano bisali quoties
adduétum , qucd imperium sit humanæ creationis, interpretantur, quod fit hominibus
proprium, vel ratione cause instrumentalis, quia per homines exercetur Utuntur
argumentis è Sacris , de poteftate folvendiligandi Sacramenta adminiftrandi, quce
Ministro Eccleficecompetit. Quem ad modum igirur populus eligen dopaftorem non confert
poteftate millam nec conferre poteft, quianonhabet eamipse, nihil que agit, quamut
personam eleétam poteftatia Deo immediati proficiscenti applicet :fic etiam
populu , quando eligit Regem, non confert pote (1) Huber. de Jur. Civit. lib. 1
1. I pag. 265. 266 . 37 S. 31 p.442 . > (4) Gudling.
deJur.Nat.acGent.c.) Ic.7S.5p.81. ) > 9 9 omnino nulla Respublica eft ,
quoniam non eft res populi fed cum tyrannus eam factiovecapesat: nec ipse populus
jam opulus eft, fifitinjustus, quoniam nonest multitude jurisconfenfu ,&
utilitatis communione sociata (2):E Bodinoegregiamente dimostra , che il
composto di alcuno , o di tutte le suddette tre forme d'Impero non può una città,
o sia Republica, che tale sia secondo il fine, che si è proposto, cio è la pace,
ed il giusto, costituire(3): Onde Gudlingio ebbea dire: Talem Rei publice Speciem
qui appellant mixtam ,f erendi quadantenus funt , Si mixtum idem fonet atque
irregulare (4), della qual cosa io non faccio più pa. c.26 p. 533 Edit. Ven.
1731 . C. edit. Francf. an. 1641. Hobbes de (2) Cic. fragm. De Republ.lib.3.c.10
. . (5) Bodino de Republ.lib.4 cil p.579 fta Cive . Bdino de Republ. lib.2c.II(6)
Hobbes de Civ. Cap.5 Huber.lib. (3) Vedi P. 274 Edit. Francf.an.1641. l
ftatem imperandi, fed personam electam producit eamque abhibet exercitio pote
ftatis illia Deo immediate conferendse ego qualis, quanta in ordinee juse fe debeat;
necquo minus populus imperium retineat, fiidexpe di re judicet, Deus intercesit;
multo minus quo partemali quam imperii reservaret, umquam prohibuit; quodde Minifterio
Ecclefiæ inftitutoque matrimonii nullo moda affirmare licet. Nel Regno dico , a
sia nella Monarchia i Principi anno due sorti di diritti. L’una, che ne
costituisce l'Impero in inezzo a' Popoli loro, l'altra , che determina il modo
di averlo; o sia per la quale il Principe Regna, o l'Impero pofliede che modo
di acquistarlo s ipuò anche direttamente chiamare. Altera cautio est, dice
Grozio, aliud efede re quærere, aliud ese modo habendi, quod nonin corporalibus
tantum fed& in incorporalibus procedit (2) Ed. Ubero:Poft Species Monarchie
fequuntur modi,quibus. Regna acquiruntur. Hi funt velordi narii, vel esctraordinarii.
Priores duo funt Electio, dosucceflio Extraordi. nariiperindeduo,matrimonium O
jusbelli.Dejurebelli o matrimonio dié tum quod fatis fit, in superioribus; de
forte nihil quidem, sed nec rarisime i nu fu est, aut pro electione fungitur;
ut olim apud Per fasin Dario H. staspide (3): EGudlingio:: Id queridignum, anperduretvita
Ő anima civitatis una, etiamfi vel Electio. obtineat, vel. Succellio ? E t
putem id contingentibus adnumerandum que unitatem nec efficient prorsus, nectollunt.
Scilicet Electio & Succeffio per Jonas tangit, non autem modum regnand idefinit,
necillum impedit imperanti dominica in subjectos, tamquam in servos proprios
poteftas competit. Appellaturetiam Dominatus. La qual forma di Regno fc
giudico, che mai si possa ritrovare fra gl’uonini, salvo la Teocrazia, benedel suo
popolo, enon giàdilui, deeordinarelecose:scriveBodino:Rex eft, qui summa potestate
conftitutus naturæ legibus non minus obfequentem se præbet, quamsibisübditos, quorum
libertatem, ac rerum dominiacequeacfuce tuctur, fore confilit. Subditorum
libertatem , ac rerum dominationem. adjecimus; ut n.4.5 to e h l. Jus Soc., Gent. n.I m
(1)Huber.deJur.Civit.lib.ICo.28 (4)Gudling. de Jur. Nat.ac.Gent.c. |(4) Guiling,
pergoNat.acGent.c.vel collate. Nec sequitur, cedunt epopulielientis.voluntate;
primeva succedere videntur. Riguardando la prima di codeile due sorti di
diritti ne procedono tre forme di reggimento,osianodiMonarchie unaincuiil Regnante
de'Corpi, Benide? Cittadini dispoticamente dispone, echeperciò Erile o, o
liaBarbarica vien nominata , scrivendo Ubero : Dominatus finitur , quod fit
Imperium , quo Princeps fibi fubjectis ut pater familias servis imperat, omniumquetam
quod ad ( p.243n.1498. o civiliumnaturammaximeabeffectibusveftimandammo, rerum
moralium, cujus limites excedere non licet Imperiiformam,& tenorem Si Deuscertam,ele&tionem
persone fatemur ejusjurisvimin fringerenon populis, præscripserit poteftauferre
jus ligandi e Solvendisuispa pole, quam cætus fidelium invito adimere potest.
Sed hoc de magis uxor viro principatum domus storibus aut non legimus esse determinatum.
Hatenusquidem de imperio Civitatis a Deo, cui omnis anima debeat bere aliquem
ese ordinem imperandi, atque parendi ef ita excesti fefubie&to non tamen.
resquamcorporaDominusexistens, actiones publicas ad suam præcipue utilitatem dirigit
(5): Ed Arrigo Koehlero: Imperium Dominicum seu Despoticum di citur ofia
Governo di Dio . E l'altra delle suddette forme di Monarchia è quella, nella
quale il Principe pel (2) Grot. De Jur. bell.acpac.lib.Icos (5)Huber.de Jur. Civit.
lib.1c.27 . 21 .$ 3 و 37S.XI .436. 3 XV . 7 tum promover. Imofucceffi opere nec
mul ab. antecedente electionependet; undequi luc o de' in quo Nec sequitur ,
ita pergit Zieglerus, homines ab initioSponte adanéti infocietatem civilem
coierunt exhoc ortumhabetpoteftascivilis:Ergotalispoteftasorigineesthumana·Sic
enimperindeliceretargumentari;Adam& Evas ponte adducticcieruntinma
trimonium. Ergo matrimonium institutione non est divinum . S e d 1. 7 p. 273 .
(3) Huber.deJur. Civit.lib.IC.28i (6)Heinr. Toebl.JusSoc., ut Regis , ac Domini
distinctionem certam adhiberemus (1) : ed effa dicesi Ci vile:leggendosiinUbero
: Nobis igitur plures Monarchie Species nonfunt con
siderand.e,quamheeduce,Regnum,& Dominatus,fiveImperium,utAriftote les
loquitier , außacidendo , aut Baplaponèv . Regnum verum & plenum eft, ubi
Princeps habet summam, liberam potestatem faciendi in civitate quod ere ☺ a
petita., qui ed appresso : Ex his tertia resultat differentia , a fine diverso
ristabiliti,est utilitas Regnantis. Qucenec ipsa tamen absque commodo fubječbo
rumpoteftcuftodiri.Ex hisreliqu.edifferentie, inter Dominum, &. Reczorem,
fervos ac cives ,de quibus Claudius ad Meherdatem apud Tacitum 12.annal. c. c
11. quæque fimiliaperse intelliguntur (3):Ed anche comune; Scrive Kochlero:
Imperium Civile est juspræ scribendi ea, quæ ad commune civitatis bonum
promovendum faciunt. Ejuf modi Imperium Civile dicitur Commune ad
amplificationem boni civitatis communis tendat. E la terza delle due fo
pradette forme composta che Mista vien detta: Scrivendo Grozio; Quisibi singulos
Subjicere potest servitute personali, nihil miru m est f li i d o universos f,
i ve ili Civitas fuerunt, sive Civitatis pars, subjicere sibi
poteftfubje&tione sive mere civili , sive mere herili , seve MIXTA. Riguardando
poi la seconda forte degli esposti Diritti sorgono tre altre forme di
nellaquale il Principe Regna per elezione del suo Popolo forma dicesi ELETTIVA
. La seconda,in cui il principe riceve l’impero per legge generale dello stesso
suo popolo o per CONSUETUDINE da questo ricevuta , per trasmetterlo poi a
colui, che dalla medesima Legge , viene stabilito ; sia egli il Primogenito del
preterito Regnante ,o calui, che glinacque nel Regno ;'fia egli il FIGLIUOLO
LEGITTIMO del PRINCIPE; ossia, il NATURALE, maschio, della stessa sua famiglia o
dell'altrui; favorisca finalmente quella legge ipiù vecchi della Prosapia , o
la linea del primo nato (6), la qual forma di Regno da tutti sichia ma
SUCCESSIVA, eda molti una specie della prima, cio è una diversa sorte d’elezione
essere si crede: dappoichèfcriveUbero:Plane,originecujufquecivitatisinspecta,
nullumnonRegnumexvoluntatepopuliortum,fuitele&tivum Seddiversitas eft in
Regno Civili ordinaliter utilitas subjectorum. Quamquam illa fine commodo imperantium
obtineri non potest. In Dominatu originalis Scopus Impe una parte di esso ma
pel tempo della suaviła solamente ;venga cotaleele zione,fatta
oespressamente,operviadiforte, odiDeputati;ecodesta electionis &
fucceffionis deincepsorta est, cum quædam ex imperiis itafunt delata principibus,
ut identidem fedes vacua perele&tionem repleretur .Quædam i t a ut fucceßio
fecundum ordinem certum propinqui sanguinis ab uno in alium
devolveretur,exprescripto Legis.Hanc quidemvocant electionis speciem. Quo modo Althusius
in Polit. qui negant, ullum dari imperiumjure familie hereditarium, fedtotum
apopulodependens, quod G' in Angliamulti opinan tur. Si dicerent, successione mele
nihil, quamele &tionisprimevæ continuationem, ni hilerrarent. Atfijus Imperiinum
quam a populis alienari velint, resreditad STATUM [STATO] disputationissupraaliquotiesperactze.
Quaperelectionem,ipsumjusIm perii independenter alienari pof fe probavimus , ad
vitam ,vel etiam pro heredi bus;Quie tunc eftfucceflio,non amplius a primis
eligentibus dependens, sed familie propria, per actum alienationis. Gudlingio : Id quæri dignum, an perduretvitaį
anima civitatis una, etiamfivelelečžicobtineat,velfucceßio? (1) Bodin.
deRepibl.lib.2 3 in (5)Grot.dejur.bell.ac.pac.lib.4cm | xvi Regni. La prima, 3 Huber.
De jur. Civit., Koehler, de Jur. Soc. Gent.Spe-o sia di . princ.p.302:
dejur.Nat.acGent. (2) Huber.de jur.Civit.lib.I.c.27n. (6)VediGudlingio
5p.272infin. :, communividebitur,Salvatamenciviumlibertate, proprietatererum(2)
cim.V.deImp.Civ.S.526. p.85. C. , ) 9 cum Et xvii et putem id
contingentibus adnumerandunt , quæ unitatem nec efficiunt prorsus,
nectollunt.Sciliceteleftin,o lucceliopersonastangit non autem modum re. gnandi
definit , nec illum impedit ,nec multum promovet ;imo fucceßio pene ab
suo.Antecessore , ed ha l’arbitrio di lasciarlo a chi più gli piaccia, come
della sua eredità privata fare ei potrebbe. E così fatti Regni diconfi EREDITARII.
In tutte codeste cinque forme di Regni sono comprese, siccome sarebbe agevole
il dimostrare, tutte le differenze, che de' supremi Imperi delle monarchie si
sogliono fare. Ele quali Ubero per modo di quistioni propone: Junt qui ex
alisquo querebus differentiam fu m m e poteft a t i s colligunt '. Primo enim
Sottoposti; ma quando vennero in Italia vi fondarono il Regno, che fu detto de
Longobardi, ofia dell'ITALIA e dil quale, e sotto i re loro,e sotto i re francesi,
edi altre nazioni finchè durò fu sempre ELETTIVO . II. che EREDITARIO fu il Principato
di Benevento. III. che fimile , a lui fu il Principato di Salerno . IV. Chenon diversodaeffiin
tal cosa il Principato di Capua esser si vidde. Ma da poichè il più delle volte
difficil cosa è il determinare daloro principjl’ espo fie forme de sopradetti Principati;
Quindi è,cheneconvieneso venteimmitare i più Saggi investigatori del vero nelle
produzioni della Natura : iquali non potendo vedere le occulte caggioni di essa,
da’ continui, e costanti effetti loro, quando esterna violenza non li disturbi,
sicuramentelededucono: scrive Newton tra quelli filosofi senza alcunfallo il piùfamoso:
Ideoque EFFECTUUM NA TURALIUM EJUSDEM GENERISE ÆDEM SUNT CAUSÆ. Uti respirationis
in homine doo in bestia. Descensus Lapidum in Europa in Qualitates. corporum ,
que intendi o remitti o nequeunt , queque corporibus omnibres competunt , in
quibus experimenta instituere Ticet nun ,a fibisemper confona. Extensio corporum
non nisi per sensus innotescit, nec in omnibus sentitur. Sed quia sensibilibus
omnibus competit, de universis affirmatur. Corpora plura dura este experimur;
Oritur autem durities totius a duritie par tium, & in denonhorumtantum corporum
quæ fentiuntur, sed aliorum etiam omnium particulas indivisas es se duras
merito concludimus. Corpora omnia impe netrabilia es se non ratione; fed fenfu
colligimus. Que tractamus impenetrabilia; Lucis in igne culinari do in sole;
reflexionis lucis in ter America ra in Planetis inveniuntur, in deo oncliedimus
IMPENETRABILITATEM efe proprietatem corporum universorum. Corpora omniam obilia
efle et viribus quibusdam, quas viresiner tiæ vocamus, perseverare inmotu, velquiete,
ex hifce corporum visorum proprietatibus colligimus. Extenso, Durities, IMPENETRABILITAS,
Mobilitas,& Vis [Gudling., de jur.Nat., ac Gent.; Huber. dejur. Civit. antecedente
electione pendet; unde qui succedunt, e populi eligentis voluntatepri meva
fuccederevidentur. E finalmente la terza nella quale il principe possiede il regno
per volere del git [Or dichiarari nella maniera sopradetta l'esposte cose io
dico che i lombardi sono inprima nella Pannonia ad un Regno EREDITARIO vel plu
, proqualitatibus corporum univerforum habendesunt TES CORPORUM NONNISI. Nam
QUALIT A PER EXPERIMENT AINNOTESCUNT OQUE GENERALES STATUENDÆ, IDE MENTIS
GENERALITER SUNT QUOTQUOT CUMEXPERI. possunt QUADRANT ; de quemimi nonpoffunt
auferri. Certe contra experimentorum tenorem fomnia non funt , nec a Nature analogia
recedendum temere confingendo est, cumeasimplex eflefoleat o, quaforma
Reipublic.e Civitas gubernetur , Monarchia tant plurium dispoticum, an Civile
Regnum Patrimorium imperio. Et in Monarchia ,sitne .Populovolente an invitofit
conftitutum . Eligantur, niale, anquasi fructuarium, an perpetua sit potestas. Non
an successionegaudeant Imperantes.Temporalis Imperii variarivi parvitate vel
magnitudine Civitatum jus jummi nullisquoque Species hominum judiciafæpe
perstrin fum. Denique, nominum titulorumque interesse pu iner inertie totius,
oritur ab extenfione , duritie , impenetrabilitate viribus inertice partium:
indeconcludimus omnes omnium corporumpartes minimasextendi, et durasele,o
impenetrabiles,& mobiles viribus inertice præditas(1).E nella festa maniera
scrive Ubero, che s'abbiada giudicare nelle cose morali, e civili. Sed ego ita existi
morerum moralinm, civilium NATURAM maxime ab effectibus cefti mandam. Perchè
quando non neè conceduto diavere documento dell'istituzione delle repubbliche, osia
de'Principati, dicuiragioniamo. Da quello, che si è veduto sempre accadere in essi,
quando estraneecaggioni l'ordine naturale non abbiano sconvolto, l'istituzioni
suddette possiamo dirittamente argomentare. Egli è vero non però, che non di
leggieri gl' Imperi Ereditarj da Succeffori con regola cosi fatta si possono
distinguere, imperocchè io alcuna forte di regni successivi all' ultimo
Regnante succedono i figliuoli, od i più stretti Congionti ; E lo stesso avvienene
Regni Ereditarjquandocoluisenza Testamento,osenzanominareal. cuno Estraneo
Erede lascia di vivere la vita. Più folto bujo quellume fidee prendere, che si può,
comechè picciolo, ed incerto egli e. Il Regno de’ Longobardi fu prima
Succellivo, a Ereditario, ed che, usciti dalla Scandinavia Provincia detta VAGINA
GENTIUM, abitarono di qua dal Danubio ed I quali WINILI eranochiama. ti furono poscia
detti LOMBARDI, o dalle finte o dalle vere LUNGHE loro BARBE (7) , ovvero ,
secondo scrive Guntero , che altri affermino da' Popoli della Sassonia detti
Bardi (8). Furonocoftoroinprimada'Duchi eposcia da Refignoreggiati(9); ed il regno
loro finchè rimasero nel loro paese, e sempre ereditario, ovvero successivo. Newton,
Philus. Natur.princ.Ma Gregor. Turon. Excerp. Chron. ex Reg Fredeg. Schol. hist.
Miscell. Paul. Diac. de Gefie Langob.. Gunt.lib.2. mobilitate, 9 appreso elettivo
non potendosi che LA NATURALE INCHINAZIONE DEL SANGUE a figliuoli ed a Cogionti
, gli Estran gli abbia permesso diante porre. Scrivendo GROZIO: Succeflio ab intefiato,
de qua agimus, nihilaliudeft, quam tacitumteftamentum exvoluntatis conjectura. Quintilianus
pater in declamatione: Proximum locum a testamentis habent propinqui: &ita,
siinteftatusquisacfineliberisdecefferit: Nonquoniam utique jufium
fit,adhospervenirebonadefunctorum:fedquoniamreliéta,& velutin medio posita nulli
propius videntur contingere. Quod de bonis noviter quæsitis diximusex NATURALITER
proximis deferri , idem locum habebit in bonis paternis avitisque, finecipsiaquibusvenerunt,
neceorumliberiextent itautgratic Philuf. edit. Ami. Paulo Diac. De Gest. Langob.,
istelod. Huber., de jur. Civ., Reginon. Chron. inprinc. de RegnoWi., Grot. De jur.
bell. Ac pac. nilorum. Constant. Porphyrog. De Themat. Gregor.Turon.Excerp.Chron.exc
Otto Frifingens. De Geft. Friderici Impe credere De Popoli Q. Agle relatiólocum noninveniat. Ondeda Equali essettinonsi
possono argomentare diverse cagioni. Ma nel. Grice: “This conceptual analysis
of the noble is complicated – noble is the male who merits recognition from his
community.” Nono duca di Laurino. Troiano Spinelli, duca di Aquara e di
Laurino. Troiano Spinelli di Laurino. Spinelli di Laurino. Laurino. Keywords:
implicatura, analisi geometrico della’economia razionale, Broggio, lombardia,
lombarda, lunga barba. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Laurino” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Lazzarelli – implicatura ermetico-esoterica -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (San Severino Marche). Filosofo italiano. Grice: “I would call
Lazzarelli a Pythagorean; most Italian philosophers are, as most English
philosophers are Lockean!” -- Grice: “I would call Lazzarelli what Italians
call ‘un filosofo ermetico.’ He certainly flouts all my desiderata for
conversational clarity!” Il documento più importante per ricostruire la vita di
Lazzarelli è Vita Lodovici Lazzarelli Septempedani poetae laureati per
Philippum fratrem ad Angelum Colotium scritto dal fratello Filippo subito dopo
la morte di Ludovico, e indirizzato all'umanista Angelo Colocci. Lazzarelli fu
educato e visse a Campli, in Abruzzo, dove frequenta la biblioteca del Convento
di San Bernardino da Siena, che egli cita nella sua opera i Fasti Christianae
Religionis, un poema di ispirazione cristiana. Ricevette da Sforza un premio
per un poema sulla battaglia di San Flaviano. Ebbe contatti con i più
importanti studiosi dell'epoca e fu seguace dell'ermetismo. Raccolse il
Pimander di Ficino, l'Asclepio e tre trattati sull'ermetismo realizzando una
versione che amplia il corpus testi ermetici. Autore di opere a carattere ermetico
come il “Crater Hermetis,” in sintonia con il sincretismo religioso dei suoi
tempi e in anticipo sulla filosofia di Pico, con la fusione del cabalistico e il
cristiano, ma anche di poemetti a carattere allegorico come l'”Inno a Prometeo”
o didascalico-allegorici come il “Bombyx”. Altri saggi: “De apparatu Patavini
hastiludii (Padova); “De gentilium deorum imaginibus”, dedicato prima a Borso d'Este,
poi a Federico da Montefeltro; “Fasti christianae
religionis” con mss dedicati a Sisto IV, poi a Ferdinando I d'Aragona e ia Carlo VIII
(Bertolini, Napoli); Epistola Enoch (Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”,
Roma; “Diffinitiones Asclepii”; De
bombyce (Lancellotti, Aesii); “Crater Hermetis edito in Pimander Mercurii
Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei; “Asclepius eiusdem Mercurii
liber de voluntate divina”; “ Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano” (Parigi);
Vademecum (M. Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma); “Un carme per
la morte della duchessa d'Atri, Biblioteca del Seminario di Padova; “Carmen
bucolicum” (Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection); carmi di
occasione -- tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) (Biblioteca nazionale
di Napoli); epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita. Il testo dell'opera
può essere letto in M. Meloni ,"Lodovico Lazzarelli umanista settempedano
e il “De Gentilium deorum imaginibus”, in Studia picena, pubblicato in
appendice a C. Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in S. Champier,
in Umanesimo e esoterismo, l’esoterico E. Castelli, Padova, pG. Roellenbleck, Opusculum
de Bombyce, anche in edizione moderna integrale in C. Moreschini,
Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis" -- studi
sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Filosofia ermetica, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, su Ludovico lazzarelli. l rivista Campli Nostra Notizie, su campli nostra
notizie. LAZZARELLI, Ludovico. - Nacque a San Severino Marche da
Alessandro, medico, e da Lorenza Tosti, di nobile famiglia di Campli. La
tradizionale data di nascita (1450) è stata recentemente corretta da Tenerelli
(pp. 9-12) sulla base di un'annotazione manoscritta che si legge nella
biografia del L. composta dal fratello Filippo (meglio trascritta da Meloni) e
della notizia d'archivio riferita da Aleandri (p. 274), secondo cui il padre
risulta già morto nel 1448. Il L. stesso amava definirsi
"Septempedanus", dal nome dell'antica colonia romana che sorgeva nei
pressi dell'odierna San Severino Marche. Alla morte del padre, il L. si
trasferì con la madre e i cinque fratelli a Campli, presso Teramo, dove
ricevette la prima educazione e - stando alla citata biografia, non immune da
toni agiografici, scritta subito dopo la morte - egli dimostrò precocemente
inclinazioni poetiche, tanto da comporre, appena tredicenne, un carme sulla
battaglia di San Flaviano, che gli avrebbe meritato le lodi di Alessandro
Sforza, signore di Pesaro, oltre che l'appellativo di "antiquorum poetarum
simia". L'episodio è il primo di una serie di testimonianze che
permettono di ricostruire alcune tappe, peraltro dall'incerta cronologia, della
vita fitta di spostamenti condotta dal L. a partire dalla metà degli anni
Sessanta. Fu dapprima ad Atri, con l'ufficio di istitutore del figlio del signore
della città, Matteo Capuano, dove compose un carme esametrico per la morte
della duchessa Caterina Orsini Del Balzo, indirizzato con un'epistola
accompagnatoria al fratello Filippo, allora studente di diritto a Padova, che,
nella sua biografia, la definirà "sententiis quidem refertam quam optimis
ultra eius aetatem" (Vita Lodovici, p. 3). Per due anni fu a Teramo presso
Giovanni Antonio Campano, "ut eiusdem Campani fratrem amoenioribus artibus
inficeret simulque ut ipse viri familiaritate doctior fieret"
(Lancellotti, p. 7), dove si applicò allo studio del greco, dell'ebraico, della
matematica e dell'astrologia. Il fratello riferisce di essere stato testimone a
Teramo di una sua disputa con un tal Vitale ebreo, che negava la Trinità, e che
sarebbe stato vinto anche grazie all'allegazione da parte del L. di autorità
talmudiche. Di qui passò a Venezia, dove perfezionò lo studio del latino e del
greco alla scuola di Giorgio Merula. Il componimento esametrico De apparatu
Patavini hastiludii, scritto in occasione dei giochi svoltisi nel 1468 e nel
quale i componenti dell'Accademia padovana dei giuristi erano comparati a
personaggi mitici, rivela una buona dimestichezza con l'ambiente accademico
patavino. Forse su suggerimento di Merula compose un Carmen bucolicum,
costituito da dieci egloghe di soggetto sacro, dedicate ai principali misteri
della vita di Cristo: l'avvento preannunciato dai profeti, la natività della
Vergine, l'incarnazione del Verbo, la nascita, la passione e la morte, la
discesa agli inferi, la resurrezione, l'ascesa al cielo, la discesa dello
Spirito Santo, l'assunzione di Maria Vergine. Al soggiorno in Veneto è inoltre
legato il più importante riconoscimento pubblico dell'attività poetica del L.,
l'incoronazione per mano dell'imperatore Federico III, il 30 nov. 1468, nella
chiesa di S. Marco a Pordenone. Secondo il racconto del fratello, il L.
si sarebbe recato presso l'imperatore, di passaggio nel suo viaggio verso Roma,
e, colta un'occasione propizia, gli avrebbe declamato un suo carme esametrico,
accolto con plauso dall'imperatore che spontaneamente gli avrebbe conferito
l'alloro poetico. Il L. stesso celebrò poco più tardi l'evento nell'egloga
Laurea. Una serie di stampe, del tipo dei tarocchi del Mantegna,
acquistata in una bottega di Venezia, fornì al L. lo stimolo per la
composizione dei due libri De gentilium deorum imaginibus, poemetto di
carattere mitologico-astrologico. I più rilevanti testimoni dell'opera sono due
manoscritti della Biblioteca apostolica Vaticana (Urb. lat., 716, 717),
entrambi di elegante fattura e corredati da una serie di sontuose miniature
(che ricordano, appunto, la tipologia mantegnesca dei tarocchi). I due codici
sono dedicati a Federico di Montefeltro, ma la dedica del ms. 716 è vergata in
modo evidente su una dedica precedente abrasa, che Augusto Campana è riuscito a
leggere parzialmente, quanto basta però per riconoscervi il nome di Borso
d'Este. È così possibile datare il manufatto, e quindi l'ultimazione
dell'opera, al lasso di tempo dall’assunzione del titolo ducale di Ferrara da
parte di Borso alla sua morte. Anche all'interno del testo il nome di Borso
è sistematicamente sostituito con quello di Federico e i passi relativi
sono adattati al nuovo dedicatario. Il ms. è portatore di una seconda
redazione, fin dall'inizio dedicata a Federico già insignito del titolo ducale
di Urbino, quindi posteriore. Meloni ipotizza che si possa riconoscere in
quest'ultimo il codice originariamente pervenuto a Urbino e che il ms. 716 vi
sia giunto più tardi, non solo riconfezionato come si è detto, ma anche
corredato di un ulteriore carme finale di congratulazioni per la guarigione di
Federico da una grave malattia, attribuibile alle conseguenze dell'incidente
occorso al duca nel novembre 1477. L'originaria dedica a Borso d'Este è
perfettamente congruente con la cultura astrologica praticata a Ferrara, ma non
estranea neppure alla corte urbinate. L'opera amplifica la consuetudine di
"appropriare", nel gioco praticato a corte, dei versi alle carte,
secondo il modello dei tarocchi boiardeschi. Ma il L. intende riscattare
dall'uso ludico le antiche immagini delle carte, diffuse anche presso il volgo,
che "triumphos / appellat tactu commaculatque rudi / priscorum formas […]
et simulachra deorum", per restituirle alla loro funzione astrologica e
sapienziale di rivelare il vero "obliquis figuris", poiché
"invenere suis corrispondentia rebus / signa olim vates et simulachra
deum, / quae nunc pro nihilo reputant, gens indiga sensus, / sacrilegi et ludis
asseruere suis" (I, 1, 127-140). Nel primo libro sono presentate e
descritte, in successione, le sfere celesti, dalla Prima causa alla Luna, con
l'aggiunta di un carme conclusivo dedicato alla Musica come prodotto delle
sfere celesti. Dei pianeti, identificati con gli dei antichi, sono descritte le
immagini, indicate le rispettive domus (i segni zodiacali), sinteticamente
narrati i principali miti che hanno come protagonista il dio eponimo, fornite
essenziali notizie astronomiche e illustrati gli influssi astrologici. Il
secondo libro presenta le immagini della Poesia, di Apollo e delle nove Muse,
di Pallade, Giunone, Nettuno, Plutone e, infine, della Vittoria (alla quale è
dedicato un carme in versi eroici, mentre tutti gli altri sono in distici
elegiaci). Nei due codici urbinati, come si è detto, la descrizione verbale
trova riscontro e integrazione nel ricco apparato iconografico che, a sua
volta, può aver ispirato elementi decorativi del palazzo ducale di
Urbino. La vicenda compositiva del poemetto probabilmente si compì
durante il soggiorno del L. a Camerino, dove era stato chiamato da Giulio
Cesare da Varano per attendere all'educazione del nipote Fabrizio. Il L.
intraprese quindi la stesura di un nuovo ambizioso poema, i Fasti Christianae
religionis, che portò a compimento in una prima redazione a Roma, dove si recò
al seguito di Lorenzo Zane, patriarca di Antiochia, presso il quale approfondì
gli studi astronomici e astrologici. La composizione del poema è dai
biografi (e, in primis, dal fratello) addotta a documento dell'ortodossia
religiosa del L., contro i sospetti di esercitare arti magiche: "Quidam,
livore atque invidia perfusi, et palam et in occulto Lodovicum criminari
coeperunt, dicentes ipsum negromanticis magicisque artibus, sive
praecantationibus, operari" (Vita Lodovici, p. 7). Il L. avrebbe, in
effetti, compiuti alcuni esorcismi, vaticini e guarigioni, ma sempre attraverso
il segno della Croce e la mediazione dell'assistenza divina. Bertolini ha
ricostruito la complessa vicenda compositiva dei Fasti sulla base delle
testimonianze manoscritte superstiti (tra cui il ms. Vat. lat., 2853,
autografo, nel quale si depositano varie fasi redazionali) e delle indicazioni
cronologiche interne, che permettono di riconoscere tre redazioni: una prima,
dedicata al pontefice Sisto IV, compiuta entro il 1480; una seconda dedicata al
re di Napoli Ferdinando d'Aragona e a suo figlio Alfonso duca di Calabria,
compiuta immediatamente dopo, entro il 1482; una terza più tarda, dedicata al
re di Francia Carlo VIII, allestita non prima del 1494 e probabilmente
abbandonata dopo il fallimento dell'impresa italiana del sovrano. Si tratta di
un vasto poema in sedici libri, costruito secondo il modello del Fastiovidiani.
Sono descritte e celebrate le ricorrenze liturgiche cristiane secondo la loro
successione nel calendario; vengono inoltre introdotte osservazioni di
carattere astronomico e saltuarie indicazioni relative alle attività agricole.
I primi tre libri celebrano le feste mobili del calendario liturgico, i dodici
successivi sono dedicati ai singoli mesi, cominciando da marzo, l'ultimo tratta
del Giudizio finale. Il poema ricevette onorata accoglienza da
parte dell'ambiente romano, come dimostrano i due epigrammi del Platina e di
Paolo Marsi riferiti dal fratello Filippo e pubblicati dal Lancellotti (pp. 27,
29), nei quali il poeta è celebrato come una sorta di Ovidio reincarnato. Al
Platina sono anche indirizzati un paio di epigrammi del L., il secondo dei
quali in morte (21 sett. 1481). Secondo Foà (p. 784), al 1481 daterebbe
la conoscenza con Giovanni da Correggio, alla quale lo stesso L. attribuisce un
ruolo fondamentale per la propria conversione alle dottrine ermetiche.
L'episodio più noto relativo al rapporto fra i due e al quale il L. stesso fa
emblematicamente riferimento risale però all'11 apr. 1484, domenica delle
palme, sotto il pontificato di Sisto IV, quando assistette all'apparizione
romana di Giovanni da Correggio che, a cavallo e coronato di spine, attraversò
la città e, pur privo di qualsiasi istruzione grammaticale e retorica, predicò
al popolo compiendo atti e riti simbolici e manifestando una sapienza teologica
dovuta a una sorta di mistica ispirazione che gli valse anche incontri con il
pontefice e vari prelati. Gli studi di Kristeller hanno infatti
dimostrato l'appartenenza al L. dell'Epistola Enoch de admiranda ac portendenti
apparitione novi atque divini prophetae ad omne humanum genus, dove è
diffusamente narrato il viaggio romano di Giovanni da Correggio seguito da una
dichiarazione dell'autore di piena adesione e di conversione: "quod novae
ac tantae rei sacramentale mysterium ego attonitis aspiciens oculis, mecumque
ipse attente et ex totis animi viribus tunc revolvens, ne diuturnior obesset
mora, relictis Parnasi collibus ceterisque omnibus, ad montem Syon primus eum
sum protinus insequutus" (ed. Brini). Con lo stesso pseudonimo di
Enoch il L. firmò anche alcuni epigrammi dedicati agli scritti dello Pseudo
Dionigi l'Areopagita e, soprattutto, le prefazioni ai testi contenuti nel ms.
II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, una raccolta
completa del corpus ermetico nella traduzione di Marsilio Ficino, integrato
dall'Asclepius attribuito ad Apuleio e dalle Definitiones Asclepii (ignote a
Ficino perché mancanti nel suo codice), tradotte per la prima volta dallo
stesso Lazzarelli. Nelle tre prefazioni, una delle quali in versi, il L.
indirizza la sua opera di raccoglitore e traduttore a Giovanni da Correggio,
nel tono solenne e sacrale dell'iniziato, affermando il sincretismo tra
teologia cristiana e teologia ermetica, sostenendo, contro Ficino, la maggiore
antichità di Ermete Trismegisto rispetto a Mosè e presentando la propria
conversione dalla poesia agli studi sacri come una vera e propria
rigenerazione: "quondam poeta nunc autem per novam regenerationem verae
sapientiae filius" (Kristeller). Il L. entrò quindi in rapporto con
Francesco Colocci quando questi, avendo con sé il nipote Angelo, si trovava nel
Regno di Napoli come governatore di Ascoli Satriano. Secondo Fanelli (p. 16
n.), i Colocci passarono nel Regno di Napoli dopo il 1485: poco prima del 1490
andrebbero dunque collocate la composizione e la stampa del poemetto del L. De
bombyce, dedicato "ad Angelum Colotium honestae indolis
puerum". La datazione dell'opera è controversa e il più recente
editore, Roellenbleck, ne propone una molto più alta, che peraltro non si
concilia con la tematica ermetica del poemetto né con l'anno di nascita di
Angelo Colocci (il 1474), che pare dovesse avere un'età idonea a essere
prescelto come lettore esemplare ("lege sollicito mea carmina visu",
v. 17), vero e proprio filius da rigenerare (l'appellativo di puer può avere
un'estensione molto ampia). Il Bombyx si presenta, infatti, come un poemetto
didascalico dedicato all'allevamento del baco da seta, ma teso a svelarne,
sulla traccia di analogie già suggerite da s. Basilio, la simbologia
cristologica e a farne il simbolo di una rigenerazione alla quale tutti gli
esseri umani sono chiamati, compiuta la quale potranno a loro volta generare
una prole divina: "Surgite, terrigenae, bombycum exempla sequuti. Linquite
corporeos sensus, mens candida regnet Sancta palingenesis vos complectatur et
orti / rursus humo coelum penitus penetrate relicta Gignite divinam repetito
semine prolem. Quo pacto id fieri possit, mox forte docebo, hic gradus aethereo primus statuatur Olympo. L'ulteriore
opera dedicata al tema della generazione divina, annunciata in chiusura del
Bombyx, può forse essere riconosciuta nel De summa hominis dignitate dialogus
qui inscribitur Crater Hermetis. Si tratta di un dialogo nel quale sono
inseriti alcuni componimenti poetici, di vario metro, nei momenti di maggiore
intensità d'ispirazione e di proclamata esaltazione mistica. Gli interlocutori
sono lo stesso L., che ha ruolo di maestro, e il re di Napoli Ferdinando
d'Aragona, dopo che, ormai vecchio, ha ceduto il governo dello stato al
primogenito Alfonso II. Queste indicazioni permettono di collocare l'azione, e
anche la composizione, tra il 1492 e il 1494, data della morte del re. Il
recente editore, Moreschini, ha anche riconosciuto due redazioni dell'opera, la
più antica testimoniata dal ms. della Biblioteca nazionale di Napoli, la
seriore dalla stampa procurata da J.
Lefèvre d'Étaples a Parigi. La differenza più evidente tra le due redazioni
consiste nella presenza, nella prima, di un terzo interlocutore, PONTANO, con
il ruolo, secondario ma non indifferente, di affiancare il re, discepolo
entusiasta e convinto, come poeta desideroso di approfondire anche verità
filosofiche e teologiche. L'origine del titolo è in un passo del Corpus
Hermeticum in cui si parla di un crater inviato d’Ermete sulla terra affinché
in esso gli uomini possano battezzarsi e ricevere così l'intelletto che li
rende capaci di partecipare alla gnosi. A conclusione dell'opera il L. si
autorappresenta come colto da una sublime ispirazione che lo rende capace di rivelare
il mistero della generazione di anime divine da parte del vero uomo, che ha
raggiunto la pienezza della conoscenza e che si rende così simile a un dio.
Moreschini (1985, pp. 206 s.) osserva come nella seconda redazione il L. eviti
di rendere troppo espliciti i rapporti tra ermetismo e cristianesimo (lo stesso
titolo, nella prima redazione, recitava: … qui inscribitur via Christi et
crater Hermetis), attenuando, per esempio, le argomentazioni che tendevano ad
attribuire all'ermetismo priorità cronologica (e anche genetica) nei confronti
di ebraismo e cristianesimo. Lo scritto manifesta inoltre ampie conoscenze
cabalistiche e talmudiche, che tradizionalmente si ritenevano patrimonio, in
quegli anni, del solo Giovanni Pico della Mirandola. Ultima opera del L.
sembrano essere i De mathesi et astrologia libri, segnalati da LANCELLOTTI, che
invano ne cerca copia presso gl’eredi del filosofo. Brini ne propone, ma senza
indizi veramente probanti, l'identificazione con un trattato di alchimia,
conservato nel ms. 984 della Biblioteca Riccardiana di Firenze: una raccolta di
preparazioni alchimistiche tratte daLullo e da altri, presentate da L. con un
breve testo introduttivo che si apre con un epigramma di sei distici. Il L.
stesso, definendo questo suo libro vademecum, ne indica il contenuto:
"agemus in hoc libro Vade mecum […] de alchimia que est naturalis magia et
vocatur astrologia terrestris. In questa scienza dichiara di essere stato
istruito "a Joane Ricardi de Branchis de Belgica provincia […] qui in hoc
fuit magister meus currente ab incarnatione verbi anno MCCCCXCV" (ed.
Brini, p. 76). Nella sua biografia il fratello attribuisce al L. capacità
divinatorie attraverso il sogno -- habebat somnia, quae potius visiones, sive
oracula dici potuissent" (Vita Lodovici, p. 10) - e in sogno il L. avrebbe
anche antiveduta la propria morte, intervenuta a San Severino a pochi giorni di
distanza da quella del fratello Girolamo. Delle opere del L. sono a
stampa: De apparatu Patavini hastiludii, Patavii 1629; De gentilium deorum
imaginibus, a cura di W.J. O'Neal, Lewiston, NY, 1997; Fasti Christianae
religionis, a cura di M. Bertolini, Napoli 1991; Epistola Enoch, Venezia, cfr.
Indice generale degli incunaboli [IGI], VI, p. 225), ora a cura di M. Brini, in
Testi umanistici sull'ermetismo, Roma 1955, pp. 34-50; la traduzione delle
Diffinitiones Asclepii in appendice a C. Vasoli, Temi e fonti della tradizione
ermetica in uno scritto di Symphorien Champier, in Umanesimo e esoterismo, a
cura di E. Castelli, Padova 1960, pp. 251-259; le prefazioni del ms. II.D.I.4
della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo in appendice a P.O.
Kristeller, Marsilio Ficino e Lodovico Lazzerelli. Contributo alla diffusione
delle idee ermetiche nel Rinascimento, in Annali della R. Scuola superiore di
Pisa, quindi in Id., Studies in Renaissance thought and letters, Roma 1956, pp.
221-247; De bombyce [Roma, Eucharius Silber, s.d.] (IGI) quindi in Bombix.
Accesserunt ipsius aliorumque poetarum carmina…, a cura di G.F. Lancellotti,
Aesii 1765, e ora in G. Roellenbleck, Ludovico Lazzarelli Opusculum de Bombyce,
in Literatur und Spiritualität. Hans Sckommodau zum siebzigsten Geburtstag, a cura
di Rheinfelder, Christophorov, Müller-Bochat, München; Crater Hermetis nel
corpus di testi ermetici raccolti da J. Lefèvre d'Étaples: Pimander Mercurii
Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei. Asclepius eiusdem Mercurii
liber de voluntate divina. Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano, Parisiis,
in officina Henrici Stephani, quindi, in edizione moderna, parzialmente, a cura
di M. Brini in Testi umanistici sull'ermetismo, cit., pp. 51-74 e,
integralmente, in C. Moreschini, Il "Crater Hermetis" di Ludovico
Lazzarelli, in Id., Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis".
Studi sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Vademecum, a
cura di M. Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo, cit., pp. 75-77.
Ampie sillogi di scritti del L., frutto di compilazioni sette-sono
contenute nei mss. della Biblioteca comunale di San Severino Marche; il carme
per la morte della duchessa d'Atri è conservato nel ms. 598 della Biblioteca
del Seminario di Padova (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Uno sconosciuto testimone
delle egloghe di Calpurnio e Nemesiano, in ITALIA medioevale e umanistica. Il
codice unico del Carmenbucolicum si trova nella Biblioteca universitaria di
Breslavia, Milich Collection, VIII.18; una silloge di carmi di occasione (tra
cui i versi che gli valsero l'incoronazione) è nel ms. V. E. 59 della
Biblioteca nazionale di Napoli. Gli epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita
si leggono nel ms. W.344 della Walters Art Gallery di Baltimora. Fonti e
Bibl.: San Severino Marche, Biblioteca comunale, Mss.; due copie di Lazzarelli,
Vita LAZARELLI Septempedani poetae laureati per Philippum fratrem ad Angelum
Colotium, da cui deriva in gran parte la biografia premessa da G.F. Lancellotti
al poemetto del L. Bombix…, cit., Aesii 1765; F. Vecchietti - F. Moro,
Biblioteca picena, V, Osimo 1796, pp. Lancetti, Memorie intorno ai poeti
laureati d'ogni tempo e d'ogni nazione, Milano, Aleandri, La famiglia
Lazzarelli di Sanseverino (Marche), in Giorn. araldico genealogico diplomatico
italiano, Ohly, Ioannes "Mercurius" Corrigiensis, in Beiträge zur
Inkunabelkunde, Thorndike, A history of magic and experimental science, V, New
York, Donati, Le fonti iconografiche di alcuni manoscritti urbinati della
Biblioteca Vaticana, in La Bibliofilia, vi è riferita la lettura di Campana
della dedica del ms. Urb. lat. Kristeller, Lodovico L. e Giovanni da Correggio,
due ermetici del Quattrocento, e il manoscritto II.D.I.4 della Biblioteca
comunale degli Ardenti di Viterbo, in Biblioteca degli Ardenti della città di
Viterbo. Studi e ricerche, a cura di Pepponi, Viterbo, Delz, Ein unbekannter
Brief von Pomponius Laetus, in Italia medioevale e umanistica, IX (1966), p.
419; F. Ubaldini, Vita di mons. Angelo Colocci, a cura di V. Fanelli, Città del
Vaticano, Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L., in Res publica
litterarum, Sosti, Il "Crater Hermetis" di L. L., in Quaderni
dell'Istituto nazionale sul Rinascimento meridionale, I (1984), pp. 99-133; N.
Tenerelli, L. L. ed il rinascimento filosofico italiano, Bari 1991; M.P. Saci,
L. L. da Elicona a Sion, Roma; Foà, Giovanni da Correggio, in Diz. biogr. degli
Italiani, LV, Roma 2000, pp. 784-786; D.P. Walker, Magia spirituale e magia
demoniaca da Ficino a Campanella, Torino, Meloni, L. L. umanista settempedano e
il "De gentilium deorum imaginibus", in Studia picena; Kristeller,
Iter Italicum, ad indices; Rep. fontium hist. Medii Aevi, VII, pp.
159-161.Luigi Lazzarelli. Lodovico Lazzarelli. Ludovico Lazzarelli. Lazarelli. Keyword:
implicatura ermetica, mascolinita romana, religione officiale romana, campo
marzio, marte, dio della guerra, marte come pianeta, il simbolismo di marte
nell’arte e la filosofia, marte e apollo, marte e Nietzsche --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Lazzarelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Leanace – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari).
FIlosofo italiano. Pythagorean. Giamblico.
Grice e
Lecaldano – transpatia – l’impassibile di Cicerone -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Grice: “Lecaldano is interested in
altruism as the basis for morality; I’m interested in morality as the basis for
altruism; he ain’t Kantian; I am!” -- Grice: “I love Lecaldano; perhaps because
he is an Italian, he focused on Scots! His analyses of Smith and Hume on
‘sympathy’ is ‘simpatico,’ as the Italians say.” Grice: “Lecaldano engages in
the kind of linguistic botanising I do when I reflect on ‘cooperation’ versus
‘benevolence’ versus ‘empathy’ versus ‘sympathy’ versus ‘compassion.’ Unlike
Lecaldano, I end up with a rationality-based account of cooperativeness – or
rather a narrowing of ‘co-operation’ to ‘rational co-operation’ – there are
others!” Si laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La Società Italiana di
Filosofia Analitica (“to keep us apart from non-analytics like Plato!”). Membro
della Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di Lecaldano spaziano dalla
storia della filosofia morale sino alle discussioni contemporanee sulla
bioetica. Avvalendosi anche del rigore concettuale della filosofia analitica,
indirizza la sua ricerca alla ricostruzione storiografica della morale
anglosassone dal XVII al XIX secolo, con particolare riferimento ai filosofi
scozzesi (David Hume, Adam Smith). Ha inoltre indagato criticamente i problemi
della metaetica. In bioetica, Lecaldano si prefigge l'obiettivo di una
chiarificazione delle implicazioni morali legate alle bio-tecnologie, che
sfocia in una prospettiva laica per la pacifica gestione del conflitto morale che
le "tecnologie della vita" hanno prodotto. Saggi: “Le analisi del
linguaggio morale – “Buono" e "dovere" (Roma, Ateneo), “La
fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La lume della ragione, gl’iluminati””
(Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza); “Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica:
la scelta morale” (Roma, Laterza); “La morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario
di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica secolare – senza Dio” (Roma, Laterza);
“Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano,
Cortina); “Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino); -- la religione
officiale in Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica
Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di
vista morale di E. Lecaldano sulla nascita, la cura e la morte di Luca Corchia.
Riflessioni di Lecaldano sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di
simpatia tra conversazione comune e letteratura “La molteplicità di usi
di simpatia” È possibile riconoscere diversi significati nel termine
simpatia che di solito è accompagnato da un significato positivo, anche
se in realtà è possibile estendere il suo significato fino a usarlo con
connotazione negativa. Nel dizionario troviamo distinte 13 accezioni del termine,
dall’attrazione sentimentale alla condivisione di un atteggiamento o
posizione politica. Come notava Hume nel XVIII secolo, è molto difficile
parlare delle operazioni della nostra mente in termini del tutto esatti,
perché il linguaggio comune raramente fa delle sottili distinzioni. Il
termine simpatia viene compreso dalla gran parte delle persone, ma paga
la sua ampia diffusione con l'indeterminazione che ad esso si
accompagna. E enorme l'utilizzazione che ha avuto la simpatia, sia in
forma implicita che esplicita. Lynn Hunt suggerisce che la nozione di
simpatia sia la prosecuzione di quella che nei testi illuministi viene
analizzata come simpatia; Hunt, poi, privilegia la simpatia assimilata
alla compassione. Già nel diciottesimo secolo Rousseau, assimilando la
simpatia e la compassione, la considerava una forma di pietà suscitata
solo da pene e dolori. Mentre Hume e Smith la consideravano come la capacità,
più sviluppata negli uomini che negli animali, di partecipare attivamente
alle condizioni altrui, sia dolorose che gioiose. E’ illuminante la tesi di
Hunt secondo cui il rafforzarsi della simpatia fra gli esseri umani nella
cultura europea del XVIII secolo (reso possibile dai romanzi) portò a
riconoscere l'eguaglianza di molti esseri umani che fino a quel momento
erano stati emarginati. Molti romanzi in secoli successivi accesero le
emozioni e la partecipazione simpatetica del pubblico.Verosimilmente
anche molta della forza espressiva del cinema può essere identificata
nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le sue tecniche, degli
stati d'animo e della trasformazione delle emozioni dei personaggi. (discorso
su Kundera) “Un percorso di approfondimento” Lo sforzo di conoscere
il funzionamento della simpatia si connette con la questione relativa a
quanto la simpatia si debba ritenere essenziale per la genesi della
pratica morale diffusa tra gli esseri umani. Cercheremo di capire se la
simpatia sia necessaria o meno per la moralità ed esporremo le
argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo restando che la simpatia può
essere considerata necessaria per la nostra vita etica, ma non sufficiente.
Simpatia può riferirsi a un'attitudine conoscitiva tramite la quale
riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui, oppure a una reazione
affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti altrui. Concordando con
Stueber, andremo verso la simpatia intesa come preoccupazione per le
altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in base ai quali
individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte quello che considera la
simpatia come un'operazione mentale semplice e istintiva, un contagio
emozionale automatico; 2. Dall'altra quello che considera la simpatia
come un processo psicologico più complicato e che comporta un minimo di
riflessione. L'impostazione adeguata è quella che non confonde i due
livelli di simpatia e non semplifica le cose, presentando una concezione
riduttiva. Insisteremo inoltre sulla connessione tra simpatia e la
pratica non solo della moralità, ma della giustizia, della politica, così
come sulla sua incidenza nelle forme di civilizzazione. Prenderemo le
distanze dall'esportazione della simpatia sul piano normativo che vede in
essa ciò che è necessario e sufficiente per la costruzione di una moralità
umana. La nozione di simpatia ha una lunga tradizione nella storia della
filosofia. La prima importante nozione di simpatia è quella che le
riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le cose del mondo.
Nella cultura classica greca e latina, la simpatia utilizzata per richiamare
una connessione armonica che unisce fra loro esseri umani e realtà
naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella filosofia antica viene
usata per richiamare un processo che si sviluppa nel mondo fisico e solo
secondariamente in quello umano, infatti gli stoici si riferiscono ad una
simpatia universale per indicare l'affinità oggettiva esistente fra tutte
le cose. Gli stoici sono importanti per l'influenza che ebbero sui
moderni interessati alla simpatia come Hume e Smith. In Plotino troviamo
un'immagine che verrà ripresa da Hume. Questo concetto naturalistico
della simpatia è il fondamento della magia e verrà ripreso dai maghi del
Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia ha un'estensione
prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno
universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione
automatica. Fin dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione
positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è un'importante
innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Francesco d'Assisi, che nel
“Cantico delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante,
ma anche il sole, la luna, l'acqua e il fuoco. Questo atteggiamento è
“empatia” (oriente e Schopenhauer) “Una relazione attiva fra due
poli” La simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura
umana. Critica a Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia
nell'uomo, visto come essenzialmente egoista. Significativi qui sono
Shaftesbury e Hutchenson che però, pur riconoscendo agli esseri umani un
grado di apertura affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato
quella completa soggettivizzazione che troviamo in Hume e Smith.
Shaftesbury, infatti, con l'impostazione platonizzante tende a considerare
la simpatia come una trama che si estende al di là del mondo umano,
creando armonia fra vite umane ed ordine universale. Hutchenson, invece,
preferisce il termine simpatia quello di “senso pubblico”, facendo
riferimento ad un contagio emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una
trattazione della simpatia erronea perché incapace di cogliere il suo
collegamento con l'immaginazione e la riflessione. Ciò non toglie che le
analisi di Hutchenson siano tornate attuali. Troviamo la trattazione
più approfondita dell'idea di simpatia e si può individuare nelle analisi
di Hume e Smith due diverse concezioni che influenzeranno molti
pensatori. Hume e Smith concordano nel considerare la simpatia solo come
un dato della natura della psicologia umana e non una forza cosmica. Per
Hume la simpatia è un principio psicologico che permette la comunicazione
e la partecipazione fra gli esseri umani; per Smith è altresì un
principio psicologico, ma tende a distinguere fra ciò che possiamo
approvare e ciò che dobbiamo disapprovare. Queste diversità tra i due
autori incidono sulla connessione fra simpatia e moralità: Smith la
concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo necessaria ma non
sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel “Trattato sulla
natura umana”, in cui troviamo una linea interpretativa ben riconoscibile
che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume un principio
costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti fondamentali. La simpatia
non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo quelle fra esseri
umani, nonostante coinvolga anche relazioni con gli animali e tra loro
stessi; Nella natura umana esiste una gran tendenza a prestare agli
oggetti esterni le stesse emozioni che osserviamo in noi stessi -- tendenza
che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione della
simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di
questi ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali
suscitando le stesse emozioni provocate nella nostra specie. Hume
distingue due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin
dall' infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in
modo indiretto, ricorrendo all'immaginazione riflessiva e non immediata
che genera i sentimenti morali. A quest'ultima forma di simpatia può
essere ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale
e simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non
è in grado di rendere conto della distinzione che facciamo tra virtù e
vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione
della simpatia alternativa a quella di Hume. Infatti, a Smith non
interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la identifica
come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e
passioni altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere
su nel condividere emotivamente la risposta che l'altro dà alla
situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa
simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato
complesso e articolato: vi è un primo stadio che è la capacità di
ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta
sofferenza o piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato
dall'approvazione o disapprovazione che si dà della condotta altrui;
infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre
approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia
come approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella
generica analizzata da Hume, ma molto più aperta per ciò che riguarda il
ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come approvazione
morale in Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica
l'intervento di uno spettatore immaginario capace di far valere le
esigenze di una più completa ricerca delle informazioni rilevanti. Concezione
diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla simpatia
col ter. Grice: “While his research on sympathy is erudite, he shows little
sympathy! As far as his philosophy of laicity (an Italian obsession) is
concerned, he forgets for Romans religio WAS a matter of state – those who did
not submit were thrown to the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize,
but then he would, being a post-Lateran-pact traumatized Italian – that not
only religion was for the romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but
that the STATE was a matter of religion. This was well perceived by that branch
of fascism who culticated the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies
to the birth of Christ! I would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself
as ‘ethnic, ‘ethnicus, ennico, a pagan, or heathen!” Eugenio Lecaldano. Keywords: simpatia,
simpatico, antipatico, compassione, compassivo, empatia, impassibile,
transpatia, patia, patico, il patico, diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler
uses ‘transpathy,’ but then he would use anything!” filosofi italiani della
simpatia, croce, l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia, impassibile, im-
negative, im- enfatico – teorie della simpatia morale in Italia --. Lecaldano.
Keywords: illuminati e illuministi --. Refs.: transpatia, dia-pathia,
trans-passione – trans-passio. Luigi Speranza, “Grice e Lecaldano” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Lelio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Gaio Lelio. C.
Lelio, ha fama soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano
Minore. C. Lelio conosce i tre filosofi ateniesi inviati a Roma, ma fu
attirato principalmente dal stoico Diogene.In seguito C. Lelio ha rapporto con
Panezio di Rodi e ne diffuse la dottrina nell’aristocrazia romana.Come legato
di Scipione, C. Leliopartecipa alla guerra contro i punici e si distinse
nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la pretura.Appartenne agli
auguri è diviene console. Nelle lotte civili determinate dall'azione di
Tiberio Gracco C. Lelio si schiera contro questo e i suoi fautori. C.
Lelio e ammirato, se non come oratore come uomo politico, e forse dovette il
soprannome di "sapiens," datogli dall’aristocrazia, al suo
atteggiamento politico più che ad altro. Gaio Lelio Gaio Lelio Console
della Repubblica romana Nome originale: Gaius Laelius. Figli: Gaio Lelio
Sapiente. Gens: Laelia. Consolato. Gaio Lelio è un filosofo stoico, politico e
militare romano. E uno dei migliori amici e più stretti
collaboratori di Publio Cornelio Scipione Africano, che seguì in Spagna e in
Africa durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e
questore. Si distinse particolarmente nella conquista di Carthago e in
seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Sappiamo
che dopo un viaggio di trentasette giorni, partito da Tarraco in Spagna (in
seguito alla presa di Carthago), raggiunse a Roma. Quando entrò in città
insieme ad una grande schiera di prigionieri attirò l'attenzione del popolo che
si riversò lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto
in senato, dove racconta che Carthago fu presa in una sol giorno. Si tratta
della principale città cartaginese della Spagna. Oltre a questa notizia rifere
che erano state riprese alcune delle città che si erano ribellate ai romani,
mentre altre erano state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono
cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio
Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si stava preparando per passare con
un secondo grande esercito in Italia, tanto da destare nuove preoccupazioni nei
senatori, visto che a stento si era riusciti a resistere ad Annibale ed al suo
esercito. Lelio rifere degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo.
Alla fine il senato decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche
cerimonie di ringraziamento agli dèi per l'esito felice della guerra in Spagna
e ordinò a Lelio di far ritorno dal suo comandante Scipione il prima possibile,
con le stesse navi con cui era venuto. Dopo la fine della guerra fu edile
plebeo, pretore e console e fornì importanti informazioni sulla vita
dell'amico, Scipione Africano, allo storico Polibio. Gaio Lelio è il padre di
Gaio Lelio Sapiente, console insieme a Quinto Servilio Cepione. Smith,
Dictionary of greek and roman biography and mythology vol. 2, p. 706 n.1, su
The Ancient Library. URL consultato il 28 febbraio 2022 (archiviato dall'url
originale il 6 marzo 2013). ^ Polibio, X, 3.1-2. Livio, XXVII,
7.5-6. Polibio, X, 8.6-10. ^ Livio Polibio, X, 3.2-3. Bibliografia Fonti
antiche (GRC) Appiano di Alessandria, Historia Romana (Ῥωμαϊκά), VII e VIII.
(traduzione inglese Archiviato il 20 novembre 2015 in Internet Archive.). (LA)
Livio, Ab Urbe condita libri. (testo latino e versione inglese ). (GRC)
Polibio, Storie (Ἰστορίαι). (traduzione in inglese qui e qui). (GRC) Strabone,
Geografia. (traduzione inglese). Fonti storiografiche moderne Giovanni Brizzi,
Storia di Roma. 1. Dalle origini ad Azio, Bologna, Patron, 1997, ISBN
978-88-555-2419-3. André Piganiol, Le conquiste dei romani, Milano, Il
Saggiatore, 1989. Howard H.Scullard, Storia del mondo romano. Dalla fondazione
di Roma alla distruzione di Cartagine, vol.I, Milano, BUR, Laelius, in Who's
Who in The Roman World, Londra, Routledge, 2001. Romanzi storici Santiago
Posteguillo, L'Africano, Casale Monferrato, Piemme, 2014, ISBN
978-88-566-3295-8. Santiago Posteguillo, Invicta Legio, Casale Monferrato,
Piemme, Gaius Laelius, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. Predecessore Console romano SuccessoreManio Acilio Glabrione e Publio
Cornelio Scipione Nasica(190 a.C.) con Lucio Cornelio Scipione AsiaticoGneo
Manlio Vulsone e Marco Fulvio NobilioreV · D · M Seconda guerra punica V · D ·
M Guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Portale Antica
Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani del III secolo
a.C.Politici romani del II secolo a.C.Militari romaniMilitari del III secolo
a.C.Militari del II secolo a.C.Nati nel 235 a.C.Morti nel 160 a.C.Consoli
repubblicani romaniLaeliiPersone della seconda guerra punica[altre]. Lelio was
a statesman and orator who took a keen interest in philosophy, becoming an
acquaintance of members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the
nickname ‘sapiens’ (know it all). According to Cicero, this was not because he
knew it all, but because of his self control in matters of judicial sentencing.
Cicero greatly admired him and featured him in a number of his philosophical
works.
Grice e Leocide – Roma – filosofia italiana– Luigi Speranza (Metaponto).
Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by
Giamblico di Calcide.
Grice e Leofronte – Roma – filosofia italiana– Luigi Seranza (Crotone).
Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by
Giamblico di Calcide.
Grice e Leone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Metaponto). FIlosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di
Pitagora by Giamblico di Calcide. Alcmaeon di Crotone dedicated a book to him.
Grice e Leonzio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo italiano. A Pythagorean, according to The Vita di Pitagora di
Giamblico di Calcide.
Grice e Lettine – Roma – filosofia italiana – Luigi Spearnza (Siracusa).
Filosofo italiano. A Pythagorean, according to “Vita di Pitagora” by Giamblico
di Calcide.
Grice e Libanio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Supported Giuliano in his attempt to revive paganism
(a charming letter survives) – “but he is also a friend and teacher of many
Christians, can you believe it?” – Loeb.
Liberale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. – Ebuzio Liberale (not to be confused with Liberace)
was saying at Lyons (Lugdunum) at the time it was destroyed by fire. He was a
dear friend of Seneca. He followed the Porch. In his eulogy, Seneca declaims:
“While he was accustomed to dealing with everyday difficulties, a catastrophe,
unexpected, and of such magnitude, was more than he could handle.”
Grice e Licenzio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. – A pupil of Agostino. He achieved a reputation of a poet
before dying young.
Grice e
Livi – consenso sociale – filosofia italiana – l’aporia: se cristiano, non
filosofo. Luigi Speranza (Prato). Filosofo italiano. Grice: “Livi
is one of the few Italian philosophers who have taken Moore’s ‘common-sense’
seriously!” – Grice: “The way Livi justifies common-sense, not unlike Moore, is
via a principle of ‘coherence’” Allievo di Gilson, collabora con Fabro, Noce
edAgazzi. Inizia la scuola filosofica del senso comune, rappresentata dalla
ISCA (International Science and Common Sense Association), che ha come organo
ufficiale la rivista "Sensus communis -- Alethic Logic". Tra i suoi
numerosi discepoli o estimatori vi sono Renzi (autore di importanti saggi di
Storia della Metafisica), Bettetini, Arecchi, Spatola (psichiatra),
Covino ed Arzillo. Fondatore della casa
editrice Leonardo da Vinci, fu membro associato della Pontificia Accademia di
San Tommaso, decano e professore emerito della Facoltà di Filosofia della
Pontificia Università Lateranense. Firmò con Giovanni Paolo II alcune parti
dell'enciclica Fides et ratio. «Senso comune» è il termine utilizzato da
Livi in chiave anti-cartesiana per individuare le certezze naturali e
incontrovertibili possedute da ogni uomo. Non si tratta di una facoltà o di
strutture cognitive a priori, ma di un sistema organico di certezze universali
e necessarie che derivano dall'esperienza immediata e sono la condizione di
possibilità di ogni ulteriore certezza. Ha per primo precisato quali siano
queste certezze e ha provato con il metodo della presupposizione che esse sono
in effetti il fondamento della conoscenza umana. Il senso comune comprende
dunque l'evidenza dell'esistenza del mondo come insieme di enti in movimento;
l'evidenza dell'io, come soggetto che si coglie nell'atto di conoscere il
mondo; l'evidenza di altri come propri simili; l'evidenza di una legge morale
che regola i rapporti di libertà e responsabilità tra i soggetti; l'evidenza di
Dio come fondamento razionale della realtà, prima causa e ultimo fine,
conosciuto nella sua esistenza indubitabile grazie a una inferenza immediata e
spontanea, la quale lascia però inattingibile il mistero della sua essenza, che
è la Trascendenza in senso proprio. Queste certezze sono a fondamento di un
sistema di logica aletica su base olistica. Tra gli studi recenti sul
sistema della logica aletica elaborato da lui vanno ricordati i saggi di
Agazzi, "Valori e limiti del senso comune" (Franco Angeli, Milano), Ottonello
("Livi", in "Profili", Marsilio, Venezia ), Vassallo
("La riabilitazione del senso comune", in "Memoria e
progresso", Fede & Cultura, Verona), di Arzillo, “Il fondamento del
giudizio -- una proposta teoretica a partire dalla filosofia del senso comune (Vinci,
Roma ); Renzi, La logica aletica e la sua funzione critica -- analisi della
proposta di Livi (Vinci, Roma). Hanno scritto su Livi anche Andolfo (storico
della filosofia antica), Sacchi, Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e
Possenti. Da Gilson, Fabro ed Agazzi ha appreso ad affrontare i problemi
essenziali della speculazione metafisica in dialogo con grandi filosofi antichi
(Platone, Aristotele, gli Stoici, Agostino), del Medioevo (Anselmo, Aquino,
Duns Scoto) e dell'età moderna (Vico, Kierkegaard, Rosmini-Serbati). Convinto
assertore del metodo realistico di interpretazione dell'esperienza, ne ha
difeso le ragioni utilizzando sistematicamente gli strumenti dialettici offerti
dai pensatori della scuola analitica. Suoi critici più intransigenti sono
stati, da una parte, l’idealista Severino, e dall'altra il caposcuola del
pensiero debole, Vattimo. Altri saggi: “Cistiano e filosofo -- il problema (L'Aquila:
Japadre); “Cristiano e comunista” (Torre
del Benaco: Colibrì); “Filosofia del senso comune -- Logica della scienza (Milano:
Ares); “Il senso comune tra razionalismo e scetticismo in Vico” (Milano:
Massimo); “Lessico filosofico latino” (Milano: Ares); “Il principio di coerenza
-- senso comune e logica epistemica” (Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano:
Mondadori); “La filosofia in eta antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico
della filosofia, Roma: Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità
del pensiero (Fondamenti di logica aletica) Roma: Lateran University Press); “Razionalità
della fede nella Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica
aletica” (Roma: Vinci); “La ricerca della verità -- Dal senso comune alla
dialettica” (Roma: Vinci); L'epistemologia di Aquino e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni
); “Senso comune e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la
filosofia e perché se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della
filosofia in eta antica: aspetti sociali” I: La filosofia antica e
medioevale; moderna; contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento)
Roma: Alighieri); “Logica della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma:
Lateran); “Senso comune e metafisica -- sullo statuto epistemologico della
filosofia prima” (Roma: Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma,
Alighieri); “Premesse razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui
praeambula fidei” (Roma: Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni
aziendali, i criteri di valutazione e la dottirna sociale della Chiesa” (Roma: Vinci);
Dizionario critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio
della metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “Il senso
comune al vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del senso comune.
Logica della scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come
distinguere l'autentica "scienza della fede" da un'equivoca
"filosofia religiosa" (Roma: Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci);
“La certezza della verità. Il sistema della logica aletica e il procedimento
della giustificazione epistemica” (Roma: Vinci); “Dogma e pastorale.
L'ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia,
Roma:Vinci,. Le leggi del pensiero. Come la verità viene al soggetto” (Roma:
Vinci,. Teologia e Magistero” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come
distinguere l'autentica "scienza della fede" da un'equivoca
"filosofia religiosa", su Gli
equivoci della teologia morale dopo l’amoris Laetitia” (Roma: Vinci); “Aquino filosofo” in Antonio Piolanti San
Tommaso nella storia del pensiero” (Roma: Vaticana); “La filosofia di Etienne
Gilson", in Antonio Piolanti Etienne Gilson, filosofo cristiano, Roma: Vaticana,
"L'unità dell'esperienza nella
gnoseologia in Aquino", in Antonio Piolanti "Noetica, critica e
metafisica in chiave tomistica", Roma: Vaticana); “Senso comune e unità
delle scienze", in Rafael Martinez "Unità e autonomia del sapere: il
dibattito", Rome: Armando, E. Ledda, In memoriam: Corrispondenza Romana,
1º luglio. Sito di Antonio Livi su antoniolivi.com. Casa editrice Leonardo da
Vinci, su editriceleonardo.com. ISCA
International Science and Commonsense Association, su isca-news.org. Fides et
Ratio, su fidesetratio. Il Giudizio Cattolico, su ilgiudiziocattolico.com. Antonio
Livi. Keywords: ‘il senso commune in Vico” – Grice develops a sceptical defence
in his early “Common sense and scepticism,” “mainly motivated by what he sees
as a ‘cavalier attitude’ to the sceptic by, of all people, Malcolm.” – Grice:
“I’m not sure Livi would agree with my idea, but I think he would – certainly
Vico took the sceptic challenge possibly most seriously than anyone and Livi is
an expert on Vico. Vico’s line of defense lies on the connection, conceptual he
thinks, between ‘common sense’ and ‘consenso’: therefore, Malcolm and I have to
reach a consensus that we are going to use ‘know’ for things like ‘I know that
s is p,’ say, there is cheese on the table, there is a mermaid on the table.
Etc. And that “if I’m not dreaming” may not always be a conversationally
appropriate defeater!” – Livi. Keywords: consenso sociale, amoris laetitia,
Letizia dell’amore -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Livi” – The Swimming-Pool Library.
Leon
Grice e
Leoni – implicatura – filosofia italiana – il vincolo mi fa libero -- Luigi
Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Grice: “I love Bruno Leoni; my
balance between the principle of conversational self-love and the principle of
conversational benevolence is what all his philosophy is about!” – Grice:
“Leoni has technical concepts here: his is an individualism, i. e. subjectivisim,
and he believes that the ‘scambio’ or ‘inter-subjective,’ inter-individual
exchange’ is ‘spontaneous – he calls it ‘ordine spontaneo.’ He doesn;’t see it
necessarily as ethical or meta-ethical – but descriptive; similarly I speak of
conversational maxims as different from ‘moral’ maxims!” “La situazione
paradossale del nostro tempo è che siamo governati da uomini non, come
pretenderebbe la classica teoria aristotelica, perché non siamo governati dal
diritto, ma esattamente perché lo siamo. Trascorse la sua vita tra Torino, Pavia,
e la Sardegna. Per le sue idee, viene associato ad un modello liberale e
anti-statalista della società. All'interno della filosofia del diritto, si inserisce nella tradizione del liberalismo
classico. Allievo di Solari, di cui fu pure assistente volontario, e collega di
Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del conflitto, fece parte di A Force,
un'organizzazione segreta alleata incaricata di recuperare prigionieri e
salvare soldati. Inizia la sua attività accademica, insegnando Filosofia
del diritto e ricoprendo l'incarico di preside della facoltà di Scienze
Politiche. Muore in circostanze tragiche, ucciso. Un collaboratore del suo
studio legale, Quero, di professione tipografo ma che svolgeva amministrazioni
di condomini e palazzi, aveva perpetrato truffe e sottrazioni di denaro; quando
se ne accorse e minacciò di denunciarlo, Quero lo assassinò colpendolo
ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo in un garage, inscenando un
sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli anni della ricostruzione
postbellica, mentre in tutti i paesi europei si affermavano politiche economiche
di stampo statalista, andò controcorrente sostenendo il liberalismo, che ormai
quasi più nessuno era pronto a difendere.[senza fonte] Leoni criticava la
logica dell'intervento pubblico mentre esaltava la superiore razionalità e
legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del concorso delle
volontà dei singoli individui. Fondatore nel 1950 della rivista Il
Politico, Leoni svolse ugualmente un'intensa attività pubblicistica,
soprattutto scrivendo corsivi per il quotidiano economico Il Sole 24 ORE.
Membro della «Mont Pelerin Society» (di cui fu segretario e poi presidente), lo
studioso torinese fu pure molto impegnato nel Centro di Studi Metodologici
della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e Documentazione
“Luigi Einaudi”. Studioso poliedrico (giurista e filosofo, ma anche
appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che
della storia delle dottrine politiche), nel corso degli anni cinquanta e
sessanta Leoni promosse le idee liberali all'interno della cultura italiana:
proponendo temi ed autori del liberalismo contemporaneo, ma soprattutto aprendo
prospettive ad una concezione della società centrata sulla proprietà privata e
il libero mercato. Per comprendere quanto sia stata importante la sua azione
tesa a favorire una migliore conoscenza delle tesi più innovative, è
sufficiente scorrere l'indice della rivista da lui diretta per molti anni, Il
Politico, in cui diede spazio ad autori spesso a quel tempo poco noti, ma desti
segnare le scienze economiche. Con i suoi studi, inoltre, Leoni apre la
strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta pubblica all'Analisi
economica del diritto (filoni di ricerca che esaminano la politica ed il
diritto con gli strumenti dell'economia), fino all'indagine interdisciplinare
di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non già sulla base di
decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca capacità di auto-generarsi
ed evolvere dal basso. E stato quasi dimenticato: soprattutto in Italia.
La sua opera più conosciuta (frutto di lezioni ). L’ndividualismo integrale di
Leoni risulta ben poco in sintonia con la cultura del suo tempo. Il liberalismo
dell'autore di Freedom and the Law è pervaso da quella cultura che egli
assimilò in profondità grazie all'intensa frequentazione di alcuni tra i
maggiori studiosi di quell'universo intellettuale. Inoltre, seguì sempre
con il massimo interesse i protagonisti della Scuola austriaca (Mises e Hayek,
soprattutto) cheanche se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei
loro maggiori contributi e in quel contesto hanno trovato folte schiere di
allievi. In questo senso, bisogna
rilevare che il percorso intellettuale di Leoni sarebbe stato molto differente
senza la Mont Pelerin Society, nei cui convegni egli ebbe l'opportunità di
entrare in contatto con intellettuali e scuole di pensiero estranei al clima
dominante nell'Italia di allora. Per molti decenni, in effetti, l'associazione
fondata da Hayek ha rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per
quanti cercavano interlocutori radicati nella cultura del liberalismo
classico. Per alcuni decenni dimenticato o quasi in Italia, il pensiero
di Leoni ha continuato a vivere fuori dei nostri confinigrazie alle iniziative,
ai libri e agli articoli dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i
suoi lavori hanno saputo suscitare nelle nuove generazioni di studiosi
liberali. A partire dalla metà degli anni novanta, però, la situazione è
cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione de “La
libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere sulle
pagine del torinese, dando vita ad una
vera e propria "riscoperta" che sta producendo numerosi frutti e
grazie alla quale si va finalmente riconoscendo a Leoni la sua giusta posizione
tra i maggiori filosofi del XX secolo. Oggi Leoni non è più considerato
semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore delle sue
tesi. In questo senso, è interessante rilevare che perfino intellettuali
lontani dalle posizioni liberali e libertarian di Leoni avvertano sempre più il
carattere innovativo del suo pensiero, che nell'ambito della filosofia del
diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del
normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale
all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre nel corso degli
ultimi due secoli il diritto è stato ripetutamente identificato con la semplice
volontà degli uomini al potere, uno dei contributi maggiori di Leoni è quello
di aver indicato un altro modo di guardare alla ‘norma giuridica’, sforzandosi
di cogliere ciò che vi è oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa
legislazione. Per questa ragione, si guarda alla teoria di Leoni come ad una
radicale alternativa rispetto al normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato
da Leoni. Quella di Leoni, per giunta, è ancora oggi una proposta teorica
talmente liberale da indurre più di uno studioso a parlare di “La liberta e la
legge” come di un classico della tradizione libertarian, al cui interno sono
racchiuse idee e intuizioni che restiamo ben lontani dall'aver compreso e
sviluppato in tutte le loro potenzialità. Al fine di tenere viva la
lezione dell'autore è stato fondato l'Istituto Bruno Leoni, con sedi a Torino e
a Milano (animato da Lottieri, Mingardi e Stagnaro), che si propone di
affermare, all'interno del dibattito politico-economico, i principii liberali
difesi da Leoni stesso e di promuovere la conoscenza del pensiero di Leoni e,
in generale, delle teorie liberali e libertarian. Saggi: “Lo stato” (Soveria
Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “La
libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza politica e teoria del
diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le radici individuali del
diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La sovranità del consumatore”
(Roma, Ideazione); “La libertà del
lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”, Treviglio Soveria Mannelli,
Leonardo Facco Rubbettino, “Il diritto
come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico moderno e
contemporaneo, A. Masala, Bassani, Macerata, Liberilibri, Istituto Bruno Leoni. L'idea di uno stato
privo di co-ercizioni nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di
adozione Articolo su l'Unità. Il Luogo
dei Ricordi di O. Quero, su in mia memoria.com. Tra i pochissimi, in Italia,
che hanno continuato a sviluppare le ricerche di Leoni è da ricordare Stoppino.
Per merito di Cubeddu, che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria
leoniana. E necessario liberarelo dall'ombra
di Hayek, rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue
tesi e del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia del
diritto coerente con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti
libertari. Masala, Il liberalismo (Soveria Mannelli, Rubbettino); la prima
monografia su Leoni. Antonio Masala La
teoria politica (Soveria Mannelli, Rubbettino); Lottieri, “Libertà e stato” in
Antonio Masala, a cura di, La teoria politica; Soveria Mannelli, Rubbettino, Lottieri,
Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico” (Soveria Mannelli,
Rubbettino); Approfondisce il tema di un libertarismo non ancora compiutamente
espresso in Leoni, ma già ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali.
Favaro, Bruno Leoni. Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità
dell'ordinamento, della Collana “L'Ircocervo. Saggi per una storia filosofica
del pensiero giuridico e politico italiano contemporaneo”, Napoli, ESI, Adriano
Gianturco Gulisano, Tra positivismo e giusnaturalismo. Il diritto evolutivo,
Foedrus. Gulisano, La «teoria empirica» di Leoni. La centralità dell'approccio
metodologico, Biblioteca delle liberta. Riscoprire Bruno Leoni, su
riscoprire.brunoleoni.com.Bruno Leoni, Bruno Leoni. Leoni. Keywords:
implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice e il liberalism
italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione liberale, Croce,
Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale fascista,
protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo italiano,
libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Leoni – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Spoleto).
Filosofo italiano. Grice: “In Italy, they like ‘renaissance men,’ but there’s a
peril in that: Leoni was a philosopher and a physician (to Medici) – when he
died, Medici did, Leoni was accused of malpractice (poisoning), strangled to
death, and thrown into a ditch. Categorie: philosophers in ditch – Thales,
Leoni.” Di famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e Pisa. Fu qui che ebbe modo di entrare in contatto
con la cerchia di filosofi che gravitavano attorno a Lorenzo de’ Medici, a
Firenze. Inizia ad avere contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico. Venne considerato dai suoi contemporanei uno
dei più valenti uomini di scienza esistenti all'epoca. I più illustri
personaggi e sovrani dell'epoca, come il duca di Calabria, il re di Napoli,
Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo VIII, richiesero le sue cure, tanto
che divenne il medico personale dello stesso Lorenzo de Medici. All'indomani della morte di Lorenzo de Medici
venne ingiustamente sospettato di essere stato il responsabile del suo
avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in un pozzo il giorno
seguente. Diverse fonti dell'epoca
sostengono che il mandante dell'uccisione del Pierleoni fosse stato il
figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F.
Bacchelli, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in. Dagli Annali di Ser Francesco Mugnoni da Trevi,
trascriz. D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria):
"Era adpresso del dicto Lorenzo uno excellentissimo et famosissimo medico
de grandissima scientia in loica, in filosofia, strologia, nominato magistro
Pierleone de leonardo da Spolitj, reputato el più singulare valente homo in
dicte scientie che ogie dì viva. Era quisto homo in tanto prezzo adpresso del
dicto Lorenzo che, senza quisto clarissimo doctore, non podiva stare. Fo
conducto ad Pisa ad legere, ebbe mille ducatj de provisione per anno: poj fo
conducto ad Padua, ebbe mille et ducento ducatj per anno. Ad Pisa stecte multi
annj ad legere: et similemente ad Padua."
dagli Annali di Ser Francesco Mugnoni da Trevi, trascriz. D.Pietro Pirri
(Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. "Lorenzo se amalò, mandò per luj, et andò
ad Fiorenza. Era quisto mastro Pierleone de tanta scientia de strologia, che
predisse la morte sua essere infra quatro misi. Et anda mal voluntierj ad
Fiereze. Tandem jonto ad Fiorenze trovò Lorenzo stare male: erano lì clarissimj
medicj et valentj et excellentj: poj ce venne el medico del duca de Milano: et
predisse mastro Perleone la morte de Lorenzo. Ipso non prestò may et non se mestecù
in alcuna medicina ne potione sue. Il cronista forse vuol dire che il Leoni non
s'ingerì affatto in ciò che riguardava l'assistenza sanitaria dell'infermo,
limitando l'opera sua alla pura diagnosi della malattia ed a consultazioni
astrologiche. E con ciò vuol, forse, velatamente intendere che niente ebbe a che
vedere Pierleone con quelle strane pozioni a base di gemme e perle triturate
somministrate da un altro medico, il Piacentino, le quali, attese le lesioni
viscerali che tormentavano il paziente, servirono forse ad accelerarne il
tracollo) ma solo ipso in consulendo et predicendo. Tandem venendo alla morte
Lorenzo, Perino, figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato
homo bestiale et senza prudentia, ordinò che el dicto mastro Perleone fosse
morto. Lorenzo era in villa ad uno suo casale, et lì tucto dì stava mastro
Perleone. Essendo morto Lorenzo, et lì insino alla sera stando mastro Perleone,
volendo tornare luj allu solito loco, fo menato per uno Carlo o vero Alberto
martellj ad uno suo casale, et lì fo strangulato dicto mastro Perleone, et buctato
in uno pozo. Poj fo retracto et portato in Fierenze, et retenuto el suo corpo
con guardia et veneratione assay. Et de tanto tradimento et iniusta morte se ne
dolse tucta la ciptà, perché la bona memoria de Lorenzo amava quisto omo più
che homo vivesse, et tucti li secretj soj sapiva, savio, sapientissimo et pieno
de verità, bontà et integrità."
Nella sua "Storia della Letteratura Italiana" Tiraboschi
(Firenze, Molini Landi) riporta fonti dell'epoca, fra cui Scipione Ammirato. Cavossi
voce che egli vi si fosse gittato da se medesimo ma si rinvenne esservi gittato
da altri, secondo dice il Cambi, da due famigliari di Lorenzo". Lo stesso
testo riporta le affermazioni del Sanazzaro, il quale "non nomina l'autore
di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei parla di Pietro de Medici, figliuol
di Lorenzo", e di Allegretti, storico senese contemporaneo di Pierleoni,
che riporta. Maestro Pier Leone da Spoleto, che lo medica (si riferisce a
Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'ha avvelenato,
nientedimeno si conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degli
Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti M.: Sannazaro
Iacobo. Branca V: Dizionario critico della letteratura italiana. POMBA, Torino,
Cotta I., Klien F.: I Medici in rete” (Olschki, Firenze); C. Dionisotti, “Appunti
sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della Letteratura italiana, A. Mauro,
“Opere volgari” (Laterza, Bari); A. Montevecchi, “Storie fiorentine” (Rizzoli, Milano);
A. Nibby, “Analisi storico-topografica-antiquaria della carta de' dintorni di
Roma” (Belle Arti, Roma); H. Orio, “Le iscrittioni poste sotto le vere imagini
de gli huomini famosi il lettere” (Torrentino, Firenze); T. Pesenti, Professori
e promotori di medicina nello Studio di Padova, Repertorio bio-bibliografico, G. Radetti, Un'aggiunta
alla biblioteca di Pierleone Leoni da Spoleto. In.: Rinascimento: Rivista
dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli F.: Istorie
Fiorentine con l'aggiunte di Scipione Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll
M.: Pierleone da Spoleto: vita e opere di un medico del Rinascimento. Olschki,
Firenze. Achille Sansi: Storia del comune di Spoleto dal secolo XII al XVII:
seguita da alcune memorie dei tempi posteriori.
Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier Leone. Leone. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Leopardi – il favoloso – Leopardi
fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Grice:
“Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative; admittedly, he is
wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks, pretty much like the
first Vitters, that language is a prison. Man has a need for ‘non-linguistic
thought,’ to think without naming – without conceptualizing! The oddest
philosophy of language for Italy’s greatest poet, one would first think!” -- Grice: “One could write a whole
dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite expression would be
‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a philosophical griceianism,
seeing that my theories were stolen by non-philosophers, there is ‘leopardismo
filosofico,’ seeing that he wasn’t one!” -- essential Italian philosopher, and
founder of a whole movement, ‘leopardismo.’
Il conte Giacomo Leopardi, al battesimo Giacomo Taldegardo
Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi (Recanati), filosofo. È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento
italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché
una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua
riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi ispirazione sensista e
materialistane fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità
lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama
letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto
oltre la sua epoca. Leopardi, intellettuale dalla vastissima cultura,
inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità
greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio,
Epitteto, Luciano ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti
romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un
esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni
materialistederivate principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla
lettura di filosofi come il barone d'Holbach, Pietro Verri e Condillac, a cui
egli unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di
una grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto
sistema filosofico e poetico. Morì noco prima di compiere 39 anni, di edema
polmonare o scompenso cardiaco, durante la grande epidemia di colera di
Napoli. Il dibattito sull'opera leopardiana a partire dal Novecento,
specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e
cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei
contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle
opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una
linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito
poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche
e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un
precursore dell'Esistenzialismo. Giacomo Leopardi nacque a Recanati, nello
Stato pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle
più nobili famiglie del paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono
all'età adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco.
I genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del
conte Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli
studi e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una
donna energica, molto religiosa fino alla superstizione, legata alle
convenzioni sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo
di sofferenza per il giovane Giacomo che non ricevette tutto l'affetto di cui
sentiva il bisogno. In conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte
dal marito, la marchesa prese in mano un patrimonio familiare fortemente
indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia
domestica. La rigidità della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i
sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane
Giacomo. Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro,
giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che
erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere con racconti ricchi di
fervida fantasia. La formazione giovanile La casa natale Ricevette
la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori
ecclesiastici, il gesuita don Giuseppe Torres fino al 1808 e l'abate don Sebastiano
Sanchini che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla
scuola gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del
latino, della teologia e della filosofia, ma anche su una formazione
scientifica di buon livello contenutistico e metodologico. Nel Museo
leopardiano a Recanati è conservato, infatti, il frontespizio di un trattatello
sulla chimica, composto insieme al fratello Carlo. I momenti significativi
delle sue attività di studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare,
sono da rintracciare nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al
padre in occasione delle feste natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati
ed accurati e qualche composizione di carattere religioso da recitare in
occasione della riunione della Congregazione dei nobili. Il ruolo avuto
dai precettori non impedì, comunque, al giovane Leopardi di intraprendere un
suo personale percorso di studi avvalendosi della biblioteca paterna molto
fornita (oltre ventimila volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella
degli Antici, dei Roberti e probabilmente da quella di Giuseppe Antonio Vogel,
esule in Italia in seguito alla Rivoluzione francese e giunto a Recanati come
membro onorario della cattedrale della cittadina. Compone il sonetto intitolato
La morte di Ettore che, come lui stesso scrive nell'Indice delle produzioni di
me Giacomo Leopardi dall'anno 1809 in poi, è da considerarsi la sua prima
composizione poetica. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti
chiamati "puerili". La produzione dei "puerili"
Puerili e abbozzi vari Il corpus delle opere cosiddette "puerili" dimostra
come il giovane Leopardi sapesse scrivere in latino fin dall'età di nove-dieci
anni e padroneggiare i metodi di versificazione italiana in voga nel
Settecento, come la metrica barbara di Fantoni, oltre ad avere una passione per
le burle in versi dirette al precettore e ai fratelli. Iniziò lo studio della
filosofia e due anni dopo, come sintesi della sua formazione giovanile, scrisse
le Dissertazioni filosofiche che riguardano argomenti di logica, filosofia,
morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica,
teoria dell'elettricità, eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima
delle bestie. Con la presentazione pubblica del suo saggio di studi che
discusse davanti ad esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può
far concludere il periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo
sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato
gusto arcadico. Si immerse totalmente in uno "studio matto e
disperatissimo" espressione da lui stesso coniata, che assorbì tutte le
sue energie e che recò gravi danni alla sua salute. Apprese perfettamente il
latino (sebbene si considerasse sempre "poco inclinato a tradurre" da
questa lingua in italiano) e, senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in
modo più sommario apprese anche altre lingue: l'ebraico, il francese,
l'inglese, lo spagnolo e il tedesco (nello Zibaldone si trovano inoltre cenni
ad altre lingue antiche, come il sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione
dell'abate Sanchini, il quale ritenne inutile continuare la formazione del
giovane che ne sapeva ormai più di lui. Risalgono a questi anni la Storia
dell'astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, diversi
discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni poetiche, alcuni versi e tre
tragedie, mai rappresentate durante la sua vita, La virtù indiana, Pompeo in
Egitto e Maria Antonietta (rimasta incompiuta). Per quanto riguarda la
compilazione della Storia dell'astronomia Leopardi si avvalse di numerose
fonti: il testo di base fu sicuramente la Storia dell’astronomia di Bailly,
ridotta in compendio dal signor Francesco Milizia, a partire dalle Histoires
del celebre astronomo francese Jean Sylvain Bailly. L'opera termina con la
scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel. Invece il lavoro di Leopardi
presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio la scoperta di Cerere,
Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del suo testo, Leopardi
fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande (presente nella
biblioteca di casa Leopardi), del Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri
Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel Wolff. Inoltre
Leopardi adoperò diverse opere generali come la Storia della letteratura
italiana di Girolamo Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e varie
raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i francescani,
Quétif e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi testi dimostra
l’erudizione raggiunta dal giovane Leopardi. Nella Storia dell'astronomia
Leopardi lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per la matematica.
Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali invece il
Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e sull'argomento si
limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la invenzione de’ logaritmi
fatta da Giovanni Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo. Probabilmente
infatti Leopardi non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò alla
geometria cartesiana e al calcolo differenziale. Iniziò nello stesso periodo anche le prime
pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando
sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli
anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi
introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal
greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre dalla Tipografia
Frattini di Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano»,
gli idilli di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del
libro secondo dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la
Titanomachia di Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione
letteraria: dall'erudizione al bello Tra Si avverte in Leopardi un forte
cambiamento, frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad
abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto,
ai classici non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche,
ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori
moderni come Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a
maturare la sua sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del
giovane Werther di Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de
Staël. In questo modo Leopardi inizia a liberarsi dall'educazione paterna
accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura
recanatese ed a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari.
Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come Le Rimembranze,
L'Appressamento della morte e l'Inno a Nettuno, nonché la celebre e non
pubblicata Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, indirizzata ai
redattori della rivista milanese, in risposta alla lettera Sulla maniera e
utilità delle traduzioni di Madame de Staël, apparsa sul primo numero, nel
gennaio dello stesso anno. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica per
la sua fragile salute, rifiuterà di intraprendere questa strada. Fu colpito da alcuni
seri problemi fisici di tipo reumatico e disagi psicologici che egli attribuì
almeno in partecome la presunta scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed
immobilità in posizioni scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca
di Monaldo. La malattia esordì con affezione polmonare e febbre e in seguito
gli causò la deviazione della spina dorsale (da cui la doppia
"gobba"), con dolore e conseguenti problemi cardiaci, circolatori,
gastrointestinali (forse colite ulcerosa o malattia di Crohn) e respiratori
(asma e tosse), una crescita stentata, problemi neurologici alle gambe
(debolezza, parestesia con freddo intenso), alle braccia ed alla vista,
disturbi disparati e stanchezza continua. Era convinto di essere sul punto di
morire. Il marchese Filippo Solari di Loreto scrive poco dopo a Monaldo
Leopardi: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo cinque anni consunto e
scontorto, con avanti e dietro qualcosa di veramente orribile.» Egli
stesso si ispira a questi seri problemi di salute, di cui parlerà anche a
Pietro Giordani, per la lunga cantica L'appressamento della morte e, anni dopo,
per Le ricordanze, in cui ripensa a questo e definisce la sua malattia come un
"cieco malor", cioè un male di non chiara origine, che gli fa pensare
al suicidio assieme all'angusto ambiente: «Mi sedetti colà su la fontana /
Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
malor, condotto della vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de'
miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi più accreditata per lungo tempo
(diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da Pietro Citati) è che Leopardi
soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano la diagnosi dell'epoca,
più volte riproposta anche nel Novecento, di una normale scoliosi dell'età
evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite tubercolare, oppure dalla
spondilite anchilosante giovanile (secondo ErikSganzerla), una sindrome
reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei legamenti
vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi disturbi
infiammatori sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi gravi, il
tutto unitamente a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno
predisposizione genetica, derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei
genitori. Tutti i fratelli Leopardi furono deboli di salute, con l'eccezione di
Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale presentava solo una leggera
asimmetria del viso. Pietro Citati afferma che avesse anche dei disturbi urinari
e di probabile impotenza, e sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a
cui poteva ovviare essendo un nobile benestante) la causa del suo rapporto
difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei
disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici consultati in gioventù, a
parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in maniera erroneache
numerosi disturbi del Leopardi erano dovuti a neurastenia di origine
psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive
che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica), come
lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori.
«Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di
viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel
mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta,
mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.» (Lettera
dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla,
propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, Leopardi
non mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito
sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie
comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come
ribadito spesso da Leopardi), influenzarono comunque il suo pessimismo
filosofico e lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il
significato della vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato
dal critico Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento
conoscitivo". Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente
giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo
portò a scoprire il bello in senso non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel
passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale
che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E
per Leopardi, che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in
tutta la sua intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che
ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti.
Consapevole ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto
confine in cui, fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì
l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli
avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale
in modo determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della
"teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da Leopardi
nel corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale
concezione è contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in
modo organico la sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del
pensiero leopardiano in questi termini avviene. Scrisve al classicista Pietro
Giordani che aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e,
avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio
così una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In
una delle prime lettere scritte al nuovo amico, il giovane Leopardi sfogherà il
suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi
ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di
filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di
confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi
si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo. Unico divertimento in
Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il
resto è noia» Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e
dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla
quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa
le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il
nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della cugina, provando per la
prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di
scrittura di Leopardi e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo
presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare
al dibattito culturale tra classicisti e romantici. Leopardi difende la cultura
classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona
che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei
travaglia!» (Il primo amore, v.3) Geltrude Cassi Lazzari con i
figli, illustrazione di Giuseppe Chiarini per la Vita di Giacomo Leopardi. Inizia
a compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note
filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il
sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della
gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro,
nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di
Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale
provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del
primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei
"Canti" con il titolo "Il primo amore". La posizione di
Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti
polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va maturando e
se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone ed in due
saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana", in
risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il Discorso di un
italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni
di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano l'avversione, sul piano
più strettamente concettuale, al Romanticismo. La posizione di Leopardi rimane
fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come si vedrà, quello che
professava sulla pagina critica si rivelerà, poi, profondamente diverso dai
risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo spirito saranno, invece,
perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva, intanto, scritto
le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e Sopra il monumento di
Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel
tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Il suo
materialismo ateo si pone in contrapposizione al Romanticismo cattolico
predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche il suo rifiuto di ogni
speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell'unità
nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione storicistica del
passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei contenuti e nella
lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.» (Giacomo Leopardi,
L'infinito, v.15). Si riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e
l'agosto progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il
Lombardo-Veneto, da un amico di famiglia, il conte Saverio Broglio d'Ajano, ma
il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga fallì. Fu nei mesi di
depressione che seguirono che il Leopardi elaborò le prime basi della sua
filosofia e, riflettendo sulla vanità delle speranze e l'ineluttabilità del
dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso. Iniziò intanto la
composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati con il titolo di
Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna
(originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera del giorno festivo e
La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento notturno. Sono i
cosiddetti "primi idilli" o "piccoli idilli". Qui
confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa di coscienza
dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il permesso di
recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo,
ospite dello zio materno, Carlo Antici. A Leopardi Roma apparve squallida e
modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata
studiando i classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di
prostitute che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come
scrive in una lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba
di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso
il Tasso, che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore
a livello stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi
componimenti, come Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente
culturale romano Leopardi visse isolato e frequentò solamente studiosi
stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen (poi ministro del regno di
Prussia e fondatore dell'Istituto di Archeologia a Roma) e Barthold Niebuhr;
quest'ultimo si interessò per farlo entrare nella carriera dell'amministrazione
pontificia, ma Leopardi rifiutò. Ritorna a Recanati dopo aver constatato che il
mondo al di fuori di esso non era quello sperato. Tornato a Recanati, Leopardi
si dedicò alle canzoni di contenuto filosofico o dottrinale compose buona parte
delle Operette morali. Lontano da Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il
poeta, invitato dall'editore Antonio Fortunato Stella, si recò a Milano con
l'incarico di dirigere l'edizione completa delle opere di Cicerone ed altre
edizioni di classici latini e italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo
perché il clima gli era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo
polarizzato intorno al Monti, gli recava noia. Ritratto di Leopardi a metà
degli anni '30, da alcuni indicato come una realistica proto-fotografia,
probabilmente una riproduzione in eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in
alternativa realizzata con la tecnica della camera oscura da artista: tramite
bulino oppure immagine fissata secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce
(sali d'argento o bitume e lunga esposizione). Recanati, casa Leopardi. Decise,
così, di trasferirsi a Bologna dove visse (al numero 33 di via Santo Stefano),
tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi con l'assegno mensile dello
Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente bolognese Leopardi conobbe il
conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al quale dedicò un'epistola in versi
intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse il 28 marzo 1826 nell'Accademia dei
Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una
"Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al
Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A
Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si
innamorò senza essere corrisposto. Leopardi frequentò i Malvezzi per quasi un
anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del
fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.Leopardi
si sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di
lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la
casa del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta,
patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la
famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. Leopardi in
un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri
al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del
ritratto di Leopardi sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche
fatte da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per
molto tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine
il quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più
fedele e realistico dei ritratti di Leopardi, con l'aspetto che aveva verso la
fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e
l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però
argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli
non vide mai Leopardi dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei
ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze,
dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i
quali Gino Capponi,[89] Giovanni Battista Niccolini (amico e corrispondente di
Ugo Foscolo allora esiliato a Londra), Pietro Colletta, Niccolò Tommaseo ed
anche il Manzoni, che si trovava a Firenze per rivedere dal punto di vista
linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico particolarmente del Colletta,
ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e Manzoni, sebbene quest'ultimo non
condividesse le idee di Leopardi. Fu invece conflittuale il rapporto col
Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente avverso al razionalismo ed al
materialismo, il quale giunse a provare una forte avversione per Leopardi,
attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se riconosceva l'abilità
stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare Leopardi per il suo
aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private rivolte ad altri,
anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). Leopardi risponderà nel
1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che nell'ottava strofa
della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Nel novembre del 1827 si recò
a Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata
del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica
rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e
Leopardi tornò alla poesia, che taceva dal 1823 (con l'eccezione della poco
riuscita epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del Coro di lo studio di
Federico Ruysch contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
delle Operette morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane Il
Risorgimento e il canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici che
si basano su appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo, alla
figlia del cocchiere di Monaldo, morta giovane, Teresa Fattorini), inaugurando
il periodo creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati
anche "grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta
canzone libera o leopardiana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro
Guidi, dalla cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io
non credea tornare ancor per uso a contemplarvi» (Le ricordanze) Il
periodo di benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle
sofferenze e dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere
il contratto con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella
speranza di riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni
amici: Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e
Zoologia a Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona
alle conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a
Bonn o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima
tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. Leopardi allora
progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute
non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati,
dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente
alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le
ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco
prima, Maria Belardinelli, da Leopardi chiamata Nerina), La quiete dopo la
tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo
giovanile) e il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie,
a lungo denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi
idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti
pisano-recanatesi". In questo
periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio
borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i
recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto
che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in
sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un
canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei.» (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il
Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie
ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di
tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per
mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato
quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della
burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei
"Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse
infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro
senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di
personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio
di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di
Recanati, ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta)
che gli austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine
di concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere;
Leopardi accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a
Recanati. Risale sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny
Targioni Tozzetti (terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi
Lazzari e la Malvezzi), moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti
e forse amante di Ranieri, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il
cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie che contiene:
Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora
positivamente), la drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa
raccolta si manifestò il Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di
quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione
che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo).[108] Aspasia,
seppur piena di rancore e sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia
d'amore (seppur per un amore ormai finito) scritta per una donna che egli
frequentò realmente e intimamente, anche se solo in maniera romantica e
intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la
morte come una persona "disgraziata" a cui non voleva dare alcuna
illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la descrizione fisica e
caratteriale della Targioni, presentata come una "donna fatale", si
nota anche una tensione erotica molto rara in Leopardi, il quale ribadisce
ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione
della donna con l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di Leopardi,
dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere
tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni
polemici e misogini, in cui Leopardi si dice felice di essersi perlomeno
liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un
servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a
Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte
del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e
con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose
belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate.
Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono
né belle né degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le
vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e
graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso
nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete
stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre
vostro.» (Lettera da Roma, 6 agosto 1832) «Due cose belle ha il mondo: /
amore e morte. All'una il ciel mi guida / in sul fior dell'età; nell'altro,
assai / fortunato mi tengo.» (Consalvo, vv. 102) Lo spostamento del
Consalvo nei Canti molto precedenti al ciclo, avvenuto dall'edizione
napoletana, ha fatto pensare che il personaggio di Elvira sia ispirato anche a
Teresa Carniani Malvezzi e non solo a Fanny. Per circa 4 anni frequenta molto
spesso casa Targioni, cercando di avvicinarsi alla padrona di casa procurandole
moltissimi autografi di scrittori e personaggi famosi, che lei collezionava. In
questo periodo Leopardi diviene amico anche della contessa Carlotta Lenzoni de'
Medici di Ottajano, affascinata dalla grandezza intellettuale del poeta e
conosciuta nel 1827, ma poi se ne allontanò. Secondo un'opinione minoritaria,
la donna descritta negativamente come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca
a Roma con Ranieri per ritornare a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i
due ultimi dialoghi delle "Operette", Il Dialogo di un venditore
d'almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò
a corrispondere epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure
in maniera più fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i
due iniziò una fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra
Leopardi e Ranieri vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che
si sarebbe trattato di un semplice e intenso affetto "platonico"
assai diffuso nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello
rivolto a suo tempo al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a
Ranieri: Antonio Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi
abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti
sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni
cosa al tuo benessere; ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in
modo che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia
speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento
possibile e non possibile, sarà eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto
assegno dalla famiglia, partì per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite
di quella città potesse giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Antonio
Ranieri dichiarò: «Quivi Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio
antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che, nelle consuetudini del
paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a
lui, ebbe, una notte, la strana allucinazione, che la signora di casa avesse
fatto disegno sopra una sua cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro
che non nettissimi arnesi da ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che
la padrona di casa volesse cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore
di tubercolosi polmonare infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna
volesse rubargli oggetti di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse
di paranoie, e non ci faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che
nel suo diario scrisse. «Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich
und leidend er den Tag zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein
trauriges Leben. Bei näherer Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die
Feinheit seiner klassischen Bildung und das Gemütliche seines Wesens nehmen für
ihn ein. Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del
giorno notte e viceversa conduce una delle più miserevoli vite che si possano
immaginare. Tuttavia, conoscendolo più da vicino la finezza della sua
educazione classica e la cordialità del suo fare dispongon l'animo in suo
favore. Busto del poeta presente a Villa Doria d'Angri Intanto le
Operette morali subirono una nuova censura da parte delle autorità borboniche,
a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti dopo la censura
pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni
"dialoghi". Leopardi così ne parlava in una lettera a Luigi De
Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il
mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente
tutto». Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei
Pensieri, che raccolse probabilmente riprendendo molti appunti già scritti
nello Zibaldone, e riprese i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati
nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri,
fino agli ultimi giorni di vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave,
ampiamente influenzata sia dallo pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già
Leopardi aveva tradotta in gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema
Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo
canto. Ranieri affermò sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto
dettatura del Leopardi. Le ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi
morente poco dopo aver terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna. Qualche
dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte del
poeta per farli pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando
a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la
sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase
dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il
fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo
affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni
fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore
fraterno. A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in
peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni
dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla
salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta
sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati),
talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve
moltissimi caffè. La morte Leopardi sul letto di morte, ritratto a matita
di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto
realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o
il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie
l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e
Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava
anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. Leopardi
aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il
tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal
formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili
passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo
cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque
decidere il suo destino. In una lettera al conte Leopardi, una delle ultime di
Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando
più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue
condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far
sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute. Il 14 giugno
di quell'anno, Leopardi si sentì male al termine di un pranzo (che abitualmente
consumava all'inconsueto orario delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa
un chilo e mezzo di confetti cannellini comprati da Paolina Ranieri in
occasione dell'onomastico di Antonio e bevuto una cioccolata, poi una minestra
calda e una limonata (o granita fredda) verso sera. Fu colpito da malore poco prima di partire per
Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato programmato, e nonostante
l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore dopo il poeta morì. Secondo
la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si spense alle ore 21 fra le sue
braccia. Le sue ultime parole furono "Addio, Totonno, non veggo più
luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello stato civile il giorno
successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero registrare l'indirizzo
del decesso (vico Pero 2, nel territorio della parrocchia della SS. Annunziata
a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto "alle ore venti". Tre
giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri pubblicò un necrologio sul giornale Il
Progresso. La morte del poeta è stata analizzata da studiosi di medicina già a
partire dall'inizio del XX secolo. Molte sono state le ipotesi, dalla più
accreditata, pericardite acuta con conseguente scompenso, oppure scompenso
cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare e cardiomiopatia, seguite a
problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle più fantasiose[146], fino al
colera stesso.Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a smentire
il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio Ranieri: idropisia polmonare
("idropisia di cuore" o idropericardio), il che è comunque
verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla deformazione della
colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una delle conseguenze
dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa principale fosse un
problema cardiaco, forse accelerata da una forma fulminante di colera che
avrebbe ucciso il debilitato Leopardi (che notoriamente soffriva di disturbi
cronici all'apparato gastrointestinale, i quali potevano mascherare la
gastroenterite colerosa) in poche ore. Leopardi era morto all'età di quasi 39
anni, in un periodo in cui il colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie
ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione il ministro di
Polizia, le sue spogliequesta la versione accettata dalla maggioranza dei
biografinon furono gettate in una fossa comune, come le severe norme igieniche
richiedevano a causa dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una
breve riesumazione alla presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio
della chiesa di San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di
Pozzuoli presso Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata
da Pietro Giordani: «Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo
ammirato fuori d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da
paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue
malattie miserissima fece Antonio Ranieri per sette anni fino all'estrema ora
congiunto all'amico adorato.” Il ministro avrebbe accettato la richiesta del
Ranieri solo dopo che un chirurgo, non il medico curante Mannella, ebbe
eseguita una sorta di sommaria autopsia per poter dichiarare che la morte non
fu dovuta a colera. In realtà fin dall'inizio il racconto di Ranieri era
apparso pieno di contraddizioni e molti furono i dubbi che avvolsero quanto
egli aveva dichiarato, anche perché le sue versioni furono molte e diverse a
seconda dell'interlocutore, facendo sospettare che il corpo del poeta fosse
finito nelle fosse comuni del cimitero delle Fontanelle, o in quello dei
colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366 Fosse), destinati in quel periodo
ai morti per colera o per altre cause, come attesta il registro delle sepolture
della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca di Napoli (riportante la dicitura
"cimitero dei colerosi" e "sepolto id.") o addirittura
occultate nella casa di vico Pero, e che Ranieri avesse inscenato, per un
motivo recondito, un funerale a bara vuota, con la partecipazione dei suoi
fratelli, del chirurgo e di un parroco compiacente a cui avrebbe regalato dei
pesci freschi. La lapide originale, traslata nel parco Vergiliano
Comunque, Ranieri continuò ad affermare che le ossa erano nell'atrio della
chiesa di S. Vitale e che il certificato d'inumazione fosse un falso redatto
dal parroco su richiesta del ministro di Polizia, onde aggirare la legge sulle
sepolture in tempo di epidemia. Nel 1898 avvenne una prima ricognizione;
secondo il senatore Mariotti, smentito da altri, durante i lavori di restauro
di alcuni anni prima, un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata
dalla troppa umidità, frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei
resti contenuti, forse gettati nell'ossario comune o addirittura con i
calcinacci, mescolando i resti con altre ossa. La tomba di Leopardi
(Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla
presenza dei rappresentanti regi e del comune di Napoli, venne effettuata la
ricognizione ufficiale delle spoglie del recanatese e nella cassa (in realtà un
mobile adattato allo scopo clandestino dai fratelli Ranieri), troppo piccola
per contenere lo scheletro di un uomo con doppia gibbosità, vennero rinvenuti
soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui delle costole, delle vertebre
recanti segni di deformità, e un femore sinistro intero, forse troppo lungo per
una persona di bassa statura, e un altro femore a pezzi), una tavola di legno
(con cui gli operai avevano tentato di riparare il danno alla cassa), una
scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna traccia vi era del cranio e
del resto dello scheletro, per cui in seguito si arrivò anche a formulare la
teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi lombrosiani di frenologia
amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione venne ben presto chiusa;
secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era plausibile che quelli fossero
parte dei resti di Leopardi. Il medico parla esplicitamente di aver rinvenuto
una parte di rachide e una di sterno entrambe deviate. Alcuni, pur pensando ad
un'effettiva morte per colera, credettero comunque che Ranieri fosse riuscito
davvero nell'intento di salvare il corpo dalla fossa comune corrompendo, se non
il ministro, perlomeno dei funzionari incaricati. La scarpa ritrovata, o quello
che ne rimaneva, venne poi acquistata dal tenore Beniamino Gigli, concittadino
di Leopardi, e donata alla città di Recanati.Dopo vari tentativi di traslare i
presunti resti a Recanati o a Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a
quelli di grandi italiani del passato, la cassa, per volontà di Benito
Mussolini che esaudì una richiesta dell'Accademia d'Italia, venne con regio
decreto di Vittorio Emanuele III che ne stabiliva l'identificazione, riesumata
di nuovo e spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco
della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato
monumento nazionaledove tuttora sorge appunto il secondo sepolcro del poeta,
eretto quello stesso anno; nei pressi venne traslata anche la lapide originale,
mentre parte del monumento venne portata a Recanati. Questa versione è quella
sostenuta ufficialmente dal Centro Nazionale Studi Leopardiani. Nel 2004 venne
anche chiesta (da parte dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è
occupato anche della riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio,
Boiardo, Pico della Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde
verificare se quei pochi resti fossero davvero di Leopardi tramite l'esame del
DNA e del mtDNA, comparato con quello degli attuali eredi dei conti Leopardi
(Vanni Leopardi e la figlia Olimpia, discendenti diretti del fratello minore
del poeta Pierfrancesco) e dei marchesi Antici, ma la richiesta fu respinta,
sia dalla Soprintendenza sia dalla famiglia Leopardi (tramite la contessa Anna
del Pero-Leopardi, vedova del conte Pierfrancesco "Franco" Leopardi e
madre di Vanni). La posizione ufficiale della famiglia Leopardi (esplicitata
dal 1898 in poi) e della Fondazione Casa Leopardi da loro presieduta
(presidente fino al conte Vanni
Leopardi) è invece che i resti nel parco Vergiliano non siano comunque del
poeta e Ranieri abbia mentito, che il corpo si trovi alle Fontanelle e che
quindi la riesumazione sia inutile, occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio
lì situata. Un altro membro della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco,
si è invece detto disponibile. Tale esame non è stato finora
autorizzato. «Cantare il dolore fu per lui rimedio al dolore, cantare la
disperazione salvezza dalla disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e
non per gioco di parole, l'unica felicità. n quei canti veramente divini il
Leopardi trasformò l'angoscia in contemplativa dolcezza, il lamento in musica
soave, il rimpianto dei giorni morti in visioni di splendore.» (Giovanni
Papini, Felicità di Giacomo Leopardi) Il pensiero di Leopardi è caratterizzato,
attraverso le fasi del suo pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto
lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge a credere nelle «illusioni» e
lusinghe della natura, e la razionalità speculativo-teorica presente nelle sue
riflessioni filosofiche, che invece considera vane quelle illusioni, negando ad
esse qualunque contenuto ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e
disillusione, tra sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no, era del resto ben presente allo stesso
Leopardi, il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per
ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera
filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la
poesia. Come ha rilevato De Sanctis. Leopardi non crede al progresso, e te lo
fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È
scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste
per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a
nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,Luoghi leopardiani
A Recanati Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo
Leopardi: è la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai
discendenti e aperto al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali
dall'architetto Carlo Orazio Leopardi verso la metà del XVIII secolo.
L'ambiente più suggestivo è senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre
20.000 volumi, tra cui incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del
poeta, Monaldo Leopardi. Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si
affaccia Palazzo Leopardi. Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa
Maria in Montemorello, nel cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo Leopardi
nel 1798. Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un
panorama vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta
dal poeta a soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale
della Poesia e della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e
manifestazioni culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai
aperto a tutti. Palazzo Antici-Mattei:
casa della madre di Leopardi, Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee
semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel
cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un
fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San Leopardo
(XIX secolo): venne fatta edificare dalla famiglia Leopardi insieme e nei
pressi della villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch. La
cripta, a cui si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia
Leopardi. Chiesa di Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i
Minori Osservanti insieme al Convento annesso, dal 1873, cacciati i frati e
abbattuti due lati del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico
cimitero di Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca
ed affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei
Leopardi ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della
Posta (corso Garibaldi), Palazzo Antici
Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso
in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in
mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna ("ospitalissima"),
convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa
dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano
("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al teatro del Corso
(oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e niente
magnifico"). Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna (qui si
vive quietissimi), ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze,
"sporchissima e fetidissima città", Locanda della Fonte, nei pressi
del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di
Leopardi a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi),
Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a
Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il
Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così
ridente, che innamora"). "Una certa strada deliziosa" da lui
battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa
(lettera a Paolina Leopardi). Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città
oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso),
con Antonio Ranieri, da ottobre 1831 a marzo 1832. Napoli, piazza Ferdinando;
poi Strada nuova di Santa Maria Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre
appartamenti affittati con Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa
Ferrigni, detta villa delle Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello
"sterminator Vesevo". Opere di Giacomo Leopardi. Copertina
della prima edizione dello Zibaldone di pensieri. Epistolario Di Giacomo
Leopardi ci sono rimaste oltre novecento lettere, composte nell'arco di una
vita e indirizzate a circa cento destinatari, tra amici e familiari
(soprattutto al padre e al fratello Carlo). L'intero corpus epistolare di
Leopardi è raccolto dall'Epistolario, che malgrado le origini si può leggere
come un'opera autonoma: questa raccolta di prose private, infatti, costituisce
un fondamentale documento non solo per seguire le vicende biografiche del
poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione del suo pensiero, dei suoi stati
d'animo e delle sue riflessioni culturali.[176] Gli interventi nel
dibattito classico-romantico Nel 1816 il giovane Leopardi prese parte
all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del saggio Sulla
maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa polemica vide
schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro Giordani, e
dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica. Leopardi, amico
del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per iscritto il
proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca italiana e nel
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti entrambi inediti
sino al 1906. Nella prima Leopardi, pur riconoscendo la bontà dell'intervento
dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle istanze della
lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi alle nuove
letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si tratta di un
«vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più vicina alle
uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e quella latina.
Nel Discorso, invece, Leopardi approfondì la sua riflessione poetica in merito
al dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali della poesia
leopardiana, come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione. Zibaldone
Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle quali
Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari.
Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario,
essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi
iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi
agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso
scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'italiani, composto a Recanati tra la primavera e l’estate del
1824 e rimasto inedito fino al 1906, è un breve trattato filosofico dove
Leopardi analizza le peculiarità che contraddistinguono la società italiana, e
le compara con il carattere, la mentalità e la moralità delle altre nazioni
d'Europa. Alla fine dell'opera Leopardi giunge all'amara conclusione che
l'Italia, dilaniata da un esasperato individualismo, è troppo poco civile per
godere dei benefici del progresso (come in Francia, Germania ed Inghilterra),
ma troppo civile per godere dei benefici dello «stato di natura», come accadeva
nelle nazioni meno sviluppate, quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo
manoscritto autografo dell'Infinito Le Operette morali, per usare le parole
dello stesso poeta, sono un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci
malinconici»: è ancora Leopardi a descrivere la propria opera in una lettera
del 1826 indirizzata all'editore Stella, sottolineando «quel tuono ironico che
regna in esse» e specificando che Timandro ed Eleandro sono una specie di
prefazione, ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni». Le Operette,
oggi considerate la più alta espressione del pensiero leopardiano, racchiudono
l'essenza del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione
esistenziale dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza
della Natura. I Canti, considerati il capolavoro di Leopardi, racchiudono
trentasei liriche composte da Leopardi. Tra i componimenti poetici inclusi nei
Canti ricordiamo Sopra il monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il
passero solitario, La sera del dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra
e infine L'infinito, uno dei testi più rappresentativi della poetica
leopardiana. Le ultime opere Durante gli anni napoletani Leopardi scrisse
due opere, i Paralipomeni della Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è
un poemetto in ottave con protagonisti animali: «Paralipomeni», infatti, significa
«continuazione» mentre Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane,
ovvero un'opera pseudoomerica che Leopardi aveva tradotto in gioventù. Dietro
la finzione comica Leopardi qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari
napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari,
mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i
granchi-austriaci, feroci e stupidi. nuovi credenti, invece, sono un capitolo
satirico in terza rima composto nel 1835 dove Leopardi esprime una spietata
satira contro gli esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna
la religiosità di facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo
Leopardi si devono numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno
in un linguaggio colto e sorvegliato), come "erompere",
"fratricida", "improbo", "incombere",Al suo
tempo, questa vena creativa di Leopardi non fu apprezzata e fu oggetto degli
strali di un atteggiamento purista che opponeva resistenze all'adozione, e
all'accoglimento nei lessici, di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva
all'«aureo Trecento» In un caso, un frutto della sua creatività,
"procombere", gli guadagnò accuse postume mossegli da Niccolò
Tommaseo, coautore del Dizionario della lingua italiana. Poesia e musica
A sé stesso, romanza, versi di Giacomo Leopardi, musica di Francesco Paolo
Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di morti, versi di G. Leopardi (dal
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, Operette morali), musica di
Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre liriche di Goffredo Petrassi, per
baritono e pianoforte, testi di Leopardi, Foscolo e Montale. Epistolario di
Giacomo Leopardi. Leopardi nell'immaginario collettivo Il fatto che l'opera di
Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto dello studio di migliaia di studenti
ha determinato (come per Dante) che molte locuzioni delle sue opere siano
divenute d'uso corrente. Fra le principali: studio matto e disperatissimo
(in: lettera a Pietro Giordani e
Zibaldone di pensieri); passata è la tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta,
1829); che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un
pastore errante dell'Asia, 1829-1930); natio borgo selvaggio... (in: Le
ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna... (in: Il sabato del villaggio);
godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il sabato del villaggio);...e
naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito). Il pittore e scultore
maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12 pirografie sul tema
Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie città della
penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano,
Napoli. Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la
Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva
anche altre opere di Trubbiani dedicate a Leopardi: 10 disegni originali
realizzati sul tema "Leopardi figurativo", 8 incisioni a colori, una
scultura del 1990 in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in
osservazione di un gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede
greggi”, ispirata al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione
scultorea sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane")
ispirata ai Paralipomeni della Batracomiomachia leopardiani. L'ispirazione
prodotta in Trubbiani dall'opera leopardiana è raccontata dall'artista nel
breve documentario "Le Marche di Leopardi", patrocinato dalla Regione
Marche. Leopardi nella musica pop italiana Leopardi è citato nella
Canzone per Piero di Francesco Guccini e in Stai bene lì di Renato Zero; i suoi
versi sono citati anche nei titoli di Canto notturno (di un pastore errante
dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto di Saffo), entrambe di Roberto
Vecchioni. Giorgio Gaber, nella canzone "Benvenuto il luogo dove",
contenuto nell'album "Gaber" del 1984, dedicata all'Italia, parla
della penisola come il luogo "dove i poeti sono nati tutti a Recanati. Opere
cinematografiche su Leopardi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi. Pisa, donne e Leopardi (),
mediometraggio di Roberto Merlino. Leopardi è interpretato da Orazio Cioffi; Il
giovane favoloso, film di Mario Martone. Leopardi è interpretato da Elio
Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma televisivo"Leopardi,
il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica "Il
tempo e la storia"; "Le Marche di Leopardi", breve documentario
diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche. Video in
rete su Leopardi "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini,
puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con Massimo
Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo Leopardi e l`importanza di
Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo Leopardi nel commento
del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore Umberto Ceriani legge:
L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria; "Ecco
il vero Colle dell'Infinito descritto da Giacomo Leopardi"]: Francesco
Guzzini del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva
per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che
gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai all'infinito", spot
turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman
che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari;
"A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa
Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati; "Un
Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella
puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado
Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la
vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro
e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose
letture/interpretazioni dei principali canti leopardiani da parte dei più
importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Vittorio
Gassman: L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La
quiete dopo la tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero
solitario, La ginestra (o Il fiore del deserto) Alla luna, La sera del dì di festa, Il sabato del
villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia[210],
Inno ad Arimane, Amore e Morte; Arnoldo Foà: L'infinito, Passero solitario, A
Silvia[217], Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto notturno
di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il fiore del
deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio Albertazzi:
L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia: L'infinito, Lavia dice Leopardi; Alberto Lupo: Ultimo
canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone:
L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la prima parte de La
sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima parte di Aspasia. Leopardi
"testimonial" della Regione Marche La Regione Marche, dopo aver più
volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese per la promozione turistica
del proprio territorio ed anche della propria offerta enological commissionò
una discussa campagna pubblicitaria attraverso un video, per la regia di
Giampiero Solari, trasmesso sui principali canali televisivi italiani ed anche
esteri, con protagonista il noto attore statunitense Dustin Hoffman[236], già
conoscitore delle Marche per aver interpretato nel 1972 ad Ascoli Piceno il
film di Pietro Germi "Alfredo, Alfredo", assieme ad una giovane
Stefania Sandrelli. Questa la descrizione della sceneggiatura dello spot
per la promozione della stagione turistica: «Un uomo legge una delle
poesie più note della letteratura italiano, l’Infinito di Giacomo Leopardi, la
cui emozionalità è strettamente legata alle visioni, alle luci, ai colori della
terra marchigiana. L’uomo legge la poesia camminando, cerca di capire e
pronunciare bene la lingua non stando fermo, dietro una scrivania, ma
immergendosi nella terra che ha visto nascere questo capolavoro; legge,
riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare la lingua, il sentimento di
questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e riprova. Nel sottofondo le
note sublimi del Tancredi di Rossini, che accompagnano il silenzio di questa
meditazione nuova che l’uomo cerca per sé: l’uomo cerca emozioni, vuole fare
un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito nelle Marche che l’hanno generato è
un’esperienza nuova, formidabile, ma difficile e faticosa. Ma ne vale la pena.
Provare e alla fine sorridere, la poesia è mia, le Marche sono la mia meta
faticosamente conosciuta, capita e raggiunta.» (dal comunicato stampa
della Regione Marche) Nello spot Hoffman tenta di recitare i versi
dell'Infinito in un italiano "condito" dal suo marcato accento
californiano. Un accento tanto forte e straniante da suscitare numerose
critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di Mina[239], che nella
sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a scrivere:
«Leopardi bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche Oliver Hardy. Al
quale, paradossalmente, in questa demoralizzante «performance», mi sembra che
assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non peggio, credo... Sentire la
nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal pur bravo divo americano mi
ha rigettato giù nella nostra condizione di sempiterna colonia... il mondo
della pubblicità è un mondo di matti. A volte geniale, ma più spesso volgare e
irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los Angeles, sarà pure un nome che tira, ma
non li avevamo noi degli attori al suo livello? E che parlano l’italiano? E che
conoscono la musica dell’andamento di un’esposizione poetica?» (Mina
Mazzini) Al contrario, l'operazione promozionale fu elogiata da Giorgio De
Rienzo, linguista e critico letterario, da Francesco Sabatini e Francesco
Erspamer, rispettivamente presidente onorario e presidente emerito
dell’Accademia della Crusca; quest'ultimo commentò lo spot con queste parole:
«Sprovincializza la lingua italiana» Comunque sia, lo scopo perseguito fu
raggiunto: anche grazie alle polemiche, la versione non definitiva del video
della Regione Marche, inserito su YouTube, totalizzò quasi 21.200
visualizzazioni in tutto il mondo solo nella prima settimana. Visto il
successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la campagna promozionale della
stagione turistica. Niente più lettura dei versi leopardiani, ma, come
sottolineò Aldo Grasso sul "Corriere della Sera", nella nuova
edizione «il volto del testimonial diventa più importante dell’oggetto da
reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un racconto tutto
personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito amore per le
suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la gastronomia, l’arte,
la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna promozionale del Dustin Hoffman fu sostituito dall'attore
marchigiano Neri Marcorè. Continuò comunque l'utilizzo a scopi
promozionali dell'immagine di Leopardi: sull'onda del successo del film
"Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario Martone e
interpretato dall'attore Elio Germano, la Regione mise in campo una serie di
iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del territorio
marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un "movie-tour",
consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti del biglietto del cinema.
La Regione ha patrocinato la realizzazione di un breve documentario, "Le
Marche di Leopardi", diretto da Alessandro Scilitani, nel quale
l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il riepilogo delle iniziative
regionali per valorizzare la figura del poeta recanatese. Seguono una breve
biografia di Leopardi, con le immagini di Recanati, e gli interventi di vari
operatori culturali marchigiani che, rifacendosi a veri o presunti collegamenti
con la vita ed il pensiero del Poeta, introducono ad altri importanti
personaggi nati o presenti nella Regione (Gioacchino Rossini, Antonio Canova,
Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani, Osvaldo Licini), il tutto "condito"
dalle musiche di musicisti marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare
Spontini) e da squarci paesaggistici di varie località della regione.Opere
biografiche su Leopardi Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, Bari, G.
Laterza & f.i,Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Leopardi, Milano-Napoli:
Ricciardi, 1920; poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino);
Milano: Mursia (Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa
Leopardi, Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, Leopardi.
L'infanzia, le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album
Leopardi, Milano: Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con
Leopardi, Bologna: Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di
Giacomo Leopardi, Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir
del vero: il mistero della conversione e della morte di Giacomo Leopardi,
Piemme,. Pietro Citati, Leopardi, Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di
Studi Leopardiani nel primo centenario della morte del poeta, fu istituito a
Reca Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Esso ha come scopo la
promozione di ricerche e studi su Giacomo Leopardi in campo storico,
biografico, critico, linguistico, filologico, artistico, filosofico. Roberto
Tanoni, L'aspetto di Giacomo Leopardi, Effettivamente il titolo di conte con
cui Leopardi veniva talvolta appellato, e che egli stesso usava, in quanto
primogenito dei conti Leopardi, era un "titolo di cortesia", in
quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a Monaldo, finché fu in
vita. Uno sconosciuto: l'ateo filantropo
barone d'Holbach, su elapsus. ). Giulio
Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo Leopardi, su emsf.rai). Forse la malattia di Pott o la spondilite
anchilosante. Erik Pietro Sganzerla, Malattia e morte di Giacomo
Leopardi. Osservazioni critiche e nuova interpretazione diagnostica con
documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia a un uomo che
soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non felice e una
cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro decorso
temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei problemi
visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e ambientali
nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la diagnosi di
Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che Leopardi
«affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria cronica,
aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno scompenso
cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e possibile
miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che
dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è
male» (Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia) Renato Minore, Leopardi.
L'infanzia, le città, gli amori, Milano, Lettera di G. Leopardi (Recanati) a
Pietro Colletta (Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia,
benché sia de' maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti. Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia
della letteratura italiana. Milano L'Ottocento Zibaldone «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si
spegne la contessa Leopardi, erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti
vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, successori Le
Monnier, Maria Corti in «Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e
editi», Milano, Bompiani 1972
Citati20-25. Cecchi, Sapegno, oGiuseppe
BonghiBiografia di Giacomo Leopardi, su classicitaliani. Lettera a Pietro
Giordani a Milano, Recanati,in Epistolario di Giacomo Leopardi con le
iscrizioni greche triopee da lui tradotte e lettere di Pietro Giordani e Pietro
Colletta all'Autore, raccolto e ordinato da Prospero Viani, I, Napoli, Lettera all'Avv. Pietro Brighenti
a Bologna, Recanati, in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni ecc.
Il padre Monaldo lo vide parlare, con sorpresa, in questa lingua con un rabbino
di Ancona, secondo quanto riportato dallo storico Lucio Villari nella
trasmissione RAI Il tempo e la storia di Massimo Bernardini (puntata
"Leopardi, il rivoluzionario", 15 ottobre, RaiTre-RaiStoria) Sarà la lingua utilizzata nelle lettere allo
Jacopssen Il programma delle
celebrazioni leopardiane, su giornale.regione.marche. Il sanscrito nella teoria
linguistica di Giacomo Leopardi, in Leopardi e l'Oriente. Atti del Convegno
Internazionale, Recanati a c. di F.
Mignini, Macerata, Provincia di Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le
scienze matematiche, 5-8. Aimé-Henri Paulian su data.bnf.fr. Un episodio della sua vita farà da spunto a
una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria Cecchi, Sapegno, Spesso nell'epistolario
afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una coperta di
lana. C 33 esegg. Giuseppe Bortone, Il "morire
giovane" in Leopardi, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri
maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo Alessandro Livi, giacomo leopardi, le
malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico, 28
novembre. 1º gennaio Paolo Signore,
Giacomo Leopardi: il genio di Recanati favoloso e malato, su Rotari Club Fermo,
«Di contenti, d'angosce e di desio, /
Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso
di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco /
Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella giovanezza, e il fiore /
De' miei poveri dì, che sì per tempo / Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso /
Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna poetando, / Lamentai co'
silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me stesso / In sul languir
cantai funereo canto» (Le ricordanze, Il Giacomo Leopardi torrese, su
torreomnia. Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la
malattia, "diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e
considerata probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di
Leopardi anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici
pediatri recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece. Es. sindrome della cauda equina Alcuni propongono altre diagnosi: diabete
giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di
Scheuermann alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo
cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o
malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Antonio Ranieri, negli
anni napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che Leopardi morì
vergine (cosa dibattuta), a pag. 99 di Sette anni di sodalizio con Giacomo
Leopardi che avesse contratto la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre.
cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo
Leopardi, Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto contestata poiché
basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della
frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi
affermarono che Leopardi aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come
tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi.
Prof. M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su Giacomo Leopardi e la
sua famiglia, Torino, Fratelli Bocca Editori, M_L_Patrizi. G. Chiarini, Vita di
G. Leopardi453. E. Galavotti, Letterati
italiani Lettera di Paolina Leopardi a G.P. Vieusseux, G. Leopardi, Lettera ad
Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. Leopardi, Zibaldone,
autografo, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, cUn'analisi
critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla
Batracomiomachia si trova in: Riccardo Bonavita, Leopardi: Descrizione di una
battaglia, Nino Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e
scrittori della letteratura italiana, 3,
tomo 1, Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove
privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più
tenebroso. Cecchi, Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di
cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma),
mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che
sia facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente
tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate
una befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in
Roma come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e
dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un
interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi
non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà
che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le
quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono
così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione
dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato
solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani del 2006, poiché troppo
esplicito ("non la danno"); cfr. Il senso di Leopardi per la donna di
città. Pierluigi Panza, La casa di Silvia (amata da Leopardi) restaurata e
aperta, in Corriere della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a
punto da Joseph Nicéphore Niépce nel 1822, fu da questi usato per la prima
fotografia (precedente di 13 anni il dagherrotipo). Giuseppe Bonghi, Biografia di Leopardi, su
classicitaliani. La donna nelle parole di Leopardi, su casatea.com. Paolo
Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti Citati226 e segg. Bortolo Martinelli, Leopardi oggi: incontri
per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e
Pensiero, Fotografia della maschera
(JPG), Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati. 1º gennaio (archiviato il 1º gennaio ). Donatella Donati, Leopardi a Napoli, Centro
nazionale di studi leopardianiCentro mondiale della poesia e della cultura
"G.Leopardi"Recanati Città della poesia, Per lui scrisse, nel 1835,
la celebre Palinodia al marchese Gino Capponi
Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani
delle Ultime lettere di Jacopo Ortis
«Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo
di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux) Una stroncatura per il Leopardi Archiviato il
26 febbraio in.; mentre fu più meditato
e indulgente il giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e
su Leopardi stesso. Introduzione alla
Palinodia G. Leopardi, Epigramma contro
il Tommaseo, su fregnani. Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su
classicitaliani.Carlo Leopardi così ricordava, su ilgiardinodigiacomo.wordpress.com.
Cfr. lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta (Livorno), in cui
dichiara di aver percepito venti scudi romani (diciannove fiorentini) al
mese. Lettera aColletta dcome citato in
Marco Moneta, L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli
anni dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi,
Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze,
v. 30. Gente che m'odia e fugge, per invidia
non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga
in cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo
Leopardi: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. Giacomo
Leopardi, in Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca. CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione
Garzanti Donne fatali 2: Giacomo
Leopardi e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...",
su sulromanzo. "Tu vivi / bella non
solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre
avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti e link in. Giovanni Mèstica,
Gli amori di G. Leopardi, in Fanfulla della domenica, (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto
alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio
nel commento ai Canti, edizione Signorelli, Roma. Leopardi: dama invaghita del
poeta non fu ricambiata ma evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze
di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio con Teresa Targioni Tozzetti, Milano,
Arnoldo Mondadori, Paolo Abbate, La vita erotica di Giacomo Leopardi, C.I.
Edizioni, Napoli 2000 Giovanni
Dall'Orto, Sempre caro mi fu, pubblicato in "Babilonia" Robert
Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's who in gay and lesbian history, 1, ad vocem
Leopardi gay? Vietato dirlo, su ricerca.repubblica. Simone D'Andrea,
Normalmente diverso, su Giacomo Leopardi. Epistolario, BrioschiLandi, Sansoni Antonio
Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Garzanti, Milano. D'Orta12.
Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo Leopardi in Giacomo
Leopardi. Epistolario, BrioschiLandi, Sansoni È stravagantissimo nelle
abitudini del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari
irregolari, va a letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser
longeva per i complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni
di sodalizio con Giacomo Leopardi, Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita,
egli fece, appresso a poco, della notte giorno, e viceversa." Traduzione in Michele Scherillo, Vita di
Giacomo Leopardi, Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. Leopardi e le
donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Maria Teresa Moro, Ranieri
Paola (Paolina), su treccani. 2D'Orta25.
Leopardi. Il poeta della sofferenza, su archiviostorico.corriere. Teorie
alternative sulla morte del conte Giacomo Leopardi sono state trattate e
documentate negli studi condotti dal Prof. Gennaro Cesaro (cfr. Sfrondando gli
allori della poesia) Lettera di Antonio
Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta anche Pietro Citati,
Leopardi, Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di morte di Giacomo
Leopardi, su dl.antenati.san.beniculturali.
Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia
Plautina, cfr. anche Notizia della morte
del Conte Giacomo Leopardi Angelo Fregnani Archiviato il 30 ottobre in..
Ad esempio cibo avariato, congestione, coma diabetico o
indigestione Cenni storiciFu
un'indigestione a causare la morte di Leopardi?, su spaghettitaliani.com. Napoli
e Leopardi, su ildelsud.org. Ecco i confetti che uccisero Leopardi. Al Suor
Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere. in Lettera
di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di A.
R. a Monaldo Leopardi, Napoli, in Opere inedite di Giacomo Leopardi, G.
Cugnoni, I, Halle, Max Niemeyer Editore,
Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, G.
Piergili, Firenze, Le Monnier, in.;
"Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di
petto" dice Paolina Leopardi in una lettera a Marianna Brighenti Biografia sulla Treccani, su treccani. are
LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia
Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano,
McGraw-Hill, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi, BUR, Dalla foto pubblicata
qui, su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie
per la Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro
Giordani, Scritti editi e postumi di
Pietro Giordani, VI, pubblicati da
Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta
lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di Giacomo Leopardi,
edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore,
da Antonio Ranieri, Firenze, Successori
Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre in..
Pasquale Stanzione, Giacomo LeopardiUna tomba vuota a Fuorigrotta, su
pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasqualestanzione. 7
maggio (archiviato il 13 maggio ).
Ingrandimento (JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su Leopardi? Occorre
cautela Archiviato il il 5 febbraio
in. da Cronache maceratesi Luciano Garofano, Giorgio Gruppioni,
Silvano VincetiDelitti e misteri del passato: Sei casi da RIS dall'agguato a
Giulio Cesare all'omicidio di Pier Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO
LEOPARDI: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA, MA I RECANATESI SONO
D’ACCORDO? Loretta Marcon, Un giallo a
Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi, Guida,,Ida Palisi, Leopardi,
strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”, 19.8.; recensione
a: Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi,
Guida, Mario Picchi, Storie di casa
Leopardi. Si riporta anche il verbale ufficiale delle persone presenti.
E' vuota la tomba di Leopardi. Guerra sulla riesumazione dei resti, su
ricerca.repubblica. La Vita Leopardi,
sito gestito dal CNSL Si torna a parlare
dei resti di Leopardi, nato comitato per l'esumazione dal sacello del parco
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Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia, Milano, Mondadori, Cfr. in proposito anche gli studi che il
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(Firenze, Sansoni). Paolo Emilio
Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo Leopardi, pag. 26, Tipografia
del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al
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e Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo Leopardi e la percezione estetica
del mondo Peter Lang, In Saggi critici,
L. Russo, Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc. Per Giacomo Leopardi, su pergiacomoleopardi.altervista.org.
Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In
viaggio con Leopardi, Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di Leopardi,
tratte da sue lettere. Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare,
da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà,
Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali,
su internetculturale. Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da
Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Fabio Marri, Neologismi Enciclopedia
dell'Italiano (), Istituto dell'Enciclopedia italiana. Catalogo della mostra "Viaggi e transiti
opere leopardiane di Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione
dell'inaugurazione del Centro culturale "Pergoli" di Falconara Marittima
Comune di Falconara Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, 2005 Vedi la scheda dedicata al CARTCentro
permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima
nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia
di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea,
su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".
"Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro
Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg ascolta la canzone nel sito della Fondazione
Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il-luogo-dove-testo
Archiviato il 6 settembre in. vedi il testo dell'Operetta morale in Operette
_morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il
cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBKJZNaU
Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi
e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno del programma
"Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della
rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia" con Massimo
Bernardini e lo storico Lucio Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi- il-rivoluzionario/25794/default.aspx
"Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della
rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio
Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi-il-rivoluzionario/25794/default.aspx in. Rai Storia, "Giacomo Leopardi e
l`importanza di
Recanati"://raiscuola.rai/articoli/giacomo-leopardi-parte-prima/3205/default.aspx
Archiviato l'8 settembre in. Nel sito web de "La Stampa", Guzzini
del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per
recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli
ispirò
L'infinito://lastampa//07/16/multimedia/societa/viaggi/ecco-il-vero-colle-dellinfinito-descritto-da-giacomo-leopardi-fncjkba7fEJyVoUSrazy1H/pagina.html.
Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman con la regia di Giampiero
Solari: youtube."A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo
Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di
Recanati: youtube.com/watch?v=oNlkBu0E
"Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco
D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma
televisivo condotto da Corrado Augias su Rai 3:
youtube.com/watch?v=KwFnKv0TBaI
Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo libro e spettacolo
teatrale “L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la vita” nel sito
di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oXGh3g6lQsM Vittorio Gassman interpreta L'infinito, su
youtube.com. 15 settembre (archiviato il
23 maggio ). V. Gassman interpreta A
Silvia: youtube.com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il 29 marzo in.
Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v=TPpCs6tws_U Vittorio
Gassman interpreta Amore e Morte: youtube Vittorio Gassman interpreta La quiete
dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U Gassman interpreta A se
stesso: youtube.com/watch?v=F0lhF2s_5s4 Bene
interpreta L'infinito: youtube.co Carmelo Bene interpreta Passero solitario:
youtube.com/ watch?v=IZz Qbnzpaok
Carmelo Bene interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto):
youtube.com /watch?v=ZqzVXF3Fx4Y C. Bene
interpreta Alla luna: youtube.com/watch?v=v9IriaUNWQk Carmelo Bene interpreta La sera del dì di
festa: youtube.com/ watch?v=qydGUiV1wwI
Carmelo Bene interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=vI9PJfCtWw4 Carmelo Bene interpreta Le ricordanze:
youtube.com/watch?v=jyB0eM9AOoM Bene
interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene
interpreta Inno ad Arimane: youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE vedi su Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )#
Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista Archiviato il 15
settembre in. leggi il testo di Inno ad Arimane init.wikisource.org/wiki/Puerili_(Leopardi)/Ad_Arimane
Archiviato il 15 settembre in. Carmelo Bene interpreta Amore e Morte:
youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw Arnoldo
Foà interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario:
youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg Arnoldo
Foà interpreta A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del
villaggio: youtube.com/watch?v=kmk_gd-48XE
Arnoldo Foà interpreta La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v=aWOJfMZeCVo Arnoldo
Foà interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo
Foà interpreta Le ricordanze: youtube.com/watch?v=hL855FC_juA A. Foà interpreta
La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/watch?v=zBnDqu8X5fk Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della
luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia:
youtube.com/watch?v=iNHqhHiIqok Arnoldo
Foà interpreta Alla luna: youtube.com/watch?v=oxzCzwR05WE G. Albertazzi interpreta L'infinito:
youtube.com/watch?v=BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º giugno in.
Nando Gazzolo interpreta L'infinito:
youtube.com/watch?v=Te8tyDDsh2A Gabriele
Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=oSV7eBa-_Ao Gabriele Lavia discetta sull'opera di
Leopardi, prima della "dizione" delle opere di Leopardi: youtube Alberto
Lupo interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvzQvi75rQ Germano, nel film Il giovane favoloso di Martone,
interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4 Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M.nMartone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4 Elio
Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di
Amore e Morte: youtube Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario
Martone, interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/turismo.marche/Portals/1/Leopardi/Leopardi%2
0nel%20mondo.pdf Il backstage dello spot
promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero
Solari: youtube.com/watch?v=zi-UJTIBatM
La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato
in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su
"La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati,
"Il Resto del Carlino" Ancona, "Leopardi bisogna
meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino, "Il Resto del Carlino" Ancona, Spot
di Hoffman, su YouTube 21 mila visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin
Hoffman ancora sponsor delle Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su
blitzquotidiano. 6 settembre (archiviato
il 6 settembre ). vedi la serie di spot
"Le Marche non ti abbandonano mai" interpretati dall'attore
marchigiano Neri Marcorè, con la regia di Rovero Impiglia e Giacomo Cagnelli:
youtube Marco Minnucci, La regione Marche rispedisce Dustin Hoffman in America
e pone fine allo stupro di Leopardi, su qelsi, su Giacomo Leopardi. Edizioni delle opere
Giacomo Leopardi, [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario Epistolario di
Giacomo Leopardi, Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere, Sergio
Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi
«Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e
Monaldo Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano:
Adelphi «Biblioteca» Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino: Bollati
Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri,
Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano:
Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Valentino Piccoli, Torino: Pomba scelto e annotato con introduzione e indice
analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento letterario,
pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda», Roma: La
Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere, volume
III: Zibaldone scelto, Giuseppe De Robertis, Milano: Rizzoli, Francesco Flora, Milano: Mondadori, in
Antologia leopardiana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed
Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e
Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi,
«Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter
Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Anna Maria
Moroni, saggi introduttivi di Sergio Solmi e Giuseppe De Robertis, Milano:
Mondadori «Oscar» (con uno scritto di Giuseppe Ungaretti) e edizione
fotografica dell'autografo con gli indici e lo schedario, Emilio Peruzzi, Pisa:
Scuola normale superiore, Il testamento letterario, pensieri dello Zibaldone
scelti annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli,
Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli:
Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I
Libri della Spiga», Rolando Damiani, Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria
del piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e postfazione di
Vincenzo Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica stabilita sugli
indici leopardiani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete, Roma:
Donzelli Editore, Lucio Felici, premessa di Emanuele Trevi, indici filologici
di Marco Dondero, indice tematico e analitico di Marco Dondero e Wanda Marra,
Roma: Newton Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni,
Milano: Rizzoli «BUR», edizione critica Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini,
Bologna: Zanichelli, Canti con note per cura di Francesco Moroncini, Leopardi,
Giacomo, Canti: commentati da lui stesso, Palermo: R. Sandron, Niccolò Gallo e
Cesare Garboli, Torino: Einaudi, Poesie e prose. Poesie, Mario A. Rigoni,
Milano: Mondadori «I Meridiani», n Tutte le poesie e tutte le prose, Lucio
Felici, Roma: Newton Compton, «Mammut», Canti e poesie disperse, ed. critica
Franco Gavazzeni (con C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino,
S. Rosini), Firenze: Accademia della Crusca, Giacomo Leopardi, Canti, Bari, G.
Laterza e Figli, Operette Morali Leopardi, Giacomo, Operette morali; edizione
critica di Francesco Moroncini, Bologna: Cappelli, 1929 introduzione cura di
Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «Universale economica classici», Milano:
Mursia, in Poesie e prose. Prose, Rolando Damiani, Milano: Mondadori
«Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le prose, Emanuele Trevi, Roma: Newton
Compton, «Mammut», poi da sole nella
collana «GTE», Giacomo Leopardi, Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri
Giacomo Leopardi, Pensieri, Bari, G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione
cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana
Giulio Bollati e G. Savoca, Torino: Einaudi, «Nuova Universale Einaudi», Memorie
del primo amore Cesare Galimberti, Milano: Adelphi, Epistolario di Giacomo
Leopardi Leopardi (famiglia) Opere Pensiero e poetica di Giacomo Leopardi TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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Italiana. Giacomo Leopardi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Giacomo Leopardi, su The Encyclopedia of Science Fiction. Giacomo Leopardi, in Dizionario biografico
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Crusca. Giacomo Leopardi, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di
Giacomo Leopardi, su Liber Liber. Opere
di Giacomo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Progetto Gutenberg.
Audiolibri di Giacomo Leopardi, su LibriVox. Giacomo Leopardi, su
Goodreads. italiana di Giacomo
Leopardi, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.
Spartiti o libretti di Giacomo Leopardi, su International Music Score Library
Project, Project Petrucci LLC. Centro
nazionale di studi leopardiani Recanati, su centro studileopardiani. Classici
Italiani e opere complete interbooks.eu
Lo Zibaldone, su rodoni.ch. I canti di Giacomo Leopardi dai manoscritti
autografi della Biblioteca Nazionale di Napoli, su bnnonline. Il Pessimismo in
Leopardi e Schopenhauer [collegamento interrotto], su gheminga. Opere integrali
in più volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia"
Laterza Opere di Giacomo Leopardi, testi con concordanze, lista delle parole e
lista di frequenza Leopardi: Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Arte di
prolungare la vita o arte della felicità?, su giornaledifilosofia.net. Concordanze
delle Lettere su classicistranieri.com. Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Monaldo
Leopardi, la satira a servizio della fede, su totustuus.biz. Nietzsche e
Leopardi a confronto, su agenziaimpronta.net. Leopardi ottimista: un mito del
Novecento, su cle.ens-lyon.fr 10 gennaio ). Cesare Angelini, "Sereno in
Leopardi", su cesareangelini. Mario Buonofiglio, "L'inquietudine
ritmica dell'in(de)finito", su academia.edu. Il primo di questi scritti
usci nella Rassegna bibliografica della letteratura italiana di A.
D'Ancona,. Il secondo nella Critica. Il terzo nella stessa Critica. Tutti
e tre furono riprodotti nei Frammenti di Estetica e Letteratura,
Lanciano, Carabba, Si ha alle stampe un’ Esposizione del sistema
filosofico di Giacomo Leopardi *. E una dissertazione di laurea, e
reca infatti l’impronta comune a tutti i lavori giovanili. L’inesperienza
apparisce nello stesso titolo del libro, un po’ troppo prosaico, e
incongruo col contenuto del libro, che non vuol essere propriamente
un’esposizione fatta dall’autore del sistema filosofico del Leopardi; ma
appunto questo sistema, portato innanzi al lettore con le stesse parole
del Leopardi; non volendo l’autore da parte sua aggiungervi se non
prefazione, note ed epilogo. Metodo anche questo alquanto ingenuo e da
scrittore che non vede ancora la necessità, chi voglia rappresentare
nella sua unità logica e nell’organismo delle sue parti il pensiero d’un
filosofo, d’appropriarsi questo pensiero, entrarvi dentro, mettendosi
allo stesso punto di vista del filosofo, e quindi in grado di rielaborare
il suo pensiero, chiarendolo con le attinenze storiche a cui è
legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui logica¬ mente è
suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la inconsistenza: in modo
che l’esposizione riesca una vita nuova del sistema filosofico nella
mente dell’espositore. Gatti, Esposizione del sistema filosofico di Leopardi,
saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro difficile, certo, e che
non riesce felicemente se non agli scrittori provetti; ma che nessuno
ordinaria¬ mente crede di potere schivare, se non limiti il proprio
ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne escono alla meglio,
esponendo i vari sistemi come ciascuno li ha intesi. L’autore
di questo libro, invece, ha voluto mettere insieme i passi dello
Zibaldone leopardiano, mostrando come fil filo un pensiero si svolgesse
dall’altro; e dove la connessione non appariva evidente nelle parole
del testo, ha supplito di suo i legamenti opportuni, ma con¬
tinuando a parlare, in prima persona, a nome del Leopardi: proprio come se
questi avesse riordinata e organizzata quella copiosa congerie di riflessioni
già via via segnate sulla carta a schiarimento del proprio pensiero
e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il rischio, e
stavo per dire la responsabilità, a cui andava incontro, facendo parlare
per la sua bocca lui, il Leopardi. Ha creduto che nello Zibaldone
stesse, pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo resistere al
seducente disegno d’innalzare, con la semplice composizione degli stessi
materiali leopardiani, la statua del filosofo sul piedestallo finora
vuoto. Laddove è chiaro che, se anche nei pensieri inediti del Leopardi
fosse implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di ritro-
varvelo e dimostrarvelo non poteva essere questa scelta
dall’autore. Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già
altri, ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il Leopardi
poeta, questi inediti Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
venuti ultimamente in luce, ci scopris¬ sero il Leopardi filosofo. Questa
era anche la tesi dello Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone,
da cui il nuovo studioso manifestamente prende le mosse, distinguendo due
fasi principali della filosofia pessimistica del Leopardi: nella prima delle
quali il dolore sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della
stessa natura; donde prima una concezione storica del pessi-
niismo, e poi una concezione cosmica. Ma lo Zumbini non insisteva sul
valore sistematico di questa filosofia leopardiana; e, d’altra parte, nel
secondo volume dei suoi Studi sul Leopardi, esaminando le Operette
morali, veniva in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle
riflessioni dello Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che Leopardi
aveva fatto seco stesso per iscritto, fossero appunto condensate nelle
Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello
Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze cronologiche, che
lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è
noto, dal Leopardi) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i
singoli pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema
logico. Ora, lo Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati
come si formavano giorno per giorno nella mente del Leopardi attraverso
ben (juindici anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per
quella del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni
in 78. Esso è anzi il diario degli anni in cui si svolse la vita morale
del poeta, e offre perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i
sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui
stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi sette volumi abbiamo,
per dir così, i segreti documenti di tutto il lavorìo intimo di quello
spirito, non potremo apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo
dalle loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le
proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel giorno: e quel
lavoro di sistemazione e organizzazione, per cui di tutti i pensieri
slegati si possa fare un tutto coerente, manca. Gentile, ifa»
2 ont e Leopardi. Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca
accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a rilevarsi, che
qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente molto lontani fra loro ». E
la sua ragione sarebbe questa : «Tali salti, mentre da un lato ci
forniscono ancora una prova evidentissima e incontrastabile della
profonda ripugnanza.... provata dal Leopardi per una concezione cosmica
del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il proposito nell’Autore di
rifare spesso a ritroso coll’ im¬ maginazione la via già percorsa dal
pensiero allo scopo di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa
strada, e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino,
allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli avrà mostrata
altra via da battere per giungere alla mèta prefìssa». Cioè, se ho capito
bene; a dilucidazione di pensieri anteriori il Gatti stima di poter
addurre pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra
ammettere avvenuto nell’ intervallo un cambiamento sostanziale di
pensiero, iierché il Leopardi rifà talvolta con l’immaginazione la via
già percorsa col pensiero, e già superata. Ci sarebbero certi « pensieri
di ritorno », o « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti,
non bisogna credere che il Leopardi contraddica al suo pensiero
posteriormente acquisito, anzi lo lasci intatto, ma, per certa ripugnanza
sentimentale alle più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi
temperamenti, torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza
filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un ritorno siffatto
nella mente del Leopardi, se noi crediamo di poter fissare questa nella
coerenza di certi pen¬ sieri definitivi, è evidente che non può essere
altro che una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è
costretto, quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria.
Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a pretendere dal Leopardi,
nelle sue stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non era nella
natura di tali confessioni. E non era neppure nella natura
dello spirito del Leopardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta,
ma non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia tante
volte protestato di possedere una sua filosofia ? Allo stesso modo del
Leopardi, più o meno, chiunque si ritiene in grado di giudicare dei
sistemi dei filosofi, ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di
sopra di costoro, e insomma di affermare una filosofia propria che
possa aver ragione di quei sistemi. E dal proprio punto di vista
chiunque, così facendo, ha ragione; e aveva ragione il Leopardi ; perché
in fondo a ogni mente umana, sopra tutto in fondo a quella dei grandi
poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito parlare
così di una filo.sofia del Leopardi, come di una filo¬ sofia del Manzoni,
dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero. Ma questa filosofia dei poeti non
è la filosofia dei filosofi, e bisogna trattarla, per non snaturarla e
non distruggerla, con molta delicatezza. Una delle differenze più
notabili tra la filosofia dei poeti e quella dei filosofi è che il poeta
può averne una, se è capace di averla, in ogni singola poesia;
laddove il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina,
non ha nessuna dottrina. Il Leopardi è in pieno diritto, come poeta, di
affrontare il problema del dolore, sempre da capo, con nuovo animo, con
considerazioni nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla
virtù, ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve
stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa del Leo¬ pardi è
infatti una situazione d’animo nuova; quindi una nuova vista dello stesso
dolore che domina l’anima del poeta; un nuovo concetto, una filosofia
nuova, che solo trascurando le differenze essenziali, che in una
poesia e in una prosa del genere di quelle del Leopardi son tutto, si può
rappresentare come sempre identica. Egli è che il poeta,
checché si proponga e dica di aver fatto, non espone propriamente una
filosofia: ma esprime soltanto un suo stato d animo, occupato,
deter¬ minato e quasi colorito da certi pensieri dominanti. Abbozza
in se medesimo (e quindi in un diario intimo) una filosofia provvisoriamente
sufficiente ad appagare i bisogni della propria ragione (che non sono poi
grandi in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in
quanto profondamente sentita, in quanto vita della propria anima, diventa
materia di poesia. Di poesia anche in prosa; perché, in sostanza la prosa
leopardiana è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi
stati d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti per
lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il Leopardi fa di
costringere il sentimento spontaneo dentro r intenzione ironica,
satirica, che gli fece appunto pre- f0rire la prosa al verso. Ma in
realtà, nelle Operette come nei Canti c’ è Leopardi con la sua filosofia
tetra e col suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo
grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni, che altri ha
studiosamente cercate in lui, e che sono il vero segno caratteristico del
suo spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria
non deve aver niente del¬ l’anima individuale di chi la costruisce. Essa
è una liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della
soggettività; è una contemplazione, diciamo così, d’una verità eterna, in
cui il filosofo, come persona particolare, si dimentica di se stesso, e
dei suoi dolori, e di tutte le tendenze affettive dell’animo suo. La
filosofia di Spinoza, la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di
somiglianza con quelli del Leopardi non presenta nes- Cfr. F. Tocco,
Biografia di B. Spinoza, nella Rivista d’ Italia, asuna traccia, non
offre nessuno indizio di sentimenti personali. K veramente una visione
del mondo sub specie aeternitatis, come egli diceva, in cui la
personalità del filosofo scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe
dire, scompare nell’animo dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece,
scompare nella loro filosofia. Onde una volta noi abbiamo innanzi una
persona determinata, viva in tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra
volta, un si¬ stema di concetti, in sé. Certo, tra le due
filosofie non c’ è un taglio netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il
pessimismo leopar¬ diano è, come è stato tante volte osservato, così
impre¬ gnato di elementi ottimistici, così logicamente frammen¬
tario e contradittorio, e d’altra parte così poeticamente coerente e
vivo, che lo scambio non è possibile. Noi pos¬ siamo studiare, dunque, la
sua filosofia, ma come vita del suo spirito, materia della sua poesia.
Studio, ripeto, molto delicato; perché in esso non bisogna mai
lasciarsi sfuggire che la realtà vera, a cui bisogna aver l’occhio,
non è questa filosofia in se medesima, astratta materia della poesia, ma
la poesia appunto, in cui quella filosofia è per acquistare la vita che
uno spirito poetico è capace di comunicarle. La filosofia quindi va
studiata per inten¬ dere la poesia, e valutata in quanto poesia, per
quella vita poetica che riuscì a vivere nello spirito del Poeta.
La pubblicaizione dello Zibaldone ha fortemente contribuito a fare
smarrire questo criterio. Ci s’ è trovata innanzi la materia grezza della
poesia leopardiana, quella tal filosofia, che il Leopardi rimuginava
dentro se stesso, e che, per quanto confidata a uno Zibaldone, non
aveva pregato nessuno di mettere in pubblico: quella filosofia, che
egli destinava a far materia di espressione più per¬ fetta, cioè di opera
poetica; e che infatti divenne in parte materia di canti e di dialoghi
(com’ è stato osservato, ma merita di essere particolarmente studiato). E
dimenticando che pel Leopardi tutti questi materiali non avevano valore
per sé, ma l’avrebbero acquistato soltanto quando egli li avrebbe
trasformati, qualcuno s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la
filosofia del Leopardi! — No, questi sono i detriti della sua
poesia: tutto ciò che la sua forza poetica non avvivò, non tra¬
sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e trasfigu¬ randolo nel suo
canto e nella sua satira. E produce davvero una strana impressione
il proce¬ dimento seguito dal dott. Gatti, che riferisce nel testo
certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a sussidio di esse, in
nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti, in cui gli stessi pensieri
assursero a forma artistica. Il perfetto fatto servire all’imperfetto; la
poesia ridotta a documento d’un suo documento ! Ecco un
esempio di filosofia documentata con poesia. In un pensiero Leopardi s
era domandato. Che vale per noi questa «miracolosa e stupenda opera
della natura, e l’immensa egualmente che artificiosa macchina e mole dei
mondi ? ». A che serve, dunque, questo ’ « infinito e misterioso
spettacolo dell’esistenza e della vita delle cose », se « né
resistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giova
veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed essendo
per noi l’esistenza, così nostra come universale, scompagnata dalla
felicità, eh’ è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica
utilità che resistenza rechi a quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e
tutta la Idosofia del Leopardi. Ma che significano queste sue
interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo, che,
non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana * Zibald., Queste giunture frapposte alle parole del
Leopardi sono del Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi
leggermente il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e
non vedendo, d’altronde, che tal fine sia o possa mai esser raggiunto,
egli, Giacomo Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale
possa essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa
costruzione e nella sua vasta armonia farebbe pensare a un’ intima
finalità. Qui non è affermata una verità obbiettiva; è bensì manifestata
la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente
espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza che questo suo
ondeggiare tra il concetto di una finalità eudemonistica universale e il
dubbio suUa validità di tal concetto ha neU’animo suo; quando da questo
suo per¬ petuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento
filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli sarà
ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a
confronto e conforto di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno
Leopardi dice con l’energia della fantasia commossa quello che nelle note
fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del
canto. E quando miro in cielo arder le stelle. Dico fra
me pensando: A che tante facelle ? Che fa l’aria
infinita, e quel profondo Infinito seren ? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono? Cosi meco ragiono: e della
stanza Smisurata e superba, E dell' innumerabile
famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni
terrena cosa. Girando senza posa. Per tornar sempre là
donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so.
Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio che non ci sia un
fine nel mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio
che irrompe neH’anima di un poeta, che mira in cielo arder le stelle,
quasi tante faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità
dell’aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande commozione,
com’ è noto, per Leopardi), e l’immensità della solitudine attorno alla
propria persona non dimen¬ ticata {ed io che sono P) né dimenticabUe
perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia, ma
l’uomo Leopardi, intero, con l’ansia e il terrore che gh desta lo
spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al dolore di lui che vi si
sente dentro smarrito. C’ è anche, innegabilmente, un dubbio filosofico :
semphce dubbio («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse
s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero b mio
pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi nasce il dì natale); ma
come elemento o momento della lirica grande. La pubblicazione
dello Zibaldone, badiamo bene, è stata, in fondo, una certa quale
indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi,
e che non si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio
deUe sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno
che scriva e stampi, pubblica soltanto queUo che gli par compiuto secondo
il fine a cui, più o meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta
non beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.
Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo
schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa
sua perso¬ nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene
appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo, r interesse
storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio,
mediante la conoscenza più larga che sia possibile della sua anima,
bastano a giu¬ stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come
degb epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più
gelosi segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce
col credere che appartengano agli altri più che a se stesse. Ma questa
giustificazione non deve farci dimenticare che gli abbozzi del poeta,
sono abbozzi delle sue poesie, come gli appunti provvisori del filosofo
sono antecedenti spesso superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni
modo non si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore
che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresen¬ tano la
conclusione definitiva del poeta e del filosofo. Tutto questo, si
potrebbe osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna
vedere al fatto, se il Leopardi, dopo gli studi del dott. Gatti, ci
apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei ri¬ spondere con un
altro discorso astratto, sostenendo che è ben difficile che uno stesso
genio possa essere insieme poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia
un’attività, che la filosofia necessariamente combatte e mortifica.
Ma penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre, quasi
costantemente mirabilissimo esempio dell’energia, onde è capace lo
spirito umano, di individualizzare e stringere nella fantasia e nel
sentimento di un’anima singolarmente potente il sistema più
intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della
filosofia ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre
perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico di fantasmi che
son pure astratti concetti: unità, che non si finisce e non si finirà mai
di studiare nella Divina Commedia ». E preferisco perciò una risposta
particolare e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso
generale io r ho fatto appunto a proposito del Leopardi, dopo Alla
quale per questo rispetto non credo si possa paragonare, ma a distanza
grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera, come arte e
come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta. aver letto
attentamente il saggio di Gatti. Libro, che non ò certo inutile, perché
molti schiarimenti particolari a concetti del Leopardi da uno studio così
attento e minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raffronti,
oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi sono opportunamente
istituiti tra pensieri del Leopardi e luoghi di Helvétius, di Rousseau,
di Maupertuis e degli altri autori del Poeta; ma insufficiente a
dimostrarci la tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del Leopardi
si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi a dimostrare il
contrario, per lo stesso esame accurato che ci dà dei Pensieri
leopardiani con l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è. C’ è la
travagliosa meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le accorate
riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che furono il tormento e
la musa perpetua del suo spirito: ma non più di questo. Il Leopardi lo
ritroveremo sempre nel disperato lamento de’ suoi canti e nel sorriso amaris¬
simo e pur soave delle prose. 11 materialismo della sua metafisica,
il sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua
epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono nei
pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti, i motivi
costanti del breve filosofare leoparebano : ma sono spunti filosofici,
anzi che principii d’un pensiero sistematico; sono credenze d’uno spirito
addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo speculativo. Le
sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osser¬
vazione empirica; e non servono ad altro che a dirci come vedev^a le cose
Giacomo Leopardi. In lui non trovi né anche una critica della
ragione, come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi
somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni contestabili, e
accettarle come verità assiomatiche e principii di deduzioni
pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il Leopardi non ebbe mai.
Non studiò nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e
stu¬ dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬
siero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬ sofia antica
ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri dossografi. Del Medio
Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce
neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come
Voltaire, non so¬ spettando in alcun modo la profondità del suo
pensiero Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano
allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma la sua vera
indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è r indole poetica,
convinti che fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore
filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della
esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica
edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette in rilievo di
contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non ha
niente che vedere coll’odierna filosofia prammatistica, a cui egli
studiosamente la rac¬ costa, per dimostrare così la modernità del
pensiero leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello
scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto sempre la vita
alla scienza, e salvata almeno quella dal naufragio di questa.
Salvataggio operato ora con la na¬ tura, ora col sentimento, ora con la
volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come
tale, che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo
fondamentale. Leopardi ricorre all’ immaginazione e a un certo qual senso
dell’animo, che fan contrappeso agli argomenti dolorosi della ragione e
bastano a confortarci a vivere. Né anche questo principio, del resto, è
sviluppato. Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese
un precursore del James e degli altri pram- matisti d’oggi, i quali non
sono scettici, benché in realtà abbiano una dottrina negativa del
conoscere; non vedono nell’attività pratica un surrogato dell’attività
teoretica: ma unificano le due attività, e immedesimano la verità
con l’utile, in modo che quel che giova credere, sia esso stesso il vero;
laddove quel che gioverebbe credere, secondo Leopardi, sarebbe né più né
meno che un’ illu¬ sione. La differenza tra Leopardi e James è la
differenza profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo
prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente dommatica e
positiva. Gli studi del Gatti furono ripresi cinque anni dopo (1911)
da Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini tra gh studiosi di
letteratura italiana, e dei più valenti e competenti interpreti del
pensiero leopardiano; ma con altro criterio e altro intendimento. E io
son lieto di leg¬ gere al principio del suo libro le seguenti parole;
«Fu tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente dal Cantella, di
ordinare e comporre in un sistema filosofico i pensieri dello Zibaldone
leopardiano; con esito che non poteva essere altro che infelice; quando
si pensi che sono riflessioni scritte giorno per giorno, senza disegno
prestabilito, per lo spazio di circa quindici anni, da quando prima
il poeta adolescente cominciò a voler pensare col suo cervello, fino aUa
sua piena maturità. Che fu uno degli argomenti principali che a suo tempo
io opposi al tentativo di GATTI. E sono interamente d’accordo con LEVI che lo
Zibaldone, con gli ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di cui ci conserva i
documenti, può esser materia alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero
del poeta, la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei
prodotti più maturi, dove parve all’autore d’avere impressa l’orma definitiva
del suo spirito, nei Canti e nelle Operette. Questa è, in sostanza,
l’idea centrale del saggio del Levi, e conferma pienamente il mio
giudizio sul va¬ lore e sull’ interesse dello Zibaldone.
Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce netta e ferma
quanto si potrebbe desiderare, costretta com’ è dall’autore ad andare in
compagnia di certi prin- cipii direttivi, che oscurano, a mio avviso, la
visione esatta di taluni momenti dello sviluppo del pensiero leo¬
pardiano e turbano il giudizio sulla sua forma ultima. Cosi, quando
comincia a notare che io ho ecceduto « ne¬ gando a priori allo Zibaldone
ogni interesse speculativo, per la qualità stessa dell’autore; il quale
sarebbe bensì un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta,
dominato interamente dal sentimento, e perciò di pen¬ siero incoerente,
mutevole e spesso contradittorio », egli, da una parte, esagera e àltera
il mio giudizio sullo Zi¬ baldone e, in generale, su tutta l’opera del
Leopardi; e dall’altra, accenna a un concetto (che non manca su¬
bito dopo di dichiarare esplicitamente), il quale non gli può consentire
una ricostruzione storica non arbitra¬ riamente soggettiva, ma razionalmente
giustificabile del pensiero leopardiano. In primo luogo, non è
esatto che io abbia negato o voglia negare ogni interesse speculativo
allo Zibaldone e tanto meno alle poesie e alle Operette morali', anzi
sono disposto a riconoscere che tutta la poesia del Leopardi non
abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi, che
il problema speculativo, nei termini, s’intende, in cui egli poteva e
doveva porlo. Quel che ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia
del pensiero del Leopardi qualche cosa di più che non fosse negli
scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto di vista del
Leopardi, fosse già pervenuto a quel punto di maturità spirituale, di
verità, in cui il Leopardi s’acquetò, a giudicare dalle opere con cui egli
stesso volle entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che
possa nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva licei
componere magnis) da quelle note, onde ognuno di noi si prepara ai suoi
lavori, e che, compiuti questi, quando ci pare d'averne spremuto bene
tutto il succo, si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando
dalle note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano
venute correggendo e integrando in più logica compat¬ tezza ' ; 2) che si
possa adeguatamente valutare la grandezza del Leopardi, facendogli il conto del
tanto di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a pre¬
scindere da ogni dottrina sulla natura della poesia, basta considerare le
critiche profonde e ineluttabili, onde quella verità fu superata da uno
spirito, che ebbe inizialmente una profonda simpatia congeniale col
Leopardi, il Gio¬ berti (specialmente nella Teorica del
sovrannaturale. Levi scrive: « Fii detto che la pubblicazione del
Diario sia stata un'indelicatezza, quando il Leopardi medesimo di
questa pubblicazione non aveva pregato nessuno. Oh si, sarebbe un
indeli¬ catezza esporre quelle cose agli occhi bene aperti d’un pubblico
di pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo gli errori del
grand'uomo che si viene formando. Ma chi ha già imparato ad amarlo e a
vene¬ rarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante le sue
reliquie... ». Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel che
scrissi io nella Rass. bibl. tett. U.,
mi rincresce di dovergli rispondere che egli non ha inteso lo
spirito della mia affer¬ mazione. La quale mirava soltanto a chiarire che
dello Zibaldone non ci si può servire se non come di documento della
formazione del pensiero del Leopardi, la cui forma ultima dobbiamo per altro
cercare sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse l'autore, e
pubblicò egli stesso come sole degne di sé. nel Gesuita e nella
Protologia), in pagine che il Levi non anteporrebbe di certo né pur a
quelle dello Zi¬ baldone. L vero che « nei sistemi filosofici
le parti più caduche sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema
». Ma ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi di¬
mostra che è: perché gli errori di questo genere non si scoiarono dal
critico se non come errori della costruzione del sistema, ossia come
divergenze dalla costruzione che, secondo lui, sarebbe più conforme alle
verità fondamen¬ tali intuite d<al filosofo. E se U critico non
rifacesse per suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe
modo di discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato
dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché un giudizio che
affermasse immediatamente : questo è vero, e questo è falso, senza
dimostrazione di sorta, non credo che pel Levi sarebbe un giudizio per
davvero. E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non è
privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi s’intende i
filosofi storicamente esistenti, Socrate, Pla¬ tone, Aristotele ecc., e
per poeti quelli che sono realmente vissuti o vivranno. Omero, Dante,
Shakespeare, ecc. Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me,
Iliacos intra muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie
rotte nel sistema, ce n’ è state, e ce ne sarà sempre, da una parte e
dall’altra. Ma noi non possiamo parlare di Omero poeta e di Platone
filosofo senza un concetto del poeta e del filosofo, e cioè della poesia
e della filo¬ sofia: le quali, come funzioni dello spirito,
trascendono la storia, che è la concretezza stessa della realtà
spiri¬ tuale. E soltanto alla poesia e alla filosofia come funzioni
trascendentali dello spirito si possono assegnare caratteri distinti, dei
quali quello che è della poesia in quanto tale non sarà della filosofia,
e per converso. Nella storia tutte le funzioni concorrono in
un’unità concreta, in cui il poeta, essendo anche filosofo,
partecipa del carattere dello spirito che è filosofia; e il
filosofo, essendo pure poeta, partecipa del carattere dello spirito
che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle funzioni
astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della storia, che fa
essa stessa la divisione dei grandi spiriti nelle due schiere dei poeti e
dei filosofi, secondo che negli uni prevale il momento poetico e
negli altri il momento filosofico; onde la distinzione e però la
categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni volta, funzioni di
giudizio storico, concreto. Perché il Leopardi va considerato come
poeta, e non come filosofo ? Perché, se conosco il Leopardi storico,
quale si formò e quale si espresse nel suo canto, io ci vedo bensì dentro
una filosofia; ma questa filosofia la vedo chiusa, compressa, fusa e
assorbita nella intui¬ zione immediata che questo spirito ha della sua
perso¬ nalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che
egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e poiché il suo
occhio è tutto intento alla risonanza tutta soggettiva, in cui vive per
lui un certo, oscuro, vago e frammentario concetto del mondo, la verità è
per lui, e dev’essere per me che lo giudico, non in questo con¬
cetto, ma nella vita di esso, in quella tale risonanza, nella sua Urica.
Beninteso che, per quanto oscuro, vago e frammentario, quel concetto sarà
pure un concetto, che avrà una chiarezza e saldezza organica
sufficiente alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui
assoluta. E non ci sono principii astratti ed estrastorici che pos¬
sano segnare a priori i limiti della filosoficità del concetto che vive
neUa Urica del poeta. Ma ciò non toglie che la distinzione non perda mai
la sua ragion d’essere, e che non si possa mai trascurare, volendo
rilevare, a volta a volta, il valore deUo spirito rispetto alle sue forme
es- senziaU ed assolute. Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le
sue forme è in fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se è
suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione, ed abbia un senso;
non sarà fuor di luogo nei poeti, di cui sentiamo la grandezza,
sospettare qualche cosa di più che la passività del sentimento, o
l’attività dell’espres¬ sione: sospettare e cercare un’attività etica con
un suo senso determinato e costante ». Ond’egli si propone di
cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie egli giunse alla sua
profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬ giamento interiore
costante e sicuro di fronte all’uni¬ verso Ebbene, tutto questo è molto
vago perché possa servire di criterio alla storia del pensiero di
un poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una sola soltanto
« in fondo », bisogna pure che si rispettino le differenze tra le varie
forme, in cui unicamente è possibile che quello che è in fondo venga su, e si
manifesti, e assuma così una forma storica determinata. E se è
suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione, posto, com’ è
necessario, che le suddette forme della I grandezza, o, più modestamente,
dello spirito, siano più d’una, oltre la suprema esigenza etica, ci
saranno (dato pure c non concesso che questa sia la radice di
tutte) altre esigenze supreme : come quella che la vita sia poesia,
e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci riflette bene,
s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per la sua posizione, in cui
l’azione è fondamentalmente un ^ atteggiamento dell’uomo di fronte
all’universo : poiché ; quest’atteggiamento o è un pensiero, o
l’imphca; e questo pensiero, dovendo essere una filosofia, non può
non essere anche una poesia. ' In realtà, quel che cerca il Levi
nel poeta, non è la ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì
una metafisica, I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o del
regno soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa
mèta. Gentile, Manzoni e LeoiHirdi. pur accennando qua
e là all’ identità del valore poetico e del valore del contenuto
filosofico della poesia, egli non si propone nemmeno, in nessun punto del
suo libro, il problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non
mira quasi mai al giudizio estetico dell’arte leopardiana; ma si
restringe a tracciare la linea di svolgimento del pensiero che c’ è
dentro, e che egli crede abbia assunto la sua forma finale in una specie
di individualismo romantico corrispondente alle tendenze dello stesso
Levi. Dirò bensì che la distinzione tra arte e filosofia accenna a
svanire nel pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente
estetico, più che etico, di questa filosofia romantica a cui egli
aderisce: quantunque pur in questo concetto la differenza permanga e
obblighi il Levi a far violenza, qua e là, al pensiero del Leopardi per
dargli queUa sistematicità, che è necessaria anche a una filosofia
indivi¬ dualistica. Il risultato degli studi del Levi, in
breve, è questo. Nel pensiero del Leopardi si devono distinguere
due pe¬ riodi; uno come di distruzione e dissoluzione dell’uomo,
l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo stesso; ; il quale
allora si contrappone aUa natura pessimistici^- ! mente e agnosticamente
concepita in cui termina il primo periodo, e si aderge in tutta la sua
grandezza, che è la j sua stessa infeUcità, o piuttosto la coscienza
della sua p infelicità. 11 primo periodo terminerebbe verso la fine
| del 1823, e sarebbe rappresentato, sostanzialmente, dallo 1
Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a poco, nel J gennaio 1824,
quando il Leopardi pose mano alle Operette morali', a proposito delle quali il
Levi scrive giusta- # mente ; « Fa onore al buon gusto e al senso critico
del 1 Leopardi l’aver lasciato da parte tutto quello ch’egU l
sentiva estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS alla storia
dell’ incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?. e l’aver esposto
definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi pensieri
intorno alla virtù e alla felicità umana. Insomma, anche pel Levi, lo
Zibaldone è il periodo jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi sette
volumi i primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in cui
il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ri¬ trova qual era
nella sua giovinezza e all’ inizio del suo speculare: «pieno d’ardore per
la virtù, e assetato di felicità, di bellezza e di grandezza ». La
riflessione, in questo periodo, che comincia intorno al ’20, si
stringe addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito
leopardiano; e non riesce a giustificarli, anzi h corrode e distrugge.
Che cosa è il bello ? e il bene ? e il vero ? e il talento ? Movendo dal
sensismo, che negava lo spi¬ rito e non vedeva altro che la natura, tutti
i valori dello spirito si dileguano facilmente dagli occhi del
giovane pensatore, poiché perdono tutti la loro assolutezza, la
loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende in lui il dolore
di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta nell'esser suo di
coscienza, e prorompe in una espressione ingenua della verità
disconosciuta: espressione, che ferma giustamente l’attenzione del Levi;
e giustamente gli fa segnare questo momento come principio d’un nuovo
periodo dello svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere
interpretata alla stregua del difettoso concetto che egli ha delle
attinenze della poesia con la filosofia, e a far deviare quindi tutta la
sua interpretazione del secondo periodo. 11 Leopardi, il 27
novembre 1823, scriveva nel suo Diario : « Bisogna accuratamente
distinguere la forza dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio
risiede neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente quanto
è più forte e viva in lui quella parte che si chiama Storia, anima.
Che la parte detta corporale sia più forte, ciò per se medesimo non fa
ch’egli sia più infelice, né ac¬ cresce il suo amor proprio. Nel totale e
sotto il più dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono in
ragione inversa della forza propriamente corporale.... La vita è il
sentimento dell’esistenza. — La materia (cioè quella parte delle cose e
dell’uomo che noi più pecuharmente chiamiamo materia) non vive, e il
materiale non può esser vivo e non ha che far colla vita, ma
solamente coll’esistenza, la quale, considerata senza vita, non è
capace di amor proprio, né d’ infelicità. Quello che in questo luogo il
Leopardi chiama sen¬ timento vitale, o vita», avverte esattamente il
T.evi, « è manifestamente la coscienza ». Ma continua : « Di
qui innanzi egli negherà ancora in astratto la nozione metafisica dello
spirito (al che egli ha avuto cura di tenersi aperta la strada colle
circonlocuzioni quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale ’
e ' quella parte delle cose e dell’uomo che noi più peculiarmente
chiamiamo materia'). A questo lo movevano il suo bisogno di concretezza,
e l’avversione a tutto 1 accattato e il falso ch’ei sentiva negli
entusiasmi spiritualistici dei romantici. Ma, praticamente, rispetto a sé
e rispetto all’uomo in generale, egli ha fermato con suffi¬ ciente
sicurezza la nozione di ciò che in esso è di natura spirituale e della
sua dignità». Ora qui è il piincipio del maggiore equivoco, in cui si
dibatte poi il Levi in tutta la sua interpretazione del Leopardi. Nel
luogo citato del Diario c’ è la coscienza della vita, ma non c è la
coscienza (il concetto) di questa coscienza; il Leopardi sente la
pro¬ pria grandezza come uomo sugh animaU e sugli esseri inferiori,
e la propria grandezza come Leopardi sugli uomini comuni, come potenza di
essere infehce. ma non pone mente che egli è grande, non perché infelice,
ma perché conscio della sua infelicità ; cioè non vede 1 esser cuo
nella coscienza che si eleva al di sopra del dolore, e lo impietra,
nell’arte; e però non si può a niun patto asserire che possegga la
nozione della propria natura spi¬ rituale e della propria dignità di
contro alla natura. Infatti il possederla praticamente (e soltanto
praticamente) come vuole il Levi, che significa se non che non la
pos¬ siede come nozione, bensì con quella immediatezza onde
10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza di sé ? Che
se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il contenuto della
sua poesia (attualità reale del suo spirito), sarebbe superato; poiché
sarebbe risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto od
oggetto dello spirito consapevole della propria vittoria sulla natura,
come opposizione e limite dello spirito, e quindi sorgente dell’
infelicità. Il pessimismo è assolutamente inconciliabile col
con¬ cetto del valore dello spirito; e questa è la vera e pro¬
fonda ripugnanza che prova il Leopardi, — pur quando intravvede nella
vivacità stessa della sua spiritualità l’essenza propria del reale, che è
sentimento, com’egli s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà
che non ha posto nella visione pessimistica del mondo in cui si
chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle circonlocuzioni «
quella parte dell’uomo che noi chia¬ miamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni,
che sono la patente documentazione del fatto, che il Leopardi non si
solleva al concetto dell’essenza dello spirito. Che se questo concetto si
fosse rivelato comunque alla sua mente, con tutta la sua « avversione
all’accattato e al falso che ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici
dei romantici », con tutto « il suo bisogno di concretezza », come
avrebbe potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che
11 sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non è
materia, e che la presunta concretezza della materia come tale non è
altro che un’astrazione, dal momento che essa non ci può esser nota
altrimenti che pel senti¬ mento che ne ha il vivente ? Orbene
questa contraddizione intrinseca tra il senti¬ mento, non elevato a
concetto, dell’umana grandezza, e il concetto (contenuto della poesia
leopardiana) della nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della
fa¬ talità assoluta del dolore, questa è la grande situazione
poetica del Leopardi rappresentata così splendidamente dal De Sanctis nel
saggio sullo Schopenhauer » : « Leo¬ pardi produce l’effetto contrario a
quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non
crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la
gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non
puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che
non cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire
al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede
possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno
un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso
concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la onora e la
nobilita ». Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto
e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua poesia: ma non
perviene mai a distinta coscienza degli opposti motivi che vi concorrono
senza scoppiare dentro il contenuto (astrattamente considerato come
filosofia) in manifesta contraddizione logica, come avviene nella
Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so. Certo, la forma
leopardiana si regge sull’equilibrio di questi opposti motivi, che sono
la personalità del poeta e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si
mantiene perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo,
‘ Saggi critici, à nel canto A Silvia, nel
Canto notturno e, in modo tipico, nei versi All' infinito, dove la
personalità si dimentica nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma
poetica : laddove, appena vi si contrapponga, come parte di contenuto (che
qui coscienza che il poeta ha di se medesimo) accanto al¬ l'altra parte
affatto ahena, tende necessariamente a spezzare l’unità del fantasma, che
è la logica del pensiero poetico. Di tale contrasto il Levi,
poeteggiando anche lui per interpretare il Leopardi, non vedo abbia
chiara coscienza; e però scambia la forma col contenuto dell’arte
leopar¬ diana, e vede una filosofìa (quella con cui piace a lui
d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima, e cioè la poesia
del Leopardi. Tralascio i bei capitoli, che il Levi consacra alla
storia della concezione storica del pessimismo, quale si disegna
già nella critica dello Stato e della civiltà, della scienza e della
filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso 10 stesso
Zibaldone per trovare in fine la sua espressione nei primi canti; Nelle
nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone. Bruto minore.
Ultimo canto di Saffo, Alla primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al
secondo periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della coscienza che il
Leopardi comincia ad acquistare della propria grandezza dopo la dimora
che fa in Roma dal novembre 1822 al maggio 1823: coscienza culminante da
ultimo, a mezzo 11 1823, in questa nota del Diario: «Ninna cosa
maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto,
che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente
sentire la sua piccolezza.... E veramente quanto gli esseri più son
grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono
più capaci della conoscenza, e del sentimento della propria
piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo periodo, il cui '
Zibald., V, 223 . pensiero il Levi vede maturarsi tutto nelle
prose {Storia del genere umano, Dialogo della Natura e di un'Anima,
Dialogo della Natura e di un Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e
nelle note sincrone dello Zibaldone. In questo secondo periodo
dall’uomo il Leopardi ritrae la causa del dolore universale nella natura;
alla concezione storica del pessimismo sot¬ tentra quella cosmica; ma di
fronte alla natura ineso¬ rabile artefice del nostro doloroso destino e
imperscruta¬ bile prosecutricc di fini divergenti dai fini
dell’uomo s’accampa questo con la coscienza del proprio valore:
dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo, e pur creatore
del suo valore nel virile disdegno d’ogni illusione, nella magnanima
sfida al Potere ascoso: nel¬ l’affermazione, insomma, di sé come
coscienza del dolore. Onde il Leopardi acquista una serenità, una
sicurezza ignota a quell’angoscioso piegarsi e stridere dell’anima
sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo jieriodo. Questo mi
pare, se ho bene inteso il cenno più che espo¬ sizione del Levi, il suo
modo d’intendere questa forma suprema dello spirito leopardiano.
Ma contro questa interpretazione vedo due princijiali difficoltà,
la prima delle quali confesso di proporre con qualche esitazione, perché
non sono sicuro di cogliere interamente il pensiero del Levi. Ed è che
non vedo i documenti dell’ interpretazione del Levi per ciò che
riguarda l’individualità dell’uomo, che in questo secondo periodo
starebbe di contro alla natura. Nell’allegoria dell’Amore, alla fine
della Storia del genere umano, la de¬ signazione dei « cuori più teneri e
più gentiU, delle per¬ sone più generose e magnanime », che vengono a
provare « piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine »,
comprende bensì il Leopardi, anzi rappresenta soltanto il Leopardi: ma
non come individuo che crea se stesso, col suo valore. Non è coscienza
del dovere dell’ individuo. che può nello spirito vincere
l’avversa natura e toccare (juindi la beatitudine da questa contesagli ;
ma è l’im- niediata condizione spirituale del Poeta, la cui
serenità estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il
dolore. 11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di
ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura dell’universo,
e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della beatitudine che spira
intorno al nume, figliuolo di Venere celeste, non v’ è giustificazione,
né quindi concetto. « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano,
invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate
dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo
effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato
dalla Verità, quantunque ini- micissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è
l’anima che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come
concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce serenità che si
diffonde per tutta la prosa: ossia la forma, la poe.sia, non il
contenuto, la filosofia, del pensiero leo¬ pardiano.
Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella
individualità che il Levi vede nelle varie prose al di sopra del
pessimismo cosmico, fino a Tristano che non si sottomette alla sua
infelicità, né piega il capo al destino, né viene seco a patti, come
fanno gli altri uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto
negazione: « E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra
ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo
fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. In altri
tempi ho invidiato.... quelli che hanno un gran concetto di se medesimi;
e volentieri mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio
più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con loro mi
cambierei... ». In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o
come altrimenti si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura,
perché e come potrà farsi una caratteristica del secondo periodo se nel
primo periodo resta, per esempio, il Bruto minore col « prode » di cedere
inesperto, che guerreggia teco Guerra mortale, eterna, o fato
indegno; e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si
erge magnanimo contro i numi e l’empia sorte, e, conscio della
propria grandezza al di sopra del « velo indegno », emenda il crudo fallo
del cieco dispensator dei casi ? Però credo che nell’esame dei
canti del secondo pe¬ riodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo
dell’acuto e suggestivo studio del Levi, la poesia leopardiana sia
più d’una volta tormentata affinché risponda docilmente ai
preconcetti filosofici costruttivi dell'autore. Nel Risorgi¬ mento
sarebbe celebrata « con gioconda sicurezza la su¬ periorità della vita
affettiva sulla conoscenza e su tutto, e la forza invitta con cui l’io
profondo si afferma, non ostante la contraddizione di tutto l’universo ».
Ma, se il Leopardi canta: Proprii mi diede i palpiti
Natura, e i dolci inganni; Sopire in me gli affanni
L’ingenita virtù. Non l’annullàr, non vinsela Il fato e la
sventura; Non con la vista impura L'infausta verità . . .
Pur sento in me rivivere Gl’ inganni aperti e noti; E
de’ suoi proprii moti Si maraviglia il sen. la chiave,
l’intonazione della poesia è in questo mera- vigharsi dell’animo di
fronte al risorgimento dell’ ingenita virtù: a questo miraeoi novo, che,
appunto perché tale. j^on è menomamente sicura coscienza della
superiorità della vita affettiva sulla conoscenza. Data la
sicurezza, perché meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia,
questo stupore innanzi al subito rianimarsi del mondo al risorgere del
vecchio cuore, la poesia è svanita. Un altro esempio significativo.
Nei versi .4 se stesso, secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga
riaffermando, disperatamente, ma pure ancora superbissimamente,
l’as¬ soluta solitudine della sua grandezza » ; e cita i versi ;
Non vai cosa nessuna I moti tuoi, né di .so.spiri è degna La
terra. Amaro e noia La vita, altro mai nulla; e fango è il
mondo. Ma dov’ è qui la solitudine della grandezza, se il
Leo¬ pardi vi nega ogni finalità ai moti stessi del cuore, se cioè
non crede che il cuore possa aspirare a nulla, e tutti i versi sono uno
schiacciamento del cuore stanco sotto r immane fatalità ?
Infine : « La Ginestra », dice il Levi, « è da taluni, non senza un
po’ di retorica, esaltata per il suo conte¬ nuto morale; da altri è
trovata troppo arida e razioci¬ nativa. A me sembra una cosa grande,
anche per quella maschia e dantesca sprezzatura, onde il poeta non
rifugge, per rispetto all’ intento morale, dall’ interrompere la
sua melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti in versi.
Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno all’ immensità
dell’universo e alla piccolezza dell’uomo, eppoi la straordinaria
descrizione delle eruzioni vesu¬ viane. La bellezza di questa nasce da
cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva : e questa è
l’in¬ tensità tragica del pensiero universale simboleggiato, e la
potenza di una personalità, che si colloca di fronte alla natura, e ne
abbraccia e comprende la terribile gran¬ dezza senza lasciarsene opprimere
». — Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa grande
per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la poesia con
pagine di ragionamenti. Se vi sono ragiona¬ menti che interrompono
davvero la poesia, il Leopardi, mi pare, sarebbe stato più grande non
interrompendo la sua poesia; dato che la grandezza della poesia non
possa essere altro die il carattere eccellente di una poesia, tanto
più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e tutta poetica. Vero è
che soltanto la retorica può persua¬ dere ad esaltare la Ginestra per il
suo contenuto morale; poiché questa parte appunto (oltre che la polemica
contro la filosofia del secolo XIX e contro il Mamiani) è quella in
cui è compromesso l’equilibrio lirico della poesia; ma mi pare anche un
errore staccare la bellezza delle meditazioni sul contrasto tra la
grandezza sterminata dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila
della descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di
tutta la ])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le altre
particolari sono irradiate: e che è, credo, la bel¬ lezza della ginestra,
del fior gentile, immagine del Leo¬ pardi, che, mentre tutto intorno una
mina involve, al cielo Di dolcis.simo odor manda un
profumo. Che il deserto consola: l'espressione più
delicata della divina poesia leojìardiana. E dove il Levi afferma con
intenzione, che la bellezza non so se della descrizione delle eruzioni
vesuviane o se di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta
che non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina
estetica, che dice altrove di non poter accettare, noterò che egli mostra
di non aver forse compreso che s’intende in questa dottrina per
espressione : perché l’intensità tragica che egli vi contrappone non è
niente di diverso dalla espressione, se di questa intensità tragica
intende parlare in quanto la vede nella Ginestra] poiché
l’espres¬ sione va cercata nell’atteggiamento individuale che lo
spirito assume di fronte a una certa materia, e questa, quindi, in
lui. Ma c’ è poi quella personalità, che si colloca di fronte
alla natura.... senza lasciarsene opprimere ? — Qui sa¬ rebbe il proprio
della interpretazione del Levi. Né supplicazioni codarde, né forsennato
orgoglio. Ma la ginestra non supplica semplicemente perché, più saggia
dell’uomo, non crede sue stirpi immortali, e sa pertanto che supph-
cherebbe indarno al futuro oppressore. Non c’ è, dunque, né pur qui,
l’individuo che si contrappone alla crudel possanza, ma la serenità
pacata della coscienza della sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio
antico, più che affermazione romantica dell’umana personalità.
In conchiusione, anche al nuovo schema filosofico la poesia
leopardiana si sottrae e repugna, per richiudersi sempre ostinata nella
naturai veste del suo pathos lirico. ^l//o scritto precedente il
prof. Levi rispose con alcune osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato
con la seguente lettera : Egregio Professore, Mi
par difficile discutere delle interpretazioni parti¬ colari di questa o
quella poesia o altro documento del pensiero leopardiano senza rimettere
in discussione il concetto generale e quindi i canoni critici del Suo
lavoro. Perché le mie osservazioni singole non miravano a con¬
futare singole opinioni e determinati giudizi, né a mo¬ strare piccole
infedeltà ed inesattezze, sì bene a far ve¬ dere in atto r illegittimità
del criterio fondamentale con cui aveva Ella ricostruito la sostanza
dello spirito leo- ‘ Si possono leggere nella Critica, .
pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune delle
mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire r intento
generale e il significato complessivo del mio articolo. Per esempio,
perché, pur consentendo che nel luogo citato dello Zibaldone con vita o
sentimento dell’esistenza H Leopardi intenda la coscienza, 10
negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto, della
coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale, in quanto parte di
una generale intuizione del mondo, era ciò di cui Ella aveva bisogno per
cominciare a vedere nel Leopardi la filosofia individualistica, in cui
Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia leopardiana. Con ciò
io non dovevo attribuire al Leopardi soltanto 11 possesso immediato
della coscienza (com’Ella mi fa dire), che sarebbe stato invero troppo
poco: ma solo un senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o
magari un concetto, che però non era un vero concetto, della
coscienza. Il Leoparch insomma vede lì la coscienza, ma non la pensa;
sicché per lui pensatore questa coscienza è come se non fosse ; e non può
dirsi perciò, che « praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in
generale, egli ha fermato con sufficiente sicurezza la nozione di
ciò che in esso è di natura spirituale e della sua dignità ». Il senso
della spiritualità e della dignità spirituale di sé e dell’uomo in
generale sì; e questo appunto io dicevo essere non il contenuto (la
filosofia, il concetto) della poesia leopardiana, ma la forma (la poesia,
la lirica, l’espressione della personalità del poeta, superiore alla
sua filosofia). Così, sarà verissimo che il Leopardi si creda
infelice perché grande, piuttosto che grande jierché infelice. Ma
questo non ha che vedere con la mia osservazione che, se egli avesse
avuto il concetto della coscienza, avrebbe veduto la propria grandezza in
un grado spiri¬ tuale che è al di sopra del dolore e della infelicità.
La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza
vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia del
dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e vi¬ sione sub specie
aeterni del dolore stesso, non può non liberare da esso il soggetto. Nel
Dialogo della Natura e di un Anima il Leopardi, phi che far dipendere
l’infe¬ licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra.
L’Anima domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬ naria
sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le
potresti tu scompagnare l’una dall’altra?» e la Natura risponde; «Nelle
anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i
generi di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi
il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione
della loro vita; la qual cosa im¬ porta maggior sentimento dell’
infelicità propria ; che è come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove
è chiaro che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè
eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale in quanto è
sentimento di essa, cioè quella vita, nella cui intensione consiste
l’eccellenza dell’animale. E però Leopardi deve ad ogni modo commisurare
la propria grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non
avrebbe fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure prati¬
camente, la nozione della vera realtà spirituale, che in lui spontaneamente
s’afferma quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra
i « mag¬ giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi
annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori,
e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo
proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella
al mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui ». Dove
c’ è quel dolore impietrato, di cui io parlavo come dell’unica forma
possibile del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa
coscienza, e quindi di quella vita del dolore che non è più dolore nella
vita dello spirito il Leopardi non ha coscienza. E però il
contrasto interiore che io vedo nella poesia del Leopardi è identico a
quello che ci vedeva il De Sanctis, anche se, nel passo citato da me,
rappresentato da un solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza
spirituale della personalità del poeta e la povertà, per non dire
nega¬ zione, di ogni sostanzialità spirituale, propria del con¬
tenuto della sua poesia. Del Dialogo di Tristano e di un amico non
è esatto che il primo periodo citato da me sia ; « E ardisco desi¬
derare la morte ecc. ». Le parole precedenti erano state pur da me
riferite immediatamente prima fino a Tristano che non si sottomette alla
sua infelicità, né piega il capo al destino, né viene seco a patti, come
fanno gli altri uomini » Ma queste parole non potevano im¬ pedirmi
di vedere in quel che segue, e in cui confluisce il pensiero di quelle
stesse parole, e però in tutto il Dia¬ logo, una negazione piuttosto che
un’affermazione: e negazione non soltanto, come Ella dice, della propria
per¬ sona empirica; perché la morte, pel Leopardi, non di¬ strugge
soltanto la persona empirica, ma tutto l’essere dell’ mdividuo.
' Mi piace ricordare la felice osservazione di Sanctis {Studio sul
Leopardi). Leopardi ha la forza di sottoporrei il suo stato morale alla
riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fab¬ bricarvi su uno stato
conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e
cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su una poesia nuova.
Egli può poetizzare sino il .suicidio, e appunto perché può trasferirlo
nella sua anima di artista e immaginare] Bruto e Saffo, non c’ è pericolo
che voglia imitarU. Anzi, se ci sono stati momenti di felicità, sono
stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del filosofo nell'atto
del lavoro ? — L’anima, attirata nella contemplazione, esaltata dalla
ispirazione, ride negli occhi, illumina la faccia..., >. z
Cfr. sopra, p. 57. Quanto alla differenza di disposizione
spirituale tra ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino
e Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma la si
attende serenamente, deposto ogni disperato pen¬ siero di suicidio, non
occorre negarla per non vedere né anche nei componimenti più tardi quella
coscienza jel valore della propria individualità, che Ella ci vede.
^'el detto Dialogo non si cela, almeno io non riesco a scorgere, « quella
robusta fede nella grandezza umana, riconosciuta possibile sempre, perché
bastevole a se stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si
dice che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in
quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di
lasciarla ». E, se non m’inganno, la nota fondamentale del dialogo è
nelle ragioni della tol¬ lerabilità della vita, per misera che sia: le
quali ragioni sono bensì la critica del pessimismo materialistico
del Leopardi, ma restano nella forma di sentimento, baste¬ vole a
conferire al dialogo quell’ intonazione affettuosa che gli è propria, e
sono veramente l’opposto di quella affermazione dell’ individualità dello
spirito, di cui si va in cerca : « Aver per nulla il dolore della
disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei
compagni; 0 non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore
alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far ninna stima di
addolorare colla uccisione propria gli amici e i do¬ mestici; è di non
curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui
che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degli altri;
non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire,
dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto
che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il
più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo,
che si trovi al mondo ». Se prendessimo atto di questa critica del
suicidio — che. risolvendosi in una serie di asserzioni, vale certo come
effusione di stati immediati deU’animo, ma non come filosofìa — che
filosofia diverrebbe questa del Poeta che ha ragionato sempresul
presupposto che la vita dell’uomo sia racchiusa nella sua sensibilità, e
che tutto il mondo all’uomo non si rappresenti se non nella breve sfera
del piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte, senza
questa contraddizione interna tra la filosofia dominante nel dialogo e il senso
affettuoso onde il poeta è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere
umano (cfr. la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione
intima di Plotino con Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia del
commovente dialogo ? Nell’ intendere come ho inteso il Risorgimento
posso sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella crede si debba
intendere altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giu¬ dizio. Ma la
ragione che mi oppone non mi riesce molto persuasiva; c’è, di sicuro,
nella poesia una risposta alle domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete
or mi ridesta ? Che virtù nova è questa ?... Chi mi ridona il
piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ; Da te, mio cor,
quest’ultimo Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto mio Solo da
te mi vien; ed è vero che nella quartina precedente l’accento maggiore
è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa risposta è la soluzione del
problema, in cui consiste la poesia : l’inaspettato, il miracoloso
risorgimento del vec¬ chio cuore. E quindi il sentimento che regge tutta
la poesia mi pare la meraviglia. Ragione, invece. Ella ha
certamente nel correggere il significato da me attribuito ‘ In un
periodo ora non più ristampato dello scritto precedente.
agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur dopo la correzione,
il significato del canto non è punto favorevole alla tesi dell’affermazione
della propria grandezza, gi a quella del grido della disperazione, comune
a quasi tutta la poesia leopardiana. E nella Ginestra chi negherà il
motivo da Lei richia- luato, della personahtà del Poeta che non si lascia
opprimere dalla crudel possanza della natura ? Ma bisogna vedere quanto
questo motivo sia attenuato qui dall’umile coscienza delle proprie sorti
(«che con franca hngua.... Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il
basso stato e frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver
le stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e sciolto
nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli uomini fra sé confederati,
e nella poesia consolatrice che, commiserando i danni altrui, manda al
cielo, come la ginestra, un profumo di dolcissimo amore, che
consola il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo
innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno
codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla
alla gentilezza del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati
amante, né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente
cantata dal Leopardi. Certamente, tutte queste cose meriterebbero
di essere chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti leopar¬
diani; e io voglio sperare che questa discussione possa invogliar Lei,
che ha studiato tutte le cose del nostro grande Poeta con tanto acume e
con tanto amore, a non staccarsene senza prima avervi gittate su la luce
di nuove ricerche. Maestro di vita Giacomo Leopardi ? Il prof. Bertacchi
> si è proposto appunto di « raccogliere dagli scritti di
Giacomo Leopardi e di comporre in multiforme unità gli elementi
dell’opera sua nei quali parlino più alto le feconde ragioni della vita»:
«quanto di sereno o di mcn ; triste ricorre neUe pagine del Nostro;
quanto di attivo e di energico, pur nello stesso dolore, risulta dal
senti- j mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar,
^ se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per dire la '
cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- | j strare tutti
gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1 leopardiana.
1; Elementi che non mancano certamente nella detta 'i poesia;
e costituiscono la singolare caratteristica del suo j pessimismo, come
già osservava sessant’anm fa il De San- ' ctis nel suo dialogo sullo
Schopenhauer (dopo che allo stesso concetto aveva accennato un ventennio
prima * Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita); , e
conferiscono infatti agli scritti di questo dolente e de- I solato
pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. | E molti studi
diligentissimi furono fatti in questo senso i da Giovanni Negri, nelle
sue Divagazioni, che pare siano t rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è
ottimismo e ottimismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J
direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il , carattere
dello spirito leopardiano, attribuendogli un ot- l timismo edonistico od
estetico, che solo un lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un
rft vita-. Sag^o leopardiano, Il poeta e la natura, Bologna,
/a nichelli, igi?- stratto e superficiale può vedere in
alcuni aspetti della sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi
è la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della
lenza dello spirito, di quelle necessarie illusioni, come egli le chiama,
a cui non trova posto nel mondo, guar¬ dato come cieco crudele meccanismo
naturale; ma che non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più
vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo
purificato e rasserenato in questa intuizione schiettamente
spiritualistica. La quale, d’altra parte, non a\Tebbe il suo proprio
particolar significato, disgiunta dalla negazione pessimistica della vita
dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il contenuto.
In questa contraddizione intima tra la natura cattiva e lo spirito buono
che in sé accoglie la visione di cotesta natura, consiste proprio la
radice, da cui trae alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender la
quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro dei due elementi
contradittorii. 11 prof. Bertacchi invece crede di poter quasi
cogliere in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬
lezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia il Poeta in
rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro ai suoi canti una
sensazione di letizia; per modo che, contro r intenzione del Poeta, la
sua poesia tratto tratto scoprirebbe nella stessa realtà naturale
ravvivata dal¬ l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita;
ossia una fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur seppe
attingere. Poiché, per lui, « vita è sentire e far sentire il bello e il
sereno di natura; vita ravvisare e creare le fide corrispondenze con essa
», e poi « l’uscirle incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o
impre¬ gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o
contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di atteggiamenti
e di modi, circuirla di umani argomenti. dedurre dal suo
stesso sensibile le conchiusioni jiiù nostre e i significati inattesi »
ecc., e il Poeta studiato « ne’ suoi fedeli commerci con la natura
esteriore » apparirebbe maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto
a fecondarsi d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia e
ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma la vita di cui
sarebbe maestro il Leopardi è una vita di piacere | del piacere procurato
dalla intuizione estetica della natura. Tesi in parte ingenua
e oziosa, in parte falsa. Perché se si volesse dire soltanto che il
Leopardi insegna a guardare esteticamente la natura e in generale a dar
vita estetica al mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma così
del Leopardi come, più o meno, di ogni grande poeta; e non c’ è nessun
bisogno di dimostrare questa tautologia, che un’opera d’arte, qualunque
essa sia, è rappresenta¬ zione estetica; e quel che può avere un
interesse e un significato, è dimostrare nel caso particolare in che
modo un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in
più la pretesa d’indicare attraverso questo vagheggiamento fantastico
della bella natura una vita diversa da quella apparsa triste al Poeta:
quasi che questi ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1
altra squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne
accorgesse, fossero attratti più dalla prima, e la luce di questa
s’effondesse sull’altra. Che è una pretesa affatto erronea; e
giustificabile soltanto col criterio dal Bertacchi candidamente esposto
fin dalla prima pagina del suo libro, come norma fondamentale del suo
metodo critico. Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza
che l’opera d’uno scrittore non valga solo per sé, ma anche per il
modo diverso ond’essa, quasi, si adatta a ciascuno di noi », poiché «
spesso dalla parola d’un autore, acco- r stata alle anime
nostre, si svolgono sensi ulteriori che l’autore non previde, ma che le
affinità degli spiriti e le somiglianze dei casi vi sanno naturalmente
ritrovare.... Il creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via
di significazioni e di uffici ». Sicché il Leopardi maestro di vita
è il Leopardi dei sensi ulteriori e non il Leopardi storico; il Leopardi
creato più che il creatore: creato, s’intende, in questo caso, dal
Bertacchi. 11 quale, una volta sul punto di creare, non è più legato da
nessuno dei vincoli onde ogni critico e storico è legato alle opere
che intende interpretare; e può scegliere tra gli scritti leopardiani
quelli soli o di alcuni di essi quelle parti soltanto, in cui meglio può
vedere adombrata l’imma- I gine del maestro di vita che desidera
raffigurare. Così comincerà con lo scartare le prose ; perché «
nella voluta terribile aridità » di queste, « il pensatore sinistro
svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo agio di aggiungervi
nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ; «egh non suscita in noi
altro moto che non sia d’atten¬ zione a quella sua logica amara ». E il
Bertacchi vuol dire che lì c’ è il pensiero del Leopardi, e non c’ è la
na¬ tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il che non
è poi vero, se si considerano almeno la Storia del genere umano, il
Dialogo della Natura e di un Islandese, La Scommessa di Prometeo e V
Elogio degli Uccelli. Pel Bertacchi le Operette morali sono filosofia e
non poesia. — Da scartare poi le poesie in cui il Poeta
«trasferisce nel canto quella materia medesima», malgrado «la maggior
seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar musicale, dalle pur
rare imagini che infiorano il discorso qua e là ». E con questi caratteri
il Bertacchi non si pe¬ rita di designare, oltre 1 ’ Epistola al Pepoli,
la Palinodia ed / miovi credenti, canti come II pensiero dominante.
Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di bella donna ;
definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di sentimento » ! —
Scartate, almeno questa volta, le poesie in cui il Leopardi parla bensì
diretto al nostro cuore {Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma can¬
tando se stesso non esce dall’ambito umano e sdegna ogni elemento
esteriore : giacché « chi legge, anche in tal caso, è legato alla parola
del poeta, e solo la rielabora in sé in quanto essa gli desti nel cuore
un moto di passioni consimili che il cuore abbia provato esso stesso ». —
Da escludersi infine i canti civili {AW Italia, Monumento di ALIGHIERI,
Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un vinci¬ tore nel pallone) ; sempre
per lo stesso motivo, che « si resta, sebbene con ampiezza maggiore nell’ordine voluto dal poeta ». Restano
le altre poesie, dove il Leopardi « canta all’aperto » ed effonde il canto
dell’anima al cospetto della natura: «vive con la natura, o almeno,
nella natura. E questa natura, poi, è quasi sempre serena ». Qui il
])oeta Bertacchi, creatore del creatore, può spaziare a suo agio nel
vasto cielo dei sensi ulteriori. Ecco; «1 paesaggi campestri, le scene
umili o grandi in cui si veniva a comporre l’anima del dolente
poeta, sono sempre evocati nei loro aspetti più belli ; soleg¬
giati sono i suoi giorni; le sue notti sono stellate e inargentate di luna. La
pioggia, che appar malinconica in un dei giovanili b'ranintenti, e
procellosa in un altro, riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza
mattutina, attraversata dal sole che entro vi trema sorgendo». E
questa presenza della natura « non è senza effetto per noi ». Creare qui
si può. « Egli, il poeta, potrà bene, contro ogni serena bellezza,
accampar le sue tristi fortune, o le innate sventure di tutto il genere
umano, o l’arcano terribile dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei
vuole, seguirlo nei suoi tristi argomenti, veder quella bella
natura velarsi del dolore di lui, sentir vivo il contrasto che si agita
tra quel poeta e quel mondo: ma, poi, non possiamo impedire che alcunché
di quel bello, di quel sereno che egli evoca, si apprenda alle anime
nostre, e festi in noi quasi a sé, quasi distinto dai sensi che il
poeta vi associa, congiungendosi, anzi, dentro di noi con quante
visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi si raccolsero negli
anni ». Che sarà — anche, come si sarà avver- t^ito, neh’ onda del verso
— una poesia bertacchiana, un senso ulteriore, che il Leopardi non ci
mise (come il Dante della novella sacchettiana), ma non ha più
niente che vedere colla poesia del Leopardi. E dove pare si accenni
a un giudizio critico, non può essere altro che una vaga e soggettiva
impressione priva d’ogni valore. Così il Bertacchi ci dirà che nel
Sabato del villaggio e nella Quiete dopo la tempesta « il poeta ha
compromesso il filosofo versandoci con troppa pienezza nel cuore
tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che trabocca dalle ore
descritteci » ». Che, come giudizio, è un errore, perché tutta quella
poesia traboccante è l’incar¬ nazione deU’ idea stessa del filosofo, che
nel Sabato non si esibisce già nella sentenza finale (« Questo di sette
è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia; Diman tristezza
e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la rappresentazione
precedente: dove tutta la gioia è la gioia d’una speranza guardata coi
mesti occhi della provata delusione: è la soavità della fanciullezza ma
non quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange l’uomo già
esperto della vita, in cui ad una ad una si son dile¬ guate le speranze
lusingatrici della prima età. E bisogna non vedere questa pietosa
malinconia, che prorompe da ultimo, ma s’annunzia già dalla malinconica
donzelletta tornante dalla fatica dei campi sul calar del sole,
cioè chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un
dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende la mano al
filosofo. O. c., p. IO. Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e 1
altro La vtla, solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza,
la¬ sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere a
queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una so¬ spensione
fluttuante, nella quale diresti che il poeta sia perplesso sul proprio
stato » >. Ora, il breve idiUio Alla \ luna non fluttua punto, ma
esprime nettissimamente il piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare
l’età del proprio dolore; il grato «rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri». E la Vita solitaria fluttua
soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e la sintesi che ne è tema
(neU’anima, s’intende, del poeta, e quindi in ogni parte della sua
poesia) tra la fresca c solenne beUezza della natura e il sospirante
solingo muto, che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai
miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni,
alla reina FeUcità servi, o natura »). Ma in tutto il
volumetto non si trova una pagina in cui propriamente il Bertacchi affisi
la poesia del Leo¬ pardi invece di vagare nei suoi cari sensi
ulteriori. Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi,
dicendo per esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito col
poe¬ ta, «poi è naturale, è umano che noi, da parte nostra,
riviviamo tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione di rimpianto,
quivi il poeta rievoca; che essi nell’anima nostra, non afflitta da quelle
cagioni, lascino pure qualcosa della originaria dolcezza; è umano che le
stelle dell Orsa e le lucciole del giardino e il canto della rana remota
e j viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si ag¬
giungano, come sorte da noi, alle sensazioni già nostre, ai retaggi
deU’essere nostro»». Umano, troppo umano, certamente. Ma che lavoro sarà
questo ? Sarà poesia sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la poesia,
per dir la verità, non so vederla nella prosa agghindata, saltellante e
retoricamente sonante del Ber- tacchi. « Ma il dono che G. Leopardi fece
a se stesso ed a noi, godendo e mettendoci a parte di tante scene
se¬ rene, non è il significato maggiore della complessa sua opera,
cede, per importanza, alla virtù ivi profusa di vivere della natura e di
comunicare con essa, quali ne siano gli aspetti, quali ne siano gli
effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui, che era in se stessa, per
lui, elemento e ahmento di vita ». « Quelle mitologie che, sia pure
fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi la visione delle cose,
non le sgombrano forse di quell’aura d’arcano e di vago che è tanto cara
al poeta, conforme all’ inconscio e aU’ ignoto onde è come infusa ed
effusa la fanciullezza dei singoli, la giovinezza dei popoli ».
«Momenti e motivi reali, più che di pura idea, sono que’ tocchi ed
accenni di cui venimmo parlando; son temi di canto, perché ci son dati da
tale che tutto era uso ad avvolgere in aura di poesia.... i temi son temi
e temi che, comunque, ci attestano come la stessa malia delle
sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio indugiar sulle cose ed
a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri » ». Né sarà poesia la
ritmica prosa, in cui il Bertacchi ama troppo spesso cullarsi per jiagine
e pagine, dove forse i sensi ulteriori gli soccorrono più lenti alla
fan¬ tasia. Ecco, per un esempio, la chiusa d’un capitolo. Come Saffo e
Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi liriche sorelle nate dalle
notti d’ Italia, aggiungono alle notti medesime qualcosa che prima non
c’era. Molti di noi certamente, in qualche grande ora deU’anima,
guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi in cuore un’eco di
quei canti stellati, e ripensando al poeta congiunto da quei canti a quei
cieli, ridissero a se medesimi. Egli è passato di là ». Squarci, dunque,
di eloquenza, anzi di oratoria ritmica ; alla quale potranno non
mancare gli ammiratori; ma in cui non direi che sia ricreato i]
Leopardi. Proprio il Leopardi ! Meglio, molto meglio che quest’oratoria
si volgesse a qualche altro tema di risonanze ulteriori: per esempio a un
Cavallotti. Prolusione al Corso di letture leopardiane che il Comitato
della Dante Alighieri di Macerata istituì nel 1927 presso quella
Università; nella cui Aula Magna questo discorso venne pronunaiato il 13
feb¬ braio '27; quindi pubblicato nella Nuova Antologia. A inaugurare
oggi in Italia un corso perpetuo di letture leopardiane c’ è da essere
assaliti da un certo sgomento, per la responsabilità che si assume. E
ciò per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il Leopardi si
rajjpresenta generalmente come un maestro di pessimismo; ed alzare una
cattedra a illustrazione del suo pensiero e della sua poesia può parere
perciò tutt’altro che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire
a vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬ cismo e
di allargare il petto ad energici sentimenti di fiducia nelle proprie
forze e ad alte convinzioni di fede nella vita che è chiamato a vivere.
Oggi sopra tutto, che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di
grandi doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare
nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella educazione
della gioventù a maschi propositi e metodi di vita l’antica fibra del
carattere nazionale. E sarebbe questo il momento di diffondere nei
giovani e nel popolo gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui
poesia non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di
questa vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla?
Motivo grave di esitazione e titubanza; ma che, lo confesso, non
turba tanto l’animo mio quanto l’altro che vi si aggiunge a far temere un
pericolo nella istitu¬ zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia
anche una elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene
che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e
lungi dallo spegnere, ha infiam¬ mato nei cuori la fede nella vita, nella
virtù e negl’ ideali che fanno degna e feconda la vita umana degl
individui e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che Leopardi,
come già altri poeti e sopra tutto Dante, argo¬ mento di letture pel
pubbhco, diventi anche lui materia di quel malfamato genere letterario
che troppo è stato coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che
dicesi delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto il suo
tempo, e potesse ormai relegarsi tra le smesse abi¬ tudini
dell’anteguerra. Giacché bisogna che gl’ Italiani si persuadano che, se
si vuol far davvero, e stare tra le grandi Potenze, ed essere un popolo
vivo, serio, temibile, realmente concorrente con gli altri popoli che
sono alla testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e
morale, bisogna romperla col passato. Dico col jiassato dell’accademia e
della «letteratura», dei sonetti e delle cicalate, degli eleganti ozi e
trattenimenti per dame e colti signori in cerca di onesti passatempi, più
o meno noiosi; in cui ogni argomento era buono purché legger¬
mente, discretamente, spiritosamente trattato, o agitato con oratoria
adatta a mover gli affetti e guadagnare gli applausi: ma in cui né
dicitore mai, né ascoltatori debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto
di parlare o di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con
tutta l’anima, e a pensare, a trarre da quel che si dice o si
apiilaudisce, conseguenze che siano norme di con¬ dotta e quasi cambiali
che prima o poi scadranno e si dovranno scontare. La conferenza, si sa,
non è un discorso da comizio, in cui oratore e pubblico, in buona fede, e
anche in mala fede, compiono un’azione e si pre¬ parano a compierne
altre; e non vuol essere una predica, che debba edificare un uditorio di
fedeli. L’ ideale è che nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi
tropjio, nessuno vi si riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno
Si ge ne torni a casa con lo stesso animo — vuoto con
è venuto alla conferenza. Ideale vecchio per gl’ Italiani.
Sorse e si sviluppò durante il Rinascimento, quando dall’umanista
venne fuori il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapi¬
damente per tutto il suolo del bel Paese, tutte quelle accademie dai nomi
strani e burleschi che attestavano es«i stessi la frivolezza dei
propositi e la spensieratezza jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano;
accademie, che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia
dalla nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resi¬
stono al sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti nioderni e alla
storia, e vivacchiano oscuramente sul margine dei bilanci dello Stato
nelle provincie e anche nelle maggiori città ricche di tradizioni
letterarie, a danno delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra
delle ac¬ cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime
e priva d’un profondo contenuto e interesse religioso, morale,
filosofico, umano; poesia senza ispirazione, filo¬ sofia alla moda,
erudizione per l’erudizione, scienza per la scienza, nessuna fiassione,
né anche nella letteratura politica, che legasse il pensiero alla persona
e la persona al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui
l’uomo non era cittadino della sua patria, né padre della sua
famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito innamorato di
astratte forme, senza attinenza con la pratica della vita e con la realtà
degl’ interessi personali. Cultura intellettualistica, di cervelli magari
pieni zeppi di notizie peregrine e di squisite nozioni e
raffinatezze di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né amori.
Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura, cioè senza
riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini proni alla frivolità
e agl’ interessi particolari, chiusi ad ogni alto e generoso sentimento e
ad ogni idea la cui attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile,
MaiXrZoni e Leopardi. Chi non conosce queste debolezze dello spirito
italiana nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^
risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella cultura e di quella
letteratura, e con Parini ed Allieri ha cominciato a sentire che il poeta
dev’essere pur uoiuo e che poesia, come ogni altra forma d’ingegno,
vuoi dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa che j)ur
dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra le genti, come fu
delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe stata una creazione effimera
ed insignificante senza gl; Italiani ? Cioè senza Italiani che
cominciassero a unire e a fondere insieme quel che avevan sempre diviso,
l’in. teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la scienza
e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola finita jier sempre
con l’accademismo e con la rettorica e con tutta la vecchia sapienza
scettica dell’ « altro è il dire e altro è il fare », per cominciare a
prender sul serio tutto, a lavorare tenacemente, a sentire come
proprio r interesse comune, a stringere la propria sorte a quella
della patria, a sentirla perciò questa patria come intima a sé e tale da
meritare che per lei si viva e che per lei si muoia ? Chi non sa che la
vecchia Italia rifatta di fuori si doveva pur rifare di dentro ?
Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma venuto meno lo
slancio morale di quell’età eroica, tale aspirazione si attenuò e fu meno
sentita; e nei riposati tempi di pace e di raccoglimento succeduti al
periodo agitato della rivoluzione e della formazione del Regno,
certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla; nel rifiorire
della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del
secolo scorso, in cui r Italia parve godersi le prospere condizioni
acquistate con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c arcadico
della letteratura, della cultura intellettualistica ed elegante; e da
Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le conferenze
prima sulla vita ita¬ liana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu
imitato jn tutte le principali città, e i conferenzieri più
brillanti f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando
j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro pagine
patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva, del lor^^ pubblico
di dilettanti di cultura a buon mercato. Perché a certe conferenze, con
certi nomi, di dire che l’ora é lunga a passare pochi hanno il
coraggio. Leopardi non può esser materia di conferenze. Vi si
ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilis¬ sima, che cerca
i luoghi solinghi e i silenzi della notte dove il suo canto possa
spandersi in una religiosa ele¬ vazione di tutto il cuore verso l’eterno
e l’infinito; dove il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare
a fronte della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi
segreti del suo cuore. Vi si ribella la religiosa austerità del suo
spirito tormentato dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo
com’era e orgoglioso della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico
e far suonare la sua voce esile e tremante di commozione in mezzo a
un numeroso uditorio distratto e proclive a mondani pensieri e a cure di
frivola oziosità o di vanità letteraria. No, quanti amano il
Poeta, non tollereranno che anche Leopardi venga alle mani dei pedanti,
dei letterati, dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto di
vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi che fanno
yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla sua vita con vigilante
coscienza morale. E io inizio questo corso formulando il voto e, per
cyuanto è da me, fermando il programma, che qui sia sempre vivo e presente Leopardi poeta, che è il Leopardi degli
uomini, e non Leopardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pettegoli
e dei perditempo. li. Giacché Leopardi fu anche un
erudito ap. passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la
comples. sione e si precluse la via a ogni godimento della vita per
la furia con cui nella età più giovanile si gettò sugli studi per puro
amore di sapere. Per molti anni aspirò, finché la perduta salute e la
vista indebohta non gli ebbero create difficoltà insormontabili, ad
essere un filologo consumato. Delle questioni letterarie, un tempo
delizia degli accademici, fu anche lui studiosissimo, ancorché
ironicamente guardasse dall’alto, per la coscienza che ebbe del suo più
squisito gusto e della sua più perfetta dottrina, le accademie italiane
antiche e recenti. Ma la sua anima non si chiuse né nella filologia, né
nella letteratura. Se ne servì come di strumenti a vedere e sentire
più addentro nel proprio animo, e di grado in grado elevarsi alla sua
forma di poetare. Egli (e la prova più manifesta è in quel suo diario
dello Zibaldone) visse sempre raccolto e concentrato in se stesso:
osservando la vita, studiando gli uomini, speculando sulla natura e
sull’anima umana, indagando i destini dei mortali e le forme onde l’uomo
rifrange nel suo cuore e nel suo iiensiero la luce di tutte le cose, da cui
si vede attorniato. Il suo pensiero è una continua, commossa meditazione
su se stesso, in forma che ora rimane un filosofema, ora as¬ surge
a fantasma, e vibra e rifulge agli interni occhi trepidanti.
Leopardi, con diversa temperie spirituale e cultura diversissima, è
dell’età stessa del Manzoni : figlio di quella nuova Italia che guarda la
vita religiosamente, e ne sente il valore e la serietà; profondamente
differente da quella anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i
poeti italiani cominciarono ad accorgersi che nella stessa poesia
c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo; l’uomo, che è legaio da
intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti della sua vita a una
divina realtà, governata da leggi che domano e annientano ogni arbitraria
velleità dei singoli; a una realtà, in cui il singolo uomo viene a
trovarsi nascendo da cui si diparte morendo, ma in cui deve inserire
e jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni sua azione, ogni
suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o sen¬ timento, durante
tutta la vita, dal dì della nascita a quello jella morte. Anche Leopardi,
razionalista e irrisore di superstizioni e di dommi, è uno spirito
profondamente religioso, sempre faccia a faccia del destino: incapace
di abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di prendere
alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso è sempre un sorriso di
austera, solenne mestizia, e si scorge il pacato accoramento dell’uomo
che non riesce a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel mondo sub-
biettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso dalla
considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in
particolare, si sforza di vincere il dolore. Per questa sua
costituzionale religiosità Leopardi non fu soltanto un poeta, ma fu anche
un filosofo, allo stesso titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna
intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam così, di professione, ai
filosofi cioè che tengono a distin¬ guersi dal resto degli uomini, essi
vi risponderanno che Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le
idee speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti
più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta
personale, perché non furono fecon¬ date da una sua speciale ispirazione.
Accettò, riecheggiò, Ria senza elaborare quel che accettò, senza svilupparlo,
ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità. In una storia
della filosofia ei perciò non può trovar posto; quantunque di lui non si
possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura filosofica
della prima metà del secolo passato. In questo senso, d’accordo, Leopardi
non fu un filosofo. Ma c' è un altro senso in cui si deve parlare
della filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia dei
filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può interessare tutti gli
uomini, e non essere una malinconica fantasti¬ cheria di gente che viva
fuori del mondo. Ed è quello per cui c’ è la filosofia di quelli che
inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh
che, senza inventarne, li cercano questi sistemi nei libri dove
sono esposti, e leggono questi libri, li studiano, ne fanno prò, li
gustano, han bisogno di farsene nutrimento e forza dello spirito, in
cerca di risposta a domande che sorgono spontanee dal fondo della loro
anima, insistenti, invincibili, e che essi perciò non saprebbero
reprimere e far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il
pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa intorno a
costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da cui sono senza tregua
assillati. Giacché, insomma, la filo¬ sofia, come la poesia, non è
privilegio né monopoho dei pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in
fondo allo spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto,
c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ in¬ teressi
esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto nelle esteriorità
da non portare in tutto l’accento, per quanto leggiero, della sua
personalità; e c’ è chi si ripiega e raccoglie in sé, e dentro di sé
cerca, trova e coltiva il germe della sua vita e del suo mondo.
In questo senso più largo e fondamentale il Leopardi fu
squisitamente filosofo: e stette sempre anche lui con gli occhi intenti,
ansiosi, sopra il mistero della vita, quale ad ogni uomo che sente e che
pensa esso si presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il
confuso agitarsi passioni svariate che gli tumultuano
incessantemente pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può
vivere così spensierato e abbandonato all’ istinto da non av¬
vertire che la sua vita non scorre tranquilla com’acqua sopr^ un letto
già scavato e terso. Sono sempre ostacoli da superare, bisogni da
soddisfare, desideri! non ancora appagati e ondeggianti tra la speranza e
il timore; e la gioia offuscata sempre dal dolore, che, vinto, risorge
in mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna vicenda di vittorie e
sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e disinganni, giubilo e
scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire totale di tutto, un disseccarsi
e inaridirsi definitivo della sorgente stessa, a cui l’uomo accosta ad
ora ad ora le sue labbra assetate; il nulla, la morte. La morte, che ci
at¬ terrisce prima di colpirci, toghendoci per sempre e an¬
nientando intorno a noi tante delle nostre persone care, con cui ci era
comune la vita, in guisa che la morte loro ci pare la morte di una parte
di noi. E che è questa morte ? e che questa vita che precipita fatalmente
nella morte ? Che è questo bisogno di cui viviamo, di non
arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad una tutte le nostre
speranze, disperde tutte le nostre gioie, ci priva di tutti i nostri
beni, ci chiude dentro mille osta¬ coli. ci combatte, c’ insegue, ci
sbarra la via, e non ci concede tregua finché non ci abbatta per sempre ?
Nascere è entrare in una lotta, che di giorno in giorno richiede
sempre nuove e maggiori forze, e una volontà sempre più agguerrita, per
vincere una battaglia sempre più aspra. Svegliarsi ogni mattina è, presto
o tardi, pronti 0 lenti, rispondere all’appello delle cose, della natura,
del destino, che ci attende, e ci spinge a nuove fatiche per
soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta la no¬ stra giornata.
Per gli uni la vita sarà più facile, o men difficile: ma per tutti è una
scala, che bisogna salire; salire sempre; da un gradino all’altro: sempre
più senza fermarsi mai. Ma, appena l’uomo che ha un cuore,
sente quest affanno e scorge, anche da lungi, la tragedia e la
catastrofe” non può non interrogarsi e riflettere se a questa lotta
ché par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia forz.
sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi confida a
volta a volta di poter affrontare la lotta stessa per conquistarsela la sua
gioia, e farsi insomma una vita sua, quale ei la vagheggia, filiera dai
mali la cui minaccia mette in moto la sua attività; e se egli non debba
aprire gli occhi, e riconoscersi vittima del giuoco inesorabile
della natura, granello di polvere sperduto nel turbine, o ruota di un ingranaggio
universale, il cui combinato movimento non s’arresterà né devierà mai, e
dentro i] quale ogni sforzo di volontà non può essere, esso mede¬
simo, al pari delle idee e dei sentimenti che lo solleci¬ tano, se non un
necessario effetto di una causa necessaria predeterminato ab eterno in
eterno. £ il mondo, in cui si svolge la nostra vita, una realtà
massiccia, tutta chiusa neUa sua natura e nelle sue leggi,
immodificabile, e noi dentro di esso, tutt’uno con tutte le altre cose,
anche noi mossi dalla forza irresistibile del destino ? 0 siamo noi
veramente capaci di metterci di fronte a ciuesto mondo, modificarlo con
la nostra opera, con la nostra volontà, e al di sopra delle ferree leggi
del meccanismo naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo
no¬ stro innamorato dell’ ideale, instaurare una legge che sia la
norma del bene e di un mondo spirituale dotato di un valore assoluto ? E
se non fosse possibile questo mondo superiore, in cui il bene si
distingue dal male, e c è una verità che si oppone all’errore, come si
potrebbe pensare lo stesso mondo inferiore e quella natura spie¬
tata tutta chiusa nel suo meccanismo, la cui afferma¬ zione implica che
si ritenga vera? E se a questo mondo superiore, alla cui esistenza occorre
l’attività libera dello spirito che sceglie il bene e si apprende alla
verità resping^n*^® contrario, se ne contrappone un altro che è la
nepzione della hbertà, come si farà ad ammettere che sia libera la natura
umana, circondata e condizio¬ nata da una natura che è l’opposto della
hbertà ? Pensieri, che il filosofo più esperto mette in
formule stringenti, e scruta a fondo; ma che confusamente, e non
perciò meno tormentosamente, affiorano in ogni umana coscienza, e ora vi
gettano lo sgomento, ora v’ infondono la fede di cui ogni uomo ha bisogno per
non fermarsi e cadere. Giacché 1 uomo non dà un passo senza credere
di poterlo dare; senza pensare che c’è una mèta innanzi a lui da
raggiungere, e che quella è la via buona per giungervi. E quando questa
convinzione gli manchi, e gli manchi del tutto, allora non gli resta che
rifugiarsi nell’ Èrebo, come la misera Saffo. O la fede, o la
morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che pensano e sentono poco,
e perciò si cUstraggono. Nessuno invece sentì mai cosi acutamente come il
nostro Leo¬ pardi. nessuno vi pensò mai con tanta insistenza, e ne
trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il Leopardi se fu un filosofo
in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta in senso stretto. Il che vuol
dire, che le sue convinzioni filosofiche non gli rimasero nella testa; ma
gli scesero al cuore, e \'i si abbarbicarono, e furono la sua
persona, lui stesso, la sua anima, 1 immediato sentimento, in cui
\ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La sua concezione della vita,
come or ora vedremo, si chiuse in poche idee, ma queste si fusero e
colarono ardenti sulla stessa fiamma della sua passione viva, e quindi
fiammeggiarono in accenti e fantasmi di poesia. La quale questo ha di
proprio, a differenza della scienza ragionata e del sapere speculativo;
che in questi il pensiero si spersonahzza e si stende in una tela
universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e far sua, e viverne
anche, ma elevandosi sopra di sé e quasi uscendo da sé, e mediandosi,
cioè svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo vivente
della sua individualità, in guisa da parere che non senta più né affetti,
né passioni, né gioie, né dolori, assorta nella contemplazione del suo
oggetto. Laddove la poesia, lungi dall’alienare da sé il soggetto, lo
stringe a se stesso, e lo fa vedere immediatamente così come esso è,
dentro di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente nel brivido
della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere e nel suo atteggiamento
non ancora mediato, sviluppato, riflesso, ragionato e disindividuato. Lo
scienziato cerca e trova la verità che è di tutti, astrattamente
obbiettiva, in guisa che non par più né anche spettacolo di occhi
umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa; e il poeta in^’ece
non cerca e non trova se non se stesso: l'amore o qual’altra passione gli
detta dentro le parole in cui egli si esjirime. In questa
immediatezza, spontaneità e quasi natu¬ ralità dello spirito poetico è il
segreto della miracolosa potenza della poesia, raffigurata dagli antichi
nella virtù incantatrice della lira di Orfeo, che traeva a sé e trascinava
non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere che solo sentono. Perciò
la poesia, quantunque richieda anch’essa cultura e finezza spirituale,
risultato di studio e di educazione, s’appiglia al cuore dei semplici e
delle moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non per
virtù di persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, appunto, d’un tratto,
immediatamente, quasi per divino miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù
diffusiva dell’arte è senza paragone superiore a quella della
filosofia. Perciò quella filosofia, che fu nel Leopardi
sentimento e diventò sublime poesia, ha una potenza infinitamente
maggiore di qualunque più sistematica filosofia; e se si chiudesse nel
gretto circolo di una concezione pessimistica della vita, non sarebbe, a dir
vero, prudente accorgimento di educatori del popolo italiano erigere qui
una cattedra a commento ed esaltazione di essa. I filosofi, per
raggiungere la loro verità, devono salire l’erta fati¬ cosa del monte; e
giunti alla cima, vi restano per solito in una solitudine magnanima,
anche a malgrado della moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I
poeti si traggono dietro il popolo, toccandone il cuore anche
lievemente, con quella loro arte che « tutto fa, nulla si scopre ».
Leopardi è tra essi; ma materia del suo canto è la sua filosofia. E
qual è dunque il contenuto di questa sua filosofia ? Quello che abbiamo
già detto dei problemi filosofici, che spontaneamente sorgono dal fondo
del pensiero umano, ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita
intellettuale e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei problemi
martellò il suo pensiero; e di quei problemi vagheggiò soluzioni, che
scossero profondamente il suo animo. E sono i problemi fondamentah o
massimi della filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno
di assicurare all’uomo la fede che gli è indispensabile per vivere: la
fede nella propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha, e deve avere,
di esercitare un suo giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi
un suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi ideali e
non dibattersi vanamente in una rete di illusioni e di sforzi infecondi.
Bisogno, rispetto al quale ogni filo¬ sofia materiahstica, evidentemente,
è una filosofia fallita; la quale, logicamente, se l’uomo non si
risolvesse da ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad
abbandonarsi all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come ho detto, al
suicidio. Ora Giacomo Leopardi, ogni volta che si trovò a fare di
proposito una professione di fede, fu esplicito nel manifestare la sua
adesione alla filosofia sensualistica e materialistica; e il Frammento
apocrifo di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è
una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per altro, si
ripercuote in una buona metà de’ suoi scritti in prosa e in verso. Poiché
da per tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente rappresentata
nel Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa e non
si cura dei desiderii né delle sofferenze umane; natura grande, enorme,
infinita, la quale racchiude in sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che
pretende di contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla
alle proprie tendenze, conformarla a quei fantasmi di una vita
bella ideale, che egli si finge e pretende di far valere in concorrenza
della dura, quadrata realtà che lo fron¬ teggia. Questa perciò,
conosciuta che sia, spezza ogni umana velleità, e aggioga l’uomo al
dominio universale delle leggi di natura: dove non c’è bene né male,
ma tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa che lo
determina, non può non accadere; e la stessa necessità ha ogni umano pensiero o
volere, che non deriva da un principio autonomo, che si faccia centro di
una vita superiore e indipendente, avente in sé la propria misura,
ma è effetto del generale meccanismo, che si abbatte sulla così detta
anima umana attraverso le sensazioni e gh appetiti che queste
producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa, in
conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a riflettere che c’ è
due modi di giungere a conclusioni ma¬ terialistiche : uno proprio degh
spiriti poco sensibih, che, raggiunte quelle conclusioni, vi si
rassegnano: le trovano inevitabili, e si fanno un dovere, il cui
adempimento non costa a loro grande fatica, di accettarle senza
reazione di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che se
non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore e la
manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro, e vi si ribellano con
tutta la forza del loro sentimento, che ò come dire della loro stessa
personalità. I secondi non riescono ad affisarsi tanto nella visione di
quella natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da
restarvi come assorbiti, dimenticandosi af¬ fatto di queste esigenze, e
cioè della lor propria natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce
appunto da questo stridente contrasto, di cui essi infine vengono a
fare l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto
vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una parte, la natura
disumana, in cui tutte le luci onde s’il¬ lumina la via dello spirito si
spengono; e dall’altra, questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde
dentro di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano e
vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di una affermazione, in
cui lo spirito umano manifesta la fede che ha nelle proprie forze e nella
propria capacità di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al
primo in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì di
fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale, meccanica,
chiusa e impervia ad ogni idealità, inconci¬ liabile con qualsiasi
concetto di libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure
l’opporsi dello spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata
di attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra. E per
ammettere questa, bisogna ammettere prima quella ; senza la quale
mancherebbe lo stesso pensiero, a cui si chiede tale ammissione. E chi
dice pensiero, dice libertà. Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col
nostro pensiero, con la nostra volontà, crearci il mondo che ci
sorride alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose
belle e buone, a cui il nostro cuore tende con irresistibile slancio ? E
come spiegar l’ali, onde noi vorremmo in- nalzarci nel libero cielo dell’
ideale, se esse urtano sul muro di bronzo di questa materiale natura, che
ci attornia e stringe da tutte le parti, dalla nascita alla morte ?
Ecco l’esperienza del Leopardi, ecco la sua lìlosofìa, che è molto
]ùù complessa del semjjlicismo materialistico; ed essa è il reale contenuto
della poesia leopardiana: quella filosofia fatta sentimento e persona,
che ho detto esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale
non si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché la
ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il cuore, è la
negazione del materialismo; e poi perché egli è un poeta, e come ogni
poeta crede nel suo mondo, lo prende sul serio; e questo suo mondo è la
])rova più luminosa della sua capacità creatrice e della sua
libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri principali
dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato, l’uomo religioso,
lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà che prcesiste alla
sua azione, alla sua ricerca scientifica, alla sua preghiera o alla sua
speculazione, che è in sé quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo
deve arren¬ dersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e,
prescindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente, celebra la sua
assoluta libertà, arbitro della nuova realtà che egli si finge, e in cui
vive, e si aliena dal mondo natu¬ rale dell’uomo comune e della sua
stessa vita ordinaria: sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda, e si
slarga a orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno e
del divino. La poesia del Leopardi ribocca e freme di tre¬ pidante
tenerezza per le vaghe immagini figlie dell’arte sua: per quelle dolci
parvenze che un po’ gli sorridono e poi, a un tratto, lo abbandonano
rapite via dalla cor¬ rente di quella disumana realtà, che ignora il
dolore che essa cagiona ai cuori teneri e gentili. E insieme con le
immagini belle, gli arridono tutte quelle che una volta egli dice le «
beate larve », familiari agli uomini non an¬ cora giunti alla conoscenza
del tristo vero, ossia non ancora spinti dalla malsana riflessione alla
disperazione (ji quella mezza filosofia, che è il materialismo: le
beate lar\e, che allietano e confortano la vita agli uomini, nelle
antiche età, e nei primi anni della fanciullezza e della gioventù quando
non ancora si sono appressate le labbra all’amaro calice della vita; e
nelle prime ore del mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non
ha riassaporato per anco la realtà, e se ne foggia con 1’ im¬
maginazione una che lo anima e alletta alla nuova fatica. Le beate larve
delle illusioni naturali e necessarie : di tutte, cioè, le idee che
formano il pregio della vita, e che quella filosofia materialistica non
potrà giustificare come dotate di un legittimo fondamento, e pur non
potrà sradicare dallo spirito umano. Perche illusione la virtù
? Perché illusione ogni idea onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita
che noi cono¬ sciamo, risponde il Leopardi, ne è la negazione.
Ricordate il dialoghetto di un venditore d’almanacchi e di un passeggere
? L’almanacco promette per l’anno nuovo tante cose belle; ma il
passeggere è scettico; «quella vita eh’ è una cosa bella non è la vita
che si conosce, ma (jueUa che non si conosce ; non la vita passata, ma la
vita futura ». La quale però un giorno sarà passata, e allora si
cono¬ scerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta sperimentata;
brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro è il mondo che vi finge lo
spirito; il mondo, dice Leopardi, delle illusioni. Lì è la virtù che vince il
male e trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì è
l’amore; lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello
non è il mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga, e
diventi passato. La realtà realizzata, quale noi possiamo averla innanzi
a noi, ed effettivamente conoscerla, quella ci disillude, e ci dimostra
che la virtù è un nome vano. e che tutte le più vaghe speranze e gl’
ideali più cari finiscono nel nulla. Tant’ è che Tuomo
conchiuda o per condannare come semplici ombre fallaci tutte le
illusioni, e dire che la vita non si può governare se non in rapporto al
reale all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o per
risolversi animosamente a dir no a questo mondo reale (che è il passato
senza futuro) e a governarsi con l’occhio all’avvenire, dove lo trae la
sua natura di es¬ sere pensante, e perciò creatore di ideali e
vagheggiatore di una vita superiore a quella puramente naturale. E
Leo¬ pardi dice questo no con tutta la forza del suo animo, con
tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto proteso verso il
futuro, verso l’ideale, e torce con co¬ scienza prometeica lo sguardo
dalla legge fatale che incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata
ne¬ cessità di morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il
brutto poter che ascoso a comun danno impera e V infinita vanità del
tutto. Per lui Nobil natura è quella Ch’a sollevar
s’ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato. E
quanto a sé non cederà certo ; e alla morte può dire : Erta la
fronte, armato, E renitente al fato. I.a man che
flagellando si colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di
lode. Non benedir.... Solo aspettar sereno
Quel dì eh’ io pieghi addormentato il volto Nel tuo virgineo
seno. Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima umana pur
nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima jn uno de’ suoi
dialoghi; vivi, e sii grande e infelice. Infelice perché grande; perché
sentire la infehcità è solo jelle anime grandi, che con la loro gagharda
natura si jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e re¬
gnano sovrane in quella superiore realtà che è propria dello spirito.
Leopardi sa che la grandezza del suo dolore si commisura alla grandezza
del suo pensiero che lo sente e analizza e ne fa materia al suo altissimo
canto; e che un’anima volgare e torpida non saprebbe provare tutto
il dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e irride. Leopardi
sa che la coscienza dell’umana miseria è già segno di grandezza. Sa che
ancor che tristo, ha suoi di¬ letti il vero: che l'acerbo vero, a
investigarlo, dà un amaro gusto che piace. E poi quando l’anima,
disillusa e stanca della vita che non mantiene mai le sue promesse, si
ri¬ duca infatti all’estremo della infelicità, che non è la di¬
sperazione, ma la noia >, la morte ncUa vita, non dolore né piacere,
ma il sentimento della nullità, questo terri¬ bile privilegio degli
uomini, a cui la natura non ha provveduto perché non ha neppur sospettato che
l’uomo vi potesse cadere; quella noia che, a simiglianza dell’aria
«la quale riempie tutti gl’intervalli degh altri oggetti, e corre subito
a stare là donde questi si partono, se altri oggetti non gli rimpiazzino
», « corre sempre e immedia¬ tamente a riempire tutti i vuoti che lasciano
negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene,
anche allora l’anima non cade, non è vinta. Giacché, secondo
Leopardi, « la noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti
umani. Il non potere essere soddisfatto da ’ « La disperazione è
molto, ma molto più piacevole della noia. La natura ha provveduto, ha
medicato tutti i nostri mali possibili, anche i più crudeli ed estremi,
anche la morte, a tutti ha misto del bene, a tutti.... fuorché alla noia»
(Zibald.). Zibald., — Giuntile, Manzoni e Leopardi.
alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare
l’ampiezza inestimabile dello spazio, il nu¬ mero e la mole maravigliosa
dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo
proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo
infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più
grande che sì fatto universo; e sempre accu- sg^re le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬ mento e vóto, e pero noia,
pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della
natura umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nes¬ sun
momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le delusioni, su
tutti i dolori, su tutte le miserie, al di sopra della mole sterminata di
quest’uni¬ verso, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spen¬
gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la hbertà, quindi
la possibilità di crearsi una vita superiore degna delle più nobili
aspirazioni connaturate all’animo umano. Anche pel Leopardi, poca scienza
pregiudica e mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce
la fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura, che
la mezza filosofia del materialista ci rappresenta in voley mutyignu, è
pur quella natura che mette nel¬ l’animo nostro le illusioni; e se non
sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo
non più contento delle condizioni naturali della vita che egli
dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore, con la pietà,
con tutti gli affetti gentili che riempiono il cuore di dolci
consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura
che governa Tuomo, madre benigna e pia nell’età dei Patriarchi, nei tempi
oscuri e favolosi del genere umano, e risorge amorosa nella prima età
di ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬ ginare la
speranza nel futuro a cui egli va incontro; questa natura, che nell’amore
torna sempre a rinverdire le speranze, e che ci fa conoscere una « verità
piuttosto che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,
quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuo¬ tato il calice
amaro, torna a confortare l’uomo, amica e consolatrice. La natura del
materialista è via; ma non è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11
savio torna fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è
alla presenza di un mondo il quale non è quello del mecca¬ nismo,
che tutto travolge e distrugge quanto a lui è più caro, ma quello del
pensiero, dello spirito umano, del¬ l’amore, della virtù. Onde ai
suggerimenti egoistici della filosofia (nel Dialogo di Plotino e di
Porfirio) che indur¬ rebbe il filosofo al suicidio, Plotino può
rispondere : <iPorgiamo orecchio piuttosto alla natura che alla
ragione»'. alla natura primitiva « madre nostra e dell’universo »,
la quale ci ha infuso un certo senso dell’animo, che è amore degli altri
e che ferma la mano al suicida ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si
dorrebbero della sua morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che
vorrebbe togliersi la vita, il filosofo più savio, il maestro,
Plotino dirà: Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non
ricusiamo di por¬ tare quella parte che il destino ci ha stabilita dei
mali della nostra specie ! Sì bene attendiamo a tenerci compagnia
l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della
vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo : e anche in
quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteran¬ no: e ci
rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, cosi molte volte ci
ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò il De Sanctis paragonando
Schopenhauer a Leopardi, notava questo grande divario tra n
filosofo tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette
in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto più ce la fa
amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce ne accende
vivo nel petto il desiderio e il bisogno. Perciò la lettura del Leopardi
non sarà mai pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà
leg- gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso per
metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più sani
e vigorosi ottimisti che ci possano apprendere il segreto della vita
operosa e feconda. La morte, anche la morte, il simbolo della
fatalità avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬
nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni speranza e d’ogni
fatica, e della nullità della vita a cui ci sentiamo tutti legati, la
stessa morte al Poeta, nella maturità piena della sua poesia, quando il
suo animo ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la sua
verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa germana di Amore,
che è pel Leopardi, come s’ è veduto, ciò che dà verità più che
rassomiglianza di beatitudine. Fratelli, a un tempo stesso. Amore e
Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle. Morte diviene una
bellissima fanciulla, dolce a ve¬ dere; e gode accompagnar sovente
Amore: E sorvolano insiem la via mortale. Primi
conforti d’ogni saggio core. 1 Cfr. sopra, p. 54. 2
Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica, come merita, uno
studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo leo¬ pardiano,
Treviso, bongo e Zoppelli, Il Poeta
sente che Quando noveUamente Nasce nel cor profondo Un
amoroso affetto. Languido e stanco insiem con esso in petto
Un desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale
D’amor vero e possente è il primo effetto. Il Poeta vuol
rendersi ragione di questa coincidenza, e non vi riesce. Ma ben sente che
quando si ama, non ha più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso
nei suoi limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che
fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore scopre che la
sua vera vita è di là da questi hmiti; e che bisogna ch’egli perciò muoia
a se medesimo, e spezzi r involucro della sua individuahtà naturale,
centro di ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte
opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte è liberatrice,
affrancando lo spirito umano dai vincoli onde ogni uomo è da natura
incatenato a se medesimo, chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e
forze naturali, incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi,
en¬ trare nel mondo morale, che è il mondo della libertà.
Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa la materia
del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che attraverso il corso di queste
letture, che inauguriamo, tale concetto apparisca in luce sempre più
chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane
(Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali di G.
L., da me curata, Bologna, Zanichelli, 1918; 2» ed. 1925. Se si volesse
considerare le Operette morali come una raccolta delle varie parti, in
cui il libro è diviso, sarebbe tutt’altro che agevole stabilirne la
cronologia. Certo, non sarebbe consentito di starsene alle indicazioni
fornite con perentoria precisione dallo stesso autore innanzi alla
terza edizione iniziata a Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte
nel 1824, pubblicate la prima volta a Milano nel 1827, ristampate in
Firenze coll’aggiunta del Dialogo di un Venditore di almanacchi e di
un Passeggere, e di quello di Tristano e di un Amico, composti nel 1832;
tornano ora alla luce ricorrette notabilmente, ed accresciute del
Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco scritto nel 1825, del
Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio, composti nel 1827 »
Intanto, non tutte le Operette furono pub¬ blicate la prima volta a
Milano nel '27; giacché tre di esse, come « primo saggio », avevano visto
la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’ Antologia e quell’anno stesso
erano state riprodotte a Milano nel Nuovo Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte
le Operette, ad eccezione di quelle che nella notizia testé riferita sono
assegnate dall’autore al ’25, al '27 e al ’32, furori composte; perché
l’autografo originale, che è tra le carte leopardiane della Biblioteca
Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed. Mestica, li, fa sicura testimonianza con le date apposte
alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al 13
dicembre di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo in
cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima fu concepito, o ne
cadde il motivo fondamentale e inspi¬ ratore nell’animo del Leopardi.
Giacché con qual fonda¬ mento si toglierebbe l’una o l’altra delle
Operette a docu¬ mento di quel periodo spirituale che si suole infatti
atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di
Simonide (apparte¬ nenti probabilmente a quello stesso tempo), e
l’epistola Al Conte Carlo Pepoli (marzo 1826), o II Risorgimento, se quei
pensieri che sono caratteristici delle Operette risalgono ad epoca più
remota ? Fu già osservato j che negli Abbozzi e appunti per opere da
comporre, che sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli
foglietti staccati senza indicazione di tempo » 3 , è segnato un Ecco
le singole date, già in parte pubblicate dal Chiarini, Vita di G.
Leopardi, Firenze, Barbèra, e da me riscontrate tutte sul manoscritto
autografo (che si conserva tra le Carte della Biblioteca Nazionale di
Napoli): Storia del genere umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante (10-13
feb¬ braio); Dialogo della Moda e della Morte; Proposta di premi;
Dialogo di un Lettore di umanità e di Sal¬ lustio (26-27 febbraio) ;
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ; Dialogo di Malamhruno e di
Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della
Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo di un Fisico e di un Metafisico;
Dialogo della Natura e di un Islandese; Dialogo di Torquato Tasso e
del suo Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di
Eleandro (14-24 giugno); Il Parini, ovvero della gloria; Dialogo di
Federico Ruysck e delle sue Mummie (16-23 agosto); Detti me¬ morabili di
Filippo Ottonieri. Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez);
Elogio degli Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note, Da N. Serban, L. et la France, Paris,
Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle
carte napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo,
sul proposito di quella parlata della natura, all’uomo, che Volney le
mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » ' ;
dialogo, che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo della Natura e
di un'Anima) il quale, dunque, al tempo di quell’appunto non era scritto.
Pure nello stesso fo¬ glietto, segue un « TrattateUo degli errori
popolari degli antichi Greci e Romani » (che non può essere la
stessa cosa del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e ri¬
flessioni sopra diversi luoghi di diversi autori, sull’andare di quelle
ch’io fo in un capitolo del F. Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo
dei Detti memorabili, che è delle ultime operette del '24. Ora, se questi
appunti sono per¬ tanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data,
in qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura e di
un’Anima l’autore parlasse come di opera da com¬ porre ? O egli non aveva
neppur composti i Detti me¬ morabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe
messi a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ?
Comunque, in altra serie di appunti, relativi, come par probabile,
a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti segnati nel medesimo foglietto,
s’incontrano, tra gli altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade)
Egesia pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬ tuomo e
mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco, da capo, il Dialogo
della Natura e di un’Anima, ma ac¬ canto a un altro dialogo. Galantuomo e
mondo, che l’autore abbozzò nel 1822, per tornarvi sopra nel '24, senza
con¬ durlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto deve
risalire. E secondo lo stesso docu¬ mento, contemporanei sono i disegni
primitivi di altre ' 0 . c., p. 400. * Vedi abbozzo
negli Scritti vari, pp. 318-31. Il foglietto relativo, riscontrato per me
dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte leo¬ pardiane della Bibl.
Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12. io8 quattro
operette, due del '24 e due del '27. Giacché, oltre il Dialogo del Tasso
e del suo Genio e il Copernico, qui son pure facilmente ravvisabili in
Egesia pisitanato la prima idea del Dialogo di Plotino e di Porfirio >
; e nel Salto di Leucade quella del Dialogo di Cristoforo Colombo e
di Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore quella del Dialogo di
Timandro e Eleandro 3. E il documento certamente dimostra che del Plotino
e del Copernico, scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo
il concetto, ma anche la forma in cui il concetto si ])re- sentò
alla mente del Leopardi, non è posteriore alle Operette del '24.
E c’ è altro. Stando alla cronologia dataci dai docu¬ menti, r
Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate del 1824; ma un’anahsi
molto accurata dei singoli Detti, riscontrati coi Pensieri di varia
filosofia e di bella lette¬ ratura, ha dimostrato, in modo
incontestabile, che in questo scritto « liberamente il Leopardi raccolse
dal suo Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici; certo
intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispec¬ chiamento delle
proprie opinioni, ma più col fine di pubblicare qualche parte del
materiale accumulato giorno per giorno». Sicché s’è creduto poter
conchiudere che nell’ Ottonieri al Leopardi « venne fatto un centone, non
un’operetta come le altre organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti
un paio d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap.
Ili dell’ Ottonieri si legge : > Egesia infatti è ricordato nel
Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo a p. 233; e Pen¬
sieri, 1, 193. 3 Questo dialogo infatti originariamente recava il
titolo di Dia¬ logo di Filénore e di Misénore. 4 F. P. Luiso,
Sui Pensieri di G. L., nella Rassegna Nazionale, 1“ maggio 1899, p.
119. Diceva che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa
di commettere infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno
apparenza di malvagità o crudeltà; come, a cagione di esempio, in uno che
trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo, lascia i servi in
luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per animo duro e spietato,
ma non pensandovi, o non misurando colla mente il loro disagio. E stimava
che negli uomini l’incon¬ sideratezza sia molto più comune della
malvagità, della inu¬ manità e simili; e da quella abbia origine un
numero assai mag¬ giore di cattive opere; e che una grandissima parte
delle azioni e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a
qualche pessima qualità morale, non sieno veramente altro che
incon¬ siderati. Idee che fin dall’ ii settembre 1820 il
Leopardi aveva sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri,
scrivendo: La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha
l’apparenza e produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di
esser considerata come una delle principali cagioni della tristizia
degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai
filosofo c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so
bastone, passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon
colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza
infastidir nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in
quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa
molte volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui,
senza che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e
giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci pe¬ nare il
suo servitore alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole; molte altre
volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo,
ma non ci curiamo di considerarlo e lo fac¬ ciamo cosi alla buona;
considerandolo bene, noi non lo faremmo. Così la trascuranza prende tutto
l’aspetto e produce lo stessis¬ simo effetto della malvagità e crudeltà,
non ostante che ogni volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla
volontà di produrre quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non
abbia che fare col tuo carattere Pensieri di varia filosofia e di
bella letteratura, no Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna
a leggere; Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza.
Noi siamo inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci
avviene di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri
pregi veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o
qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta
profondità, ed un abito grande di meditare, e molta me¬ moria, per considerare
esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sem¬ pre a mente: eziandio che in
rispetto ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro queste tali
parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele. E anche
questo pensiero, quantunque in forma com¬ pendiata a mo’ di appunto, era
già nello Zibaldone; Noi supponiamo sempre negli altri una grande e
straordi¬ naria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o
immaginari che sieno, e profondità di riflessione per considerarli,
quando anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto
a qualunque altra cosa. E il numero di simili riscontri è
tale che pochi sono i luoghi dell’ Ottonieri di cui non si trovi la prima
prova nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà dunque da dire che
nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma defini¬ tiva a questa
operetta, facendone, come ad altri è sem¬ brato, un centone di sue
osservazioni di tre e quattro anni prima ? Né la domanda vale
unicamente per l’ Ottonieri. Anche del Parini è stato notato che la sostanza
è già nei Pensieri scritti tra il ’20 e il ’23 b Caratteristico
questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini; Come
città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga
all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e * V. tra gli
altri B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, 1902- 04, II, 42; e
Losacco, in Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole
concorre e si aduna nelle città grandi; perciò le piccole.... sogliono
tenere tanto basso conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma
della stes.sa fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che
l’una e l'altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per
caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e
di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica, non
tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte,
quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli
uomini, la più negletta e oscura persona del luogo.... E tanto egli è
lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi
è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima.
Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo
Bosisio; conosciutosi per la terra eh’ io soleva attendere agli studi, e
mi esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano
poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito
di tutte le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una
menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o
fa¬ vella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per
questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore
assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava
venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata
che essi non pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e
all’ultimo si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente
più che la loro. Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae
origine da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal
Leopardi segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820;
Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio, se
ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno
maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno sarà
infinitamente minor del giusto, sicché relativamente considereranno quel
tal pregio come molto minore. Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero
dedito agli studi, credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e
m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano
poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc.,
insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e
per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano
paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che
avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: A
voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perché
quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che
le mie cogni¬ zioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro
stima scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno
del loro grado Né soltanto la cronologia diventa un problema
di difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.
I quali però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento
del pensiero del Leopardi astratto dalla forma che esso ha nelle Of
erette. Che se si guarda a questa, è facile scorgere, per esempio, la
superficialità del giu¬ dizio, che abbiamo ricordato, per cui l
’Ottonieri non sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello
Zibaldme. E si badi, d’altra parte, a non prendere né anche questa forma
in astratto, quasi la forma speciale del tale passo delle Operette, il
quale abbia un antecedente più o meno prossimo nello Zibaldone
(quantunque, pur così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente
diversa). Anche questa è una forma astratta; perché la vera forma assunta
in concreto da ciascuna parte di un’opera è quella tal forma soltanto in
relazione con tutta l’opera, in conseguenza del motivo
fondamentale, ossia di quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore
si trovò componendola. Sicché un centone si può certamente trovare anche in
un’opera che abbia una salda e vivente unità organica, ma solo pel fatto
che si pre¬ scinda da questa unità, e si cominci a indagarne il
con¬ tenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, Pensieri,
dalla cui somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare che l’opera
risulti. Che è quello che è stato fatto per le prose leopardiane da tutti
i critici che se ne sono oc¬ cupati, ora considerando e giudicando le
singole operette ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di
esse in una serie di frammenti facilmente rintracciabili in altri
scritti, in verso e in prosa, dello stesso Leopardi (dando l’idea d’un
Leopardi che ripeta inutilmente se stesso), o in precedenti scrittori,
massime francesi del secolo XVIII (in confronto dei quali poi tutta
l’origina¬ lità dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che
il Leopardi abbia avuto, il De Sanctis; se ha sdegnato ogni ricerca
analitica e mortificante di fonti e confronti, fermo nella dottrina, che
è sua gloria, dell’ inseparabilità del contenuto dalla forma nell’opera
d’arte, e perciò della necessità di cercare il valore e la vita di
quest’opera nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde
ogni vero artista trasfigura la sua materia; non s’è guardato
tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti, la cui serie forma
il contenuto del libro, anzi che nel tutto, nell unità, dove soltanto può
essere l’anima e l’origina¬ lità dello scrittore. E ha creduto di poter
cercare, per così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette,
presa a sé, invece di cercare il Leopardi di tutte le operette, che
sono un’opera sola. In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione
del Venditore di almanacchi e del Tristano, con cui nel '32
l’autore volle tornare a suggellare il pensiero delle Ope¬ rette, tutte
le altre pullularono dall’animo del Leopardi nello stesso tempo, da un
medesimo germe d’idee e di sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto
che il Copernico e il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei
vagheggiava il suo Tasso, il Colombo e fin lo stesso Ti- mandro; e
meditava insomma quegli stessi pensieri, che presero corpo nelle Operette
del '24; con le quah infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore
sentì che dovevano accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner, che gh
chiedeva scritti inediti da potersi pubblicare a Parigi, scriveva : « Ho
bensì due dialoghi da essere aggiunti alle Operette, l’uno di Plotino e
Porfirio sopra il suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del
genere umano. Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre
a vostro piacere: solo bisogna eh’ io abbia il tempo di farle
copiare, e di rivedere la copia. Esse non potrebbero facilmente
pubbhcarsi in Italia » '. Ma avvertiva subito, che da soU questi dialoghi
non potevano andare; e tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che le
mie due prose inedite abbiano un interesse sufficiente per comparir
separate dal corpo delle Operette morali, al quale erano destinate»*.
Quanto al Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25;
cioè immediatamente posteriore alle altre prose compagne; anteriore ad
ogni tentativo fatto dall’autore per pubbli¬ care le Operette. Alle
quali, nelle edizioni parziali e totali fattene a Firenze e a Milano, era
ovvio che l’autore non potesse pensare ad includerlo a causa del crudo
mate¬ rialismo che vi è professato, c che le Censure non avreb¬
bero lasciato passare. Ma, lasciando per ora da parte queste cinque
ope¬ rette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi e
Tristano) che vennero successivamente ad aggiungersi alle prime venti, è
certo che queste venti, composte tutte di seguito in un anno di lavoro
felice, furono dall’autore scritte e considerate come parti d’un solo
tutto. E quando ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse
che le singole operette potessero venire in luce alla spic¬
ciolata. Nel novembre del ’25 sperò poterle pubblicare Epistolario,
Firenze, Le Monnier, * Epistolario, nella raccolta delle sue Opere, che
un editore amico vo¬ leva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel
di¬ segno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani, al
quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un editore: con tanto
desiderio di vedere stampata la sua opera, che il 16 gennaio del '26 già
scriveva impaziente al Papadopoli : « I miei Dialoghi si stamperanno
presto, perché se Giordani, che ha il manoscritto a Firenze, non ci
pensa punto, come credo, io me lo farò rendere, e lo manderò a Milano »
>. Ma da Firenze scrivevagh il Vieus- seux il 1° marzo : « Giordani,
usando della facoltà lasciatagli, mi passò il bel manoscritto che gli avevate
confidato, dal quale abbiamo estratto alcuni dialoghi, che
troverete riferiti nel n. 61 deWAntologia, ora pubbhcato, eh’ io ho
il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio fervido desiderio
di vedere il mio giornale spesso fregiato del vostro nome; e più del nome
ancora, dei vostri eccel¬ lenti scritti. Sento che queste Operette morali
verranno probabilmente pubbhcate costà, e ne godo assai pel
pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio fatte per comparire
riunite in una raccolta, che spartite in un giornale » ». Quella prima
pubblicazione, dunque, non fu altro che un saggio. Del quale il 5 lugho
il Leopardi scri¬ veva all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi
stampati ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio, e
però furono così pochi e brevi ». E soggiungeva 1 « La scelta fu fatta
dal Giordani, che senza mia saputa mise l’ultimo per primo » 3 ;
affermando così che tra i dialoghi c’era un ordine, e ciascuno doveva
tenere il suo posto. Proponendo pertanto la stampa dell’opera
intera al¬ l’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella
veduto • Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II,
47. » Nell' Epist. del L., Ili, 237-38. 3 Epist., II,
142-43. il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ? E pene¬ trato,
ed ha avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella ve¬ duto il Saggio delle
mie Operette morali ? Le parlai già. in Milano di questo mio mano¬
scritto. Ne abbiamo pubblicato questo saggio in Firenze per provare se il
manoscritto passerebbe in Lombardia. Giudica ella che faccia a proposito
per lei ?... Tutte le altre operette sono del genere del Saggio, se non
che ve ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto, in quel
manoscritto consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora
passata, e io 1’ ho più caro de’ miei oc¬ chi » '. Questa lettera è del
12 marzo ’26. 11 22 di quel mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il
Saggio ; ed ella ha ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto
». 11 fascicolo dell’Antologia era stato ammesso dalla Cen¬ sura,
ma l’editore non credeva di poterne tuttavia sperare altresì
l’approvazione per la stampa Avrebbe provato: intanto gli facesse sapere
la mole del manoscritto. E il Leopardi subito a riscrivergli, il 26 : «
Confesso che mi sento molto lusingato e superbo del voto favorevole
che ella accorda alle predilette mie Operette morali. 11 ma¬
noscritto è di 311 pagine, precisamente della forma del ms. d’Isocrate
che le ho spedito, scrittura egualmente fitta di mio carattere. Sarei ben
contento se ella volesse e potesse esserne l’editore.... La prego a darmi
una ri¬ sposta concreta in questo proposito tosto ch’ella potrà »
i. Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura milanese, chiese
licenza di ristampare nel suo Nuovo Ri¬ coglitore i dialoghi usciti nell’
A ntologia ; « de’ quali », scriveva all’autore il 1° aprile, « poi
formerò un opuscolo a parte che mi farà strada a pubblicar tutte queste,
da 0 . c., Lei chiamate Operette, che lo saranno per la mole, non
pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il Leopardi affret- tavasi a
mandargli la nota dei molti errori incorsi nella stampa fiorentina,
insistendo nel desiderio che lo Stella assumesse Tedizione del libro
intero ; che il 26 si disponeva a inviargli : « Debbo però pregarla
caldamente di una cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce
i manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più di perder
la testa che questo manoscritto, e però la sup¬ plico a non avventurarlo
formalmente alla Censura senza una assoluta certezza, o che esso sia per
passare, o che sarà restituito in ogni caso » ^ E il prezioso
manoscritto partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo
Stella j)oté il 13 maggio informare l’autore d’averlo ricevuto. 11
27 poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi restano, vo
leggendo le Operette sue morali, le quali quanto mi allettano....
altrettanto temo che trovar deb¬ bono degli ostacoli per la Censura.
Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore, per
poi stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di tutte
in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento delle care Operette ? La
proposta ferì al vivo l’animo del Leopardi, che, a volta di corriere, il
31 rispose: «Se a far passare costì le Operette morali non v’ è altro
mezzo che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante- mente
la prego ad aver la bontà di rimandarmi il mano¬ scritto al più presto
possibile. O potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre
inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite,
pubbli¬ cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume
l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava,
conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬ rette, nate come
venti capitoli di un’opera sola. All’unità della quale ei
certamente mirò nell’ordina¬ mento definitivo che fece delle singole
parti, quando le ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come
tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione avvenuta nei tre
dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti- mandro doveva essere l’ultimo, egli
avA^erte. Infatti era stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure
scritto prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era
quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente fin da principio
era destinato al ventesimo o, comunque, ultimo posto, che tenne nella
edizione milanese del '27. È invero un’apologià del libro; e l’apologià
non poteva essere se non la conclusione e il giudizio, che,
nell’atto di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma,
nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che il Leopardi
ebbe da ultimo ragione di preferire, non sol¬ tanto il Timandro venne
spostato. Infatti tra il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico e il
Dialogo della Natura e di un Islandese, scritti successivamente, con un
solo giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno
frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, a cui
il Leopardi pose mano appena finito quello della Natura e di tm
Islandese. È ovvio che senza una ragione né anche quest’ordine sarebbe
mutato; ed è ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se
non negli scambievoh rapporti da cui questi dialoghi eran legati,
agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che i vari scritti devono per
lo più esser nati già con questi rap¬ porti, l’un dopo l’altro, secondo
che il pensiero germo- ghava via via nella sua spontaneità organica; ma
dove Cfr. sopra, p. io6, n. i. una ripresa di idee già non
sufficientemente svolte, e il risorgere di un’ ispirazione che era parsa
esaurita, traeva l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che
l’ordine cronologico non corrispondesse più allo svolgimento e alla
coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto appena levata la mano dall’
Islandese, nasce come un anello che salda questo dialogo a quello del
Fisico col Metafisico; e se tra il 14 e il 24 giugno l’autore scrive il
Timandro, bisogna pensare che, saldato così l’ Islandese agli ante¬
cedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere esaurito il suo
tema; credere perciò di potersi arrestare a quella fiera rappresentazione
finale AtW Islandese: e quindi volgersi indietro a giudicare e difendere
il libro. Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse
riat¬ tirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni, e
condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando fu compiuto il
Cantico del Gallo silvestre ; altre sei operette in tutto, che s’ è
condotti a pensare formino un gruppo distinto, nato da questo
risorgimento, seguito al Ti¬ mandro, del motivo ispiratore delle
operette. III. Ma tutto ciò, si può dire, non prova nulla
per l’or¬ ganismo e unità dell’opera leopardiana, se questa unità
non si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero. Com’ è pur vero
che quando tale unità fosse messa bene in luce con lo studio interno del
hbro, potrebbe anche apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato
ad argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine non meno
vero che non si trova quel che non si cerca; e che l’unità delle Operette
leopardiane, ritenute general¬ mente una semplice raccolta, aumentabile
(con la Com¬ parazione delle sentenze di Bruto minore e di
Teofrasto, come tutti fanno), o riducibile (come pure han
creduto gli autori delle varie scelte di prose leopardiane) non si è
mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti questi indizi di
un disegno, che lo stesso autore ritenne essenziale. Intanto,
lo spostamento osservato del Timandro epilogo, in origine, delle
Operette, ci ha condotto a scor¬ gere un gruppo, che non è forse il solo
tra questi singoli scritti, così come vennero quasi rampollando Tuno
dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro, destinato ad epi¬ logo, la
Storia del genere umano, che, ])er il suo distacco formale dal resto
dell’opera (è la sola infatti che abbia la forma di un mito), e la sua
rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di tutto il destino del genere
umano a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si può a
ragione considerare come un prologo; le diciotto ope¬ rette intermedie,
formanti il corpo del libro, si distribuiscono naturalmente in tre gruppi, di sei
ciascuno, come tre ritmi attraverso i quali passa l’animo del
Leopardi. Innanzi al terzo, nato, come s’ è veduto, da una ripresa
dell’ ispirazione originaria, si spiega il secondo, che comincia col Dialogo
della Natura e di un’Anima e si compie, (]uasi ritornando al suo
principio, con l’altro Dialogo della Natura e di un Islandese. Precede, e
inizia la tri¬ logia, un primo grujipo, aperto dal Dialogo d’Ercole
e di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui all’eroe
classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬ tentra un eroe della
potenza dello spirito immaginato dalle superstizioni moderne, un mago,
Malambruno, dia¬ logante con un Atlante spirituale, un diavolo.
Farfarello. Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo
insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o fortuita quando si
osservino gl’ intimi rapporti spirituali onde sono insieme congiunte e
connesse, in tale ordina¬ mento, le diverse operette.
Ascoltiamo dalle parole stesse del Leopardi la nota fondamentale di
ciascuna operetta; e vediamo se le varie note degli scritti appartenenti
a ciascun gruppo non for¬ niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo
dal primo gruppo. Ercole va a trovare Atlante per addossarsi
qualche Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi
secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco. j(a la
Terra da allora è diventata leggerissima; e quando Ercole se la reca
sulla mano, scopre un’altra novità più nieravigliosa. L’altra volta che
l’aveva portata, gli « bat¬ teva forte sul dosso, come fa il cuore degh
animali; e metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora
quanto al battere, si rassomiglia a un orinolo che abbia rotta la molla
»; e quanto al ronzare, Ercole non vi ode uno zitto. E già gran tempo,
dice Atlante, « che il mondo finì di fare ogni moto o ogni romore
sensibile; e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse
morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e
pensava come e in che luogo lo potessi sep¬ pellire, e l’epitaffio che
gli dovessi porre ». È lo stesso grido, come si vede, de La sera del dì
di festa'. Kcco è fuggito 11 dì festivo, ed al festivo
il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano
accidente. Or dov’ è il suono Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il
grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e
l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano ?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa li mondo, e più di lor non si
ragiona. Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la
Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa questo perché alla
Morte stessa: poiché i soh frivoli e accidiosi costumi dei nuovi tempi
possono spiegare i « lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non stringono
soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol morto, al quale
incombe tanta nebbia di tedio », e pgj. cui il Poeta domandava agli eroi
già dimenticati e ri¬ scoperti dai filologi, « se in tutto non siam
periti » t La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per volta ma
il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in
dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere
corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabih che abbattono il
corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo
nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per
rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che
questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della
morte ». Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi,
infranto il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano mac¬
chine, e H secol morto può dirsi «l’età delle macchine». L’Accademia dei
SUlografi ne fa la satira nel suo bizzarro bando di concorso per
l’invenzione di tre macchine, che restituiscano al mondo quel che agli
occhi del Poeta costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita
stessa, quale fu una volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e
magnanime, e la donna: quella donna, che fu r ideale degli spiriti
gentili, e fu pur ora cantata come la « sua donna » da esso il Leopardi
: Forse tu l’innocente Secol beasti che dall’oro ha
nome. Or leve intra la gente Anima voli ? o te la sorte
avara Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara ? Viva
mirarti ornai Nulla spene m’avanza 3 . ' Sopra il monumento
di Dante (rSrS), vv. 3-4. » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna
(settembre 1823) vv. 7-13. fbbene, una macchina ne adempia gli
uffici, essendo «espedientissimo che gh uomini si rimuovano dai
negozi jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco diano
luogo, sottentrando le macchine in loro scambio ». Questa I la morte
dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degh ideali che
già fecero virtuoso e magna¬ nimo l’uomo antico, finito con Bruto minore;
il quale non può sopravvivere alla maledizione scaghata alla stolta
virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e nei campi dell’ inquiete
larve. Onde se un romano, e 5Ìa Catihna, può credere, secondo Sallustio,
d’infiam¬ mare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo
delle ricchezze, ma dell’onore, della gloria, della libertà, della
patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore d’uma¬ nità non può
senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo di Sallustio quella gradazione
ascendente che il luogo, a norma di rettorica, richiederebbe. La patria ?
Non si trova più se non nel vocabolario. La libertà ? Guai a
proferir questo nome. Di essa, dice il Leopardi, che ne sa anche lui
qualche cosa « non si ha da far conto ». La gloria ? Piacerebbe, se non
costasse incomodo e fatica. Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è
quella cosa «che gh uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni
occasione la patria, la hbertà, la gloria, l’onore ». Sicché il testo è
da restituire, per travestirlo alla moderna, fa¬ cendo dire a Catilina:
Et quum proelinm inibitis, memi- neritis, vos gloriam, decus, divitias,
fraeterea spectacula, epulas, scorta, animam denique vestram in dextris
vestris portare. Animam vestram, la vita: quella vita, che
non hanno ! Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della
vita * A. D’Ancona, nel Fanfulla della domenica del 29 novembre
*895: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L.,
Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-08. e della morte, è in sospetto anche
lui sia cessata da un pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della
terra uno spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi rito
dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti che «gjj uomini sono tutti
morti e la razza è perduta ». Mancati tutti: «parte guerreggiando tra
loro, parte navigando parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi
nori pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte
stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando
in mille cose; in fine, studiando tutte le vie di far contro la propria
natura » ; studiandole tutte con queir « irrequieto ingegno, demenza
maggiore » che « (juel- l’antico error », di cui « grido antico ragiona
», onde fu negletta la mano dell’altrice natura, come il Leopardi
aveva appreso dal Rousseau. Oh contra il nostro Scellerato
ardimento inermi regni Della saggia natura ! Morto l’uomo; e «le altre
cose.... ancora durano e procedono come prima ». E l’uomo che presumeva
il mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto invece
crede fosse fatto e mantenuto per i folletti; come lo Gnomo per gli gnomi
! La vanità umana pareggia essa la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini «
sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non
sono stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano di
nascere e di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura non si commuove
allo sterminio di sé a cui l'uomo è tratto dal suo ardimento.
Fu certo, fu {né d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama
il grido Pasce l’avida plebe) amica un tempo » Inno ai
Patriarchi (luglio 1822), vv. no-112. Al sangue nostro e
dilettosa e cara Questa misera piaggia, ed aurea corse Nostra
caduca età. Non che di latte Onda rigasse intemerata il fianco
Delle balze materne, o con le greggi Mista la tigre ai consueti ovili
Né guidasse per gioco i lupi al fonte Il pastorei; ma di suo fato
ignara E degli affanni suoi, vota d'affanno Visse l’umana
stirpe.... ' Amica è la natura a chi sta contento della vita
spon¬ tanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura. Lo
svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è il principio
della perdizione. E invano l’uomo cercherà col pensiero di restaurare la
sua vita e riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo
sa* *; Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano con
piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo servigio, lo
riapprende da Farfarello, impotente a farlo felice un momento di tempo.
La felicità è la vita che si V’iva sentendo che mette conto di viverla: è
la vita col suo valore. E il Leopardi pare la intenda come un
diletto infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che
ogni uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai, perché
nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro
desiderio naturale. Onde il vivere sen¬ tendo la vita è infelicità; e
questa non è interrotta se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che
sospenda l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra
vita ; e se vivere è sentire, « assolutamente parlando », il non vivere è
meglio del vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima
conclu- * Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d'
intendere il Losacco, Leopardiana, in Giornale storico della letteratura
italiana, sione di quella premessa, che la felicità o valore della
vita consista nel diletto; il quale non può essere altro che limitato, e
quindi mai mero diletto, senza mistura di amarezza. IV.
Tale il concetto del primo gruppo delle Operette, che pone l’animo
del poeta in faccia alla morte e al nulla: ossia al vuoto della vita, non
più degna d'esser vissuta: poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la
vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura;
e l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con r
irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma. Ed ecco
il problema e il tormento dell’anima del Leopardi: l’uomo in faccia alla
natura. La natura, che è quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e
l’uomo, che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo
avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere quello che egli
penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi quest’uno, Malambruno,
che pensa e vede tutti gli uo¬ mini morti e la natura viva, muta,
indifferente. Pro¬ blema affrontato nel Dialogo della Natura e di
un’Anima, il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima,
dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e
chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice ».
Giacché, come poi le spiegherà, « nelle anime degli uomini, e
proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire
che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza
delle I « Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia
risuscitas¬ sero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre
co.se, ben¬ ché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono
come prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e
mantenuto per loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli,
Bologna, 2“ ed. 1925. P- 52). jjiinie importa maggior
sentimento dell’ infelicità pro- ria; che è come se io dicessi maggiore
infelicità»; e l’uomo « ha maggior copia di vita, e maggior
sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il
niù perfetto »; e però è il più infelice. E il meglio è per l’anima
spogliarsi della propria umanità, o almeno delle (loti che possono
nobilitarla, e farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano
» che la natura abbia jjjai prodotto in alcun tempo. Di guisa
che quella morte dell’umanità, che nei dia¬ loghi del primo gruppo poteva
parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco, apparisce il destino dell’uomo :
la cui storia non può avere altra conchiusione che la rinunzia alla
propria umanità. La quale, dice il poeta col suo amaro sorriso, scacciata
dalla Terra, non si rifugia e raccoglie nella Luna, come immaginò
l’Ariosto di tutto ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui
la Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne domanda, non solo
la convince che l’immaginazione ariostesca è semplice immaginazione, ma
in tutto il dialogo dimostra che il linguaggio umano e relativo allo
stato degli uomini, che la Terra usa, non ha significato fuori di questa:
e che insomma non ha base in natura quello che gli uomini
considerano pregio della loro ^^ta, e che, non trovandolo fondato in
natura, riconoscono quindi mera illusione. Ma il concetto più
direttamente è trattato nella Scommessa di Prometeo: scommessa perduta
con Momo (che è lo stesso spirito satirico pessimista con cui Leopardi guarda la \'ita nella sua
vanità).'Perduta, perché Prometeo deve confessare che alla prova il suo
genere umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto genere
dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali », gli era fallito,
dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro- pofagi a quello più
incivilito dei suicidi per tedio della vita, il più sciagurato e
imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più oltre, quando a
Londra vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una porta ed
entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso su! pino, che aveva nella
ritta una pistola; ferito nel petto e morto; e accanto a lui giacere due
fanciullini, mede¬ simamente morti»: sciagurato padre, che per
dispera- zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso: (juan-
tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di amore, e favorito
in corte: ma caduto in disperazione «per tedio della vita, secondo che ha
lasciato scritto». Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è
fatta andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema nel
primo dialogo di questo secondo gruppo. E i due seguenti dialoghi hanno
questo argomento. Il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico dimostra la
vita non es¬ sere bene da se medesima, e non esser vero che
ciascuno la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama
come « istrumento o subbietto » della felicità, che è ciò che veramente
vale. E questa, guardata più da vicino, consistere nell’efficacia e copia
delle sensazioni, nelle affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non
nel puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far essere
(come ben si può dire) l’essere stesso. Non l’inerzia e la vuota durata,
ma la mobilità, la vivacità, il gran numero e la gagliardia delle
impressioni, e cioè il tempo pieno, questo è l’oggetto dei nostri
desiderii: e la vita degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto
meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte
occupata, senza dolore né disagio ». La vita vacua, che è la vita «piena
d’ozio e di tedio», è morte; anzi peggio della morte, che è senza senso.
Infine, dice lo stesso Metafisico (che ha cominciato negando che la
felicità sia vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera
felicita, in fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il Leopardi così
sente) non è vita; è la morte; quella morte di cui s’ è acquistata la
certezza nelle operette del primo gruppo; e che non è pura morte, ma la
morte sentita; la morte nella coscienza dell’uomo che non conosce altra
realtà che l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare
perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore perché è tedio:
quel \moto dove dovrebbe essere il pieno; la morte al posto della
vita. E questo tedio è la malattia, il segreto tormento del
Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal ’zo, quando fu
scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso al Leopardi come suo spirito
gemello, al par di lui « mi¬ serando esemplo di sciagura » :
O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa Tua niente allora, il
pianto A te, non altro, preparava il cielo. Oh misero
Torquato ! il dolce canto Non valse a consolarti o a sciorre il
gelo Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda. Cinta l’odio e
l’immondo Livor privato e de’ tiranni. .Amore, Amor, di
nostra vita ultimo inganno. T’abbandonava. Ombra reale e salda Ti
parve il nulla, e il mondo Inabitata piaggia. Torquato Tasso
medesimo, che non trova nel mondo altro più che il nulla, e si rifugia
nei sogni e nel vago inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il
ritorno alla realtà; questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso e
del suo Genio ', e non si lagna già del dolore, ma della noia, che sola
lo affligge e lo uccide. La quale gli pare abbia la stessa natura
dcU’aria: «riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali,
e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte,
e altro non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così
tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai
dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però. come nel mondo
materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita
nostra non si dà vóto»; e poiché piacere non si trova, la vita è composta
parte di dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona del
povero prigioniero — immagine d’ogni uomo di fronte alla immutabile
natura — si viene via via votando cosi del piacere come del dolore, e
riempiendo tutta della tristezza soffocante del tedio. L’uomo
prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio dialogo del gruppo, in cui
si presenta da capo la Natura a render conto di sé all’uomo: al povero
Islandese, che la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se
la vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e l’ha
innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di forme smisurate, seduta
in terra, col busto ritto, ap¬ poggiato il dosso e il gomito a una
montagna; viva, di volto tra bello e terribile, occhi e capelli
nerissimi, con 10 sguardo fisso e intento. — Perché, le chiede il
povero errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’
tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere », e «
per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ?» — « Se io
vi diletto o vi be¬ nedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita
del¬ l’universo è un circolo perpetuo di produzione e distru¬
zione. — Ma, riprende 1’ Islandese, poiché chi è distrutto patisce, e chi
distrugge sarà distrutto, « dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire:
a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo,
conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compon¬
gono ?» — E prima di aver la risposta 1’ Islandese è mangiato dai leoni,
già così rifiniti e maceri dall’ inedia, che con quel pasto si tennero in
vita ancora per quel giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene
e il male dell’uomo, è la Natura che al principio ha detto aU’anima:
— Sii grande, e infelice. La vita infatti È infelicità, in quanto è
noia; e noia è, perché vuota; e non può non esser vuota, se l’uomo è di
fronte a questa Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola
ignorata, e senza valore, non appena con la sua coscienza si stacchi
dalle cose, e vi si contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice,
come s’è detto nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è
l’anima, il sentire) non ha posto nella natura, che è poi tutto.
Perciò l’anima è vuota, e la vita è tedio. V. E qui
potè parere al Leopardi, come osservammo, di aver esaurito il proprio
tema; e, prevedendo le facili critiche, che non sarebbero mancate al
piccolo e doloroso libro, ritenne opportuno difenderlo col
Timandro. Ma poi considerò che la sua dimostrazione non era
veramente perfetta. Il dolce canto non era valso a con¬ solare Torquato;
ma potrebbe dunque il canto consolare Panimo addolorato ? Gino Capponi,
l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al grande
Recanatese b scrisse una volta ^ : « Il Leopardi comincia uno de’ suoi
Dialoghi, inducendo la natura che scara¬ venta nel mondo un’anima con
queste parole: — Vi\d e sii grande ed infelice. — Io per me credo proprio
il rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non in
quanto sono esse piccole.... £ cosa facile esser grandi uomini, se basti
a ciò essere infehci, ed il Leopardi in¬ segnò a molti la via della
infelicità; ma non l’aveva imparata egh quando produsse quelle canzoni
per cui Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene
sensazioni profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel
volume La donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della nuova
Italia, Lanciano, Carabba, -
Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il
De Sanctis doveva osser\’are più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e
nei lini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era
riem¬ piuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca im¬
maginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa, cevano materia di
diletto quello stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo
stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e
fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la
forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e
fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e
appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare
Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono
stati mo¬ menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più
felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? » >. Ma
né il Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita al
Leopardi. È suo, del 1820, questo pensiero vero e pro¬ fondo ; « L’uomo
si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e
necessaria ». E suo è ciuesto altro che lo precede ; « Hanno questo di
proprio le opere di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la
nul¬ lità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e
facciano sentire 1 inevitabile infelicità della vita, quando anche
esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un animo grande, che
si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità,
noia e sco¬ raggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere
disgrazie.... servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo; e
non trattando né rappresentando altro che la morte, gh rendono, almeno
momentaneamente, quella vita che aveva perduta » I Studio su L.. Napoli,
Morano, Pensieri. I, 351. 340- Cfr. lett. M avveggo ora bene che, spente
che sieno le passioni, non resta negli studi aura Ebbene, sentire ripullular questa vita, che
il razio¬ cinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il bisogno
(ji riprendere la dimostrazione. Il Leopardi non affronta nelle Operette,
né in altro dei suoi scritti, il problema di questa vita incoercibile che
risorge dalla sua più fiera negazione. Ma sente oscuramente questa
diificoltà, non superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi.
Tutto l’argomentare della sua filosofia non genera la convin¬ zione
che ne dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma la mano di Bruto
contro se stesso, e fa gittare dalla mi¬ sera Saffo « il velo indegno »,
per rifuggirsi ignudo animo a Dite, e così emendare il crudo fallo del
destino. L’amor della vita non è vinto: la Natura ha detto
all’Anima che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno
incontro i grandi, « sono ricompensate abbondantemente dalla fama,
dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la loro
grandezza, e dalla durabilità della ricor¬ danza che essi lasciano di sé
ai loro posteri ». Ebbene, questa gloria, che già non arride
all’anima, quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure
agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in cui gli sembrava di
vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso, potrà esser « vissuto ozioso
e disutile, e morto senza fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva
bene d’esser « nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa
gloria, che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei
grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto più sentiranno la loro
infehcità, e più quindi saranno infelici, è la lode che nell’animo degli
altri e pei secoli riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli
alla loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la
soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per
Taddietro, finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non
potevo com¬ prendere », Epist,,-- propria grandezza nella coscienza
felice del suo genio. La sua sostanza è veramente in questa lode interna
e soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote
lontano, e ferma, e pare consolidi il valore onde il genio vede
illuminata la propria opera. Leopardi, nudrito la mente dei concetti
classici e delle idee mate¬ rialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà
di questa gloria, in cui lo spirito attinge la propria liberazione da
tutte le miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in
fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza. E perciò si trova in
faccia al problema del valore tuttavia superstite della grandezza
spirituale, veduto in questa forma; l’anima grande e infelice è destinata
essa alla gloria ? o la speranza è fallace, come tutte quelle che
ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze ? ' Ed ecco il Farmi, che tante
difficoltà mostra opporsi all’acquisto di questa gloria, specialmente
nell’età moderna e nel mondo presente, da farla apparire mèta inattingibile.
Talché vien meno anche questa aspettazione, e al grande non rimane che
seguire il suo fato, dove che egli lo tragga, con animo forte,
adoprandosi nella virtù, perché la na¬ tura stessa lo fece nascere alle
lettere e alle dottrine. Dileguata quest’ultima consolazione, la
sola che si possa chiedere alla stessa eccellenza dell’animo,
quando altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si vegga da
quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual porto rimane allo
stanco spirito umano ? Vivere infeUce ? ' Dovecanterà:
O speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età ! sempre,
parlando. Ritorno a voi; ché per andar di tempo. Per variar
d'alletti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son
la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un
frutto. Inutile miseria. E sia; ma se non si può né anche
farsi un monumento della propria infelicità ? Sola nel mondo,
eterna, a cui si volve Ogni creata cosa. In te, morte, si
posa Nostra ignuda natura. Lieta no, ma
sicura Dall'antico dolor. La risposta viene dai morti, che si
sveghano per un quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e
descri¬ vono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale
vivono immortah; senza speme, ma non in desio, come le anime del limbo
dantesco: Profonda notte Nella confusa mente Il pensier
grave oscura; Alla speme, al desio, l’arido spirto Lena
mancar si sente: Così d’affanno e di temenza è sciolto,
E l’età vote e lente Senza tedio consuma. Vita vuota, dunque,
anche quella: ma senza senti¬ mento. Vero porto, in cui il povero
Islandese finalmente avrà pace, e in cui si può giungere in un languore
di sensi senza patimento, com’ è degli ultimi istanti della vita,
quando sopravvive solo un senso « non molto dissimile dal diletto che è
cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono
addormentando ». Dolce morte hberatrice ! — Ma prima che la morte
ci abbia sciolti dal tedio ? — Filosofare, come Filippo Ot- tonieri,
il socratico, che « spesso, come Socrate, s’intrat¬ teneva una buona
parte del giorno ragionando filosofi¬ camente ora con uno ora con altro,
e massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era
sommini¬ strata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre.
non per farne trattati (ché, al pari di Socrate, non cre¬ deva giovasse
mettere la filosofìa in iscritto e irrigidir]^ in formule che non
risponderanno piti ai mutevoli bi¬ sogni dell’animo), ma per intendere
senza pregiudizi e senza illusioni la vita, e adattarvisi da saggio,
tralasciando ogni vana querimonia: come aveva detto Spinoza: non
ridere, non liigere, neque detestari, sed intelligere. Questo r ideale
dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile e morrà senza fama, ma « non
ignaro della natura né della fortuna sua »>. E con la sua pacata
magnanimità e la sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate
anche in questa modesta, anzi umile coscienza del sa¬ pere, e quindi, per
lui, del potere umano. L’ Ottonieri vuol essere quasi la filosofia delle
Operette fatta vita e persona. Ma, oltre la filosofia, non v’ è
altro rimedio alla noia ? Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna
Cristoforo Co¬ lombo, in una bella notte vegliata sull’oceano
.stermi¬ nato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando
all’amico che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, « ha
posto la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem- phee
opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli soggiunge, « quando
altro frutto non venga da questa navigazione, a me ]iare che ella ci sia
profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla
noia, ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che
altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,
come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan- dosi dal sasso
di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e
scampandone, restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione
amorosa. Io non so se egli si. debba credere che ottenessero questo
effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di
tempo, anco senza il favore di Apollo, avuta cara la vita, che prima
avevano in odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi.
Ciascuna pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla
fxipe di Leucade » >. E navigazione è ogni rischio della vita, ogni
azione eroica. O filosofare, dunque, come Ot- tonieri; o navigare come
Colombo, e far guerra al tedio, P riafferrarsi insomma alla vita, finché
la morte non ce ne liberi. E lo stesso giorno * che finiva di
scrivere il Dialogo a Colombo e Gutierrez
Leopardi, nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza
del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé l’attività, — di
questa grandezza felice, — mette mano al bellissimo Elogio degli uccelli:
Urica stupenda, sgor- gatagU dal pieno petto, al guizzo d’una immagine
Ucta e ridente: di queste creature amiche delle campagne verdi,
delle vallette fertili e delle acque pure e lucenti, del paese bello e
dei soli splendidi, delle arie cristalline e dolci e di tutto ciò che è
ameno e leggiadro, e rasserena e allegra gli animi; e che, col perpetuo
movimento e col canto che è un riso, sono simbolo di quella vita
piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia.
E ci fanno amar la natura, che ebbe un pensiero d’amore, assegnando a un
medesimo genere d’animali il canto e il volo ; « in guisa che quelli che
avevano a ri¬ creare gU altri viventi colla voce, fossero per
l’ordinario in luogo alto ; donde ella si spandesse all’ intorno
per maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di udi¬ tori ».
Così viva è r intuizione della gioia gentile che il poeta riceve da
questa vaga immagine degU ucceUi, che è già appagato il desiderio finale
di questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in
uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita ». Non
ha cantato qui anch’egU la gioia ? ’ Cfr. Pens. E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di
cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e
tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vi¬
brante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della vita, attenuando
bensì il tono della lirica precedente, c smorzando l'entusiasmo, al quale
mai come in questo caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e
additandogli anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la
morte a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente, ma
pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione del puro e frizzante
aer mattutino, ravvivatore e rin- francatore. Sensazione già nota al
Poeta: La mattutina pioggia, allor che l'ale Battendo esulta
nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il sol che nasce I suoi tremuli rai fra le
cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi
risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli
augelli sussurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge benedico....
• Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno; «
Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton- sene le
immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita : riducetevi dal
mondo falso nel vero ». La fiera soma! Meglio, meglio dormire, e non
destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita. « Ad ogni modo », dice il
Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c canta questa corsa
universale alla morte, « ad ogni modo, il primo tempo del giorno suol
essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi
ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se
ne La Vita solitaria
producono e formano di presente; giacché gli animi in quell’ora eziandio
senza materia alcuna speciale e de¬ terminata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei
mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, tro- vavasi
occupato dalla disperazione; destandosi, accetta uovamente neU’anima la
speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga ». Ed ecco,
dunque, la spe¬ ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì
nella disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita
dell'universo al giorno, che comincia col mattino ma va alla notte, e
alla vita umana che muove dalla heta gio¬ vinezza incontro alla vecchiaia
e alla morte: e se ter¬ mina annunziando che tempo verrà, che la stessa
natura sarà spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima
empieranno lo spazio immenso »; il dolce gusto della spe¬ ranza mattutina
e giovanile non è distrutto: perché quel tempo è molto remoto e (secondo
avvertì più tardi l’autore in una nota della seconda edizione) non
verrà mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬
tino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo.
VI. Le operette dunque del terzo gruppo ricostruiscono,
nella misura e nel modo che si può secondo il Leopardi, quello che le
prime dodici hanno abbattuto. Ricostrui¬ scono, movendo dall’estrema mina
in cui è caduta anche la speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega
il terzo gruppo ai precedenti; e fu ritirato dopo le prime due
edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita del se¬ condo gruppo,
poiché tra la Storia del genere umano e il Timandro l’autore non voUe più
il Sallustio] e lo ri¬ fiutò e gli sostituì il Frammento di Stratone,
collocato al diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora
il gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e di un'Anima e il
secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine del- l’opera, innanzi
all’epilogo apologetico, fu come l’inter¬ pretazione metafisica che da
ultimo il pensiero, ripie¬ gatosi su se medesimo, diede della propria
intuizione filosofica: concezione, sullo stile delle teorie
cosmolo¬ giche greche più antiche, di un universo go\'ernato da
pure leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in fondo a ogni
concetto pessimistico del Leopardi; onde si tenta suggellare, nell’
intenzione del Poeta, l’immagine di quella Natura che eternamente passa,
e che negli ul¬ timi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano
mirabile e spaventoso ». Si noti che il Sallustio fu
conservato tra le venti ope¬ rette primitive anche nell’edizione di
Firenze del '34. quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi
dialoghi del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti che in
questa edizione invece non potè entrare il Frammento di Stratone molto
probabilmente per le difficoltà già ac¬ cennate, derivanti dalla materia
di esso, poiché è il solo scritto crudamente materialistico, che sia tra
le Operette. 11 che, se si pensa pure al fatto che il Frammento fu
scritto verso il maggio del '25 • (quando il Leopardi aveva tut¬
tavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e a\ rebbe già fin
d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa aggiunta non avesse
disordinato il disegno simmetrico del hbro), dimostra all’evidenza che i
dialoghi fiorentini della stampa del ’34, che sappiamo scritti a Firenze
due anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene ad
aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi: come avverrà del
Frammento, appena l’autore crederà potere e dover tralasciare il
Sallustio, e sostituirlo. Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde
il Mestica I Cfr. Chi.\rini, O.C., p. 251. * Scritti
letter. di G. L., li, p. 418. perché gli parve troppo scolastico e di
materia non [ abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso
conte¬ nuti siano conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha
poco movimento e scarso valore artistico », osserva lo Zingafelli ' : «
l’invenzione è misera, e sull’attrattiva dello strano e del fantastico
prevale nel lettore un senso d’in¬ credulità. Per queste ragioni l’autore
dovette rifiutarlo, e forse anche per rispetto a Sallustio medesimo.
Forse anche col passar degli anni, il Leopardi non credè più che
tutta la grandezza antica perisse con Bruto e per opera di Cesare e dei
cesariani ». Più si è accostato al L vero questa volta il Della Giovanna
> : « Forse egli si sarà I pentito delle parole crudissime che usa
parlando della I libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli
f lamenta la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in modo
più vago ». Il Sallustio, in questo cinico pessimismo, contraddice al
motivo fondamentale delle Operette: logico nell’ordine di pensieri da cui
sorse, ma ripugnante a quei sentimenti più profondi, onde la personahtà
del poeta abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva a
un suo particolar significato, siffatti pensieri. I quali non sono qui un
sistema filosofico astratto, ma l’alimento segreto di un’anima che si
riversa ed esprime in una poesia di grande respiro, la quale in tutta la
sua unità risuona all’anima del lettore come una musica, secondo
che osservò un amico del poeta, il Montani i, appena I operette
morali di G. L., ’ Le prose morali di G. L., p. 276. 3
Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaioche incomincia; «Non vi è mai
avvenuto una sera d’opera nuova, di entrare in teatro a sinfonia
cominciata, e imaginandovi un motivo musicale diverso dal vero, trovar
men bello e men significante ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? —
Quando VAntologia, or son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del
L. ancora inedite.... io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava
il motivo della musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette
insieme unite, mi parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo
sentimento. E ne scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il
quale allora stava potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo
rrio tivo fondamentale facilmente si riconosce nel preI^^]i^^ e
nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua naturale cor nice la trilogia
delle operette : ossia nella Storia del genere umano e nel Timandro: due
operette, che sono affatto estranee a qucUo spirito, che si può dir
proprio di tutte le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove
ji^re qua e là s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e
d’entusiasmo; a quello spirito, che si può definire con le parole stesse
con cui il Leopardi ritrae se medesimo in una lettera al Giordani del 6
maggio 1825 (del tempo in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone
l’estremo termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al ge¬
nere degli studi che io fo, come sono mutato da quel che io fui, così gli
studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi
annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro
più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi
compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria
degli uomini e delle cose, e di inorridire freddamente, speculando questo
arcano infelice e terribile della vita dell’universo ». Lo stesso animo,
non altrettanto feli¬ cemente, ma con maggior abbandono, esprimerà
tut¬ tavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli : Ben mille
volte Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar non
perde Per volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor
diedero i fati.... qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto
d’allegra gente a’ di del Boccaccio), dicendogli che dalla porta di
questo alla camera del suo amico più non salirei che a cappello cavato.
Le operette del L. sono musica altamente melanconica... ». La recensione
contiene più d’una osservazione notabile. Fu scritta il 28 febbraio 1828.
SuU’amicizia del L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi leopardiani,
Firenze, Le Mounier, (si ricordi
il Cantico del Gallo silvestre)] Della prima stagione i dolci
inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettoso
immagini, che tanto Amai, che sempre inlino all’ora estrema Mi
fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito
e freddo Questo petto sarà, né degli aprichi Campi il sereno e
solitario riso. Né degli augelli mattutini il canto Di
primavera, né per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni bel tate o di natura o
d’arte. Fatta inanime e muta; ogni alto senso. Ogni
tenero affetto, ignoto o strano; Del mio solo conforto allor
mendico. Altri studi men dolci, in eh’ io riponga L’ingrato
avanzo della ferrea vita, Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortaU E dell’eteme cose.... In
questo specolar gh ozi traendo Verrò: che conosciuto, ancor che tristo.
Ila suoi diletti il vero. Questo era stato il suo ideale
nelle Operette] speculare, scoprire, frugare la miseria degli uomini e di
tutto, e inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che
nel '25, nel caldo ancora dell’opera, poteva credere di aver raggiunto
già questo stato d’animo; l’anno dopo egli, più ingenuamente, o meglio
con maggior consape¬ volezza, sente che il suo petto sarà forse un
giorno, non è ancora, al tutto irrigidito e freddo; non è eterna la
gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma non è ancora del tutto
tramontata. Così nelle Operette il freddo inor¬ ridire e il disprezzo
d’ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente è un desiderio, un
programma, un propo¬ sito; ma non è, né può essere il suo stile, poiché
né ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto senso
ogni tenero affetto ignoto e strano. E questo sente liené e proclama il
Poeta nel dialogo di Timandro e di Elean- dro; dove a Timandro che,
secondo la filosofia di moda fa alta stima dell’uomo e del progresso di
cui egli è capace' ed è insomma un ottimista, il pessimista, che sente
invece per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della Ginestra
protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia sdegnato la parte
di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono nato ad amare, ho amato, e forse
con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva Oggi, benché non
sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco
tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non mi vergogno a dire che
non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno
che mi è pos¬ sibile ». Dove ognun vede che realmente certo
invinciliile pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza delle
sue dottrine; e si ripigha subito infatti: « Contuttociò sono solito e
pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimento
ad altri. E di questo, per poca notizia che abbiate de’ miei costumi,
credo mi possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si ri¬
bella alla negazione che se n’ è voluto fare, e s’appella all’ intima e
irreprimibile attestazione del cuore. Altro che freddezza e petto
irrigidito ! E da ultimo Eleandro conchiude; «Se ne’ miei scritti io
ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per
consolarmene col riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli
stessi libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo studio di
quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di
noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, • Ed ecco
perché, scritto il dialogo, sentì di non doverlo più inti¬ tolare, come
aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli non era davvero
quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero Filénore
poteva dirsi l’ottimista. iniquità e disonestà di azioni, e
perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle
opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,
magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o privato; quelle immaginazioni
belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vdta; le illusioni
naturali dell’animo ; e in line gli errori antichi, diversi assai dagh
errori bar¬ bari; i quali, solamente, e non quelli, sarebbero
dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia
». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da queste
illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si volgono gh occhi del
Leopardi, il mondo di Stratone da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese,
— come non è spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza;
ma non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore del Poeta.
11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro; e a dispetto di quella
natura, che è il vero, ama gli uomini e la virtù, dichiarandola
un’illusione, ma naturale, e quindi vera, quantunque contradittoria a
quell’altra na¬ tura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire
fred¬ damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di sopra
della universale miseria, sentita come tale, e non assentirvi, non
semplicemente intelligere, come Spinoza avrebbe voluto. Così
nella Storia del genere umano, vero preludio alla sinfonia delle
Operette, quando l’uomo è pervenuto all’ uno fondo di cotesta miseria,
rappresentato dall’ap- parire in terra della Verità, spunta egualmente
una divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei
mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta,
commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infehcità; e
massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’
intelletto, con¬ giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i
quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più
IO. — (‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi. che alcun
altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio»: ossia
appunto, della Verità. Giove, «com¬ passionando alla nostra somma
infelicità, propose agjj immortali se alcuno di loro fosse per indurre
l’animo a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in
tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che
dimostravano essere, quanto a se, indegni della sciagura universale».
Tacciono tutti gli altri Dei¬ ma si offre Amore, figliuolo di Venere
Celeste, «questo massimo iddio », che « non prima si volse a visitare
i mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della Verità
». Di rado egli scende, e poco si ferma, e perché la gente umana ne è
generalmente indegna, e perché gli Dei molestissimamente sopportano la
sua lontananza. EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la
sua grandezza. La quale perciò è condannata sì all’ infelicità del
vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore. « Quando viene in sulla
terra, sceglie i cuori più teneri e più gentih delle persone più generose
e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì
pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti sì nobili, e
di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova
nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine.
Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro
a un me¬ desimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desi¬ derio
in ambedue; benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che
egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni
pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo
breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni
del suo nume vince per se qualunque più fortunata condizione fosse in
alcun uomo ai migliori tempi ». Ed ecco perché il Poeta inorridisce, sia
pur freddamente, allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è
calda (iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità
(quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che né egli può
respingere, né altri egli ha consigliato mai a respingere. « Dove egli si
posa, dintorno a quello si ag¬ girano, invisibili a tutti gli altri, le
stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso
Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo
Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a
quei fantasmi, e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è
dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la
nostra logica non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta
questa natura, la quale mette in cuore il bisogno della virtfi, e la fa
apparire poi stolta a Bruto. Infine, quella stessa giovinezza e
freschezza mattinale, arrisa e ringa¬ gliardita dalla speranza, ecco,
risorge per x’irtù di questo Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di
fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua na¬
tura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di
essere tornati alla condizione della pue¬ rizia. Perciocché negli animi
che egh si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce, per tutto il tempo
che egh vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni
degli anni teneri. Molti mortah, inesjierti c incapaci de’ suoi
diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come
presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri;
e quando gli udisse, niun sup- phzio ne prenderebbe: tanto è da natura
magnanimo e mansueto ». Qui non c’ è satira, né riso, né
fredda anahsi; ma la più ferma fede e l’anima stessa del Poeta, che con
la pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di Elean- dro: e
raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto amore tutta la infehcità
degli uomini e delle cose, e la purifica e sana nel gran mare tranquillo
del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una
perpetua giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e
della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con nodi divini, e
della bellezza, della libertà, della patria, e di tutte le cose nobili e
alte che fan grande l’uomo. Questo amore, che dà piuttosto verità
che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la vita umana, questo
è il vero spirito delle Operette morali. Pes¬ simista, sì, ma alla
Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un roscau, le plus faible de la
nature] mais c’est un roseau pen- sant. Il ne faut pas que l’univers
entier s’arme pour l’écraser ; une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour
le tuer. d/a/s, quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore
plus noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et
l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\ sicché la
grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU misérable E il
Leopardi nell’agosto del ’23, alla vigilia delle Operette, e quando il
concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬
biltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e intera¬ mente comprendere
e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la
pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo che è
minima parte degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in
questa considerazione stupisce della sua piccolezza e pro¬ fondamente
sentendola e intensamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e
perde quasi se stesso nel pen¬ siero della immensità delle cose, e si
trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora
con que¬ sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova
della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua
mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I
Pensées, (Brunschvicg). è jiotuta pervenire a conoscere e
intendere cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e
con¬ tener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e
delle cose. Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità sulla
trista natura il Leopardi non smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua
poesia, in cui queste Operette rientrano. E chi voglia intenderle, deve
nel loro insieme e in ogni singola parte che le costituisce, aver
l’occhio a questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che
tutte le investe e compenetra. Tutte, ad eccezione del Sallustio, che è
negazione fredda, senza l’orrore, la ri- beUione dell’animo, il dolore,
sia pur mascherato da amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E
questo parmi il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo.
VII. Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva
ispirazione diede il Copernico e il Plotino, venutisi quindi ad
aggiungere alle prime Operette già formanti un orga¬ nismo, r ispirazione
non era punto mutata. Giacché il Copernico dimostra, secondo il detto
dello stesso autore, la nullità del genere umano; e la dimostra
ripigliando un’ idea che contro i Timandri medievali attardati aveano
già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle ceneri e Galileo
nei Massimi sistemi] donde la conclu¬ sione necessaria che Porfirio
ricava nell’altro dialogo (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente
logica di tutta la parte negativa delle Operette) : che sia ragio¬
nevole uccidersi. Ed egh vince a furia di argomentare (movendo da
premesse, che son quel che sono, ma a lui paiono ben fondate) il suo
stesso maestro, Plotino. Ma ' Pensieri, Plotino può opporgli una
sapienza assai più profonda più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro
ragion^ 1 accomodar l’animo alla vita : certamente quello è u ^
atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuoP elegger piuttosto di
essere secondo ragione un mostr^' che secondo natura uomo ».
Perché contro natura e contro umanità il suicidio ancorché
conclusione di logica inesorabile? Porgiam ’ orecchio, dice Plotino,
«piuttosto aUa natura che alh ragione. E dico a quella natura primitiva,
a quella madre nostra e deU’universo; la quale se bene non ha
mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è
stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coir
ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisu¬ rata, colle
speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opi¬ nioni e dottrine
misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra
infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E
quantunque sia grande 1 alterazione nostra, e diminuita in noi la
jjo- tenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla né siamo
noi mutati e innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte
dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai
non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di
com¬ puto; veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur
si commette di continuo; e non dagli stupidi so¬ lamente e dagl’idioti,
ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la
natura, che ha prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già
il raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne.
E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non
senso della nulhtà delle cose, della vanità deUe cure, della solitudine
dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo, che possa durare
assai: benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le
lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo,
mutata leggermente la dispo- sizion del corpo; a poco a poco, e spesse
volte in un subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a
notare; rilassi il gusto della vita, nasce or questa or quella speranza
nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non
indegne di qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo
di dire, al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino,
questo senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è
evidente che non la filosofia negativa, che spazia dal Dialogo d’ Ercole
e di Atlante fino al Cantico del Gallo silvestre e al Frammento di
Stratone, e poi nel Copernico, opera di puro intelletto, è la somma della
sapienza leo¬ pardiana; ma questa stessa filosofia in quanto
dichiarata stoltezza dalla natura e da questo « senso dell’animo ».
Senso dell'animo, che è sempre amore per il Leopardi. Giacché non
la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche un bisogno d’amore, che a
noi spetta di alimentare: « E perché », chiede Plotino, « anche non
vorremo noi avere alcuna considerazione degh amici; dei congiunti
di sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori, della moglie; delle
persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran
tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in
cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto
di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o
consueta, e per l’atrocità del caso ? ». E dice la parola, che si va
cercando attraverso tutte le Operette, ma di cui può dirsi quello stesso
che Tacito dell’ imma- Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato
l’importanza che questo «senso dell'animo» ha nel sistema dello spirito
leopardiano, come principio di redenzione dal pessimismo, è stato il
prof. Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia,
1894-99), passim, e specialmente voi. V, pp. lys-yy. 1gine di Bruto
mancante ai funerali della sorella: prae- fulgebat eo ipso gitoci non
visebatiir. « E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né
pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si
gitta per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il
genere umano: tanto che in questa azione del privarsi della vita,
apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men
liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo ».
Dunque quella grandezza non è infelicità; perché l’uomo infelice
dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe se vivesse per la felicità e si
attenesse quindi al calcolo dell’utile. Ma la vera vita è non sembianza,
sì verità di beatitudine se è amore, in cui l’uomo non distingue
più sé dagli altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa
è la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso il Leopardi, che
non è più il dolore incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma questo
amore che ci stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro
cuore di uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice al
suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di
portare quella parte che il destino ci ha stabìhta, dei mali della nostra
specie. Sì bene atten¬ diamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e
andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente;
per compiere nel miglior modo questa fatica della vita». Questo amore,
che ci regge e riempie la vita, ci conforta la morte e ci abbellisce
l’idea di questo mondo, da cui non spariremo senza sopravvivere. « E
quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo
momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il
pensiero che, poi che saremo sjienti, così molte volte ci ricorderanno, e
ci ameranno ancora ». Vili. Amore è la prima e l’ultima
parola delle Operette. Le quali ebbero ancora una ripresa, come
dicemmo, nel '32, nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Alma¬
nacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre.
Il venditore d’almanacchi col suo grido festoso annunzia l’anno nuovo, il
tempo che ri¬ comincia, e risveglia le speranze e promette. Ma il
pas¬ seggero in cui s’incontra oppone la sua fredda riflessione a
quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce a considerare che «
quella vita eh’ è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella
che non si co¬ nosce ; non la vita passata, ma la futura ». La vita che
si conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione di
questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla: vita brutta, dunque.
La futura è quella che non si conosce, e che sarà egualmente brutta
quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la
vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? Il Leo¬
pardi non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene dalle
Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come cantava il Gallo
silvestre, già si corre alla morte; ma non sperare non si può; perché, è
evidente, il futuro sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché
fu¬ turo; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che non ce
ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi la speranza, o innanzi
a cui non possa il Gallo intonare il suo canto consolatore. E la vita
resta sempre con queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una
mi¬ seria disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro
cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il no¬ stro amore, una
beatitudine divina. Fu per Giacomo l’anno della tragica prova
della sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo
animo; non però luminosa immagine della fantasia, come nell’ Ultimo
canto, ma vita del cuore stesso di Giacomo. Bello il tuo
manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite
addetta, E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core
e le pupille invano Supplichevole intendo Non meno
supplichevole Giacomo guarda ad Aspasia; onde ricorderà: Or
ti vanta, che il puoi. Narra che prima, E spero ultima certo, il
ciglio mio Supplichevol vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante
(ardo in ridirlo Di sdegno e di rossor), me di me privo. Ogni
tua voglia, ogni parola, ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi
superbi Fastidi impallidir.... * *. E cadde l’inganno, e la
vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu « notte senza stelle a
mezzo U verno ». Ma Saffo proruppe nel grido disperato ; — Morremo !
— e violenta cercò l’atra notte e la silente riva. Leopardi scrisse
invece Amore e morte] dove la morte non è più l’orrido Dite di Saffo,
anzi si palesa in tutta la sua gen¬ tilezza fino alla donzeUa timidetta e
schiva. È sorella d’Amore ; 1 Ultimo canto di Saffo. Aspasia.
Bellissima fanciulla, Dolce a veder, non quale La si
dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo Amore Accompagnar
sovente; E sorvolano insiem la via mortale. Primi
conforti d'ogni saggio core £ la morte sospirata dall’amante, nel
languido e stanco desiderio di morire, che si sente Quando
novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto,
perché già a’ suoi occhi la vita diviene un deserto: a se la
terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede ornai senza
quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier
figura; Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in
suo cor, brama quiete. Brama raccorsi in porto Dinanzi al
fier disio. Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.
E a questa morte consolatrice, che insieme con amore è quanto di
bello ha il mondo, a questa morte, senza armare la mano, anzi con umile e
mansueto animo, vol- gesi il Poeta con un sospiro di religiosa preghiera:
Bella morte, pietosa Tu sola al mondo dei terreni
affanni. Se celebrata mai F'osti da me, s’al tuo divino
stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar tentai. •
Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina A disusati preghi.
Chiudi alla luce ornai Questi occhi tristi, o dell’età
reina. Non già che amore e morte abbian potere di cancellare
la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi abbiano mercé loro, a
lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà le penne al suo pregare, lo
troverà Erta la fronte, armato, E renitente al
fato. La man che flagellando si colora Nel suo sangue
innocente Non ricolmar di lode. Non benedir....
La morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬ dele: ma
già Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi addormentato il volto
nel vergineo seno di lei; e il fato è vinto nel suo animo gentile da
questa aspettazione: vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di
Tristano; il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia
del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬ ciarlo : « non lo
volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e
di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità
dell’autore»; perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento
che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in confidenza, mio
caro amico, io credo febee voi e felici tutti gli altri; ma io, quanto a
me, con licenza vostra e del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo;
e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario
». Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E di più
vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla mia infelicità, né
piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri
uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra
cosa.... Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora,
il fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho
invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un gran concetto
di se medesimi; e volentieri mi sarei cam¬ biato con qualcuno di loro.
Oggi non in\'idio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli
né potenti. In¬ vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri
àzH’antico dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della
morte, è fiducia confortata da una speranza che non falhrà, e che già
allieta di sé Tanimo sottratto per lei a quella vita che è dolore: a
quella cosa arcana e stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare
senza tema, poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione
piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia
solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è
un avvenire, adun¬ que, quale il venditore di almanacchi lo
prometteva. In conclusione, ancora una volta, e sempre,
l’amore trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine
da quella vita che la natura e il fato danno all’uomo « di cedere
inesperto ». Cederebbe il suicida egoista, non il magnanimo che allarga
la sua persona nell’amore, e guarda sereno alla morte amica che lo
sottrarrà, e lo sottrae, alla miseria di Saffo e dell’ Islandese.
Quanta differenza tra la morte di cui Ercole ragiona con Atlante 0
quella che s’incontra nella Moda, al principio delle Operette) e questa morte,
a cui l’animo si volge desioso alla fine delle Operette stesse ! Il filo
aureo che dall’una conduce all altra è già nella Storia del genere
umano'. Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato
prima nel Messaggero della dome¬ nica, a. II, nn. 8 e 9, 23 febbraio e 2
marzo 1919: poi nei Frammenti di estetica e letteratura, A proposito del
Leopardi toma sempre in campo la questione delia differenza e del
rapporto tra filosofia e poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per
certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo; ma,
d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distin¬ guere una cosa
dall’altra, come res dissociabiles, e in un libro di prosa volle in forma
più sistematica e più ra¬ zionalmente convincente esporre quel suo
pensiero da cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle
poesie. E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie in
cui il Leopardi non ragioni la sua fede e non si sforzi di dimostrare la
verità del concetto ch’egli s’era formato della vita, e che attraverso
una determinata situazione personale, un paesaggio, un ’immagine, si
sforza costan¬ temente di mettere in piena luce. Non importa se
nessuna delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti
sotto la forma di scolastica dimostrazione e scevra di quel
sentimento, di quella viva commozione, in cui \dbra la personalità del
poeta così nelle Operette come nei Canti. La distinzione pare tuttavia
innegabile, poiché, non po- tenilo altro, se ne fa una questione di
quantità e di più e di meno: affermando che l’elemento filosofico
predomina nelle Operette, e l’elemento hrico nei Canti. E si crede
così di salvare la tesi generale, che bisogna rinunziare alla filosofia
per esser poeti, e viceversa: giacché la loro natura è così diversa e
ripugnante, che l’una non può esser l’altra e una sempre deve essere
sacrificata. Ma io non voglio ora affrontare la questione,
che potrà sembrare tanto teoricamente difficile e dehcata
li. — Gkntilk, Òfamoni e Leopardi.
quanto praticamente inutile e oziosa. Nel caso del Leo¬ pardi la
questione di principio è priva d’ogni interesse, perché il Leopardi,
anche nelle sue prose, è indubbiamente poeta ; temperamento poetico
sempre, che, canti o ragioni, cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in
realtà non riesce se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella
verità che gli invade l’anima e non gli lascia modo di dubitare e
di assoggettarla a quella più alta razionalità, a quella critica
oggettiva che s’inquadra in un sistema, e in cui consiste propriamente
una filosofia che non vuol dire che non abbia anche lui la sua filosofìa;
ma è una filosofìa fatta vita e persona, fatta vibrazione e ritmo
del suo stesso sentimento, incapace come tale d’acquistare intera
coscienza di sé, e perciò di superarsi. E, cioè, un certo suo
atteggiamento spirituale, che s’effonde nella divina ingenuità della
poesia, e che riesce perciò superiore a quella dottrina che l’autore si
sforza consapevolmente di formulare. Superiore perché, —
ormai è noto agh studiosi più attenti della sua poesia — questa ha pel
poeta un conte¬ nuto pessimistico, e per noi, invece, ha un
contenuto ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatal¬
mente infelice, è ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi, vedeva e si
proponeva di cantare. Ma poiché quella \nta che ogni poeta canta non è
quella che ha innanzi agli occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e
però ogni poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il cuore
con cui egli la guarda; e poiché il cuore di Giacomo Leo¬ pardi era, come
egli disse una volta, << nato ad amare », ed aveva « amato, e forse
con tanto affetto quanto ]iuò mai cadere in anima vdva », così, in realtà,
tema del suo I Vedi ora il mio scritto Arte e religione, nel
Giorn. crii. d. filos- Hai., e nel
voi. Dante e Manzoni, Firenze, Vai- lecchi,-- canto non fu mai quella
brutta vita, che è piena di do¬ lore, ma quell’altra che egli più
profondamente sentiva, redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità
che rassomiglianza di beatitudine » Poiché appunto qui è il divario
tra pessimismo e ot¬ timismo: che il primo vede la vita quale apparisce
nella natura considerata dal punto di vista materialistico,
brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello spirito, chiusa in sé di
contro alle aspirazioni dell’anima umana biso¬ gnosa di amore e di
consenso, ossia di un mondo conforme alla sua vita e a lei consentaneo; e
l’altro invece crede nello spirito, nel valore de’ suoi ideali, e
nell’energia dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale
valore. 11 mondo del pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui il
dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il mondo del¬ l'ottimista è il
mondo in cui la più salda e vera realtà è quella che risponde alle
esigenze dell’animo. E la verità è questa: che il Leopardi, pessimista di
filosofia, e ijuasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel
pro¬ fondo dell’animo: tanto più acutamente pessimista, col
progresso della riflessione, e tanto più altamente e uma¬ namente
ottimista. Basta confrontare la canzone Al- /’ Italia con La Ginestra. Di
qui la sublime bellezza della sua poesia, dove la bestemmia e lo strazio
della dispe¬ razione si smorzano e dissolvono nella commossa e
tenera effusione di un’anima angosciosamente agitata da un bisogno
di amore universale e da un’ incoercibile fede nella virtù e nella realtà
dell’ ideale. Egli non ha la filo¬ sofia di questo superiore ottimismo in
cui rimane assor¬ bita la sua iniziale visione pessimistica; e continua a
dire che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-, ma
l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella '
storia del genere umano. - Lett. al De Sinner -- realtà che è per
lei la vera e suprema realtà, raggiungo bensì la forma poetica della sua
espressione in modo pieno e perfetto. Se cerchiamo in lui il
filosofo, avremo lo scettico, ironista, materialista piuttosto mediocre
nell’ invenzione, dove riesce facile scoprire quanto egli debba ai libri
che lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti ph,
disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬ ferma delle sue
idee: mediocre nell'esposizione od ela¬ borazione della materia, per evidente
inesperienza del metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità coi
grandi pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il Leopardi e si
fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né anima per vedere che
cosa c’ è propriamente in lui che è vivo ed eterno e grande: ciò per cui
anche a chi pedanteggi la sua poesia s’impone e suscita un’eco solenne
nell’animo. In questo senso bisogna pur dire che in Leopardi non si
deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima, che rifulge in
tutto lo splendore della sua grandissima uma¬ nità. C’ è insomma il
poeta. Anche nelle sue Operette. Le quali io credo di avere
definitivamente dimostrato \ con argomenti esterni, at¬ testanti nella
maniera più esplicita 1’ intenzione di esso il Leopardi, e con argomenti
interni, desunti dallo svol¬ gimento del pensiero e dagli evidenti legami
onde le singole operette sono congiunte tra loro per graduali
passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal primo all’ultimo
anello, che non sono una raccolta, ma un organismo, un tutto unico, che
si articola dentro di se stesso e si conchiude. Si conchiude tra un
preludio e un epilogo in una opera, che è un poema, e non è un
trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di conte¬ nuto didascalico
e speculativo. Il quale si compone o ginariamente di venti capitoli, scritti
tutti nel 1824, in un anno di lavoro felice, ma con un intervallo tra i
primi quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il sospetto che
la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte, svolgendosi in sei
capitoli, potesse trovare riscontro nella prima serie: dalla quale
sottraendo il primo e l’ultimo capitolo, quello perché introduzione e
questo perché apologia e conchiusione di tutta la serie, si
ottengono infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in
due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è destinato a
svolgere un certo motivo, e quindi forma un ritmo a sé. Sospetto
confermato da alcuni spostamenti dall’autore introdotti nel primitivo
ordine cronologico, e poi costantemente mantenuti, salvo una
sostituzione che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per
l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al posto di un capitolo del primo
gruppo: capitolo abolito allora perché infatti non armonico né col
gruppo, né con tutta l’opera. La distribuzione, è ovvio, non
può avere se non una importanza relativa. £ ragionevole pensare che
fosse voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non volle
mai rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da lui curate dei
Canti, e diede loro un ordinamento ideale, che per lui aveva un \'alore,
e che per i lettori ed inter¬ preti non può essere perciò trascurabile.
Ma il fatto stesso che tutte e venti le operette furono scritte
successiva¬ mente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di
tempo, e hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo,
dimostra evidentemente che i loro singoli gruppi non si possono
considerare separatamente, quasi ognun d’essi formasse un tutto a
sé. La distribuzione del nucleo principale delle Operette in
tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a capo un ca¬ pitolo
introduttivo e in fondo un altro capitolo conclusivo, può servire soltanto a
renderci attenti per leggere le varie parti del libro cercandovi tre
motivi fondamentali che nel pensiero deU’autore si fondo no in un
solo ritmj complessivo, e formano l’unità organica del libro; e in
questo modo può servire quasi di chiave a un libro, che fino a ieri si
leggeva qua e là, scegliendo l’uno o l’altro capitolo, come se ciascuno
stesse da sé. E non occorre dire che ci vuole discrezione, e non bisogna
pretendere un taglio netto tra un gruppo e l'altro, e una soluzione
di continuità che non si sa perché l’autore avrebbe do¬ vuto introdurre
una prima e una seconda volta nel corso della sua unica opera.
Discrezione che non vedo, per esempio, nel professor Faggi ',
quando del Dialogo di Malambrmio e Farfarello che resta collocato alla
fine del primo gruppo e da ser¬ vire quindi come passaggio al secondo, mi
domanda: « Ma non potrebbe stare anche nel secondo, poiché è una
affermazione chiara ed esplicita dell’ infelicità as¬ soluta
dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta- mente parlando, il non
vivere è sempre meglio del vi¬ vere ? ». Ma io non avevo eretto nessuna
muraglia tra il primo gruppo concluso da questo dialogo di
Malambruno e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura
e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero dominante nel primo
gruppo, additavo in Malambruno quell’anima che si ritrova di fronte alla
Natura al prin¬ cipio del nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi
non un salto, anzi un passaggio naturale e come insensibile ove non
si osservi che quella che nel primo ciclo è una constatazione,
un'osservazione di fatto, diventa nel se¬ condo ciclo il problema.
Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole * Una
nuova edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Mar¬ zocco -- da
me usate incidentalmente, mi fa dire che la diffe¬ renza tra primo e
secondo periodo in questa trilogia delle Operette consisterebbe, secondo
me, in ciò: che nel primo « r infelicità del genere umano si considera
parti¬ colarmente nell’età moderna come effetto più che altro della
volontà pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel secondo invece, «
questa infelicità si considera come legge imprescindibile e ineluttabile
dell’umanità o del mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella
prima ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e di
fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio di ogni male e di
ogni dolore ». Cotesta sarebbe la nota differenza osservata
dallo Zumbini tra la prima fase « storica » del pessimismo
leopardiano, e la seconda metafisica o cosmica. Ma non corrisponde per
l’appunto alla distinzione da me indi¬ cata, tra il concetto del primo e
quello del secondo gruppo delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo
del poeta vien posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al
vuoto della vita, non più degna d’essere vissuta; poiché degna
sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso, coscienza. La
vita nella fehcità è la natura; e l’uomo se ne dilunga ogni giorno più
con la civiltà, con l’irre¬ quieto ingegno, che assottiglia la vita, e la
consuma ». Qui il pessimismo storico è già superato, e Malam-
bruno può dire che « assolutamente parlando » il non vivere è meglio del
vivere. Lo può affermare, perché la vita umana, fin da principio e per
sua natura, è senso, coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità
istintiva e affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può pa¬
rere », scrissi io, « che la morte dell’umanità, la sua nul- htà o
infelicità sia, nei dialoghi del primo gruppo, una colpa dei degeneri
nepoti » : poiché infatti civiltà è au¬ mento progressivo di coscienza e
di pensiero. Ma in realtà, fin dalle origini, insieme col sapere, che fa
uomo l’uomo. c’ è già il dolore, ed il destino dell’uomo è
fissato. Ma- lambruno perciò è benissimo al suo luogo alla fine del
primo ciclo. Il secondo ciclo ricava la conseguenza pratica
della verità scoperta nel primo. E si apre infatti col Dialogo
della Natura e di un’Anima, nel quale dalla proporzione del dolore con la
grandezza dell’uomo (il cui progresso e perfezione consiste nell’acquisto
di sempre maggior copia di sentimento che gli fa sentire sempre più
acuto il dolore dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio
spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la nobilitano, e farsi «
conforme al più stupido e insensato spirito umano che la natura abbia mai
prodotto in alcun tempo. Negare l’umanità, rinunziare a ciò che fa il
pregio della \ùta, rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente,
che ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi
alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo ciclo addita
aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è aperto tra lui e la natura, il
secondo gli fa sentire il de¬ stino a cui gli conviene di rassegnarsi,
rinunziando a quella natura che non è per lui, e a quella vita che
sol¬ tanto nella natura potrebbe spiegarsi. Il primo ciclo è
una negazione, per così dire teo¬ retica; il secondo è la negazione
pratica, che consegue dalla prima negazione. La conclusione dovrebbe
essere quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò però
la conclusione del Leopardi, il quale non finisce con r Ultimo canto di
Saffo, ma con la Ginestra. E perché quella di Bruto non sia la sua
conclusione è detto nel terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge
questo motivo: che quella vita che certamente non ha valore, perché
è dolore e perciò negazione della vita che noi vorremmo vivere,
ripullula rigogliosa e incoercibile dalla sua stessa negazione.
La \àta è abbarbicata aH’anima umana; e questa, attraverso le
attrattive e le lusinghe della gloria, la stessa contemplazione della
morte liberatrice, porto sicuro da tutte le tempeste, come la cantano i
morti di Ruysch, attraverso una filosofia che sappia intendere e
sorridere con la magnanimità bonaria di un Ottonieri, attraverso
gli stessi rischi in cui la vita si perde e si riconquista col gusto di
una cosa nuova, e in generale attraverso l’attività, il movimento, la
passione e la speranza che non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso
l’amore che ci fa ricercare nell’uomo, neW’umana compagnia, quello
che la natura ci nega anche nella piena coscienza della propria
infelicità fatale e immedicabile, vive e sente la gioia d’una vita che
trionfa del destino fatto all’uomo dalla natura. Una
soluzione dunque del problema della vita nei tre cicU delle Operette
morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evidente che no: perché la via che
filosoficamente si do¬ vrebbe seguire per superare il pessimismo radicale
dei primi due cich è, senza dubbio, quella per cui l’anima dello
scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente procede nel terzo; ma
questo non è una dottrina, bensì 10 slancio naturale dello spirito
che risorge con tutte le sue forze dalla negazione pessimistica. E il
pessimismo, in linea di teoria, rimane la verità assoluta e
insuperabile. Leopardi sente bensì e vive la verità superiore, ma
non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli spe¬ rimenta in sé
ed attesta coi moti del suo animo la po¬ tenza dello spirito, che anche
nell’uomo che s’imma¬ gina scliiavo e vittima della natura, trionfa della
forza tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta
la gioia di questa sua vita in cui consiste la realtà dello spirito. E in
questo balsamo, che il suo animo sparge così su tutte le piaghe che ha
aperte e che ha fissate inorridito, in questa dolcezza che sana ogni
dolore, in quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione, qui la
personalità, qui è la poesia del Leopardi. Così, ripeto nelle Operette,
come nei Canti. Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde
si conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di.
scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei. lato nelle
aggiunte posteriori; e si neghi, se è possibile, che il centro e
l’accento principale dello spirito leojiar- diano è in quel « senso
dell’animo », com’egli dice, che, agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo,
e con l’amore, vin- colo soave insieme ed eroico, instaura un ordine
morale inespugnabile a ogni riflessione scettica, e superstite
infatti (coni’ è detto nella Storia del genere umano) a quella fuga di
tutti i lieti fantasmi che è prodotta dal sorgere della verità tra gli
uomini. L’animo del Leopardi, come quello di Porfirio, non si scioglie
dalla vita, anzi vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto,
degna d’esser vissuta, per quel che dice appunto Plotino: «E perché
non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di
sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle
persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da
gran tempo: che morendo, bisogna lasciare per sempre: e non
sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione; né terremo conto
di quello che sentiranno essi, per la perdita di persona cara e consueta,
e per l’atrocità del caso ? ». Questo non è un argomento filosofico, ma
un cuore che trema in ogni parola; e ogni parola si sente come
velata dal pianto dell’anima che il dolore apre ed espande
nell’amore. — Ma è proprio vero, torna a domandarmi il
profes¬ sor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola delle
Operette ? — Ecco: che la Storia del genere umano faccia consistere tutto
il pregio, la bellezza e la felicità della vita nell’amore, mi pare sia
così chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non
vedo che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto che
amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare che sia nella prima
forma di questo, quando finiva col Dialogo a Timandro e di Eleandro\ né
che sia nella forma definitiva, quando all’ultimo posto fu collocato il
Dialogo di Tristano e di un Amico. La compassione di Eleandro, egli
dice, « non è amore : tant’ è vero che questo dialogo dovea dapprincipio
intitolarsi Misénore e Filénore, e Mis nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva
essere il Leo¬ pardi ». Ma il Faggi non ha badato che (come avrebbe
potuto vedere da tutte le varianti che io ho tratte dal¬ l’autografo)
cotesto titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo,
non solo fu ideato quando ancora il dialogo era da scrivere, ma
mantenuto fino alla fine della composizione del dialogo stesso.
Sicché il concetto di Mist'nore è puntualmente quel medesimo che
vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè non si oppone propriamente
all’amatore degli uomini, ma si oppone soltanto a chi, anzi che Filénore,
merita d’esser detto Timandro, perché eccessivamente valuta, col
domma della perfettibilità progressiva, il potere umano di impa¬
dronirsi della feheità. L’uomo del Leopardi non è l’uomo vantato e
millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII e dai progressisti del suo
secolo: l’uomo dalle magnifiche sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo
vittima della natura e però degno di compassione. La
compassione non è amore; certo. Ma ne è la ra¬ dice. E perciò Giove,
mosso da pietà, nella Storia del genere umano, manda Amore fra gli
uomini. Perché solo l’amore lenisce i dolori, per cui si commisera
l’infelice ; e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido che
gli si sprigiona dal più profondo del cuore: «Sono nato ad amare, ho
amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva »,
soggiunge. Oggi non mi vergogno a dire che non amo nessuno,
fuorché nie stesso, per necessità di natura, e il meno possibile»-
l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla coerenza del si' sterna
pessimistico della vita che Eleandro oppone al dommatico ottimismo di
Timandro; ma si smentisce subito continuando : « Con tutto ciò sono
solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di
pa¬ timenti ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg una
sorta di amore. Che se Tristano non sa più pensare se non alla
morte questa morte (come credo di aver chiarito abbastanza col
riscontro di quel dialogo con i canti dell’amore fio¬ rentino, Aspasia e
Amore e morte), non è la disperazione della vita, cantata da Bruto minore
e da Saffo, ma è la bellissima fanciulla che Gode il
fanciullo Amore Accompagnar sovente; la bella morte,
pietosa, sospirata in quel languido e stanco desiderio di morire che
sorge col nascere d’un amoroso affetto. E r ironia, così nel Timandro
come nel Tristano, non è rivolta contro la vita confortata dall’amore,
bensì contro quel volgare ottimismo che parla il fatuo lin¬ guaggio
di Timandro e deH’amico di Tristano. Vero è che per leggere
Leopardi non bisogna tanto badare a quello che egli dice, ma al modo
piuttosto in cui lo dice, al tono delle sue parole, in cui
propriamente consiste la sua anima, e quindi la vita e il valore
della sua prosa. Che io perciò desidero considerare più come poesia
che come argomentazione. E perciò non posso accettare quel che il Faggi
dice del Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare e dell’
Elogio degli uccelli. Come mai, mi domanda del primo, «appartiene
al secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è senza
dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato. vale il Dialogo
di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ». Infatti, egli osserva, «
non dee spaventare la differenza che c’ è fra un uomo chiuso nelle
quattro mura d’una prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’
Oceano infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo
Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che il grande
Genovese nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due han trovato la maniera di
fuggire la noia, questa com¬ pagna indivisibile dell’esistenza. Quando
altro frutto non ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo
Colombo a Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima
in quanto che per lungo tempo essa ci tiene Uberi dalla noia, ci fa cara
la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in
considerazione. E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla con¬
versazione col suo Genio, che, si può ritenere, il consigUo da questo
datogli di ricercarlo, ov’ei lo voglia, in qualche Uquore generoso, non
andrà perduto. Tutt’e due, tra fantasticare o navigare, van consumando la
vita: non con altra utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico
frutto che al mondo se ne può avere: e l’unico ‘intento che l’uomo deve
proporsi ogni mattina in sullo sve¬ gliarsi ’ ». Ora tutto
ciò, se si guarda alla nota fondamentale dei due dialoghi, non credo si
possa sostenere. Lo spunto del Colombo ci è indicato dallo stesso
Leopardi, che, come io ho mostrato, aveva prima concepito questo
scritto col titolo di Salto di Leucade\ e il senso o nucleo del
dia¬ logo va quindi cercato nel passo che segue alle parole citate
dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU antichi, come avrai letto o
udito, che gli amanti infelici, gittan- dosi dal sasso di Santa Maura
(che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone,
restavano per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io
non so se egli si debba credere che ottenessero questo effetto; ma so
bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco
senza il favore di Apollo avuta cara la vita, che prima avevano in odio;
o pm-g avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna na
vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe di Leucade;
producendo le medesime utihtcà, ma pj(, durevoli che quello non
produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore assai. Credesi
comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco
in pericolo di morire, facciano meno stima della vita pro¬ pria,
che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso rispetto giudico che
la vita si abbia da molto poche per¬ sone in tanto amore e pregio come
da’ navigatori e soldati ». Non il consumai'e la vita è
l'utilità del rischio, a cui Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la
gioia di riaf¬ ferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme
sfug¬ gita per sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo bene,
appena ci paia di averlo perduto, se lo riacqui¬ stiamo. 11 Colombo è
questa gioia del pericolo vinto, ma che bisogna perciò affrontare per
vincerlo. Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta
il piacere della vista di un cantuccio di terra: ma il povero
prigioniero non conosce né spera mutamento alla sua sorte, e lasciando,
com’egli dice, anche da parte i dolori, la noia solo lo uccide. La noia,
di cui egli può parlare perché ne ha esperienza; ma che gh pare il
destino uni¬ versale degh uomini, quasi la sua prigione fosse
simbolo della natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo: «
A me pare che la noia sia della natura dell’aria : la (juale riempie
tutti gli spazi interposti alle altre cose matcriah, e tutti i vani
contenuti in ciascuna di loro: e donde un corpo si parte, e l’altro non
gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’
intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono
occupati dalla noia. E però, come nel mondo mate¬ riale, secondo i
Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà
vóto : se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del
pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche
in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova con¬ tenere qualche
passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere,
importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non altrimenti
che il dolore e il diletto ». Che egli consumi pure un po’ di
tempo nel colloquio col suo Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza,
]ier confermarsi nella convinzione della sua immedicabile tri¬
stezza: «Senti. La tua conversazione mi riconforta pure as¬ sai. Non che
ella interrompa la mia tristezza, ma questa per la più parte del tempo è
come una notte oscurissima, senza luna né stelle ; mentre son teco,
somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto.
Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni,
dimmi dove sei solito di abitare. Il Genio risponderà con amara ironia che la
sua abi¬ tazione è in qualche liquore generoso. Ma il Faggi crede
sul serio che ci sia qui un consiglio da prendersi alla let¬ tera ? «
Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che ebbe pure la strana idea
di cercare negh scritti del Tasso l’eventuale fondamento storico di
questo tratto. Il quale, per chi legga la prosa leopardiana con animo
sensibile all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non può
significare altro che un realistico strappo che 1 autore vuol dare alla
stessa poetica illusione consolatrice del- r infelice prigioniero.
E porgendo l’orecchio all’accento commosso dello scrittore io
credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli lirica stupenda sgorgata al
Leopardi dal pieno petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un
canto di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli
un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj riflessione; benché
questa sia ravvivata dal soffio della poesia inerente al soggetto. Il
Leopardi non intendeva di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al
Passero no litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto
estrinseco del ravvicinamento, e nota che « anche quello non è un canto di
gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo il Faggi, il Leopardi è filosofo, e
non è poeta. « Non ha creduto di spogliare del tutto la giornea del
filosofo- che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo
soli¬ tario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico,
scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare Dante e Tasso.
.Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende
in una lunga digres¬ sione sull’origine e la natura del riso,
suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che
fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo
suo volea riposarsi, si lascia attrarre a considerare il riso umano nello
scettico, nel pazzo e nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o
spon¬ tanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto
degli uccelli ». Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi
abbia voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, propo¬
nendosi una tesi ritenuta da senno per vera, e industrian¬ dosi di
dimostrarla nel miglior modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla
lettera — ci ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva
al padre scandalizzato dalle forme pagane di Gia¬ como : « Io le giuro
che l’intenzione mia fu di far poesia in prosa, come s’usa oggi, e però
seguire ora una mito¬ logia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in
versi, senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc.
» Senza essere creduti perciò zoologi o filosofi, possiamo aggiungere
noi. E del resto a quella conclu¬ sione io non credo che il Faggi abbia
voluto andare incontro intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'ima¬
ginazione beta o serena in cui l’animo del Leopardi volea riposarsi » ; e
rispetto alla quale gli uccelli non sono dav¬ vero gli uccelli dello
zoologo; ancorché nella tessitura dell’ Elogio l’autore si giovi spesso
di reminiscenze delle sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche
lui, della storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine, simbolo
di quella vita piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una
gioia. La cui espansione e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene
dove a questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso quella
Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli a conforto degli
uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu notabile prowedimento della
natura l’assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo; in
guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla
voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si spandesse all’
intorno per maggiore spazio e pervenisse a maggior numero di uditori. E
in guisa che l’aria, la quale si è l’elemento destinato al suono, fosse
popolata di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto e
diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri animali che agli
uomini, l’udire il canto degli uccelli ». La prosa tranquilla e
contenuta vuol essere nella sua forma esteriore l’eloquio didascalico di
un filosofo, ma tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che
vi si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta, che fa
dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento degli uomini la
vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo con¬ trario, pochissimo
soprastanno in un medesimo luogo; van- I Episiol., lett. . — GENTILE,
Manzoni e Leopardi. no e vengono di continuo senza necessità veruna ;
usano T volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen
tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i] medesimo in sul
vespro vi si riducono. Anche nel piccol tempo che soprasseggono in un
luogo, tu non h ved^ stare mai fermi della persona; sempre si volgono
cjua I là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK
lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità quella prestezza di
moti indicibile ». E con la stessa intenzione del contrasto tra
l’espo¬ sizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’
deve vibrare dentro, si spiegano i ricordi anacreontd che il Faggi dice
eruditi e freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’
Elogio, nel desiderio finale di Amelio: «.... Similmente io vorrei, per
un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella
contentezza e letizia della loro vita ». Ultime parole dell’ Elogio, che
ne sono quasi la chiave, e che reca me¬ raviglia non vedere intese
esattamente nepjmr dal Faggi Già il Della Giovanna, che, mi rincresce
dirlo, troppo pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito
ma offuscatore assai più spesso che rischiaratore del ni¬ tido pensiero
leopardiano, postillò: n Per un poco di tempo. Meno male ! chè dopo la
vantata perfezione degli uccelli, c era da aspettarsi una conclusione
meno restrittiva ». E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che Amelio
non sia riuscito a convincere pienamente se stesso, o il suo entusiasmo
non sia stato davvero troppo pro¬ fondo ». Come se si trattasse di
convincere ! A me pare ci sia un modo più ragionevole
d’inten¬ dere quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente
ad ognuno, che rifletta che se il filosofo avesse espresso il desiderio
d’essere convertito per sempre in uccello, avrebbe fatto ridere. Che
diamine, il poeta invidia degh uccelli la contentezza, la letizia; e ora
essi non sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per
lui sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per essere
disposto a barattarla con esse per sempre. Anche la morte potrebbe essere
per lui, come per Porfirio, la soluzione del problema dell’esistenza. Ma
il «senso del¬ l’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In
vero, colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero
alcuno degh altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per
così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano;
tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più
schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se
mede¬ simo che si trovi al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula
Magna del Palazzo Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo
giugno- luglio dello stesso anno del periodico “Educazione fascista”. Il
modo più degno di commemorare un poeta è quello di entrare nella sua
poesia, cioè nel suo animo, nel mondo dei suoi fantasmi, come egli li
vide e li sentì. Gli elementi della sua biografia, tutti, dalla data di
nascita a quella di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose
in mezzo alle quali questa vita si svolse, le idee stesse che egh
accolse e che professò, le correnti spirituali ante¬ cedenti o
contemporanee di cui partecipò, sono semplici generahtà, paragonabili
alle note d’un passaporto; le quah, ove non si accompagnino e precisino
con una fo¬ tografia, rimangono appunto generalità, riferibili a
mi¬ gliaia di persone. Ogni uomo è una determinata personalità
in quanto è un’anima. La quale, quando si conosca da vicino e cioè
per davvero, è singolare e inconfondibile: unica. E la sua singolarità in
fondo consiste non nella periferia del mondo di cui l’uomo fu centro, ma
in quello piuttosto che egli fu, al centro di questo mondo, col suo modo
di reagire a questo mondo che era il suo, raccolto nel suo pensiero
e nel suo sentimento. Due possono nascere nello stesso anno e nello
stesso giorno, vivere nello stesso luogo e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi
agli occhi, tra gli stessi uomini e quasi con le stesse voci negli
orec¬ chi; e ricevere la stessa educazione, incorrere magari nelle
stesse malattie, e insomma viv'ere tutta material¬ mente la stessa vita e
concorrere perfino nelle stesse idee, ed essere come due anime gemelle.
Eppure ciascuna di queste anime, se vi provate ad entrare nel suo
intern è se stessa, diversa, assolutamente diversa dall’altra quel
certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr nel timbro della voce
o lampeggia nelle pupille, svelane!^ subitamente l’essere dell’indi\dduo
: quell’essere eh” ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a
scoprire atti e nelle parole delle persone che frequenta. Quest
dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce in verità tutta la
vita effettiva dell’uomo non soltanto quale essa è, ma quale è sentita e
perciò nel valore che ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io: il
soggetto, che è la base d’ogni individualità umana. Qualcosa d’inaf¬
ferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta se non in quanto
si realizza nelle concrete determinazioni del carattere, nel complesso
degh atti e delle parole, che formano la trama della vita dell’
individuo. 11 centro non è rappresentabile se non in rapporto alla sua
circonferenza. Ora questo demone segreto che si cela e si svela
nella vita di ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione del
poeta. Il quale non si distingue dagli altri uomini se non jierché riesce
a stampare una più profonda impronta di questa segreta potenza nelle
espressioni del suo essere. E pare che per lui innanzi agli occhi
meravigliati della moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine
infinita l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé fa il
suo universo; e quelli che per gli altri sono sogni e ombre, per la virtù
sua onnipossente son corpi saldi, vi¬ venti e luminosi, e riempiono tutta
la immensa scena del mondo che il poeta sostituisce a quello della
comune esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli
vede e tutto ciò che può dirci è la sua anima, anzi questo dèmone che si
cela nella sua anima. Nel caso del Leopardi, quanto difficile
cercarla e tro- v'arla questa scaturigine della sua poesia: e quanto
perciò s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto della
sua grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide tutti i
cuori, trova la via di tutte le anime, che sponta¬ neamente si aprono
alle soavi commozioni di essa. Ma studiata lungamente, pertinacemente,
ingegnosamente da mille ingegni, alla luce di mille sistemi e sulla base
di mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla preten¬ siosa
volontà indagatrice della critica, impegnata per lo più nella superba
impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi frammenti esanimi ottenuti
attraverso una fredda ope¬ razione anatomica, essa si è sottratta e
sfugge ancora alla intelligenza riflessa, che si sforza di coglierne
l’es¬ senza e chiuderla in una definizione. Negli ultimi
tempi vi si son provati critici di grande levatura e dottrina; e si sono
avuti saggi, di cui non disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti
giovano indubbiamente alla comprensione della poesia leopar¬ diana;
ma solo in quanto ne scoprono alcuni aspetti. 11 loro comune difetto è
quello di trascurare la verità, che io ritengo evidente e indiscutibile,
dalla quale ho creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il
cui effetto è questo: che il critico non sente la necessità di
risalire sino alla sorgente da cui la poesia leopardiana sgorga, e in cui
soltanto è possibile scorgere l’unità della sua ispirazione e rendersi
conto della varietà dei motivi in essa dominanti. Così accade che si
aprano i canti e le prose del Leopardi, e si dica: — Nelle prose,
manco a dirlo, non c’ è poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è
una filosofia per modo di dire. Lambiccatura di cervello che si sforza di
dimostrare sistematicamente uno stato d’animo personale; e perciò si
mette fuori di questo stato d’animo; e quindi riesce amaro, falso,
estraneo al vero e profondo sentire dello stesso scrittore, e perciò
freddo, sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna
distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o versi in cui il
poeta trova se stesso e parla serio e commosso; e lì è il poeta; il poeta
le cui parole non si dimenticano e tornano da sé a risuonare nell’animo,
a commuoverci col calore e la passione della vita che ogni uomo vive
e sente. Ma ci sono negli stessi canti poesie giovanili rettoricamente
patriottiche; ci sono poesie filosofiche non meno fredde e artifiziate
delle prose: ci sono pezzi ora- torii, in cui il poeta cerca l’effetto e
pensa al lettore e non si dimentica nello schietto moto della sua
anima Manca qua e là negli stessi canti più felici il caldo di queir
ispirazione, che s’apprende immediatamente al¬ l’animo di ogni uomo.
Risorge il ragionatore a freddo che vede il mondo dall’angustissimo foro
che le sciagure fisiche e le tristi condizioni personali gli han
lasciato aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta
che accoglie beato nel suo petto la voce naturale del mondo e il vasto
respiro delle cose. — £ fortuna se alla prova di questa critica si salva
qualche frammento della poesia del Leopardi. Ma si salva
davvero ? Io vorrei invitare questi critici a ristampare Leopardi
purgandolo da tutte le scorie della sua poesia, per darcene il fiore,
un’antologia; con¬ tenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa
grazia. Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema-
mente difficile, se non impossibile: poiché non solo il significato di
ciascun verso risulta dal contesto a cui appartiene, e ogni strofa ha il
suo valore nel complesso del componimento; ma, si sa, ogni parola ha
sempre un accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quel¬
l’accento non si può sentire se non nel ritmo dell’ insieme. Isolare una
parola è impresa vana ed assurda. E se si crede il contrario, ciò accade
perché in realtà quella parola che ci pare di isolare, noi la facciamo
nostra e la fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato,
in cui non è più la parola di quel poeta, ma l’espressione del nostro
animo. II Leopardi non è soltanto il poeta degl’ idillii, dove il
suo petto si allarga e s’inebria del profumo della na¬ tura, e il suo
cuore batte all’unisono col grande cuore del mondo, commosso dal senso
della vita che ride a primavera nei campi, brilla a notte nel mite chiarore
della luna, imporpora il viso alle fanciulle innamorate, tuona tra
le nubi nell’ infuriar della tempesta, e ridesta ad ora ad ora negli
animi stanchi e delusi la speranza e la dolcezza dell’amore. Il Leopardi è
anche Tristano ed Elean- dro; ed è Copernico e Filippo Ottonieri; ed è
Colombo e il Tasso visitato nel mesto carcere dal suo Genio fami¬
liare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto della Natura dal
volto « mezzo tra bello e ter¬ ribile »; ed è il gallo silvestre che sta
in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, e
riempie del suo canto l’universo e dice di questo « arcano mirabile e
spaventoso dell’esistenza universale » che, « in¬ nanzi di essere
dichiarato né inteso, si dileguerà e per- derassi ». E insomma il
Leopardi pacato e placato nel sentimento solenne e religioso del dolore e
del mistero e della vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’
in¬ tima soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni travagho c
gustano una beatitudine divina, ancorché confusa a certo mistico senso
del proprio dissolvimento nella vita universale. Ed è anche il poeta che
come ita¬ liano vede le colonne e i simulacri e le ruine della
gran¬ dezza antica, ma non vede più la gloria e le armi dei padri;
e non sa rivolgersi indietro a (juella schiera infinita d’immortah, che
onorarono già la nostra terra, senza pianto e disdegno per la presente
viltà; e sente in cuore la disperazione di Bruto per l’impotenza della
virtù sconfitta dalla perversa fortuna e lo strazio della misera
Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei superbi regni della
natura bellissima. Ma non sì che l’animo non gli si esalti nell’ idea
della guerra mortale che il prode di cedere inesperto, guerreggerà sempre
contro l’indegno fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si
sentirà sparso a terra il velo indegno, di emendare il crudo fallo
del cieco dispensator dei casi. E anche l’uomo che si leva col pensiero
al di sopra della ferrea vita e sentendo che conosciuto, ancor che
tristo, ha suoi diletti il vero, si compiace d’investigar Yacerbo vero e
i ciechi destini delle mortali e delle eterne cose] e trae gli ozi in
questo specu¬ lare. E in fine l’uomo che si rifugia con questo
altissimo sentimento della invitta potenza del pensiero umano nella
rocca inespugnabile della noia: di questo che egli dice « in qualche modo
il più sublime dei sentimenti umani », poiché « il non poter essere
soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera;
consi¬ derare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e la
mole maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è ])oco e piccino alla
capacità deU’animo proprio; imma¬ ginarsi il numero dei mondi infinito, e
l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe
ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vóto, e però noia,
pare a me il maggior segno di gran¬ dezza e di nobiltà, che si vegga
della natura umana » >. E perciò anche il Leopardi, nel colmo della
sua delusione, può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e ogni
moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura, il brutto Poter
che, ascoso, a comun danno impera, E V infinita vanità del tutto: e, pur caduto
l’incanto che gli fece vedere e amare in una donna mortale la Dea
della sua mente, pur vedendo ormai nella propria vita una notte
senza stelle a mezzo il verno, può trovare al suo fato Pensieri, n.
68. mortale bastante conforto e vendetta nella coscienza di
se medesimo: su l’erba Qui neglùttoso immobile
giacendo, Il mar, la terra e il ciel miro, e sorrido.
Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi della poesia
leopardiana, per restringerci al dolce gusto di quell’ idillico che è la
prima e immediata forma di questa poesia, noi avremo sì elementi di una
poesia squisita, ma perderemo la poesia propria del Leopardi. Nella
quale quella prima forma è solo uno degli elementi del dramma e del fiero
contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia leopardiana per l’appunto
consiste. L’i dilli o è certo alla base del Leopardi poeta. Ne risuona
il motivo di continuo nell’ Epistolario, nello Zibaldone, nei Canti,
nelle Operette morali. Se volete rendervi conto della natura dell’ idillio,
come il Leopardi r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito, quei
quindici versi che gittano la fantasia del Poeta al di là della siepe
in spazi interminati, sovrumani silenzi e profondissima quiete:
dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in sé e annichilano la voce
del vento che stormisce tra le piante e il suono delle lotte e delle
fatiche umane: Così tra questa Immensità s’annega il pensier
mio E il naufragar m’ è dolce in questo mare. L’uomo scioglie
il suo pensiero, ond’egli riflettendo si distingue e si oppone alla
natura, e si confonde con essa. Ricordate il Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia, che dice alla sua greggia: Quando tu siedi
all’ombra, sovra l’erbe. Tu .se’ quieta e contenta; E
gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio
m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Si che, sedendo,
più che mai son lunge Da trovar pace o loco. Nell’ Inno ai
Patriarchi il Poeta rammenta l'antico mito della colpa che sottopose
Vuman seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce
all’ irrequieto ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi dolori.
La noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero. Finché la
riflessione non è sorta, e il pastore errante non è an¬ cora in grado di
domandare alla luna il fine di tanti moti, e che sia Questo
viver terreno. Il patir nostro, il sospirar che sia;
Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno .‘Vd ogni usata, amante compagnia;
egh può esser queto e contento come la sua greggia. Pensare è
distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene fuori, cercare e non
trovare, sentire la vanità di tutto: non aver più né contentezza né pace.
Il Leopardi intanto sa bene che senza pensiero non c’ è grandezza.
Perciò in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima. Va’, figliuola
mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di
secoli. Vivi, e sii grande e infelice. Perciò il Poeta dice ai « nuovi
credenti » che non credono al dolore: A voi non tocca
DeU’umana miseria alcuna parte, Ché misera non è la gente
sciocca. Dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna Kon è dagli astri
alcun poter concesso. Non al dolor, perché alla vostra cuna
Assiste, e poi sull’asinina stampa 11 pie’ per ogni via pon la fortuna.
E se talor la vostra vita inciampa. Come ad alcun di voi,
d’ogni cordoglio Il non sentire e il non saper vi scampa.
Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio Rompon l’alme ben
nate.... Ma se il pensiero è la sorgente del dolore, bisogna
pur distinguere tra pensiero e pensiero. E anche questo è avvertito dal
Leopardi. C’ è un pensiero che è la stessa natura deU’uomo ; deiruomo che
sente e crede nell amore e nella virtù ; che sente e crede nella bellezza
della natura e della vita; che spera e apre l’animo alla gioia delle
il¬ lusioni, che tali si dimostreranno al cimento della espe¬
rienza, ma che la natura stessa risusciterà sempre dal fondo del cuore
umano a rendere amabile o almen sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’
è un altro pensiero, che si sovrappone a questo primo e lo critica
e lo demolisce e lo irride, e, scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii,
gitta lo sconforto nel cuore umano e lo inonda d’immedicabile amarezza.
Non occorre per¬ tanto che l’uomo si abbrutisca come il gregge per
sot¬ trarsi al dolore. Può essergli simile, e al pari di esso rimaner
congiunto con la natura e godere del benefizio di essa, se si abbandona,
per dir così, al pensiero naturale, e vede la vita con quegli occhi che
la natura gh ha dati. Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e
istintiva che è propria di tutti gli esseri naturali, senza che
questa natura sia sconvolta o turbata dal suo irrequieto ingegno.
Così fa il fanciullo, così tutti gli spiriti semplici e sani. Questa è la
giovinezza sempre rinascente del genere umano; dell’anima aperta alla
speranza e fortificata dalla fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova
in se stesso al mattino sul primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni suo
giorno, come d’ogni nuovo periodo della sua vita « Il primo tempo del
giorno », canta anche il gallo silvestre « suol essere ai viventi il più
comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella mente pensieri
dilettosi o lieti- ma quasi tutti se ne producono e formano di presente
perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e
determinata, inclinano .sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più
che negli altri tempi alla pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu
sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione; destandosi,
accetta novamente nell’animo la speranza ciuantunque cUa in niun modo se
gli convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore o
di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la
sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in
dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di errori e
d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo
contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza. Cresce
l’esperienza della vita, sopraggiunge la rifles¬ sione, la speranza
dilegua: sottentra il dolore e la noia: tanto più acuto quello, tanto più
grave questa, quanto più viva fu la speranza e ardente la fede nella
vita. Quindi la grande importanza del momento idillico, o
giovanile, spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del
Leopardi, accentua poi il momento negativo del distacco e della
opposizione, che è il momento del dolore. Questo dolore è materiato, si
può dire, dalla stessa dolcezza dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione
non avrebbe mai il suo significato lirico se non corrispondesse a
un’affermazione vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così bella
agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel fondo del suo
cuore, egli si duole tanto di non possederla. Al disperato affetto di
Saffo non arride spet- tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto
negli occhi e nel petto; Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la
rupe, Nunzio del giorno; oh dilettoso e care Mentre ignote mi
fur l’erinni e il fato. Sembianze agli occhi miei. Del resto questo
molle spettacolo non fugge da’ suoi occhi senza che questi si volgano
desiosi ad altri spettacoli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo.
Noi r insueto allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido si voi
ve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando
il carro. Grave carro di Giove a noi sul capo. Tonando,
il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar
giova tra’ nembi, e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o
d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira
dell’onda. Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di
questa natura di cui ella si vede prole negletta: , Bello il tuo
manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. A me non
ride L’aprico margo, e dall’eterea porta Il mattutino albor;
me non il canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi Il murmure
saluta: e dove all’ombra Degl' inchinati salici dispiega Candido
rivo il puro seno, al mio Lubrico pie’ le flessuose linfe
Disdegnando sottragge, E preme in fuga l’odorate spiagge.
13. — GkktIx<s, Manzoni e heopardi. Bruto minore, fermo già di
morire, percote l’aura sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se
ne odono di soavi, affettuose, per quanto solenni, come queste:
E tu dal mar cui nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi, E
l’inquieta notte e la funesta All’ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta, Fremono i poggi, dalle
somme vette Roma antica mina; Tu si placida sei ? Tu la
nascente Lavinia prole, e gli anni Lieti vedesti, e i
memorandi allori; E tu su l'alpe l'immutato raggio Tacita
verserai quando ne’ danni Del .servo italo nome. Sotto
barbaro piede Rintronerà quella solinga sede. Ecco tra nudi
sassi o in verde ramo E la fera e l’augello. Del consueto
obblio gravido il petto. L’alta mina ignora e le mutate Sorti
del mondo: e come prima il tetto Rosseggerà del villanello
industre. Al mattutino canto Quel desterà le valli, e
per le balze Quella r inferma plebe Agiterà delle
minori belve. D’altra parte, fin da quando, tra il 1819 e il ’ai,
il Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed eternamente
giovanile della santa natura e del mondo, contro cui si volgerà sempre
più risentito e dolorante, egli sente nel petto Nell’ imo
petto, grave, salda, immota Come colonna adamantma, quella
noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte Carlo Pepoli. E
nello stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri piccoli e
grandi idilli che altro, in¬ fine, si canta se non il dolore ?
Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i
tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena
ogni montagna. O donna mia. Già tace ogni sentiero, e pei
balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che
t’accolse agevol soimo Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura
nessuna; e già non sai né pensi Quanta piaga m’apristi in mezzo al
petto. Tu dormi: io questo ciel, che si benigno Appare in
vista, a salutar m’affaccio, E l’antica natura onnipossente.
Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la
speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi e lo stesso
sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna formano lo sfondo del
quadro, in cui risalta la personalità di quest’uomo, a cui la speranza è
negata e i cui occhi non brilleranno mai se non di lagrime. L’amarezza
di questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna sogna forse
a quanti oggi piacque e quanti piacquero a lei. Fantasmi e sentimenti pieni
di dolcezza; ma sorgono alla mente del Poeta soltanto per fargli sentire
che egli ne è escluso: non io, non già eh’ io speri, .à.1
pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna. Si getta
per terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua nella gioia
altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione che
l’inaridisce: Ahi, per la via Odo non lungo il solitario
canto Dell’artigian, che riede a tarda notte. Dopo i
sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il
core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma
non lascia. L’artigiano probabilmente non fa questa
malinconica riflessione. Probabilmente egli, come la donna,
rimembra i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta
tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel mondo festivo e
gorgogliante ancora di sensazioni dilet- tose il Poeta riversa l’angoscia
fredda del suo cuore de¬ solato. E altrettanto si i)uò
osservare di tutte queste sue poesie, che il Leopardi stesso definì
idillii, e in cui più forte risuona la corda dell’animo commosso e
vibrante della stessa vita del mondo. Citerò ancora il primo
periodo della Vita solitaria che comincia; La mattutina
pioggia, allor che l’ale Battendo esulta nella chiusa stanza La
gallinella, ed al balcon s’afìaccia L’abitator de’ campi, e il Sol che
nasce I suoi tremiili rai fra le cadenti Stille saetta, alla
capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i
lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l’aura fresca,
E le ridenti piagge benedico; per rivolgersi subito contro le
cittadine infauste mura, e per concludere; In cielo.
In terra amico agh infehci alcuno E rifugio non resta altro che il
ferro. Principio idillico, conclusione tragica. Tragica
quanto è idillico il principio. I due termini si corrispondono e si
congiungono insieme in un nesso inscindibile. Togliete al Leopardi la
commozione e l’amore per la natura, per la vita, per la donna, ])er la
bellezza, per la forza ma¬ gnanima, per l’ardimento generoso, per la
virtù, j>er la patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò
che rende amabile e santa la vita, e non intenderete più lo strazio
delle sue delusioni. Prescindete dal fermo con¬ vincimento, che la sua
filosofìa gli ha piantato nel petto, della arbitraria soggettività degli
ideali in cui l’uomo, non ancora caduto in preda al pensiero, crede
provvidenzialmente; chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto con cui
egli, tornando sempre ad esaminare i suoi pen¬ sieri e la vita e il
proprio essere e il fato universale degli uomini, ribadisce sempre quel
suo convincimento; e non potrete più sentire il tumulto con cui il suo
cuore s’attacca a questa vita fallace e il tremito giovanile e sto per
dire virgineo con cui tutto il suo essere si stringe al mondo, che
non può, malgrado tutto, non amare. Leggete II pensiero dominante e V
Aspasia, dove culmina l’arte del Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d'
infiniti affanni, è gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha
vaneg¬ giato, ma il cui incanto è caduto, risorge nella sua me¬
moria e nel suo cuore superba visione, sua delizia ed erinni'. e
l’angehca sua forma, sempre viva e presente, torna sempre a imprimergli a
forza nel fianco lo strale, che già lo fece per tanto tempo
ululare. L’atteggiamento negativo ed ostile, quando non si
scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e signi¬ ficato, si può
intendere e s’intende anche in quelle forme di fredda ironia e di
affettata irrisione, che assume in qualche raro tratto dei Canti e in
parecchie delle Ope¬ rette morali. Di cui si è potuto parlar con sì
distratta intelligenza da vedervi lampeggiare non so che
sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi, sa che
nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici sono i critici del
frammento. Si fermano a una pagina delle Operette leopardiane, e non
curano di guardarne l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente
unità organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una, sotto la
stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento dell’autore. Così
vedono Momo, i sillografi, Stratone; ma non vedono il principio e la fine
del libro. E si lasciano sfuggire il significato e l’accento del mito
iniziale, la Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-
v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore gentilissimo; come
si lasciano sfuggire le meditazioni finali di Eleandro e di Plotino,
tutte umanità ed affetto. Non vedono perciò lo spirito complessivo e
centrale e quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia,
che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti più duri, più
pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta è colpito allo spettacolo del
freddo vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei
due opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello
spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime. La quale nel
momento stesso che pare prostri gli animi nel più disperato dolore, li
solleva, conforta ed esalta, aspergendoli di non so che affettuosa soa\
ita. Idilho e dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la
vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed estrania; e
fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente dentro di sé un vuoto
infinito. Due cuori diversi, ma non posti l’uno accanto all’altro, bensì
unificati in un cuore solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né
])cssi- mismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà, del
valore e della superiore letizia della vita, tremenda insieme e
adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 es¬ senza della poesia
leopardiana. In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma Leopardi sa,
e soprattutto sperimenta in se stesso, che quel pensiero che ferisce,
sana esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di
tutte le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è
lo stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora
rinverdisce di nuove fronde. Non si può negare che esso faccia guerra
continua alla nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente
spegne nei cuori la fede e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo
supphchevole ; e dall’altra, il ruscello che al piede della misera
donna, la quale tenta d’immergervisi e sentirne il refrigerio,
sottrae disdegnoso le flessuose acque, e fugge e s’affretta per le piagge
odorate. Se non che questo pensiero devastatore e distruttore
della originaria unità dell’uomo con la natura, è esso stesso una nuov'a
natura : è la natura di quell anima grande perché infelice, e infehee
perché grande, onde il Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi.
E in verità sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori, ma
si pensi, si attui, si viva, esso non è più nulla di estraneo alla vita,
ma è la vita stessa. E in esso, ancorché rivolto ed affisso alle idee più
dolorose e più aride, rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito
della gioia. Allora, ecco, il Leopardi acquista coscienza della
felicità superiore in cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito
attraverso al pensiero e al canto; poiché (come egli dice) « ninna cosa
maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto,
ossia l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e
interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza »
I Pens. di varia filos., Allora egli sente che lo stesso intìnito, in
cui gli è dolce naufragare, è contenuto nel suo pensiero, che lo
abbraccia spaziando più oltre. Allora egli, piccolo ed esile fiore
sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore, s’inebria del profumo della
sua poesia, che consola il deserto. Allora egh ritrova in sé, nel genio
che nessuna forza maligna gli può strappare, nel demone divino e
onnipotente che fa insieme la sua infelicità e la sua grandezza, la
gioia e il fervore della vera vita; in cui, a dispetto dei ragionamenti,
risorgono le speranze e si riaccende l’amcre con cui gli uomini, malgrado
tutte le delusioni, si riat¬ taccano alla vita e han la forza di vivere e
di morire. A Porfirio che a conclusione d’un rigoroso ragionamento
si vuol togliere la vita, Plotino ammonisce che « non dee piacer più, né
vuoisi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo
natura uomo. Mostro chi non cerca se non la utilità propria, e si gitta,
per cosi dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il
genere umano. Uomo chi l’amore di se medesimo pospone al¬ l’amore
degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini, è proprio contraria alla
ragione che ci farebbe mostri ? O non ci sono, per dir così, due ragioni:
una, inferiore, che ci trarrebbe al suicidio attraverso il più sordido
amore di noi medesimi, e una superiore, che ci libera dal giogo di
questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini che ci amano ? Si
cliiami ragione o poesia, certo questa non è la natura primitiva e
inconsapevole, ma Tumanità che soffre ed ama e canta. Quale
in notte solinga Sovra campagne inargentate ed acque. Là 've
zefiro aleggia, E mille vaghi aspetti E ingannevoli
obbietti 1 Operette, p. 310. Fingon l’ombre lontane
Infra Tonde tranquille E rami e siepi e collinette e
ville; Giunta al confin del cielo. Dietro Apennino od Alpe, o
del Tirreno Nell’ infinito seno Scende la luna; e si scolora
il mondo; Spariscon Tombre, ed una Oscurità la valle e il
monte imbruna; Orba la notte resta, E cantando, con
mesta melodia. L’estremo albor della fuggente luce. Che dianzi
gli fu duce. Saluta il carrettier dalla sua via; Tal si
dilegua, e tale Lascia l’età mortale La giovinezza. La
luna è tramontata, e il carrettiere canta. La giovinezza si dilegua; ma l’uomo
resta, e intona il suo canto. In questo canto, nella sua mesta melodia, è
il più alto segno dello spirito del Poeta. Qui la sua poesia.
Conunemorazione centenaria letta alla R. Accademia Nazionale dei T .inr
ei neUa seduta reale e pubbUcata, oltre che ncgU Atti dell’Accademia, nella
Nuova Antologia del i» lugUo dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e
filosofia di Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un
secolo dalla morte di Gia¬ como Leopardi. Secolo, segnatamente per 1’
Italia, pieno di grandi eventi ; storia mossa e agitata da fedi e
interessi in massima parte estranei all’animo del Leopardi, anzi
osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra filosofia, altro uomo. E gli
effetti sono stati così cospicui, così impor¬ tanti, anche secondo il
modo di vedere del Leopardi, da riuscire un’aperta condanna delle sue
convinzioni e de’ suoi giudizi storici. Secolo, si può dire,
antileopar¬ diano, culminante in questa Italia, potente, imperiale,
creazione audace della stessa Italia che alla fantasia giovanile del Leopardi
apparve inerme, anzi di catene carche ambe le braccia, seduta in terra,
negletta e sconsolata, la faccia nascosta tra le ginocchia,
piangente. Eppure lungo questo secolo la fama del Leopardi è
venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia ha messo radici
sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza della sua poesia, della sua anima
ha acquistato d’anno in anno, e quasi giorno per giorno, di
penetra¬ zione, di comprensione e di intima simpatia a mano a mano
che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una coscienza più seria e
positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze risorgevano a
dignità civile e politica. Scendevano quindi in campo contro gli
oppres¬ sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano rivoluzione e
forze conservatrici dimostrando maturità di accorgimento e di
patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano
dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva,
operante e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto
sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una nuova scienza, una
nuova cultura, adeguata all’altezza dell’assunto politico; e creavano un
esercito nazionale; e sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla
vita economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e
creavano le scuole, organizzando tutto un sistema nuovo di pubblica
istruzione e portando via via la luce neUe menti delle plebi abbandonate
da secoli all’igno¬ ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di
un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte le
energie individuali si venivano educando al senso e alla tecnica dello
Stato; e infine, in una riscossa della coscienza nazionale che si era
venuta formando negli animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee
religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più grande
guerra della storia; combattevano con grande onore, e contribuivano più
d’ogni altra nazione alleata alla vittoria finale. E dopo questa prova
stupenda dell’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬
fonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova Itaha e una nuova
Roma. Quanto cammino! E quanta vita in quella moribonda Italia, di cui
parlava Leopardi! Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di
quesb cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi, r
ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua grandezza. La
bibliografia leopardiana è una delle più ricche tra quante se ne siano
formate intorno ai maggiori poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con
la dantesca. Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e
su¬ scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con i
casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi che soprastano
con le loro alte cime al vento, da De San- ctis a Carducci e a
Pascoli, per non citare viventi, e di fitta boscaglia pullulante per
tutto, ai piedi dei grossi tronchi. Intorno al Leopardi non pure letterati,
deside- sori di esattamente conoscere tutti i particolari della biografia
e dello svolgimento graduale del genio, e di risol¬ vere tutti i problemi
che lo studio di tal materia fa na¬ scere; ma filosofi e storici della
filosofia, poiché il Leopardi ebbe il gusto degli alti concetti
speculativi, e nel suo stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri
di dottrine celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme
scienziati (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in
sospetto che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬
vino da non so qual limite somatico; sospetto nascente da improvvisate
teorie e appoggiato a improvvisate os¬ servazioni di fatto; ma fecondo
tuttavia di costruzioni e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili
tuttavia a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto
in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente, peraltro, se ci
sono state deviazioni ed eresie critiche e storture di metodi
materialistici suggeriti da pigrizia intellettuale di letterati ottusi, o
da presunzione pseudo¬ scientifica di cervelli rozzi e ignari dei
rudimenti di qual¬ siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito,
ci sono stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso
le forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti della
espressione artistica sa scoprire il principio profondo dell’
ispirazione, che è l’anima del poeta e 1 essenza di quell’eterna poesia
che lo fa immortale. Critica che in Italia, in questo secolo, da Leopardi
a noi, ha avuto esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato
nel¬ l’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per
raggiungere il poeta là dove egli e poeta. Così in questa selva
della letteratura leopardiana noi non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a
capo di questo secolo antileopardiano si può dire che egli sia
stato prima scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno
dei più grandi spiriti della storia del mondo, e come il creatore della
più intensa poesia che si sia prodotta mai in Italia. Fu scoperto quando
un nostro grande critico, che lo aveva conosciuto di persona, gentile e
mansueto come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti, e
acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro, non poteva
paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire la infinita differenza tra il
pessimismo amaro del filosofo tedesco e il pessimismo sui generis del
poeta itahano. « Leopardi », diceva, « produce l’effetto contrario a
quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desi¬
derare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio
inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostar
tigli, che non cerchi innanzi di raccogherti e purificarti, perché
non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa
credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la
patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a
nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta,
gentile e pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse
prolungata la vita infino al Quarantotto, senti che te l’avresti trovato
accanto, confortatore e combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva
confessato il Leopardi medesimo, in quel libro in cui più
freddamente si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli
occhi dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza
indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e degna di esser
vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove esce candidamente a dire « che
non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nuUità delle
cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio
del mondo e di se medesimo; che possa durare assai; benché queste
disposizioni dell’animo siano ragionevo¬ lissime e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata
leggermente la dispo¬ sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in
un subito, per cagioni menomissime e appena possibih a notare;
rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e
le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne
di qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,
al senso dell’animo ». Benedetto «senso deU’animo», che salva
l’uomo dal sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché
sente di dover affermare, come fa il Leopardi. Sono nato ad amare, ho
amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva », «
sohto e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di
pati¬ mento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire :
<( Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o jier
isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro; io non
lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e
riprendere lo studio di (juel misero e freddo vero, la cognizione del
quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza
d’animo, iniquità e disonestà di azioni, o perversità di costumi;
laddove, per Io contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false,
che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili
al ben comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché
vane, che dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e
infine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali
solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà
moderna e della filosofia ». Così aveva pensato quando scriveva con
animo di credente il Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi. Gbntilb, Manzoni e Leopardi. Così continuava a pensare, da
miscredente, sette anni dopo, nella canzone Alla primavera, o delle
favole antiche. Non si può credere al Poeta, quando, raccogliendo
il succo dell’amarissima esperienza amorosa fiorentina e assaporandone il
fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel '33 quegli accenti disperati ed
empi; In noi di cari inganni Non che la speme, il
desiderio è spento. Amaro e noia La vita, altro mai nulla ; e
fango è il mondo. Al gener nostro il fato Non donò che il
morire. Ornai disprezza Te, la natura, il br\itto Poter
che, ascoso, a comun danno impera, E r infinita vanità del
tutto. Momento satanico, ma un solo momento: voce sì
dell’anima leopardiana, ma che il lettore attento non può ascoltare se
non commista in armonia profonda a voci più alte che sgorgano da polle
maggiori; e che lo stesso Poeta ascolta dentro il suo petto come
espressione più schietta della sua propria natura. Alla quale egli
non può rinunziare, convinto che sia da fare « poco stima di quella
poesia che, letta e meditata, non lascia al let¬ tore nell’animo un tal
sentimento nobile, che per mez¬ z’ora gl’ impedisca di ammettere un
pensier vile, e di fare un’azione indegna. Il momento satanico ricorre
spesso nel Leopardi. Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di
questa forza incoercibile che egli sente insorgere di dentro a se
medesimo, di fronte e a dispetto della natura, ossia di questo universal
meccanismo che regge il mondo concepito, come il Leopardi aveva appreso a
concepirlo, in maniera rigorosamente materialistica: quel mondo in
cui non c’ è posto per la libertà, né quindi per la virtù, né per
l’immortalità; per nulla di ciò che forma l’essenza umana
dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede, e la fiducia nella sua
forza di contrastare alla natura, di dominarla e farne strumento di una
vita spirituale sem¬ pre più ricca. Lampeggia sì da lungi
allo spirito del Poeta l’im¬ magine enorme e tremenda di quella Natura
disumana, che stritola e annienta l’uomo e tutte le pretese del suo
audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli si presenta nel Dialogo
della Natura e di un Islandese: dove all’uomo che aveva fuggito quasi
tutto il tempo della sua vita per cento parti la Natura e la fuggiva da
ultimo nel- r interno dell’Africa, sotto la hnca equinoziale, in un
luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ecco che gli interviene
qualche cosa di simile che a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona
Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura in petto e in persona: «Vide da
lontano un busto grandissimo; che da principio im¬ maginò doveva essere
di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni
prima neh’ isola di Pasqua. Ma fattosi jiiù da vicino, trovò che era
una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto,
appoggiato il dorso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di
volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e capelli nerissimi ; la
quale guardavalo fissamente ». La Natura è infatti qui nelle parti dove
si dimostra più che altrove la sua potenza. E alle molte parole con cui
1 ’ Islandese si lagna delle tribolazioni che affliggono l’uomo in questa
vita a cui non egli ha chiesto di nascere, risponde breve che « la vita
di quest’universo è un per¬ petuo circuito di produzione e distruzione,
collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve con¬
tinuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre
che cessasse o l’una o l’altra di loro, ver¬ rebbe parimente in
dissoluzione ». Intanto sopraggiun¬ gono « due leoni, così rifiniti e
maceri dall’ inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’
Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in
vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e
narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che r Islandese parlava,
lo stese a terra, e sopra gh edificò un superbissimo mausoleo di sabbia;
sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella
mum¬ mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel
museo di non so quale città di Europa. Ma lo stesso tono malinconicamente
beffardo della prosa dimostra con qual animo il Poeta accolga
questa immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra una
dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace d’indagare questo mistero
enorme delbumverso non per addolorarsi del disperato destino deU’uomo,
anzi per riderne. L’ideale deUa sua personalità è Fihppo Otto-
nieri, filosofo socratico, che con occhi di lince scopre tutto il vano e
il doloroso della vita, ma ne ragiona con impcrturbabUe pacatezza di
savio che sta al di sopra e al di fuori della vita, e la ironizza.
Insomma, l’uomo Leopardi non fa la fine dell Islan¬ dese; non soggiace
aUa natura, pasto dei leoni o còlto improvvisamente dalla sabbia del
deserto. Guarda dal¬ l’alto e sorride, e sente la propria umanità
superiore nell’ intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di reagire
al fato col sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia n plebeo il quale,
non valendo a cessare gli oltraggi del destino, si consola con la
necessità dei danni, quasi fosse men duro un male senza riparo o non
sentisse dolore chi è privo di speranza. No, Guerra mortale,
eterna, o fato indegno, Teco il prode guerreggia. Di
cedere inesperto. È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima,
riso luta ad emendare il crudo fallo del cieco dispensator de
casi. A quel modo di emenda a cui s’induce Saffo, Leopardi, a pensarci,
non potrà consentire, come sappiamo. Ma per lui resterà sempre, che al
fato l’uomo non devecedere. Resterà sempre la grandezza dell’animo
che col pensiero si leva al di sopra del fato, intende, comprende e
sorride ; Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili
errori, È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato
mortale a me bastante E conforto e vendetta è che su l’erba.
Qui neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e
sorrido. Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si
allarga allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece
battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità. Ma questa
eroica grandezza non basta; poco stante, nella piena maturità delle sue
esperienze morali, tornata la calma dopo la tempesta della patita
delusione e del sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su
dal cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator dei
casi. Quando, presso Portici, nel 1836, mirerà i campi cosparsi di ceneri
infeconde e ricoperti d’ impietrata lava, là dove erano state liete ville
e ricche messi e armenti e città famose, e ora tutto intorno una ruma
involve, il suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra,
che, quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor manda un
profumo, che il deserto consola: simbolo della sua poesia, del suo animo,
che da questa spietata empia natura sa che c’ è un conforto e un riparo
nella umana compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro
al destino: Nobil natura è quella Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca
lingua, Nulla al ver detraendo. Confessa il mal che ci
fu dato in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini,
ma contro la natura che sola è rea: che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica;
e incontro a questa Congiunta esser pensando. Siccome è il
vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia. Tutti fra sé
confederati estima Gh uomini, e tutti abbraccia Con vero amor,
porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e
nelle angosce Della guerra comune. Oh l’alta meraviglia del
Leopardi, dopo circa un lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel
concetto desolato del mondo che le meditate dottrine gli mettevano
innanzi, e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella
spe¬ culazione dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a chi lo
gusti, poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta, ancor che tristo ha
suoi diletti il vero) ; dopo avere scritto le Operette che sono la
filosofia del Leopardi, ma sono pure un momento essenziale dello
svolgimento della sua poesia; dopo avere scritto il prosaico programma
della sua vita avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver
preso quel freddo bagno nella filologia italiana, che furono per lui le
cure spese intorno alle Rime del Petrarca e la compilazione della
Crestomazia italiana. oh l’alta meraviglia, quando si sentì
rifluire in petto la vita ! Non che risorgesse la speranza; non che
la natura gli apparisse sott’altra luce; non che si accorgesse comunque
d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi. Ma insomma. Proprii mi diede i
palpiti Natura, e i dolci inganni. Sopirò in me gli
affanni L’ingenita virtù ; Non l'annullàr: non vinsela
Il fato e la sventura; Non con la vista impura L’ infausta
verità. Dalle mie vaghe immagini So ben ch’ella
discorda; 50 che natura è sorda. Che miserar non sa Il
mondo, in ogni parte, è proprio qual egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette:
Pur sento in me rivivere Gl’inganni aperti e noti; E de’ suoi
propri moti 51 maraviglia il sen. Da te. mio cor,
quest’ultimo Spirto, e l’ardor natio. Ogni conforto mio
Solo da te mi vien. Saffo ha ragione quando afferma; Mancano,
il sento, aH’anima Alta, gentile e pura. La sorte, la natura.
Il mondo e la beltà. Saffo però ha dimenticato il suo
cuore: Ma, se tu vivi, o misero. Se non concedi al
fato. Non chiamerò spietato Chi lo spirar mi dà.
Ecco, Tanima si calma, torna la vita con le sue attrattive, con la
sua gioia; risorge la poesia. Torna al cuore del 2 i 6
Poeta Silvia, la giovinetta Silvia splendente di bellezza negli
occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa; toma l’onda di beate
speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il petto, al suon della sua
voce; quando questa voce gli faceva lasciare gli studi leggiadri per
affacciarsi al balcone della casa paterna: Mirava il ciel
sereno. Le vie dorate e gli orti, E quindi il mar da
lungi, e quindi il monte. Lingua mortai non dice Ouel eh’ io
sentiva in seno. E pur lo aveva detto la sua lingua, dieci anni
prima, in quel capolavoro che è l’idillio scolpito nei quindici
versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna, della spietata
natura, aveva intravvista, sentita, amata un’altra Natura; l’immensa
Natura, verso la quale dal limite stesso della prossima siepe l’anima
è lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica
dolcezza: interminati Spazi di là da quella, e
sovrumani Silenzi, e profondissima quiete .... ove per
poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste
piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando; e
mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E
viva, e il suon di lei. Cosi tra questa Immensità s’annega il pensier
mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare. Di
questo momento mistico del Leopardi poco s’è parlato; ed è momento di
grande valore per la compren¬ sione della sua anima, che in
quest’atteggiamento reli¬ gioso placa definitivamente il fiero contrasto
tra la sua indomita soggettività e la realtà onnipotente e
infinita, in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in
una situazione idillica che, riportando l’individuo alla natura madre,
infonde in lui la fiducia rinfrancatrice, di cui l’uomo ha bisogno per
vivere, abbandonarsi al¬ l’azione e sentire nel proprio petto il respiro
eterno e r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli
perciò, com’egh stesso chiamò i primi pubblicati nel ’25-26,
risalenti al triennio 1819-21, e quelli posteriori, i grandi idilli che
dal canto a Silvia vanno a quello del pastore errante dell’Asia, scritti
tra il ’zq e il ’30, anni della più potente espansione e della lirica più
piena e felice del Poeta, è la chiave di vòlta di tutta la poesia
leopardiana. Quando si legge la lettera del 6 marzo 1820 al
Gior¬ dani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la
finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di
luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano,
mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto
nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, do¬ mandando
misericordia alla Natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto tempo
»; non si può non essere com¬ mossi da questo prorompere di così alta
vena mistica la cui scaturigine evidentemente si cela nel centro
vivo più remoto della personalità leopardiana. E allora s’intende
l’invocazione ansiosa della can¬ zone Alla primavera: Vivi
tu, vivi, o santa Natura ? Allora si ode quasi il lento
respiro queto e dolce e l’ar¬ cana soave mestizia della Vita
solitaria: Talor m’assido in solitaria parte, Sovra un rialto,
al margine d’un lago Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve. La sua
tranquilla imago il sol dipinge. Ed erba o foglia non si crolla al
vento; E non onda incresparsi, e non cicala Strider, né
batter peima augello in ramo, Né farfalla ronzar, né voce o
moto Da presso né da lunge odi né vedi. Tien quelle rive
altissima quiete; Ond’ io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né
spirto o senso Più le coramova, e lor quiete antica Co' silenzi del
loco si confonda. Allora, infine, si scorge il tono vero del Canto
del Pastore, così buio e pur così luminoso, così accorato e pur così
sereno, con i suoi perché disperati, e col suo funereo sigillo (è funesto
a chi nasce il dì natale) e la sua alata poesia : Forse
s'avess’ io l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad
una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo.
Più felice sarei.... Poiché il pastore vede che la sua
greggia è beata, quasi libera d’affanno, e che, sopra tutto, tedio non
-prova, a differenza di lui, che non ha pace anche sedendo sopra
l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la mente e uno sprone
lo punge di dentro e non gli lascia riposo. E ogni animale giacendo, a
bell’agio, ozioso, si appaga. Vede il pastore che nel seno della natura è
la felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con l’irre¬
quieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile intrigo, in una
fatica vana senza speranza. Tutta la poesia del Leopardi attinge in
quel punto mistico del ritorno alla gran madre la pace e la gioia.
Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni che gli
ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della casa paterna, « la
vista di quel lontano mar, quei monti azzurri ». Per lui, come pel
jiassero solitario, non sollazzi, né riso, né amore: ma cantare sì, come
ruccellino che dalla vetta della torre antica va cantando, alla
campagna, finché non muore il giorno; ed erra l’armonia per la valle,
mentre Primavera d’intorno Brilla nciraria, e per li
campi esulta. Si ch’a mirarla intenerisce il core.
L'uccellino non si tormenta col pensiero della gio¬ vinezza che
passa e della morte che s’avvicina: poiché di natura è frutto ogni sua
vaghezza e in lei non è affanno : e da lei sgorga pure il suo canto; il
canto che aduna nel cuore la dolcezza della primavera che fa
brillare l’aria e esultare le campagne. Anche uomini di alto
intelletto, come Gino Capponi, han voluto dar sulla voce al Leopardi per
quel suo con¬ cetto della infehcità che cresce negli uomini in
propor¬ zione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬
pere. Come se questo stesso lamento non uscisse dalle Sacre Carte ! E gli
han voluto far osservare che felice era certo egh stesso mentre componeva
i suoi canti, e riusciva ad essere Leopardi. Come se non fosse
questo il significato di tutta la poesia leopardiana, e la sorgente
del suo irresistibile incanto ! Leopardi lo sapeva bene, e sotto la data
del 30 novembre 1828 ne’ suoi Pensieri annotava: «Felicità da me provata
nel tempo del comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia
vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’ io vivo ! Passar
le giornate senz’accorgermene e parermi le ore cortissime, e
meravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle ». E
nell’agosto del '23 non aveva egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che
« ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza deU’umano
intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e
fortemente sentire la sua piccolezza? Tale il suo canto; il più squisito
frutto dell’operare della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir
così, a far la più alta prova del suo potere dentro il genio
dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova se stesso,
scoperta che abbia la fonte della sua vita: quel divino, che ha in sé e
gli colora il mondo delle beate larve, e lo solleva da questa vicenda
perpetua di nascere e di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze,
al regno immortale della vita dello spirito. E quando scopre questa
sorgente, egh è veramente lui, il genio; e sente l’amore che abbellisce e
conforta, e crede nella potenza e nella grandezza dell’umana
intelligenza, e torna ad amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con
le dolenti parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore
in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto dello
spirito che si ritrae in se stesso e nel sentimento del proprio valore,
quale si svela al contatto di quella natura eterna, in cui è il suo
principio e con cui perciò deve immedesimarsi per trovare le radici del
suo proprio essere. E il naufragar m è dolce in questo mare.
Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua poesia, che i
giovani amano per l’amore della giovinezza che vi spira dentro; che gh
uomini maturi ed esperti della vita amano non meno per il lucido specchio
che essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso i
quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni disinganno; che
tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti o ignoranti, considerano come
uno dei doni più preziosi di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un
gran cuore parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono
per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria inne- gabile
della vita e della non meno innegabile azione dello spirito che affranca
da ogni miseria e infonde la fede per cui si ha la forza di vivere.
Piccolo hbro, sacro per gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri
in cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò
faciU, com’ è al passero solitario il suo perpetuo canto : anima della
sua anima. Piccolo libro da leggere bensì non a brani e frammenti, ma
intero, affinché non sia frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e
spieghi insieme la sua dolce virtù consolatrice e
animatrice. Conferenza tenuta al Lyceum di Firenze il 6 aprile 1938
e pubblicata nel volume di letture Giacomo Leopardi a cura di J. De
Blasi (Firenze. Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo
Leopardi (Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un poeta, e di un
grande poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del pensiero di
questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per discreto che voglia
essere, si espone al rischio di toccare un tasto falso e di riuscire
uggioso e molesto fin dalle prime parole. Ripugna infatti al senso
poetico di cui ogni spirito ben¬ nato è più o meno riccamente dotato,
questa ricerca che ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima
e affatto arbitraria : questa ricerca di mettere quel che pensa un
poeta, sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta, e cioè un poeta vero,
quel che egli riesce a dire, ossia quello che egli sente, e sente profondamente,
al paragone degh astratti schemi in cui ogni filosofia va a finire.
Non già che i poeti non abbiano anch’essi la loro filosofia, un loro
concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’ hanno ! Non c’ è uomo che
non ne abbia una. Anzi con la vivezza e col vigore del suo sentire la
sostanza della propria vita spirituale, nessuno così fortemente come il
poeta afferma la propria fede e la oppone ad ogni più meditata
dottrina che si esibisca da coloro che passano per gh autorizzati
interpreti della filosofia; nessuno più di lui è convinto d’avere una sua
filosofia capace di sbaraghare tutte le altre. Ma le battaglie che il
poeta combatte e vince, si svolgono dentro al chiuso della sua fantasia.
E gh pos¬ sono bensì procurare la gioia della vittoria, ma una
gioia tutta soggettiva come di chi in sogno viene a capo del suo
più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del giar¬ dino della
vita. E nella storia — che giudica tutti gli 15. — Gbntilb,
Manzoni e Leopardi. individui e le opere loro, perché con la
ragione sovrana prima o poi valuta le ragioni di ciascuno — di
fronte al poeta rimane sempre il filosofo, che scopre le contrad¬
dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito delle sue asserzioni,
l’immediatezza irrazionale della sua fede; e insomma i difetti e le
debolezze del suo pensiero ; e viene così a trovarsi nella impossibilità
di scorgere la grandezza della sua personalità se a misurarla non adotti
un metro diverso. E che cosa di più irriverente e ottusamente inu¬
mano e brutale che accostarsi ai grandi uomini per guar¬ darli da tutti i
lati, anche da queUi che lasciano scorgere i loro difetti, e non
guardarli mai da quell’unico aspetto in cui rifulge la loro grandezza ?
Fu detto che non c’ è grande uomo per il suo cameriere; e potrebbe parere
che in fine il filosofo sia, per tale rispetto, il cameriere del
poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le scarpe, ma non lo guarda
mai in faccia. Oh la servitù numerosa che sta intorno al poeta
! C’ è il filosofo; ma c’ è anche l’antropologo e lo psico¬ logo ;
c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ; schiere e schiere di
scienziati, servitori dalle più vistose livree; i quah, per quel garbo e
quella riservatezza che sono tra i requi¬ siti più elementari del
mestiere che esercitano, non al¬ zano mai gli occhi verso il padrone, per
entrargli nel¬ l’anima e scrutarne la passione, intenderla, sentirla,
parte¬ ciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza!
Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto tutto questo
servitorame, e sta sulle sue, per non con¬ fondersi, per salvare se
stesso e \fivere la sua vita supe¬ riore, di cui è geloso come del suo
tesoro. Talora può concedere un sorriso di umana indulgenza o
signorile degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti
occhi che penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬ riosi, così opachi,
così grevi; — e negh angoh della bocca il sorriso diventa ironia,
sarcasmo. E allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti
gli uomini che la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue
inces¬ santi inchieste e pretese, diventa materia di satira.
Allora, il Leopardi esce in un’osservazione di gusto volteriano,
come questa che è nello Zibaldone, sotto la data del 7 novembre 1820:
«L’apice del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di
lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio;
consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter
l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato s’ella non fosse
mai nata. E perciò solo è utile la som¬ mità della filosofia, perché ci
libera e disinganna dalla filosofia ». Osservazione che ama ripetere il
21 maggio 1823, dandola come un «suo principio»: «La sommità della
sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà, e come gli uomini
sarebbero già sapientissimi s’ella non fosse mai nata: e la sua maggiore
utilità, o almeno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre
l’intelletto umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato
in cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più nitida
forma tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi delle sue più
profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo di Timandro e di Eleandro:
«L’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si
è, che non bi¬ sogna filosofare ». Nei Paralipomeni degli
ultimi anni, anzi degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente
dirà; Non è filosofia se non un'arte La qual di ciò che
l'uomo è risoluto Di creder circa a qualsivoglia parte. Come
meglio alla fin 1 ’ è conceduto. Le ragioni assegnando empie le
carte O le orecchie talor per instituto Con più d'ingegno o men,
giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova avere.
Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬ pardi chi si limitasse
a leggere questa sola ottava dei Paralipomeni, come chi si diverte a
ripetere col Petrarca. Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o
ignorando che il Petrarca continua; Dice la turba al vii guadagno
intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si ripiglia nella
seguente, e precisa, compiendolo, il pen- sier suo in questo modo:
Quella filosofia dico che impera Nel secol nostro senza guerra
alcuna, E che con guerra più o men leggera Ebbe negli altri
non minor fortuna, Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera
La mia mente oso dir, portò ciascuna Facoltà nostra a quelle cime il
passo Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso. La filosofia,
dunque, che il Leopardi schernisce è quella teologica, come allora si
diceva, dommatica, spiritua¬ listica; la filosofia della Restaurazione e
del Romanti¬ cismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni
filosofia. Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica, presuntuosa,
intollerabile alla mentalità leopardiana per¬ ché in contrasto coi fatti
e con le necessità di ogni li¬ bera mente, proveniente, come pur quivi si
dice, da quella Forma di ragionar diritta e sana
Ch’a priori in iscola ancor s'appella, Appo cui ciascun’altra oggi
par vana. La qual per certo alcun principio pone E tutto
l'altro poi a quel piega e compone; cotesta filosofia non è
satireggiata qui propriamente dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o,
se si vuole, da un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è
com¬ battuta e debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬
tore par vera. Neanche si può dire quel che dice il Man- zoni
degli avversari della filosofia respinta in tutte le sue forme e in
generale, quando osserva che anch’essi, questi avversari della filosofia,
senza saperlo, hanno una loro filosofia, servitori senza livrea. Il
Leopardi sa di avere la sua filosofia; anzi, per cominciare ad
intenderci, egli propriamente professa di averne due. Dico cU più:
senza r intelligenza di questa sua duphce filosofia si rischia di
fare, a proposito del Leopardi, di quella esegesi filosofica, ov\’ero sia di
quella filosofia, che s’ è soliti fare, e che s’ è sempre fatta fin dal
tempo del Leopardi; una filosofia infarcita di luoghi comuni e di
massiccia pedan¬ teria: filosofia da camerieri che allacciano le scarpe
e non guardano in faccia. Con la filosofia cosiffatta va a
braccetto una critica che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non
meno, tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però
della sua poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una ragione
di metodo, che ritengo fonda- mentale. Ed è questa: che l’essenza della
poesia non è nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta
ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma negh occhi con cui
lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e vivere nel suo interno. Fuori del
quale ogni realtà, sen¬ sibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile.
Lì, nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo ha il
suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede o si pensa, o si può
vedere e pensare; e lì è la sorgente della poesia. Perciò una critica che
innanzi alle Operette morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e
reazio¬ nario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e
per ciò non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e cioè di positivo ed
eterno, è critica radicalmente sbaghata, che scambia le ombre con i corpi
saldi. Poiché le idee, una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima
assume verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse
partecipano e da cui traggono il loro significato vivente, sono
pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente, ma non {lotrà mai
abbracciare al suo petto. Nel caso del Leopardi poi c’ è di più;
perché, come ho accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa,
natu- rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e che
fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì del suo canto, egli
ha la filosofia di cotesta sua filosofia. E in questa filosofia superiore
che è negazione della ne¬ gazione, e che afferma perciò, come abbiamo
udito da Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta
esser quella, che non bisogna filosofare; in questa filosofia superiore è
il senso serio e profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa
condanna beffarda della filosofia, giudicata inutile anzi dannosa.
Lo stesso Leopardi, teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere
la cima della sapienza, la chiama, nello Zibaldone (7 giugno 1820),
«ultrafilosofia»: una filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo
delle cose, ci ravvicini alla natura » : filosofia naturale, spon¬
tanea, primitiva, barbara; più che alle origini, si trova nella maturità
della intelhgenza umana. Sentiamo da capo Eleandro, che nel suo stesso
nome vuol essere 1’interprete della filosofia leopardiana contro la
pretensiosa filosofia ottimistica alla moda di Timandro: «S’ingan¬
nano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e predicano che la
perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali
provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere
umano allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i più degli
uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno e
governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco meno che tutti i
filosofi antichi e moderni ». Timandro ha concesso ad Eleandro che
tutti sono infelici; gli ha concesso la necessità della
nostra miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e picco¬
lezza della specie umana, e la naturale malvagità degli uomini; gli ha
concesso che in queste verità si assommi la sostanza di tutta la
filosofia; ma deplora egh che tali verità vengano divulgate col solo
frutto di spogliare gli uomini della stima di se medesimi («primo
fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e
distorh dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, « quelle
verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare
alla maggior parte degli uomini; e credo che facilmente consentireste che
debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute
nell’animo, non possono altro che nuo¬ cere. 11 che è quanto dire che la
filosofia si debba estirpare dal mondo ». Dunque, non bisogna filosofare,
come s’ è detto. Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia
primieramente è inutile, perché a questo effetto di non filosofare
non fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima,
perché cjuella ultima conclusione non vi s im¬ para se non alle proprie
spese, e imparata che sia, non si può mettere in opera; non essendo in
arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute, e
dcponenclosi più facilmente qualunque altro abito che quello di
filosofare ». Non si può mettere in opera. Il che significa
che rultrafilosofia — che è la conclusione perfetta e perciò la
vera filosofia — non estirpa e distrugge l’altra, falsa o insufficiente.
La quale, buona o cattiva che sia, è quella che è: e, una volta piantata
nel cervello dell’uomo, vi resta confitta incrollabilmente, anche suo
malgrado, quantunque insieme con essa e al disopra di essa ci sia
una verità certamente più umana e degna dell’uomo, diretta a ricostruire
quel che la prima ha demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente
quel che si conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto
ragionare che s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa della filosofia
superiore non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più
profonda natura, che la filosofia più tenace e più pervicace non
riuscirà mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando,
questa è la verità assoluta, perché messaci innanzi dalla stessa
filosofia quando sia riuscita ad elevarsi fino alla sommità della
sapienza. Dove, volendo pur non contraddire alle verità via via accertate
e sempre più strettamente connesse e saldate insieme in
irrepugnabile sistema, bisognerà sì rassegnarsi a dire errori in
sem¬ bianza di verità, illusioni, fantasmi, tutte quelle altre
verità che come tali si rappresentano all’uomo il quale a quella sommità
sia pervenuto; e quindi veda rivivere il mondo nella pienezza rigogliosa
della sua vita primi¬ tiva, felice, ridente, soffusa di una divina aura
di giovi¬ nezza ignara e fidente. L’uomo Leopardi non può non
filosofare; non può non passare attraverso la prima filosofia; ma non può né
anche non giungere infine alla se¬ conda e superiore. Dove egli ritrova
tutto quello che ha perduto. Lo ritrova, s’intende, com’ è
possibile soltanto dopo averlo perduto; poiché dimenticare quel che ha
saputo e sa, non potrà mai ; a quel modo che può tornar fanciullo
un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e le amarezze del
mondo, e può riacquistare il gusto della virtù chi abbia una volta bevuto
al calice del bene e del male. Chi distingue nel pessimismo
leopardiano due fasi o forme, la prima di un pessimismo storico in cui
tutto il male è frutto dell’ « irrequieto ingegno e dello scellerato
ardimento degli uomini contro gl’ inermi regni della saggia natura (di cui
si parla nell’ Inno ai Patriarchi), e l’altra di un pessimismo cosmico
che fa gli stessi uomini vittime incolpevoli della immane natura, si
lascia sfuggire l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è,
ripeto, il segreto della sua poesia; di quella dolcezza che ci suona
dentro alla lettura dei canti dal primo all’ultimo, e in forma più palese
e più sistematicamente determinata, almeno nell’ intenzione dello
scrittore, nelle Operette morali: dolcezza che vince, per così dire, tutta
l’amarezza che negli uni e nelle altre si riversa nelle più varie
forme dell’anima di quest’uomo, che fu certamente tanto grande
quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta onda della sua poesia
tutto il dolore del mondo, ma non per avvol¬ gere il mondo stesso nella
tenebra della disperazione, anzi per illuminarlo coi raggi d’una indomata
fede nella vita con i suoi ideali e con i suoi entusiasmi. La verità
è quella che ci viene apertamente attestata nello stesso disegno delle
Operette. Le quali cominciano col mito delle origini della umanità
governate dall’amore e finiscono nella conclusione di Eleandro : « Se ne’
miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo
dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro [e dunque egli
ha sfogato, e s’è consolato e ora può parlare con animo pacato e sereno],
io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e
riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del
quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza
d’animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi:
laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false,
che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili
al ben comune e pri¬ vato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché
vane, che dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo;
e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari. i quali
solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà
moderna e della filosofia ». E più tardi l’autore aggiungerà il Dialogo
di Plotino e di Por¬ firio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana
legge della vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto
al fondo della disperazione della sua vita senz’amore. Prima parola ed
ultima, amore. Quella stessa che risuona in fondo ai Canti, nella
Ginestra. E contraddice certa¬ mente al freddo vero dell’ Epistola al
Popoli e dello Zibaldone, e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e
dei Nuovi credenti e insomma a tutto il contenuto prosaico della poesia
leopardiana; voglio dire a tutto quel sistema di filosofia che era, nel
vocabolario del Leopardi, la verità in opposizione agli errori: a tutto il
complesso degli insegnamenti di quella filosofia secolo XVIII che, per
altro, negli stessi Paralipomeni, dove più espres¬ samente essa viene
esaltata, non impedisce al Leopardi di uscire in quel famoso grido del
cuore (V, 47): Bella virtù, qualor di te s’awede. Come per
lieto avvenimento esulta Lo spirto mio. Cotesta filosofia,
non occorre esporla. Tutti la conoscono. E quella concezione del mondo, che
giustifica un empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto quello
che in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico dall’esterno
attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il quale da chi tenga fermo
al concetto delle sue esigenze imprescindibili, non può non raffigurarsi
dotato di liberta, e quindi appartenente a quel mondo dei valori per
cui è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione al
falso, o un volere buono in contrasto col malvagio, e un’arte creatrice
di bellezza che si libri nel puro aere ideale e sovrasti alla miseria di
tutte le cose brutte; lo stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel
vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui
libertà e verità e virtù e bellezza non possono essere, in fondo,
altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione ingenua e
fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa realtà che si rappresenta
a un tratto tutta spiegata ncUo spazio e nel tempo, materiale, risultante
da infinite parti e particelle che si condizionano a vicenda in guisa
che ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre; in un
meccanismo universale, dove tutto quel che accade, è fatale di una
necessità che schiaccia e stritola ogni vana pretesa dell’uomo che si
])rovi a mutare il corso del destino. Tutto. Anche il sentimento che
sboccia nel cuore degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e
l’igno¬ ranza ci possono far giudicare buono o cattivo; anche il
giudizio con cui ci s’illude di distinguere il vero dal falso. Anche la
volontà che non sceglie, come si favo¬ leggia, tra bene o male, ma
scoppia in un senso o nell’altro con la stessa cieca necessità del fulmine
nelle tempeste della natura. La natura dunque è tutto, e
l’uomo nulla. La natura, perché meccanica, incomprensibile, opaca,
ripugnante a ogni razionalità (perché la ragione è discriminazione,
scelta, libertà). Un mistero. Così dice cotesta filosofia, come se
tutto questo, che essa dice con tanta sicurezza, fosse possibile; come
se cioè fosse possibile un mondo in cui, se non altro, la ve¬ rità
sia una parola vana, e ci sia nondimeno posto per l’uomo che, in mezzo a
questo universale meccanismo, nel mistero di questa tenebra profonda e
per definizione invincibile, abbia pure il diritto di affermare che la
ve¬ rità sia proprio quella che egli asserisce ! Come se fosse
possi¬ bile salvare una verità qualsiasi dal naufragio d’ogni
verità. Filosofia dunque essenzialmente contradditoria, che nei
filosofi empiristi, naturalisti, materialisti, tipo secolo XVIII, è ignara di
questa sua immanente contrad¬ dizione, tra la ragione che si nega e la
ragione che per negarsi rivendica di fatto il proprio potere e
valore. Filosofia accettata dal Leopardi, ma con un’anima che troppo
sente le conseguenze dolorose di essa e troppo è naturalmente dotata di
quella forza con cui lo spirito reagisce ai hmiti che si oppongono alla
sua libertà, e quindi al dolore, per non aver coscienza di tale
contraddizione. E questa coscienza è in lui acutissima. L’uomo,
pertanto, che dovrebbe prostrarsi di fronte alla natura nel senso
angoscioso del proprio niente, non piega, invece, non s’accascia, non
rinunzia alle sue verità, anche se battezzate fantasmi. Il dolore, attraverso
la potente reazione di tutto il suo spirito nel senso gagliardo e tenace
con cui l’apprende e lo ferma nel cristallo della sua divina
fantasia, si trasfigura: non è più il limite della sua forza e della sua
libertà; è poesia, cioè umanità; è grandezza umana, trionfo della potenza
creatrice, che è Ubera e infinita potenza. Qui l’anima del
Leopardi, qui il fascino deUa sua poesia. La quale non trae la sua
ispirazione centrale dall’astratto concetto di quel crudo materialismo,
che annienta l’uomo e fiacca perciò ogni velleità di vivere a
proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un mondo qual egU perciò lo
vagheggi, liberamente, ma da questo senso profondo, or cupo e straziante,
or placato e sereno, che gli \aene dalla sua « ultrafilosofia », dal
bisogno di respingere come antiumana e contradditoria alla incoer¬
cibile natura dell’uomo cotesta filosofia negativa e sof¬ focante. Ora è
Bruto minore, nudo di speranza, ma prode, di cedere inesperti), neUa sua
guerra mortale contro il fato indegno, in atto di sfida magnanima contro
il Destino, che egU vince, violento irrompendo nel Tar¬ taro: e la
tiranna Tua destra, allor che vincitrice il grava.
Indomito scrollando si pompeggia. Quando nell’alto lato l’amaro
ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride. Ora è la
misera Saffo, grave ospite di natura, estranea alla infinita beltà di
questa, consapevole del prode ingegno che pur le venne in sorte
assegnato, delle proprie virili imprese, del dotto canto, della virtù
insomma che può vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il
velo indegno ricevuto da natura, primo principio della sua
infehcità; e morire, ed emendare così «il crudo fallo del cieco
dispensator de’ casi ». Ora è il Poeta stesso, che invoca la morte
hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia l’ora che tu le penne al mio
pregar dispieghi. Erta la fronte, armato, E renitente
al fato. La man che flagellando si colora Nel mio sangue
innocente Non ricolmar di lode. Non benedir, com’usa
Per antica viltà l’umana gente; Ogni vana speranza onde
consola Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto stolto Gittar
da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in sé spento
anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima dispera¬ zione e
cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo, della natura e di
questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto poter che, ascoso, a
comun danno impera ». Ora invece, il Poeta s’accosta a questa
Natura mi¬ steriosa, arcana, e si scioglie in un mistico
sentimento della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il
naturalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente oppone la
realtà all’uomo al punto da non lasciargli più modo di distinguersene e
spingerlo perciò al desiderio d’immergersi e immedesimarsi col tutto
infinito che gli è davanti e lo attrae. E allora il Leopardi ricompone il
suo volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo dolore, ossia
quella sua soggettività solitaria e disperata di uomo che, perduta la
giovinezza, vede intorno a sé il deserto e il buio della sera e
deH’orrida vecchiezza, nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,
dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce gusto
dell’eterno: Co.sì tra questa Immensità s’annega il
pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare;
de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe A pensar
come tutto al mondo passa e quasi orma non lascia; e il suono
delle umane glorie e degl’ imperi più famosi cede come il canto
dell’artigiano che riede a tarda notte al suo povero ostello poiché la
festa è finita: Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il
mondo; e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante
insieme e viva divenutagli familiare: ed alla tarda notte Un
canto che s’udia per li .sentieri Lontanando morire a poco a
poco...; de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del
meriggio presso all’ immoto specchio del lago di taciturne piante
incoronato gli fa obliare se stesso e il mondo: e già mi par che
sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le commova, e
lor quiete antica Co’ silenzi del loco si confonda. Estasi;
estasi mistica che fa risalire dal petto il tre¬ pido grido dell’angoscia
religiosa, che echeggia nel canto Alla primavera, 0 delle favole
antiche: Vivi tu, vivi, o santa Natura ? e quello
anche ])iù antico della stupenda lettera al Gior¬ dani del marzo 1821, che
convien rileggere: «Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la
finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di
luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da
lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire
un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando
misericordia alla natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto
tempo ». A questa religione, da cui la filosofia inferiore allontana,
riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando il Leopardi annota
nello Zibaldone che « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,
ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della sua nota, della FILOSOFIA
inferiore. Egli stesso ha il pensiero a una diversa filosofia quando,
sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi si strisciano
sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano
robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo
laberinto della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬
timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di
una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che
sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si
con¬ tenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura o «
senso dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della piccola
ragione, poiché ha bisogno della grande. La quale non s’illude di aver
spiegato tutto quando ha spiegato la natura, e non ha spiegato e si mette
in condizioni di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi
a dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita umana.
L’uomo, che è poi colui che si propone il pro¬ blema della natura, e
senza del quale {pertanto il pro¬ blema stesso non sorgerebbe mai.
L’uomo, che quella mezza filosofia della ragione piccola rinserra e
schiaccia nel meccanismo della natura e condanna alla schiavitù del
nulla, ma che risorge in tutta la sua libertà e nel suo valore infinito
appena la grande ragione gh faccia sentire la sua grandezza nella sua
stessa infehcità: « Niuna cosa » infatti, come si legge nello Zibaldone «
maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto.... che
il poter l’uomo co¬ noscere e interamente comprendere e fortemente
sentire la sua piccolezza » ; e provare la gioia del comporre, del
cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità, essa stessa, poiché sentita,
intesa, espressa, è grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non
soggiace alla natura, e può non temere la morte, e può, come la
ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino alito
spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una forma lapidaria che
fa parere il suo detto quasi proverbio, che « nessun maggior segno
d’essere poco filosofo e poco savio, che voler savia e filosofica tutta
la vita. Verità infatti che merita di passare in proverbio tra i
filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella vita non c’ è soltanto la
filosofia : c’ è altro ancora, che è poi sempre filosofia. La vera però,
che afferra la verità con mano robusta, non quella falsa che sola par vera
all’angusto intelletto del filosofo chiuso nel bozzolo del suo
intel¬ lettualismo. La quale FILOSOFIA, si ponga mente, una volta,
come s’è veduto, il Poeta la chiama ultrafilosofia; ma non è poi
altro propriamente che la sua personalità, il suo modo di vedere e di
sentire la vita, quell’ingenita virtù che prorompe nel Risorgimento,
quando l’anima si risvegliò e rivide meravigliata salire su dal profondo
i palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza, e il sentimento della
natura. Meco ritorna a vivere, La piaggia, il bosco, il monte; Parla al
mio core il fonte. Meco favella il mar ») : quella ingenita virtù, che gli
affanni poterono sopire; Non l’annullàr: non vinsela Il fato
e la sventura; Non con la vista impura l’infausta
verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che è, io dico, la
stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero la determina e
attua. Giacché io non vorrei che nelle parole, nelle formule, nei
concreti pensieri, come sistematica- mente si possono comporre ad unità
nelle esposizioni che l’autore non fece delle sue idee, e che, sempre a
fatica e non senza arbitrarie glosse, continuano a imbandirci quei
camerieri del Leopardi che sono i suoi interpreti, pronti a sobbarcarsi a
scriver loro sulla FILOSOFIA di L. i volumi che questi non pensò mai di
scrivere; non vorrei, dico, si ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come
opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e
orientamenti Mi perdoni la grande e austera ombra del Poeta questa
parola cara oggi a certi spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno
che il Padre manda in terra, suonano a stormo per adunar gente e catechizzarla
tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e disporla a
cercare con essi l’orientamento che essi non riescono mai a
trovare. Xtnnznni. No. LE PAROLE, i pensieri più o meno frammentari
e sparsi, le sentenze assai spesso felicemente formulate non
possono essere pel critico altro che accenni, spie dell’anima del filosofo.
La cui individualità è caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo
atteggiamento, che è la concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella che,
conferendo all’uomo un carattere, non ci spiega tanto le sue parole,
spesso espressioni di cose pensate e non sentite, ma le azioni in cui
l’uomo opera come sente nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o
no ad averne coscienza in un sistema chiaro e bene organato di
idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singolare e inconfondibile
individualità si mamfesta e si fa conoscere non per quel che dice ma per
il modo in cui lo dice, non pel contenuto delle sue parole ma pel
colore che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con cui la sua
anima vi suona dentro. Stile, essenza della poesia d’ogni uomo. Sicché,
infine, a parlare degnamente della filosofia del Leopardi, non bisogna
ridursi alla parte del cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi,
dove la pupilla trema della commozione segreta: ascoltare il suo
canto, dove la sua filosofia è la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi. Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi nella filosofia italiana," per
Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Grice e Leopardi – 1150 – implicatura – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo. Grice: “We don’t have at Oxford
a ‘chip off the old block’ as they have in Recanati!” -- Importante esponente del
pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi, targa
commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio
primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una
delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del
padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro
figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal
precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della
cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali
cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto
alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio
familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la
deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse
l'amministrazione della propria eredità. Dopo un primo progetto di nozze andato a
monte, sposò nel 1797 la marchesa Adelaide Antici, sua lontana parente. Il
matrimonio fu un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato dalla famiglia di
Monaldo, in base ad antiche dispute tra casati e per questioni economiche
(mancanza di una dote adeguata), che per manifestare la propria contrarietà non
partecipò al matrimonio, che venne infatti celebrato nella sala detta
"galleria" di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio di famiglia,
dalle mani di Monaldo, passò in quelle della moglie, a causa dei debiti del
prozio che il conte non riusciva a ripianare. Frutto di questa unione tra
opposti caratteri furono numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età adulta
Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. A causa della impossibilità di
gestirli (dovuta alla sua indole caritatevole verso i poveri, agli sperperi dei
parenti e all'invasione giacobina), l'amministrazione dei beni di famiglia
passò nelle mani della consorte, donna energica e severa; Monaldo poté così
dedicarsi totalmente alla sua passione, gli studi e le lettere. Tra i suoi
molti meriti vi è aver grandemente contribuito alla formazione del nucleo fondamentale
della biblioteca di famiglia dei Leopardi, nella quale il giovane Giacomo passò
i suoi anni di "studio matto e disperatissimo" (compresi i libri
proibiti per i quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per
metterli a disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza
recanatese, come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima
stanza". L'impegno civico Angolo della biblioteca di palazzo
Leopardi negli anni Cinquanta, con i ritratti di Monaldo, Adelaide e
Giacomo Il medico e naturalista britannico Edward Jenner La sua opera è
rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione
dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno
riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita
politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.
Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore
dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo
dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in
tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi
principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la
Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di
Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di
strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno
abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e
delle attività teatrali. Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze
della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a
vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò
inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo
stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il
cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il
vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui
propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che
svolgeva personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di
"retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte
della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di
un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe
seguito. Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i
medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la
costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come
scrisse una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le
sue idee controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire
il mondo per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene
presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale» Morì
il celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi,
la perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto
nella tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a
Recanati. Dei molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e
filosofici di Leopardi, i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie
correnti” usciti con lo pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane,
ovvero le iniziali di "Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente
un grande successo, ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più
lingue e divennero notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma,
ne informa il padre in una lettera dell'8 marzo: «I Dialoghetti, di cui
la ringrazio di cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho
più in proprietà se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in
mano.» Per umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È
probabile che con quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali
del figlio, che giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede
cristiana. In essi, infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche
controrivoluzione). Tra le tesi sostenute, la necessità della restituzione
della città di Avignone al papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica
a Luigi XVIII di Francia per la concessione della costituzione (che violerebbe
il sacro principio dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma
viene addirittura da Dio"), la proposta della suddivisione del territorio
francese fra Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la
difesa della dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella
lotta per l'indipendenza. Risalgono alcune opere di satira politica:
Monaldo era infatti ottimo satirico e disseminava le sue opere di scherzi
letterari. Tra esse, il Viaggio di Pulcinella e le Prediche recitate al popolo
liberale da don Muso Duro, curato nel paese della Verità e nella contrada della
Poca Pazienza (versione digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite,
ammonimenti ai fedeli cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si
segnalano «La Voce della Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro,
che Leopardi stesso diresse. La rivista ottenne un buon successo, come
dimostrano i 2000 abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu
soppressa d'autorità. Rimasero inediti, invece, i suoi Annali recanatesi
dalle origini della città ae la sua Autobiografia: in quest'ultima la prosa di
Monaldo si arricchisce di leggerezza, ironia e umorismo. Negli ultimi
anni di vita Monaldo visse appartato (non amava allontanarsi da Recanati: la
sua più lunga assenza dalla casa paterna consistette in 2 mesi a Roma), deluso
dalle caute aperture liberali del governo pontificio e degli esordi del regno
di papa Pio VI. Collaborò al periodico svizzero Il Cattolico, di Lugano,
tornando poi, negli ultimi anni, agli studi storici su Recanati, coltivati in
gioventù. Opere digitalizzate Monaldo Leopardi, La Santa Casa di Loreto.
Discussioni storiche e critiche, Lugano, presso Francesco Veladini e C. Monaldo
Leopardi, Istoria evangelica scritta in latino con le sole parole dei sacri
Evangelisti, spiegata in italiano e dilucidata con annotazioni, Pesaro, pei
tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle materie correnti
dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro,
curato nel paese della verità e nella contrada della poca pazienza. Rapporto
con il figlio ritratto di Giacomo Leopardi. Nonostante la vulgata dica il
contrario, il rapporto con il figlio illustre appare buono: senz'altro nei
primi anni Monaldo dovette essere orgoglioso della precocità del ragazzo, e
nelle opere giovanili di Giacomo, ad esempio il Saggio sopra gli errori
popolari degli antichi, si avverte ancora l'influenza delle idee del padre. Ben
presto, però, i loro spiriti presero strade diametralmente opposte: la
crescente autonomia di pensiero di Giacomo preoccupava Monaldo. La
lettura del carteggio fra i due rivela una relazione affettuosa, soprattutto
negli ultimi anni. La lettera più sincera scritta da Giacomo al padre è quella
che quest'ultimo non lesse mai: si tratta della missiva datata luglio 1819,
quando il poeta progettava la fuga, e che non fu mai spedita, perché egli
dovette rinunciare ai suoi piani. «Mio Signor Padre. Per quanto Ella
possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti,
Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi
hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non
debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea
cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in
questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e
persistesse in quella irremovibilmente. Io so che la felicità dell'uomo
consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice
mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo.
Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande
azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla
conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.» Finalmente,
Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo saltuariamente. Da lontano, il
padre assiste alla crescita della sua fama nel mondo intellettuale italiano, ma
non riesce a comprendere la grandezza del figlio: disapprova la pubblicazione
delle Operette morali, scrivendogli in una lettera (perduta) le "cose che
non andavano bene", suggerimenti che nella risposta Giacomo promette di
prendere in considerazione, ma che di fatto non sono mai accolti. La pubblicazione
dei Dialoghetti di Monaldo è causa di attrito fra padre e figlio. Giacomo
Leopardi si trovava a Firenze: nell'ambiente iniziò a circolare la voce che
fosse lui l'autore dell'opera, espressione delle tesi reazionarie, cosa che
egli fu costretto a smentire seccamente sul giornale Antologia di Giovan Pietro
Vieusseux. Si sfogò poi per lettera con l'amico Giuseppe Melchiorri: «Non
voglio più comparire con questa macchia sul viso. D'aver fatto quell'infame,
infamissimo, scelleratissimo libro. Quasi tutti lo credono mio: perché Leopardi
n'è l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore
sono io. Fino il governo m'è divenuto poco amico per causa di quei sozzi,
fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più nominarmi o essere nominato in
nessun luogo, che non sentissi dire: ah, l'autore dei dialoghetti.» In
toni decisamente più miti ne scrive poi a Monaldo il 28: «Nell'ultimo
numero dell'Antologia... nel Diario di Roma, e forse in altri Giornali, Ella
vedrà o avrà veduto una mia dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei
Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia,
e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel
libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me. E
dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri
apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e infine mi son deciso a parlare, per
due ragioni. L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è
dovuto ad altri, o massimamente a Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello
degli altrui meriti. [ L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare
per convertito, né di essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato
mai né irreligioso, né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei
principii non sono precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e
ch'io rispetto in Lei, ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati
però mai tali, ch'io dovessi né debba né voglia disapprovarli.» Nelle
ultime lettere Giacomo esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai
toni formali a quelli affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima
lettera). Monaldo sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i
due rimaneva però ancora evidente nel 1845, otto anni dopo la morte di
Giacomo, non accettando lui le idee areligiose del poeta; la sorella di lui,
Paolina, scriveva a Marianna Brighenti: «Di Giacomo poi, della gloria
nostra, abbiam dovuto tacere più che mai tutto quello che di lui veniva fatto
di sapere, come di quello che non combinava punto col pensiero di papà e colle
sue idee. Pertanto, non abbiamo fatto mai parola con lui delle nuove edizioni
delle sue opere, e quando le abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le
teniamo ancora, acciocché per cagion nostra non si rinnovi più acerbo il
dolore.» Su richiesta dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri,
pochi giorni dopo la morte del figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni
biografici su Giacomo, con aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore
per la rottura fra i due e l'incapacità del padre di capire la direzione
intrapresa dal figlio; il Memoriale si interrompe: "Tutto ciò che riguarda
il tratto successivo è più noto a Lei che a me", scrive infatti.
Nonostante ciò, Monaldo piangerà con dolore la perdita di Giacomo, al punto che
quando redigerà il proprio testamento nel 1839, alla settima volontà scrisse:
«Voglio che ogni anno in perpetuo si facciano celebrare dieci messe nel giorno
anniversario della mia morte, altre dieci il giorno 14 giugno in cui morì il
mio diletto figlio Giacomo...» Manetti, Giacomo Leopardi e la sua famiglia,
Bietti, Milano. La famiglia Leopardi è protagonista del romanzo fantastico di
Michele Mari Io venìa pien d'angoscia a rimirarti, del 1998. Monaldo Leopardi, di Sandro Petrucci Monaldo In viaggio per Leopardi, Leopardi fu
chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo fondatore, il Principe di
Canosa Antonio Capece Minutolo. Giacomo
Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo
Leopardi, Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo
Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo
Leopardi. La giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo
Leopardi, Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana
ed., Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed.,
(L'ultimo amico del poeta narra di un suo
incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi,
Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede&Cultura, 2006
Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di
Pulcinella, in, L'Europa giudicata da un reazionario. Un confronto sui
Dialoghetti di Monaldo Leopardi, Diabasis, 2004 Nicola Raponi, Due centenari. A
proposito dell'autobiografia di Monaldo Leopardi, Quaderni del Bicentenario.
Pubblicazione periodica per il bicentenario del trattato di Tolentino, n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, Giacomo
Leopardi. Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli,
Gubbio, i Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri
editore, Pasquale Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore,
Lanciano, Casa Editrice Rocco Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia)
Pierfrancesco Leopardi. Monaldo
Leopardi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giovanni Ferretti, Monaldo
Leopardi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Nicola Del Corno, Monaldo Leopardi, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Monaldo Leopardi, su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Opere di
Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Monaldo
Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e
l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte
Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi
anti-italiano. che
dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte
le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio , questi sono i
doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e
raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in
stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo
potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo,
questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi , e non trovo in esso una
sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole
e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi
sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto
questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro
io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete
che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello? LA
CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora
avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer.
Fin quì non dite male , ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con
cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella , ognuno ba i suoi gusti
, e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè
voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di
fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si
tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via
cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”.
Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa
tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a
campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo,
bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno
della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo.
come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo
dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va
guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é
desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m
e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol
guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non
dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie
per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i
merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi
ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo , e incominciamo
le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia , il Cervello e
il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete
quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che
vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi Cer.
Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il
governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città , perchè immagino
che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce
lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle
formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non
vogliamo un governo all'antica , il quale pretenda di governare davve ro , ma
bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra , un simulacro , un brodo
di ranocchie e niente di più. questa è una cosa da nulla, ed è più facile
preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel
regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer.
Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e
il più semplice , ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd , oibù ; se
fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele
poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo
vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano
diavere ricevuto il loro potere da Dio , e nessuno si azzardava di slendere la
mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma
nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del
popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente
devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico
adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il
più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re
falto dal popolo, perchèchipuòfarepuòguastare, ed è più facile sbalzare dal
trono un monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di
cucina.Sentite dunque signor governo , e imparate bene cosa ha da essere il
governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di
tutto, il re ha da essere un re di carta , o vogliamo dire che tulta la sua
autorilà deve consistere in un pezzo di carta , esso medesimo deve riconoscerla
tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella
carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle
belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso
di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e
putati , ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi
la camera ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza ,
e per una semplice for malità , sua maestà di carta deve subito pi gliare la
frusta e andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del
popolo. Gov. Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la
giustizia,e deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza
essere ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino
riceverà una coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare
una querela a quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di
pane e acqua, il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità
della giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a
ricevere i vostri comandi . Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca
filosofico costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa , e di
toccare un quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci
sarà bisogno di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un
pitocco alla cainera dei deputali , e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che
questo importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in
sollile.Se però la camera non vorrà darglieli ,lascerà che il governo cammini
da per sè stesso, e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco,
allorchè il pa drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo
se qualche volta il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà,ac .
compagnandolo con le fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e
se anche in una giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare
la dinastia,edi scacciare il re con tutta la sua maestà e la Gov.
Benissimo. Fil.Siccome poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia,
il re cittadino de ve sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla , e
che egli pad usarne soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se
itribunali condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal
popolo, sua maestà di carta lo dovrà liberare , e se condanneranno
ingiustamente un innocente malveduto dal popolo , sua maestà di carta dovrà
farlo impiccare. Gov. Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà
andarsene col bordone in mano , e avere di caro e grazia di salvare la
pelle,perchè alla five dei conti nell'impero della Filosofia la careta, il
trono , il governo, tutto è del popolo, e ilmonarca costituzionale è un
bawboccio vestitodareperserviredipassatempoalpo polo. Gov.
Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella cillà a preparare uo trono
di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”. Fil.Cosa
nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia vera mente
solida , dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse
col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che
muova la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino , il
quale non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna
contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto
affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare
ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici
debbano essere lavorali sopra queslo m o dello , un re dipinlo ,ovvero un re di
paglia potrebbe servire nello stesso modo. La Filosofia. Chi siete, e cosa
volete? La Giustizia. Io sono la Giustiziaedoman do di essere ammessa nella
vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a
meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti , i quali hanno inolla pratica
dei tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie
presenti, sa rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle
cause,ovvero giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri
sparmierebbero le spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si
confonderebbero il giusto con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo
con l'as sassino. Giu . Parlate pura giacchè sono venula a p La Filosofia
, il Cervello, a la Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo
senza tribunale e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai
lulle queste cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente.
Considero però che se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia , gli
avvocati e i procuratori resterebbero in camicia, e questo non si ac
comoderebbe con le idee filosofiche sulla dif fusione dei godimenti e dei
beni.È d'uopo dunque per un altro poco adattarsi al siste ma antico , e perciò
venile avanli madonna Giustizia e facciamo i nostri palli. posta
per imparare cosa deve essere la giu. stizia nel paese della filosofia. Fil.
Prima di tutto lenetevi bene in m e n te che i liberali tauto palesi come
occulli non devono avere mai lorlo,e la giustizia deve essere una vera
cortigiana consacrata e ven. dula sfacciatamente al servizio dei liberali.
Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi prostituiròinverecondamente per compiacere
iliberali.Ma ditemi un poco:come ho da fare per favorirli nelle cause , quando
stan no evidentissimamente dalla parte del torto ? Giu. Quei giudici però i
quali procederan no con ingiustizia manifesta potranno essere discacciati e
puniti. 102 re che questo non è proibilo ; e non manca il modo di
stancare e assassinare un povero liligante buttando la polvere sugli occhi al
mondo,esostenendochesioperaperlagiu stizia.Se però qualcbe volta vi
troverelealle strelle , rinunziale pure a qualunque pudo re,invocate ilnome di Dio,egiudicatenel
nome del diavolo,purchè la villoria sia sem pre assicurala per i liberali. pu.
Fil. Finchè potete conservare cerle appa renze e salvare la capra e l'orto ,
falelo Fil.Non dubitatediquesto,eigiudicinon temano di niente quando sono
protetti dai liberali. Primieramenle nel regno della filo sofia i giudicisono
una potenza assolutache non dipende da nessuno ; e poi i liberali si mellono
per tutto , e coperlamente , ovvero scopertamente comandano in lulli i
dicasteri, sicchè alla fine del conto lutto si fa a modo loro , e a
chiunque la prende con essi toc cano sempre la mazza e le corna. Giu.Ho capilo:
e lasciatevi servire.Segui tale pure la vostra lezione. Fil. Inoltre se
s'incontrano a litigare un uomo indifferenle e un inimico dei liberali, dale
sempre ragioneall'uomoindifferente an corchè fosse uù ruffiano, ovvero un capo
la dro , e date sempre lorlo agl'inimici dei li. berali , acciocchè quesla
capaglia impari a rispettare la filosofia e la liberalilà. Fil. In questi casi
potete consollare i vo stri affelli privali, ovvero ilvostro interesse; potete
farvi merito con qualche Ciprigna ;e in somma fale pure quello che vi pare, che
alla filosofia non gliene importa niente.Cosa ne dile compare Cervello ?
Fil.Questo sarebbe un partito troppo gras. so per i galantuomini i quali
giuocherebbero alla pari,enelregno filosoficoiliberalihan. no da godere sempre
qualche vantaggio. A vete capito bene madonna Giustizia ? Giu. Ho capito anche
questo e non mi al lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma come si dovrà
procedere in parilà di circostanze o sia quando s'incontrany a litigare due uo.
mini indifferenti , ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che hanno ragione
quelli iqualidesiderano,che ildirillo eiltorlo si estraggano allasorte oppure
vengano giuo catiallamorra.Difalliquando laGiustizia non ha da essere veramente
giustizia è m e glio ridurla al giuoco della bianca e della nera . Giu. Ho
capito benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause criminali come dovrò
regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per la parte dei
malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si vuole la m a n
naia del boia , e piuttosto si gradisce ilcol tello degli assassini. Se la
giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb bero le gloriose
giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo morire di
malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto per la
giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce , Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq
diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il
Sacramento , te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez
za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete,
un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli , i frali,
i vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in
galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave
re fatto una sconcordanza , caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la
testa, e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re ,
distribuite le pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma
regolatevi in modo da far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è
permesso fuorcbè toc care colla puola delle dila i liberali e la fi
Giu . H o capito tullo benissimo , e vado a stabilire i tribunali e a
portare in trionfo la giustizia nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene
compare mio che i miei ordinamenti fondamentali non incontrano trop. po il
vostro genio ; ma finchè sarele un cer vello all'anlica tullo pieno di
pregiudizi, nonvimetterele livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel
regno della filoso. fia. Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello
perderà il cervello , e allora le dottrine e le pratiche della filosofia si
diran no regolale col cervello. Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che
vengono per abitare nel. la nostra nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la
Proprietà . La Filosofia. Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i
proprielari,ma anche 105 1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto
umano proferire qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire
dominati na. scostamente dai liberali faranno sempre la grazia , e non ci sarà
mai pericolo , che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un
liberale. La Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro
puovo impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i
proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni.
Pro. Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà
, e lulle le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e
godere tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire ,
m a siccome ancora non siamo arrivati al punto , basterà stabilire per adesso
alcu ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse
che nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non
fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per
introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe
benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja ,
intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e
tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo
partito definitivo , l'in civilimento ancora non è giunto al segno , e il mondo
non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg
gi , tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare
lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si
diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione
uguale ? 106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole
fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in
mira di spogliare iricchi,i signori e i benestanti; e di arricchire
i cialtroni , e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre
diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso
vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino,
e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer.
Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da
questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una
importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello
Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime , e siccome
alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere
come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti
gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più
rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il
denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano
di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente
aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con
questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il
malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un
popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca
pito,signora Proprietà ? Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad
un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo , che
bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati
ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e
divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne;
e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia
le anticamere , perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a
spalle dei mincbioni , se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi
parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre
preferire i più indegni , i più asini e i più lemerari, e così si deve correre
ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il
perfezionamento filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo
Stalo non si contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil.Messo
in molo una volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni , diffusa l'idea
che tulli gli sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato ,
e rotto l'argi ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni , igoverni e
i ministri del governo verranno strascinati da quella piena , e non potranno
più impedire l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più
bella di luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo
disordine e sono vera 108 mente affezionati allo Stato, daranno
mano al l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno
la loro affezioncella pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè
in gražia della affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti
qualche loro protello , tutti diranno che quella è la eccezione della regola ,
e tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di
più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol
tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto,
acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè
furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il
privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato
perchè non ebbe mai niente , e non è dovere che nel giorno della cuccagna un
galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuoeilbisognodelloStatonon
dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni
assordiranno l'a ria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le
sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza , a depositarsi nella pan
cia di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare
la diffusione dei beni , o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei
privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa
- tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe
qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci
è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste
nell'acconsentire senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e
delle giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da
vero poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di
pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia
prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero
un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita
impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi
, ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta,
con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di
avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli
poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le
mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con
dottieri nasali dei grandi , e sino le zitelle , le vedove e le vecchie ,
pericolate , perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una
pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver
tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi
, e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli
soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e
i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno
in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti
annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della
proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi
, e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per
sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go
che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per
operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi
cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla
dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale
della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e
le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a
poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori,
e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i
coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e
preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le casse
di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare del
tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra
mantenereillivellamentoso ciale. Fil.Sicuramente;equantunque l'artifi zio
sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste
cose dai raccomandatori perpetuidellafilosofia.Udite. mi , siguor Cervello, e
imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno
depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in
quelle casse , m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti
ipoteche sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco
depositato nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei
propriela rii verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli
effetti di questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio
avranno un capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie
tari e ancora dello stato , allora si manife steranno le forze di questa nuova
occulta p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le
proprielà , e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è
diventata la vera padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con elemosine
propor zionate, stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro bisogni,e
ricoverarli nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le opere
della prudenza e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di talli
i pezzenti , aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse di
risparmio so no un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni
? a banca per il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla
bellola ovvero rubati nelle bolteghe, e aiutare la feccia della ple be2,perchè
monti a cavallo sul collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli
stessi go. verni, questo è propriamente secondo la dol trina della diffusione
del potere e dei beni, ed è la vera quintessenza della filosofica malignità.
Cer. Confesso il vero che mi avele sor preso , e non credeva cbe la filosofia
la sa. pesse tanto lunga , e pensasse di assassina re il mondo anche sotto
pretesto di fare la carità ai poverelli. Ma in conclusione quali saranno i
vantaggi sociali che proveranno da questa dilapidazione universale della
proprie tào vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque
sitrovaco. modo non cerca di mutar posto , 3 e così quelli che stanno bene ed
hanno molto da perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le
ricchezze acquistate onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie
nobili e benestanti , rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la
buo na educazione e la buona morale , il deside rio dell'ordine , l'altaccamento
al governo e la considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non
sarannoavvilite e degra date dalla miseria , sarà sempre difficile sol levare
il popolo,sovvertirel'ordine,distrug gere i governi e corrompere totalmente la
moralee icostumi della nazione.Quando però tutte le proprietà sarango
livellate, o per meglio dire quando lulli isignori saranno spiantati ;
quando le famiglie patrizie e le classi superiori ridotle incamicia saranno
diventate il ludibrio dei mascalzoni ; quan : do sarà scomparsa ogni idea di
dignità e di rispello; quando tutti o quasi tulli a. vranno da guadagnare nei
torbidi e nei su surri e quando infine tolta la barriera della ricchezza e
della nobillà , o vogliamo dire tolta la barriera della aristocrazia, le sassate
della plebe potranno arrivarea diril tura alla'cervice dei re, allora tulto il
mondo sarà un perpétuo bordello, sarà più faci le fare una rivoluzione che
cambiarsi un v e stilo , e le gloriose giornate saranno sempre a libera
disposizione della filosofia. Questo e non altro è quello che si cerca
procurando la diffusione dei beni , o vogliamo dire l'as sassinio di tutte le
proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire, ma Cer. Certo che I vostri
proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed il ge nere umano vi deve
essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato per le fesie ; ma in
ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti passeranno in di altri; a
poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno nuove famiglie, si costi
tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo crazia,e
ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà , non potranno
es sere permanenti e durevoli , perchè l'egua glianza delle proprietà è in
opposizionecon gli ordinamenti della natura. sfasciata da capo a fondo
una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo , sì quando avremo
subissata ben beno la società , non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci
saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di
quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le
educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini
del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle
mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il
dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per
ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo
assicurare il bordello , il susurro , e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai
secoli suc- cessivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non
mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama
Proprietà , ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi
ai miei be nefici regolamenti , e ricordatevi che nel re gno
dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni
e delle proprietà , o sia per assassinare tulle quante le proprielà. La
Filosofia , il Cervello , l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre
persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è
colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro
talto smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi sono
l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali , e amici tan to
sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento
el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome , ma
bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di
corrom pere tulle le cose buone , perchè questi due cbe si avanzano hanno la
cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini
e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiilregnodella Filosofia.Ve nite
avanti , signori , facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad ammaestrare
ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà. L'Ins. Parlate pure perchè
noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima di tulio
bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi è quella
appunto con cui si olliene Fil.Dibò,oibo.Tutti vidico,tuttiquanti
sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà
poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno
i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti
e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società , e che anche
i guatleri , i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi ,
letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia,
e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina?
la diffusione della civillà.Voi dunque , signor Josegnamento , dovete mettervi
in testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi , let terati e saccenti,
e di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la
nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi
vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che
dalla natura, dallalorocondizionee. dagliordinamentiso. ciali sono destinati a
trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol
lorosapereallasocietà;ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e
lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani , que stinon vorrete
che apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli
oziosi,indocili e scontenti diseme desimi , e gravosi e molesti agli
altri. rivare alla diffusione generale dei lumi,e al
l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora
si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai
vostri scon siderati seguaci , qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero
d'individui , e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla
schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità
e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro
che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso
stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di
vil lapi ignoranti , e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto
basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla
società non conviene alla filoso fia , la quale vuole il movimento e non vuole
la quiete , vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità.
Se predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero
giungere alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel
do. minio dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe
consiste nella m o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi
convenevoli al proprio grado , la filoso fia non vorrebbe saperne niente e
prediche rebbe contro la diffusione dei lumi e della ci viltà. Siccome però è
certo che la grande plu ralità degli uomini non arriva alle perfezio ni , e che
ostacoli insormontabili naturali e civili si oppongono alla troppa
diffusione dei lumiedellaciviltà,cosìècertachelapro pagazione smoderala
dell'ammaestramento e dell'incivilimento empirà il mondo solamente di mezzi
dolli , di scioli , di sapulelli teme rari e presuntuosi, iqualiappunto ci
voglio no per secondare la grand'opera della filoso fia.L'uomo grossolano e di
buona fede crede più al curato che alle pappole dei liberali,e rispellando e
temendo il sovrano non pensa , neppure quando si trova ubriaco , di essere esso
stesso un sovrano.Chi non sa leggere o non presume un poco di letteratura e di
ci villà non legge le gazzelte e non modella il suo modo di pensare sui
giornali e sui liber coli della propaganda;e senza le gazzelle,senza i
libercoli e senza igiornali,come si rendereb bero fuoridimoda
iprecettideldecalogo eil calecbismo del Bellarinino ? e dove si trovereb bero
gli uomini e le sassale per atlerrare le croci,per abballereitroni,eper
fareleglo riose giornate?Vedete dunque,carocompare Cervello,che la filosofia
non opera senza cer vello, e che sa ben essa cosa vuole quando predica la
diffusione dei lumi,e della civillà.
L'Inc. Orsù , non perdiamo più tempo perchè io muoro di voglia
d'incominciare la mia missione , e di andare a diffondere i lumi e la sapienza
del secolo. Ditemi piutlo sto quali scienze vi piace che vengano inse
goateapreferenza,equalilibricredeleme glio adattati per affascinare la mente e
cor rompere il cuore della gioventù. Fil.Quanto allescienze, generalmentepar:
L'ins. Ho capito bene quanto alle scienze e lasciatevi pure servire;e
quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil. Tutti i libri che mettono in
ridicolo i preti , i frali, la chiesa e le pratiche della chiesa;tulli quelli
che parlano contro l'aulo rità del Papa e dei principi; e lulti quelli che
trattanoscopertamente ovvero copertamen. te di materie scandalose e lascive
lusingando > > . 120 lando , potete secondare il genio dei giovani,
purchè avvertiate sempre di oscurargli la v e rilà e di allerare nel loro cuore
igermi della virtù. Parlando poi specialmente, le vostre lezioni più frequenti
devono essere sulla m e tafisica e su i dirilli dell'uomo , le quali scien . zc
adoperate dalla filosofia liberale riescono benissimo adattate per diffondere
le dollrine dell’empielà e per suscitarelospiritodellale. merità.Sevoinon
capilenientedimelafisica, importa poco;purchè viriescad'imbrogliare la testa
dei vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo fu
l'opera di un esserenecessario,ovverouscì dai
vorlicidelcaso,comeesconoilerniele cinquine del lotto e se essi medesimi sono
animali viventi , oppure ciolloli del torrenle o ravanelli dell'orto. Così se
di dirillo natu. rale e civile non ne sapele un acca ,queslo purenon importa
niente,purchèivostridi scepoli ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi
che la ragione delle genti consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella
sovrani tà del popolo e nel diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le
gloriose giornate.L'Ins. Ho capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere
in pratica le vostre lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi
sempre in lingua volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più
usare la lingua latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua
già morta è stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo
sbandirla affallo non solamente dalle scuole,madatuttoilcommercio letterario
sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga
conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia
delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi
epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli
della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi,
per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa
abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete
scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con
grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la
rigenerazione filosofioa , o voglia mo direl'assassiniodelmondo.Alloraandate a
colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro
lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche
modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende
senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e
l'esercizio della lingua latina sono mollissime,mavenericorderòdue princi
pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo
l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della
chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo , serve a
legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili,
commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e
comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle
nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem
proximi sui.Insecondoluogoènecessarioap e punto l'uso di una lingua morta
per custo dire le tradizioni , i monumenti e le opere delle lingue viventi
,perchè quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli
scrilli dei nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre
calledre, lad dove le lingue volgari regolate dalla moda , allerale dal
mescolamento di voci nuove 0 straniere , e logorate e guastale dall'uso ,
si mulano e s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per
soltrarle all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono
il latino di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli
italiani , dai francesi , dai goli e dagli arabi , i libri scritti in ilaliano
e in francese sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici , e
non si possono intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in
comoda precisamente per questo , e che vo gliamo levarcela di altorno appunto ,
perchè è la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco
della dottrina ecclesia stica resterà in piedi , vantando diciotto se. coli
d’inalterata antichità , i preti e i frati , i vescovi , i papi e i cristiani
ce lo sbatte ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre
subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre
riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce
della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà
conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei
concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per
accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la parola
di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e allora
si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della filosofia. Cer.
Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un
suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli.
E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti
rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa
diventerebbero i canoni dei concili , i placiti dei pontefici, le opere dei
padri e dei dottori , e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina
del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari , ma in primo luogo è
assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non
prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa,einsecondo
luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle
trame della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di
quella lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e
che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta
sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il
qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la
lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente
per due dozzine di secoli ,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso
l'ultima sua rovina. Cer. Questo certamente è stato un passo falso
carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e
straniero, che presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale
concessione rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di
quelle riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della
filosofia e i danni religiosi e sociali diventi.
nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima o poco dopo le ossa si rimelteran
no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista bilita nei tribunali , e con questo
neppure i litiganti faranno nessuna perdita, essendo indifferente
per essi che gli alli giudiziali si facciano in volgare ovvero in lalino. Fil.
Credete forse che i liberali non lo co noscano e che vogliano la lingua volgare
nei tribunali per l'interesse e per ilcomodo dei litiganti? I litiganti
stannoin mano degli avvocati e dei procuratori come gli ammalati stanno in mano
dei medici e degli speziali ; e siccome per gl'infermi è lull'uno che le
ricelte sieno scritte in latino ovvero in vol gare , giacchèin qualunque modo
bisogna che prendano il beverone sulla parola del dot tore e sulla fede del
farmacista , così litiganti è lo stesso che le citazioni e le c a u se si
scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua , giacchè alla fine dei conti
devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei loro cu riali. Abbiamo però
altre buone ragioni per desiderare sbandita la lingua latina dal foro : Fil. La
prima è quella ragione generale di cui già abbiamo parlato,giacchè tollialla
lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il cinquanta per cento della
sua importanza e della sua familiarità , si rende sempre più sconosciuta e
straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo totale deperi mento. L'altra
poi è quella di dilataremag giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra
forense, l'accessoai tribunali,a e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque
sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli alti giudi ziali si faranno sempre
in latino, dove ico. dici e i commentari saranno scrilti in la per i Cer.
E quali sono queste ragioni? tino , e dove il foro sarà chiuso per chi non ha
sludiato illatino,icursori,iprocuratori, i curiali , gli avvocati e i
giusdicenti nelle proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e
di dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango,
e somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di
quella lingua , gl'impegni , le protezioni e la cabala faranno il resto; il
foro, i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a
lulli i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon
dersi sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che
le mie ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre chiacchiere,
voi signor Josegnamento, andate a prostituirvi in volgare nella città della
filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra tutteleclassi del
popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere la vostra lezione.
L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri comandi. Fil. Prima di
tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal vostro nome, persuaden
dovi, che la civillà di adesso non deve essere come quella di una volta, e che
l'incivilimen. tonel regno dellafilosofiahadaessereilfra. tello carnale
dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della filosofia.
L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri precetti. Fil.
Una volta adunque la vera civiltà con. e L'Inc. Ho capito benissimo,e
non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la decenza e la m a
gnificenza del portamento e del vestiario era no l'indizioelagaranzia
dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le vogliamo più , e la
civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza e della
magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure
cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il
vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito
d'arlecchino , una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre
il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito
anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il
modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro. 127
sistevanell'onesláenelpudore;maoggique ste cose non servono , e al più si deve
con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið
scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità
dichiarata e brutale , predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono
il frutto della civiltà , m a rendele poi familiari negli scritti e nei
trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze
seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e
questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e
il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc.Hocapito
tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per
opera della civiltà. Fil. Andate pure , e vi accompagnino cou
lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae
il Cullo. Fil.Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione
vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di
abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel
suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi
dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi , ma
oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo , e l'incilimento deve
esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i
superbi. Voi dunque , andando sempre contro natura,dovele mettere in
tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori , e d o vele
meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini , siccbè
queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino
a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra
costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia
sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la
diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe
meglio di una città regolataconquestiprincipieconqueste leggi. Fil. Non lo
conosco neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo.
Galantuomo venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono
tutti quegli imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato
? Fil. Voi vi ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia
che il n 1 0 vo pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi
per altrofaremo tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello
perderà le sue abitudini di una volla,enon glidaràl'animodivederelecose con
altri occhiali che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che
seguitano a presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui
ilquale siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di
vestiti che si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io
sono il Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil.
Veramente i veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà
lullo il luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola .
Finlanlo però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi
volgari vi terremo come un servitore pro visorio,eservireleper
trastullareilpopolo e per fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè
oramai per me non sitrova di meglio, bisognerà contentarsi di questo , e verrò
provisoriamente al vostro servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili
del mio mestiere,eliboportatididiversesorteper adaliarmi a quel Culto che
vorrelé stabilire nel vostro paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por
tarvi una bottega di ordegni e un guardaroba di paludamenti,perchè nella città
della Filo sofia deve esserci libertà amplissima per tutti i culti.
Cer.Come!nelvostropaesevoleleammel terci tolti i culii ?
Cer.Perchèlaveritàèunasola,emet terla del pari con l'errore è lo stesso che ri
pudiarla. IlCullo consiste nel professare una religione enell'osservarne
iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola religione può esser vera e
tutte le altre devono essere false , così un solo cullo può essere sauto e
gralo a Dio , e lulli gli altri devono essere allrellanle imposture e
mascherate , ridicole agli occhi degli uomini e oltraggiose alla maestà di Dio.
Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in discussioni di leologia e di
scandalizzarvi con le doitrine filosoficheintornoalla religio. ne.Di
questoparleremo a suo tempo,ma in tanto dovele considerare che il fondamento
della filosofia liberale è la libertà , che la principale di tutte le liberlà è
quella della coscienza , e che una città dove non ci fosse la libertà della
coscienza e del culto non p o Fil.Giàsisa,olullio nessuno.Percbè si
dovrebbe usare parzialilà e sceglierne uno. facendo torto agli altri ?
trebbe essere la citla della Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate
pure nella mia residenza con tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri
vestiti: credele quello che vi pare, operate come vi pare , e incensate quel
che vipare,che ditutto questo ame non im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo
subito ad inca sarmi nel vostro slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi
è tutta questa gente dalla quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di
diverse religio pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori,
accettando la tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per
volta, e venile a ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola
sulle vo stre rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare
in casa sua. Fil. Queslo veramente non è necessario , percbè nei paesi della
filosofia ci è il datur omnibus , e ciascheduno può fare di ogni er. ba un
fascio. Nulladimeno questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le
vedu te della lanterna magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti
? Tur. lo sono un turco , e la religione dei turchi è la più comoda di lulle.
Pensiamo a mangiare a bere e dormire, e per l'avveni
resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo luttuosamente nei nostri serragli , come vi
vono i galli nel pollaio e i becchi nel peco rile, e la dollrina del padre
Maometto ciassicura che troveremo pollaie pecorili ancora nell'altro mondo , e
che l'abbondanza delle galline e delle pecore sarà il guiderdone del. la virtù.
Fil. E pure, compare mio,questa mi sem bra una religione più comoda e più
giusta di tulle le altre. Anzi a dirla schietta , questa , poco più poco meno ,
è la religione dei fi losofi liberali, i quali non sanno capacitarsi, perchè
non debba essere accordata alli due sessi del genere umano quella libertà che
si godono ibruti animali. Esaminate pure e analizzate quanto volete le doltrine
e i sofi. smi del secolo illuminato , il libertinaggio animalesco libera è il
compendio di lulti i voti e lo scopo principale del liberalismo. Per questo
mondo un pecorile o vogliamo dire un serraglio , e per l'altro sarà quel che
sarà: in quesso consiste tutto l'evangelio della filosofia.Voi dunque,signor Turco
mio caro, entratepurenellamia nuova cillà , esercitatevi il vostro culto
liberamente, e non dubitale che i pollai , i pecorili e i porcili non saranno
mai perseguitati dalla fi losofia. E voi che venile appresso chi siete ? Dei.
Io sono un Deisla e credo che ci sia un Dio , ma siccome non so cosa vuole questo
Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi religioni,nèdicomandamenli,emi vado
regolando alla meglio secondo il mio giu dizio. Cer. Basta non esser
bestie per conoscere che questa è una religioneeuna dottrinada bestie Fil.
Anche questa dottrina non mi dispia. ce e si può accordare molto bene con la fi
losofia. Imperciocchè un Dio il quale cred il mondo per passatempo e poi lo
lascia anda re senza pensarci più , e non gli volge mai nè uno sguardo , nè una
parola ; questo Id dio è come se non ci fosse , si può benissi mo
riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi , e la dottrina del Deismo non con
trasta con quella del libertinaggio e del pe corile.Perciò,signor
Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni , ed entrale pure a
stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro. Chi siete? Aleo.
lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se il mondo è elerno
ovvero se incomincið casualmente per una combinazione fortuita della materia ;
non so se ha durare sempre questo mondo , ovvero se col tempo prenderà qualche
altra figu ra , e non so cosa sia l'uomo e se finirà di essere quando finirà di
muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per non vedere nell'esistenza
degli esseri e negli ordini del la natura la mano di Dio , e a dispetto di
tutte l'evidenze e di tutti i raziocini , voglio dire che non c'è Dio. Fil.
Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello che gli pare; e inol
tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia e senza lingua come
se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m e desima cosa .
Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile , o il sarà
quel che sarà , può accomodarsi benissimo con la dottrina della filosofia.
Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione filosofica, e
venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al contrario di
quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni riconosciamo un
diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a doriamo il sole
e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le divinità di le
gno e di cocco , e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le lucerte , è
fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un branco dimatli,
e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro paese. Fil. E perchè no
? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se la idolatria non è secondo i
dellami della filosofia, almeno non riesce molesta alla filosofia. Anzi al Dio
M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei filo sofi non mancheranno
adoratori ,e a quella cara Venere, deessa della voluttà si dovreb bero erigere
altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco galantuomo : suppongo che la
morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata , e che contro il libertinaggio
non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete immaginare cosa debbano es sere la
morale e i costumi dove le divinità sono lavorate nelle botteghe dei falegnami
e degli sloviglieri. Nulla dimeno il fanalismo e l'imposlura si intrudono per
lullo sotto lea p Ris. Noi siamo riformati e protestanti, lu
terani, calvinisti, zuingliani,anglicani, quac queri, puritani, presbiteriani;
insomma fra di noi ci è di ogni sorta un poco, é venia mo
astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino che sarete tuiti
quanti per suasi di essere una gabbia di matli , e co noscerele che essendo una
sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse re lontana dalla
verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può trovarsi fuorchè
in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con indifferenza uno
con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di strada. Per que. sto se
ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi medesimi e conosciamo
di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo parenze della pielà, e
anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre vestali, e abbia mo i nostri
penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio per essi ; e poi ognuno ha i
suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i Bonzi e i Dervis vogliono
digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro divinità. Quelle credenze e quelle
pratiche religiose che non disturbano la società devono essere accolte e
protette nel regno della filosofia. Andale dunque tutti liberamente ; incensate
quanto vi pare sorci, gatti, porci e somari, e vivele si cuci della nostra
filosofica fraternità. Adesso venga avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta
turba di gente ? Rif. Per ultimo il nostro clero è disinvol. to e
sociale e non intende di rinunziare alle soddisfazioni della natura ;
perlocchè, abbia mo in abbondanza pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra
noi ci fossero il papa e i cardinali avremmo ancora le papesse e le
cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi miei compagni vogliamo aprire
le nostre sinagoghe nei vostri domini. e l'impegno ci conservano nel
nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi venia mo spesso a capelli
siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci disertori dalla Chiesa romana .
Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo godere i privilegi dell'errore , e
non volendo assoggettarsi alle seccature della ve. rità è d'uopo lenersi
lontani da quella dot tora che presame d'insegnare essa sola la verità. Rif.
Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè frati, nè confessionari, e conoscele bene
che questa è una grandissima comodità per la vila. Fil. Sicurissimamente; e
levato quel tram pino del confessionale, il libertinaggio non si contrasta più
da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi , e questo si chiama essere cristiani a
buon mercato: pro priamente secondo il gusto della filosofia. Entrale dunque
anche voi col vostro mezzo evangelo , perchè lanto è mezzo quanto è niente, e
venga avanti chi resta. Fil. Senlite, figliuoli miei, nel regno della
filosofia ci deve essere senza dubbio il luogo per lulli,ma voi altri giudei
avevale tanti pregiudizi e tante pretensioni che non so se starele d'accordo
cogli altri, e non vorrei che mi melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni
dubbio,perchè gli ebrei di adesso non sono più di quelli di pri m a , e anche
noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li patriarchi per arruolarci sollo le in
segne della Filosofia. Ci resta un poco di cir concisione, perchè ce la ficcano
quando non possiamo parlare, ma questa non si vede,e in tull'altro siamo una
vera canaglia , nata fatta per venire a figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene,
ma intanto puzzatecenlo miglia lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo
a lulli i miei popoli. Eb. Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio
civilizzati noi siamo il fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti ,
portiamo titoli e decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se
volessimo degnar. cene faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori.
Fil.Quando è così entrale pure anche voi, fate le vostre sinagogbe,
circoncidetevi a modo vostro,e non dubitale che non vimanche ranno libertà e
protezione nel regno della fi losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat.
Io sono un cattolico , e insieme coi miei compagni desideriamo di professare
li 137 e per ultimo Cat.Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di
ammettere tutte le religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà
essere esclusa ? Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò
non è vero nel senso in cui voi lo intendele , e non polrete provare in nes sun
modo cbe noi siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es
sere i soli a credere e insegnare la verità , che fuori della vostra chiesa
lulli sono p o veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si
chiama essere conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là
della verilà non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è
persuasodi trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che
quelli i quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via
dell'orrcre.Anzi perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi
dalla verilà basta solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori
delle loro dottrine si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo
nessuno a farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che
vivono in un'altra credenza , e neppure ci vendichiamo quando veniamo oltraggiati
e beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica. Fil. Un
cattolico! un cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno dei
filosofi la fede e il culto cattolico? e perseguitati ; perlocchè in
luogo di essere in tolleranti , noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e
i più tolleranli. Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache , di
frati e di claustrali di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non
vanno a genio della filosofia. Cat. Ma , se è vero che nei paesi costituiti
filosoficamente, ognuno deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni
uominiealcune donne unanimi nel pensiero , e animali dallo stesso desiderio ,
non potranno albergare in una medesima casa,vestire un medesimo abi to , vivere
come gli pare e godere anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della
vostra tolleranza non podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e
dei giappo nesi , e i Dervis dei maomettani , perchè lo vostre esclusioni
saranno riservate privaliva mente per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la
vostra capaglia di frati vuol vivere senza far niente e campare a spalle degli
altri. Cat. I preti e i frati callolici predicano la parola di Dio, istruiscono
la gioventù , so stengono il ministero del culto , assistono gli infermi ,
consolano i moribondi e tutto questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli
oc chi della filosofia ; e quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri
prelieinostri frati campano per forza , assassinando i pas saggieri in mezzo
alla strada ? forse i predi canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il
villo e il vestito dalle nuvole e non 1 $ Fil. E non contate
per niente il celibato del vostro clero il quale naoce alla socielà col
l'impedire la molliplicazione del popolo?
Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non consiste
nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta
proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però
entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà ,
forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento
mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse
sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero
alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere
lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è
troppo serio , troppo pubblico , troppo pomposo e solenne, e non può essere mai
gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela
religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il
nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione
cattolica è la dominante , ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene
ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di
donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe,
epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla
filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei
nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto
dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte
dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele
dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non
disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della
filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di
più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare
mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio.
Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il
lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà
sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat.
tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete
accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri
frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro
priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure
e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si
accordano mai coi cattolici , e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto
quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il
perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo , perchè accomodata quella
piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per
ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete
accordarci il bru tismo , le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è
venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di
sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque , i preti e i cat
tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e
inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi
liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo
in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert
mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città , o
la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia
accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con
allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie
i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La
sovranitàpopolareinqualitàdisi gnora della festa offre lo spettacolo gratuito
dellebarricate, distribuisce un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno
per l'incomincia mento del ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia
cadere le bilance,perde l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle
stampelle. La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti
con dare a questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS
un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di
scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si
mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un
corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa
la sua danza pippando , e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea
scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a
ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare
il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi , e della
civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno
accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale
dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare
a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna
contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il
libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del
potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa.
Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la
Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce
la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo
lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con
l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la
diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo
completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a
calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così
finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata
troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La Rivoluzione.
I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La Filosofia ed il
Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La Civiltà. e la
Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti dell'uomo.
La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello, la Filosofia
e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni sulla
rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio ecclesiastico. E
sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. –
the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista –
interpretazione fascista da Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi –
l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Lettieri – implicature – filosofia
siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo italiano. Grice: “Lettieri rightly contrasts sensualism in the
practical sphere of reason as ‘egoism’ – my ‘principle of conversational
self-love’ – but focuses on benfeficence, and solidarity – as ‘rational’ – my
principle of conversational benevolence, -- or conversational helfpfulness.” Grice:
“I like Lettieri for two reasons: he uses ‘diritto razionale’ which we at
Oxford don’t! – He cherishes the ‘dialogo filosofico’ as a genre as we
Aristotelians at Oxford don’t – he wrote one on ‘l’intuito’ – While he wrote on
‘sensualism,’ he also explored the idea of ‘man’ and ‘ragione,’ or ragiun, as
he put it in his vernacular!” Insegna a Messina. Presidente della Real
Accademia Peloritana dei Pericolanti. Molto apprezzato da Mamiani, Gioberti e Galluppi. Saggi: “Il
sensualismo” Dissertazione (Messina, Capra); “La fisiologia calunniata di materialismo”
(Messina, Nobolo); “La potenza del pensiero” (Palermo, Console); “Etica e diritto
naturale” (Messina, Amico); “L’intuito: dialogo filosofico” (Messina, Arena); “L'omu
nun avi l'usu di la ragiuni -- cicalata di lu professuri cav. A. Catara-
Lettieri (Messina, Amico); “Introduzione alla filosofia morale e al diritto
razionale, -- Grice: “I like the idea of ‘rational’ right!” (Messina, Amico); “La
cognizione del dovere -- poche nozioni dirette all'operaio e ad ogni classe di
cittadini” (Messina, Amico); “Ricordi storici intorno al movimento filosofico
in Sicilia” (Messina, Amico); “L’uomo” Pensieri” (Messina, Amico); Via
Lettieri, Messina. Lettieri basis his moral system on rationality – solidarity,
beneficence and all the conversational principles appealed by Grice find room
in Lettieri’s system – ‘dovere verso l’altri” o “il prossimo” – The fundamental
one is that of equality, as when Chomsky says that competence is an ideal
natuve speaker with another one --. Grice: “Lettieri would hardly consider
hiseself an Italian philosopher, seeing that he wrote a trattarello on
‘filosofia in Sicilia’ meaning that Italy does not belong to him, nor does he
belong to her!” – Antonio Catara
Lettieri. Antono Catara-Lettieri. Antonio Catara-Lettieri. Lettieri. Keywords:
implicatura. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Lettiere: la ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Liberatore – implicatura – L’ULIVO DELLA PACE -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Salerno). Filosofo italiano. Grice: “One could write a whole
dissertation – especially in Italy: their erudition has no bounds – about
Liberatore’s choice of the sign being conventional, ‘ramo d’olivo’ = pace. It’s
so obscure! Aeneas held one, against the Phyrgians – but did the Phyrgians
know? And if Mars is often represented wearing an olive wreath, one would not
think there is a ‘patto’ between Aeneas and the Phyrgian commander about that!”
Grice: “I like Liberatore – a systematic
philosopher, as I am! His logic has the expected discussion on ‘sign.’ A
conventional sign he says is a branch of olive ‘signifying’ peace – as opposed
to smoke naturally meaning fire – As a footnote, one should note that in Noah’s
days, the signification of the dove was ALSO natural – although not strictly
‘factive’ – but then not ALL smoke (e. g. dry ice smoke) signifies fire, as
every actor knows!” “Ma il difetto molto
comune degli Economisti è il mancare di giuste idee filosofiche, e con ciò non
ostante voler sovente filosofare.”Entra nel collegio dei gesuiti di Napoli e chiese
di far parte della Compagnia di Gesù. Insegna filosofia. Fonda a Napoli “La
Scienza e la Fede” con lo scopo di criticare le nuove idee del razionalismo,
dell'idealismo e del liberalismo, dalle pagine del quale veniva sostenuta una
strenua battaglia in favore del brigantaggio, interpretato come movimento
politico contrario all'unità d'Italia, ovvero: "La cagione del
brigantaggio è politica, cioè l'odio al nuovo governo". Fonda “La Civiltà”
per diffondere Aquino. Uno degli estensori dell'enciclica Rerum Novarum di
Leone XIII. Studia Aquino. Pubblica “Corso di filosofia”. Membro dell'Accademia
Romana,. Combatté il razionalismo e l'ontologismo, così come le idee del
Rosmini. Sostenne che il brigantaggio fu la legittima resistenza di un
popolo a una conquista non solo territoriale, ma soprattutto ideologica. Difensore
dei diritti della Chiesa e studioso dei problemi della vita cristiana, delle
relazioni tra Chiesa e stato, tra la morale e la vita sociale. I filosofi
della sua scuola mettono in evidenza a acutezza dei giudizi, la forza degli
argomenti, la sequenza logica del pensiero, la stretta osservazione dei fatti,
la conoscenza dell'uomo e del mondo, la semplicità ed eleganza dello
stile. All'inizio Professore era giudicato da molti nella Chiesa
cattolica il più grande filosofo dei suoi tempi. Si riteneva che vivesse
santamente, e si scorgeva in lui un profondo spirito religioso. Considerato
uno dei precursori del personalismo economico. Saggi: “Logica, metafisica,
etica e diritto naturale, e in particolare: “Dialoghi filosofici” (Napoli);
“Institutiones logicae et metaphysicae” (Napoli);“Theses ex metaphysica
selectae quas suscipit propugnandas Franciscus Pirenzio in collegio neapolitano
S. J. ab. divi Sebastiani Quinto” (Napoli); “Dialogo sopra l'origine delle idee”
(Napoli); “Il panteismo trascendentale: dialogo” (Napoli); “Il Progresso:
dialogo filosofico” (Genova); “Ethicae et juris naturae elementa” (Napoli); “Elementi
di filosofia” (Napoli); “Institutiones philosophicae” (Napoli); “Della conoscenza
intellettuale” (Napoli); “Compendium logicae et metaphysicae” (Roma); “Sopra la
teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma); “Risposta
ad una lettera sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei
corpi” (Roma); “Dell'uomo” (Roma); “La Filosofia di Alighieri”; In Omaggio a Aligh.
dei Cattolici ital. (Roma); “Ethica et ius naturae” (Roma, Typis civilitatis
catholicae); “Lo stato italiano” (Napoli, Real tipografia Giannini); “Della
composizione sostanziale dei corpi” (Napoli, Giannini); “L'auto-crazia dell'ente”
(Napoli); “Degl’universali -- confutazione della filosofia di Rosmini-Serbati”
(Roma); “Principii di economia politica” (Roma, Befani); “La proposta
dell'imperatore germanico di un accordo internazionale in favore degl’operai”;
“Le associazioni operaie”; “Dell'intervenzione governativa nel regolamento del
lavoro”; “L'Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII”; “De conditione opificium”;
“La civiltà cattolica spiega nei dettagli il clima di "difesa" in cui
la chiesa si sente. Il ritorno ad Aquino dov’essere orientato alle sue dottrine
originarie. Convinto che dopo di lui ben poco di nuovo ha prodotto il pensiero
umano. Brigantaggio. Legittima difesa
del Sud. Gli articoli della "Civiltà Cattolica" introduzione di Turco (Napoli, Giglio); “Per
l'atteggiamento arroccato in difesa della Chiesa vedi ad esempio Sillabo # La
"cupa scia" del Sillabo V.
Nardini, Manca di verità e si oppone ad Aquino la soluzione di un alto problema
metafisico abbracciata da Liberatore” (Roma, Pallotta); “Lettere edificanti
della provincia napoletana della Compagnia di Gesù, in La Civiltà cattolica, Civiltà
cattolica:, antologia G. Rosa, [ma San
Giovanni Valdarno] ad ind.; G. Mellinato, Carteggio inedito Liberatore Cornoldi
in lotta per la filosofia di Aquino (Roma, Volpe, I gesuiti nel Napoletano,
Napoli, Dezza, Alle origini del tomismo, Milano, Devizzi, La critica all'ontologismo,
in Rivista di filosofia neo-scolastica, Mirabella, Il pensiero politico di ed
il suo contributo ai rapporti tra Chiesa e Stato, Milano, Scaduto, Il pensiero
politico ed il contributo ai rapporti tra la Chiesa e lo Stato, in Archivum
historicum Societatis Iesu, Giuseppe Rossini-Serbati, Roma G. Rosa, Storia del
movimento cattolico in Italia, Bari ad ind.; Lombardi, La Civiltà cattolica e
la stesura della "Rerum novarum". Nuovi documenti sul contributo, La
Civiltà cattolica, Dante, Storia della "Civiltà cattolica", Roma Nomenclator
literarius theologiae catholicae, Grande
antologia filosofica, Milano, C. Curci, Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica
Rerum Novarum Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana., presentazione
del libro su La Civiltà Cattolica e il brigantaggio. Segno è generalmente tutto
ciò, che alla potenza conoscitiva rappresenta alcuna cosa,da se distinta. Perciò
tal denominazione ben si addice al concetto, il quale esprime al vivo e
rappresenta alla mente l'obbietto, intorno a cui si aggira. Ma il concetto è
interno all'animo; e per pale sarsi di fuora habi sogno di un segno esterno. Questo
segno esterno consiste ne' voicaboli; I quali tra tutti I segni ottennero la
preminenza iq.ordine alla manifestazione delle cose, che internamente
concepiamo. Così il termine mentale, cio è il concetto, e d il termine ora le
cioè il vocabolo, convengono tra loronella generica ragione di segno.Ma
sidifferenziano grandemente nella ragione specifica. I m perocchè,
primieramente il concetto è segno naturale; il vocabolo è segno convenzionale. Dicesi
segno naturale quello,che di per sè e per sua natura mena alla cognizione di
un'altra cosa; come il fumo, per esempio, rispetto al fuoco, e generalmente
ogni effetto, riguardo alla causa. Dicesi segno convenzionale quello, che
arbitrariamente o per patto vien destinato a dinotare alcuna cosa; come il ramo
d'olivo si ad opera per 3.° il termine orale, benchè prossimamente signifi chi il
concetto, non dimeno mediante il concetto significa lo stesso oggetto. Anzi,
poi chè da chi parla è ad operato per dinotare il concetto non subbiettivamente
ma obbiettivamente, cioè in quanto è espressione della cosa percepita; ne segue
che, quanto alla significazione, esso si confonde quasi col concetto, dicuiè come
la veste e l'esterna apparizione. E però la Logica a buon diritto tratta
per Ora ni un vocabolo è di sua natura connesso con un determinato concetto;
e però tanta varietà di loquela si scorge presso le diverse nazioni. Al
contrario, il concetto di per sè e necessariamente rappresental'obbietto, essendo
ne una natural rassomiglianza; e però il discorso mentale è lo stesso appo
tutti. Inoltre il concetto è segno formale; il vocabolo è segno istrumentale. Ad
intendere questa differenza, è necessario osservare, che il vocabolo permenarci
alla conoscenza della cosa significala, ha mestieri d'esser prima dạ noi
compreso. E pero appartiene a quel genere di se gni ,a cui può applicarsi la
seguente definizione. Segno è ciò che, conosciuto, adduce alla conoscenza di un'altra
cosa. Ma del concetto non è così: giacchè esso, senza bisogno d'esser prima conosciuto,
col solo attuare la mente , ci mena alla conoscenza del l'obbietto, sicchè
questo appunto sia il primo ad essere diretta mente percepito. Ciò di leggieri
apparisce, tanto solo che si con sidericheilconcettononpuòpercepirsi, senon
percognizione riflessa e pel ritorno della mente sopra sè stessa. Laonde quello
che si percepisce per prima e diretta cognizione, non può essere esso concetto,
ma necessariamente è una qualche cosa diversa dal medesimo. A dinotare per tanto
una tal differenza, venne intro dotta la distinzione del segno formale e del
segno istrumentale Viene in quarto luogo l'abuso del linguaggio che è il
mezzo dato all'uomo per esternare ad altrui gl’interni con cepimenti
dell'animo.L'apalisi de'vocaboli è ordinariamente un grande aiuto allo spirilo
per rischiarare le idee,merce chè essi sovente tengon Chiusi sotto la loro spoglia.
Ma accade altresì che si arroghino più di quello che loro di ragion si compele,
e tentino non di essere esaminali e giudicali dall'intellello, ma manciparselo
e deltargli legge acapriccio. Per quattro maniere principalmente i vocaboli
introducono falsi concetti nell'animo. Prima per la loro ambiguità e
confusione. Imperocchè ci ha delle voci d'incerto significato, le quali han
bisogno d'esser delermi. nale nel senso in cui si tolgono, altrimenti
ingenerano concetto vago e mal fermo da cui procedon poi fallaci giudizii. Tale
è a cagion d'esempio la voce natura,laquale suol pren dersiadesprimereor l'essenza
di una cosa, or il mondosen sibile; or l'autore dell'universo, or lull'altro a
lalento di co foi chel'usa. Parimente le idee significate pe' vocaboli sovente
sono assai complesse e complicate;e pero ove non bene sirisolvanoperviad'analisine’loroelementi,son
cagioneche siformiun assai confuse ed informe concetto. Secondo, tal volta i
vocaboli vengono ad operati a significar mere negazioni o prodotti arbitrarii
della immaginativa, o semplici astrazioni dell'animo; come la voce “cecità” , “fortuna”,
“centauro”, “località”, e somiglianti. Oravviene che per difetto di debita considerazione
si cada nella credenza ch'esse esprimano cose positive e reali si nell'essere
che nel modo onde sou concepite. Terzamente, i vocaboli delle cose immateriali
son formati d'ordinario per analogia presa dagli obbietti materiali, e quindi
avviene che talora si confondano le une cogli altri. In quarto luogo, ne'nomi
derivati sebbene spesso l'origine e l'etimologia del vocabolo coincide col senso
in che comunemente si prende, tuttavia non rade volte se ne dilunga. Nel qual
caso per mancanza di allenzione può avvenire che l'una coll'altro si scambi. A
queste cause può aggiugnersi la novità de'vocaboli di che taluni stranamente si
piacciono, e l'uso incostante che fanno di quelli stessi che fuor di ragione
introdussero .La filosofia per quanto può nell'ad operare il linguaggio non
deve scostarsi dall’uso comune, nè cambiare a capriccio il senso delle voci
ricevute o da sè stessa una volta determinate. Da ultimo, una indebita
applicazione de'mezzi di conoscenza è radice mal nal ad'errore. Accadeciò in prima
dal non bene distinguere con quali facoltà debba l'oggetto concepirsi; come a
cagion d'esempio in chi con la fantasia volesse comprender ciò che allrimenti
non si può che con l'intelletto. Dippiù si bada talora più alla vivacità e
felicità della rappresentanza, che alla fermezza del motivo che spinge
all'assenso. E così le cose che vivacemente e prestamente feriscono l'animo più
di leggieri si ammettono che allre non fornite di questa dote, ma più salde per
forza di argomenti. Inoltre si procede temerariamente a giudizii senza prima
considerare se l'obbietto è debitamente proposto giusta le leggi e le
condizioni volute dalla natura. Quinci le fallacie de'sensi, lo scambiarsi per
i principii proposizioni arbitrarie, il formare assiomi illegittimi, il dedurre
conseguenze erronee da sofistici ragionamenti. E perciocchè lo schivar questi mali
richiede la conoscenza del dritto cammino che deve tener la mente per le
vie del vero, passiamo a trattar diligentemente questa materia, alla quale
premettiamo il seguente articolo, che ad essa valga come
d'introduzione. Cum animi nostri sensus cogitationesque animo ipso
lateant, nec per sese ceteris patefiant; homo, qui ad societatem cum aliis
coëundam e nascitur, idoneis mediis a provido naturae Auctore instructus est,
ut ideas suas aliis, quibuscum vivit, manifestet. Haec media signa quaedam sunt.
Sic enim nominan tur quaecumque ad res alias innuendas sive natura sive
voluntate sunt instituta. Omnibus vere signis, quibus conceptus nostros et
affectus animi patefacimus, maximopere vocabula praestant. Etsi enim suspiria,
gemitus, nutus, sensa animi nostri significent; minime tamen id efficiunt eadem
facilitate, perspicuitate, distinctione ac varietate, quae vocabulorum propria
est. Quam quam non diffitear gestuum loquelam, si vivax sit, vehementius
commovere, propterea quod imaginationem vividius feriat, et rem veluti ponat ob
oculos. Vocabulum definiri potest: vox articulate prolata ad ideam aliquam
significandam. Ex quo intelligitur, ope vocabulorum proxime et immediate
conceptus, vi autem conceptuum ipsa ob iecta significari. Ad originem sermonis quod
spectat, nemini dubium est quin , etsi vis loquendi ingenita nobis sit,
verborum tamen determinatio ab arbitrio generatim pendeat. Secus si quodlibet
determinatum verbum determinatam rem natura sua innueret; qui fieri posset ut
verbum idem apud diversas gentes, quibus certe eadem natura inest, non idem
exprimat? De hoc nulla est controversia; at quaestio in eo est utrum absolutae
necessitatis fuerit ut sermo aliquis primis hominibus a Deo communicaretur, an
homo sermocinandi tantum virtute ornatus sermonem ipse repererit vel saltem
reperire potuerit. Qua de re in contrarias sententias philosophi distrahuntur. Nonnulli
enim non modo possibilitatem, sed factum etiam tuentur, atque hominem sermone
destitutum sermonis auctorem fuisse autumant. Alii id neutiquam evenire
potuisse arbitrantur, cum sermo sine usu intelligentiae. efforinari nequeat, et
ad usum intelligentiae sermonem necessarium esse putent. Equidem sic existimo :
ad absolutam possibilitatem quod at tinet, hominem per se potuisse ex insita
propensione et facultate loquendi, quam accepit, determinatum sensum vocibus
quibus dam tribuere, et sic sponte sua efformare sermonem. Quid enim
repugnasset ut homo rem sensibus occurrentem nutu aliquo com mopstraret aliis,
atque ex innata vi loquendi sonum syllabis quibusdam distinctum proferret et ad
commonstratam rem significandam libere determinaret? Expressis autem rebus
sensibilibus, ad insensibiles significandas gradatim pervenire impossibile sane
non erat; cum ad has exprimendas nomina quaedam ex rebus materialibus,
propter analogiam, quam homo inter utrasque per spicit, transferri facile
potuissent. At si non de absoluta et abstracta possibilitate, sed de facto
loquimur, rem aliter contigisse certum est. Nam ex sacris litteris indubie
colligimus elementa sermonis primo homini a Deo tributa esse, quantum saltem
sufficeret ad domesticam societatem , in qua ille conditus est, retinendam.
Cuius rei congruentia vel inde patet, quod si, ut supra dictum est, ad divinam
pertinuit providentiam opportuna scientia instruere protoparen tem; hoc multo
magis de usu sermonis dicendum sit,cuius longe maior necessitas imminebat. An
sapienter cogitari poterit totius generis humani parens et magister, qui quasi
principium et fun damentum constituebatur futurae societatis civilis et sacrae,
sine actuali copia illorum mediorum, quae ad munus hoc adimplen dum tantopere
requirebantur? Accedit, quod eruditorum vestigationes, qui de origine linguarum
tractarunt, huc tandem concludendo devenerunt, ut omnes linguae tamquam
dialecti linguae cuiusdam primitivae, quae perierit, habendae sint. At si sermo
inventio esset humana, singulae familiae, quae diversis populis originem
dederunt, linguam sibi omnino propriam atque ab aliis radicitus discrepan tem
creavissent. De utilitate vero, quam ex sermone pro rerum intelligentia mens capit,
permulta fabulati sunt philosophi quidam, in primisque Condillachius. Putarunt
enim illum esse necessarium ad analysim et synthesim idearum habendam, nec sine
ipso ideas generales efformari posse. Quin etiam eo progressi sunt, ut dicerent
ipsam intelligentiam non nisi ex usu loquelae progigni. At enim haec esse
ridicula optimus quisque iudicabit, modo cogitet non posse loquendi usum
concipi nisi iam antea intelligentia sub audiatur. Non enim quia loquimur
intelligimus, sed viceversa quia intelligimus loquimur. Unde bruta, quia
intelligentia carent, id circo loquendi facultate privantur. Quod si
intelligentia e sermone non pendet, poterit illa quidem suis uti viribus ad
ideas sive dividendas sive componendas sive etiam abstrahendas, quin id circo sermo
velut causa aut instrumentum adhibeatur. Sed de hac refusius erit in
Metaphysica disputandum. Vera igitur emolumenta sermonis his continentur. Prae
terquam quod ad ideas communicandas inserviat, ac proinde ve luti vinculum sit
societatis; intellectui subvenit, quatenus loco phantasmatum verba ut signa
sensibilia in imagioatione substituit. Memoriae opitulatur ad ideas semel
habitas revocandas. Mentis attentionem figit detinetque in obiecto, quod
exprimit, quae secus ad alia contemplanda statim raperetur. Mentis opificia
conservat, efficitque, ut illa postquam contemplationis suae partus vocabulis
scriptura exaratis ad retinen dum tradiderit, soluta curis ad nova speculanda
impune progredi possit. Hae potissimum utilitates e sermone in hominem proficiscuntur;
ceterae, quae a nonnullis nimium exaggerantur, sine fundamento ponuntur, et
animo humano sunt dedecori. Denique ad dotes loquendi quod attinet, sermo sit
perspicuus, usitatus, brevis; non ea tamen brevitate, qua obscurior sententia
fiat; sed ea, quam rite descripsit Tullius, ubi inquit brevitatem appellanda messe
cum verbum nullum redundat, velcum tantum verborum est, quantum necesse est 1.
ANTICHITÀ PER L'INTELLIGENZA DELL'ISTORIA ANTICA E DEGLI AUTORI GRECI E
LATINI DELL'ABATE DECLAUSTRE Wwwna IN VENEZIA CO'TORCHI DI GIUSEPPE MOLINARI
MITOLOGICHE SLIEHE HE KOS WIEN HOFBIBLION KA 1 eeeeeeeeexe erele cele ; egli Ateniesi
lee ressero delle statue. Ella fu ancora più celebra ta presso i romani, i
quali le innalzarono il più grande ed il più m a goifico tempioche fosse in
Roma. Questo tempia, le cui rovine ed anche una parte delle volte restano
ancora io piedi, fu cominciato da Agrippina, e poscia compiuto da Vespasiano. Scrive
Giuseppe, che gl'imperadori VESPASIANO e Tito deposero nel tempio della pace le
ricche spoglie, che aveano levate al tempio di Gerusalemme. In questa tempio
della Pace si adunavano quelli che professavano le belle arti per disputervi sopra
le loro prerogative, acciocchè alla presenza della dea restasse bandita qualsi voglia
asprezza pelle loro dispute. Questotem. pio fu rovinato da un incendio al tempo
dell'imperator COMMODO. Presso i greci la Pace veniva rappresentata in questa
maniera. Una dono aportava sulla mano il dio Pluto fanciullo. Presso I Romani poi
si trova per ordinari o rappresentata la Pace con un ramo di ulivo PACIFERA. In
una Medaglia di Marco Aurelio, Minerva viene chiamata “pacifera”; e in una di
Massimino si legge Marte puciferus, qmegli, o quella che porta la pace,
PACTIA.Suddito dei Persiani, al riferire d'Erodoto, essendosi ricoperato a Cuma
città greca, i Persiani non mancarono di mandare a di mandarlo, acciocchè loro
fosse consegnato nelle mani. I Cumeifo . dea P Pace. I Greci e di Romani onoravano
la Pace come una gran qualche volta colle ali, tenendo un caduceo, e con un
serpente ai piedi, Le danno ancora il cornucopia, el'ulivo è il simbolo della
Pace, e il caduceo è il simbolo del Mercurio Negoziatore, per additare la negoziazione,
da cui n'è seguita la Pace. In una medaglia di Antonino Pio tiene in una mano
un ramo di ulivo, e colla sinistra dà fuoco ad alcu di scudi,e corazze, j
PALAMEDE . Figliuolo di Nauplio re dell'isola d'Eubea, coman daya gli
Eubei nell'assedio di Troja. Vi si fece molto stimare per la sua prudenza, pel
suo coraggio, e de sperienza nell'arte militare; e dicono che insegnasse ai
Greci il formare i battagliopi, e lo schierarsi. Gli attribuiscono l'invenzione
di dar la parola delle sentipeļle, quel la di molti giuochi, come dei dadi e
degli scacchi, per servire di trat tenimento ugualmente all'ufficiale e al
soldato nella noja di up lungo assedio. ΡΑ 1 CHE tott an que 9 be 8Q CO 32
ti 8 $1 AL sto fu çerp ip contapepte ricercare l'oracolo de’ Branchidi, per
sapere come doveano contenersi; el'oracolo rispose, che lo consegnassero. Aristodico,
uno dei principali della città, il quale non era di questo parere, ottenne col
suo credito, che si mandasse un' altra volta ad interrogare l'oracolo, ed egli stesso
si fece mettere nel numero dei deputati. L'oracolo non diede altra risposta,
che quella avea data prima. Poco sod disfatto Aristodico, penso nel passeggi.
The branch of ‘ulivo’ is represented in the reverse of a coin of Antonius Pius
--. Matteo Liberatore. “Segno e cio che, conosciuto, adduce alla conosence di
un’altra cosa” – cf. Eco’s tesi su Aquino. Liberatore. Keywords: implicatura. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Liberatore” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Liceti – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapallo).
Filosofo italiano. Grice: “Liceti is
a fascinating philosopher; must say my favourite of his oeuvre is
“Geroglifici,” which as he knows it’s a coded message – the old Egyptian
priests kept this ‘figurata’ away from the plebs!” – Grice: “Alice once
wondered what the good of a piece of philosophy is without ‘illustrations;’
surely Liceti’s beats them all!” Allievo ed erede di Cremonini. Nacque
prematuro (6 mesi), venendo alla luce su una nave presa da tempesta lungo le
coste tra Recco e Rapallo. Sempre secondo la tradizione orale suo padre, un
medicoo, lo mise in una scatola di cotone dentro un forno, come si faceva per
far schiudere le uova, inventando così il prototipo della moderna incubatrice.
Dopo aver compiuto i primi studi letterari a Rapallo, venne inviato a Bologna
per compiere e approfondire gli studi legati alla filosofia. Insegna a Pisa.
Padova, e Bologna. Ascritto ai “Ricovrati” (oggi Accademia Galileiana di scienze, lettere
ed arti). Quando comparve in cielo una cometa, si riaccese una
controversia analoga a quella suscitata dalla stella nova ma questa volta le difese della teoria
aristotelica furono assunte dal Liceti ed il compito di attaccarla, partito
ormai Galileo, fu assunto dal suo successore sulla cattedra di matematica,
Gloriosi, che se la prese appunto col Liceti. Questi rispose pubblicando un suo
De novis astris et cometis, in cui, oltre a difendere Aristotele, critica i
moderni scienziati, tra i quali anche Galileo, ma con espressioni molto
rispettose e lusinghiere. A questo scritto Galileo fece rispondere dal suo
amico Guiducci col Discorso sulle comete.» Srisse numerose opere di filosofia,
tra le quali “De monstruorum causis, natura et differentiis”, (Padova), con aggiunte di G. Blaes, nei quali
riprese le soluzioni aristoteliche sul problema delle anomalie genetiche, e “De
spontaneo viventium ortu” nei quali sostenne la generazione spontanea degli
animali inferiori. Altri testi importanti per la ricerca furono “De lucernis
antiquorum reconditis” apprezzato da Berigardus, e la “Silloge Hieroglyphica,
sive antiqua schemata gemmarum anularium>” Trattò inoltre la questione
dell'anima delle bestie nel “De feriis altricis animae nemeseticae
disputationes” Le sue opere furono chiaramente ispirate ad Aristotele, in
particolare gli studi sul problema della generazione vivente e sul cosmo,
entrando talvolta in contrasto con Galilei, specialmente per quanto riguarda la
struttura dei cieli e della Luna, che Liceti considerava una sfera perfetta e
trasparente la cui luminosità non era un riflesso della luce solare, ma veniva
generata al suo interno.Al centro di questo dissenso cosmologico, c'era,
infatti, il tentativo di spiegare il fenomeno luminescente della pietra di
Bologna, che Liceti considera un frammento di materia lunare. Alcuni scritti
del Liceti rimasero inediti a causa delle ampie discussioni riportate sulle
novità astronomiche del XVII secolo. Nella congerie immensa dei suoi
scritti e commenti va notata la difesa della pietas d'Aristotele; quella pietas
così vivacemente messa in forse alcuni anni più tardi dal platonicissimo
cappuccino Valeriano Magno, che tacciò d'ateismo il sistema dello Stagirita. Il
Liceto invece disserta «de gradu pietatis Aristotelis erga Deum et homines», e
nell'opera sua «Philosophi sententiae plurimae, fidelium auditui durae,
salubribus explicationibus emollitae, ad pias aures accommodantur, illaeso
genuino sensu Aristotelis». E ad epigrafe dell'opera sua si compiace del
distico Vulgus Aristotelem gravat impietate, Licetus Doctorem purgat. Numquid
uterque pius? La città di Padova ed Spinola di Roccaforte resero omaggio al
filosofo facendo erigere una statua in marmo scolpita dallo scultore padovano
Rizzi. A Rapallo, sua città natale, vi è dedicata una via nel centro
storico. Gli è stato dedicato il cratere “Licetus” sulla Luna. Saggi: “De
centro et circumferentia”’ “De regulari motu minimaque parallaxi cometarum
caelestium disputationes”Vtini, Nicola Schiratti, Vicetiae, Domenico Amadio,
Francesco Bolzetta Encyclopaedia ad aram mysticam Nonarii Terrigenae, Patauii,
Gaspare Crivellari“Allegoria peripatetica de generatione, amicitia, et
privatione in aristotelicum aenigma elia lelia crispis. Ad aram lemniam
Dosiadae, poëtae vetustissimi et obscurissimi, encyclopaedia, Parisiis: apud C.
Cottard “Ad Syringam publilianam encyclopaedia, Patauii, Pasquato, Bortolo, “Ad
Epei Securim Encyclopaedia Genuensis philosophi, ac medici, Bononiae, Monti, “De
centro et circumferentia, Vtini, Nicola Schiratti, “De luminis natura et
efficientia, Vtini, Schiratti, “Litheosphorus, siue De lapide Bononiensi lucem
in se conceptam ab ambiente claro mox in tenebris mire conservante, Vtini, Schiratti, “Ad alas amoris diuini a Simmia
Rhodio compactas, Patavii, Giulio Crivellari,“De lucidis in sublimi ingenuarum
exercitationum liber, Patauii, Crivellari “De Lunae Sub-obscura Luce prope
coniunctiones, “Hieroglyphica, Patavii, Sebastiano Sardi, “Hydrologiae
peripateticae disputationes, Vtini, Schiratti, Ad syringam a Theocrito Syracusio
compactam et inflatam Encyclopaedia, Vtini, Schiratti, Baldassarri, La pietra
di Bologna da Descartes a Spallanzani. Sviluppo di un modello scientifico tra
curiosità, metodo, analogia, esempio e prova empirica, Nel nome di Lazzaro.
Saggi di storia della scienza e delle istituzioni scientifiche, Garin, La
filosofia, Milano, Vallardi, Questo testo proviene in
parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera
del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, Caspar
Bartholin, Institutiones anatomicae, Lugduni Batavorum, Jean Riolan, Opuscula
anatomica nova, in Id., Opera anatomica, LPombaiae Parisiorum, Bartholin,
Epistolarum medicinalium centuria I et II, Hafniae (lettere); Vesling,
Observationes anatomicae et epistolae medicae, Hafniae, lettere al Liceti; Dallari,
I rotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio Bolognese, Bologna ad ind.;
Edizione nazionale delle opere di Galilei, Firenze ad indices; Acta nationis Germanicae
artistarum, Rossetti, Padova, ad ind.; Rossetti, AGamba, Padova, ad ind.;
Giornale della gloriosissima Accademia Ricovrata, A: verbali delle adunanze, Gamba, Rossetti, Trieste ad ind.; Salomoni, Urbis
Patavinae inscriptions, Patavii Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, Patavii, Tiraboschi,
Storia della letteratura italiana, Modena, Renan, Averroès et l'averroïsme,
Paris Taruffi, “Storia della teratologia” IBologna, Favaro, Amici e
corrispondenti di Galilei, Gloriosi, in Atti del R. Istituto veneto di scienze,
lettere ed arti, Favaro, Saggio di dello
Studio di Padova, I, Venezia, Ducceschi, L'epistolario di Severino, in Rivista
di storia delle scienze mediche e naturali, Castiglioni, Storia della medicina,
Milano, Ducceschi, Un epistolario inedito di dotti padovani in Atti e memorie
della R. Accademia di scienze lettere ed arti in Padova, Alberti, La prima
incubatrice per prematuri, in Minerva medica varia, G. Boffito, Battaglia di
marche tipografiche di Bella e l'ultima
memoria scientifica dettata da Galilei, in La Bibliofilia, Pesce, La
iconografia di Liceti, in Genova. Rivista mensile del Comune, Geymonat, Galilei,
Torino, Rossetti, L'ultima opera di Liceti in un manoscritto inedito della
Biblioteca del Seminario vescovile di Padova, in Studia Patavina, Bertolaso,
Ricerche d'archivio su alcuni aspetti dell'insegnamento medico presso l'Padova,
in Acta medicae historiae Patavinae, Ongaro, Contributi alla biografia di Alpini,
Tomba, Gli originali di Galileo in Physis, Ongaro, L'opera medica di Liceti, in
Atti del Congresso di storia della medicina, Roma, Ongaro, La generazione e il
"moto" del sangue nel pensiero di Liceti, in Castalia,Rizza, Peiresc
e l'Italia, Torino A. Simili, Una dedica autografa di Galilei a Liceti e il
clima delle loro concezioni scientifiche e relazioni epistolari, in Galileo
nella storia e nella filosofia della scienza. Atti del Symposium internazionale,
Firenze-Pisa, Firenze Mirandola, Naudé a Padova. Contributo allo studio del
mito italiano, in Lettere italiane, Castellani, Marangio, I problemi della
scienza nel carteggio con Galilei, in Bollettino di storia della filosofia
dell'Università degli studi di Lecce, Marilena Marangio, La disputa sul centro
dell'universo nel "De Terra" di Liceti, Soppelsa, Genesi del metodo
galileiano e tramonto dell'aristotelismo nella Scuola di Padova, Padova, Agosto
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di Liceti, in Scienza e cultura, Galilei e Morgagni, Padova. Brizzolara, Per
una storia degli studi antiquari in Studi e memorie per la storia dell'Bologna,
nZanca, Liceti e la scienza dei mostri in Europa, in Atti del Congresso della
Società italiana di storia della medicina, Padova, Trieste, Padova Re, "De
lucernis antiquorum reconditis": il capolavoro calcografico di Schiratti,
in Ce fastu? Lohr, Latin Aristotle commentaries, Firenze, Basso, erudito ed
antiquario, con particolare riguardo agli studi di sfragistica, in Forum Iulii,
Basso, "Fortasse licebit". La marca tipografica di Schiratti e l'impresa
accademica di Liceti, in Quaderni Artisti Cattolici Ellero, Ongaro, La scoperta
del condotto pancreatico, in Scienza e cultura, Poppi, Il "De caelesti
substantia" di Ferchio fra tradizione e innovazione, in Galileo e la
cultura padovana, Santinello, Padova, Kristeller, Iter Italicum, I-VI, ad indices.
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Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. sapere, De Agostini, Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Al von Ruff. Fortunio
Liceti. Beerbohm: “Send me a letter; I live in Rapallo.” “How should I address
it.” “Beerbohm, Rapallo” “Do not worry, there is only one Rapallo.” “Vico
Fortunio Liceti, Rapallo” – “Statua a Fortunio Liceti da Rizzi, Spinelli
Roccaforte, Padova xstril.minnstiiiUAiTiO Stjftdsb iupon Ratfatiainquatuor
libros Dehis, quidiuvi- P uunt fine alimento. P1?- 1, in quo
eaptobatiffimisautonbusaf feruntur obferuationes eorum, qui vitra biduu . ab
omni obo .potuque abftmuere. Abttincntiae vana: intra fepumam diem conclu-
.ffaec. Caputprimum. Abfimenu, a iepfmoad decimum diem extenfj. Abftmentixi
decimo ad vigefiraumdieraprotc- fe.cap.£. Abftinentij ad menfem produAfe.
cap.4. Abttincntiae a primo ad tertium menfem produ- . Ax.cap.J. Iehmium
populorum Lucomonaead quinque me .'des quotannis mire produftum. cap.d.
Abftinentia Oftimeftns in muliete Patauina. c.7. Abftinentia pueli* Tufer ad
feitumdecunum- Spiritusnonaliaere.Aerem in mitto viuente non ali aere
intrinlecus quoraodocunqucattraAo.cap.7. lenem in mitto non abfumerc acrcm.Partes
animalis 4 przdommio aereas non ali aere infpirato. nui) . . Aerem hunc, quem
inffiramus, non efle alendo & creari c “ 'i*t. fpintus.cap. Ad
nutricationem metaphoricam non femper cd- fequi veram ; 51 Rondelctij
difficilis alfertio. Soluuntur argumenta.quibus. nititur pnor opinio, menfem
protradla. Abftinentix ad duos annos produAx. Ablhncntix ad tres annos
protenf*. cap.i«. Hiftoria puellae Spirenfis quadriennium abftinen- .
tiscap.it. . - Abftinentt* a quarto ad duodecimum annum de- duAx.cap.11. Abftinenn*
vitra duodecim annos longifiime pro duA* varia
exempla.Abftinenti$diuturnaeincertotemporis fpatioad- ’ i' mentr.Difficultatem
negotij nos retrahere non debere a propofito.Curante omnia oporteatnosaliorum dogmata
de Chatnxleontcm,acViperasnonahaere propol i t c tpeudere. inqua omnesaliorum
opiniones examinand* breui catalogo numerantur. tn quo examinantur (apientum vi
rorum opiniones de natura , & caudis tam diu- turni lciumj. Prima opinio
Argenteoj ,& aliorum cxiftimantiu abftmcntcs nomos nutriri aere inlpirato.
Cancmlcucm, & Manucodiatam apud Indos non alucrc.Secunda opmio Medici
Clariflimt ex Augento, Si .M a nardo contendentis abftinentt* ncftrosalf
odoribus,fle* exhala tione aerem obfidente car Examinatur propofita
fcntenua,&: primum often diturnon elfe in topi acre vaporem , ac
cxhalationcm.cap.a». Exhalationem infpiratam vi calori? humant non pofle cogi
in fanguincm.St^ alimentum.Exhalationem non alere
1eiunantcs.Expenditurallataopiniodemonttrandoprimum Nonomnefapidu111alere. caloris
aAionein humorem non elle conti- nuam ;caqueiugi,nonidco affiduam clfc debe- re
nutricationem, cap.i. intus in animali aereos non efltjfcd igneos. C. J.
aimores proprie non ali.Spmtus in viuenni corpore r,ou nutriri.Odores non
alere,quia non funt miftorum fpccits, prima ratio Arifiotchs aduerfus
Pythagoricos c1phcatur.cap.2d. Secunda ratio Anftotclis demonttrans odores n6
alere , quia per coAioncm a calore non podint ex odoribus excrementa lcgrcgan. Omne
genera,(cd vnicum ottcnditurj nec ali omnia qiuecu que diffluunt in
viufnteA^" reftauritionc indigent. Acrem ml piratum pon efle miftum , nec
adeo ut fit alendo corpori. Explicantur allata dogmata Galeni de eo quod ctt
ipiritus aere nutriri, J. Alexandri, Nicolai, Ciceronis, ac Thcophraflirii- fla
confiderantur.de eo , qupd eft att:m alerem fpiritus,& calorem; & ad A
rittotclis, ac Hippo- cratis ccnfuram rediguntur.tf. Hippocratis afiettio dc
triplici alimento illuftra- tlir Olimpiodori.ic Platonicorum dogma 'de horni
mbus acre, ac radijs folartbus enutritis expendi tur.cap.primo noridari
trianutrinientorum trrfsT Omnealimentum,feuexternum,feuinternumco • coqui
deberc,coftioneque aberctementispur- Odorem n aloris ita concoqui non poffe ,
vcab excrementis dicatur expurgari quia limplicem, l'eu nutriendo corpori omnino
diflimilcm natu- ram obtineat, Ab odore vi caloris concoqnenris nec tenue, nec
craflum fegregari excrementum.cap.j». Tertia ratio Arillotelisoftcndcns odorem
nonale requiacoftioneacalorenonincraffatur.cajt Quarta ratio, qua Ariftotcles
probae odorem non Ci£,&quandopropemareambulantes falfura*. re fenrianr,
& alsarum faporem quos prope ab- finthii fuccus agitatur.cap, j <S.
Tertia opimo doitiilimi Co/lii prxeeptoris exiftf m.mns abflinente» nofttos
aqua enutrita» primumofle- Propoli ta fententia confideratnr, ac Ari* ditur ex
autorita te Platonis ^Haiqpupoacmrantoins a,lere, ftotehs,Galeni,&Auicennp
cap Aquamvi calorisnoncraflefcere,ideoqu-everH ahftinentemalerc.Pvrauftas non
ali exhalatione illi connmili crementoarugmeri fine ten^ imminutione, ca.7o.
Plantae non Canemleucm non ali rore, Manucodiatain rore non pafc1.Argumentum
duci non polle a brutomm alimen- to ad nutrimentum hominis.Quo fcnfu verum fit
Quod ftpit nutrit, Exhalationem acri permiftam 116 efle fapidl c 5 t
Exhalationem non efle odoriferam , & Allomos
noneffe,quiodoribusnutriantur,quicqurdFici nusfenfcnt.cap.51. Democritum ,
Homerum odonbus vitam libi prorogafle ceu medicamentis , non vt alimcn-
tis.Animo delinquentes odotibus recrearr non ut ali- mentis,fcd vt medicamentis
Hippocratis dogma vulgatum de ctlcir nutncatio Aqua nihil inefle lcntiatur,nec
epota ne per odoratum lUuitratur non poffc in alendi fubflantiam.
effealendocorpori,quianonferaturadmem- Aquamcoflionenonfienfimilemalendocorpo-
bra nutrimentis dicau.Quinto confirmat Ariftotcles odorem non alere, quia
nonnifi per accidens fertur w fontem ali- menti. J. Odor effe medicamentum ,
non alimentum texta ratione probatur, Ccnfurarefponfionum dcraonftratiombus
Antro telicisab Argcntcnoallatarum.cap.jp. Rclpondetur ad argumenta, quibbs
nititur fenten fupenor, ac primum oftendirur exhalatione de terra Turgentem non
ubique pntfto fuiffe ab- ftinentibus, nec effe milium, cap.jd. Bxhalationetn
odore tciro afferam efle , lapidam ri,vt decet alimentum cap.do. effe Aquam non
effe tale mtftom/juale oportet ali roentum.capdr. Aquam effe vehiculum
alimenti, alimenniracap.dx. Satisfit rationibus quibus nititut & propterea
non aliquot primoque decernitur cur ablhnentium hu- aquam potarent;
quoniarmadpiocualbeihc,afpm^c3- mido inftauretur huraidum Aqua nec plantas
ali,nec aquatdia. campf.tArfu.mcnto, Vium non feruartccaalloroirse
pvarbualnoi:mc*alorem vtcon- humorem non efleaquammecaqueum.cap.d5i Aqua non
reftmn quod aqueume corporibus ef- fluxerit.cap.dd. alimento, &cauf
carnem,5tlac;quxpluatpoftca. AquaexAnflotelcquomodofit obigratia,fi
noneffe.Exhalationem a calore non condenlan. Exhalationem in acre cogi non
poffc infanguine Qua ratione potuerit animalia pluere,ac fpeciatim
vitulum,pifces,ranas,atque lemmer. Hippocratis dogma illuftratur de cxhalatrone
ve Solis attrafta ex animalium corporibus.Rorem non effe vaporem vi caloris
c6crctum,ncc alimentum cicadarum.Mannam non fieri ex vapore vi caloris dentato
in aere,nec folam alere poffc ad Hxbraic* mannas difcnmcn.Mei non effe purum
rorem concretum, nec tale quid fine alio nutrimento diu pofle hominem fa
ftcrilitatis,& pilobus affumatur non vere alit adeo ex igno, Animatu quomodo
conftituantnuurtriantur aqua_> & aqua,vt moucanlur nigonee,ft vere
alimentum. Hippocrati ; cui aqua cap.<8. Quod ex ciborum folidieofrleumaquam
;& quomodo bis in alimentum nonpondere reljxsndeant Hip- aflumptis excreta
in quam Quomodo, alimentumnon alat mfi dJutumAri*
inlpirarcdicunturabftinentes,necvtnfquerd6 llotcl1.cap.7t.miftumnutricationi.
aptumac» Rhinuccmvcnto,&aere,autrorenonah.cap4(.
lorcnoftr0.asl.oris,etfifummefr.igi.danon efle pofle genus ahmenti. Aquam non
fieri . putantis abilincntes ali nec humore vt confumptionem tingat exungui ad
humoris pociati : dequevmfu.lctaip.hdcyr. iccundc coctionis ex veneno fit,
& Ariftoteli ve- ineflecaliduro c.7J. redicatur in aqua paucaluemndo
idoneum.etfi ter- Aquam non efle nmoinftcuarmeat, alij fue excrementis, renis
partibus ‘ HippocratTi'id.icatur potcntiori- Mulla quomodo folam potantes
diutius vi- qua,&L.curaquamabltincntcs fi uant,qu.momnino , aqua nona-
dicaturommumpotulcn Aqua Celfoqua rationenon alat cap-7d. torum imbrcilhma.li
Quarta opinio Bopaiinnincaiti caloris fumrnam imbc- potuifli aquaob cilhtatcm.
& oftcnditur neque Expenditur prupoiita opinio, allata lententia» fubflantia
cedit no- & Aquam moflratem Tolam non eiTe id,quo alantur. Fuffragante
Hippocrate^cAriflotelc.cap. iox. Lupi fame vrgente cur terram comedani,fi ea
non alumur.Serpentes etfi latentes non ali terra , & cu r terram comedere
dicantur.Bufones terra non vefci communi ,& argumento non efle ad humanum
alimentum demonflran- duin dKcaci. animantiaimbecillocalorepraedita,cap.80.
Columbicurtunbslateribus,&rubricavcTcantur, Aquam notlratcm non continere
milium , quod fi terra nonaluntur.cap.io4. futficiat fuftinendo calori exiguo,
Elephas Ariftoteb quomodo lapidem vorer,ac ter
A(Ira,&cauda;regentesmundumquid,&~quo- ram;
devfuOpi)apudAfianos.abdinentescommemoratos,nequeabfolutcqui bus exilis calor
incft.aqua lola diu viuerc, ac nu- triri potTe.Rclpondciur argumentis allatam
opinionemco- niumcntibus;ac primum dilquimur an calor ex aqua fpintum gignat,
collibeat , animet. cap-7p. modoinaquamagant.cap.8a.
Aquahacfentiliquomodononnullanutriri dixe- rit Ariftotelcs. An inter
plantarocunum aqua fola nutriatur, Cicadas excrementis non carere, nec
rhintaccm. Cicadas non ali rorc-cap. 8rf. Rorem non efle aquam Gcco aflcftam
,vt eo nu- triente aquam dicas nutrire.Etfi ros alerct,non tamen ideo alere
polTc aquam. Aquamfolamcalore digetlaranon degenerarein quoddamtertium,quodiitaluncntumplanta-
E» fcrro.St lapide vi calcris^c fpiritus interni,nul Sitim^acfamemcl Teapetitumalimenti,vtobicdri,
lumfuccuinalimentareuicducqnccrubiginiim quo fcnlu verum fit: non tamcu ideo
aqua nu- alere..
tnet,quzinlitiexpetitur,Terra,&lapidesvtmiftafintjquamnoshabeamus Sapor, &fuauitasvtIitalimenticonditio,&aqua
cumplantis fimilitudinem;&curvnitertiofi- rum. t fapida, luaui Tjuc fit, etfi non alat,
cap.p 1 . Quomodo Anflotcli pituita dicatur altrc permi- tia cum cibo puro,
ablque eo quod aqua; vum tribuatalendi. Theophraflo quomodo plantae alantur
aqua pura, quxverenonalit.Aqua etfi Galeno dicatur bilelccre, cur infangui-
tur, non ideo cx cafblanutrietur.QuomodoAnflotcliaquadicatureilepotiusa-Sexta opiniododiillimiMediciopinantisteiunan-
Cameluscurbibiturusfontempedeturbet; Stru-
thiocamelusautemcurtcrram,ofla,lapides, ferrum comedat; an ca digerat fibi in
alimcniu. Mures farios',& Armadillos ,Codertofquc Indi- cos non oflenderc
abflincntibus noflris terram ceflblcinalimcntum Lacertum indicum no ait arenulis,
aut lapillis, etfi ijsonuflum ventriculum gerat. Noii omne mutum humido pingui
fcatcrc ; nec omne bumidum pingue alcrc.Homo terram edeus non alitur luto facto
ex ter- ra,&Taliua/cupituitainventriculoexundante, 1 ncm,6d" in alimentum conucru
nequeat. c-P4- queumquid, miltum quamaqua,&Jim- , plex cap.pf. Quomodo
inaqua gigni polfint Arifloteli (lirpes, 6t animalia, cui tamenaqua non
alu.Vrricam marinam non ali aqua lola. Quinta opimo Clanfiimi viri putantis
abtfinentes commemoratos ab terra clanddlmc comcla.
tesnoflrosaciboquidemomniabflinuifle;at vmi potione vfosj vnde alimentum fibi
compa- raucrint. Examinatur allata fentenna oflendendo abflinen- tcs noflros
non vlbs , nec enutritos funlcvmo; folumque vinum alere no pofie partes corpons
folidiores; nec fuificere ad alimentum multo tempore. Expenditurallatafententia,oflcnditurqucprimu
Occurriturargumentisprobantibusabflinentcs abflinentcs noflros terra,&
calce non enutritos, cap 99- Terram,& calcem nulb viucnti, ac pnefertim nui
li homini alimento efle pofle.Allacc , profcillarquc opinionis fundamentadiri-
noflros folovino enutritos, oflcnditurquc pn- mum quomodo,fi foio fanguine
alimur,lolo vi- no ali non poflimus; quod tamen in fanguinem verti poteflt
licet non abiblute id pronuncian- dumiic.cap.no. milia inter lc non iint
neceflano fimilia. Vteademfitaniinabbus materia generationis, alimenti ; vtque
mures Thebani e terra nalcan- tui.Hominis etymologia non conuinci nobis ortum,
itviciumcfola terraeflevalere,Cur fi homo a Deo cx terra fola condi uis efle dica
muntur,oflendendoprimumabflinentcsno- Vinumvtfitlinguisterras:
nonomnifanguine., flros non comedille terram , nec ea nutritos, li- cet
appeuilc illam, fuauitcrque comedille pona- tur.nos ah poffc: an vinum fit
venenum cicutz , vt fcrtur.De vmi,& ianguinis mutua proportione Alexan-
Abflinentcs non fuifle malo habitu, & cachexiam non efle abundantiam
prauorum fuccorummcc ncccflano femper fieri ab clu tcrr9.sc prxlercim uoftris
iciunantibus,fi qui fuenutcacheducv Vino folo fi carccratus vixit ad vigmn dies
. li fc- dri placitum explicatur, Vini, lafiis proportio explicaturi &
vtrum ladle lolo totam vitam viuerc p0flimus.nes maxime vtantur Platoni , &
graciles Gale- tia ad alimentum. no;nontamenabrt.nentesalipotuifle. Quomodo ex Galenoquisabfquenutrimentoper
Alimentum maxime proprium an' folum ftifficut alendo corpori; vinumque vt fit
alimentum ta- le,quod omni viuenti competat , brutis przfer-
tuu,acplanus,Vlcimum alimentum vule quod fit; an ex vino fo- lo liat; vtrum
omnibus partibus alendis fuf- fic1at.cap.i2d. yinofedari famem non poflc,fitim
pofle; fame fi- inul ac fiti animal angi non pofle; famemque,ac fitini ad
varias partes attinere ;& quid proprie fit fames,ac ficis explicatur, manens ob virium lecons imbecillitatem diu
fuificerepoflit. cap. Abfiincntes an crcuennt; deque vnguium,ac pilo
rumincrementomabftmentcConfolcnunca. Fetus in vtero vt fimul non fiat animal,
homo; quid ptoprie fit anteaquam humanam induat naturam; nos non ali vt aluntur
plantz; Arifio- telefquc a crimine liberatur,Crudiori fucco,& pituitae cur
nullum a natura da- tum fit receptaculum, fcd cum fanguinclaba- tur.Hippocrati
vinum iedare famem vt medicamen- tum,nonvtalimentum;Galenoautemvinum
Olfauaopimo Cardanireferentisabflincntinm. folum nutrire inter alios liquores,
non corpus vmuerfum fufficientcr alere, Septima opinio decernens abflinentes
noftros ali pituita,St loccis crudioribus , qui vltcrion calo- ris aftionc'in
probum alimentum vertantur; quod Magni Alberti placitum recepere pluri-
mi.cap.isp. Examinatur allata rententia,oflenditurque prirau abilinentes non
fuiffc calore imbecillo, cui fudi nendo ad multum tempus fola pituita
fufficiat. Abflinentes nec pituita craffa.cruditatibufue abu dalfe.ncc
enutritos fuiffc. cap. iji. nofirorum ieiunium in copiam humoris mclan chohci
cx lentis, Si eradi, humoribus exoru. irap.Perpenditur Cardani fententia
demonfirado cauf lasdiuturaj abftinentia: redigendas non ede in aerem^ut in
reliquias ingluuici,aut in mclacho ham.Diluuntur Cardani rationes offendendo
cicadas non aluere; comparatum cx ingluuic non fuffi ccrc ad ieiunium multorum
meiifium,& anno- rum;caudasifiasinabfiinentibusnofinsnon_. concurrere; nec
humorem melancholicum una cumalijsconditionibus propofitis huius abfti- nen
tia: cauffam eflc. o Satisfit argumentis communientibus Alberti fen-
tcntiam,&offenditurprimovoracitatemnon
NonaopinioBonamicifiatuentisiciunantcsali neceflimo pendere a frigiditate , nec
effe caufsa colliquamentis internarum partium, cap. ijr.
cruditatum,nechaberelocuminabifinenubus Perpenditurallatafententiadcmonflrandoabiti-
Ablfincntitim cutem noefle ita euaporationi clau fiim, vt retrocedant
femperdenuo vapores in a- • I11nentum.Vndc oriatur naulia, mappetentia,6c.
ciborum o- dium ,-an hfcomnia fuerint in abflinentibus; & vtrum a pituita
fedari pofTit appeti tus,& fiat femper inertia. Quo fcnfu Hippocrati,
&T Galeno pituitofi dican tur medum ferre prxter conluetum, &abcs_»
vtilitatem pcrcipcre.c Animalia voracia qu* fint Ariflotcli,6t_ quomo- do
abundantia pituita minus cibum decoquat, cHippocrati fines cur ieiunium
tolerent,& quomo do frigidi fiaruantur.Auiccnnx vt cibi ncceffitas fit ad
infiaurationem deperditi; vt appetitus dcijciatur,& ocictur; vt vrii,&
latentia bieme alamur, Humorem,qui vomitu reddebatur abftinentibus,
nonfuiffcpartemeius,quoalebamur,Calorem non ncccflano icrnpcr abfumcrchumi-
dum, necnecellarionifi confumprum humniu alimentis rellaurctur, vitam
Citocxtinftam iri. Semina fiirpium extra terram non ali humore in-
ternopituita:corrcfpondente Pullulas pituitz copiam non indicall'e,qua nutrire
nentes noftros non potuiiTc abundare , nec enu- triri colliquamentis.
Explicantur argumenta confirmantia profcilTani
opinionem,5tprimodcccmiturquomcdoexfc mine dixerit Anllotclesfien
languinein,offen- dendo etiam colliquamenta non nccdlario ven tnculum petere.An
obzli gracilibus fuperuiuantin abfiinentia; id tamen haud fieri quia illi
pinguedine liquata nu trantur. Calor na tiuus fime non intendi offenditur,
ficcita te non acui,ncque colliquanuus cfsc in famis, In fuinma neccffitatc ali
menti colliquamenta non confluere ad ftomachum,velur adeommuno proraptuanum
vmuerfi alimenti, c Quo fcnfu Arifioteh colliquamcntum liat vt ali- mentum
tnconcoifium,& an ventriculus fitlo- cus ahmenu inconcufli. Quomodo
Anftotch diuturna fame laborantes colltquentur,&colliquamentafi adlocumci-
bo deftiuatum influxerint, pro cibo corpori ap-plicentur: & Plutarchi
placitum expenditur, Qua ratione Hippocrati ventriculus vacuus dicatur frui
corpore colliquefcentc; ac partibuscol- liquatishuinor adventriculumdefluat, fi
non alimur colliquamentis.. turpuella Germanica, necabfiinensalia. Decima
opinion putantiumabflinentesalimcflrui Appetitus rtlc habeat ad
indigentiam,& mdigen fanguims portione ab vtero materno libi
recondita. dita.cap.tdo. Examinatur allata fententia dcmonftrando ieiu-
nantibus alimento non efle menftruura beni- gnum ex vtcro matris comportatum
cap.itfi. Refpondetur argumentis allata; opinionis,demon Arando fetum in vtcro
non litue ; mcnftruum haud fatis ede nutriendis adultis; nec fium pel- lere.
cap. 1 da.. VarioIis,& morbillis origo an fit ex menllruo fan- guine ab
vtero comportato, &_ quomodo, cap.ifj. Vndacima opinio Brafauolz,
aliorumque pu an- num quod circunfcrtur de abfiincntia plurium menfium,V
annorum, fabulofum quid efieo, atque fiAitium. Dccimaquinu opinio exiftimantium
abftinente* noftros non clfe corpora viua,fed cadaucn Dae mombus
afliimpta.Cribratur addufta opinio,dcmonftrando pofie cor poraphyficc viuentia
diu viuere fine alimentis; & a Dxinombus aflumpta cibarijs vti valere
Refpondetur argumentis allatae opinionis, often- dendo quo fcnlii Ariftotcli
fien non poftit vt vi uatur fine alimento; vtrum alimentis vti pofiint viuentia
zquiuocc, fine anima vcgetali Dccimafexta opinio afferentium abftinentes no-
ftros ellc homines, at nonviuere vitam huma- nam, led Datmomam, quz cibis non
indigct,vt ait lamb!ichus.fumptionem pabuli.Expenditur allata opimo, monftrando
quorum- abfiincntiadiuturnaveraxfuerit, quorum
Libraturadduftaopinio,demonftandoDzmo- mendax, & fabulofa dici potuerit:
qualeuc fit alimentum.Soluuntur argumenta profeiflse opinionis du- fla ex
automate veterum, BC iuniorum. Caloreminfitumnonrefrigerarialimentisintrin-
fecusalfumptis.Duodecima opinio Harueti, & aliorum exiftiman tiumprxfatos
homines fraudolenter abftinen- tumfimulafle Examinatur allata
opimo,demonftnndoqui dolo feieinnium fimulauermt ; & qui verea cibis ab-
ftinucrint ; pucllxquc Tufca- hifioria explica- tur. cap. idp. Diluuntur
argumenta virorum fublimium,often- dendo alimentum, refpirationem haud efie ad
vitam fimplicitcrnecellaria, licet eam con- ferucnt.Decimatcrtia opinio eiufdem
Harueti cum alijs dicentis huiufmodi ieiunium a fopranatura- li caufia prodire
, ac miraculofum edo nes non pofle in
rebus phyficis naturz limi- tesegredi; necomnibusabftinentibus, clan- deftinum
alimentum fubminiArailc Tolluntur argumenta fuperioris opinionis mon-
ftrandoquomodoex Iamblicho, Apuleio Damon poftit dfc caula eorum , qua; perti-
nent ad aftiones hominum admirabiles QuarationeAriftotelifiantfomniafuturorum-
prxnuncia, &t_attiones hominum referantur innaturam, cafum, <V m
fizmonium-Quo icnfu cx Ariftotelc alimentum ad animatum referatur, & fit
non fecundum accidens, led per fc: ac vtrum per fe includat ncccilitatem.
Dccunafcptima opinio Apponenfi,&poft eum- Rugcni Baccomj cauflam diuturnx
abftmen- tiz referentis in virtutes aftrorum , nuas vo- cant alij peculiares
influentias, a quibus pendet tum magnetis conuerfio ad polum, tum— maris xftus,
tum frigiditas in hxc infera, Expenditur allata opinio , monftrando quale nam
miraculofitadfcnbendumieiunium, quale naturz vinbus.cap. 17,. Satisfit
rationibus allata; opinionis, declarando quid fit Hippocrati Diuinum m moribus
; ablh nentes non omnes pgrotare ; nec feptioue diei abftinennain effc letalem,
cap. 177. Decimaquarta opinio ex Diogene Laertio, ac De metno fiatuens
ieiunantes clam ali eonfueuifie cxlitus ab Angelis cibo aliquo pretiofifiimo. Perpenditur
adduflt opinio monftrando nonom nes commemoratos abftinentes enutritos effej
czlitus ope A ngelorum clam illis opumum ali- mentum fuggcrentium. Occurritur
allatis rationibus in oppofitum;& pri- mo explicatur vtrum nutrientis
aninuf quiesa fua operatione fit mors. Quomodo Ariftotcli alimentum 110
fumentia ani malia, &plantzcorrumpantur; Biquaratione
ignisparuusamagnocxtinguatur,finonadcon Ponderatur addufta fententia,
monftrando cauf- lam adeo longi iciunij referendam non efle in-
v1rtutcsaftrorum.cap.187. Diftoluuntur argumenta propoli tx fententix , aC
primum Celn, BC Apponenfis au toritate libra- ta, oftenditur non femper horum
notitiam aes lis auipiciandam efle. Influentias non cflecauflas
iciumi.aliorumueeffe ftuum abditorum , ac fpecianm conucrfiones magnetis ad
po!um.Diuturnam abftincntiam , marifque fluxum, ac refluxum non; communicare m
ortu a mo- tu, lumine, aut influentijs cxli ; led hunc ab exhalationibus de
terra turgentibus ; il- lam ab alia caufa pendere Frigiditatem in his
fublunaribus pendere non- abInfluentijs,fedacriorumimmobilitate,vt verumfitcx
Ariftotde.Decima Dcciitiiofliua opinio decernens longioris abfti- nentix
caudam referendam ede m ly mparhiam complexionis cum aere,6c. antipathiam cum_,
cibis, cap. ipz. ludicium promitur de hac opinione, offenditur- que hominis
temperamentum eam cum acre iympathiam non habere , vt fine alimentis illo
fudineatur. cap ipj. Dilfoluuntur argumenta, quibus probatur ieiu- nium pendere
a fympathia cum aere, & antipa- thia cum alimentis; odenditurque vi 1'ympa-
t hix aerem non pode in alimentum cedere, ve- nenum vero polle,
cDecimanonaopiniocxiltimantiumdiuturnotem pore a cibis abdincre proprietatem
cdcindiui- dualem.cap.ipy. Penditur hxc opimo, aperiendo quid Phyfiologo
fentiendum (it de proprietatibus occultis tum fpccificis, tum quoque
indiuidualibus appella- tis.cap. 1 pif. Soluuntur rationes viri egregii, ac
demonftratur autorem problematum non dfe A phrodifxura; cur odor thuris , &
rufarum alios male habeat, alios recreet; alijsaluum loluat.ahjsaddrin- gat;
&T Galeni, Thcopraftique dogma expli- catur. Vigefima opimo Abulenfis, cui
tam longa; abfii- ncntixoneocftexEcdafi quaieiunandum , anima quali ii corpore
alienata canfucta munia non obeat. Eiaminaturallata opinio, demondrando Ecffadm
non cdccaudam immediatam longioris ab ftincntix ; ac tandiu ici unantes haud
omnes £c flafimpados fuille, cap.rpp. leant: Porphyrio, & Galeno explicat»
cap.iO<5. Abdincndbusanaliquideffluatecorpore,&quid exire
valeat.cap.a07. Vigcdmateriia Opinio Citefij dicenris diuturne abdmenrix
caulfam fuifle conffnftioncm, fiue comnreffionem vifcerum nihil nutrimenti ad-
mittentium. Examinaturo iniopropolita, demondrandocoar ifiationcin vifcerum
iciumj caufsam non ede, atpotiusctfcftum; nulloquemodofamem,fi- ti mue tollere,
fed augere, cap. jop. Satisfit radonibus propoli tx fententix , aperiendo
quarationearftccinflipeflore,acventremi- nus comedere podit.cap.2 1 o.
Vigefimaq uarta opimo Ioannis Langij exidiman tis longum hoc iciunium a morbo
pendere , ni- mirum a tabe iecons, ac ventriculi ffupore, ac
omninoabatrophia.cap.ii 1. Expenditur allata fententia,odendendo caudam cur diu
viuant aliqui fine cibo non ede morbo- lamaffeftionem. cap.ir*. Occurritur
allatis rationibus , declarando difieren tiam iciunij fan£torum,&
prophanorum: non_> femper ex morbo intermitti funiiiones vitx: quxue
operationis lilio morbum fequatur. cap.i tj. Vigelimaquinta opinion Qucrcetanireferendsab-
ilinenttx caudam in petrificationcm partium .
ventrisimi,&nutricatumaliarumexaere,ac odoribus.Expenditurallata lentenda
offendendo longum ieiunium haud ortum ede a pctnficatione par- tium
naturahum,& a nutricatu aliarum cx aere in vlkiabdinente. Soluuntur allatx
rationes hanc opinionem robo- rantes, de dilcriminc inter Ecdafim,ac fom-
num;VinterEcdafimgrauem,acleuema- gcntes.cap.aoo.
viralianonaerenutrita,necalijsvitamcommu- Vigcfimapriraa opinio Podhij
afferentis homines diu ab alrmemo abdincre , anima illorum pec cataphoram,&
intendorem fomnum vacante a proprijsofficijs. cap.ioi. Examinatur, &
improbatur opinio decernes ab- ftincntiam diuturnam abalto,&t_ profundiori
fomno prodirc. Refpondctur ad argumenta de (omni differen- dis, & de longum
tempus dormientibus, cap.ioj. Vigefimalecunda opinio Benedilti, Montui,&
Mercuriales dicendum caudam longi iciunij ede condri&ionem cutis,
pororumque occlu- fionem quidquain ecorpore diffluere non per- uri
ttentem.cap.2a4. Expenditur allata lententia demondrando vfum, ac necelficatem
alimentorum non ede abfolute indaurationcm deperditi, fcd m alium finem : nec
ita meatus omnes occludi pode,vt nihil ef- fluat ccorpore.cap.105. Soluuntur
Beucdifli, & Montui radones , oflen- dendo cur cxlum alimends non egear; &
quo- modo corpora , c quibus nihil effluat, ali va- nicade. Vigefimafcxta
opinio decernens abdinantes no- ftrosdiufinecibo,potuqueviuercviherbx, ac
medicamendcuiuldamfamem,fiumquepellen tu.op.a17. Expenditur allata fentenda
offendendo abdinen-' tesnodros nullius hcrbx,autmcdicamenu vir- tute adeo
longum pruduxideiciumum. Occurntur argumentis allatam fentenuam corfir-
manubus, confiderando naturam herbarum,& pharmacorum fitmem dumque
pellentium Vigclimaicptima opinio ex Valeriola referens caudam
aiuturnxabdinendxin puram confue tudmcm.cap.ziO. Expenditur propofita fentenda
, offendendo con- tuet udinem non patere tam longam abffinen- tiatrccap.2 2 r.
Satisfit rationibus viri Clariffimi, offendendo qua
rarionemedicamenta,&venenanonagantin_. aduetos;&quomodofc habeat
confuctudo ad cibum, & potum, cap.aaa. Soluuntur argumenta Quercetani
odendendo ab (linentis vilcera naturalia non fuide petnficata; libri Capita
centum Prifatio,inqua& difla dicendis attexuntur, tam mitti Diftnbuitur
viucnrium genus m fuas fpccies fupre Ariftotcli mus.cap.r. minem Quomodo fe
habeant ad alimenta propofira vi- ucntiura fpecies vniucrfim. cap.z. Semen
animalium St in vtero, extra vtrmm . femper viuere fine alimento, cap.3. In
animalium mortalium genere aurelias, 8r nym phas appellatas nunquam vllo
alimento vri: co. paraturque generatio infefli ex verme cum ge- Ariflotele in
tex- pofle Ariflo neratione hominis.cap.4. Semen plantarum non tota fui vita,
fed tamen fine alimento viuere.cap.y. Oua diu fine alimento viuere, quamuis non
diu peratione viuere ex definitionibus nflotclepromulgatis, Deducitur hoc ipfum
cx tngefimo De anima, cap.33. o- animae ab A- fexto fecundi vitam fine alimento
viuant. cap.tf Ligna,fcu ramos,&arboresextra humum totam diu fine
Adijcittir his definitio vira in Tamis exarata propofitam iniermiflionem nis
adftruens. cap. 34. naturalibus nutricatio- alimento viuere. cap.7. Stirpes
terra infixas diu, ac fpeciarim tota fine alimento viuere pofle. cap.8.
Brutorum imperfeftioris naturi plurimas hieme Ariftotclihocidemplacuiflcin
Moralium, cap. 33. primo Magnorum diu fine ali mento viuere pofle: ac fpeciarim
icuinio,&ortu brutorum viucnrium intra ioli- diflimos,imperuiofquc lapides
copertorum.c. Aues quampluresdiu abftmere incolumes, c.ro. Pifces diuturnam
tolerareabftincnriam. cap. Tcrrcftrium brutorum perferorum plurima tumumagere
ieiunium. cap.r Homines diu a cibo,potuque abftincrc pofle.c.r Quotuplex,quique
caufla dc propofito nobis in- quirenda fit.Quotuplex,quiquefitcommunisidea
vniuerfa- , lilque forma diuturni abfhncntra. cap. 1 y. E quibufnam fontibus
hauriantur argumenta 40. caufla efficiens urqs abftinentes non ali
confirmantia, cap. Homines in diuturno ieiunio nutriendi Quid.dr' quomodo
radicalis cap 41. humoris a calore na- ^nem intermittere pofle ratione
aninra.cap.17. Nos diuabftinctes pofle a nutricatione toto co tf- penitus
prohibere peffit. ponstraiiuociari corporis habita rarione.c. 1 De- d
ifferentia originis xt 8. citra vitfdifpendiuhabitaquoqjrationecaloris.c. jr.
iqualitatum mifli, deque Homines diu pofle nutriendi munere priuari ongtne
radicalis humoris. Differentia cflentu tnum squalitatum eflcntia natiui
calonsfliumidique dicalis explicatur. cap4y. 1 Pofle diuturnam nos agere vitam
citra nutrica- tumex ratione vira, fcu viuentis totius, quod ex anima &
corpore mediante calore conftitui. tur.cap.10. Diu intermini pofle
nutricationem abhomine ra- propofi- tioneipfiusmct nutricationis. Diu pofle
intermitti funrtionem alendi ratione peramentorum, miflorumaqualium tcfcunt; a
quibus feiungirur aequalitas humoris primigeni;, Differentia promulgatarum
ipecierum hu , , om- natiui mons quicalorifubditusefledicitur cap.4<5. nino
ratione fpirituum. Confirmatur diu fine opera nutneatus viuerepof- fe homines
dc lententia principium autorum, ac pnmum Hippocratis, Nutricatione diu
intermitti ex decreto Ocian diu nos pofle 3 nutriendi munere penes durationcm.
cap Qui fitiqualitas impediens confumptionem Celfi.c.14, ad aures Galeni ex
illuftn fentcnria m opere it lotis ait hu- natiui , SC humidi radicalis
reperiri pofle. . & humoris naturalia Quomo- ffir.- caloris, ... I tvi
dicendorum ratio , naturaque proponitur. LiberTertius,inquoexrei natura
difquiruntur caufisephyficx tara longum ieiunium confti- tuentes,efficientes,
conferuantes, terminantes , ac diftinguetcs cum generarim, tum fpeciarim.
fpecies Hominemdiutius nutricatione intermittere pof- no- 1 6. funflio-
diutunra huius abftinentii. ' Aequalitatem virium in homine diu fcruari pofle.
cap. de lc de mente Ariftotelis in y. problemate prtmit 9. 1 j. diu-
frOionis.aif.j6. Ariflotele fuppofuifle,ac potius exprefle 3. Laurentio
nutricationem vira ncceflariam non fe.cap.3p. ef- Idipfum confirmatur ex eodem
Galeno Corrtcli/ fententiam approbante, propofi- Confirmaturhomincmfine aflione
alendi ftercpofle conii- diu de mete Galeni excorni 1 feOionis. cap.t7_ '
t.a'phor. Operationem virtutis nutririuse in atrophia ex Auicemra fententia.
cap. quoque pnuatum aflionc nutriendi viuere pofle intextuij.hb.i.dc
Confirmatur id ipfum ex eodem tu 14-e1ufdcmoperis.cap.50. Nutricationem
inviuente intermitti ho- anima. teleautorein yltimo problemate dteimtt fOio-
rir.cap.51. Confirmatur hominem pofleabfquenuiricndi dccreuif- fe viuentia
funflionem alendi poffeintcruutte- re,quod ena notauit Auerroes s.dcan.
Marcello nutricationem in viucntibus pofle. cap.38. t. 5.C.37 intermica
Colligitur forma, 8^" idea vniuerfaJit abftincnrra noftrum iciunantium.
cap Quptuplex,qu*qile fit vniuerialis riuo confumpeionem cap.4z. Quotuplex efle
pofllt *qualitas in — mifto. cap.4?. tarum; ra Difcrimen trium earundem xqualitatum
ratione leuradicah. squalitas quantitatis diferera; vnde mnumcry fpecies 47.
moris radicalis a calore nanuo. cap.48. Aequalitatem caloris quoad virtutis in
homine cip.46. inter- te- inno- caloris Quomodo aequalitas virium
caloris natiui, <V tu- midi radicats fit cauda diuturni leiuiuj - Quibus
pneferrim xqualitas virium caloris, & hu- moris fit caudilciunij. Dcijs,qux
perfedeftruu ntaliam ieiunij caudam, proportionem fcdicct 'firium caloris &
humo, ris.ac fpcciatim de er.tnnkcus accidentibus ptio.cap.yj. Proportionem hanc humidi
radicalis ad calorem natiuum,in qua lente humor a calore confutua- tur,in
homine reperiri pofle. cap.54. Commcnfurationcm hanc humidi, & caloris in_,
homine diu feruan pofle. Proportio hzc natiui caloris humoris quomo- do Iit:
caulla longioris abdinenti*. cap. 5 <5 . Quibus prxfertim Iit caulfaieium;
liare proportio calons ad humorem, cap.57. Quomodo fe habeant ad inuiccm
propofit* du* humeris radicalis pofle datui caudas iciumj eo- munes omnibus
abdinentibus ab mirio enume- ratis. cap. Manifcftaturcxhis caudis diuturnum hoc
ieiu- nium prodcilci rei naturam condderanti. cap.tfo. Confirmatur hoc ipfum
argumento defumpto a lucernis ve tudillimis, qux noftris temporibus in
fcpulchris ardentes reperiu ntur. cap.di Dexqualiratispropofit*intervirescaloris,&hu-
morisvaricratecffcnriali.cap. <5i. Proportionis inter eadem vitf principia
propofit* varietas edentulis. cap.fij. dunt, in quo non podunt intcrmilTum
alimenti vfum repetere. cap.8 1 De caudis communibus varietatis, feu differentia
rumtemporis,(eudurationismonentislongum ieiunium a fubiefto defumptis. cap. 81.
Dccaudisvarietatis in durahone ieiunij abefB- cienubus,&"
confcruantibus abftinenuam de- promptis. cap.Sj. De caudis varietatis in
duratione ieiunij defum- ptisj finientibus,acterminantibusabdinenttf. Dc
fontibus, vnde hauriantur caudae fpeciales va- De interna cauda per fe pnmo
proportionem vi- DcalteracaudahuiusaHmirabilisieiunij,quanon
numcalonsAchumoriseuertente.cap^y. tollituromnmo,udintardaturhumidiconfum Decaudisperaccidenseuertentibuseandemvi.
numcaloris,&humoris proportionemabftine. tis procreatricem. cap.7<5. De
forma, fiue idea termini Uhus, in quem definit longum ieiumum. De his.qui coft
ieiumum lani remanent, atque ad interminum ciborum vlum necedano redunt.
cap.78. De his,qui ex longo iciunio tandem moriuntur cap.79. De his,qui ex
longo iciunio incidunt in sgritudi- ncin.a qua conualefcere poliunt redeuntes
ad caufli: in producendo iciunio. cap. 58.
Aequalitatem,&proportionemcalorisnatiui,& Dehis,quiexlongioriabdinenriamorbuminci-
rix durationis abdinentue quoad fingulos gra-
Quibusabftinenubusaprimogeneretumsqua- dus.cap.85. litatis, tum proportionis
vinum caloris & hu- Diflribuuntur gndus iciunorum penes durationis moris
interni ieiumum ortum duxerit, varietatem incerta capita, cap.jd.
Decaudisabdinenti*intrafeptunaminclude,qui Quibus abdinentibus longi ieiunij
cauda fit e fe- cundo genere tuin squalitatis, tum proportio- nis,qu* funteum
valido calore, cap.dj Quibus longs abdinenti* caufla fuerit squalitas, <St
proportio vinum humoris, calons medio eris in tertio genere, cap . 66. De
difcriinme trium horum grnerum squalita- tis,ac proportionis virium caloris,
humoris in producendo 1c1un10.cap.d7. Decaudis terminantibus ieiumum generarim.
cap.dS. De caud a per fe tollere valente virium caloris,^ humoris squalitatem,
& odendituream non_. elfe calorcm.ncc humorem,nec animam, fed ex tnnfecus
0ccurlant1a.cap.d9. De caudis per accidens gcncratim euertentibus x- qualitatem
virium caloris, humoris interni cap.70. Explicantur ex ternx cauffr per
accidens xqualita tem propofium deltruentcs. cap.7 1. Afferuntur caulis interne
per accidens euerten- tesxqualiutcm virium caloris,&' humon; qua rum vna
offenditur ellc anima, cap.7:. Enucleatur altera interna caulla per accidens hu-
lu Imodi squali tatem deilruens. cap. 73. efl primus gradus longi ieiunij,inter
quas nume ratur fanguims copia in venofo genere , quam-, protulit Bottonnus
mfignis Medicus . cap.87. De caudis ieiunij ad nonam diem produfti.in qui bus
locum habere videtur alienatio ammz a vi- txmuneribus Ecdadsnuncupata,quamexeo*
gitauit Abulenfis.De caulfis abdinenti* ad duodecim dies proroga- te* quarum
cenfu non rcmouetur caloris im- becillius a IXxftiflimo Bonainico piopofita.
cap.89. De caudis abdinentix quindecim dicrum.quaru vna perhibetur ede morbola
coadituuo autore Brafauolo. Dccauilis ieiunij viginri dierum, e quarum nume ro
legitur pituitz copia cum Alagno Albcrto; attexiturquepropomisnoua hidoru
longioris abdinenti* Canonici Leod1cnfis.cap.91. De caudis ieiunij trigrnu
dierum, De caudis abdinenti* quadraginta dierum, quas inter numeratur vim pouo;
rluxque mirabiles hidorix longioris ieiunij lupenonbus adijciun- tur ; &
fupcrnaturahs, lanctorumque vnorum abftinentia explicatur, cap.pj. vfum
alimentorum, cap. 80. Dc caudis. Decauffisieiuniiblmeflns,intcrquasreponimus
AquamnonideocfTemiliumalendoaptum,quia meatuumcutisadftriaionemcumBencditto,
tuitunonfentiaturiummefrigida,&gufluper &
iMontuo.Cecauflisicium»trime(IrisAexplicaturquomo- doammaliaquzdamlinenutneatuptnguclcat:
Adijciturijuc promulgatu noua longiffimi ieiu nij obicruatio. cap. $>5
Decaufia leiunij fcauftns. cap.pd. De caufTis abflinentiz, quz ad annum
integrum- prorugatur.cap.57. De caums abflinctise vitra annum praten fac.
frater cauflas phy Ii cardudum allatas, tres alias re
pennvalerediuturnihuiusiciuntj procreatri- ccs.cap.pp. Caufiarum propofitarum
ablbnentix comparatio ad inuicem. cap. 1 Oj. c i libri quarti Capita ccnlunt
quinque cipiatur varij liiporis.cap. 1 6. Aquispermilhnnnonedeacrem,cap.1 7.
Aqu*terramnoncflepermillam,cuiterne fapo- res mnnt.cap. 1 8. Aquam motu, ac
ventis non incalefccreAcurmo ta dicatur viua.cap. 1 p. Aqua hieme calida mtfli
rationem no habct.c.io. Aquam non congelalcere,cui nihil iniit caloris, et fi
fngotecongelatacalorediffluat,cap.21 Quomodoaquafrigidiffimaquumfit abexterno
frigorevertaturinglaciem,cap.22. Pratcr qualitates aituales de genere
accidentis meile cuique elemento habituales qualitates de genere fubllantias,
qux funt forma;,ac differen- tia: conflitutnccs.cap.i;. Vrqualitatcs aftuofz,
ac potiffimum frigiditasin Praelatio, in qua notatur difficultatum explican-
darumnatura,&agendorumordo. Platonisallcrtuindeelementorumfirapliatatcct
Liber Quartus, in quo enodantur difKcilia,quz ha /fenus explicatis obftare , ac
obi/ci polTc viden- tur. plicatur, cap. 16. Pilees in pifcims ex lapide
eonflruitis no ali aqua; & Ariilotehs locus explicatur de terra, St aqua,
Decere Philofophum de re aliqua ex profeflb tra- nantem tum omnes aliorum
opiniones de pro- politoexpendere,tumilluflnorestantum: vn-
deinnotefeuntferibentiumfines,officia,crimi-
Pifcibusinvafisvitreisconferuatis,finonaqua-y na Aconemplationumvarietates
cap1. Dicere Phyfiologo inter expendendas opiniones aliorum,nouasa femctiplb
comminifciAvehit alienas examinare ; exquo putet coguitionum
varietas,irordo.cap.2. 'Alimentum omne a viucntibus neccfiario prodi- , re, nec
ali ferro llruthiocamelum: quo czno a- laturanimal,&planta, A mortuis vt
nobis alimenta,jugumenta, & femi- na fuppeditentur apud Hippocratem,
exercita- tio cum acutiffimo Scahgero. cap. 4. Exper inento haud probari aurum
putabile pofle nutrire.cap.y. Hominesfziiololoandiualivaleantvtiiumen-
Eondcletiiratiodenutricareexaere,&aquapen ta.cap.d. Venena in alimentum
nulla ratione poffe conce- dere. Vt homoAomnino animal fuauiter olere valeat
fponte nareric.cap.8. Vtfrigusnoningrediaturoperanaturz; acprzfcr diturad
Anflotclis trutnnain. Qui Nnodo mutatio fit fimplicis in milium, ac vi-
cilfiinA' omnino inter oppolita ; vnde tollitur Olimpiodouratio probans aquam
alere, ca. ;8. Aqua fi non alit, quomodo Annoteli vercdicatut
alimentoefle,acproindeilliusmutatiomorbo-
timvtquxcunqueexputrioriunturacaloregi- ia.gnantur.cap.p. Quomodo aqua feruens
remoto calefaciente fc- metipftin tefngcretcap. 10. Abflinen tes a cibo, potuque
omni prius affligi, 8c mori fiti, quam farne, cap. 1 1 Vt aqua potabilis calore
putrciccre non poffit, at- que amman.cap.i2M Ex putri fbrmaliter animatum
procreari non pof- le. cap.t ;. CyprimsA^alijspifciculis fponte natis non efle
ortum^utviftumexaqualbla.Pilees feu frigida nutriri cur aquafo- Ja viucrc non
dicendi, quomodo ex ea ver- materia denfiori fitintcnfior.cap.24. Aqua: calorem
non olfendia pclluciditate.c.15. '
Pifciumin perforatis nauiculis quodnam fitalimf tum.cap.28.
quidinalimentumcedat.cap.29. Oflrca, mytulos holuturia non ali aqua^». cap.;o.
Lepades,ac mugiles aqua fola non ali. cap. Sardinas,fitaphyasaquanonali.cap.;r.
T Plantas marinas lola non ali aqua. cap.;;. Si vinum,(anguis^ac,cetcnquc liquores
nutriant, nonideoaquamalerc.cap.;4. Anguillas non oriri, nec ali aqua pnth, fcd
ca ali js decaulfisobleitari Ariflotcli.cap.;;. Aquatilia tum branchias
habentia, tum fiflulam flr' fpeciatim tcflacca non ali aqua ex Anllote- lc.cap.
;d. Niucm non e(Tc aquam mes oriantur, & nutriantur, lcporefque Plinio.
cap.40. Aquam vino additam quomodo Ariflotcles dicat in vinum mutari,^ vinum in
aquam, qu* m- miflumperfcttigencns, atque adeo matimen-
tumconuertinequit.cap.41. ) Lentem paluflrem non oriri, neque nutriri ex a- ' ;
b Quomodo putredo Iit propria miflipafficv&aquf conueniat.cap.4;. ' iui;
Aquam quomodo calor concoquat Hipoocntr, B ca coitione non vertitur in
alimentum,cap-44- quafola.Vtmx Vtnix efientiam non habeat terra
participem ,ac iptunuiam,exercitatio cura lubuhiiimo Scaligc ru.cap.41. Qua
ratione nix fecunditatem afferat agris, fi ter- ra particeps, non cft cap 46.
Vtputredoablblutc Iit corruptio propnj caloris. _ «P47- Cur muta imperferta
vmentibus in alimentum ce dere non valeant , fpeciatim cur aqua nufia
cumalimentis nonalat. cap.«3. Vt alimentum iimplicitcr huuudum efle opor- teat.
CurIitioccurratmagi»vinumquamaqua.5 Vt litis fit defideriuin alimenti. can. 5
1. Vtfamesquatenusellleniusindigentis,quem_ anunalcin, dicimus, fit affertto
lolius oris ventri culi, non ctiain aliarum partium. cap.fz..
Vtdolorfamem.aclitimprxcedat vcluti caulfa nonfubicquaturquafieffertus.cap. 5.
5 Cur pi iguedo.fit^adpes alere non pofiit Vt medulla non Iit alimentum , fed
excrementum 0fiium.cap.5j. Ieiuma per •iccidcns.Sr' apparenter calefacere.ve-
rc,ac per fe calorem non acucrc,licet p>er fe fitim procreent cap. 5 <5.
Vt allinentis per fe non refrigeretur vlla ratione-, calor nauuus.Anflotclis
difficilis locus explicatur de refrigerio calor.s ab alimento.Galeno nem
alimentum non refrigerare calortm natiumn, nili per accidens, fed per fcilluin
au- gere. cap.59. Vtalimentis augeatur caloris innati gradus, feu
qualitas;nonfolamateriacalida exercitatio ; cumdortilfimo Fcrnelio. cap.do. Vt
alimentis non pofiit caloris virtus mtfdi abfq; Vt verne melerei de ventrtenld
, inteftinis f» gant alimentum non expertato fine cortioms. Vt folia, ttores,
frurtus, & femina plantarum pars tes vere non fint, fed excrementa potius,
ca.y7. Vt cx co, ouod oua,& femina citra nutricatum vi uant,colligere
polfimus perferta quoque anima lia vitam polle traducere ablquc alimentorum
vfu. co quod fubicrta calori materia augeatur. c.d 1 Vt anima nutriens artum habeat
immediatum, & Curnonfintfrequentioresnofiri abfiinentes, fed proprium, in
quo edendo no v tat ur organo cor» porco.cap.dx. Calorem natiuum in nobis,quin
etiam ignis riam- tnamapudnos,nonindigerencccllariohumo- ris,quo vcluti pabulo
nutriatur, Cur calor humorem in milio, & in viuentc prxfer- tim
d:palcatur,& intentum procuret, exercita- tio cum liibtililfiino Scaligcro.
Vttn Ecllali ceffct anima nutriens ab alcndimu- nei4.capd5. Vt Ecftafis non Iit
priuatio munerum animi intcl ligeutis, exercitatio cu virodortiliiino, ex Sca-
ligero.cap.dd. Vehementi fiupore^hjsque plurimis de caudis de 1. Jertabanimopolleomnesnouones,&habitus,
cVtalimentivfusnonfitadrefiaurationemdeper- di ti,fcd ad auocandum calorem a
cita conlum- tione humons: exercitatio cum Magno Al- crto.cCur femen maris in
vtero femina: concipientis no alatur.Vt IcmcnnonIit
parsanimati,inquoeff.cap.-»o. Vt ou»iubutntancaliat ammata.<5. raro admodum
vilimtur. alimentorum indigentia infit viuenti quatenus
miftumcfi.CurabliinentesobxquaJiatemviriumcaloris,& humoris interni
iuonantur,feu non femper to- tam vitam degant in ieiunio,fed plerunque re- deant
ad ciborum vfum. Vt agentia fecundum virtutem aequalia inuicenL.
agant.VtexGalenolubfiantiacorporis iVomninohu‘ , midum [fubltantificum
dilfipetur a calore nari- uo,non iolum ab adfcititio,cxerciatio cum Cardano,
rnojC Vt Ariftoteh calor internus ablumat humidunu, fubfianttficum. Vt cx rei
natura non colligatur a calore natiuo no abfunuhumidumfubfiantificum,
<Vprimo quia calor fit anima: inftrumcntum.cap.pj. Vtcalor non ideo dicatur
non confumerc humi- dum quia in miftu elementa non fine in artu fe
cundo,Vquahatibus rtfrartis,fubditil'que for mx luenti compolitum .
Vtcalormfitusnonideononconliimatpartium-, lubfiantiam,quiafitearumtbrma.Vtcalo-
Vt facultas alens pofiit a nutriendi funrtione r1.cocia Cur materia corporis
nofiri per alimentum femper non debeat innouan, vt cenfet Albertus
Inhis,quidiuanutriendimunereociantur ftra non cfie ven triculu m,iecur,&
alia membta nutricatui dicata, cap. Vt ratione caloris animal tiinrtioaem
alendi diu intermittere ualeat.V piper, pyrethrum, finapi, thapfiaque fit homi-
t ne cahd10r.Vt viuenti non repugnet nutricationem intermit- tere, fiucvt
animal pofiit abfque nutricatu vi- ucre qua viuens cfi. Vt tini nutricationis
formahter non obrteteius pcrauonis intermifiio. Vtin atrophia faculas alens
penitus ocictur c. o- i Vt cx Galeni fententia nutriendi funrtio non '
homininccefiaria.1 Vtex Flotini lententia nutricatio iugis ' debeat in corpore
viuenris.Vteffcrtui priuatiuo caufla politiua pofiit, afiign* ri,noTqueid
fecerimus in fupenonbus.Vt mors viucntibusconuenut fecundum natura fcu quomodo
interitus viuentibus fit naturalis. fru-
non efie-> Digil qt fit mK cuerti naturae lr| Calor, definiendo^
non^UfrAr.cap.8*. o Vt calor iniitus igneo pro| iCrefpondcnscoi cum femetipfo
coUlgaturitluod vcgcticficak.re,&hieme tiamehushabeant. aa ,.:j) mi
Ha.t.gMUlCifsklJlli l"v'i fcwnq..4,..V«m .t {}.{ioli>>* 1. :S
utrori''- » . 1 . 1 ) r tluf. tvi. 11 . 5 . un. l M-k 'V' t
-'iiklia^.Ohtvn.i,*!* i!,» lRttift j 1? ' m. .j.j.il r.cvt • -.• .1 r4 .1 a» c
ii t.ojSjva nm.iinhijjafc. Btiftt remtr.il buUma ttiu^bi' iV. min vituentCe fiuniftionecs UDt inirn^» mari
cap.8d. Mntehumorem abfumert.dicatur.BnOoniidoaw»
rf.u.bkrAt^natnitii<f«iiciuimn abKfumnantr.rcanp ti noi Vtabmfito calore
corpu* non deftru» ex co qwv mA , : eadem eiuldem rei poffitefie caulia
perl^^ac. Yt accidens,cap.i03. i ' Eftpe&rum.cuiutcaulsas qoi» noujt,cur
noniem tione non refp6deat, fit humiotim. Perisidemprocrearevaleatc Caloreminnatumradiolihumoriadeocon
Perorauototiusoperu i flriM l‘Ut '...ftUi -bvt..:; ana.y,ami»1m«i
“thVt»Ws0'tV.s. t.\11.a.tm.*"'V;^0•. iiontti tJ H» .1 kf.l »bc. • Mi-
>\«i>.tthtij . t .1 Sei.t e«10»rilrurfvht 1 - ? 9* i >v fp wuiMe''•{!
a.l8-t. aavttt '»wj.iW'i'i :.!.wtversqiR*t . J.vrf>u » -.*-c tiVa humorem \
.s-u.-ue . K. ,i .1 • i/.XIA'*' 'VtrQ\i,' "i'. l 9\a.1 .•' . . r’
.av.iii.pi iA.ivr1 .As.ftla, . i) ,at ;.. yi juajm.ih. i1"
riumdicaviipfuiacunfuaitreYalcat.0^.1^ AwimtarUiAnti«naV.v,?y. .«ri*a:
TriumCupidinum;Voluptuofumtyrannidemin Animæ facultas,concupiscibilisvtinanima
vin Amotescur Alatifingantur. Cur Amores Nudifingantur. cap.X. 23 De
Amoristergeminipulchritudine.Amor curnoncæcus inSchemate fidus.
sa,gercnsincacuminevolucrem,& caueam De
fructuarborissapientiæ,nostroinSchema Inter.viros
altafapientiaprestantes,efequi nonvocedocerefintapts, fedtantum, Schema Gemme.
Sapientium ,sciendi cupidos edocere valen: tium ,tresesseclasses.cap.xxvij. 7 7
Coruicumviro fapientiæ scriptore detegitur analogia. Schematis Amorumtrium explicatio
Medica. Devolumine Mufices, invnguibus Coruimy ab Alciato, consideracur. Schema
Gemma. Explicatio viri eruditi de Amore nocturnas Amoris origo mirabilis;
a Platone polica,de Defrondibus, & Aoribushwnanæsapientiæ. claratur. Amor
voluptuolus veergabellicum,& literaAmorfapiêtiæcúrnudusefictus.cap.xix.41.
Decer gemina significatione ftellæ prælucen. Amor sapientiæcuralatus, &
quænam finteius cisin Schemate poni caput viripsallentis. Alæ. Quomodo
fapientiæsymbolumsitarboranno 90 pag. 1. . P 36
AmorisEmblemanoftroperfimile,propofitum voce tantumodo docere valeant. Schema
primç Gemma. De arboris in Schemate piata coinparatione 16 busomnibus, modo
fcriptis. geminos Amoresprobaspassomexercere, çatirascibilem ,& rationalem,
Amor cur a veteribus Diuinitatc donatus , Explicatio Schematis ab incerto
propolica consideratur.Yeiundas.DepriscisAnulariumGemmarum Sche maribus
cxplicandis. Amor sapientiæcur, præteralas,adhibearetiam
brachiamanusquegeminas,quibusfuniculo riuin impcriolam tyrannidem exerceat. 9
Sapientiam apprehendi ab Animo Doctrinę Humanus animus crga sapientiam cur se
habeat sermone vocali discendi cupidos crudi. ente :primumque de biformis
inferoa parte 32 fticicanentis,repræsentat(1.. Inter viros dostos inueniri, qui
non fcriptis Amorsapientiæcureffictusingemmapuellus
Supremamonftriparshunanadeclaratur.
vtAmorpusio,corporepusilo.imocens,arq;moribusfimplex.gallumreferente.
cap.xxxi'. pientiacomparatur. cap.xxii. adarboremscientiæboni& malı,dudum a
De fru&uarborisscientiæboni& mali,primæ uæ inParadiso. xxvi. cantilenas
ad amicam personante perpen duplicisecollarinaltum..ResponsiodeVeterumGemmarumex-
Demagnoconatu,ingentiquelabore,quofa plicationcadcunda.Amoris differentiæ tres cxplicatæ.
Cur Amores ætate pueri fingantur a veteri sedulalectione, acintenta Aufcultatione.
Schema Gemme. ditur. Propria proponitur explicatiode viro fapien.
AmorfapientiæcuringemmafiAusefteffigie DeBarbito,seulyradigitishumanispulfara
pusionis,acinfantis. Deo inParadiso.creatam . cedelincatæ. Pror Proposito Schemati comparauraliud
Fabij SeptentiamViricl. hocsensusunprám, nocon cundiatoris, exterminatione
confiftere, SchemaV.Gemmę. uenire Schematis imaginibus, oftendirur. Propria
Schematis explicatio prior eft, de Amicoveromọitain Amaci &
defunctime. De Armış offendentibus, Heroico
Amoribel licodatis in Schema re. De Cun&ationebellicaperAmoremftantem
Proponiturexpofitiopropriadeamorę Ca. indicata, tofis: cap.xlvi. postulan.
Amicumverum inaduerfitate dignofces, cile fót: vél Tetbydis, aut Veneris
Amores:vel Ægyptusludens ditur. Prima cxplicatio noftra moralis ,de formola
Peleum ,velVencris ad Anchisen delatione, formofitas, do oscaffo, Şecunda
Schematisexplicatio,de Amico Pulchramulier ,permarevitavagarsadare D e Amoris
bel lici clypeo hieroglyphicum , Cur Amor istebellicusPedes,non Equesef, Super
incrementa Nili. Amici de funéti memoria femper in corde confer .
raptaproponitur, &adhistoricamfidemrc digitur, Amoris bellici, ro , qui
dignoscitur in aduersa fortuna, Schema Gemma,
exarmati,pendicur.indignacionem.cap.liv. Coniugalis Amor armis
offendentibusexpolia. Proprja sententiaproponitur,quæ’est,obocu losooni Schemate
noftro proprietares A m o risirascibilis,fiuemilitaris:primumquede Schema
.Gemme. Index Titulorum, De Amoris bellicivultufæuo,seuero,actan. Explicatio Schematisacl.Viropropolita,
de cumnontoruo,minaçique. De propria fignificatione Galeæincapito
dicitiamMatriş-familias. Schema Gemm &. De Amore civili,qui vocatur
Amicitia,vta tri muliere,quæ nimium extra domum vagans ad arbitrium,vel eft,vel
euadit impudica , yanda;& Amantemnonredamatum,indi- 143 Propria explicatio
Gemmæ proponitur, de gnabundum extinguerequam affectionem, Schema Gemmx .
Triconepulchram Nympham marinam yo, Aliena Viri cl.explicatio,de Amore monftran
. lentematq;lubentemcomplecterte,perqs maria ferentc.redamato, syumAmorem
extinguente per Amorem Heroicummilitiamagisin conferuatio Secundus eruditi viri
sensus explicatur, & ne Ducis, & Exercitusoportuneceleris, &
cunctantis, quaminhoftium expenditur, moriam eonseruante, Opinio, dicenshocese hieroglyphicum
Amo SecundaŞchematisexplicatio, deAmantenon ris concupiscibilis per visam
negociofam corporemilicisgeneratim. De Amoris belli ciceleritace, perAlaşindica-
CupidineindigneferenteSibifpiculanegari a Venere,proponitur,& expenditur,
filius in Schematę noftræ Gemmulæ , IN SchemąGemma Smithi anaexplicatiode
Nereideper falum Amicus vs que ad Aram Amico illicila
busanteadeclaratis,Concupiscibili,Ra. Secunda explication fabulofa, vel Tethydisadrionali,
& irascibili contradistinguitur. OpiniopononshocessesymbolumAmorisvo-
TerrinexplicatiophysicadeÆgyprolafciui luptuosi,expenditur,entesuperincrementaNilio
Rapinapuellasdealiasrespulchrasexponit Propria declaratio prima de Amico vsque
ad Aras., cap.xlviii. Fur & pudica Maire- familias.
piugali,exarmatospiculisoffensjonisperpu bitrium, velimpudicaeft, velimpudicafa.
equo marinoveda,proponitur,& cxpene Sententia virieruditide puella vere a
Tritong tccun&ashumanasresessevanas,proponi-
Secundacxplicatio,deTijroneraptāpuellam tur, & explicatur primosensu.noftratélubvndasasportāte,
Tertia CapicumOperis. Tertiamoraliseftexplicatio,depiratis,acpræ-
DeorationeMentalisubhieroglyphiconudæ mortali. Propria Schematisexplicatio, declarans
spe tem ,& faciemintergaversain,cumligneum scipionem. cDe forma templi
Delphici in Schemate. De consulentis Delphicum oraculumbaculo, Mundi Systema,partesquevniuerfuminte.
grantes,explicantur. ASTV'S DEV DITVR ASTV.
Incognitiviriexplicatioindicataexsenis
datotibus,aliisquemaritimaclasserapienti- mulierisgenuflexæ,sedentis,&
vicumque busresalicnas. Sententia C l . viri, de primo quadrigarum inuentore
proponitur ac expenditur. OraculorumDiuinorumpropriumest, homini,
deEricthonioaPallade, ceu filiofpurio,& tanquam presentes. Schema Gemma. De
Papauere,simulachrosomni,aquoprima De rupe templo Delphico subiect:.
cap.lxxxiij.
Propriafententiaproponitur:primumquecal sumitexordia,&
inquodimidiumsuædura cap.lxxxij. giliapatratarum,perenneininconftantiam.
cap.1xxxiv. Proprialententiaproponitur,& confirmatur, impuro proicão.
cap.Ixvi. bus euentusfuturosdemonftrare Schema xv.Gemme.
Alienadeclaratioproponitur,& explicatur. ciarim arborem in lacus propeod
ntem ,& hominiscõsulentisoraculumcumpailijpar De
Papilionc,lignificantebreuitatemhuma- næ vitæ.De Simulachro in templo Delphico.
De Canopo ,Deo Aepytiorum ,superante Iouisfiguravesitaptum Terræhieroglyphicũ.
OratioVocalisatqueMentalisvnacon pirantes Pallas nuda ve fignct ignis Elementun
. Deum flectunt,ob efficaciterexorant. Schema xiv,Gemma. De Mercurij
ligno,Elementum Aeris repræ de Detribusorandimodisantiquis:ftatario,ad
Beneficij,velabrutisaccepsi,Deumefegratum remuneratorem .
geniculato,&sedentario. cap.Ixxv. decoreftantis,ambabusmanibusDeocor
offerentis. Deque antiquo more tenendi Pallijmotus in terga declaratur.
ExplicationoftradeMundi Syftemate,parti tumAquæ.cap.xci. uariælymbolummedium
explicaturdevita Dc Rota,lignantehumanarumactionum,invi. Schema Genoma.
tionishabet humana vita. De Vrnasepulchrali,adquamterminantur a&iones omnes
humanæ vitæ mortalis. Schema Gemme. Deum Chaldæorum Ignem , viâorem om. nium
aliorum Numinum Gentilitatis. buiqueintegrantibus,proponitur;primum que Zodiaci
declaratur imago, pro toto Cælo.D e oraçione Mentali vereres profanos egisse.
Facici mira versio in tergus explicata. Schema Gemma , corroboratur. Voca- De Nepturo,
repræsentantetotum Elemen D e viribus & proprietatibus orationis lis , atque Mentalis, Deo Accendo p orrigen .
sentante, Poeta HEROV M FILII NOX £ . autoribus proponitur & Humana vita eftmorsvndiquemiserysobfella.
expenditur. De oratione Vocali, fignata per mulieremic.
miamittam,quædexteralacinian tenet,fini- SchemaGemma, Explicatio Viri Cl.re&taproponitur,&
latius ftraserpentemporrigit.Aras ab orantibus. Poetabonus,ad
Lgraincanerenescius: vel Propria
Schemaris explicatio proponitur , de canere nescio. Secunda Schematis explicatio depromitur ex
pium natura generica ,Proserpinæ Schema Schema Gemm &. ponendis aprefacilequedislidijstumánimo
rum dilceptantium, tum corporca violen:. Noftra explicatiode Ducisexercituumeripli-
Sacrilegus Brenus ad Altaresempli Delphici ciproprietate. Tertia declaratio
nultra de Amoris genitabilis fcibilis,& Rationalis,explicariSchemare. Produnturin
Schemate.cap.c. mortem fibimetipfifponteconscisceredebuis,
AuroranettensAtheraterris,prouchit oria diem . Schema Gemma.
Auroradiejnuncia,celeriterorbem terrarum circuit. cap.ciij. tiabelligerantur,
setranfuerberat. absolute,frustra laboráns. Hesiodo poeta bono carmita sua ad
lyram adagio veçusto de viro fruftra
laborante . PRINCIPATVS ANIMALIVM, Ducis exercituum proprietates: Amorisgenitalisimperiosapotestas,
G Amoris tres differentia, Elementa vitalia. imperiosapotestate. vel Ampli il regna benegubernantur,
Explicatio viri Cl. de Principatu animalium . altronomo Lunæ,liderumque
seruante, cap.cij. phasesob- DeAjacesemetipsuminterficiente,gladiodu dum
abHe&oresibidonato.terramcum Plutoneraptoremanente,totie dem
supracerráapudmatremdegente,my. numSahemapossitintelligi.cap.cix dam
fra&tam supplente,affertur,& expen ditur, Schema Gemma. De
CererisfiliaProserpina,sexmenses intra Amoris tresdifferentias,Irascibilis,Concupi
Elementa viuentium fcracia,& altricia,terna Anonymisententiade Decio
proponitur,& cxpenditur,obferuatoris hieroglyphicum. Schema Gemme,
numpoflicimago Schematis interprecari.Explicatio fabulosa , seu poetica viri do
&i de Schema xvij Gemme. De MercurioCanicipite,Regnum Acgyptium
optimegubernante,Schema Gemench. De viribusSapientiæ,acEloquentiæincom.
Ajaxfurens,obAchillisarmfaibinegata, Schema xxv Gemma. D e Catone
Veicense,semetipfum cõfodiente, Proponitur explicatio propria,de Brenno ,
Proditoremnunquamplacereviroforti,etiam cui sot vtilis prodirio nesati hoftis,
Schema Gemm. Explicatiovirido&ideCicada,citharæchor Pulchra fæcunditas ,a
terracalore rapta,fex menfeslaterintraterraviscera,totidem. que fupra terram in
aere degit, C. Sapientia,don Eloquentia litigantes,atque pugnantesanimos
apsefaciley, componit. Aftrorum Lunariummotuum ,& phasium
EndymioneaDianaadamato,cap.ci. Propria Schematis explicari o proponitur d e
Gallorum Duce facrilego ,qui semetipsum confecerit ad Aram Apollinis in templo
Index Titulorum , thologiacómunisexplicata.cap.civ.227 Propria explicatio de
vegetabilium , feu stir te,fabulisquerepræsentata,Sapientia, &
fortitudine,fagaciqueprudentia De Bruto ,separiter pugione confodiente,
Delphico Schema xxvi Gemme. De offAu Cæsarisaccipientiscaput Pompeij Magni a
proditore,qui virum interfecerat, Schema Gemma. Larma. fiueperfona Dramaticum
Poctamoftendit. Sue prijci sacrificabantvbigfingulisfereDijs
vitaprecellentibus, ta vetusta . AftNo .
Schema xxxiv,Gemma, Schema Gemma. Virtute fortunamsuperari.Dc Qliadrigain Anulosignatorio
PlinijSca cundilunioris,& Rana fignatoria Mecæna eis. cap.cxiv.
tasmaximoperedecet. Schema xxix.Gemme. cultatibusincolumem. Martiales virimulierumraptor
esprimi, par: Centauricuerentis, & fagitcantis tergeminum novelfatuplenum, &excrinsecusoleolisi.
GenerofasindoleseducaridebereabHeroibus ujoueperundum.
Lætarineminemoporterefraude;quum& ipse consimili capi valeat. cPropriæ
fententiæ declaratio,devitæconcem .. Ampli Dominij splendornonofuseatsideraviro
Virumingenio,probitate,fortitudinequepolen? thiuminbonoPrincipe,Magnoque Mini,
Stro,quem taciturnitas atque celeri. sememergeredefawienrisfortunediffi Gerimis
Anulorum insculpiconsucuisse vultus gemina, fugax, dprocax, mysticerepre.
Jenialacalefti Sagittario. Insignium virorum, adillorummemoriam, cultum, &
imitationem. De Hominisin Alinumtransformationeper
maleficālibidineabutentem.myfteriumexplicatur,primumquedeScr
monishumanidifferentia,& velocitace. Veterumsaltatio Iudicrasupervtresplenos,
& extrinfecusvnitosexplicaia. Eodem Hieroglyphico denotari humanæ vitæ
naturam fugacem , geminaquc differentia De vererum ludicra (alcationesuper
vtrem vi. Schema Gemms. Personamnonattribui PoetæLyrico,vel Epi- Chiron Centaurus,
vtviruina&uofæfimul& contemplatiuæ vitæperitumindicet
adomnia:jeaprecipue Veneriadpuritatem coniugý; dfæcunduarem prolisinNuprijs.
Schema Gemma. Furum ex rapto viuentium antiquitus condi Schema Genome , De
SacrificioSuisapudantiquos. Fraudulenti pari fraudecapiuniør: do
Vitecontemplatricisverumacgenuinum hieroglyphicum. Schema Gemma. Gandium&
Mærorviciffomfibifuccedunt. Schema Gemme. Anonymi sententia perpendicur de
Psyche Pyralidisalasbabente, ansit Animesymbo fomquediffamati. Humani Sermonis
; do bumana vite natura inactuosapariter& incontemplatrice Schema Gemmt.
Furacisrapacitatistypus,& inftrumen. Virorum infignium imagines Anulisinfculpifo:
litas,adeorum memoriam , culium , Mulierumraptoresprimos,& paffim fuissevi
ros bellicolos. imitationem. LibidinisatqueMagia prauapoteftasingens, Schema Gemma,
virtutis, & vitijdistinctam ,maximeque libi. dinosam. Cole delle proprium fymbolum
Dramatici. aprum cducaregenerosa indolisadolcicencs. cDe
Marlyageminatætibiæinucntorcfabula menio latjusexplicato. Schema Gemme. Schema Gemma.
tionesexplicatæ. lum absolute. platricisintimisattributis. Atuosa vita prima species
Bigisinludorum Alia Panos explicatiodevniuerfoproponitur.Circensium Schemare
currentibus hieroglyphiceinterpretata.Aftuofavitasecundaspecies, Moralis&Actiua
lufta Zelotypamulieris indignatio, familjemaeft: nuncupata, Quadrigarum fpectaculomy.
ftice representata. Schema Gemme de EquoTroianoproposita,&expensa: Propria Schematisexplicatio
primumque Darctis Phrygij deNaturalicu narratio. piditatesciendi. VirorumHeroicavirtutepreftantiumvultus
Potentiorumprædeopulenti:Tellurisoccupatio apudantiquosmerorieacimitationisergo
Dilly's Cretensis Ephemeridum inuentio communis receptio. veterum,
Achillisimagoqualis, & curinSchemace. vltionem , Bigarum cursus in stadio
ve indicet Artificum vitam effe&ricem.cap.cxxxix. cóprehendere
fatagientis.ResponsioLicetidenneac formasuisymboli Schema Gemmik.
Sophiftaperimitindocius, adoctisinterficitur in literario mundo. Quadrigarum
cursu signariviram Adiuam, Naturaliscupidosciendiqu.erielatentesrerum
præcipuequeMilicarem.que Aduerfus hoftesinbelloiusto,dolis Schema xlij. Gemma ,
expenduntur. cap.cxli. paratur,ac desingulistribuscensura pro mulgatur.
cap.cxxxiij. interitus , Schema xlvij. Gemma. pafjem effigiatos. haberi. a
fortioribus: Agraria Legis occafio, do ego Amicitia cogens ad iustam
PerfeisimulacrocurfignaueritAlexander, cur vsiveteresin Numis .
Multiplexænigmatisexplicatio:& primade potentioribus diripientibus aliorum
opes. De Anulis,quos adsignandum habebatMa- gnusAlexander. cap.cxxxvi. Secunda
Schematis explicatio nostra est,de robustioribus,terræ dominium ,acpofsef
PanosHieroglyphica,deSermone,deque Vniuerfo declarata. Tertia explicatiopoliticanoftraSchematis,de
terræ distributionem ilitibusvi&toribus, per Schema Gemma Platonica Panos
explicatio,de conditionibus, Legem Agrariam ,affertur.
QuartaSchematisexplicationoftraeftphysi. Auctarium . Schema Gemima. ca, de typo
Agriculturæ. Hostium donfau fpecta fempereffedebere.nam . Poetarum&
historicorumcommunisopinio, Veriores fententiæ deSphinge proponuntur
exalijs,cap.cxlij. TertiafententiaPlinij,Pausaniæque de Troia- Equoproponitur, &
allatisanteacom Arcana Numinis,& ediftaPrincipumnonime telligentem
,acnonobferuantemmanet Schemaxlij.Gemme.' vis:Agriculturetypus:Ægyptus: Schema
xlvii.Gemma, & propria natura Sermonishumani proponitur.
QuintanoftriSchematis explicacio, deregione fionemfibioccupantibus. licerarij.
inuentis ingenia macerat. Schema x! Gemme . aqueacviribusvtendum . Aliorum
opinionesdeSphingereferuntur,& Propria Schematis explicatio proponitur de
Troiano Equo secundum senfa poetarum Principum,& nonintelligentesoracula.
Index Titulorum, D e Schemate noftri Mercurij Pana fugientem caufas, quibus
inuentiscellat, non Sphinxcurinterimatnon obseruantesedi &a Ægypti. Postres
i 1 Poftreina Schematis explicatioest, de Amici- .
CrucifixiPredicatores,Pifcatoreshominum: ciæ , ad vindictam injuriarum
cxcrcitum.co. ChiorumantiquainHomerumobseruantiapu Explicatio prima Smethiæ
Gemmæ de Crucie c Explicatio primæ Gemmæ Rhodianæ, rife, Propria Schematis explicario
de Mula Thalia rentis obseruatores cæleftium luminumn . proponitur,&
comprobatur.Curantiquisacerdotesofferrentaliquandola Secunda explicatioGemmæ,dehomineforcu
crificiaNuminisedentes, licibello Cælaris Augusti nata ,Belisarja.
Afferturgenuina declaratioNumi Comitis11
Comica lafcime gaudet fermone Thalia : vel Sccunda noftra Schematis
affertur explicatio dia gentium comparari. Salute patratum
natomarehumanævitænauigante ventose. 406 chariftie Sacramento.Schema Gemme. ad
veritatis imaginem . Felicishominis,feu formuaritypus, Nawigans cum ventis in
V'tre conclufis. culo. gențis,hieroglyphico, cVniuersalisIudicijtypus:
Mirabileconuiuium in Deserto; Viros fapientes publicismonumentisefe colendos
Schemą .Numifmatis, Schemą liv, Gemm. De Smithiana gemma.cap.clxii,
Animopacatofacrificandum,& fupplicandum, Fructuumatquefrugum vbertatem
concors Schema Gemma. Concordia, & fidedata, feruataquçmirificam Miles
atrocibella fuper ftes in ærum nofam incidit inopiam fæpiffime duobuspiscibusmirifice,
Quarta explication Gemmæ, de Sacrofan&oEu Schema Gemma.
cundoadarbitrium,fincracionis guberna blica.cli, Comparantur Numismati
de-Lazara duo ali Numiab Augustino propositi. rá curba in deserto quinque
panibus et explication viri eruditi de Venere, loco, et Cupidi neproponitur,
cap.clv. Schema Gemma, De Amore fơecundante criainferaelementa. apud homines
promoucri bonorum ome niumybercarem, Schemalvý,Gemma Belisarij,& Horatij
[ORAZIO] poetæ paupertas, exinfc Fortiondinis audar facinus, pro patrie næ
calamitatisfere çoinpar exprimitur. Digreffiode Cicuræ medicamentis, &veneno.
Mutij Sczuolæ Romani grande facinus,& inli- Responsio deCicutæviribus: &
pri mum , cus non habeat vim ex purgandi cor et eucharistia symbolum. Fixi prædicatoribus
hominum piscatoribus. Schema lv. Gemmila luftriss, loannisde Lazara, De
sepulchrorum differentijs, & Homericu. Secunda explicatio Gemmæ , finale
iudiciuin mulo, cap,cliii. 364 Poeta Comici, Lyrici uelafciuiori sactus, Gemma
celestium obferuationivacandum animo curis vacuo, quiescenteque corporeprorsus
ExpendunturallarıSchematis imagines,& sensaViricl.cap.clvi,
Aftronomioblernaca,& Aftrologiludicia,vc exarretieridebcant.cap.clxvii.
myftice referentis.Tertia explication Gemmæ, desaturatainnume dePoerafcu Comico,
feulyricolafciua fupidoMaria,Terras doAeremfæcundans: carmina pangențe ,
cap.clviii, gnis erga Patriam Pictas atquc fortitudo detegiturinGemma
cap.clxi. pora çiçuræplanta :deque
duplici genere Cicutarum, Sale. beat molliendi. etiamproba, plerumque multum
nocet fibi , dum viro coniugi, Cupido au o l a n s a Psyche fibi non mor i g e
r a , Amaritudomunuscælitus datumhumanænaty.
raadprocreandasmultasbonasactiones. Schema lix. Gemma. Quatuor Nouissimorum
explicatio in gemma de mortis memoria, per anulum schematis De
secundonouiffimo, quodeftludicium Dei poftobitum hominum, perperdentis corum post
ludicium luendis a vita de f u n & is per perenni poft obitum , aut
purgationem in cælis possidenda, per Stellam, lunam et cicadam hieroglyphice signata.
Per oratio totius Operis,Caputvlcim n quo agitur de Monftris generatim.
CJ^ Onflri varia ftgnijicatio 5 (02 propria efi, ac noflri inflituti^.
deteoitHr, Monjlri etymologia vulgaris, quaft res eventnras
monjiret^confiitatidr; vem (^ propria proponttur» DeMonjlroriim Hnmanorum reali
existentia, Realts extftentta Monjlrornm irrationalium natH- ram non
eoredientium patefit, OBenditur in fiirpibus etiam revera MonBra contingere, De
Mon''hor Hmcauffis generatim ijtiot ^qu^ecjue fint, Monflrorum caujfa Hnalis
generatim (jtiQtupLex^qucec^He fit. DeMonflrorumcattffaformaligeneratim, quotuplex
quaquefit, De Moniirorum caufiaejfetiricegeneratim,quotaplex, qu&quefit» De
MonflrorHm caiifiaeffeflricegeneratimtquotuple Xiqucequefit, Propria
Alonfiriffeneratim accepti definitio investigator. Inventa Monfiri
definitioexplicatur.CMonfridivifioin fuas fpeciesfupremasmtiltiplexaffertur, fedaptior
eltgitur In quo fpeciatim agitur de Monftris
tjumanis.Attexensdi6iisdicenda^&dkendorumordinempromulgans.ORige^^ canjfd Mon^f
OYPimh manorumcomm Hmsqti<e^ "wplexejfe valeat. Monftrorum in humana
f^ecie mutilorum realis exiftentia ex Uiflo- ricis elicitur, Origo , (^ prima
caujfa monBri uniformis mutili educitur ex propria materits defe^u. Secunda
caujjfa^ C=f orfgo MonHri mutili oHenditurejfe ex dehilitate, ac defe^uvirtutis
formatricis, Tertiacaufa,(^origoMonBrimutilijlatuiturinangufiiauteri, acloci
f(stum continentis,
^uartamutiliMonjlricaujfa^(^origoadmateriaineptitudinemredigitUY. Q^inta
Mon(iri mutiLicaujja^ (£ origo eft ex parente itidem trunco. Sexta causa 3
origo Monflri mutili admorhumfoetus attinere dicitur, Monflra muttlaex imaginationis
parentumviexoririnonpojfc Monjiri uniformis excedentis redis exifientia ex
hiHoricis item compro- batur, (tajia, Monjiriexcedentisnatura, G?caujfa. prima elicitor
ex parentum phan- Secunda causa, (^ origo Monjlri excedentis in materics nimio
excejfu ejje perhibetur.
NonomniaA^fonjlraexcedentiaexmateri^srednndantiaexoririiJed
aliquaexcedeniiumfuicaajfamtertiolocoinunamateriaepenuriaobtinere. ^jiarta
canfa, (^ oriuo Monjlri excedentis infk perfcetattone collocatur, .^inta caujja
, ^ origo Monjlri excedentis rejolvitur in iteratam ejfu^ Jionem maternifeminis
in uterum citrafispeYfQ^tattonem. Sextacauffa, £? origo Monjtri excedemis
pertinet ad anguHiam uteri„Septima caujfi , c^ origo Adonftri excedentis ex parentibus
monjirofts elicitur. OUava origo , ^ caujfa Monftri excedentis in vitio
nutricationis confiftcre perhibetur„ Nona ratto , (^ canfja Monftri excedentis
monftratnr in animipajfio* nibus parentes aJJicientibHS : ex^rciiatio cum
Cavdano , (^ Parxo. , Decima causa
(^origoMonjiriexcedentisinviolentafKaternicorpo^ ns concnljione reponimr,
.U/idecimacmjpi, ^origo Mon^riexcedentisrefertnradmorhnm foetus, Monjlrorum
ancipitis natur^efHbfillentia realis demonflratnr, Jldonftrianctpitisorigo, C^ causa. Communis injtntiaturj
ermturque prima. ex ?nateriet diverfce dcfe^H, ac excejja. Secmda Alondrfancipitisorigo,
caujjaextiteriangufiia, (^de" feSiu virtuttsformatricis explicatur Tertia
Monjtnancipitisorigo , ^cau^ainmorhofmtm, ^ffiperfce' tatiom deteqitur^ ^iarta
Mon^ri ancipitis origo, caujsa refertur in materi<e ineptitudinem,
^iteratammaterntjeminis, (^fanguinisejjluxtoftemaduterum, citra
fiperfostationsm, ^intaMonjlriancipitisorigo, ^caujfadepromiturexparentum -
corpore Monjlrojb. SextaMonjlriancipitisorigoy C^caujfaexvehemeniiparentum
imaginationei vitio nutricationis in faetu enucleator Mofiflri ancipitis origo
, Cscaujja feptima reponitur in arte, peccata JSfatura^ imitante, ac nonfine
ai^ilio Naturiz operante. Mon^ridijformisexi Bentiaexhi Horicispromalgatur. De
Monjlri dijformis natura, caujfis ; primaque illius origo refoU vitur in malam
uteri conformationem Secunda Monjlridijformisorigo, &caujfaJpe5lat ad malumjitum
placenta nuncupatas : cujus ufns explicatur,
TertiadijformisMonfhicaujfa,(^origoexmoladepromitur. , ,^arta Monjiridiffhrmisorigo,(^canjfaofienditurexmotu, ^^inta Monjlri dijformis origOj (^ caujfa
flatuitur imhecillitas fa- cuttatis difcretricis, yi. S.exta origo, (^ caujfa
Monjiri dijformis ad nimiam materiie vifet- ditatem rediaitur, f^lI.
Monflrainformia, dehitammemhrorum figuram non retinentia reipfa inveniri. Cde Adonflrovuminformiumorigine,&caujfa;
qu^primlmde» ducitur ex imbecillitatefacultatis formatricis.
SecundaMonfirtinformisorigo, (^caujfj,exanguliiautericolli" gitur. Tertia informium monfirorum caujfa , (^ origo
in motu inordinato repO" nltur„. arta informis Monflri origoi^
caufpi d(?prmiturifi mola^ (^ fLicema , tumore utm^concuTYmie virtHtisform^trkn
imhcilliime , acmatem tertceweptimdifie,inta informis Monflri orlgo j ($'
C(^0jj4 ex imMgimtio^e parmtum vehementiexi^ltcatHr» Cap, Sexiatn formis Monftricauffa^
^origoinnsonflrofoparentedete* gttMY, Septimainformis Monjlriorig QcaajfnrefertmadmenflrmYHm
fliixum tempore conceptus, MonjirienormisexiHentiapatefit, Monjlra enormia^
& omnino monfira mn ejfe infantcs candidos e fareKtibus JEihioipibws ortos necviciffm
iEthiopum moremgros e cmdidis: (^decolore Aadromeds. Monflri enormis origo, caujfa prima ejje in
imaginatione paren» tHmperhibetur: ^miiltadeaureocri^re Pythagorse
confiderantHr, SecundaMonfirienormisaureofemorecaujfa, origo reponitur tn
exhalationeigneadecorporeviveniis efliMente, Tertia Monfirienormisameofemore caufia,
^origorefblvitHYin morbum regium,^ana Monfiri enormiter pilofi caujfa i (origo
ex craffitiei (^ fuligi* num copia extruditptr ; ubiplura de cordepilofo
Ariftomenis, inta Manflrienormiterpilofi origo, causa ex parentepariterpih» Jo
petenda eft. Sexta Monflri enormiter Upidefcentis origo, & caujja ex
intempefiei tic materiae ineptttudine dedudtur Mon^rimuilttformtsineademfpeciefnbf
Mentiapatefit; ubidecapi-' le ytrtli ^ mulieris corpori ajfixo de
Hermapbrodttts mira quadam explaviantur. Monfirimultiformisineademfpecie^muUerisnempeviritecaputha-
benits origo , ej" cauffa prima ex hetero^e»ea feminis natura educitur j ^
defemi» nis' Vulgo tnwiafculosmutatts; Qfdemnfculisefieminatis, Secund.canfia
ejufdem moftlhi multiformis ^ (^ ori<To excutitur ex de jtdu fminis
m^fcpilei Tenia Monjiri multiformis in eadsmfpecie origo , (£ cauJfarefertHf
i,id pdrentumimairin Mionem. .^t^ariuorigo,
(^cauffaMonfirimuliiformisineademfpecieadpa^ rent^s conjimilem natnram attinef,
monfira mnltiformia ^diverfas animulium fpecies in ecdem genere proxmoreferemta
fnonefie figmsnta ^jed in rernmnatura reperiri» -'- J^donjlYt midti formis
diverfas animaliHmfpecies in eodem geneYepYO^ ximo referentiSy canjfa^ c^ origo
frima depromitur ex apparentia. Secmida causa, G? origo Jkfanflri ,
mtiltiplicis fpeciei animalia referen' tts , ex imbecillitate generantis
pendere demon(lrattir, Tertia canjfa,
Cs* origo Adonflri multiformi animalium fpecie elicitur ex deirenerata fsminis
anima in nattiram alienam. ^arta Aionflri mnltiformis varias animaliam species
referentis origo cmffa ermtm ex materialifostus principio, ^jtinta Monflri lotimani hrntalem effigiem
habentis orioo , (cattjfa ex virtnt is alentis vitio elicitptr, Ssxta hominis monflroseferinaspartes
habentisoritroj (^caujfain altmentaris materiis vitio reperitar, Septimacanjfa,(^origo
Monflrihitmaniferinameffigiem habentisex morboelicitur.O^avacauffa,
(^origoMonflrihnmaniybrtitorumejflgieminmem' bris habentiSfjx imaginatione
parentum defttmitHr» Nona caufja , corigo Alonflri varias animalitim effigies
habentis agnofcitnr ex parentzbfis monflrofs,
Decima causa origo Monflri partes habentisbrtitorum membra (hnmana
referentes, explicatur exfeminum miHione, ac nefaria venere. Dttbitafiones
propofltam theoriam. urgentes diluuntur (prima edn a ex ARISTOTELE , alicubi
n^gante monjlrtim fieri ex animalibus diverfs fpeciei.AlteradubitatiQ
Maniliana, G? Lucretiana diluitur, negans qtiiA ejfenobiscommunecumferis,
(^plantisadinvicem {nam Caftronianam ver^ bistemer efttffttltam, non autemrationibusinnixam,
latedifcujfimusinopett de Feriis Aitricis Anim3?, difputat. Tertia dubitatio
viri eximii negantis ex variis fpeciebus poffe ejuid uni tantum parenti
congeneum nafci. Exercitatio cum acutiffimo Delrio. Di^in^le magis explicatur
origo humani monflri ex fera nafcentis,Vndecima causa et origo Monfiri y varics
speciei anirmliumi partes habentis, ex cacodamonis opera elicitur, Monflra
muhiformia fuijfe conflruUa ex partibus referentibus animantia diverfl qeneris,
Monflrihttmani membravHiorumanimalium habentis origo, (^' caujfa prima in
apparentiam refertur. S^cunda Monfira diverp generis origo (S cauffa ex
imbeciUitatsj vtrtutis generamis colligitur. Tertia Monflridmffigemiorigo,
emffainMilifatefcrma- tricis repomtnr»
^artacmujfa,c^origoMonflrimnlngemie?cimbecillitatcviv' tmisfeparatricis
dedHcttm. inta causa, erigo Monflri
multigenei referturad femims degeneranoncm. Sexta caujfa Monflri poligenii
materice ineptitudo ejfe offenditur. Septima causa origo Monflri multigeneidejumitur
ex debilitate virtmis alentisfoetum, Octava
causa origo Monflri diverftgenii ex inepto partium alimento educitur, Nona cauffa , origo Monflri multigenii ex
morbofostus adducitur, Decima caujfa, G? origo Monflri multtgenii ex parentum
imagi' natione hauritur. Vndecima cauflaj Gf origo Monflri diverft generis
adparentes mon Yofosrefertur, Duodecima causa y (origo Monflripoligenii
habetur infemitiumpermifiione, Decima tertia causa originis Medufaei tapitis in
ovogallin<s...Decimaquartacaujfa, (^origoMonjirimultigeniiadvim mali
Diemonis refertur, Monftricacodamonis origo
explicatur ex causis prius adducis.
Vewv&tio totius operis. Licetus. Fortunio Liceti. Liceti. Keywords:
implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Liceti” – The Swimming-Pool
Library
Grice e Licon – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice e Licoforonte – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio).
Filosofo italiano. A pupil of Gorgia di Leonzi. Primarily a sophist, he appears
to hae taken positions on philosophical matters. For example, he declared that
being from a noble family was worthless in itself, as its value depended solely
on the esteem in which the family was held.
Grice e
Liguori – implicatura critica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice:
“Personally, my favourite of Liguori’s metaphors is ‘the abyss of reason,’
since Speranza has elaborated on this: it’s Gide’s ‘mise-en-abyme’ no less,
which breaks my principle of ‘conversational perspicuity’ – a mise-en-abyme
text is just untextable!” -- Grice: “Liguori has studied the metamorphosis of
language in one of his philosophical noble ancestors!” “I like Liguori: he has
the gift of the gab for metaphor: ‘i baratri della ragione,” “la fucina del
filosofo,” “l’alambicco dell’anima,” “la condizione del senso” ‘il razionale
dello irrazionale” o “le ragione dell’irrazionale” “le ambiguita della
ragione,” “Trasimaco ha ragione” “Giustizia e carita” Ritratto. Frequenta il
liceo classico presso i padri gesuiti dell’Istituto Massimo di Roma. Studia
alla Sapienza. “Scherzi della memoria.” Si laurea con la tesi “Lo scetticismo
giuridico.” Insegna a Lecce ed Ostuni. Si dedica alla storia della filosofia.
Insegna a Bari, Urbino, Ferrara, Trento, Salento, Torino, Firenze, Lecce,
Cassino, Napoli, e Noceto. Con “E il vero baratro della ragione umana” – cf. H.
P. Grice, “Mise-en-abyme conversazionale” -- viene riconosciuto come uno studioso di Kant,
Graf, Leopardi, e Cartesio. Tratta Positivismo
di Sergi, Lombroso, Morselli e Vignoli;
dello scetticismo di Rensi ponendolo in critica relazione tra Leopardi e
Pirandello; ha scritto di de' Liguori e di Benedictis, detto l'Aletino.
Collabora con l'Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli. Ha tenuto
rapporti epistolari con Garin, Bobbio, Augias, Binni, Donini, Ferrarotti e
Timpanaro. Fonda ad Ostuni (BR) il Circolo Culturale “Sic et Non”, cui
aderiscono e collaborano note personalità della politica e della cultura quali
Donini, Fiore, Radice, matematico e fondatore e direttore di
“Riforma della scuola” e docenti delle Bari, Roma e Lecce. “Sic et Non” si
impegna in complesse battaglie civili come quella per un dialogo tra marxisti e
cattolici, ed altre incombenti questioni sociali come la campagna per il
divorzio. Stringe intese, oltre che con moti uomini politici e studiosi di
chiara fama, con il gruppo dei cattolici del Gallo di Genova e coi fiorentini
seguaci di Giorgio La Pira, i quali si riunivano intorno alla rivista “Testimonianze”
diretta da Balducci e Zolo, nonché con i ragazzi della Scuola di Barbiana,
diretta da Don Lorenzo Milani. Manifesto editoriale del "Sic et Non"
è la rivista Presenza, da lui diretta, che testimonia questa attività politica
allora pionieristica per una piccola provincia del Sud Italia. I sette numeri
pubblicati della rivista Presenza, e altra documentazione di tale impegno
politico, sono attualmente depositati presso la Biblioteca Comunale di Ostuni
(BR) intitolata a Francesco Trinchera e comunque ampiamente documentati
nell'unico libro autobiografico dello stesso autore. Critica e commenti
sull'opera di Girolamo de Liguori Carteggio con illustri studiosi Bobbio: Il
libro mi pare di grande interesse, per l’ampiezza e la serietà della ricerca su
un tema, se non sbaglio, mai scandagliato a fondo, eppure importante
nell'ambito più vasto della storia della filosofia positiva, della critica
letteraria e della cultura torinese (argomento a me particolarmente caro). Sono
convinto che si tratta di un lavoro di prim'ordine, che rende giustizia a uno
studioso e a uno scrittore (e poeta) che è stato sì, ricordato più volte dai
suoi discepoli, ma è stato poi dimenticato dagli storici. Credo che questo
libro sia un effettivo contributo alla migliore di quel periodo della nostra
storia che la cultura idealistica aveva disdegnato: un contributo di cui
soprattutto noi piemontesi dobbiamo essere grati». Sebastiano Timpanaro: «[…]
Mi sembra, e non lo dico per adulazione, ma con piena sincerità, un'opera di
livello davvero eccezionalmente alto, per la caratterizzazione del protagonista
e di tutto il suo ambiente, per tutto ciò che finora ignoto essa porta alla
luce. E’ venuto fuori cosi un lavoro che molto di rado accade di leggere».
Ambrogio Donini: “Mi pare, ad un primo esame, fondamentale per la conoscenza del
periodo ancora poco conosciuto. Apprezzo moltissimo tale metodo di indagine e
la serietà della documentazione. Uno studio di questo genere è certamente
costato decenni di intensa documentazione». Guido Oldrini: ho letto subito il
volume su Arturo Graf così ricco e con non poco profitto. Quando l’autore, in
un punto se la prende con gli storici della filosofia italiana che trascurano il
Arturo Graf, anzi noni menzionano affatto, mi sento in colpa; e tanto più in quanto
io, studioso della cultura napoletana, mi son lasciato sfuggire quei nessi di
Arturo Graf con Napoli che il volume di de Liguori illustra con tanta passione».
Franco Contorbia: “poche volte accade di fare i conti con un libro così fatto, stratificato,
totalizzante; ad apertura di pagina si avverte l’impegno, il grado di
coinvolgimento appassionato con cui lei ha condotto avanti negli anni una così
impegnativa ricerca peculiare, quasi il centro della sua esistenza
intellettuale, il punto di arrivo (e a un tempo di partenza) di un confronto
che è culturale ma anche morale e politico.La qualità di un tale lavoro, mi
pare, fuori dell’ordinario». Donato Valli: «L’autore ha consegnato alla critica
e alla conoscenza uno studio così complesso da poter essere considerato un
esaustivo panorama della cultura del secondo Ottocento italiano e non solo italiano]».
Recensioni di illustri studiosi Paolo Rossi, “L'autore… ha fatto emergere un
quadro ricco e articolato dove accanto alle ombre brillano alcune luci
importanti». Recensione sulla rivista «Panorama» riguardante il di de Liguori Materialismo inquieto, edito da
Laterza. Cosmacini, «Il lavoro di de Liguori è largamente meritorio oltreché
ampiamente documentato». Recensione uscita su «Il Corriere della sera»
riguardante il di de Liguori Materialismo
inquieto, edito da Laterza. Marti::Dalle appassionate e diuturne indagini
dell’autore su Arturo Graf e il suo tempo è venuto fuori il ponderoso,
massiccio volume, che ho ricevuto come caro e preziosissimo dono. Davvero
lusinghiera la “presentazione” di un grande Maestro come Eugenio Garin, e
accattivante e simpatica l’”Avvertenza”. Tutto il resto è da leggere».
Recensione al volume di de Liguori su Graf, uscita sul «Giornale storico della
letteratura italiana». Corrado Augias: «Quella di De Liguori è infatti una
storia meridionale che parte da una finzione narrativa di gusto classico ma
così classico da poterla ritrovare in alcuni capolavori tanto celebri che non
vale nemmeno la pena di citarli. Saggi: “Trasimaco ha ragione” (La Rassegna
pugliese); “Giustizia e carità” “fra filosofia e vita” Ivi “Lo scetticismo
giuridico di Rensi” (Rivista di Filosofia del diritto); “Una moderna
enciclopedia del sapere, «La Rassegna pugliese», II“Efirov e la filosofia
italiana, «Problemi», “Un Leopardi anti-progressivo” (Dimensioni); In tema di
materialismo comunista, Ivi, “Gioberti e la filosofia leopardiana -- momenti
del conflitto tra l’ideologia cattolico borghese e la protesta leopardiana” (Problemi);
“Un episodio di solitudine. Rassegna di studi su Graf,” Ivi “Leopardi e i
gesuiti -- appunti per la storia della censura leopardiana, «La Rassegna della
Letteratura italiana», Quel povero “Diavolo” di Graf, «Giornale critico della
Filosofia italiana», Le «Scandalose razzie». Scienza, politica, fede in Graf Ivi,
Scetticismo e religiosità in una rivista militante: «Pietre» in, La filosofia
italiana attraverso le riviste, A. Verri, Micella, Lecce, “La condizione del senso”; “Per una
riconsiderazione della lettura grafiana di Leopardi” «La Rassegna della Lett.
It.», Il mito e la storia” – “Le ragioni dell’irrazionale in Graf, «Problemi»,
Quella «dubitante religiosità». Graf e il modernismo, «Giornale cr. della fil.
It.», Doria tra platonismo e riformismo, «GCFI», Il sodalizio Labriola-Graf negli
anni della loro formazione «Studi Piemontesi»,
Un anti-cartesiano di Terra d’Otranto: Benedictis, in, Miscellanea di
Storia Ligure, Genova); “Materialismo e positivism -- questioni di metodo” (Facoltà
di Filosofia, Bari); “Aletino e le polemiche anti-cartesiane a Napoli” (Rivista
di storia della filosofia); “L’araba fenice: ossia la filosofia nella
secondaria, «Idee», “E il vero baratro della ragione umana” – “Graf e la
cultura” Prefazione di E. Garin, Lacaita, Manduria, “Le ambiguità della ragione” – cf. Grice:
‘the equi-vocality of ‘reason’ Grice: “Liguori has a taste for unnecessary
plurals: the abysses – the ambiguities -- ” -- «Idee», “Per la storia della
psico-fisica in Italia”; “Il materialismo psico-fisico e il dibattito sulle
teorie parallelistiche in Italia -- Masci e Faggi «Teorie e modelli», “Di una
rinnovata attenzione al materialism” (Idee); “Mito e scienza nell’antropologia
e nella storiografia del positivismo italiano”; “La filosofia tra tecnica e
mito, Atti del Convegno della SFI, Assisi, Porziuncola); Dimensioni», Livorno, Materialismo
inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivism” (Laterza
Bari); “Tommasi e la filosofia zoologica di Siciliani, Rileggere Siciliani, G.
Invitto e N. Paparella, Capone, LecceI Presupposti epistemologici e immagine
della scienza in Morselli e Graf, Filosofia e politica a Genova nell’età del
positivismo, Atti del Conv. dell’Associazione filosofica Ligure-- Cofrancesco,
Compagnia dei Librai, Genova, pMaterialismo e scienze dell’uomo; Kant e
la religiosità filosofica di Martinetti, iA partire da Kant; L’eredità della
“Critica della ragion pura”, A. Fabris e L. Baccelli. Introduzione di Marcucci,
Angeli, Milano, Materialismo e scienze dell’uomo -- Il dibattito su scienze e filosofia,
Lacaita, Manduria, La fondazione razionale della fede in Martinetti, Dimensioni,
Livorno, Darwinismo e teorie dell’evoluzione nella prospettiva monistica di Morselli, Il nucleo filosofico della scienza, Cimino,
Congedo, Galatina, L’immagine della
donna nel paradigma positivistico della degenerazione, Morelli. Emancipazione e
democrazia, G. Conti Odorisio, Scientif. Ital., Napoli, La cultura filosofica in
Torino, Rivista di filosofia», Presupposti torinesi della singolarità
filosofica di Martinetti, «Studi Piemontesi»,
E’ possibile la storia dello scetticismo?, “Segni e comprensione»”; “
filosofi delle bancarelle». Per la critica della storiografia filosofica, «Lavoro critico», Il sentiero dei perplessi -- scetticismo,
nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a Pirandello, La
città del Sole, Napoli, La reazione a Cartesio in Napoli, Giovambattista De
Benedictis, «GCFI», La revisione della storiografia sul mezzogiorno, «Segni e comprensione»,
Positivismo e letteratura. Antologia di testi, con Introd. e note, Graphis
Bari, La lezione scettica di Rensi, Critica liberale,- La psicofisica in
Italia, La psicologia in Italia, a cura
di Cimino e Dazzi, Led, Milano, Vignoli e la psicologia animale e comparata,
Ivi, Pensatori dell’area torinese --Percorsi», Quaderni del Centro Frassati,
Torino, Il ritorno di Stratone. Per la collocazione del materialismo
leopardiano, in Biscuso e Gallo, Leopardi anti-italiano, Manifesto libri, Roma,
Kant e le scienze della natura -- in margine alle lezioni kantiane di Geografia
fisica, in Filosofia, Lecce, Lacaita Manduria, Cattaneo, Psicologia delle menti
associate, G. de L., Riuniti, Roma, Antropologia, psicologia comparata e
scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli», Geymonat, Treccani. Antropologia e tassonomia
in Kant. Da Blumembach a Buffon, Atti del Convegno sulla Geo-fisica kantiana,
Congedo Lecce, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli,
«Teorie e modelli», Cronache di
filosofia del diritto in Italia. Sforza e i suoi corrispondenti, in «Quaderni
di Storia dell’Torino», Per Mucciarelli:
positivismo psicologia e storia, «Segni e comprensione», Geymonat e il
“materialismo verso il basso”, GCFI, Il materialismo di Timpanaro, «Critica
liberale», Lettere di Timpanaro a Liguori,
in Il Ponte, Da Teofrasto a Stratone. L’itinerario filosofico di Leopardi,
«Quaderni materialisti», Labriola e Graf -- Principio e fine di un sodalizio di
vita e di pensiero, in Labriola e la sua università. Mostra documentaria per
settecento anni della “Sapienza” Aracne, Roma, A. Graf, Memorie, Introduzione,
commento e cura, “Gli Arsilli”, Edizioni dell’Orso, Alessandria Un catalogo per
Labriola, «Critica Sociologica», Utilità dell’inutile. Dalla elaborazione
concettuale alla programmazione e alla costruzione di un catalogo, «Itinerari»,
I Gesuiti. Le polemiche sui riti confuciani tra l’Aletino e i missionari
domenicani, «Studi filosofici»,Le «imbrogliate bestemmie germaniche». Moleschott
e la medicina materialistica, «Physis», La fucina del filosofo. «Segni e
comprensione», Filosofia teologia e fisica di Cartesio nella Difesa della Terza
lettera apologetica dell’Aletino, «Il Cannocchiale», Liguori e la filosofia del
suo tempo: Spinoza, Bayle, Hobbes e Locke, «Rivista di Storia della Filosofia»,
“Libido Sciendi”. Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e
Settecento (da Magalotti a Valsecchi), GCFI, Scherzi della memoria. Mappa di un
itinerario non turistico tra politica e cultura in una provincia del Sud, Prefazione
di Ferrarotti; Postafazione di Cumis, Salvatore Sciascia, Medicina e filosofia
in Italia tra evoluzionismo e scientismo. Da Tommasi a Morse, «Il cannocchiale»,, L’ ”il lambicco dell’anima”.
Note sul Mind body problem in Italia nell’età del positivismo, in Anima, mente
e cervello. Alle origini del problema mente-corpo, P. Quintili, Unicopoli, L’ateo smascherato. Immagini dell’ateismo e
del materialismo nell’apologetica cattolica da Cartesio a Kant, Le Monnier
/Università, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, Romanzo con pefazione
di C. Augias Movimedia, Lecce, Pensatori dell’area torinese tra i due secoli,
in Quaderni Noce, Marco, Lungro di Cosenza, Ateismo e filosofia.
Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e sul rapporto tra
fede e ragione, «Il Cannocchiale», Le metamorfosi del linguaggio nella
controversistica e nella pratica missionaria, Le metamorfosi dei linguaggi, Borghero
e Loretelli, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma, Dannazione e redenzione dell'Eros. Soggetti e figure
dell'emarginazione: la donna come oggetto determinante nella invenzione
cattolica del peccato di lussuria in «Bollettino della Società filosofica
italiana», Le cose che non sono, in
«Critica Liberale», Prefazione di E. Garin, Manduria (TA), Bari,
Roma, Lacaita, Gemoynat Treccani, Le Carteggio privato (corrispondenza
autografa) tra Liguori e i singoli autori citati P. Rossi, Viaggio nel Positivismo, in
Panorama, Arnoldo Mondadori, Girolamo de Liguori, Materialismo inquieto.
Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivism, Bari, Roma,
Laterza, Giorgio Cosmacini, Povero medico condannato al materialismo, in Corriere
della Sera, M. Marti, Recensione a I
baratri della ragione in Giornale storico
della letteratura italiana, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, [Romanzo],
Prefazione di Augias, Lecce, Movimedia. Dannazione e redenzione
dell’eros. Soggetti e figure dell’emarginazione: la donna come oggetto
determinante nell’invenzione cattolica del “peccato” di lussuria di Girolamo de
Liguori Il Cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l’amore. L’atto
vario e molteplice nei modi, ma uno nel principio, per il quale le creature si
riproducono e a cui gli antichi avevano preposta una della maggiori fra le
divinità dell’Olimpo, è, agli occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e
turpe e la malvagità e turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura
d’Adamo, essere emendate dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non
altro in teoria, condizione di vita assai più pregevole e degna che non il
coniugio e la continenza è virtù che va tra le maggiori. A. Graf1 Abstract The
paper examines the story of Eros, from ancient Greece to the age of
Enlightenment, and tries to underline relevant connections with other events of
thought and religious traditions as well as European popular customs. The
ideological conflict with Christian ethics and Catholic church is particularly
highlighted thanks to a specific textu- al analysis, particularly during 17th
and 18th centuries. Keywords: Subjects and Figures of Marginalization, Woman
Condi- tion, Ethics and Christianity, St. Alphonsus M. de’ Liguori. 1 A. Graf,
Il Diavolo, (nuova ed. con apparato critico, dopo l’originale, Treves 1889, in
sedicesimo) a cura di C. Perrone, introduzione di L. Firpo, Salerno editrice,
Roma 1981, p. 99. Avverto l’eventuale lettore che lo scritto che segue ha
natura meramente divulgativa e di mera indicazione didattica nei confronti dei
docenti di discipline storico-filosofiche. Nasce dall’assemblaggio di appunti
per il canovaccio di uno spettacolo tenutosi a Parma al Teatro del Vicolo il 3
maggio 2013, dal titolo Eros e Poesia. M’è d’obbligo infine rimandare
sull’argomento che qui espongo, agli interventi di alta e corretta
divulgazione, curati per Rai Educational, di Simona Argentieri, Umberto Curi e
Sergio Moravia, in Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
dell’aprile 1998. 29 1. Raccolta e catalogazione dei materiali Non
partiamo dalla consueta e abusata presunzione ontologica; non di- ciamo che le
cose sono, piuttosto ci limitiamo, cartesianamente, a scoprire in noi il
pensiero e, col pensiero il corpo e la sua capacità di rapportarci ad altri
corpi attraverso quelli che chiamiamo i sensi. Ci hanno preceduto i
sensi sti: nulla è dentro la nostra mente che non ci viene fornito dai
sensi. E così la fantasia, la logica, la ragione, la fede altro non sono che
gli strumenti più raffinati di un corpo tra i corpi (materia) che, come
l’infima creatura che emette pseudopodi, procede dal coacervato all’ameba e
arriva all’uo- mo, cuspide di presunzione, anelito più che sensata pregnanza di
vita.. Non lasciamoci impressionare dai prodotti di questo strumentario
intellettuale: arti, religioni, presenze invisibili, futurologie improbabili,
paradisi perduti o escatologici disegni, virtualità effimere come sogni,
denunciate già dal fol- le di Danimarca una volta per tutte. Sono sirene lusingatrici
di contro al cui canto ammaliante hanno ancora buona validità i tappi di cera
nelle orecchie usati da Odisseo, navigante curioso, per escludere i suoi
compagni2. Qualcuno sostiene che le cose non sono se non create. Qui noi non
soste- niamo l’inesistenza delle cose: in tal caso dovremmo postulare e
ammettere la trascendenza, laddove noi riteniamo l’oltre una autonoma creazione
(se vogliamo mantenere il termine) del nostro pensiero. Abbiamo raggiunto (a
livello di pensiero puro, non certo di pensiero soggettivo) un tale grado di
evoluzione da creare dal niente, come aveva, in termini tutti romanti- ci,
spiegato Fichte enunciando i tre celebri principi della sua dottrina della
scienza! Ma gli sviluppi delle neuroscienze, in particolare, hanno reso sterili
tali tentativi di esplicazione del reale. Idealismo e religione fanno a gara a
rincorrersi nella loro foga di raggiungere la verità eterna! Meglio perciò
rinchiudere i filosofi nel trittico che si sono costruiti con secolare pazienza
della Metafisica, Teodicea e Ontologia. Che farnetichino in eterno sull’ori-
gine dell’anima, sul rapporto col corpo e sul destino futuro della umanità. Si
potrà, una volta sgombrato il terreno dalla zavorra, procedere in modo più
lineare, ordinato ed onesto alla diagnosi del male di vivere: del nascere e
morire. Tolta di mezzo la pretesa razionalità e la scientificità teologica (e
teleologica) con la sua saccenteria, gli strumenti dei sensi come la fantasia,
la fede, la ragione potranno riprendere legittimamente la loro funzione di
guida o di orientamento. Se partiamo dalla nostra “condizione umana” (senza
scomodare Mal- reau) vera e concreta, viene prepotente in ballo, la nostra
sensualità, prima ancora che la nostra sensitività. Avvertiti da Freud, che va
ascoltato con la 2 Vedi quanto scrive, F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal
quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma-Bari 2010. 30 dovuta
prudenza filosofica, ci accorgiamo facilmente che è l’eros la molla
privilegiata delle nostre azioni o inazioni. Tanto è vero che sul terreno della
storia è con l’eros che il Cristianesimo ha ingaggiato fin dalle sue prime
origini la sua battaglia aperta, dagli erotici furori degli anacoreti fino ai
ra- ziocinanti dogmatismi teologici dei nostri giorni. Conviene delinearne un
breve profilo. 2. Profilo storico dell’Eros in Occidente. Dal mito di Venere a
Maria Vergine È proprio nel mondo romano, e in quella che gli storici designano
come età tardo-antica, che si compie una storica metamorfosi della mitologia
pa- gana: il suo graduale trasferimento da religione delle classi colte e
dominanti a religione dei campi (pagi = pagani), della plebe rurale. Indicativo
tra tutti il passaggio di Venere, dea della bellezza, dell’amore e della
fecondità, da un canto, a quella di Demonio, Lucifero (portatore di luce),
stella del mattino, per i suoi referenti legati alla sessualità, e, dall’altro,
a quella della Vergine Maria, madre di Gesù Bisogna ricordare che mentre avanza
il Cristianesimo, il mito di Roma non solo permane ma, sotto mutate spoglie,
cresce e si svolge fino ai nostri giorni. Perde la sua valenza politica, la sua
forza sugli eventi immediati ma guadagna nell’immaginario. Entra a far parte
del grande patrimonio del- la memoria collettiva. Ma in tale processo, se perde
i suoi caratteri storici, obbiettivi, acquista una rinnovata immagine
fantastica, rispondente alle esigenze delle masse. Soprattutto il Medioevo
trasforma Roma, i suoi dei, la sua cultura in nuova mitologia sincretica, mista
di elementi tradiziona- li e di apporti nuovi conferiti dalle differenti
popolazioni d’Europa, attinti soprattutto alla nuova fede cristiana che diventa
l’amalgama di germane- simo, usanze barbariche, romanità, orientalismi, ecc.
Roma continuava ad avere un suo primato nell’immaginario o mondo incantato dei
miti e delle leggende3, come l’aveva avuto in quello, storico, politico
culturale e civile. Ricordiamo l’accorato rimpianto di Rutilio Namaziano
Fecisti patriam diversis gentibus unam [...] Urbem fecisti quae prius orbis
erat Nella cultura illuministica, tra Settecento e Ottocento, il mito di Roma
si veste di forme neo classiche. Goethe, Winkelmann, e lord George Byron che 3
Cfr. F. Denis, Le monde enchanté,. Cosmographie et histoire naturelle
fantastiques du Moyen Âge, richiamato da Graf, Miti, leggende e superstizioni
del Medio Evo, 2 voll., Loe- scher, Torino 1892-1893. Ma vedi, dello stesso,
Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio evo, 2 voll., Loescher,
Torino 1882. 31 ne fa la patria ideale delle genti Oh Rome! My country!
City of the soul! The orphans of th heart must turne to thee, Lon mother of
dead impires! Tale trasformazione della mitologia classica, porta con sé
naturalmente un radicale cambiamento della maniera di concepire l’amore e di
vivere l’e- ros. L’amore tra uomo e donna acquista differenti valenze e si
prepara quella teorizzazione dell’amore tutto spirituale che verrà dommatizzato
e praticato per tutto il Medioevo e, nella forma più angelicata e sublime, da
Dante al Petrarca, ...quel dolce di Calliope labbro che amore nudo in Grecia e
nudo in Roma, d’un velo candidissimo adornando, rendeva in grembo a Venere
celeste. Dilagheranno per tutta Europa fenomeni di sessuofobia completamente
ignoti alla società greca e latina, quale ad es. il fenomeno dell’ascetismo.
Sorgerà la figura, del tutto nuova e inconcepibile per il mondo classico,
dell’anacoreta e, d’altro canto, l’immagine del peccato prenderà aspetto dia-
bolico orripilante, venendo a popolare tutta una nuova mitologia di presen- ze
infernali che accompagnano e turbano la vita degli uomini del Medioevo. Molte e
varie le rappresentazioni tipiche della diabolicità mostruosa, frutto, in
particolare, del peccato di lussuria, quali il mosaico nel Battistero di Fi-
renze, opera popolaresca di Coppo di Marcovaldo che tanto impressionò Dante
fanciullo, il poema predantesco di Bonvesin della Riva, Il libro delle tre
scritture o il De Babilonia di Giacomino da Verona e i vari “precursori” di
Dante, fino alle allucinate raffigurazioni de il Giardino delle delizie di
Bosch al Museo del Prado4. Ma che accadeva? Venere, scacciata, veniva
ugualmente a tentare gli sciagurati che volevano sfuggirle, quali monaci ed
asceti; e, come ci ricorda sempre Graf, «invadeva le loro celle ugualmente,
immagine vagheggiata e detestata a un tempo». Siamo nell’epoca delle
tentazioni. Ecco l’autorevolis- sima testimonianza di San Girolamo, il grande
dottore della Chiesa, autore indiscutibile della Volgata, l’edizione ufficiale
della Sacra Scrittura, in una sua lettera alla vergine Eustochia: 4 Si ricordi,
P. Villari, Alcune leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia,
«Annali delle Univ. Toscane», t. VIII, Pisa 1866, pp. 153 e sgg. Soprattutto,
A. D’Ancona, I precursori di Dante, Sansoni, Firenze 1874, p. 52, in
particolare. Per ulteriori e dettagliati riferimenti, cfr. il mio, I baratri
della ragione. A. Graf e la cultura del secondo Ottocento, prefazione di E.
Garin, Lacaita, Manduria 1986, pp. 228-248. 32 Oh quante volte, essendo
io nel deserto, in quella vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci
orrenda abitazione, immaginavo d’essere tra le de- lizie di Roma! Sedeva solo,
piena l’anima d’amarezza, vestito di turpe sacco e fatto nelle carni simile a
un Etiope. Non passava giorno, senza lagrime, senza gemiti e quando mi vinceva,
mio malgrado, il sonno, m’era letto la nuda terra. [...] E quell’io, che per
timor dell’inferno m’era dannato a tal vita e a non avere altra compagnia che
di scorpioni e di fiere, spesso m’im- maginava d’essere in mezzo a schiere di
fanciulle danzanti. Il mio volto era fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido
corpo l’anima ardeva di desideri e nell’uomo, quanto alla carne già morto,
divampavano gli incendi della libidine5. E qui l’iconografia sacra ha lavorato
sul santo, riempiendo di San Giro- lami, atteggiati in guise diverse, tele,
altari, absidi, pale, trittici per tutto il medioevo e il Rinascimento. Da
Dürer a Caravaggio, da Cima da Conegliano a Masolino, da Masaccio a Tiziano,
dalle tentazioni di Giovanni Girolamo Savoldo al Perugino, fino alla
compostezza gotico-geometrica di Antonello, ecc.Si assiste ad una evoluzione
storica dell’eros, che si arricchisce, per così dire, dell’idea stessa del
peccato. Simboleggiato dal frutto proibito, l’atto carnale tra Adamo ed Eva nel
Paradiso terrestre viene stigmatizzato come “peccato originale”, una sorta di
marchio che da quel momento in poi mac- chierà ogni creatura. Homo vulneratus
est naturaliter, sanziona definitiva- mente San Paolo! Anche se la dottrina
della chiesa troverà il modo di recu- perare in positivo quella ferita, quella
malattia costituzionale, con il concet- to dell’agape, nel quale l’eros si
diluisce in amicizia includente la mediazione del Cristo. Ma la cosa più
sorprendente è che Venere, simbolo dell’amore carnale, cantata da Lucrezio, poeta
epicureo, come colei che presiede alla bellezza della fecondazione sia di
piante che di animali, e perciò come voluttà d’uo- mini e di dei, subisce nel
corso della storia differenti e impensabili metamor- fosi. Da un canto, come
quasi tutte le divinità pagane, trapassa a popolare la mitologia cristiana di
nuove figure positive e negative, arrivando a iden- tificarsi dapprima con il
Demonio in persona, poi con la stella portatrice di luce, (Lucifero, angelo
caduto e stella del mattino); infine, fattasi mite e mise- ricordiosa,
gradualmente perdendo i suoi più accesi caratteri erotici di beltà voluttuosa,
assurge addirittura al ruolo di Maria Vergine, concepita senza peccato, Madre
di Gesù, figlio unigenito di Dio! Siamo di fronte a un feno- meno storico noto
agli storici e agli antropologi come sincretismo religioso 5 Trad. fedele di
Graf da S. Gerolamo, Epistolae, II, 22, 7, in Patrologia latina, a cura di
J.-P. Migne, Parigi 1879-1970, vol. XXII, pp. 398-399. Cfr. A. Graf, Il
Diavolo, cit.,per cui le divinità pagane continuano una loro vita, si direbbe
più dimessa e quasi nascosta, nei pagi, nelle campagne tra la povera gente,
trasformandosi, e sovente confondendosi, coi santi e le divinità della nuova
religione cristia- na. Ne è un esempio la favola di Tanhäuser, il cavaliere
francone di cui la dea Venere si innamora6. È nel mondo romano in sfacelo che
gli dei di Roma si avviano alla loro metamorfosi (quello che non era accaduto
agli dei ellenici). Da un canto si rintanano nei pagi, nei campi, tra la povera
gente di campagna e ne conti- nuano a propiziare raccolti, a combattere
carestie ad aiutare la gente misera nelle quotidiane disgrazie che affliggevano
gli umili e gli indifesi; dall’altro lato, in questa storica trasformazione,
raccolgono in loro tutto il male ese- crabile del mondo antico: il turpe, il
diabolico, l’illecito, il peccaminoso del mondo romano di origine greca.
Soprattutto l’osceno (ciò che è dietro alla scena e, pertanto, non è visibile)
e il sensuale nei rapporti amorosi. Gli dei pagani si trasformano così in
demoni. Si passa dalla celebrazione dell’amore fisico, cantato dai poeti, da
Ovidio, Catullo (i neoteroi) a Tito Lucrezio Caro, che lo inserisce nel fluire
e divenire dei fenomeni naturali, alla definitiva divaricazione della sessualità
dall’amore spirituale, come aspetti di una pas- sionalità di differente e
contrapposta natura. Si ricordi l’inno a Venere di Lucrezio: Aeneadum gentirix,
hominum divomquae voluptas, Alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare
navigerum, quae terras frugiferentes, concelebras, per te quoniam genus omne
animantum concipitur visitqae exortum lumina solis; Ma ecco come espone Arturo
Graf, storico dei miti romani nel Medio- evo, la sottile trasformazione degli
dei di Roma (quelli stessi che Virgilio, guida di Dante, aveva chiamati, falsi
e bugiardi) in divinità o potenze demo- niache cristiane: I numi che avevano
avuto altari e templi non muoiono, non dileguano, ma si trasformano in demoni,
perdendo alcuni l’antica formosità seduttrice, ser- bando tutti la gravità
antica, accrescendola. Giove, Giunone, Diana, Apollo, Mercurio, Nettuno,
Vulcano, Cerbero e fauni e satiri sopravvivono al cul- to che loro era reso,
ricompaiono fra le tenebre dell’inferno cristiano, in- gombrano di strani
terrori le menti, provocano fantasie e leggende paurose. Diana, mutata in
demonio meridiano, invaderà i disaccorti troppo obliosi di lor salute, e la
notte, pei silenzi dei cieli stellati, si trarrà dietro a volo le 6 G. Paris,
Legendes du Moyen Age, Hachette, Paris 1903, dove esamina la storia e la dif-
fusione della leggenda (La légende de Tanuhäuser). Fonte delle varianti della
stessa leggenda resta Guglielmo di Malmesbury (XII secolo). Vedi Graf, Il
Diavolo, cit., pp. 143 e sgg. 34 squadre delle maliarde, istruite da lei.
Venere sempre accesa d’amore, non meno bella demonio che dea, userà negli
uomini l’arti antiche, inspirerà ardori inestinguibili, usurperà il letto alle
spose, si trarrà fra le braccia, sot- terra, il cavaliere Tanhäuser, ebbro di
desiderio, non più curante di Cristo, avido di dannazione7. 3. Scienza,
filosofia e fantasia: il pensiero femminile e la ”teoria e pratica della
dimenticanza”. Il rapporto latente tra il sapere e il credere Ogni proposta
gnoseologica parte opportunamente da quelle ben note premesse che Galileo
autorevolmente chiamava le “sensate esperienze”, an- che se le poneva in
relazione con le “certe dimostrazioni”. Così, prudente- mente procedendo, ogni
teoria della conoscenza, pur restando legata alla dimensione esperienziale, per
così dire, non escludeva né poteva escludere l’elaborazione successiva di
ipotesi con l’ausilio della fantasia, della fede, dell’intuizione oltre che
della facoltà razionale con la quale da sempre la mente umana ha provato ad
elaborare i portati sensoriali, di volta in volta vari e complicati. Proviamo a
valutare, ad esempio, non le nostre idee, o i nostri elaborati razionali ma
alcuni particolari sentimenti o pulsioni come l’amore, l’eroti- smo, o,
addirittura, la poesia con cui ci accostiamo ad una persona o ad uno scenario
naturale quale, che so? la volta celeste di kantiana memoria. Gli eroi greci
per comprendere una verità nascosta, scendevano nell’Ade, entravano nel regno
imperscrutabile delle ombre. Da altra prospettiva, sub specie feminae, da quel
che oggi chiamiamo «pensiero femminile», ci viene incontro, spalancandoci una
diversa rinnovata visuale, un modo solitamen- te desueto di scrutare
l’imperscrutabile. Abbiamo davanti un continente dissepolto, il nostro Ade,
tutto da esplorare. È così che – s’è detto e sostenuto da parte delle donne –
«le poesie vivono delle voci narranti che, appassiona- tamente, riflettono su
un passato da abbandonare»:8 Quel che sembrava finito Era nascosto entro i
luoghi del cuore... Da tale prospettiva, in conclusione, «per giungere a tanto
bisognava scen- dere all’Ade», come fa il viaggiatore Odisseo: «provare i
dolori più cupi e le delusioni più cocenti a cui seguono le esperienze».
S’entra così nell’universo del senso fantastico senza ripudiare la possibilità
razionale di elaborare non 7 A. Graf, Il Diavolo, riedizione cit., pp. 52-53. 8
Utilizzo in questo paragrafo, frammettendone brani a mie riflessioni e
commenti, il testo originale inedito, cortesemente messo a mia disposizione,
dalla filosofa della mente G. Bussolati, Teoria e pratica della dimenticanza.
35 più ciò che è nei sensi ma quanto ribolle nella fantasia. Un esempio
potrebbe fornircelo il Leopardi dell’infinito laddove dalla esperienza
sensibile (la sie- pe, il vento, lo stormir delle foglie) che non si lascia
elaborare razionalmente, sale, quasi spinozianamente, ad un sapere più
complesso: una sorta d’amor dei intellectualis che s’apre al mistero sia della
poesia che dell’amore... ...E come il vento odo stormir tra queste piante, io
quello infinito silenzio e questa voce vo comparando e mi sovviene l’eterno e
le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei.... E, ancora, entrando
nel campo intricato del male di vivere, addirittu- ra nelle patologie del
comportamento, delle ossessioni, delle schizofrenie, laddove ci siamo chiesti,
con l’angoscia nel cuore, se questo è un uomo, pro- viamo a proporre la teoria
e pratica della dimenticanza: l’obliviologia. È cer- to come un lavoro di
scavo; ma non abbiamo da riportare al celeste raggio nessuna sepolta Pompei; non
procediamo, in senso freudiano, a rimestare nella memoria, nel sogno,
recuperando oggetti rimossi, tutt’altro. L’oggetto è diventato uno scheletro
che va dimenticato, ritenuto per non posto: mai esistito. La dimenticanza è
dapprima una sola pratica; quasi l’abitudine a dimenticare le chiavi di casa.
Poi assurge a tecnica e, infine a teoria e pratica dell’oblio. Corre, in un
certo senso, parallela alla terapia farmacologica del sonno, indotto da dosi
opportune di psicofarmaci. Si tratta di togliere le fissazioni tramite la
dimenticanza: di riportare il conosciuto agli elementi puri ma allo scopo di
favorire un intervento di maggior forza ectoplasmica sugli oggetti e sugli
eventi esterni, e per eliminare il noto processo di invec- chiamento e, infine,
di morte mentale. Scendendo al piano sperimentale, abbiamo cancellato i
sovraccarichi delle impressioni mnemonizzatrici e fatto sparire le figure
retoriche fanta- smatiche, i “mostri” o “giganti” che si fissano e si ripetono
continuamente, oberando la mente affralita. Dimenticare diventa così l’ausilio
migliore del vivere senza alcun sforzo il presente. Non è la panacea, non si
raggiunge il Nirvana; non si recuperano paradi- si perduti. Si vive
riconquistando un più corretto rapporto col corpo, i sensi, la natura. La
memoria deve servirci, non turbarci. Se è una soffitta ingombra rischia di
confonderci nel suo disordine; dobbiamo far pulizia perché la vita va vissuta
non sopportata E arriviamo infine a una considerazione alquanto complessa ma di
facile comprensione. Quella stessa nostra propensione che chiamiamo fede altro
non è, finanche nella sua forma più umile, che sempre e soltanto costruzio-
36 ne della ragione, in quanto ogni fede presuppone sempre un giudizio
della ragione. Da tale considerazione deriva la plateale conseguenza che la
fede non è altro, alla fin fine, che la nostra visione più o meno razionale
della realtà; pertanto quella fede nel numinoso e nel fantastico che è la fede
re- ligiosa dei fedeli e che alla nostra razionalità più sofisticata ripugna, è
solo un puro e semplice equivoco, imposto dall’educazione, dalle convenzioni e
mai può derivare dalla nostra libera scelta intelligente che in tal modo si
contraddirebbe9. Credere, altro non è che atto razionale; in quanto, rigoro-
samente, non c’è fede senza il sostegno della ragione. Ma, ci si chiede, fino a
che punto? Il limite è il sano buon senso. Oltre c’è la follia e l’assurdo; ma
follia, sempre ed esclusivamente della ragione stessa, unico vero soggetto di
quanto chiamiamo fede! 4. Emarginazione femminile e non. La donna da oggetto a
soggetto di pensiero Da differente angolatura l’oggetto del mistero che
chiamano la verità, si svela gradatamente, di sotto il velame delli versi
strani. Del resto, a ben pensare, quando penso, penso al maschile, ho sempre
pensato al maschile. La storia, la civiltà tutta, occidentale e orientale,
hanno pensato soltanto al maschile. Non solo: per secoli, il vero, il bene, il
bello sono stati visti, si al maschile, ma ancora nella implicita
insignificanza oltre che della donna, di altre figure sociali di grande
rilevanza: del bambino, del disadattato o del diseredato o escluso dalla
comunità, dell’alienato o del demente. Interi uni- versi come continenti
inesplorati si sono schiusi appena abbiamo provato a visitarli. Erano emersi,
nella dannazione dell’inferno dantesco, nei mosaici e negli affreschi
allucinati di Coppo, nei battisteri, nelle chiese medioevali, nelle
allucinazioni di raffiguratori fantasiosi fino al paradosso come in Bo- sch o
in Goja, nei racconti favolosi delle mitiche origini di intere popolazio- 9
Cfr. P. Martinetti, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a
cura di Agazzi, Ed. di Comunità, Milano, dove tra l’altro si legge: «Anche LA
FILOSOFIA è sotto certi rispetti una fede; in quanto essa è uno sforzo verso
l’unità sistematica che in ogni grado raggiunto si pone come una visione
definitiva della realtà; ciò che non può fare che trasformandosi in una fede
razionale; la fede nella dottrina kantiana. D’altra parte la fede comune non è
assolutamente irrazionale; è una razionalità adatta alla mente comune, ma è una
forma di razionalità; non v’è sistema di dogmi così assurdo che non tenti
subito una razionalizzazione. Ogni esposizione d’un sistema di filosofia è,
sotto questo riguardo, l’esposizione di una fede. Non ha quindi ragion d’essere
la contrapposizione della ragione e della fede (come qualcosa di irrazionale):
la fede è l’espressione stessa di una formazione razionale; ogni grado della
vita razionale in quanto si esprime, si fissa e diventa una realtà operante, è
una fede». Più analitica esposizione della questione si trova nel mio, Ateismo
e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e
contempora- neo e sul conflitto tra la fede e la ragione, «Il Cannocchiale», ni, tramandate oralmente nei miti e nelle
leggende che correvano per l’Eu- ropa come fiumi carsici, uscendo di tanto in
tanto al “celeste raggio”, dove l’oblio di secoli li aveva
segregati....Soltanto oggi cominciamo a prenderne consapevolezza, filosofica e
scientifica: scopriamo un nuovo continente spe- culativo, il pensiero al
femminile come rinnovato modo di guardare la vita, la storia, la natura.
Proviamo a riandare di qualche secolo addietro. Le cosiddette scienze umane ci
si erano accostate per via di quel loro par- ticolare porsi dalla prospettiva
del diverso, ma solo l’assurgere di quell’og- getto alla dignità di soggetto
pensante e determinante trasforma del tutto la prospettiva. La partecipazione
del femminile come quella del diverso, del disadattato alla ricerca della
verità completa veramente il mondo storico della cultura portandolo al suo
stadio più alto, fuori da ogni gilepposo pa- ternalismo o indulgente
concessione caritatevole. Del tutto trascurati o stipati alla rinfusa nella
soffitta anodina della eru- dizione, alcuni sprazzi di consapevole
disponibilità al diverso erano emersi già nel passato, in ambito borghese
progressista, presso spiriti particolar- mente sensibili. Ma restava un fatto
isolato che non ha vissuto significanza o storicità. Sentite questa: siamo nel
1898: E dei disadattati all’ambiente non è giusto parlar con tanto disprezzo.
Ol- trecché esercitano alcune funzioni non esercitate dagli altri, essi sono un
lievito sociale utile e necessario; tengon viva nell’organismo collettivo
un’inquietezza nemica delle stagnazioni prolungate, e non avvien mutazio- ne
alla quale in qualche maniera non cooperino [...] che se i geni fossero pazzi
davvero [...] bisognerebbe riconoscereche i più disadattati fra i disa-
dattati, quali son per l’appunto i pazzi, resero alla misera umanità più di un
buon servigio. Da altra banda è da considerare che un perfetto adattamento
all’ambiente farebbe gli uomini supinamente contenti e tranquilli e porte-
rebbe fine al moto della storia, per la ragione potentissima che chi sta bene
non si muove. Lo direi il vademecum per l’onest’uomo del nostro tempo! Ma molto
an- cora resta da fare: e questa è la vergogna del nostro tempo. La chiesa cat-
tolica ad es., che ha chiesto, solo di recente, con un pontefice tormentato e
disponibile al dialogo, perdono al mondo islamico, ha ancora da chiedere scusa
alle donne, ai bambini, alle coppie di fatto, agli omosessuali, agli atei, agli
agnostici, agli scienziati onesti e laici che dalle dottrine e dai dogmi della
chiesa vengono quotidianamente offesi, respinti e vilipesi. I libri proibiti e
il rapporto sessuale come “peccato” contro il sesto precetto del Decalogo Tra i
compiti primari che si assunsero al loro tempo gli apologisti catto- lici e i
controversisti, figura subito in primo piano quello della lotta ai libri proibiti,
che è come dire a tutta la prodizione libraria moderna. Prendo an- cora ad es.
emblematico il santo teologo moralista e dottore autorevole della Chiesa:
Alfonso de Liguori. Ne La vera sposa di Gesù Cristo10, a dimostrazio- ne di
quanto possa essere pericolosa la lettura in genere, sconsiglia alle Mo- nache
addirittura lo studio sia della Teologia Morale che di quella Mistica.
Parimenti libri inutili ordinariamente sono, ed alle volte anche nocivi per le
Religiose, i libri di Teologia Morale, poiché ivi facilmente possono inquie-
tarsi con la coscienza oppure apprendere ciò che lor giova non sapere. An- che
nociva può essere a taluna la lettura dei libri di Teologia Mistica, giacché
può essere che ella si invogli dell’orazion soprannaturale, e così lascerà la
via ordinaria della sua orazione solita, in meditare e fare affetti, e così
resterà digiuna dell’una e dell’altra. Vige, come una sentenza inappellabile,
il motto lapidario di San Paolo: Sapienza carnis inimica est Deo. L’amore del
sapere viene paragonato ad un vizio, alla libidine sessuale: libido sciendi11.
Circa i classici del pensiero che pur contengono delle verità, si domanda con
San Girolamo: «Che bisogno hai di andar cercando un poco d’oro in mezzo a tanto
fango, quando puoi leggere i libri devoti, dove troverai tutt’o- ro senza
fango?». La lettura è importante, fondamentale anche alla via della salute, ma
ha dei rigorosi limiti. Quanto è nociva la lettura de’libri cattivi,
altrettanto è profittevole quella de’buoni. Il primo autore de’libri devoti è
lo Spirito di Dio; ma de’li- bri perniciosi l’autore n’è lo spirito del
Demonio, il quale spesso usa l’arte con alcune persone di nascondere il veleno,
che v’è in tali suoi libri, sotto il pretesto di apprendersi ivi il modo di ben
parlare, e la scienza delle cose del mondo per ben governarsi, o almeno di
passare il tempo senza tedio. Con determinate categorie di persone,
l’esclusione si fa radicale. Alle suore scrive così: Ma che danno fanno i
romanzi e le poesie profane, dove non sono parole 10 Cito dall’ed. Remondini,
Bassano, Vedi l’uso di tale espressione nella denuncia controversistica
cattolica (aristotelica) della filosofia cartesiana e moderna nel saggio di chi
scrive, «Libido sciendi». Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra
Sei e Settecento (Dal Magalotti al padre Valsecchi), «Giornale critico della
filosofia italiana», immodeste? Che
danno voi dite? Eccolo: ivi si accende la concupiscenza de’ sensi, si svegliano
specialmente le passioni, e queste poi facilmente si gua- dagnano la volontà, o
almeno la rendono così debole, che venendo appresso l’occasione di qualche
affezione non pura verso qualche persona, il Demo- nio trova l’anima già
disposta per farla precipitare12. Contro il risveglio delle passioni e contro
“la concupiscenza dei sensi”, i controversisti scagliano i loro dardi infuocati
e avviano le loro sottili disqui- zioni teologiche su quanto vada considerato
peccato mortale. Ed è questo un fardello che la chiesa si porta dietro così
come uno ster- corale si rotola la sua palla di escrementi. L’ossessione del
sesso: la cura me- ticolosa con cui si prova da secoli a disciplinarlo,
legittimarlo, canalizzarlo, evirandolo della sua essenza: la ricerca del
piacere e costringendolo alla sola funzione riproduttiva. Ci serviremo non di
un semplice scrittore di opere di pietà ma di un autorevole moralista della
chiesa cattolica, santo per giunta, dottore della chiesa, uomo di grande pietà
e d’erudizione: che Croce defini- va il più santo dei napoletani, il più
napoletano dei santi. Ecco cosa scrive il nostro moralista sul sesto precetto
del Decalogo e in che modo espone le sue precauzioni con cui anticipa una
minuziosa tratta- zione di quanto potremo chiamare la fattispecie del peccato
mortale. Il peccato contro questo precetto è la materia più ordinaria delle
Confessio- ni, ed è quel vizio che riempie d’Anime l’Inferno; onde su questo
precetto parleremo delle cose più minutamente; e le diremo in latino, affinché
non si leggano facilmente da altri che dai confessori, o da quei sacerdoti che
in- tendano abilitarsi a prendere la Confessione; e preghiamo costoro a non
leg- gere né in questo né in altro libro di quella materia (che colla sola
lezione o discorso infetta la mente) se non dopo tutti gli altri trattati e
quando ormai sono prossimi ad amministrare il Sacramento della Penitenza13.
Affronta perciò subito lo scabroso tema della fornicazione, e dei rapporti
carnali con l’altro sesso con minuta casistica sessuofobica: de tactibus, de
muliebre permittente se tangere, an puella oppressa teneatur clamare, an pos-
sit unquam permittere sua violationem, de aspectis, de verbis, de audientibus
verba turpie, ecc. Ma non manca di precisare: Ante omnia advertendum, quod in
materia luxuriae (quidquid alii dicant de levi attrectatione manus foeminae,
vel de in torsione digiti) non datur par- vitas materiae; ita uti omnis
delectaio carnalis, cum plena advertentia, et consensu capta, mortale peccatum
est. 12 La vera Sposa di G.C., A. M. de Liguori, Istruzione e pratica per li
Confessori, Giuseppe Di Domenico, Napo- li, MDCCLXV, I, p. 333 e sgg., anche
per le citaz. successive. 40 Il pio moralista, scaltrito nella casistica
giuridica, sa che bisogna scende- re nei minimi particolari per trovare la
situazione peccaminosa: se grave o lieve o poco rilevante o, addirittura, del
tutto inesistente; perciò distingue gli atti sessuali compiuti nel matrimonio o
extra matrimonium. In situazio- ne extra coniugale, tutti i toccamenti, oscula
et amplexus ob delectatione, mortale sunt. Vi sono numerosi casi dubbi da
esplicitare: ne va di mezzo la salute delle anime, calate in situazioni mondane
sempre diverse e comunque sempre a stretto contatto con le tentazioni della
carne. Ad es., la donna o il fanciullo non peccano se si fanno toccare secondo
la consueta pudicizia dettata dalla simpatia o dalla buona affettuosa
disposizione; peccano invece se non si op- pongono a contatti impudichi, o a
baci insistenti (morosis) e furtivi. E anco- ra: la fanciulla aggredita allo
scopo di usarne violenza è tenuta a urlare ad se liberandam a turpitudine? Nel
caso non invocasse aiuto con la dovuta forza e insistenza lo stupro si
cambierebbe facilmente in consenso peccaminoso. Ma la questione resta
controversa se debba ritenersi consenso il non aver gridato o invocato aiuto,
secondo un’antica sentenza per la quale, praesume- batur puella non clamans
consentiente (p. 335). Perviene infine a definizioni accurate degli atti turpi,
differenziando quelli compiuti naturalmente da quelli innaturalmente. Ecco la
definizione di fornicazione e di concubinaggio, quali peccati mortali:
Fornicatio est coitus intersolutos ex mutuo consensu. Concubinatus autem non
est aliud quam continuata fornicatio, habita uxorio modo in eadem vel alia
domo; [e quella di stupro, come:] defloratio virginis ipsa invita, et ideo
praeter fornicationis malitiam habet etiam injustitiae. Attraverso una minuziosa
casistica quasi boccaccesca, buona – si direb- be - ad arricchire la
documentazione erotica di un romanziere libertino, il moralista passa in
rassegna le svariate forme di rapporti sessuali, da quelle legittime a quelle
addirittura più strane e peregrine, come l’accoppiarsi in luogo sacro, quali
una chiesa, il cimitero, l’oratorio, il monastero, ecc. Pone addirittura
questioni dubbie sulle maniere e le condizioni in cui tale rap- porto potrebbe
verificarsi. Pur ammettendosi il peccato, sorge la questio se si tratti o meno
di sacrilegio. Ad es. «an copula maritalis, aut occulta abita in Ecclesia, sit
sacrilegium?» Vi si potrebbero emanare tre sentenze differenti: una che ritiene
irrilevante la condizione di coniugi, un’altra la situazione occulta (che
l’abbiano fatto di nascosto) e una terza che ritiene essere sacri- lego l’atto
in ogni caso. Addirittura se si tratta di marito e moglie, secondo alcuni
teologi, l’atto consumato in chiesa potrebbe essere scusato, si ipsi sint in
morali necessitate coeundi, puta si ipsi in pericolo continentitiae, vel si diu
in Ecclesia permanere debeant. 41 Il lettore ne trae l’impressione che
l’autore (più che dietro suggerimenti letterari coevi) vada ad estirpare
direttamente dalla vita, dalle lussuriose esperienze dei peccatori, dalle
situazione più impensabili, apprese nelle lun- ghe ore passate al confessionale
ad ascoltare ed a sollecitare le confessioni più intime dei fedeli, tutte le
forme, i modi che la secolare ricerca del piacere ha suggerito di epoca in
epoca all’uomo, dalle più rozze e volgari maniere di accoppiamento fino alle
più raffinate arti di amare e trarre godimento che proprio I LIBERTINI andano
perfezionando e praticando in forme sempre più sofisticate. La stessa lingua
latina – ma qui dovrebbe- ro dirla i linguisti – si fa molto particolare fino
all’uso di neologismi non presenti nei classici. Parlando della sodomia
distingue quella propriamente detta da quella impropria ed eterosessuale coitum
viri in vase praepostero mulieris esse sodomiam imperfectam, specie distinctam
a perfecta. Si quis autem se pollueret inter crura aut brachia mu- lieres, duo
peccata diversa committeret, unum fornicationis inchoatae, alterum contra
naturam. An pollutio in ore fit diverse speciei? Affirmant aliqui, vocantque
hoc peccatum irrumantionem, dicentes quod sempre ac sit pollutio in alio vase
quan naturali, speciem mutat. Sed probabilius sentiunt quod si pollutio viri
sit in ore maris est sodomia; si in ore feminae, sit fornicatio inchoata, et in
super peccatum contra naturam ut mox diximus... Arriva addirittura ad
ipotizzare il coito cum femina morta, che non rien- trerebbe nella fattispecie
dei rapporti bestiali ma nella polluzione e in quella che Alfonso chiama
fornicatio affective. Dalla sessuofobia all’erotismo peccaminoso: Cortigiane
poetesse e libertini filosofi. L’Eros redento Prendiamo due secoli di storia
molto emblematici: il Cinquecento e il Settecento. Dall’Italia delle corti
signorili alla Francia della grande rivoluzione. Due secoli in cui l’eros vive
una sua storia illustre, tra cortigiane raffinate poetesse e abati filosofi e
libertini. A dirla franca alla sua maniera sull’eros e a dargli veste poetica
disinibita, ci pensa subito Pietro Aretino: ma sempre da una angolatura tutta
maschile. Nonostante si salvi la dignità della partner che qui giuoca un ruolo
attivo di co-protagonista del rapporto amoroso, in cui l’atto sessuale si
trasforma in una sticomitia drammatica non priva di poetica oscenità. Soltanto
nel petrarcheggiare delle cortigiane, come la soave Franco che riceve sotto le
sue lenzuola di tela d’Olanda finanche Enrico III di Valois, la donna trova
finalmente il suo primo vero riscatto sul maschio, con un suo modo raffinato
(di alto erotismo) di 42 pilotare la barca dell’Amorosa Dea; ad esse, tra
principi, sovrani, alti prela- ti, pontefici gaudenti, spetta il compito di
riscattare dall’eterna dannazione l’Eros e fargli recuperare il valore perduto
col trionfo del Cristianesimo. Un recupero, tutto al femminile, del paradiso
perduto. Così canta il suo ufficio amoroso, guidato da Apollo, la dolce Veronica.
Febo che serve a l’ amorosa Dea E in dolce guiderdon da lei ottiene Quel che
via più che l’esser Dio il bea, A rilevar nel mio pensier ne viene Quei modi
che con lui Venere adopra Mentre in soavi abbracciamenti il tiene. Ond’io
instrutta a questi so dar opra, Si ben nel letto, che d’Apollo all’arte Questa
ne va d’assai spazio di sopra E il mio cantar e ‘l mio scrivere in carte
S’oblia in chi mi prova in quella guisa Ch’a suoi seguaci Venere comparte. Nel
Settecento, cui ora vogliam far cenno, sia pur per sommi capi, le cose stavano
in modo ben differente da come ce le hanno rappresentate quando a scuola ci
hanno spiegato quel periodo. I libri del Marchese de Sade rap- presentano, ad
es., una nuova filosofia morale e non sono la pura e semplice invenzione di
tecniche erotiche pervertite, come comunemente si crede. I recenti studi hanno
sfatato quella immagine del divin marchese. “La filo- sofia deve dire tutto”,
egli ha affermato: tutto senza ipocrisie e fingimenti. Egli non fu né il primo
né il solo a sostenere i diritti della carne, che grida la sua legittima
soddisfazione contro le assurde costrizioni della cosiddetta civiltà. Il
celeberrimo sadismo: ricerca del piacere attraverso il godimento per la
sofferenza del partner, ha ben altre origini che le sole discendenze da Sade.
Bisognerebbe intanto rifarsi alle meticolese ricerche di Skipp, di Leeds, che
ha schedato tutti i testi erotici inglesi scoprendovi come l’uso educativo
della frusta e le sculacciate a pelle nuda sui ragazzi, era praticato dai
gesuiti in chiave educativa e correttiva, ma finiva per confinare molto spesso
con l’erotismo portando addirittura all’orgasmo vero e proprio. Nacque un
termine: “orbinolismo” che vuol dire “smania di frustare” (Cfr. Rodez, Memorie
storiche sull’orbinolismo). Né si dimentichi, oltre la pratica, anche l’elogio
cattolico, presso non solo l’ordine dei gesuiti ma anche di Scolopi e
Salesiani, fatto in termini pedagogici della frusta e della sua frequente
pratica a scopi educativi e correttivi: virga tua et baculus tuus salus mea
fuerunt!.... A tali osservazioni sul costume del secolo va aggiunto che la
proverbia- le sporcizia che caratterizzava il ménage domestico dell’epoca anche
tra le famiglie nobili e abbienti, non era poi così generalizzata. Soprattutto
le donne avevano introdotto l’uso davvero innovativo dell’erotico bidet (che ha
la forma di violino e, al tempo stesso, quella dei fianchi femminili) che
permetteva loro di mantenere igiene e pulizia in quelle parti del corpo che ne
avevano più bisogno. A tal proposito restano molto istruttive le pagine dei
romanzi erotici e libertini, tra i quali spicca Restif de La Breton con il suo
Anti Justine dove si nota l’uso frequente e generalizzato di tale strumento da
toilette, prima e dopo gli incontri amorosi.. Perciò, una volta sfatata
l’immagine stereotipata del Settecento illumi- nistico, astrattamente
razionalista, irreligioso e dai costumi depravati, pro- viamo a riguardare
sotto diversa luce e angolatura, libere da pregiudizi e remore moralistiche e
confessionali, la letteratura erotica e d’amore di quel secolo che, oltre
tutto, fu di Mozart, di Kant, di Bach, oltre che di Voltaire, di Rousseau e di
Goethe e ci lasciò in eredità non soltanto la grande rivoluzione dell’89 ma
anche quella che fu la più colossale e universale summa di sapere moderno:
l’Enciclopedia, ovverosia dizionario ragionato di tutte le scienze, le arti e i
mestieri contro la quale pullularono subito una serie di Anti-Enciclo- pedie
anche da noi in Italia per porre un argine all’avanzata di quelle idee di
libertà e di progresso civile. Il ricordare LEOPARDI è qui d’obbligo: Così ti
spiacque il vero, dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci diè, per
questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe palese... Insomma
lo zelo sessuofobico, la guerra dichiarata all’istinto sessuale porta il
sacerdote, il ministro del culto cattolico, il confessore a scendere nei
particolari della vita sessuale singola e della coppia, sia entro che fuori del
matrimonio: a scoprire i più segreti momenti dell’intimità delle coppie fino a
scrutare e distinguere, entro le fantasie erotiche più raffinate, i comporta-
menti più o meno peccaminosi, cioè conformi a canoni tutti da verificare di
volta in volta (casistica). Una sorta di filo invisibile lega pertanto il pio
cen- sore al libertino e al peccatore o la peccatrice (lo denuncia la stessa
corrente espressione possessiva: il” mio” confessore!) tanto da diventare
complemen- tari, avvincersi in un legame indissolubile fino a non poter più
fare a meno l’uno dell’altro14. Ma il legame tra religiosità e libertinismo, così
come tra l’erotismo e la religione cattolica in particolare, si fa sempre più
stretto fino a dipendere l’uno dall’altro: come, in regime capitalistico,
domanda e offerta. Il cattoli- 14 Cfr., infine, “L’Asino” di Podrecca a
Galantara e le critiche positivistiche e anticlericali alla morale alfonsiana,
Feltrinelli, Milano] cesimo deve disciplinare a suo modo il sesso e, in genere,
tutta l’attività e la fantasia umane; l’eros deve trovare entro una nuova
coscienza storica la sua rinnovata voluttà. Ecco allora il piacere stesso
trovar vie differenti rispetto al piacere degli antichi, allor quando quella
ricerca non veniva combattuta, non era un tabù, anzi era apprezzata come uno
dei più ambiti doni della na- tura. Vengono a far parte del piacere anche i
marchingegni e i sotterfugi per eludere le prescrizioni correnti e i limiti che
le norme religiose impongono dall’esterno. Finanche i pregiudizi siano di
ispirazione cattolica o meno - diventano materia di raffinato erotismo.
L’esecrabile peccato della lussu- ria, prodotto tipico del Cristianesimo,
diventa perciò stesso fonte di piacere (la Jouissance illuministica), proprio
perché vietato e esecrato: soprattutto quando l’atto viene compiuto di
nascosto, cogliendo quello che è diventato, dopo la mitica cacciata dal
Paradiso terrestre, il frutto proibito, il godimen- to raggiunto di soppiatto e
contro la legge o la morale corrente perciò più seducente e ricercato per la
sua illegtittimità! La letteratura è piena zeppa di esempi e finisce per
produrre un genere di scrittura narrativa particolare che chiamiamo “erotica” o
“pornografica”: di libri che s’han «da leggere con una mano sola», un genere
che non si spiegherebbe prima del cristianesimo e della dannazione dell’eros e
del piacere e che va dai canti carnascialeschi al Decamerone, al Ruzante, all’ARETINO,
ai poeti dialettali: da BAFFO, veneziano, al grandissimo BELLI, romanesco, al
dimenticato TEMPIO, siciliano, nato a Catania, per arrivare alla letteratura
erotica del romanzo libertino francese in cui confluiscono le innumerevoli
forme e modi di estraniazione, di sogno, di fuga dalla realtà che delineano
l’universo fantastico che sarà la base della letteratura romantica europea e
soprattutto del romanzo e della grande narrativa ottocentesca e contemporanea,
da Balzac a Flaubert, a Hugo a Dumas, dal romanzo russo al nostro MANZONI, a
Zola, a VERGA alla miriade dei narratori dei nostri giorni. In conclusio-ne, ma
in una maniera tutta nuova, possiamo ritenere avesse davvero visto giusto il
grande saggio napoletano CROCE quando affermò che non possiamo non dirci cristiani.
Se persino l’erotismo è stato, malgré lui, influenzato e raffinato dal
cristianesimo. Se ne stanno accorgendo anche in Francia dove nasce la
letteratura libertina e la illuminata filosofia del piacere: dal materialista
La Mettrie all’esecrato marchese De Sade16. 15 Emblematico, per quanto qui si
va rilevando, il romanzo libertino, non ancora tradot- to, D.A.F. de SADE,
Alina et Valcour, ovvero il romanzo filosofico. Cfr., la Mostra: BNF, L’Enfer
de la Biblioteque Nazionale. Eros au secret, Paris, 2 Ricco di titoli, è venuto
alla luce un significativo numero di opere e autori soltanto ad opera di specialisti che li vanno
pubblicando e illustrando. Intanto segnalo l’originale antologia da Mettrie e Diderot,
curata da Quintili, L’Arte di godere. Testi dei filosofi libertini, Manifesto libri,
Roma. Girolamo de Liguori. Liguori. Keyword: “Associazione Filosofica Ligure” –
Keywords: implicature critica, ‘… is the true abyss of human reason” – “il
baratro della ragione conversazionale” – l’anima distilata – il lambicco
dell’anima”, redenzione dell’eros, la lussuria, la degenerazione, la
metamorfosi dei linguaggi – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Lilla – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Francavilla Fontana).
Filosofo italiano. Grice: “I like Lilla; for one, he ‘revindicated,’ as he puts
it, the philosophy of Vico, which, in Italy, is like at Oxford ‘revinidcare’
Locke!” Formatosi nelle scuole dei Padri Scolopi aderì alle idee cattolico
liberali divulgate dai filosofi della prima metà dell'Ottocento: Gioberti,
Minghetti, Balbo e Rosmini al quale dedicherà molteplici studi subendone una
marcata influenza. Lascia Francavilla per l'ostentata contrarietà di tutto il
clero alle sue idee patriottiche
d'ispirazione giobertiana, manifestate apertamente nel "Programma
d'insegnamento filosofico" pubblicato sul giornale il "Cittadino
leccese", decise di trasferirsi a Napoli ove ebbe modo di confrontarsi con
le idee di Sanctis, Spaventa, Settembrini, Tari e Vera. Si laurea e insegna a
Napoli. Durante questi anni videro la luce "La provvidenza e la libertà
considerate nella civiltà", "Dio e il mondo", e "La
personalità originaria e la personalità derivata" (Nappoli, Tip. Rocco),
nei quali getta le premesse degli studi filosofici e giuridici in cui si
cimenterà per tutta la vita: la storia della filosofia, la filosofia teoretica
e la filosofia del diritto; sviluppando altresì e precorrendo una moderna
concezione del rapporto tra "diritti umani e progresso scientifico"
sin da “La scienza e la vita” (Torino, Tip. G. Borgarelli) -- titolo
paradigmatico del suo saggio – cf. Grice, “Philosophical biology,” “Philosophy
of Life” Insegna a Messina. Furono quelli gli anni più fecondi della produzione
scientifica volta a perfezionare la sua concezione dello Stato, approfondire le
fonti rosminiane, confrontarsi con le teorie evoluzionistiche di Spencer e
contemporaneamente intrattenere contatti epistolari con alcuni fra i maggiori
filosofi, giuristi, patrioti e storici dell'epoca quali: Jhering, Bluntschli, Roy, Tommaseo, Capponi e
molti altri. Saggi: “Kant e Rosmini” (Borgarelli, Torino); “Aquino” (Torino,
Borgarelli); “Filosofia del diritto,”“Critica della dottrina utilitarista
liberale empirica etico-giuridica di Mill”“Le supreme dottrine filosofiche e giuridiche
di Vico ri-vendicate” -- “La pretesa persona giuridica e le funzioni personali
degl’enti morali” (L. Gargiulo); “Della Riforma civile di Spedalieri” (Messina,
Amico); “Le fonti del sistema filosofico di Serbati-Rosmini” (L.F. Cogliati);
“Due meravigliose scoperte di Rosmin-Serbatii: l'essere possibile e l'unità
della storia dei sistemi ideologici, L.F. Cogliati, Il Canonico Annibale Maria
Di Francia e la sua Pia Opera di beneficenza, Messina, San Giuseppe, Manuale di
filosofia del diritto, Milano, Società editrice , Pagine estratte. G. Martucci, Il concetto dello stato Antonio Tarantino, Diritti umani e progresso
scientifico: Polacco, La "Filosofia del diritto” (G.B. Randi); “Filosofia”
(Milano, Giuffré); Tarantino, “La filosofia della giustizia sociale, Milano”
(Giuffré) – cfr. H. P. Grice, “Social justice” in “The H. P. Grice Papers,”
Bancroft, MS. In occasione del conferimento della "Cittadinanza onoraria
(di Messina) alla memoria, su nettuno press.Tarantino, Diritti umani e
progresso scientifico: emeroteca.provincia.brindisi. Martucci,Il concetto dello
stato, su emeroteca.provincia.brindisi.
Treccani, su treccani. Lettere a Jhering. non accordabile col supremo
principio della Scienza Nuova Ilmiolavoro G.B.Vicorivendicato»meritòl'onoredi
essere preso in considerazione dai due più competenti degli stu dii vichiani,
ed al giudizio dei competenti bisogna dare gran peso, perchè effetto di
conoscenza bene approfondita sopra un determinato autore, specialmente se si
mira ricostruire la mente di G. B. Vico.Questi scrittori sono Luigi Ferri (1)e
Vito Fornari i quali si trovarono in pienissimo accordo, tanto da far supporro
che fosse effetto di un concetto prestabilito.L'accordo fu pie nissimo nella
prima parte del lavoro di carattere puramente critico e riconobbero che la
rivendicazione delle dottrine filoso fiche e giuridiche da tutte le fallaci
interpetrazioni fatte in Europa Rivista Italiana di Filosofia; anno XII, Vol.
2. (1) « Quando gli opuscoli hanno un valore così notevole come quello qui
sopra indicato del prof. Lilla , è giusto segnalarli all'attenzione degli
studiosi piuttosto che i volumi di gran molo o di poca sostanza. Questo lavoro
dice molto in poche pagine e il suo intento è questo: rivedere i giu dizi che
sulle dottrine del Vico sono stati portati in Italia , in Germania e in Francia
particolarmente, ricostruire dietro indagino esatta il concetto di questa
dottrina e questo intento ci pare raggiunto. Il Vico non è sem plicemente un
ontologista platonico, come parrebbe dal giudizio del Gio berti,nè un
razionalista kantiano,o piuttosto un precursoredelKant ,co mesembravaaBertrando
Spaventa,nèunpositivistacomo furappresentatoda altri.Questi
apprezzamentirisultaronodall'interpetrazioneparzialeesoggetti va di qualche
parte dei pensieri filosofici del Vico che nelle sue opero non sono esposti in
ordine sistematico , e che l'autore di questo lavoro con grande dili genza
raccoglie e combina riferendo le formole e le parole proprie dell'autore della
scienza nuova sparse nei moltiplici suoi scritti. » era esauriente
e condotta con criterii elevati. La mia interpe trazione sulla vera mente di G.
B. Vico fu riconosciuta vera ed adeguata tanto che il Fornarì mostrò vivissimo
desiderio di veder fecondare quelle supreme linee con svolgimenti ed appli
cazioni. Dominato da tale pensiero concepii il disegno di scrivere un lavoro di
lena, mirante ad un triplice scopo di rivendicare, illustrare, ed integrare la
mente dell'autore della « Scienza Nuova»
Atalescopoindirizzaituttelemiericercheattingendo sempre maggiori lumi dalle sue
opere edite ed inedito e fin anche dai manoscritti che si conservano
gelosamente nella bi· blioteca Nazionale di Napoli. I grandi genii, e
segnatamente il Vico che, come non ha guari, fu appellato da un poderoso
intelletto di una delle più famose Università il più grande filosofo del mondo,
muovono da una idea madre fecondissima ed alla quale rannodava tutte le idee
secondarie e particolari. Uvità ed armonia cioè perfetto organismo è la nota
caratteristica del lavoro dei sommi.Ed io vado riunendo non poche idee per
ricostruire su solide basi quest'opera di architettura gigante e le mie
indagini non ric scono infruttuose, e ne è prova evidentissima questo frammento
inedito dal titolo « Pratica della Scienza nuova . » Non poche censure mosse la
turba dei filosofanti al Vico perchè s'ispirava a concezioni idealistiche
negligentando la pra tica della vita. Tale critica presenta apparenze di verità
tanto che il Vico stesso no rimase impressionato,ma raffrontando dottrine a
dottrine si coglie il genuino e loro vero significato. La grand o idealità diquestamassima
«la storia ideale eterna delle nazioni» « Il Lilla ha liberato la dottrina del
Vico da tutte le fallaci inter petrazioni. La sua dottrina che mi pare giusta,
merita di essere più larga mente svolta. » Nel volume delle Onoranze; è una
vera esagerazione , e chi si addentra nella parte riposta del sistema Vichiano
si accorgerà che non si possa ascrivere ad essa une perfetta interpetrazione
astratta e specialmente raffrottandola colla psicologia sociale che sta a base
del processo del filosofo napoletano. Bisogna por mente innanzi tutto alle tre
fasi che percorre l'umanità nella sua storica evoluzione; età del senso, della
fantasia, e della ragiono. E molto più alla dottrina del corso e ricorso delle
nazioni, cioè al loro periodo d'infanzia, di giovinezza e di vecchiaia. Valga
ciò a smentire l'assoluto idealismo del Vico ilquale è puramente immaginario.
Tutta la seconda Scienza nuova è derivata dalla psicologia sociale evoli tiva e
tutti i diritti, i costumi, le religioni, le costituzioni p o
litichedeglistatisonoemanazionidiquesto principio.Nelprimo stadio tutto è
divino, gli uomini inselvatichiti hanno un diritto
divino,tuttoprocededagliDei;ilGoverno teocraticorappresen ato dagli oracoli, la
lingua divina per atti muti di religiose cerimonie. In Giove e Giunone si
personifica ciò che si riferisce agli auspicii ed alle nozzo: laGiurisprudenza
è scienza d'intendere i misteri della divinazione; il giudizio divino, cio è
che nei templi divini,tutte le azioni sovo invocazioni agli Dei :ogni dritto è
divino,ogni pena è sacrificio, ogni guerra assume carat tere religioso ed ha
giudici gli Dei: od il giudizio di Dio si riduce a duello ed alle rappressaglie
: tali categorie sono sim boleggiate dal lituo, dall'acqua e fuoco sopra un
altare. Seguo poi un ordine di fatti eroici da cui deriva la natura eroica, o
dei nati sotto gli auspicii di Giove, il costumo eroico como quello di Achille,
il governo civico o aristocratico o dei for tissimi, la lingua eroica o delle
armi gentilizie o stemmi.I ca ratteri eroici come Achille ed Ulisse, che
personificano tutte le grandezze e i savii consigli. La giurisprudenza eroica,
che stà nella solennità delle formule della legge, la ragione di
stato conosciuta dai pochi provetti del governo , il giudizio eroico che
consiste nell'esatta osservanza delle formule e precipua mente deriva il feudo
dalla proprietà dei forti. Infine c'è un or dine di fatti umani, cui
corrisponde la natura umana intelligente e perciò benigna,modesta, che
riconosce per legge lacoscienza, la ragione, il dovere, e poi il costume
officiale, indi il diritto umano fondato dalla ragione, il governo umano
dettato dalla ragione, la lingua umana, Abbiamo motivo di credere che il Vico
impressionato dalle obiezioni dei contemporanei vollo dichiarare il supremo
princi pio della Scienza Nuova , cioè la storia eterna ed ideale delle nazioni
con questo frammento e senza addarsene disconobbe l'efficacia positiva della
Scienza nuova. Egli dotato di mente speculativa, pratica e progressiva,
non si poteva mai acconciare a vivere di formule astratte e di umana , il
parlare articolato , i caratteri in telligibili, che la mente umana rivelò dai
generi fantastici se parando le forme e le proprietà dai subietti. La
giurisprudenza umana che mira non al certo, ma alvero delle leggi. L'auto rità
umuna che nasce dalla rinomanza di persone capaci e sa pienti nelle agibili ed
intelligibili cose , la ragione umana o ragione naturale che divide a tutte le
uguali utilità. Il giu dizio umano velato di pudore naturale e mallevadore
della buona fode che ai fatti applica benignamente le leggi temperandone
ilrigore.E questi fatti hanno ancheiloro simboli nellabilanciache rappresenta
le qualità civili nelle repubbliche popolari, perchè la natura ragionevole è
uguale in tutti gli uomini. Questi tre ordinidifatti riposanointreprincipii,
chesono:iltimore, l'amore , il dolore, simboleggiati dallo altare, dalla pace e
dal l'urnacineraria,ecosì sifondarono loreligioni, imatrimoni e l'immortalità
dell'anima.In questiconcetti siriassume tutta la seconda Scienza nuova.
Rispettaro tutto quanto i nostri maggiori operarono di grande è la disposizione
più favorevole a quest'opera di conciliazione, ma perchè il ri spettonon
portiadelleideeesclusiveenonsoffochilalibertàdeinostri giudizi verso lo scopo
ultimo della scienza, avvicinata a questo scopo la pro duzione più perfetta
dell'uomo , ci rivela la sua imperfezione , in questo modo èriconosciutalanecessitàdell'Ideale,perchè
fossecriticatoemiglio rato il presente.
puri concetti metafisici, poichè il processo inquisitivo che egli
seguiva aveva un fondamento storico e dava origine ad un temperato e ragionevole
positivismo, pel quale non si poteva disgiungere la scienza dalla vita.Egli ben
vedeva che la scienza fuori la vita era una vana supellettile intellettuale
,> un giuoco dialettico del pensiero e non punto proficua al beninteso pro
gresso delle nazioni. Esiste un ideale di perfettibilità , supe riore , ma non
indipendente dalla vita , verità questa intuita dall'antesignano della scuola
storica tedesca,da Savignys,ilquale era ammiratore passionato delle istituzioni
giuridiche romane nelle quali vedeva la più alta manifestazione del progresso
giu ridico. Ma fatto maturo di anni e di senno confessò apertamente che per
quanto possono sembrare perfette le istituzioni romane, pure comparate
all'idealità mostrano la loro incompiutezza. Vico gittò le basi di una vasta
costruzione scientifica fondata nel processostorico– filosofico.E
dàbiasimoaldivorziofraquesti due processi metodici, in questa memoranda
sentenza « Pecca rono per metà i filosofi perchè non accertarono le loro idee
coll’autorità dei filogici; peccarono per metà i filologi perchè non inverarono
la propria conoscenza coll'autorità dei filosofi». La storia ci rivela il
certo, l'origine, le fasi o gl'incrementi degl'istituti politici, sociali
giuridici, e la filosofia rivela l'ele mento razionale e addita le perfezioni
ideali, cui si possono inalzare;veritáquestaintuitada Bacone daVerulamin «I filosofi,
> dic'egli, scoprono molte cose belle a contemplarsi, ma impossi
bile ad essere attuate, ed i giuristi ragionanı) come prigionieri nelle catene.
Alla mente di VICO si affaccia, un dubbio che poteva presentare questo supremo
principio della scienza studiossi ripararvi con questo frammento inedito. «
Tutla quesť opera è stata ragionata come una scienza puramente spe culativa
intorno alla comune natura dello nazioni. Però sembra per quest’istesso mancare
di soccorrere alla prudenza umana, ond'ella si adoperi perchè le nazioni, le
quali vanno a cadere o non ruinino affatto , o non s'affrettino alla loro ruina
ed in conseguenza mancare nella pratica , qual dev'essere di tutte le scienze,
che si ravvalgono d'intorno a materie , le quali dipendano dall'umano arbitrio
, che tutte si chiamano attive. Anche nella coscienza dei grandi vi sono delle
oscil lazioni sulle loro concezioni. Il Vico nel fram . citato, dice che la
scienza pratica non si possa dare dai FILOSOFI, ma i filosofi civili e i
reggitori degli stati possono creare costituzioni politiche e leggi, e
richiamare le nazioni al loro stato di perfe zione. Niente di più vero: le nazioni
e tutto il mondo moralo creato dall'arbitrio umano non può ridursi a categorie
logiche, non può essere sottoposto alla legge ferrea della necessità, e quindi
la scienza puramente contemplativa o ideale non può contenere nella sua orbita
le leggi relative dei fatti umani. Se quest'ordine è indipendente dalla
necessità logica, può essere (1) Qui do legibus scripserunt, omnes vel tanquam PHILOSOPHI,
vel tan quam Jureconsulti, argumentum illud tractaverunt. Atque Philosophi pro.
ponunt multa dictu pulcra , sed ab uso remoto. Jureconsulti autem ,suae quisque
patria legum , vel etiam Romanorum , aut Pontificiarum placctis abnoxüetad dicti,
judicio sincero non utuntur,sedtanquam evincolis sermocinantur. Tractatus de
dignite et augmentis scientiarum ; solo regolato o disciplinato dalle scienze
pratiche ed attive e non dall'ordine puramente scientifico. Nel capitolo VIII
della seconda Scienza nuova pare che VICO incorra in un'incoe renza, in quanto
si propone di trattare di una storia eterna sulla quale corre di tempo la
storia di tutte le nazioni con certo originiecerteperpetuità,e poidico
chelescienze pratiche possonoregolarelavita.Ma come si può parlare d'una storia
eterna, sulla quale sono modellate le storie di tutte le nazioni se il mondo
morale, con tutti i suoi fattori , procede dall'arbitrio umano ? Questo ardito
disegno del Filosofo Napoletano racchiude un pen siero riposto. Questa Storia
eterna delle nazioni, modellatrice, esemplatrice di tutte le storie delle
nazioni è uno dei più grandi problemi della Scienza Nuova, che è assai
bisognoso di com menti illustrativi ed esplicativi. In questo capitolo si
nasconde una speculazione alta, e, dirò meglio, vertiginosa. Qui il Vico si
rivela come idealista, o meglio tale appare, poichè nello stabilire un ideale
comune a tutte le nazioni pare che proceda con un metodo astratto e formale,
cioè como un ideale fanta stico di pura creazione del cervello. Parvenza vana
inganna trice! Ad un pensatore meditativo apparisce,com'è infatti, una dottrina
a fondo realistico. Essa non è generata ma è ricavata da uno studio
coscienzioso ed accurato dei fatti. Il diritto naturale delle genti è reale
quanto la natura umana, ed è la fonte di questa dottrina. Secondo la mente del
Vico non si potrà revocare in dubbio l'esistenza d'un dritto naturale, comune a
tutti i popoli. Cotal diritto, comune a tutte le nazioni, ricavasi dalla
psicologia sociale , la quale ci attesta la natura comune sociale dei
popoli. Questo argomento comparativo trova la sua conferma nel fatto
irrecusabile che questo diritto comune, patrimonio di tutto le genti, non
poteva essere stato trasferito o comunicato da p o polo a popolo,
perchè fra loro non vi era, nè era possibile nes suna comunanza di
relazione.(1)Ponendo mente all'esistenza di un diritto naturale identico a
tutti, o perciò universale e necessario, non si può negare un sicuro fondamento
all'esistenza d'una sto ria eterna nella quale corrono di tempo in tempo le
storie di tutte le nazioni. Il diritto é uno, come uno è il tipo umano. Nella
varietà dei costumi dei popoli vi è qualche cosa che non va ria nè si trasforma.
Dunque uno è il diritto, ed una è la storia ideale delle nazioni , la quale è
fondata sull'unità del diritto. Dunque dalla medesimezza del costume, sigenera
ildirittona turale,e da ciò nasce ildisegno di una storia eterna delle na zioni
Concetto ardito e profondo, poichè in tanto è possibile una storia eterna ed
ideale, in quanto vi è un tipo unico nel di ritto e nel costume. I grandi genii
hanno il presentimento di certe verità che poscia approfondite dalle venture
generazioni acquistano piena coscienza. Questa divinazione del VICO oggi è
rifermata dalla analisi comparativa degli istituti giuridici e politici , e
questa scienza divinata dal Vico è una delle più belle glorie dei nostri tempi,
a cui un forte ingegno siciliano addisse il suo ingegno e ne abbozzò il primo
disegno. E qui si adombrano le prime lince di un metodo armonico fra il vero e
il fatto, fra LA FILOSOFIA e la Storia La Storia dei costumi deve emanare da
due cause coefficienti:dall'ordine reale e dell'ordine ideale,e così si avvera
ilgran principio del Vico che « verum et factum recipro cantur » Ma l'ordine
ideale per non essere una chimera deve Ideo uniformi nate appo interi popoli
fra essi loro non conosciuti, debbono avere un motivo comune di vero. Scienza
nuova,libro I. Dignitá XIII. avere un'origine per quanto rimota,ma sempre
realistica, non è fantasmagorico, ma ricavato,o meglio osservato nell'elemento
comune che presenta il costume dei popoli,e perciò non è in fecondo e
sterile,ma proficuo alla vita. (1Questo brano è tolto dal capitolo Incoerenze
di Giambattista Vico del mio lavoro inedito: La mente del VICO rivendicata,
illustrata e integrata. A riassumere la dottrina giuridica di Vico
è indispensabile determinare i principi fondamentali dell» scuola
storico-filosofica da Ini splendidamente rappresentata. La
Scienza Nuova è lu riprova più sicura della «lenominazione apposta ; iu
quel lavoro di architettura gigante si vede adombrato il disegno del¬
l’armonia fra i principii razionali e il fatto storico. La
psicologia sociale è il substratum delle leggi, delle religioni, delle lingue
e di tutti gli altri elementi della civiltà. In quella filosofia della
storia contenuta in germe LA FILOSOFIA DEL DIRITTO POSITIVO, perchè le
costituzioni civili, sociali e politiche sono conseguenza necessaria
della vita, della cultura e dei costumi delle varie nazioni.
Egli divide in tre grandi periodi la storia civile delle nazioni,
cioè l’età del senso, della fantasia e della ragione, e tutti i fattori dell’incivilimeiito,
dalla religione alla lingua, da questa alla giurisprudenza c infine
alla politica rispecchiano fedelmente le immagini e i caratteri di quei tre
grandi avvenimenti '‘tarici. Anche nell’opera, De universi iurte et prtnùfno
et fine uno le ricerche del DIRITTO FILOSOFICO sono accompagnate
dall’indagine storica e innumerevoli applicazioni fa al diritto romano, da
cui poi si eleva ai supremi principii giuridici. Questo sapiente
indirizzo trova la ragion di essere in quel supremo pronunziato del De
antiquissima Italorum sapiential, che « verum et factum reeiprocantur. Il fatto
adunque deve procedere di conserva col vero, altrimenti si cade o nel
forma¬ lismo astratto o nell’imperiamo gretto. E con questo criterio
VICO dà biasimo ai FILOSOFI ed ai filologi; mancarono per metà I FILOSOFI perché
non accertarono le loro idee con l’autorità dei filologi, e mancarono per meta
i filologi perchè non avverarono le loro idee con l’autorità dei
filosofi. Il vero e il fatto sono due termini convertibili, e,
perchè convertibili, l’indagine storica trova la sua vera integrazione
nei principii di ragione, e questi hanno il loro fondamento nell’ordine
dei fatti bene accertati. Storia e Ragione sono adunque i due
fattori del diritto filosofico e, quando si scinde il fatto dal
vero, si avrà del diritto un’idea esclusiva, incompiuta, o fallace. Il
diritto, secondo VICO, è un’idea umana, vale a dire un principio ideale e
storico, o meglio un principio ideale che si attua nella storia; e
tanto è vero ciò che mette radice nell’ordine eterno dell’eterna ragione
o dell’eterna volontà in quanto prescrive alia volontà umana l’equo
bono. Secondo questa dottrina il diritto deriva da due cause
coefficienti, cioè: l’utile e l’eterna ragione. L’una dà la forma e l’altra la
materia. Utilità» fiiit occasio iuris, honestas causa. Tutto ciò risponde
esattamente allo spirito del sistema vichiano. Infatti la plebe, insorgendo
contro il patriziato, conquistava i propri diritti, eppure era mossa
dalla molla dell’interesse. Sicché il progresso morale e civile
delle nazioni era occasionato dalle passioni, lagli interessi, i quali
contribuivano a far riconoscere i principii razionali. Quao vis veri sen liumann
ratio virtus est quantuin cum cupiditate pugnat. Quantum utilitates diligit et
exquat, quao nnum universi iuris principium unusque iincs. L’utile non è
per sè stesso né onesto nè turpe, ma pnò divenire l’uno o l’altro quando
è o confonne o disforme alla giustizia. Ecco dunque come il diritto ha
l’anima e il corpo, la materia e la forma, ed lia un contenuto etico,
che applica nell’utile. E da ciò segue la definizione del
diritto: Igitur ius est in natura utile a eterno, coniincusu acquale. I
punti salienti nei quali si rias mine la teorica del Vico sono i seguenti
: l’indagine storica, base della ricerca razionale, convertibilità. del vero
col fatto; insidenza del diritto nel bene, incarnata nella formula
dell’equo buono : inerenza dell’equo buono nell’ordine eterno; futilità
in quanto è regolata dalla ria veri; l’utile è materia; e la ragione
forma del diritto.Vincenzo Lilla. Lilla. Keywords: implicature, Vico, Vico
ri-vendicato, Vico ri-vendicate, Luigi Speranza, “Grice e Lilla: la semiotica
di Vico” – The Swimming-Pool Library. “Il Vico di Lilla” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Limone – simbolica del
potere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Atella di Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like
Limone; like me, he has explored the idea of value in terms of catastrophe – I
didn’t. He has explored the poetics of philosophy – and he has investigated on
a concept that Strawson and I always found fascinating, that of a person!” -- “Che
cosa è, nel mondo umano, la persona?” “Tutto.” “Che cosa è, nel mondo
contemporaneo, la persona?”” Nulla.” Persona e memoria,
Rubbettino. La sua ricerca filosofica si inserisce nel solco del personalismo
comunitario. Si laurea a Napoli e il
Roma. Studia a Parigi e a Châtenay-Malabry, sede dell'Association des
amis d'Emmanuel Mounier, presso la Comunità dei muri bianchi, cui appartenevano
Fraisse, Ricœur, Mounier, Domenach. Insegna a Napoli. I suoi interessi di
ricerca abbracciano aspetti epistemologici, etici, filosofico-pratici e simbolici.
Al centro della sua attenzione teoretica è “la persona”. Fondato la rivista
"Persona” e "Symbolicum" sulla simbolica. Sonda in profondità
l’idea di persona. Là dove la persona non è né la semplice nobilitazione
dell’essere umano in generale, né una singola unità seriale. Della persona si
può dare idea, non “concetto”, perché l’idea è aperta come la vita, mentre il
concetto è chiuso. L’idea di persona, però, non è l’idea di un quid ma di un “quis”
perché la persona è un “chi” non un “che” – That’s why it’s very wrong to call
“the chair is red” as third-person seeing that the chair is hardly a person!” è
l’idea di un’essenza che non può essere separata dalla concreta singola
esistenza, originalissima e dotata di dignità. In quanto idea di un “quis”, la
persona si presenta come l’altro versante del teorema d’incompletezza di Gödel.
Il significato della persona si delinea all’interno di una costellazione in cui
essa: -è realtà singolare e la sua idea; -è prospettiva ontologica sussistente
e la sua verità; -è la parte di un tutto che solo parzialmente è parte, perché
per altro verso si presenta come un tutto, in quanto è irriducibile al tutto e
indivisibile in sé; -è l’eccezione istituente una regola che riesce, e non
riesce, a farsene istituire; -è l’idea di qualcosa che resiste alla possibilità
di essere ricondotto a un’idea; -è l’idea di un appartenere che resiste
all’idea di appartenere. L’essere della persona richiama, a suo modo, il
problema delle antinomie di Russell. Un tale arcipelago di paradossi
costituisce, però, una forza virtuosa che interroga ogni sistema. La persona si
configura come invenzione teorica, paradosso logico e misura epistemologica, e
rappresenta il punto strutturale di base che istituisce la visione del gius-personalismo.
Opere: “Tempo della persona e sapienza del possibile: Valori, politica, diritto
(ESI, Napoli); “Tempo della persona e sapienza del possibile: Per una
teoretica, una critica e una metaforica del personalismo (ESI, Napoli); La
catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi, Milano. Bellezza e persona, su
“Aisthema” “La macchina delle regole, la verità della vita. Appunti sul fondamentalismo
macchinico nell’era contemporanea, in La macchina delle regole, la verità della
vita (Angeli, Milano); Che cos’è il gius-personalismo? Il diritto di esistere
come fondamento dell’esistere del diritto, Monduzzi, Milano. Ars boni et aequi.
Ovvero i paralipòmeni della scienza giuridica. Il diritto fra scienza, arte, equità
e tecnica (Angeli, Milano), Filosofia e poesia come passioni dell’anima civile.
La persona fra potere e memoria in Persona, Artetetra, Capua. Persona e memoria
– cf. Grice, “Personal identity” -- “Oltre la maschera” il compito del pensare
come diritto alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Poesia Polifonia
d’un vento (Salerno-Roma). Dentro il tempo del sole (Salerno-Roma). Ore d’acqua
(Salerno-Roma). Incontrando il possibile re (Salerno-Roma). “Notte di fine
millennio” (Bari). Fenicia, sogno di una stella a nord-ovest (Roma). L'angelo
sulle città, in onore del figlio (Roma ). Le ceneri di Pasolini (Pasturana, Alessandria).
Aforismi di un impiccato felice (Salerno). Aforismi del passato duemila:
distruzioni per l'uso (Salerno). Ossi di limone. Aforismi di uno scostumato
(Vatolla). Sierra Limone. Dai taccuini fenici di Er Limonèro (Vatolla). NV.
Melchiorre, Essere persona, Fondazione A. e G. Boroli, Milano Fondazione roberto
farina. Giuseppe Limone. Limone. Keywords: simbolo, simbolismo, la dimensione
del simbolo, ventennio, fascismo, simbolica
del potere, mistica fascista, damnatio memoriae, la composita, la simbolica,
simbolo, composito. Strawson, “The concept of a person” – Ayer: “The concept of
a person” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Limone: la composita” --. Luigi Speranza, “Grice e Limone: umano e
persona” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lisi – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Lisi was a Pythagorean. When
the Pythagoreans were being persecuted in Italy, Lisi escaped and made his way
to Teba. There he became the tutor of Epaminonda, the city’s military leader.
He wrote a letter to Ipparco.
Grice e Lisiade – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. A Pythagorean according to
Giamblico di Calcide.
Grice e Lisibio – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to
Giamblico di Calcide.
Grice e Lisimaco – Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Lisimaco belonged to The
Porch. He was the tutor of Amelio Gentiliano. Since Amelio came from Firenze,
that may be taken as having been the home of Lisimaco as well.
Grice e Livio – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Tito Livio. Although famous as
one of the great Roman historians, he was also a philosopher, who popularized
te form of the ‘dialogo filosofico.’
Grice e Lodovici – la virtù – verso
la meta – la meta è l’origine -- filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi
Speranza (Messina). Filosofo
italiano. – Grice: “I like Emanuele
Samek Lodovici – very Italian – his metamorfosi della gnosi is good!” -- samek
lodovici -- one of the two. Emanuele Samek Lodovici Il suo pensiero d'impronta metafisica si
oppone al materialismo e al riduzionismo. Esperto della filosofia di Plotino,
Sant'Agostino e Marx, si occupa dello gnosticismo che a suo parere si trova
ripresentato in diverse filosofie e ideologie dell'età moderna e
contemporanea. Figlio del bibliotecario e bibliografo Sergio Samek
Lodovici, nativo di Carrara, che lo chiamò come suo fratello maggiore, noto
medico e politico. Rimase in Sicilia per breve tempo per poi vivere sempre a Milano.
Scampò a soli cinque anni alla tragedia di Albenga, quando dopo il naufragio di
un'imbarcazione carica di bambini era stato inserito nel gruppo delle piccole
salme, ma il tempestivo intervento di un medico lo salvò. Di formazione e
cultura cattoliche, studiò a Milano dove si laurea con «Filosofia classica e
spiritualità cristiana nel Commento di Sant'Agostino al Vangelo di San
Giovanni». Insegna aTorino. Pubblicò due monografie, una su Agostino (con il
contributo del C.N.R.), e l'altra sulla gnosi moderna, che gli valsero la
cattedra di Filosofia a Trieste. In una
lettera Noce si riferiva così. Nella prima delle sue due opere fondamentali,
Dio e mondo, inizia considerando la grave accusa rivolta da Heidegger alla
metafisica, ovvero di non aver compreso che cos'è l'«essere» e di aver
reificato Dio, di averlo cioè reso una «cosa». Questa critica può essere
legittima ma non nei riguardi della metafisica neoplatonica nella forma in cui
è stata mediata da Agostino. Individua il fulcro di tale metafisica nella
dottrina della «partecipazione» delle idee col mondo, in forza della quale il
rapporto di Dio col mondo è una relazione sostanziale e non oggettualità.
In Metamorfosi della gnosi, delinea una fenomenologia della cultura come
influenzata da una mentalità inconsciamente gnostica. Tale mentalità ha assunto
in sé le tesi dello gnosticismo antico, ovvero la sostanziale negatività del
mondo, la possibilità di redenzione dalla oscurità del mondo attraverso un
sapere salvifico (gnosi) e la possibilità di un redenzione del mondo
realizzata, senza bisogno della grazia divina, dalla sola azione dell'uomo
tramite la politica e/o la scienza. Così nel pensiero gnostico la
finitezza e la creaturalità vengono disprezzate e rifiutate, con l'ambizione di
creare l'Uomo Nuovo e la Gerusalemme terrena. Insomma, sintesi del pensiero
gnostico è quella formulazione che trova il proprio culmine nel «rifiuto di non
poter essere Dio»; in tal modo nella visione gnostica non è più Dio, ma l'uomo
gnostico a identificarsi con l'infinito, sgravato com'è da qualsiasi
limite. Da ciò appaiono evidenti gli obiettivi polemici e critici di ogni
metamorfosi dello gnosticismo rappresentato nelle forme del riduzionismo
antireligioso, del prometeismo marxista, della filosofia
radical-relativista diffusa attraverso i media, della corruzione della memoria
storica attuata anche attraverso la corruzione del linguaggio ed infine nella
strategia della distruzione della famiglia, che è stata potentemente colpita in
particolare con la rivoluzione sessuale e con alcuni tipi di femminismo.
Per quanto riguarda la sua pars construens, Safferma che proprio a partire
dalla post-marxistica crisi del pensiero secolarista gnostico si deve delineare
la necessità di ritornare alla tradizione metafisica, da lui indicata sulla
linea di Platone, Plotino e soprattutto Agostino. In sintonia con l'ermeneutica contemporanea, e
pur evitandone le derive nichilistiche, riconosce la struttura storicamente
condizionante del linguaggio nei confronti dell'esistenza e della conoscenza,
secondo una sua favorita formula per cui «chi non ha le parole non ha le cose»,
e d'altra parte il filosofo riconosce anche la funzione inversa del linguaggio
per cui, oltre che elemento condizionante, esso è anche il mezzo con cui l'uomo
storico può trascendere i vincoli della storia e del linguaggio stesso (i
baconiani «idola fori» e «idola theatri») ed esprimere le verità eterne. Rievoca
la valenza dell'autocoscienza della ragione e delle sue vastissime
potenzialità, sia in bene che in male, e a partire da queste, ne ricorda i
limiti, i fallimenti storici e le costitutive incapacità che emergono
specialmente nel momento in cui essa viene elevata ad una illuministica
idolatria, concretizzandosi nella moderna vita di massa che «ha affermato la libertà politica da ogni
autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; ha
affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel sesso; ha
affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, solo per
prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo.»
Piuttosto, una ragione accorta deve, restando autonoma, interagire con la
religione, per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le
risposte prime ed ultime. Tipica poi del suo pensiero è la «cultura del ricordo», intesa come
cultura non di una memoria archeologica bensì di una memoria che guardando ai
fallimenti del passato possa liberare il presente dalle menzogne ideologiche e
dai progetti utopistici che, ripetendosi nella storia, hanno generato i
totalitarismi del XX secolo, e che oggi producono la dittatura del relativismo
e del nichilismo. Così la memoria assume una funzione spirituale nel senso che «mi rende migliore di quello che sono». La
riflessione è dunque nel complesso di carattere etico-sapienzale, consapevole
che in ogni agire umano si esplica la ricerca della felicità, una ricerca che,
per essere efficace e compiuta, deve però essere immune da qualsiasi utopismo
onirico: è alla luce di questa precisazione che può affermare che «non vi è
nessuna felicità senza virtù, in altre parole non vi è nessuna felicità senza
quell'unica attività che è in grado di rendere l'uomo pienamente umano», perciò
«non si può pretendere che l'acquisto della felicità non passi attraverso lo
sforzo, la lotta, e in ultima analisi la sofferenza», ed è in tal modo che
trovano un senso il limite umano e la sofferenza. Non sfugge al filosofo la
coscienza della precarietà della felicità umana, però questa «ben lungi dallo
spingerci alla tristezza per l'insaziabilità dell'uomo, va tuttavia vistaottimisticamente,
come l'indizio che è un'altra la felicità conforme al livello spirituale degli
esseri umani», perché «ultima hominis felicitas non est in hac vita. Saggi: “
Plotino nel In Johannis Evangelium di Agostino, in Contributi dell'Istituto di filosofia, Vita e
Pensiero, La Lettera ai Galati” in Marcione e Tertulliano, in «Aevum», Milano, Agostino,
in Questioni di storiografia filosofica,
La Scuola, Brescia); Sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, Vita e
Pensiero, Marxismo o Cristianesimo, Ares, Sesso, matrimonio e concupiscenza in,
Etica sessuale (Milano); Tra cosmologia e metafisica. Note sul concetto di
cosmo, in “Il demoniaco nella musica, Giappichelli, La felicità e la crisi della cultura radicale
ed illuministica, in La crisi della
coscienza politica e il pensiero personalista, Libreria Gregoniana, “Dio e
mondo: relazione, causa e spazio” (EStudium); “Metamorfosi della gnosi” Ares, Dominio dell'istante, dominio della morte.
Alla ricerca di uno schema gnostico, in «Archivio di Filosofia», Istituto di
studi filosofici, Roma, “La gnosi e la genesi delle forme, in «Rivista di
Biologia», Il gusto del sapere, Universitas); “L'arte di non disperare. Il
gusto del sapere Estratti di L'arte di
non disperare M. Picker, Il mio professore di filosofia, Studi
Cattolici, G. Alabiso, La critica dell'attacco macro-strutturale al cristianesimo,
Catania. Giacomo Samek Lodovici, Profili. Emanuele Samek Lodovici, Studi
Cattolici, A. Sciffo, Le maschere della gnosi, «Avvenire», Gaspare Barbiellini
Amidei, Il filosofo che insegna l'arte della speranza., in «Corriere della
Sera», filosofo che insegna arte_della_co shtml G. Feyles, La battaglia di
Samek, in «Tempi», tempi la-battaglia-di-samek Sergio Fumagalli, Emanuele Samek
Lodovici e Noce: Gnosi e secolarizzazione, Santa Croce, Roma //sergiofumagalli/files/tesi.pdf
G. Taddeo, Verità e diritto, Trento G. Segre,
una vita per la Verità, «la Bussola Quotidiana» /la nuova bussola quotidiana.com/it/archivioStorico
Articolo-emanuele-samek-lodoviciuna vita-per-la-verit- A. Galli, Il ritorno della
gnosi, in «Avvenire», G. Anna, L'origine e la meta. Ares, Milano. Gnosticismo Cattolicesimo, Noce, Voegelin, Mathieu
su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Il gusto del sapere Universitas, Documentazione
interdisciplinare di scienza e fede, Gnosi moderna e secolarizzazione
nell'analisi” S. Fumagalli, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, “la
gnosi come vero avversario della verità di S. Restelli, sito
"CulturaCattolica. Emanuele Samek Lodovici. Lodivici. Keywords. la virtù, l’amore sessuuale,
il sessuale – la sessualita, il maschile, il machio, il sesso maschile, il vir,
virile, virilita. Refs.: Luigi Speranza, “ Grice e Lodovici” – The
Swimming-Pool Library.
Grice Lodovici – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma) “Giacomo samek lodovici is the author of a fascinating
essay on philosophical psychology. Figlio di Emanuele Samek Ludovici.
Grice e
Lombardi – la filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “I like
Lombardi; he took seriously my idea of Philosophy’s Longitudinal Uniity, and like
Passmore or Warnock, engaged iin a study of the ‘last hundred years of Italian
philosophy. This shows that his interests on Kant, etc., are Italian-based,
mainly!” Il padre Giovanni fu avvocato e docente di diritto e procedura penale
a Napoli, già allievo prediletto di Bovio, deputato prima e dopo il fascismo,
autore di scritti vari di sociologia. La madre Rosa Pignatari fu nipote di Ciccotti, nella cui casa era cresciuta.
Tradusse alcuni degli scritti di Karl Marx nelle Opere edite dal Ciccotti e la Storia
del movimento operaio di Edouard Dolleans.
Laureato e libero docente in filosofia lavora in filosofia. Pubblica “Il
mondo degli uomini” (Firenze, Le Monnier) Insegna a Roma. Presidente della
Società Filosofica Italiana e (sin dalla fondazione) della Società filosofica
romana, diresse il "Centro di Ricerca per le Scienze Morali e
Sociali" presso l'Istituto di filosofia della Roma. Direttore della
rivista De Homine cui si è affiancato il Bollettino Bibliografico per le
Scienze morali e sociali. Membro dell’Accademia nazionale dei Lincei. Gli fu
conferito il premio nazionale "Benedetto Croce" per la filosofia. Saggi: “L'esperienza e l'uomo.”“Fondamenti di
una filosofia umanistica” (Firenze: Sansoni); “Il mondo morale;”“Feuerbach” (Firenze:
Nuova Italia); “Feuerbach e Marx: “Kierkegaard” (Firenze: La Nuova Italia); “La
libertà del volere” (Milano: Bocca); La filosofia critica, Roma: Tumminelli;
“Il problema kantiano, “Commento alla Critica della ragion pura” Kant vivo (Firenze:
Sansoni); Nascita del mondo modern (Firenze: Sansoni); Concetto e problemi di
Storia della filosofia” (Asti: Arethusa); “Le origini della filosofia” (Asti:
Arethusa); “Libertà” (Asti, Arethusa); “Dopo lo Storicismo” (Firenze: Sansoni);
“Ricostruzione filosofica” (Asti: Arethusa); “La filosofia italiana” Asti:
Arethusa, Il piano del nostro sapere, Asti: Arethusa); “La posizione dell'uomo
nell'universo, Firenze: Sansoni); “Problemi della libertà, Firenze: Sansoni, Filosofia e civiltà” (Firenze: Sansoni, Saggi
Manoscritti inediti Scritti vari di filosofia, Scritti politici Filosofia e
Società, Firenze: Sansoni, Filosofia e Società Firenze: Sansoni, Il senso della
storia” (Firenze: Sansoni); Aforismi inattuali sull'arte” (Firenze: Sansoni); Galileo:
un ante-signano”(Firenze: Sansoni, scritti per l'università, Firenze: Sansoni,
“Continuità e Rottura, Firenze: Sansoni, Una svolta di civiltà, n.d.: ERI, Gaetano
Calabrò, Torino: Filosofia, Atti del Congresso internazionale di Filosofia,
Milano: Castellani & C Editori, Il materialismo storico Atti del Congresso
internazionale di Filosofia; Roma: Fratelli Bocca, Il problema della filosofia
oggi Varie Taccuini di viaggio Dodici canzoni napoletane, su versi di Salvatore
Di Giacomo, Firenze: Forlivesi, Torino: Edizioni di Filosofia, Treccani
L'Enciclopedia italiana. Un contributo significativo per la costruzione della
filosofia italiana contemporanea, Lincei, in Biblioteca di Filosofi, Sapienza Roma.
Franco Lombardi. Lombardi. Keywords: la filosofia italiana, Galilei. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lombardi” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Longino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. An adviser to Queen Zenobia. Oddly, when Zenobia was
defeated by the Romans, she was taken off to Rome, whereas her adviser was
executed.
Grice e Longino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Gaio Cassio Longino was a legal scholar and
theorist.
Grice e
Longano – dell’uomo naturale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ripalimosani).
Filosofo italiano. Grice: “Longano took ‘naturalness’ so seriously that he
would apply it to anything: ‘man’ (‘uomo naturale’) and morals (‘morale
naturale’).” “I like Longano; he is a systematic logician, as I’m not –
therefore he thinks that to study semantics, which logic is, starts with
studying signs – as I did in my seminars on Peirce – so Longano is the one I
was referring when I mentioned what ‘people were at when they display an
interest in natural versus conventional signs; he also has interesting things
to say about my favourite parts of speech, syncategoremata!”” Figlio di Vito
Longano e Dorotea Gentile, fu allievo di Zurlo, si trasferì a Campobasso e quindi a
Napoli dove divenne allievo di Genovesi. Fece parte della massoneria ed è
considerato un importante esponente dell'illuminismo, fu sostenitore dello
stretto rapporto tra anima e corpo e di una visione dell'uomo nella sua
interezza. Propugnò la rinascita dell'Italia, proponendo un piano di riforme e
il superamento del feudalesimo. Opere: “Piano
di un corpo di filosofia morale; ossia, Estratto d'un corso di Etica, di
economia e di politica” (Napoli,“Dell'Uomo Natural Napoli, “Saggio sul commercio”
(Napoli, presso Vincenzo Flauto, Raccolta di Saggi economici per gli abitanti
delle due Sicilie, Napoli, I, presso
Domenico Sangiacomo, II, presso Giuseppe
Campo, “Dell'uomo e della sua morale natural -- Esame fisico, e morale
dell'uomo, Napoli, Michele Morelli, Dell'uomo, e sua morale natural, Della
morale naturale, Napoli, M. Morelli, Dell'uomo Religioso e cristiano, Dell'uomo religioso, Napoli, M. Morelli, “Logica”
Viaggio per lo contado di Molise ovvero descrizione fisica, economica e politica
del medesimo, Napoli, Viaggio per la Capitanata, Napoli, Domenico Sangiacomo, Il
Purgatorio ragionato, F. Lepore, postfazione di S. Martelli, Campobasso,
Palladino, “Philosophiae rationalis elementa” “De arte logica” (Napoli, “De metaphysica”
(Napoli, Orsino); De Jure humanae, Napoli, Biblioteca provinciale di Foggia; L'anno
di Genovesi, su biblioteca provincial foggia. Gaetano, su webcache .googleusercontent.com
A. Rao, L'amaro della feudalità: la devoluzione di Arnone e la questione
feudale a Napoli” (Guida), F. Rizzo, La
civiltà del Purgatorio: riformismo e anti-clericalismo nella provincia molisana
del XVIII secolo, S. Borgna, su delpt.unina, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Longano. Longano.
Keywords: dell’uomo naturale, metafisica, logica. Luigi Speranza, “Grice e
Longano: esame fisico dell’uomo” “Grice e Longano: la semiotica” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Losano – filosofia del diritto romano – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Casale Monferrato). Filosofo italiano. Grice:
“I like Lossano; his research overlap with that of H. L. A. Hart, but Losano is
more interested in the philosophy and he is obviously more continental, as he
should, given the prominence of Kelsen in the field!” Si occupa di
filosofia del diritto e informatica giuridica. Si laurea a Torino. Insegna a Milano
e Alessandria, e Torino. Si occupa di storia della filosofia del diritto;
teoria generale del diritto; circolazione mondiale delle idee giuridiche e
sociali; filosofia politica; diritti umani; geopolitica; informatica giuridica;
privacy; e-publishing; edizioni di archivi storici. Pubblica un completo
panorama sull'evoluzione della nozione di sistema nel diritto dalla Roma antica
ad oggi. Cura carteggi di Jhering ed opere di Jhering e di Kelsen. Curato l'edizione critica
delle corrispondenza di Roesler. Come informatico giuridico, ha pubblicato un
manualedi informatica giuridica e diritto informatico e un progetto di legge
sulla tutela della privacy; Presidente del "Centro di calcolo automatico”
a Milano. Saggi: “La dottrina pura del diritto” (Einaudi, Torino); La teoria di
Marx ed Engels sul diritto e sullo stato. Materiali per il seminario di
filosofia del diritto” (Milano. Anno Accademicom Cooperativa Libraria Università
Torinese, Torino); “Gius-cibernetica” Macchine e modelli cibernetici nel diritto,
Einaudi, Torino); Libia Materiali sui rapporti fra ideologia ed economia” (Milano.
Anno Accademico Cooperativa Libraria Università Torinese, Torino); “Lo scopo
nel diritto. Einaudi, Torino, Jhering, Lo scopo nel diritto” (Aragno, Torino, Corso
di informatica giuridica, Cooperativa Milano), Corso di informatica giuridica; L'elaborazione
dei dati non numerici, Unicopli, Milano; Il diritto dell'informatica, Unicopli,
Milano Corso di informatica giuridica; Stato
e automazione. Etas Kompass, Babbage: la macchina analitica. Un secolo di
calcolo automatico, Etas Kompass, Milano Scheutz: La macchina alle differenze.
Un secolo di calcolo automatico, Etas Libri, Milano); Invenzioni francesi del
Settecento. Testi originali con 15 tavole dell'epoca, Bottega d'Erasmo, Torino);
I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extra-europei,
Einaudi, Torino, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed
extraeuropei, Einaudi, Torino, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai
diritti europei ed extraeuropei, Laterza, Roma Bari, L'informatica legislativa
regionale. L'esperimento del Consiglio Regionale della Lombardia, Rosenberg
& Sellier, Torino Forma e realtà in Kelsen, Comunità, Milano, Automi arabi
del XIII secolo. Dal "Libro sulla conoscenza degli ingegnosi
meccanismi" (Maestri, Milano); Automi d'Oriente. "Ingegnosi
meccanismi" arabi del XIII secolo, Milano Il diritto economico, Unicopli,
Milano); L'ammodernamento giuridico, Unicopli, Milano); Corso di informatica
giuridica: Informatica per le scienze sociali, Einaudi, Torino Il diritto
privato dell'informatica, Einaudi, Torino, Scritto con la luce. Il disco
compatto e la nuova editoria elettronica, Unicopli, Milano, L'informatica e
l'analisi delle procedure giuridiche, Unicopli, Milano, Diritto e CD-ROM.
Esperienze italiane, Giuffrè, Milano, Storie di automi. Dalla Grecia classica
alla Belle Époque, Einaudi, Torino Saggio sui fondamenti tecnologici della
democrazia, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, Istituto per la
Documentazione Giuridica, Firenze, Kelsen Umberto Campagnolo, Diritto
internazionale e Stato sovrano. Mario G. Losano. Con un inedito di Hans Kelsen
e un saggio di Norberto Bobbio, Giuffrè, Milano, Un giurista tropicale. Tobias
Barreto fra Brasile reale e Germania ideale, Laterza, Roma); “Sistema e
struttura nel diritto: Dalle origini alla scuola storica” (Giuffrè, Milano, Il
Novecento” (Giuffrè, Milano); Dal Novecento alla postmodernità, Giuffrè, Milano
U. Campagnolo, Verso una costituzione federale per l'Europa. Una proposta
inedita. Giuffrè, Milano, "Cedant arma Un giudice e due leggi. Pluralismo
normative, Giuffrè, Milano, Funzione sociale della proprietà e latifondi
occupati, Diabasis, Reggio Emilia, Kelsen, Scritti autobiografici. Traduzione e
cura di Mario G. Losano, Diabasis, Reggio Emilia Peronismo e giustizialismo:
dal Sudamerica all'Italia, e ritorno. M. Rosti, Diabasis, Reggio Emilia, Memoria
dell'Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche,
Accademia delle Scienze, Torino Academia delle scienze editorial memorie morali
Campagnolo, Conversazioni con Kelsen. Documenti dell'esilio ginevrino Giuffrè,
Milano La geopolitica del Novecento. Dai Grandi Spazi delle dittature alla de-colonizzazione”
(Mondadori, Milano); Kelsen Arnaldo Volpicelli, Parlamentarismo, democrazia e
corporativismo” (Aragno, Torino); Alle origini della filosofia del diritto a
Torino: Albini. Con due documenti sulla collaborazione di Albini con
Mittermaier, Memorie della Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze
Morali, Storiche e Filologiche, Accademia delle Scienze, Torino accademia delle
scienze/attivita editorial periodici-e-collane/ memorie/morali I carteggi
di Albini con Sclopis e Mittermaier. Alle
origini della filosofia del diritto a Torino, Memoria dell'Accademia delle
Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Accademia
delle Scienze, Torino accademia delle Scienze attivita editorial, periodici-e-collane/memorie
morali Alle origini della filosofia del diritto, Il corso di Alessandro
Paternostro a Tokyo. In appendice: A. Paternostro, Lexis, Torino I La Rete e lo
stato” (Mimesis, Milano); Bobbio. Una biografia culturale, Carocci, Roma, Kelsen, Due saggi sulla democrazia in
difficoltà” (Aragno, Torino); “La libertà d’insegnamento in Brasile e
l’elezione del Presidente Bolsonaro” (Mimesis, Milano). Mario Giuseppe Losano. Losano.
Keywords: filosofia del diritto romano -- Luigi Speranza, “Grice e Losano:
storia del diritto romano – what Kelsen never had!” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Losurdo – il ribelle
aristocratico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sannicandro di Bari). Filosofo
italiano. Grice: “Losurdo has contributed to a collection on ‘fatti normativi’
which is fascinating!” -- Grice: “I like
Losurdo: describing Nietzsche as the aristocratic rebel is genial; he also
engages in some linguistic botanising with his ‘linguaggio dell’impero’:
something Romans and Brits know well – cf. ‘Great Britaiin’ and my little
England!” -- losurdo, Italian philosopher, expert not
on Grice, but Nietzsche, “Nietzsche, ribelle aristocratico” -- essential Italian philosopher. Si laurea a
Urbino sotto la guida di Salvucci con la tesi, “La semantica di Rodbertus”. Direttore
dell'Istituto di Scienze filosofiche e pedagogiche "Pasquale
Salvucci" all'Urbino, insegnò storia della filosofia nella stessa
università presso la facoltà di Scienze della Formazione. Inoltre fu presidente
dell'hegeliana Società internazionale Hegel-Marx per il pensiero dialettico, membro
della Società di scienze di Leibniz a Berlino (un'associazione di scienziati
che si rifà alla settecentesca Accademia Reale Prussiana delle Scienze nella tradizione
di GLeibniz) e direttore dell'associazione politico-culturale Marx XXI. Dalla
militanza comunista alla condanna dell'imperialismo statunitense, fino allo
studio della questione afroamericana e di quella dei nativi, Losurdo fu
studioso anche partecipe della politica nazionale e internazionale. Di
formazione marxista, descritto sia come un «marxista controcorrente» sia come
un «marxista eterodosso» e un «comunista militante», la sua produzione spazia
dai contributi allo studio della filosofia kantiana (la cosiddetta autocensura
di Immanuel Kant e il suo nicodemismo politico), alla rivalutazione
dell'idealismo classico tedesco, specie di Hegel, nel tentativo di riproporne
l'eredità (sulla scia di György Lukács in particolare), alla riaffermazione
dell'interpretazione del marxismo tedesco e non (Antonio Gramsci e i fratelli
Bertrando e Silvio Spaventa), con incursioni nell'ambito del pensiero
nietzscheano (la lettura di un Friedrich Nietzsche radicale aristocratico) e di
quello heideggeriano (in particolare la questione dell'adesione al nazismo di
Martin Heidegger). La sua riflessione filosofico-politica, attenta alla
contestualizzazione del pensiero filosofico nel proprio tempo storico, muove in
particolare dai temi della critica radicale del liberalismo, del capitalismo,
del colonialismo e dell'imperialismo, nonché della concezione tradizionale del
totalitarismo (Hannah Arendt), nella prospettiva di una difesa della dialettica
marxista e del materialismo storico, dedicandosi anche allo studio dell'antirevisionismo
in ambito marxista-leninista. Losurdo ha una visione molto critica della
tradizione intellettuale europea del liberalismo, in particolare della
tradizione classica e delle sue origini, sostenendo che pur pretendendo di
enfatizzare l'importanza della libertà individuale in pratica il liberalismo
reale è a lungo contrassegnato dalla sua esclusione di persone da questi
diritti, con conseguente sfruttamento come razzismo, schiavitù e genocidio. Afferma
che le origini del nazismo si trovano in quelle che considera politiche
colonialiste e imperialiste del mondo occidentale. Esaminando le posizioni
intellettuali e politiche degli intellettuali sulla modernità, Kant e Hegel
furono i più grandi pensatori della modernità mentre Nietzsche fu il suo più
grande critico. I suoi lavori, che lui stesso fa rientrare nell'ambito
della storia delle idee, riguardano inoltre l'indagine delle questioni di
storia e politica contemporanee, con una attenzione critica costante al
revisionismo storico e la polemica contro le interpretazioni di François Furet
e Ernst Nolte. In particolare critica una tendenza reazionaria tra gli storici
contemporanei revisionisti riconoscibile nel lavoro di autori come Nolte, che
traccia l'impeto dietro l'Olocausto agli eccessi della rivoluzione russa; o
Furet, che collega le purghe staliniane a una «malattia» originata dalla
rivoluzione francese. Secondo Losurdo l'intenzione di questi revisionisti è di
sradicare la tradizione rivoluzionaria in quanto le loro vere motivazioni hanno
poco a che fare con la ricerca di una maggiore comprensione del passato, ma si
trovano nel clima e nei bisogni ideologici delle classi politiche, come è più
evidente nel lavoro dei revivalisti imperiali Johnson e Ferguson. Fornisce
inoltre una nuova prospettiva su rivoluzioni come quella inglese, americana,
francese, russa e quelle contro il colonialismo e l'imperialismo. Si discosta
anche dalle posizioni elogiative che la maggior parte delle biografie prende
nell'analisi di Gandhi e la nonviolenza. Losurdo volge la sua attenzione
alla storia politica della filosofia moderna tedesca da Kant a Marx e del
dibattito che su di essa si sviluppa in Germania nella seconda metà
dell'Ottocento e nel Novecento, per poi procedere a una rilettura della
tradizione del liberalismo, in particolare partendo dalla critica e dalle accuse
di ipocrisia rivolte a Locke per la sua partecipazione finanziaria alla tratta
degli schiavi. Riprendendo ciò che afferma Arendt in Le origini del
totalitarismo, per Losurdo il vero peccato originale del Novecento è
nell'impero coloniale di fine Ottocento, dove per la prima volta si manifesta
il totalitarismo e l'universo concentrazionario. Controversia degli
storici Losurdo critica il concetto di totalitarismo, sostenendo che fosse un
concetto polisemico con origini nella teologia cristiana e che applicarlo alla
sfera politica richiedeva un'operazione di schematismo astratto che
utilizza elementi isolati della realtà storica per collocare la Germania
nazista e altri regimi fascisti e l'Unione Sovietica e l'esperienza del
socialismo reale e di altri Stati socialisti nello stesso insieme, servendo
così l'anticomunismo degli intellettuali della guerra fredda piuttosto che
riflettere la ricerca intellettuale. Forte critico dell'equiparazione tra
nazismo e comunismo (in particolare quello sovietico) fatta da studiosi come Furet
e Nolte, ma anche da Arendt ePopper, nonché del concetto di «olocausto rosso»,
il suo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, sollevò un dibattito
sulla figura di Iosif Stalin, sul quale a suo avviso peserebbe una sorta di
leggenda nera costruita per screditare tutto il comunismo. Porta l'esempio che
nel lager vi era volontà omicida esplicita in quanto l'ebreo che vi entrava era
destinato a non uscire più (vi è una despecificazione naturalistica) mentre nel
gulag no (si tratta di despecificazione politico-morale) e nel primo venivano
rinchiusi quelli che il nazismo chiamava Untermensch («sottouomini») mentre nel
secondo (in cui afferma finissero solo una parte dei dissidenti), pur essendo
una pratica da condannare, erano rinchiusi dissidenti da rieducare e non da
eliminare. Losurdo afferma che «il detenuto nel Gulag è un potenziale compagno
[la guardia stessa era tenuta a chiamarlo in questo modo] e dopo l'inizio del
biennio delle grandi purghe che seguono l'assassinio di Kirov] è comunque un
cittadino». Riprendendo anche l'opinione di Levi (internato ad Auschwitz,
secondo cui il lager era moralmente più grave del gulag) e contro Solženicyn
(internato in Siberia e che affermava l'equiparazione della volontà
sterminazionistica),sostiene che pur essendo grave che un Paese socialista nato
per abolire lo sfruttamento usi sistemi imperialisti e capitalisti, il gulag
sia analogo a molti campi di concentramento occidentali (i cui governi hanno
sostenuto e sostengono di essere paladini della libertà), che per certi versi
furono anche più affini al lager in quanto campo di sterminio e non di
rieducazione, riprendendo la storia del genocidio indiano. Egli sostiene anche
che i campi di concentramento e le colonie penali britanniche erano peggio di
qualsiasi gulag, accusando anche politici come Winston Churchill e Harry Truman
di essere autori di crimini di guerra e contro l'umanità pari (se non
peggiori) di quelli che sono stati poi attribuiti a Stalin. Losurdo ritiene
inoltre che i comunisti soffrano di autofobia, cioè paura di se stessi e della
propria storia, problema patologico che va affrontato, a differenza
dell'autocritica sana. Despecificazione politico-morale e despecificazione
naturalistica La despecificazione è l'esclusione di un individuo o di un gruppo
dalla comunità dei civili. Esistono due tipi di despecificazione: La
despecificazione politico-morale (in questo caso l'esclusione è dovuta a
fattori politici o morali). La despecificazione naturalistica (in questo caso
l'esclusione è dovuta a fattori biologici). Per Losurdo la despecificazione
naturalistica è qualitativamente peggiore rispetto a quella politico-morale.
Infatti mentre quest'ultima offre almeno una via di scampo mediante il cambio
di ideologia, questo non è possibile nel caso in cui sia in atto una
despecificazione naturalistica, che è irreversibile in quanto rimanda a fattori
biologici che sono di per sé immodificabili. A differenza di altri pensatori
ritiene quindi che l'olocausto degli ebrei non è incomparabile ed è quindi
disposto ad ammettere in questo caso una tragica peculiarità. La comparatistica
che Losurdo offre a proposito non vuole essere una relativizzazione o uno
sminuire, ma semplicemente considerare l'olocausto degli ebrei come
incomparabile significa perdere la prospettiva storica e dimenticarsi
dell'olocausto nero (l'olocausto dei neri) o dell'olocausto americano
(l'olocausto dei nativi indiani d'America ottenuto negli Stati Uniti mediante
la continua deportazione sempre più a ovest e la diffusione ad arte del
vaiolo), oltre ad altri stermini di massa come il genocidio armeno.
Polemiche riguardanti Stalin Una recensione effettuata nell'aprile del 2009 da
Guido Liguori su Liberazione (organo ufficiale del Partito della Rifondazione
Comunista) di Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, libro in cui
Losurdo critica la demonizzazione di Stalin effettuata dalla storiografia
maggioritaria e cerca di sottrarlo a quella che definisce «la leggenda nera su
di lui», è al centro di una polemica all'interno della redazione del suddetto
quotidiano. Venti redattori inviano una lettera di protesta al direttore del
giornale in cui si critica sia il tentativo di riabilitazione di Stalin
presente nel libro di Losurdo sia la recensione di Liguori (giudicata troppo
positiva nei confronti del libro), oltre che la scelta del direttore del
giornale di pubblicare tale recensione. Il libro riceve delle recensioni
critiche per le sue affermazioni e per la metodologia di lavoro utilizzata.I
critici di Losurdo lo accusano di essere un «neostalinista». Grover Furr,
autore di Krusciov mentì e descritto come un «revisionista storico», un
«revisionista in una ricerca lunga una carriera per scagionare Stalin» e un
«prezioso contributo alla scuola revisionista storica degli studi sovietici e
comunisti», elogia il lavoro di Losurdo, in particolare quello su Stalin, iniziando
un'amicizia reciproca. Nel introduce
Furr a un editore italiano che pubblica la traduzione italiana di Khruschev
mentì, per cui scrive l'introduzione. Aveva già scritto l'introduzione e il
retrocopertina del libro di Furr sull'assassinio di Sergej Mironovič Kirov che
rimane inedito. Negli estratti di un convegno organizzato per rivalutare la
figura di Stalin a cinquant'anni dalla morte critica le rivelazioni
contenute nel rapporto segreto di Nikita Sergeevič Chruščёv, l'allora
segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica. Secondo
Losurdo la cattiva fama di Stalin deriverebbe non dai crimini commessi da
quest'ultimo (paragod altri del suo tempo), ma dalle falsità presenti in quel
rapporto che Chruščёv lesse nel corso del XX Congresso del febbraio 1956. Nella
relazione al convegno dà credito a una delle accuse principali che stavano alla
base della sanguinosa repressione staliniana contro gli oppositori, ovvero
l'esistenza nell'Unione Sovietica della «realtà corposa della quinta colonna»
pronta ad allearsi col nemico. Losurdo ribadisce di non voler riabilitare
Stalin, seppur calato nella sua epoca, volendo presentare solo un'analisi dei
fatti più neutrale e attuare un revisionismo sull'esperienza generale del
socialismo reale ritenuta passata, ma utile da studiare per capire le dinamiche
future del socialismo. Losurdo apparteneva alla corrente del
marxismo-leninismo, ma ammirava anche l'interpretazione che Mao Zedong diede
della pluralità della lotta di classe, da collocare nel contesto
dell'attenzione che rivolge al processo di emancipazione femminile e dei popoli
colonizzati. Vicino prima al Partito Comunista Italiano, poi al Partito della
Rifondazione Comunista e infine al Partito dei Comunisti Italiani, confluito
nel Partito Comunista d'Italia e nel Partito Comunista Italiano (), di cui è
stato membro, fu anche direttore dell'associazione politico-culturale Marx XXI.
Critico del liberalismo, della NATO e dell'imperialismo, in particolare quello
statunitense, Losurdo contestò l'assegnazione del Premio Nobel per la pace a Xiaobo,
considerato un sostenitore aperto del colonialismo occidentale, in particolare
per la sua idealizzazione del mondo occidentale e per aver affermato che ci
sarebbe bisogno di «300 anni di colonialismo. In 100 anni di colonialismo Hong
Kong è cambiata fino a diventare ciò che è oggi. Data la grandezza della Cina,
ovviamente ci vorrebbero 300 anni per trasformarla in quello che Hong Kong è
oggi. E ho dei dubbi che 300 anni siano abbastanza». Saggi: “Auto-censura e
compromesso” (Napoli, Bibliopolis); “La questione nazionale, restaurazione.
Presupposti e sviluppi di una battaglia politica” (Urbino, Università degli
Studi);“La rivoluzione e la crisi della cultura” (Roma, Riuniti); “Lukacs” Urbino,
Quattro venti, Il comunismo e sui critici (Urbino, Quattro venti, La catastrofe
e l'immagine” (Milano, Guerini, Metamorfosi del moderno.Urbino, Quattro venti);
“La tradizione liberale. Libertà, uguaglianza, Stato, Roma, Riuniti); “Tramonto
dell'Occidente? Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli
studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica, Urbino,
Quattro venti, Antropologia, prassi, emancipazione. Problemi del comunismo, e Urbino,
Quattro venti, Égalité-inégalité. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto
italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica,
Urbino, Quattro venti, Prassi. Come orientarsi nel mondo. Atti del convegno
organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi filosofici e dalla Biblioteca
Comunale di Cattolica (Urbino, Quattro venti); La comunità, la morte,
l'Occidente. L’ideologia della guerra, Torino, Boringhieri, Massa folla
individuo. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli studi
filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica, Urbino, Quattro
venti, La libertà dei moderni, Roma, Riuniti, Napoli, La scuola di Pitagora,.
Rivoluzione francese e filosofia, Urbino, Quattro venti); “Democrazia o
bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale” (Torino, Bollati
Boringhieri, Il comunismo e il bilancio storico del Novecento, Gaeta,
Bibliotheca, Napoli, La scuola di Pitagora, Gramsci e l'Italia. Atti del
Convegno internazionale di Urbino, Napoli, La città del sole, La seconda
Repubblica. Liberismo, federalismo, post-fascismo, Torino, Boringhieri); “Autore,
attore, autorità” (Urbino, Quattro venti); Il revisionismo storico. Problemi e
miti, Roma, Laterza, Utopia e stato d'eccezione. Sull'esperienza storica del
socialismo reale, Napoli, Laboratorio politico, Ascesa e declino delle
repubbliche, Urbino, Quattro venti, Lenin, Atti del Convegno internazionale di
Urbino, Napoli, La città del sole, Metafisica. Il mondo Nascosto, Roma, Laterza,
Gramsci dal liberalismo al comunismo critic, Roma, Gamberetti, Dai fratelli
Spaventa a Gramsci. Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in
Italia” (Napoli, La città del sole); “Hegel e la Germania. Filosofia e
questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Milano, Guerini, Nietzsche. Per
una biografia politica, Roma, Manifesto); “Il peccato originale del Novecento,
Roma, Laterza, Dal Medio Oriente ai Balcani. L'alba di sangue del secolo
americano, Napoli, La città del sole, Fondamentalismi. Atti del Convegno
organizzato dall'Istituto italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca
comunale di Cattolica. Cattolica Urbino, Quattro venti, URSS: bilancio di
un'esperienza. Atti del Convegno italo-russo. Urbino, Urbino, Quattro venti, L'ebreo,
il nero e l'indio nella storia dell'Occidente, Urbino, Quattro venti, Fuga
dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e auto-fobia, Napoli, La
città del sole, poi Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione
cinese oggi, La sinistra, la Cina e l'imperialismo, Napoli, La città del sole, Universalismo
e etno-centrismo nella storia dell'Occidente, Urbino, Quattro venti, La
comunità, la morte, l'Occidente. Heidegger e l'ideologia della guerra (Torino,
Boringhieri); “Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e
bilancio critico, Torino, Boringhieri, Cinquant'anni
di storia della repubblica popolare cinese. Un incontro di culture tra Oriente
e Occidente. Atti del Convegno di Urbino, Napoli, La città del sole, Dalla
teoria della dittatura del proletariato al gulag?, Marx e Engels, Manifesto del
partito comunista, Laterza, Bari, Contro-storia del liberalismo, Roma, Laterza,
La tradizione filosofica napoletana e l'Istituto italiano per gli studi
filosofici, Napoli, nella sede dell'Istituto, Auto-censura e compromesso nel
pensiero politico di Kant, Napoli, Bibliopolis, Legittimità e critica del
moderno. Sul marxismo di Gramsci” (Napoli, La città del sole); “Il linguaggio
dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana” (Roma-Bari, Laterza); “Stalin.
Storia e critica di una leggenda nera, Roma, Carocci); “Paradigmi e fatti
normativi. Tra etica, diritto e politica, Perugia, Morlacchi, La non-violenza.
Una storia fuori dal mito, Roma, Laterza, La lotta di classe. Una storia
politica e filosofica, Roma, Laterza, La sinistra assente. Crisi, società dello
spettacolo, guerra, Carocci,. Un mondo senza guerre. L'idea di pace dalle
promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci. Il comunismo occidentale.
Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza. PCI Ancona: cordoglio per la scomparsa, su il
partito comuista italiano, A. Orsi, Scienza e militanza. Un ricordo, MicroMega,
Cordoglio, Il Metauro, Verso, Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia
americana, Roma, Laterza. Il comunista contro-corrente. Un comunista eterodosso.
Auto-censura e compromesso in Kant, Napoli, Bibliopolis, Hegel e la libertà dei
moderni, Roma, Riuniti, Napoli, La scuola di Pitagora, Lukacs, Urbino, Quattro
venti, Dai fratelli Spaventa a Gramsci. Per una
storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia, Napoli, La città del
sole, Nietzsche. Il ribelle aristocratico. La comunità, la morte, l'Occidente.
Heidegger e l'deologia della guerra; Controstoria del liberalismo, Laterza, Revisionismo
storico. Peccato originale del
Novecento. La non-violenza. Una storia
fuori dal mito. La non-violenza. Una
storia fuori dal mito, su L'Ernesto, Associazione Marx, Dalla teoria della
dittatura del proletariato al gulag?, in
Marx, Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Laterza, Bari David
Broder. Jacobin. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera. URSS: bilancio
di un'esperienza. Atti del Convegno italo-russo. Urbino, Urbino, Quattro venti,
Popper falso profeta, Contro Popper, Armando Editore, B. Lai e L.
Albanese. Fuga dalla storia? Il
movimento comunista tra auto-critica e auto-fobia. Il linguaggio dell'impero.
Lessico dell'ideologia, Lettere su Stalin; Stalin. Storia e critica di una
leggenda nera, su sissco. Stalin. Storia
e critica di una leggenda nera. A.
Romano, Canfora e lo stalinismo che non
fa male, ilcannocchiale. In Memoriam, La Città del Sole, Stalin nella storia
del Novecento, R. Giacomini, Teti, Una teoria generale del conflitto
sociale", Intervento al Congresso Nazionale del PdCI. Il Consiglio Direttivo
dell'associazione Marx Il Nobel per la
pace» a un campione del colonialismo e della guerra, il cavallo oscuro della
letteratura, Open Magazine, Open Magazine, H. Arendt Controstoria del
liberalismo A. Gramsci Genocidio indiano Grandi purgh, Heidegger, Marx, Nietzsche
Olocausto, Stalin Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo" - blogspot.com.
Intervista RAI Filosofia, su filosofia.rai. Intervist RTV Svizzera, su you tube.com.
Domenico Losurdo. Losurdo. Keywords: il ribelle aristocratico. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, Losurdo, e
Nietzsche, ribelle aristocratico," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Lottieri – bene commune – diritto individuale
– l’eta degl’eroi – la ragione del stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Brescia). Filosofo italiano. Grice: “I like Lottieri; he has quoted
Hobbes and Hume and Gauthier from a game-theoretical approach to co-operation,
conversational and other – all very Griceian, if I may mayself so say it!” Allievo
di Caracciolo, studia a Genova, Ginevra e Parigi, su la filosofia di Mosca.
Insegna a Siena e Verona. Da vita all'Istituto Bruno Leoni, un istituto che si
ispira alla tradizione intellettuale di Einaudi e Ricossa, e di cui egli è
direttore del dipartimento Teoria Politica. Cura Leoni. La filosofia di Lottieri
si sviluppa all'interno del liberalismo classico e, grazie allo studio degli
autori elitisti, si delinea quale critica del sistema di dominio iscritto nei
regimi democratici rappresentativi. Mostra l'adesione a tale prospettiva, che
rapidamente evolve grazie al contatto con il libertarianismo. Il suo libertarianismo
ottieri metta in discussione "la psicologia regolamentativa e
anti-innovativa del burocrate", avverso a ogni forma di rischio e
cambiamento. Il saggio sul libertarismo evidenzia l'adesione ai temi
classici del pensiero liberale lockiano e giusnaturalista (difesa della
proprietà, del mercato, dell'auto-nomia negoziale), ma anche il maturare di
questioni che sono invece tutte interne al realismo politico: specie nel
confronto con Schmitt, Brunner e Miglio. Mentre il testo sul rapporto tra
economia di mercato e ordine sociale/comunitario (Denaro e comunità) è una
critica della sociologia, a cui è rimproverato di avere frainteso la natura
inter-personale della moneta e delle relazioni di mercato, il saggio su Leone
muove dal pensatore torinese per delineare una filosofia libertaria anche oltre
la lettera stessa dell'autore di Freedom and the Law. In particolare, in questa
fase della riflessione Leoni viene individuato come uno studioso in grado di
dare una maggiore consapevolezza filosofico-giuridica alla teoria libertaria,
fino ad ora elaborata per lo più da economisti e teorici politici. “Denaro
e comunità: relazioni di mercato e ordinamenti giuridici nella società liberale”
(Napoli, Guida) “Il pensiero libertario contemporaneo. Tesi e controversie
sulla filosofia, sul diritto e sul mercato, Macerata, Liberi “Le ragioni del
diritto: libertà individuale e ordine giuridico” (Treviglio Soveria Mannelli,
Facco Rubbettino); “Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno” (Soveria
Mannelli, Rubbettino); “Credere nello Stato? Teologia politica e dissimulazione
da Filippo il Bello a WikiLeaks” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali e
non: (cf. Griceiani e non.) percorsi di storia del pensiero politico” (Brescia,
La Scuola); Guglielmo Ferrero in Svizzera. Legittimità, libertà e potere, Roma,
Studium, Un'idea elvetica di libertà.
Nella crisi della modernità europea” (Brescia, Scuola); ““Beni comuni, diritti individuali
e ordine evolutivo,”Torino, IBL. Nella sua filosofia sull'unificazione europea,
in particolare, è cruciale l'opposizione tra l'armonizzazione spontanea
emergente dal basso e l'unificazione coercitiva. Lottieri identifica quattro
superstizioni o quattro credenze erronee che sotto alla base dei tentativi di
creare un nuovo stato chiamato ‘Europa'. Primo, l'idea che la libertà
individuale e il poli-centrismo giuridico causino tensioni e, in definitiva,
conflitti; Secondo, che il mercato derivi dall'ordine giuridico creato dallo
Stato; Terzo, che l'esistenza di una distinta identità europea esiga la
costruzione di un singolo stato continentale; e quarto, che un'Europa unificata
e più armoniosa e meglio in grado di sostenere lo sviluppo delle sue componenti
più povere. Individuato come uno degl’esponenti di un liberalismo
particolarmente radicale e volto a proporre una sorta di fuga dallo stato:
Dario Fertlio, "Libertari 2001: la grande fuga dallo Stato, Corriere della
Sera. Una disamina molto critica al limite dell'insulto personale di tale
liberalismo libertarian si ha nella recensione che Vitale dedica al volume su
Rothbard scritto a quattro mani da lui assieme a Enrico Diciotti (basato su un
confronto assai franco tra prospettive molto diverse): una recensione che,
rivolgendosi al solo Diciotti, si chiudeva con l'invito per il futuro “ad
occuparsi di un autore più interessante con un autore più interessante” (E. Vitale,
“Rothbard, un Trasimaco piccolo piccolo. E una modestissima proposta”, Teoria politica).
P. Vernaglione, Il libertarismo. La teoria, gli autori, le politiche, Soveria
Mannelli, Rubbettino). Un riferimento garbatamente polemico alle sue posizioni
gius-naturaliste di si trova in D Antiseri (Laicità.. Le sue radici, le sue
ragioni, Rubbettino). La stessa contrapposizione è al fondo di una discussione
tra i due riguardante proprio i contenuti di quel volume://blog. centrodietica/?p=2005. Questo saggio e una presentazione completa e
approfondita della filosofia libertaria nelle sue diverse varianti, mentre si
evidenzia anche un approccio libertario ai problemi eco-logici. Ce sono riserve
nei riguardi delle tesi libertarie e dell'ispirazione anarchica della sua teoria
del diritto. Nella sua monografia su Leoni (L'ordine giuridico dei private” (Soveria
Mannelli, Rubbettino) pure Grondona sviluppa alcune critiche nei riguardi
dell'interpretazione dello studioso torinese offerta da lui mentre in maggiore
sintonia con le sue posizioni si trova A. Favaro (“ Dell'irrazionalità della
legge per la spontaneità dell'ordinamento” (Napoli, Scientifiche). Mostra che,
contrariamente a un'opinione diffusa, le distanze fra la concezione del diritto
di Leoni e quella di Hayek sono notevoli. In ogni caso non e Hayek a
influenzare Leoni ma il secondo a influenzare, almeno in parte, il primo. Per
un'equilibrata analisi del saggio si veda: M. Grondona, "Recensione Le ragioni del diritto", Nuova
Giurisprudenza Ligure. Carlo Lottieri. Lottieri. Keywords: bene commune,
diritto individuale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lottieri” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Luca – l’arte d’amare – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Marostica). Filosofo italiano. Grice: “Luca expands on Alcibiades – I have
touched the topic of Alcibiade when discussing eudaemonia, as literally having
to do with the eudaemon – and the expression occurs in connection with
Socrate/Alcibiade -- Grice: “One good thing about Luca is that if my philosophy
revolves around ‘reason,’ his does it around ‘eros’!” -- Frequenta il Liceo
Ginnasio G.B. Brocchi di Bassano del Grappa. Si laurea a Firenze, con la tesi,
“Platone e il problema del linguaggio” con relatore Adorno. È stato incentrato inizialmente sulla
tematica dell’’amore’ nella tradizione greco-romana del Convitto e Fedro. Mmantenuto
però una costante apertura al ‘mythos’ di Omero, nella convinzione che per
quanto differenti possano essere i costumi o gli statuti sociali, rimane un
elemento per così dire “originario”, intrinsecamente umano, nell’approccio con
il desiderio, l’amore, l’amicizia, la sessualità. In Labirinti dell’Eros, pur
sviluppandosi la tematica all'interno di un arco di tempo definito, l’intento
non è quello di affrontare l’argomento nella sua unita longitudinale ma di
esprimere, senza costrizioni di un “per-corso pre-figurato” una distinzione
logico concettuale, attraverso la quale conseguire, almeno, un punto fermo
nell'amatoria. Riguarda anche lo sviluppo della tradizione
pitagorico-platonica, sia nelle sue caratteristiche peculiari ed in rapporto
alla metafisica, sia nell'accezione più ampia rispetto all'esigenza di dare
conto "dei fenomeni" o sensibilia. Si orientata alla tarda produzione
platonica e al pitagorismo di seconda generazione, che vengono analizzati anche
attraverso la cosmologia. Saggi: “Il Simposio, Nuova Italia, Firenze, Platone,
Fedro, Nuova Italia, Firenze, Eros e Epos: il lessico d'amore nei poemi
omerici, L’amatoria, L.S. Gruppo editoriale, Quarto Inferiore (BO); “Platone e
la sapienza antica. Matematica, filosofia e armonia, Marsilio, Venezia, Labirinti
dell’Eros. Da Omero a Platone, con un saggio, Marsilio Venezia. Roberto Luca. Luca.
Luca. Keywords: l’arte d’amare, Ovidio, il convito, I dialogui dell’amore: il
convito e Fedro, l’amore degl’eroi – achille e patroclo – niso ed eurialo – la
filosofia dell’amore nel convito, la morte di Patroclo, la morte di Niso, la
morte di Eurialo, l’eroe tragico, Achille eroe tragico, Eurialo e Niso, eroi
tragici, Enea, eroe tragico, Aiace, eroe tragico, Catone di Utica, eroe tragico,
la morte di Eurialo – la morte d’Eurialo – la pederastia – Eurialo piu giovane
da Niso. Luigi Speranza, “Grice e Luca: amatoria conversazionale: la massima o
principio dell’amore proprio conversazionale e la massima dell’amore all’altro.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luca” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lucano – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Marco Anneo Lucano was the nephew of Seneca, who achieved fame with a
poem about the civil war between Giulio Caesar and Pompeo. He followed the
Porch, as tutored by Lucio Anneo Cornuto. Farsaglia.
Grice e Lucceio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Lucio Lucceio. He was a historian and a friend of Cicerone. Some of
Cicerone’s letters to Lucceio suggests that he may have followed the sect of
the Garden.
Grice e Luciano – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. He was a gnostic, a follower of Cerdo.
Luciano – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studied at
Rome with Nigrino -- whom some suspect
to be his invention – and Albino, of the Accademia. Also influenced by Demonax,
whose philosophical outlook was more eclectic, although he is generally
regarded as a Cinargo. Luciano is famous for his essays and dialogues, mostly
satirical, many of which have survived. A number of philosophers appear in
them, although not all of them may have existed. As a satirist, he is more
interested in mocking pomposity and exposing hypocrisy than in advocating any positive
doctrine. Loeb.
Grice e Lucilio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo
italiano. Gaio Lucilio Alcuni romani insigni nutrirono interesse vivo per i
problemi della filosofia. LUCILIO. Ciò si può dire di un membro del circolo
degli Scipioni, LUCILIO, nato a Sessa Aurunca da famiglia ricca e
distinta. LUCILIO ha un fratello che e senatore e, per mezzo della figlia,
nonno di Pompeo. LUCILIO conosce la cultura greca (di cui si penetra)
nell’Italia meridionale e a Roma, ove passa la maggior parte della vita. Forse
soggiorna anche in Atene. Come cavaliere LUCILIO partecipa alla guerra contro
Numanzia, agli ordini di Scipione Emiliano L'Affricano, con cui aveva già
stretti rapporti.In seguito appoggia delL'Affricano energicamente l'azione
politica. LUCILIO fa parte, oltrechè del circolo degli Scipioni, di uno
più ampio. LUCILIO e amico dell'accademico Clitomaco, che gli dedica un
libro. Morì a Napoli.LUCILIO scrive 30 libri di satire -- un genere
filosofico --, di cui restano frammenti.In esse satire, LUCILIO rappresenta e
critica la vita romana dell’età sua, interessandosi soprattutto di questioni
politiche.Dei vizi del tempo LUCILIO e giudice severo. LUCILIO si occupa
molto di problemi logico-grammaticali, retorici e letterari.Si interessa anche
di filosofia speculativa, alla quale deve avere dedicato una satira. Nei
framm. del l. 28 la teoria epicurea è confutata verisimilmente da un
accademico, anche perchè vi si trovano varie notizie sulla storia di tale
scuola. La forma e il contenuto delle satire di Lucilio rivelano
l’influsso della filosofia popolare del cinismo di Bione e di Menippo. Un
ampio frammento in cui Lucilio dipinta la virtù romana, secondo alcuni proviene
da Panezio, secondo altri da Cleante: però qualche storico pone Lucilio in
relazione con l'Accademia.
Lucilio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Gaio Lucilio. Luciliowas a poet who wrote many
satirical works. Although philosophy was one of his subjects, many of his
writings were concerned with social morals and standards of public life. Only
fragments survive. Climotaco dedicated a work on the suspension of judgment to
him. Ed. Warmington Loeb ‘Remains of Old Latin.’
Grice e Lucilio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Gaio Lucilio Minore. Lucilius was both a poet and a
philosopher. He is best known as the friend of Seneca, to whom 124 letters were
written discussing a wide range of issues from a primarily point of view of the
Porch.
Grice e Lucio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Lucio was of the Cynargo and an opponent of
Favorino.
Grice e Lucrezio – alma figlia di
Giove – Roma == filosofia italiana – Luigi Speranza (Pompei). Filosofo italiano. Grice: “By far the most important
concept in Lucrezio’s philosoophy is that of clinamen that Strawson translates
as the ‘swerve.’ It was saved from extinction by an Italian – as the novel
tells you!” Grice: “While Strawson reads it in Latin, I prefer the version in
the vulgar!” – Grice: “And by the vulgar I mean Marchetti!” Grice: “It’s
amazing how well Marchetti interprets Lucezio – there is a little treatise on
Epicureanism in the Lucrezio by Marchetti which is interesting. A real
continuity in Italian philosophy!” -- possibly the most important Italian
philosopher. Seguace dell'epicureismo. Della sua vita ci è ignoto quasi tutto:
egli non compare mai sulla scena politica romana, né sembra esistere negli
scritti dei contemporanei, in cui non viene mai citato, eccezion fatta per la
lettera di Cicerone ad Quintum fratrem II 9, contenuta nella sezione Ad
familiares, in cui il celebre oratore accenna all'edizione, forse postuma, del
poema di Lucrezio, che egli starebbe curando. Ma in scrittori romani successivi
egli viene spesso citato: ne parlano Seneca, Frontone, Marco Aurelio,
Quintiliano, Ovidio, Vitruvio, Plinio il Vecchio, senza tuttavia fornire nuove
informazioni sulla vita. Questo però dimostra che non si tratta di un
personaggio inventato. Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo
Chronicon o Temporum liber, di cinque secoli dopo, in cui, ispirandosi ad
alcuni dubbi passi di Svetonio, ci dice che sarebbe nato morto suicida. Tale dato non concorda
tuttavia con quanto affermato da Elio Donato, maestro di Girolamo stesso,
secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando indossò la toga virile,
nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Questo
dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio mori nel 55 a.C., all'età di quarantatré anni.
Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie biografiche tramandate
direttamente dall'antichità. Ignoto risulta anche il luogo di nascita,
che tuttavia taluni hanno creduto essere Ercolano, per la presenza di un
Giardino Epicureo in quest'ultima città, in particolare, dall'analisi di
numerose epigrafi risalenti all'epoca dell'autore latino, risulta evidente
un'ingente presenza del cognome Carus nell'antico territorio campano, secondo
la critica recente la suddetta indagine prova fermamente (nei limiti del probabile)
le origini campane di Lucrezio. Neppure la sua militanza politica sembra essere
ricostruibile: il desiderio di pace accennato prima non sembra affatto
ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico, per altro solitamente
stoico, che vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma il desiderio
dell'"amico" epicureo, che vede nella pace e nel benessere di tutti
la possibilità di fare accoliti e viver serenamente. È tuttavia rilevante il
fatto che la sua opera De rerum natura sia dedicata a Memmio, fine letterato e
appassionato di cultura greca, ma anche e soprattutto membro di spicco degli
optimates. Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare
alla fine del proemio della sua opera una "placida pace" per i
Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo
in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e
perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata
da un secolo di guerre civili e lotte intestine. La scarsità delle fonti
sulla sua vita ha portato molti a interrogarsi persino sulla stessa esistenza
del filosofo, a volte considerato solo uno pseudonimo sotto il quale si celava
un anonimo filosofo per alcuni un amico epicureo di Cicerone, Tito Pomponio
Attico, che si suicidò, o persino lo stesso Cicerone. Secondo lo storico
Luciano Canfora, è possibile ricostruire una scarna biografia di Lucrezio:
nacque ad Ercolano, dove aveva una villa la famiglia nobiliare di un possibile
parente, Marco Lucrezio Frontone) appartenente quasi sicuramente all'antica
famiglia nobile dei Lucretii (qualcuno ne fa invece un liberto della stessa
famiglia). Studiò l'epicureismo proprio ad Ercolano, dove si trovava un centro
della "filosofia del giardino", diretta da Filodemo di Gadara, allora ospite nella villa
di Lucio Calpurnio Pisone, il ricco suocero di Cesare (la cosiddetta "villa
dei papiri"). Avrebbe sofferto di sbalzi d'umore, chiamati oggi
disturbo bipolare, ma non sarebbe stato pazzo, ma di questo umore alterno
risentì il suo lavoro. In disaccordo con le guerre civili, avrebbe lasciato
Roma e non sarebbe morto suicida ma avrebbe viaggiato ad Atene, nei luoghi del
maestro Epicuro, e oltre, essendo forse il suo nome conosciuto da Diogene di
Enoanda, quindi quasi in Asia minore, nelle cui famose incisioni sotto il
portico della sua casa si ricorda un certo "Caro" (nome poco
diffuso), romano, e sapiente epicureo. Non si sa se il poema fosse
diffuso nell'oriente, quindi è possibile che Lucrezio si fosse davvero recato
in Grecia. Lucrezio, spinto da una delusione d'amore, si sarebbe allontanato
lasciando incompiuto il suo poema, affidato forse a Cicerone stesso (che
difatti non parla effettivamente di suicidio ma afferma: «Lucretii poemata, ut
scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis» ("le
poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e
tuttavia di molta arte"), ma, forse, senza impazzire e morire (che fosse
suicidandosi o perché assassinato), esagerazione della fonte di Girolamo o di
qualche altro avversario di Lucrezio, e sarebbe stato forse volutamente confuso
dallo stesso Girolamo con Lucullo, onde screditare l'epicureismo. Il
destinatario dell'opera, Gaio Memmio, caduto in disgrazia ed espulso dal Senato
per condotta immorale, andò ad Atene, causando una nuova delusione a Lucrezio,
che, tornato a Roma, sarebbe morto. La
notizia di un "filtro d'amore" velenoso somministratogli da una donna
di facili costumi, amante gelosa di Lucrezio, viene riportata anche da Svetonio
nei confronti di Caligola e della moglie Milonia Cesonia; in questo caso è
apparsa una semplice diceria, e, data l'ispirazione svetoniana (dal perduto De
poetis) del passo di Girolamo su Lucrezio, anche lì sembra essere una
spiegazione semplicistica, dovuta alla poca conoscenza dei disturbi psichici
che si aveva all'epoca (anche per Caligola si parlò, difatti, come per
Lucrezio, di epilessia e malattie fisiche misteriose che l'avrebbero fatto
impazzire improvvisamente, come, nel caso di studiosi moderni, l'avvelenamento
da piombo, oltre che dei detti "filtri"). Se Lucrezio soffrì di
un disagio psichico, che lo avrebbe spinto a cercare sollievo nella filosofia,
non fu a causa di un veleno, e se il suicidio ci fu (il che potrebbe spiegare
l'abbandono improvviso del poema), la causa potrebbe essere stata di natura
politica — come sarà più tardi il caso di Catone Uticense —, ovverosia la
rovina del suo protettore Memmio e della sua cerchia culturale. Virgilio, che
lo rispettava anche se era passato dall'epicureismo, abbracciato in gioventù,
alle teorie pitagoriche, parla di lui nelle Georgiche e nelle Bucoliche,
definendolo "felix" (ossia "prediletto dalla dea Fortuna") e
non "folle". Secondo Guido Della Valle, la V ecloga, che parla della
morte di un personaggio chiamato Dafni (a volte identificato con Cesare, a
volte con Flacco, il fratello di Virgilio), potrebbe riferirsi invece alla
morte dello stesso Lucrezio, definita "immatura e innaturale", cioè
avvenuta per cause traumatiche. Il movente politico e morale del gesto potrebbe
essere la causa del silenzio attorno ad esso e del fiorire di aneddoti per
giustificarlo, dato che non si poteva cancellare la grandezza filosofica di
Lucrezio, con una sorta di damnatio memoriae di solito riservata ai nemici politici.
Essi erano spesso vittime delle liste di proscrizione dei vincitori, come
quella di Marco Antonio che colpirà Cicerone, e molti si toglievano la vita, in
quanto morte onorevole per i costumi romani; Virgilio e Orazio, estimatori di
Lucrezio, facevano parte della corte di Augusto, e dovevano quindi allinearsi
alla linea culturale dettata dall'imperatore, assertore dell'antica moralità e
diffusore della leggenda di Cesare (per cui venivano cancellate le espressioni
scomode di dissenso), e dal suo amico Mecenate, in cui l'epicureismo, se non
sfumato come in Orazio appuntocosì come ogni opera che non fosse celebrativa
del princeps e della grandezza di Roma non trovava spazio, per cui Lucrezio
verrà ricordato solo come grande poeta, tralasciandone l'aspetto
filosofico. Secondo Della Valle, quindi, Lucrezio si sarebbe tolto la
vita come gesto di protesta contro la classe politica in ascesa, o perché condannato
a morte da essa. Lucrezio, per il periodo in cui è vissuto, personaggio
scomodo: gli ideali epicurei di cui era profondamente intriso corrodevano le
basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina. In
un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus
epicureo significa sottrarsi ai negotia politici e uscire di conseguenza anche
dalla sfera d'influenza del potere. Le più forti correnti stoiche, ostili
all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in quanto più
conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe. L'epicureismo era invece presente
anche attraverso il citato Filodemo e altri in Campania, dove Virgilio avrebbe
approfondito la sua conoscenza dell'epicureismo. Orazio non lo nomina, ma è
evidente che lo conosce, e ideologicamente gli è più vicino di altri. La natura
poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale
avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue
espressioni (Grice), che accompagnano il poema. Alcuni teologi come San
Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda
alle forze del male. Appoggiandosi alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che
in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di
una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico. In realtà l'ipotizzata
pazzia di Lucrezio appare oggi più plausibilmente un tentativo di
mistificazione per screditare il poeta, così come la presunta morte per
suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi
lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica
credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da
collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui
ispirati nelle loro creazioni. Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio
e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso.
L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di Girolamo si
fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe
anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione “Luc.,” impiegata
indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus
e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico,
generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un
filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione “Luc.” potrebbe
così aver permesso lo scambio dei due personaggi. A causa dell'impossibilità di
ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il progetto filosofico
che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo dalla sua opera,
considerata tra le più vigorose d'ogni età. Bisogna ora individuare le
motivazioni che spinsero Lucrezio a scrivere il De rerum natura, che
fondamentalmente sono due. La prima è una ragione etico-filosofica, in quanto
Lucrezio, affascinato dalla filosofia epicurea, desiderava invitare il lettore
alla pratica di tale filosofia, incitandolo a liberarsi dall'angoscia della
morte e degli dèi. La seconda motivazione invece è di carattere storico.
Lucrezio era conscio che la situazione politica a Roma peggiorasse di giorno in
giorno: Roma era quadro ormai di continui scontri bellici e conseguenti
dissidi; giustappunto egli, con un evidente positivismo, voleva incoraggiare il
cittadino-lettore romano a non perdere la fiducia verso un successivo miglioramento
della situazione. Lucrezio si proponeva di rivoluzionare il cammino di Roma,
riportandolo all'epicureismo che era stato declinato in favore dello stoicismo.
La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e
più propriamente romana. Non c'era un dovere romano di civilizzare "l'orbe
terrifero e de le acque", come farà dire Virgilio alla Sibilla Cumana in
un colloquio con Enea. Non c'è una ragione seminale universale responsabile
della vita nel cosmo, destinata a deflagrare per poi ricominciare un nuovo,
identico, ciclo esistenziale, come voleva la fisica stoica, ma un mondo che non
è unico nell'universo, peraltro infinito, essendo uno dei tanti possibili. Non
c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi,
ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum
regni, deve essere non distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile
come utile ma falsa. Egli afferma fin dal libro I del De rerum natura. Tanto
male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai
terribili detti dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero,
infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme
della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori! Giustamente, poiché se
gli uomini vedessero la sicura fine dei loro travagli, in qualche modo
potrebbero contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati... Queste
tenebre, dunque, e questo terrore dell'animo occorre che non i raggi del sole
né i dardi lucenti del giorno disperdano, bensì la realtà naturale e la
scienza... E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla,
allora già più agevolmente di qui potremo scoprire l'oggetto delle nostre
ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia
senza opera alcuna di dèi. Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli dèi
latini sostenendo che non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta,
giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli dèi, seppur esistenti e anche
loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si
curano del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella
scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la
vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è
la Divina Voluptas, Venere: il piacere, la vita stessa intesa come animazione
regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta
portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra. Proprio per questo, egli
elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la
natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della
conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta
rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo si sente profondamente
affine ai poeti delle origini, il cui luogo principe è in Empedocle (secondo
infatti per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è
portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità affatto
umana, universale e per tutti, che attecchirà ben presto per la salvezza di
Roma.[31] Epicuro è comunque, per Lucrezio, il più grande uomo mai esistito,
come risulta dai tre inni a lui dedicati (chiamati anche "trionfi" o
"elogi"): «E dunque trionfò la vivida forza del suo animo. E si
spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore
e la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può
nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere
definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta
sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al
cielo. Il De rerum natura e un poema didascalico in esametri, di genere
scientifico-filosofico, suddiviso in sei libri (raccolti in diadi),
comprendente un totale di 7415 versi, che illustrano fenomeni di dimensioni
progressivamente più ampie: dagli atomi si passa al mondo umano per arrivare ai
fenomeni cosmici. Riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la
struttura del poema Περὶ φύσεως di Empedocle (anche un'opera di Epicuro aveva
il medesimo titolo). Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie
interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è
suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica.
Ogni diade contiene un inno ad Epicuro, mentre il secondo e il terzo libro (in
quest'ultimo è presente anche un'esposizione della sua estetica) si aprono
entrambi con un inno alla scienza. Essendo un poema didascalico, ha come
modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo
come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli
potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano
il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria. Il destinatario e i
destinatari Il dedicatario dell'opera è la Memmi clara propago (I 42), ovvero
il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si identifica con Gaio
Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si
prefigge di conquistare è il giovane aperto ad ogni esperienza, che un giorno
prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con
tanto fervore da Lucrezio. Ma, almeno con Memmio, egli fallì: da adulto divenne
un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e
fu allontanato dal Senato probri causa, cioè per immoralità. Riparò quindi in
Grecia, dove scrisse poesie licenziose e dove ce lo menziona anche Cicerone
(nelle Ad Familiares), intenzionato a distruggere la casa e il giardino in cui
proprio Epicuro risiedette, per costruirsi un palazzo, suscitando lo sdegno
degli epicurei che fecero istanza a Cicerone stesso di intervenire per
impedirglielo, senza che però Cicerone ci riuscisse. In un simile progetto
Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in
Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per
motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua), lo
vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con
l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei
fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio
comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia. Discendendo
più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche altri problemi
cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza
filosofica in latino, che ancora non aveva termini confacenti. Finché poté,
egli evitò la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος)
e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari
dandogli altra accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi.
Ed è proprio grazie all'arcaismo che Lucrezio riesce a rendere possibile tutto
questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo
"munificenza" ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e
moderni) delle figure di suono quali allitterazioni, consonanze, assonanze e
omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si limitò a
trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece
attraverso un poema che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della
filosofia, parla per squarci imaginifici. Sul piano teorico l'opera di Lucrezio
si caratterizza come una puntualizzazione di quella epicurea con alcune
esplicazioni che nel suo referente greco non erano abbastanza chiare. Il
concetto di parenklisis che Lucrezio tradurrà con clinamen mancava di
definizione chiara. Nella Lettera ad Erodoto Epicuro poneva infatti la
parenklisis ma poi parla piuttosto di una deviazione per urto. Il celebre
passaggio del libro II del De rerum natura dice: «Perciò è sempre più
necessario che i corpi deviino un poco; ma non più del minimo, affinché non ci
sembri di poter immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce.
Infatti è evidente, a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se
stessi non possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è
facile constatare. Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto alcuna
deviazione dalla linea retta del loro percorso? Lucrezio precisa poi
ulteriormente le modalità del clinamen aggiungendo: «Infine, se ogni moto
è legato sempre ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine
certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche
inizio di movimento che infranga le leggi del fato così che da tempo infinito
causa non sussegua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo
libero arbitrio, donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati,
in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida, e deviamo il nostro
percorso non in un momento esatto, né in un punto preciso dello spazio, ma
quando lo decide la mente? Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio
volere suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra]»
Per quanto riguarda la sfera del vivente Lucrezio la collega direttamente agli
atomi nel loro processo creativo, scrivendo: «Così è difficile
rescindere da tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto
si dissolva. Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin
dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è
chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e
dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente
comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli
organi. Lucrezio riprende in maniera radicale la tesi già di Epicuro. La
religione è la causa dei mali dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che
la religione offuschi la ragione impedendo all'uomo di realizzarsi degnamente
e, soprattutto, di poter accedere alla felicità, da raggiungere attraverso la
liberazione dalla paura della morte. Il poema ha come argomenti principali la
lacerante antinomia fra ratio e religio, l'epicureismo e il progresso. La ratio
è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia
le tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo,
quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e
cieca ignoranza, che lo stesso Lucrezio denomina spesso con il termine
"superstitio". Indica l'insieme di credenze e dunque di comportamenti
umani "superstiziosi" nei confronti degli dèi e della loro potenza.
Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa e pericolosa. Afferma
che sono evidenti le nefaste conseguenze della religione e adduce come esempio
il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata
della realtà, come nell'Evemerismo. La religione è perciò la causa principale
dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini. Lucrezio riprende i temi
principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e la
"parenklisis" (che egli ribattezza clinamen), la liberazione dalla
paura della morte, la spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente
fisici e biologici. Egli opera un completamento di essa in senso naturalistico
ed esistenzialistico, introducendo un elemento di pessimismo, assente in
Epicuro, probabilmente da attribuirsi a una personalità malinconica. Da un
punto di vista ontologico, secondo Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e
vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e
all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico:
le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle
malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla
conservazione della vita sono riuscite a riprodursi. Tale concezione atea,
materialista, antiprovvidenzialista e storica della natura sarà ereditata e
rielaborata da molti pensatori materialisti dell'età moderna, in particolare
gli illuministi Diderot, d'Holbach e La Mettrie, anch'essi atei dichiarati e a
loro volta divulgatori dell'ateismo; Lucrezio sarà inoltre seguito da Ugo Foscolo
e Giacomo Leopardi. Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di
beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di
bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura.
Però, il progresso non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo
dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione morale, lo condanna
duramente. Lucrezio introduce nel III libro del De rerum natura una
chiarificazione che nel mondo latino era stata trascurata generando non poche
confusioni, circa il concetto di “animus” in rapporto a quello di “anima” «Vi
sono dunque calore e aria vitale nella sostanza stessa del corpo, che abbandona
i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale sia la natura dell'animo e dell'anima
quasi una parte dell'uomo -, rigetta il nome di armonia, recato ai musicisti
già dall'alto Elicona, o che essi hanno forse tratto d'altrove e trasferito a
una cosa che prima non aveva un suo nome. Tu ascolta le mie parole. Ora affermo
che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti tra loro, e formano tra sé una stessa
natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il corpo:
quello che noi denominiamo animo e mente e che ha stabile sede nella zona
centrale del petto. Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui intorno
le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo. La restante parte
dell’anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e
all’impulso della mente. Questa da sé sola prende conoscenza, e da sé gioisce,
quando nessuna cosa stimola l’anima e il corpo. Lucrezio riprende il concetto
ellenico di anima come "soffio vitale che vivifica ed anima il corpo, ciò
che i greci chiamavano psyché. Questo soffio pervade tutto il corpo in ogni sua
parte e lo abbandona solo “con l'ultimo respiro". L'"animus"
invece è identificabile col "noùs" ellenico, traducibile in latino
con mens. Dunque animus e mens paiono essere o la stessa cosa o due elementi
coniugati dell'unità mentale. L'indicazione della “zona centrale del petto”
come sede fa pensare al concetto di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel
linguaggio comune per indicare la sensibilità umana, centro dell'emozione e del
sentimento. Parrebbe allora che l'animus sia insieme e conoscenza e emozione,
mentre l'anima è soffio vitale. L'angoscia esistenziale Il De rerum natura è
ricchissimo di elementi tipici dell'esistenzialismo moderno, riscontrabile
specialmente in Giacomo Leopardi, che dell'opera di Lucrezio era un profondo
conoscitore, anche se in realtà non è noto il lasso di tempo in cui Leopardi
lesse Lucrezio. Questi elementi di angoscia hanno indotto alcuni studiosi a
sottolineare il pessimismo di fondo che si opporrebbe alla volontà di rinnovare
il mondo a partire dalla filosofia epicurea; in altre parole, in Lucrezio ci
sarebbero due spinte contrapposte; l'una dominata dalla razionalità e fiduciosa
nel riscatto dell'uomo, l'altra ossessionata dalla fragilità intrinseca degli
esseri viventi e dal loro destino di dolore e morte. Altri studiosi, però ritengono
che l'insistenza di Lucrezio sugli aspetti dolorosi della condizione umana non
sia altro che una strategia di propaganda, per fare emergere più fortemente la
funzione salvifica della ratio epicurea. S'intende, ciechi alla dottrina di
Epicuro. Sul luogo di nascita: anche se
c'è chi afferma fosse nato a Roma, si ritiene quasi all'unanimità che fosse
originario della Campania: di Napoli, di Ercolano, o, secondo recenti studi
epigrafici, di Pompei, dove il nomen e il cognomen Tito e Lucrezio sono attestati,
e la gens Lucretia aveva delle ville cfr: Biografia di Lucrezio; o perlomeno vi
avesse abitato a lungo cfr. Enrico Borla, Ennio Foppiani, Bricolage per un
naufragio. Alla deriva nella notte del mondo, cfr. anche la Lucrezio Caro, Tito
su Enciclopedia Treccani Sulla data di
nascita: molti optano per il 98 a.C. o secondo altri 96 a.C. Secondo alcune fonti: Lucretius testimonia
vitae Luciano Canfora, Vita di Lucrezio, Sellerio, o secondo altri 53 a.C., cfr. Paolo Di Sacco,
M. Serio, "Odi et amoStoria e testi della letteratura latina" 1 "L'età arcaica e la repubblica",
Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Sezione 2, Modulo. Testimonianze su
Lucrezio Canfora. Lucrezio, De rerum
natura, Lucrezio, De rerum natura, Enrico Fichera, I "templa serena"
e il pessimismo di Lucrezio: echi lucreziani nella letteratura, Roma, Bonanno
edizioni, G. Lippold, Testo per Arndt-Bruckmann, Griech. u. röm. Porträts,
Monaco. Enciclopedia dell'arte antica
Cfr. Gerlo, Benedetto Coccia, Il mondo classico nell'immaginario
contemporaneo Nel romanzo epistolare di
Tiziano Colombi, Il segreto di Cicerone, Palermo, Sellerio, Nomi romani:
glossario Canfora, Cicerone, Ep. ad
Quintum fratrem, II 9. SLucrezio Canfora, Classici: Lucrezio e il De rerum
natura Aldo Oliviero, Il suicidio di Lucrezio, su lafrontieraalta.com. Ettore
Stampini, Il suicidio di Lucrezio, Messina, Tipografia D'Amico, La risposta di
Virgilio a Lucrezio Guido Della Valle
(Napoli), pedagogista e docente universitario, autore di Tito Lucrezio Caro e
l'epicureismo campano, Napoli, Accademia Pontaniana, Lucrezio in Enciclopedia
Italiana Lucrezio: informazioni
biografiche ibidem La natura delle cose, Milano, Rizzoli, Eneide,
libro VI. La natura delle cose, cit.
supra81. Lucrezio, La natura delle cose,
La natura delle cose. Il De rerum natura
di Lucrezio Introduzione a Lucrezio accesso= Memmio su Enciclopedia
Italiana Lo stile di Lucrezio C.
Craca, Le possibilità della poesia. Lucrezio e la madre frigia in «De rerum
natura» IBari, Edipuglia, Epicuro, Opere, E. Bignone, Laterza Lucrezio, La
natura delle cose, Biagio Conte, Milano, Rizzoli, La natura delle cose, cit. supra271. De rerum natura, Diego Fusaro, Tito Lucrezio
Caro, su filosofico.net. e rerum natura, VTasso segue Lucrezio stilisticamente,
non ideologicamente: vedasi la famosa similitudine del proemio del libro IV, ripresa
nel proemio della Gerusalemme liberate, La natura delle cose, cit. supra, De rerum natura, Mario Pazzaglia, Antologia
della letteratura italiana. Lucrezio,
introduzione Edizioni De rerum natura, (Brixiae), Thoma Fer(r)ando
auctore, De rerum natura libri sex nuper emendati, Venetiis, apud Aldum, In
Carum Lucretium poetam commentarij a Joanne Baptista Pio editi, Bononiae, in
ergasterio Hieronymi Baptistae de Benedictis, De rerum natura libri sex a
Dionysio Lambino emendati atque restituti & commentariis illustrati,
Parisiis, in Gulielmi Rovillij aedibus, De rerum natura libri VI, Patavii,
excudebat Josephus Cominus, De rerum natura libri sex, Revisione del testo,
commento e studi introduttivi di Carlo Giussani, Torino, E. Loescher (importante edizione critica, tuttora
fondamentale). De rerum natura, Edizione critica con introduzione e versione
Enrico Flores, 3 Napoli, Bibliopolis, Traduzioni italiane Della natura delle
cose libri sei tradotti da Alessandro Marchetti, Londra, per G. Pickard. La
natura, libri VI tradotti da Mario Rapisardi, Milano, G. Brigola, 1880. Della
natura, Armando Fellin, Torino, POMBA. Della natura, Versione, introduzione e
note di Enzio Cetrangolo, Firenze, Sansoni, La natura delle cose, Introduzione
di Gian Biagio Conte, Traduzione di Luca Canali, Testo latino e commento Ivano
Dionigi, Milano, Rizzoli, 1990. La natura, Introduzione, testo criticamente
riveduto, traduzione e commento di Francesco Giancotti, Milano, Garzanti (Per
la specifica sul De rerum natura si
rimanda a tale voce) V.E. Alfieri, Lucrezio, Firenze, Le Monnier, A.
Bartalucci, Lucrezio e la retorica, in: Studi classici in onore di Quintino
Cataudella, Catania, Edigraf, M. Bollack, La raison de Lucrece. Constitution
d'une poetique philosophique avec un essai d'interpretation de la critique
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l'epicureismo, Edizione italiana Alberto Grilli, Brescia, Paideia, D.
Camardese, Il mondo animale nella poesia lucreziana tra topos e osservazione
realistica, Bologna, Patron,. Luca Canali, Lucrezio poeta della ragione, Roma,
Editori Riuniti, Luciano Canfora, Vita di Lucrezio, Palermo, Sellerio, G. Della
Valle, Tito Lucrezio Caro e l'epicureismo campano, Seconda edizione con due
nuovi capitoli, Napoli, Accademia Pontaniana, 1935. A. Gerlo,
Pseudo-Lucretius?, in: «L'Antiquité Classique»,F. Giancotti, Lucrezio poeta
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liste di frequenza, su intratext.com. Intervista a Luca Canali su passioni e razionalità
in Lucrezio, dall'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, su
conoscenza.rai. Analisi critica del pensiero di Lucrezio, su
lucrezio.exactpages.com. V D M EpicureismoFilosofia Letteratura Letteratura Categorie: Poeti romaniFilosofi
romani 15 ottobre Roma Tito Lucrezio Caro Atomisti Epicurei Filosofi atei Lucretii
Storia dell'evoluzionismo Pre-esistenzialisti Personalità dell'ateismo. Refs.:
Lucretius, in The Stanford Encyclopaedia. Alma figlia di Giove, inclita
madre Del gran germe d'Enea, Venere bella, Degli uomini piacere e
degli Dei: Tu che sotto i girevoli e lucenti Segni del cielo
il mar profondo, e tutta D’ animai d'ogni specie orni la terra,
Che per se fora un vasto orror soUngo : Te Dea , fnggono i
venti: al primo arrivo Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia Erbe e
fiori odorosi il suolo indnstre : Tu rassereni i giorni foschi, e
rendi Col dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo, E splender fai
di maggior lume il ciclo. Qualor deposto il freddo ispido manto
L'anno ringiovanisce, « la soave Aura feconda di Favonio spira,,
Tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli. Feriti il cor da' tuoi
pungenti dardi , Cantan festosi il tuo ritorno, o Diva;
Liete scorron saltando i grassi paschi Le fiere , e gonfi di nuor'
acqae i fìami Varcano a nuoto e i rapidi torrenti: Tal da'
teneri tuoi rezzi lascivi Dolcemente allettato ogni animale Desioso
ti segue ovunque il gnidi. In somma tu per mari e monti e
fiumi, Pe'boschi ombrosi e per gli aperti campi, Di piacevole amore
i petti accendi, E cosi fai che si conservi '1 mondo.
Or se tu sol della Natura il freno Reggi a tua voglia , e senza te
non vede Del di la luce desiata e bella, Nè lieta e amabil
fassi alcuna cosa: Te , Dea, te bramo per compagna all'opra,
In cui di scriver tento in nuovi carmi Di Natura i segreti e le
cagioni Al gran Memmo Gemello a te si caro , In ogni tempo, e
d’ogni laude ornato. Tu dunque , o Diva , ogni mio detto
aspergi D’eterna grazia, e fa’ cessare intanto E per mare e per
terra il fiero Marte, Tu, che sola puoi farlo : egli sovente
D’ amorosa ferita il cor trafitto Umil si posa nel divin tuo
grembo. Or mentr’ ei pasce il desioso sguardo Di tua beltà,
ch'ogni beltade avanza, E che l’anima sua da te sol pende,
Deh ! porgi a lui , vezzosa Dea , deh ! porgi A lui soavi preghi ,
e fa'ch’ ei renda Al popol suo la desiata pace. Che se la
patria nostra è da nemiche Armi abitata, io più seguir non posso con
animo quieto il preso stile, nè può di Memmo il generoso
figlio aS l^egar sé stesso alla comaa salate. Tu,
gran prole di Memmo, ora mi porgi Grate ed attente orecchie, e ti
prepara, Lungi da te cacciando ogni altra cura, Alle vere ragioni
, e non volere I miei doni sprezzar pria che gl’ intenda. Io
narrerotti in che maniera il cielo con moto alterno ognnr si volga c giri
j Degli Dei la natura, e delle cose Gli alti principi , e come
nasca il tutto ; Come poi -si nutrichi, e come cresca, Ed in
che finalmente ei si risolva : £ ciò da noi nell’avvenir
dirassi primo corpo, materia, o primo seme, o corpo genitale ,
essendo quello Onde prima si forma ogni altro corpo: Che
d'uopo é pur che’n somma eterna pace Yivan gli Dei per lor natura , e
lungi Stian dal governo delle cose umane , Scevri d' ogni
dolor, d’ogni periglio, biechi sol di lor stessi, e di lor fuori di
nulla bisognosi, e che nè metto Nostro gli alletti, o colpa accenda ad
ira. Giacca l’ umana vita oppressa e stanca Sotto religìon
grave e severa. Che mostrando dal ciel l’altero capo
Spaventevole in vista e minacciante ne soprasta. Un iiom d’Atene il
primo e, che d’ergerle incontra ebbe ardimento Gli occhi ancor che
mortali, e le s’oppose. Questi non paventò nè eie! tonante Nè
tremoto che ’l mondo empia d’ orrore , Nè fama degli Dei, nè fulmin torto
j Ma qual acciar su dura alpina cote quanto s’agita più tanto più
splende. Tal dell’animo suo mai sempre invitto Nelle difficoltà
crebbe il desio a Di spezzar pria d'ogni altro i saldi
chiostri, E r ampie porte di Natura aprirne. Cosi vins' egli
, e con l' eccelsa mente Varcando oltre a' confin del nostro mondo, e
bastante a capir spazio infinito. Quindi sicuramente egli n’ insegna
Gid che nasca o non nasca, ed in qual modo Ciò che racchiude l' Universo
in seno Ha poter limitato , e tcrmin certo : E la religion
co’pié calcata, L' alta vittoria sua c’ erge alle stelle. Nè
creder già che scelerate ed empie sian le cose eh’ io parlo. Anzi
sovente L' altrui religion ne’ tempi^antichi Cose produsse
scelerate ed empie. Questa il fior degli eroi scelti per duci
Deir oste argiva in Aalide indusse Di Diana a macchiar l' ara
innocente Col sangue d' Ifigenia , allor che cinto di bianca fascia
il bel virgineo crine vid’ella a se davanti in mesto volto Il padre,
e alni vicini i sacerdoti Celar 1’ aspra bipenne , e '1 popol tutto
Stillar per gli occhi in larga vena il pianto Sol per pietà di lei , che
muta e mesta Teneva a terra le ginocchia inchine. Nè giovi punto all’innocente
e casta povera verginella in tempo tale , Ch’ a nome della
patria il prence avesse All’ esercito greco un re donato ;
Che tolta dalle man del suo consorte Fu condotta all’ aitar tutta
tremante: Non perchè terminato il sacrifizio, legata fosse
col soave nodo d’un illustre imeneo. Ma per cadere Nel tempo stesso
delle proprie nozze A* piè del genitore ostia dolente per dar felice
e fortunato evento All' armata navale. Error si grave Persuader la
religion poteo. Tu stesso dall’orribili minacce de’ poeti atterrito, a i
detti nostri di negar tenterai la fe dovuta. Ed oh, quanti potrei
fìngerti anch'io Sogni e chimere, a sovvertir bastanti Del viver
tuo la pace, e col timóre Il sereno turbar della tua mente.
Ed a ragion, che se prescritto il fine vedesse l'uomo alle miserie
sue. Ben resister potrebbe alle minacce Delle religioni, e de'
poeti. Ma come mai resister può, s' ei teme Dopo la morte
aspri tormenti eterni. Perchè dell' alma è a lui 1' essenza ignota:
S' ella sia nata, od a chi nasce infusa, E se morendo il corpo anch' ella
muoia? Se le tenebre dense , e se le vaste Paludi vegga del tremendo
Inferno, O s' entri ad informare altri animali Per ^divino
voler, siccome il nostro Ennio cantò , che pria d' ogn' altro colse
In riva d'Elicona eterni allori. Onde intrecciossi una ghirlanda al
crine FRA L’ITALICA GENTI illustre c chiara? Bench' ci ne' dotti
versi affermi ancora Che sulle sponde d' Acheronte s' erge Un
tempio sacro a gl' infernali Dei , Ove non 1' alme o i corpi nostri
stanno. Ma certi simulacri in ammirande Guise pallidi in
volto, e quivi narra d’aver visto l'imagine d’Omero Piangere
amaramente, e di Natura Raccontargli i segreti e le cagioni.
Dunque non pnr de’più sublimi effetti Cercar le cause, e dichiarar
conviensi Della luna e del sole i morimenti. Ma come possan
generarsi in terra tutte le cose, e con ragion sagace principalmente
investigar dell' alma, £ dell'animo uman l’occulta essenza,
E ciò che sia quel, che vegliando infermi, £ sepolti nel sonno, in
guisa n'empie d’alto terror , che di veder presente Parne , e d’udir
chi già per morte in nude ossa ò converso, e poca terra asconde e so ben
io qual malagevol’ opra Sia r illustrar de’ Greci in toschi
carmi L’ oscure invenzioni, e quanto spesso Nuove parole
converrammi usare, non per la povertà della mia lingua ch’alia greca
non cede , e più d’ ogn’ altra piena è di proprie e di leggiadre vocij ma
per la novità di quei concetti Ch’esprimer tento, e che nuli’ altro
espresse. Pur nondimcn la tua virtude ò tale, e lo sperato mio
dolce conforto Della nostr’amistà, eh’ ognor mi sprona A soffrir
volentieri ogni fatica, E m’induce a vegliar le notti intere,
sol per veder con quai parole io possa Portare innanzi alla tua mente un
lume, Ond’ ella vegga ogni cagione occulta. Or si vano terror
, si cieche tenebre Schiarir bisogna, e via cacciar dall’
animo nn co’ be’ rai del sol, non già co’ lucidi dardi del giorno a
saettar poc’ abili fuorché 1’ ombre notturne e i sogni pallidi , Ma
col mirar della Natura , e intendere D’occulte cause e la velata
imagine. Tu, se di conseguir ciò brami, ascoltami. Sappi , che nulla
per diyin volere Pad dal nalla crearsi, onde il timore, che
qaind'il cor d'ogni mortale ingombra , Vano è del tutto, e se tu vedi
ognora Formarsi molte cose in terra e ’n cielo, nè d'esse intendi
le cagioni, e pensi Perciò che Dio le faccia , erri e deliri.
Sia dunque mio principio il dimostrarti, Che nulla mai si può crear
dal nulla. Quindi assai meglio intenderemo il resto £ come possa
generarsi il lutto Senz'opra degli Dei. Or se dal nnlla- Si
creasser le cose, esse di seme Non avrian d'uopo, e si vedrian
produrre Uomini ed animai nel seti dell' acque, nel grembo della
terra uccelli e pesci, e nel vano dell’aria armenti e greggi;
Pe' luoghi culli, e per gl' inculti il parto D'ogni fera selvaggia
incerto fora; Nè sempre ne darian gl'istessi frutti Gli
alberi , ma diversi ; anzi ciascuno D' ogni specie a produrgli allo
sarebbe. Poiché come potrian da certa madre nascer le cose, ove
assegnati i propri semi non fosser da ^Natura a tutte 1 Ma or perché
ciascuna è da principi certi creala , indi ha il natale ed esce
Lieta a godere i dolci rai del giorno, ov'è la sua materia e
-i-vorpi primi: E quindi nascer d'ogni cosa il tutto Non può,
perchè fra loro alcune certe cose hall l'interna facoltà distinta.
Inoltre ond' è che primavera adorna sempre è d’ erlie e di fior? che
di mature Biade all' estiv' arsura ondeggia il campo? e che sol
quando Febo occupa i segni O di Libra o di Scorpio, allor la vite
Suda il dolce liquor che inebria i sensi? Se non perché a'ior tempi alcuni
certi Semi in un concorrendo, atti a produrre Son ciò che nasce,
alJor che le stagioni Opportune il richieggono, e la terra «I Di
rigor genital piena c di succo , Puote all’ aure inalzar
sicuramente Le molli erbette e l’altre cose tenere i che se pur generate
esser dal nulla Potessero, apparir dovrian repente In contrarie
stagioni e spazio incerto , Non vi essendo alcun seme , che
impedito Dall' Union feconda esser potesse O per ghiaccio o per sol
ne' tempi avversi. Né per crescer le cose avrian mestiere di spazio
alcuno in cui si unisca il seme, i' elle fosser del nulla atte a nutrirsi.
Ma nati appena i pargoletti infanti Diverrebbero adulti , e in un
momento Si vedrebber le piante inverso il cielo Erger da terra le
robuste braccia. Il che mai non succede. Anzi ogni cosa cresce,
come conviensi , a poco a poco, E crescendo, conserva e rende
eterna La propria specie. Or tu confessa adunque Che della sua
materia , e del suo seme Nasce, si nutre e divien grande il tutto.
S’arroge a ciò, che non daria la terra il dovuto alimento ai lieti
parti. Se non cadesse a fecondarle il seno Dal del 1' umida pioggia,
e senza cibo propagar non potrebber gli animali La propria specie, e
conservar la vita, Ond' è ben verisimile, che molte Cose
molti fra lor corpi comuni Àbbian, come le voci han gli elementij
Anzi, che sia senza principio alcuna. In somma ond' è che non forma
Natura uomini tanto grandi e si robusti, che potesser co’ piè del mar
profondo varcar l’ acque sonanti e con la mano sveller dall’imolor
l’alte montagne, e viver molt’ etadi , e molti secoli? L. is known only
for his long poem De rerum natura in which he sets out the doctrines of the
Garden. As the only substantial systematic work of the Garden to survive from
antiquity it is a work of considerable significance. Unfortunately, it is
difficult to judge how accurate an account of the school’s teaching as there is
little with which to compare it. However, the Garden tended towards
conservatism in doctrinal matters and so it isunlikely Lurezio strayed far from
orthodoxy. The first two books of the poem are mainly concerned with espounding
atomism, the middle two are concerned with human nature and knowledge, and the
last to analyse a number of natural phenomena. Tito Lucrezio Caro. Lucrezio.
Luigi Speranza, "Grice, Lucrezio, e la
natura delle cose," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Grice, Liguria, Italia. Luigi Speranza, “Grice e Lucrezio: implicatura
atomica” – “implicatura e composizionalita” – “implicatura elementare” –
“implicatura simplex” “implicatura simplice” “implicatura complessa”, “alma
figlia di Giove” --.
Grice e Lucullo – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Lucio Licinio Lucullo. Lucullo
si distingue nella guerra sociale come tribunus militum. Avendo avuto quale
pro-questore sotto Silla nella guerra mitridatica l’incarico di recarsi dalla
Grecia in Cirenaica e in Egitto e di raccogliere una flotta, Lucullo volle
avere presso di sè Antioco d’Ascalona in quel pericoloso viaggio sul
mare. Pretore, propretore in Africa, e console, ottenne il governo
proconsolare della Cilicia e il comando della guerra contro Mitridate e
sconfisse prima questo, poi il suo alleato Tigrane re di Armenia. Negl'anni
del suo comando, batiè con poche forze grossi eserciti nemici. Ma per il
malcontento dei soldati le cose peggiorarono, sicchè i suoi avversari lo fanno
richiamare a Roma ove soltanto gli e concesso il trionfo. Lucullo
contribuì potentemente alla diffuzione della filosofia in Roma. LUCULLO e
oratore, storico (scrive un’opera sulla guerra sociale) e si interessa
vivamente per la filosofia, tanto che volle compagno Antioco sia da
pro-questore che da pro-console e con gli studi filosofici si consolò degli
insuccessi politici. Lucullo was a rich Roman who made a career in public and
military life. He was a friend and pupil of Antioco, although his philosophical
tastes appear to have been quite eclectic. He spend his last years quietly
going insane.
Grice e Luporini – i corpi di Vinci
– il leopardi fascita – leopardi fascisti – ultra-filosofico -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Ferrara).
Filosofo italiano. Grice: “I like Luporini; I lerarned from him how silly
Austin is when talking of ‘material object’ – a contradiction in terminis for
Kant who uses ‘materie’ very strictly; Luporini’s study of Leopardi is
brilliant – and he has explored the genius of Vinci, which is good!” Si recò a
Friburgo, dove frequenta le lezioni di Heidegger, e poi a Berlino, dove poté
seguire le lezioni di Hartmann. Si laurea a Firenze. Insegna a Cagliari, Pisa e
Firenze. Dopo un in interesse per l'esistenzialismo, aderì al marxismo,
iscrivendosi al Partito Comunista, per il quale fu eletto senatore nella terza
legislature. Tra le altre iniziative parlamentari, fu firmatario di un progetto
di legge, "Istituzione della scuola obbligatoria statale dai 6 ai 14
anni.” Fonda la rivista Società.
Collabora ai periodici politico-culturali del PCI, Il Contemporaneo,
Rinascita, Critica marxista. Durante il dibattito che, a seguito degli eventi,
porta alla trasformazione del PCI in PDS, si schierò decisamente contro la
"svolta" di Occhetto, aderendo alla mozione "due" di
opposizione interna, in un'orgogliosa difesa e per un rilancio della
prospettiva e degli ideali comunisti. Il marxismo di Luporini si fonda su una
critica radicale allo storicismo, sul rifiuto di ogni concezione finalistica
dello sviluppo storico: il comunismo, quello marxista in particolare, non è
assimilabile con la tematica tipicamente storicista del progresso come traccia
dell'evoluzione umana. Egli rifiuta letture dogmatiche del marxismo e le sue
deteriori forme di economicismo e meccanicismo, ma, pur apprezzando lo
strutturalismo di Althusser con cui cercò di far dialogare tutto il marxismo
italiano, non ne condivideva l'anti-umanismo, in quanto il pensiero di Marx
conserva per lui un profondo umanesimo, anche negli scritti successivi alla
"rottura epistemologica" in cui le strutture, cioè i modelli
interpretativi della società, non sono astratti ma in funzione degli individui
concreti, umani. Nello stesso ambito
marxista, tra i suoi obiettivi polemici vi furono quelle posizioni che
proponevano una interpretazione di radicale discontinuità tra Marx e Hegel,
cioè quelle di Volpe e della sua scuola. Centrale è infatti per Luporini la
nozione di “contra-dizione,” la marxiana "oggettività reale", che lo
pone comunque in relazione con Hegel. Marx deve essere considerato una
concezione aperta e complessa, dove materialismo e dialettica compongono una
sintesi mai totalizzante (da qui il suo interesse per l'elaborazione di Gramsci)
e parte fondamentale di una più generale teoria dei condizionamenti umani. Fondamentale è il concetto di formazione
economico-sociale, espressione già utilizzata da Sereni, ma in senso
storicistico e cioè la possibilità per il marxismo di costituire un modello per
l'analisi degli specifici modi di produzione della società capitalista, nonché
per la previsione scientifica delle sue varie forme. La legge generale delle
formazioni economico-sociali è tratta dall’Introduzione ai Lineamenti
fondamentali di critica dell'economia politica di Marx. La struttura economica
va indagata secondo logica scientifica e bisogna stabilire un "criterio
oggettivo", il momento dominante che condiziona tutti gli altri assetti
produttivi. L'approccio storico-genetico
non è un continuum evoluzionistico come nella tradizione storicistica, è la
fase dell'osservazione e descrizione empirica del fenomeno dalla sua origine ed
è secondario rispetto all'approccio genetico-formale, cioè all'indagine che
permette di stabilire la categoria dominante di una determinata fase storica
della produzione. Il modello de Il Capitale può dunque aspirare
all'universalità, ma anche alla flessibilità di applicazione. La
formalizzazione di un “modello” attraverso il metodo genetico, individua anche
il processo per cui i rapporti di produzione si riflettono in qualcos’altro, la
coscienza dei singoli, le relazioni inters-oggettive (l’inter-azione’) e le
radici stesse della vita morale. È palese così il contrasto di Luporini ad ogni
disegno provvidenzialista e di filosofia della storia e anche in questo si
rende chiaro il rapporto dialettico-oppositivo tra Hegel e Marx. Per quanto riguarda
Leopardi, secondo Luporini, la sua poesia non è permeata solo di pessimismo, ma
ci invita anch'essa alla resistenza attiva. La formazione filosofica di
Leopardi, infatti, illuminista e materialista, permette di leggere ad esempio,
nelle "magnifiche sorti e progressive" de "La Ginestra",
una possibilità di rinnovamento politico-sociale non in antitesi con la
concezione della 'natura matrigna', un compito storico degli esseri umani
altrimenti o comunque destill'infelicità esistenziale. “Filosofia e politica:
scritti dedicati a Luporini, Firenze, La Nuova Italia, Una completa e aggiornata, L. Fonnesu, è stata
pubblicata nel numero speciale dedicato a Luporini di "Il Ponte"
(Firenze). Oltre agli studi sulla storia della filosofia e a un'elaborazione
teorica del marxismo incentrata sui temi etici, si ricordano, fra le sue opere
principali: “Situazione e libertà”
(Firenze, Monnier); “Filosofi vecchi e nuovi” (Firenze, Sansoni); “Spazio e
materia in Kant” (Firenze, Sansoni); “L'ideologia comunista” (Riuniti, Roma); “Dialettica
e materialismo, Roma, Riuniti, Il soggetto
e il comune, Il marxismo e la cultura italiana, in Storia d'Italia, I
documenti, Einaudi. Un'incidenza notevolissima ha sugli studi leopardiani il
suo saggio Leopardi progressivo. Sulle
lezioni di Heidegger e Hartmann vedi l'aneddoto in Intervista in "Repubblica",
E. Sereni, Da Marx a Lenin: la categoria di formazione economico-sociale, Quaderni
di Critica marxista, Realtà e storicità: economia e dialettica nel marxismo, in
Critica marxista, Per l'interpretazione della categoria formazione
economico-sociale, in Critica marxista, Le radici della vita morale, in Morale e società, Riuniti, Roma); S. Lanfranchi,
Dal Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della
critica marxista, Saggi critici in Garin, Esistenza e libertà, in Critica marxista,
G. Mele, Esistenzialismo e significato della libertà, Critica Marxista, A. Zanardo,
Un orizzonte filosofico materialistico, in Critica marxista, C. Rocca,
Esistenzialismo e nichilismo «Belfagor», R. Mapelli, Milano, ed. Punto Rosso, Ponte,
Ponte, Convegni Quarant'anni di
filosofia in Italia. "Critica marxista", Il fascicolo contiene gli
atti delle due giornate di studio sulla sua filosofia oorganizzate dalla
Facoltà di Lettere e filosofia dell'Firenze e dalla fondazione Gramsci di Roma,
Feltrinelli. Nella loro maggior parte i contributi riprendono gli interventi al
Convegno promosso dall'Firenze e organizzato dal Dipartimento di Filosofia. Treccani
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Senato della Repubblica; Biblioteche dei
Filosofi (SNS), su picus unica. L'ultima lezione (una grande avventura
intellettuale attraverso il Novecento), su hyperpoli. Sebbene
questo titolo rimandi a questioni di critica letteraria, e di fatto i risultati
della critica leopardiana costituiscano l’oggetto principale da cui muove
questo studio, essi saranno presentati e analizzati nelle prossime pagine
innanzitutto come un ‘documento’ storico : un documento che forse non ci darà
risposte soddisfacenti per comprendere meglio il pensiero leopardiano, ma
contribuirà invece alla nostra riflessione sull’iter culturale e ideologico di
alcuni intellettuali italiani, tra il 1940 e il 1948. Per affrontare il
problema della transizione e tentare di isolare alcuni elementi di continuità e
di rottura, il discorso svolgerà un percorso circolare : partendo dal saggio
pubblicato da Cesare Luporini nel 1947, Leopardi progressivo, al quale, in un
primo momento, si accennerà solo molto brevemente ; seguendo poi un cammino a
ritroso per rintracciare l’itinerario e le origini anche abbastanza lontane del
dibattito – iniziato sin da prima del Ventennio – da cui trae origine questo
testo ; e tornando infine al 1947 e al libro di Luporini, molto noto, anche
fuori dalla cerchia degli specialisti di Leopardi, tanto da esser divenuto un
‘classico’ studiato spesso sin dal liceo1. 2 Scrive Sebastiano Timpanaro
a proposito del titolo scelto da Luporini : « un titolo che per un vers (...) 3
Si tratta del v. 51 della Ginestra, in G. Leopardi, Poesie e prose, vol. I,
Poesie, a cura di M. A. (...) 4 C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 64.
2 La scelta dell’aggettivo progressivo, benché avesse un’eco politica
particolare nella cultura comunista del primissimo dopoguerra2, era dettata dal
richiamo letterario alle « magnifiche sorti e progressive » de La Ginestra di
Leopardi3. Ma nella citazione di Luporini l’aggettivo perdeva il sapore
amaramente ironico di quel verso leopardiano ed assumeva invece un significato
totalmente positivo, per indicare una forma di fiducia nel « generale progresso
dell’incivilimento »4 che, secondo il critico, emana dalla lettura complessiva
di una poesia come La Ginestra e, forse soprattutto, da un’attenta analisi
dello Zibaldone di Leopardi. Questa fiducia non risiede però, per Luporini,
nell’individuo, bensì nella moltitudine, ovvero nel popolo e nella sua virtù, e
sfocia in una dichiarazione di solidarietà tra gli uomini tutti, contro la
natura, per un progresso generale della condizione umana. 3 La vivacità
delle reazioni che suscitò il saggio quando fu pubblicato dà una preziosa
indicazione di quanto originale e quanto importante fosse l’interpretazione
proposta da Luporini. Per illustrare l’accoglienza che ricevette è
particolarmente utile la recente testimonianza di Franz Brunetti, che sarebbe
poi diventato professore di filosofia e specialista di Galilei, ma che allora
era ancora al terzo anno di studi della Scuola normale superiore di Pisa, dove
Luporini appunto insegnava. Brunetti ricorda perfettamente il Leopardi
progressivo, la cui lettura creò interesse e agitazione fra i normalisti : ne
discutevano animatamente nei corridoi, nelle stanze e durante i pasti nella sala
da pranzo soprattutto gli italianisti Giulio Bollati, Luigi Blasucci, Dante
della Terza, che trascinavano tutti gli altri. Era lecita una definizione
politica del poeta ? Era corretta siffatta operazione ideologica ? Non era
forse più opportuna una ricomposizione unitaria del pensiero leopardiano […]
? 5 F. Brunetti, Il « nostro » professore Cesare Luporini, in Cesare
Luporini 1909-1993, a cura di M. M (...) La discussione, animata e per certi
versi lacerante, si protrasse per giorni, riecheggiando sotto le volte dei
corridoi nel Palazzo dei Cavalieri. Fu però efficace, perché fece rientrare la
sensazione provocatoria del saggio e ricondurre l’elemento ideologico e il «
tecnicismo filosofico » nelle giuste dimensioni, sortendo d’altro canto
l’effetto di mettere in discussione l’apollineità in cui la critica crociana
mirava a rinchiudere la poesia e insieme il poeta. Non è un caso che da quello
stesso anno [1948] anche il lavoro critico di Luigi Russo si attestò in una
valorizzazione della « politicità » dei poeti, rompendo, proprio lui, il
dominante schema crociano. Una pietra gettata nello stagno, una fertile
provocazione intellettuale.5 4 Quanto racconta Brunetti è, per molti
aspetti, significativo e rappresentativo del clima ideologico e culturale di
quegli anni, e della transizione che si sta operando, anche nel piccolo mondo
della critica letteraria. 6 C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p.
38 e 92. 7 W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947.
Sebbene molto diversi, il testo di (...) 5 Brunetti definisce il testo di
Luporini un’« operazione ideologica », in quanto offre una lettura non solo
eminentemente politica dell’opera leopardiana, ma una lettura esplicitamente
comunista. Luporini vede in Leopardi un « anticipatore di ulteriori dottrine »,
« fedele ai principi della democrazia rivoluzionaria, anche più avanzata »6. In
questo senso, il 1947 segna, col saggio di Luporini – e col saggio altrettanto
noto di Walter Binni, La nuova poetica leopardiana, pubblicato lo stesso anno7
– una svolta decisiva nella storia della fortuna leopardiana, inaugurando la
proficua stagione della critica leopardiana del secondo Novecento, segnatamente
della critica detta marxista. 6 D’altra parte, Brunetti considera che
l’opera di Luporini era, nel contesto culturale della seconda metà degli anni
Quaranta, una vera e propria « pietra gettata nello stagno » e una « fertile
provocazione intellettuale », in quanto rimetteva in questione il « dominante
schema crociano ». Con quest’ultima osservazione, Brunetti non rende, tuttavia,
conto di quanto fosse recente tale « dominio ». Se è vero, infatti, che il
metodo crociano si era imposto nel mondo culturale di quel primissimo
dopoguerra, durante tutto il Ventennio e anche durante la guerra esso era stato
sì prevalente, ma solo nella cerchia, in realtà abbastanza ristretta, degli
intellettuali ostili o estranei al fascismo. Di sicuro non era stato lo «
schema dominante » imposto negli studi letterari, nelle riviste, nelle
accademie e nelle università dell’Italia fascista. 8 Croce conia la voce
« allotrio » per indicare ciò che è estraneo all’estetica, rifacendosi al vocab
(...) 9 Per l’influenza di Giovanni Gentile sul mondo culturale in epoca
fascista, si veda in particolare G (...) 10 Il ruolo di Vittorio Cian
(1862-1951) negli studi letterari del Ventennio e nel periodo di transizi (...)
11 Arturo Marpicati (1891-1961) compie studi di letteratura italiana a Firenze,
pubblica alcune raccol (...) 12 Ecco quanto scriveva, ad esempio, Vittorio
Cian, nel 1933, rivolgendosi a Croce e ai suoi discepoli (...) 13 Mi sia
consentito di rimandare in questa sede a due testi miei, entrambi accessibili
in linea : S. (...) 7 In realtà, durante il Ventennio solo una minoranza
di critici – pur trattandosi di una minoranza quantitativamente e soprattutto
qualitativamente importante – aveva seguito l’idea crociana dell’autonomia
dell’arte, e quindi perlopiù evitato di dare una lettura apertamente politica
dei testi letterari. Erano relativamente pochi i critici che aderivano al
principio secondo cui gli elementi che in un’opera d’arte contengono un
messaggio dichiaratamente politico o morale sono « allotri »8, ovvero estranei
alla vera poesia del testo, perché non corrispondono allo slancio primo e
poetico dell’intuizione estetica. A questi si opponeva la critica di stampo
fascista, nelle cui file, ben più folte, troviamo uomini di grande influenza e
di grande potere nell’ambiente culturale ed accademico, come un Giovanni
Gentile9, un Vittorio Cian10, ma anche un Arturo Marpicati11. Essi
contestavano, anche violentemente, la lezione crociana12, mentre rivendicavano,
per tutti i testi letterari, la legittimità di una lettura morale, politica,
improntata all’attualità. La tendenza ad ‘attualizzare’ il significato delle
opere fu portata a tal segno da far loro presentare, talvolta e anzi spesso, i
classici della letteratura italiana come precursori del fascismo13. 8 Non
era dunque la prima volta che si buttavano pietre nello stagno della critica
crociana ; si potrebbe quasi dire, anzi, che non si era fatto altro che
buttarvi pietre durante tutto il Ventennio. 14 In realtà, i primi sintomi
di « insofferenza » Russo li diede sin dal 1941, mentre scriveva un arti (...)
15 Ibid., p. 4. 9 Perciò, quando Brunetti denuncia « l’apollineità » in cui
Croce rinchiude i poeti, e quando ricorda l’itinerario di Luigi Russo – che in
quegli anni, dopo esser stato a lungo un fedele discepolo crociano, da Croce
prende appunto le distanze14 – egli ci fa intuire non tanto una rottura, quanto
una ‘transizione’ interessante. Tra i critici che erano stati antifascisti
negli anni Venti e Trenta, molti cominciano, sin dai primissimi anni Quaranta,
a maturare un progressivo allontanamento dalla posizione crociana, proprio
perché si sentono vincolati da quell’implicito divieto di ‘allotrismo’ che
caratterizza la produzione critica crociana, rivendicando la possibilità di
considerare « la politicità nascosta » anche nella « grande poesia »15.
Arrivati al 1947 o 1948, sembrano ormai giunti al punto di rottura. Ma quel che
preme qui sottolineare è che vi è dunque una continuità, non certo nei
contenuti politici – affatto diversi – ma potremmo dire nel metodo e nei
presupposti teorici ed estetici che vengono opposti a Croce durante e dopo il
Ventennio, ovvero nella comune rivendicazione ‘allotrica’. 10 Il testo di
Luporini segna senz’altro una svolta nella fortuna critica di Leopardi nel
Novecento, quando lo si studia come punto di partenza di una tradizione
critica, e in questo modo esso viene generalmente e giustamente valutato.
L’intento di questo lavoro sarà invece di considerarlo come punto di approdo
problematico di un’altra tradizione critica, non posteriore ma anteriore,
vigente nel Ventennio e di stampo generalmente fascista, con cui il testo di
Luporini, nonostante le fondamentali differenze, ha in comune almeno due
aspetti essenziali. Il primo è appunto l’opposizione all’estetica crociana che
è già stata evocata e che potrebbe, senz’altro, esser estesa a gran parte della
critica letteraria, non trattandosi di una specificità leopardiana ; il secondo
è l’idea – sulla quale verterà più precisamente questo studio – di un
fondamentale ottimismo leopardiano. Ora, una certa paternità del tema
dell’ottimismo leopardiano, così come lo sviluppa Luporini, può essere
attribuita a Giovanni Gentile e ad un suo saggio sulle Operette morali di
Leopardi, scritto nel 1916. Questo, invece, è un discorso specifico, valido per
la sola critica leopardiana. 11 L’ipotesi di una continuità tra
l’interpretazione che Luporini dà di Leopardi nel 1947 e la produzione critica
degli anni Venti e Trenta, con una comune opposizione a Croce, ma anche una
comune matrice – almeno parziale – gentiliana, è convalidata sia dall’analisi
dei testi, come vedremo, che dalla stessa biografia di Luporini e da quanto lui
stesso racconta della propria esperienza. La vicenda umana, ideologica e
culturale di Luporini in quel decennio che va dalla seconda metà degli anni
Trenta alla fine degli anni Quaranta è, per molti aspetti, emblematica proprio
di quel profilo di intellettuale nella transizione tra fascismo e
Repubblica. 16 C. Luporini, Critica e metafisica nella filosofia
kantiana, « Rendiconti della Reale Accademia Nazi (...) 17 Il testo faceva
parte di un volume scritto dai docenti del liceo dove Luporini insegnava, in
occasi (...) 18 Nella sua autobiografia, Norberto Bobbio cita un disegno di
Renato Guttuso che illustra una delle p (...) 19 C. Luporini, Qualcosa di me
stesso (25 maggio 1979), in Cesare Luporini 1909-1993, cit., p. 239. Qu (...)
12 Cesare Luporini (1909-1993) si è laureato a Firenze nel 1935, dopo aver
studiato anche in Germania, dove fu in contatto con Heidegger e Hartmann. La
sua tesi di filosofia su Kant, d’impostazione esistenzialistica, è letta e
molto apprezzata da Gentile, il quale decide di presentarla, nel febbraio del
1935, all’Accademia dei Lincei di cui era socio16. Dopo aver conseguito la
laurea, Luporini insegna al liceo, prima a Livorno, dove pubblica un primo
testo su Leopardi, di cui dà un’interpretazione esistenzialistica e la cui
impostazione reca già segni evidenti di anticrocianesimo17. Nel 1938 torna a
Firenze ed entra a far parte del movimento liberalsocialista di Aldo Capitini e
Guido Calogero, nel quale frequenta anche Norberto Bobbio, Renato Guttuso e
Umberto Morra18. Nel 1939 Gentile lo chiama alla Scuola Normale Superiore di
Pisa, dove era disponibile un posto di lettore di tedesco. C’era, tra Gentile e
Luporini, un rapporto che Luporini stesso ebbe a definire « di grande
franchezza politica », sin dal 1937, quando i due uomini si conobbero meglio, e
fino alla morte di Gentile, avvenuta nel 194419. Luporini non aveva approvato
la decisione del movimento liberalsocialista di confluire nel Partito d’Azione
e si era perciò ritirato nel 1942, per aderire invece, nell’agosto del 1943, al
Partito Comunista. Luporini si trovava quindi agli esatti antipodi politici di
Gentile : eppure egli stesso racconta di come avesse tentato, nel 1943, di
convincerlo ad abbandonare la Repubblica di Salò e avesse anche creduto di riuscire
nel suo intento, definendo « tragica » ma anche « consapevole » la sua fine
: 20 Ibid., p. 240. Non mi soffermerò sull’ultima fase di Gentile,
tragica. Ricordo solo che, certo illusoriamente, cercai di persuaderlo a che si
tirasse fuori dal fascismo, nel frattempo divenuto la Repubblica di Salò. Nel
novembre del ’43, al Salviatino, dove abitava, ebbi con lui un incontro che non
finiva mai, perché non riuscivo a rimanere solo con lui. Quando ce la feci, lo
misi al corrente di quello che stava succedendo, dandogli delle notizie che
evidentemente non gli davano le autorità fasciste – era stato anche ucciso uno
del suo entourage – mentre io le avevo dalla rete clandestina in cui mi
trovavo. Me ne uscii con la sensazione che forse qualcosa avevo ottenuto. Invece,
non era così : due giorni dopo, venne fuori che il ministro Biggini s’era
recato lì, al Salviatino, per offrirgli la presidenza dell’Accademia d’Italia,
e che Gentile aveva accettato (ma, quand’ero stato da lui, non me l’aveva
detto). E così s’avviò verso un destino di cui in qualche modo aveva
consapevolezza.20 13 Poche settimane dopo quest’episodio, Gentile propone
a Luporini di diventare bibliotecario dell’Accademia d’Italia. Ma Luporini
rifiuta, sancendo così la fine del suo rapporto con Gentile : un rapporto che,
nella nostra prospettiva, è senz’altro importante e che invece è stato quasi
integralmente passato sotto silenzio. In realtà, di Luporini si ricorda
soprattutto l’attività posteriore al 1945, in particolare quella che svolse
come co-fondatore – con Bianchi Bandinelli – della rivista “Società”, e in
seguito come direttore della stessa. La storia di questa rivista illustra
l’evoluzione di molti intellettuali di sinistra dopo la Liberazione, proprio
per il vincolo che venne rapidamente a crearsi col partito comunista. Parlando
di « Società » e dei suoi intenti programmatici, Luporini dichiara nel 1979 che
per lui, l’idea principale era 21 Ibid., p. 244. d’una saldatura fra
quella cultura degli anni trenta di cui ho parlato – quella rottura con il
passato che eravamo venuti preparando lentamente, modestamente, molecolarmente
– e la cultura di quelli che venivano da fuori, soprattutto i dirigenti
comunisti, e segnatamente Togliatti. Perciò, non ero d’accordo con Vittorini,
con la sua idea, nel « Politecnico » d’una « nuova cultura ». I contenuti li
avevamo in comune, più o meno ; però io ero per un continuismo, non assoluto,
naturalmente, ma rispetto a quel che ho detto.21 22 Ibid., p. 241. 14 Per
illustrare meglio le forme di questo « continuismo », bisogna rifarsi alle
pagine che precedono questa citazione, in cui Luporini descrive l’ambiente
culturale della Firenze degli anni Trenta e il gruppo di intellettuali
antifascisti che vi frequentava. Luporini dichiara in quest’occasione che « da
un certo punto di vista la vera dittatura era proprio quella idealistica » e
che, nel campo specifico della letteratura e della storiografia, l’idealismo «
dittatoriale » era forse più crociano che non gentiliano22. Continua poi la
narrazione del proprio iterintellettuale, negli anni Trenta e Quaranta, che
Luporini descrive come un percorso che consta di due tappe fondamentali, due
svolte, anzi due transizioni. La prima avviene negli anni Trenta, quando
Luporini prende le distanze dall’idealismo crociano e scopre l’esistenzialismo
; la seconda, negli anni Quaranta, quando dall’esistenzialismo Luporini si
sposta verso posizioni marxiste. 15 Questi pochi elementi biografici
offrono due spunti notevoli per l’analisi della produzione di Luporini. In
primo luogo, il rapporto personale più approfondito che Luporini aveva con
Gentile e non con Croce induce a riconsiderare l’influenza dell’uno e
dell’altro sulla sua prima formazione, da giovane studente e studioso di
filosofia e di letteratura. In secondo luogo, nell’esprimere a posteriori il
programma della sua rivista « Società », Luporini formula una precisa volontà
culturale ed ideologica propria di quel periodo di transizione, che consiste
nel superare l’idealismo crociano e nel consentire una forma di « continuismo »
tra una certa cultura anticrociana degli anni Trenta e quella degli anni
Quaranta. Applicati alla critica leopardiana del dopoguerra, questi due
elementi dimostrano quanto fosse complessa e problematica l’eredità della
critica fascista e della critica idealista. 23 C. Luporini, Con Heidegger
1931-1933. Alcune riflessioni, oggi, tra filosofia e politica, in Heideg (...)
24 G. Gentile, Manzoni e Leopardi (1928), in Opere, vol. XXIV, Firenze,
Sansoni, 1960. 16 Leopardi, d’altronde, offre una prospettiva privilegiata per
analizzare il rapporto tra Croce, Gentile e Luporini. Era il poeta prediletto
di Luporini : « Leopardi è stato sempre il mio autore », dichiarava Luporini
nel 198923, e come tale, egli continuò a leggerlo e a rileggerlo da un capo
all’altro della sua vita. Ma era anche un poeta molto amato da Gentile – benché
numerose e importanti fossero le differenze tra il materialismo dell’uno e
l’attualismo dell’altro – e la costanza del suo interesse per Leopardi ci è
testimoniata dalla regolarità con la quale il filosofo siciliano pubblicò per
più di trent’anni, tra il 1907 e il 1938, testi sul pensiero e sulla poesia di
Leopardi, poi raccolti in un unico volume24. D’altro canto, invece, Leopardi
non è stato un autore particolarmente apprezzato né compreso da Croce. Citiamo
qui l’allegro commento di uno studioso che era stato suo discepolo, Vincenzo
Gerace, e che nel 1929 dichiarava : 25 V. Gerace, Leopardiana, in La
tradizione e la moderna barbarie. Prose critiche e filosofiche, Folig (...) Croce
non ama Leopardi. Non può amarlo. Gli dà forte sui filosofici nervi. Gli è
d’impaccio al teorico passo, uso a scalciare stizzoso, ovunque lo trovi, quel
terribile nemico della sua teoria estetica : l’intellettualismo e il moralismo
nel mondo dell’arte. Or se c’è un intellettualista e un moralista convinto e di
altissimo stile nella storia della nostra poesia, e tenace in teorie e in
fatti, questi è Leopardi.25 26 B. Croce, Leopardi in Poesia e non poesia,
Bari, Laterza, 1923, pp. 103-119. 27 Ibid., p. 107. 17 Gerace allude qui
senz’altro al celebre testo che Croce pubblica dapprima su « La Critica » e poi
nel volume Poesia e non poesia del 192326. La principale critica che Croce
rivolge alla poesia di Leopardi è di esser intrisa di elementi allotri, di
momenti meditativi, filosofici, polemici, che sono, per il critico idealista,
profondamente estranei alla pura ispirazione e intuizione poetica. Come tali,
Croce non li considera veramente poetici, tanto che, nel suo esame complessivo
dei versi leopardiani, egli considera che solo un numero relativamente ridotto
corrisponda alla sua definizione di poesia. Croce non emette riserve unicamente
sulla poesia di Leopardi, ma ne esprime di ancora più forti sul valore della
sua filosofia. Per Croce, il pensiero leopardiano è dettato innanzitutto dal
sentimento, anzi dal risentimento per una « vita strozzata », ed è dunque
troppo soggettivo per essere considerato un pensiero filosofico universale. In
questa prospettiva, Croce interpreta il pessimismo o ottimismo di Leopardi come
un indizio dell’origine prettamente sentimentale del suo pensiero, e quindi
come una prova della sua pochezza concettuale : « La filosofia », afferma
Croce, « in quanto pessimistica o ottimistica è sempre intrinsecamente
pseudo-filosofia, filosofia a uso privato »27. 28 I due testi si trovano
oggi nel volume di G. Gentile, Manzoni e Leopardi, cit. Il primo, Le Operett
(...) 29 Ibid., p. 164 30 Ibid., p. 163. 18 In queste pagine, Croce sta in
realtà dialogando con colui che era, da molti anni ma per pochi mesi ormai, un
amico ed un collaboratore, Giovanni Gentile, il quale aveva pubblicato, nel
1916 e nel 1919 due saggi – il primo sulle Operette morali, il secondo
intitolato Prosa e poesia nel Leopardi – decisivi per la questione della
filosofia pessimistica o ottimistica di Leopardi28. Anche Gentile, come Croce,
giudica severamente la qualità filosofica del pensiero leopardiano, dichiarando
che « se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo scettico, ironista,
materialista piuttosto mediocre nell’invenzione »29. Gentile formula, tuttavia,
un’interpretazione ben diversa, molto più feconda ed originale, della questione
del pessimismo o ottimismo di Leopardi. Senza negare del tutto il suo
pessimismo, Gentile lo ridimensiona attribuendolo storicamente e concettualmente
alla sola influenza della filosofia materialista, direttamente ereditata dai
Lumi. Si tratta quindi di un « pessimismo della ragione » settecentesca, che
Gentile giudica, tutto sommato, superficiale e poco originale, e al quale
oppone invece un « ottimismo del cuore », profondamente radicato nell’animo
leopardiano. Così scrive nel 1919 : « Il Leopardi, pessimista di filosofia, e
quasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo
: tanto più acutamente pessimista col progresso della riflessione, e tanto più
altamente e umanamente ottimista »30. 31 Vi è, nello Zibaldone, un’unica
occorrenza del termine « ultrafilosofia », come vi è, del resto, un (...) 32
Ricordiamo, a tale proposito, il giudizio formulato da Augusto Del Noce,
secondo cui Gentile « sent (...) 33 F. Pasini, Tutto il pessimismo leopardiano,
Parenzo, Coanna, 1928, p. 5. 19 Gentile dà particolare rilievo alla tesi di
un’ultrafilosofialeopardiana31, supponendo l’esistenza di una sorta di pensiero
leopardiano oltre la filosofia pessimistica e materialistica : un pensiero più
autentico, perché più intimamente poetico, più spirituale e quindi, per
Gentile, più leopardiano32. La rivalutazione gentiliana delle Operette morali e
l’interpretazione in chiave ottimistica del pensiero leopardiano segnano un
momento importante nella storia della critica, avviando un nuovo filone
esegetico che gode di particolare successo durante il Ventennio. Si assiste
allora, come nota un critico nel 1928, ad un « capovolgimento, del punto di
vista dal quale si usava considerare Leopardi » : da « poeta del pessimismo »
che era « per tutti », Leopardi « è diventato il poeta dell’ottimismo
»33. 34 F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, in Scritti critici e
Ricordi, Torino, Utet, 1986, p. 159. 35 Per una presentazione dei testi, dei
contenuti e degli autori di questa particolare produzione crit (...) 20 Sin
dall’Ottocento, De Sanctis aveva esaltato l’effettopositivo prodotto dalla
lettura della poesia leopardiana, dichiarando che « Leopardi produce l’effetto
contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa
desiderare ; non crede alla libertà, e te la fa amare »34. Negli anni Venti e
Trenta, tuttavia, l’intento della critica leopardiana è rivelare elementi
intrinsecamente positivi ed ottimistici, non nell’effetto prodotto sui lettori,
ma alla matrice stessa del pensiero leopardiano. L’opposizione proposta da
Gentile nel 1919, tra un pessimismo della ragione ed un ottimismo del cuore
viene ampliamente ripresa e riesplorata, dando adito a tutta una serie di
interpretazioni che potremmo definire irrazionali e fideistiche. Oltre il
pessimismo materialista, oltre il razionalismo disperato, la cui importanza
viene sistematicamente sminuita, molti critici cercano ed esaltano lo slancio
ottimistico della fede leopardiana : fede nella poesia, ma anche e spesso
soprattutto fede nella patria e nella stirpe italiana. In questo senso potremmo
interpretare alcune letture mistiche che vengono date di Leopardi e del suo
pensiero negli anni Trenta soprattutto35. 36 S. Lanfranchi, De centenaire
en centenaire. L’Italie fasciste célèbre ses poètes (Foscolo 1927, Leo (...) 21
Non è certo questo il luogo per analizzare questa produzione, vasta seppur
povera di elementi filologici e critici realmente nuovi. Ai fini del nostro
discorso, preme tuttavia osservare che un argomento ricorre sovente tra questi
testi, che consiste nel dare una spiegazione prettamente contestuale e storica
al pessimismo di Leopardi, negandogli di fatto un valore universale. Il motivo
fondamentale del pessimismo leopardiano è, per la critica di stampo fascista
degli anni Venti e Trenta, di natura politica, anzi patriottica. Morto nel
1837, Leopardi non ha assistito né agli albori del Risorgimento, né alla prima
guerra mondiale, né tanto meno alla marcia su Roma : se invece fosse stato
spettatore e attore di tali avvenimenti, egli – assicurano tali critici – non
sarebbe stato pessimista. Questo argomento costituisce un vero e proprio topos
oratorio, ripetuto centinaia di volte in occasione dei discorsi ufficiali e
delle commemorazioni del Ventennio, poiché, nonostante sia fondato su un
anacronismo e quindi scientificamente non abbia alcun valore, la sua efficacia
retorica è notevole. E segnatamente lo si trova nel 1937, quando, in occasione
del centenario della morte, il regime organizzò, spesso controllandoli e
canalizzandoli, tutta una serie di festeggiamenti ufficiali, in cui Leopardi
veniva molto spesso presentato come un precursore del fascismo36. 22 Vi
furono però alcune celebrazioni che riuscirono a rimanere in margine delle
commemorazioni ufficiali e quindi a garantire una certa libertà di espressione
rispetto alla produzione su Leopardi. Tra queste, troviamo l’annuario di un
liceo livornese, che nel 1938 pubblicò un numero speciale con vari studi
consacrati a Leopardi. Il secondo, intitolato Il pensiero di Leopardi, era
proprio il testo di Cesare Luporini, che in quel liceo appunto insegnava
filosofia. In questo saggio, l’intento primo di Luporini non è solo di
presentare un Leopardi esistenzialista, ma anche e forse soprattutto di
contestare la posizione dell’idealismo, sia crociano che gentiliano,
rivendicando innanzitutto il valore filosofico del pensiero leopardiano e
quindi anche del suo pessimismo. Luporini non esita a metterlo a confronto con
i maggiori filosofi dell’Occidente : 37 C. Luporini, Il pensiero di
Leopardi, cit., p. 68. Tra il pessimismo del Pascal, ultima grandiosa
affermazione del medioevo religioso e il pessimismo del Leopardi, c’è l’età
dell’illuminismo nei suoi ideali più alti, c’è Cartesio e Kant (che pur
Leopardi non conosceva), c’è insomma il pensiero moderno che fonda tutto il
valore dell’uomo nella sua dignità morale e questa sua dignità morale nella
verità che egli ha raggiunto colle proprie forze, rivelata alla sua
ragione.37 38 Secondo Sebastiano Timpanaro : « L’esperienza
esistenzialistica [Luporini] se l’era ormai lasciata (...) 39 C.
Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 97. 40 Ibid., pp. 101-102. 23 Sarebbe
opportuno comprendere se vi siano elementi comuni tra i due testi di Luporini
su Leopardi, scritti a distanza di dieci e decisivi anni. Sussistono poche
tracce del Leopardi esistenzialista del 1938 nel Leopardi progressivo del
194738. Un lascito più evidente consiste invece nella condanna duratura e
permanente di Croce – di cui Luporini cita esplicitamente « l’infelice giudizio
» su Leopardi39. Per Luporini, non solo la poesia di Leopardi è sempre vera
poesia, ma anche il suo pensiero, potremmo dire, è vero pensiero, vera
filosofia. Leopardi, dice Luporini nel 1947, « fu un pensatore progressivo ; in
certo modo, dentro i limiti della sua funzione di moralista, di non-tecnico
della filosofia né di alcuna disciplina particolare, il più progressivo che
abbia avuto l’Italia nel xix sec. »40. 24 L’interpretazione data da
Gentile – che invece Luporini nel suo testo non cita mai – e la stagione di
studi sul Leopardi ottimistico che essa inaugurò per il Ventennio fascista
lasciano invece dietro di sé, e sul saggio di Luporini in particolare,
un’eredità molto più complessa da cogliere e da valutare. Nell’insistere sul
materialismo del pensiero leopardiano, Luporini intendeva senz’altro opporsi
alla lettura idealistica e spirituale di Gentile. È inoltre significativa la
scelta di Luporini, che non parla di un Leopardi ottimista, ma progressivo,
rifacendosi perciò ad un lessico di tutt’altra connotazione ideologica. Vi
sono, tuttavia, anche alcuni elementi di continuità, e ci soffermeremo
brevemente su tre di questi. 41 Ibid., pp. 49 e 69. 42 S. Timpanaro,
Classicismo e illuminismo, cit., p. 180. 25 Il primo sta nell’origine
contestuale e storica che Luporini attribuisce al pessimismo leopardiano, il
quale deriva, secondo lui, da una delusione storica : la delusione della
Rivoluzione francese. « Questa delusione – scrive Luporini – non spiega solo il
pessimismo storico di Leopardi, ma il suo successivo e rapido ‘pessimismo
cosmico’ ; ossia spiega tutto il pensiero leopardiano. I due pessimismi nascono
da un unico germe, appartengono a un unico processo di pensiero »41. Nel 1965,
esprimendo un giudizio complessivamente molto positivo sul testo di Luporini,
Sebastiano Timpanaro emette la principale sua riserva proprio su questa
interpretazione, che giudica insufficiente in quanto non rende conto del « valore
permanente del pessimismo leopardiano »42. Nella nostra prospettiva, è
importante notare che la spiegazione storica, benché usasse altri mezzi e
perseguisse altri fini, era già usata in modo sistematico dalla critica
fascista, escludendo a priori l’idea di un pessimismo non fondato sulla storia,
ma sulla condizione umana in senso universale e astorico. 43 C. Luporini,
Leopardi progressivo, cit., p. 50. 44 Ibid., p. 60. 26 Il secondo elemento di
continuità sta nel giudizio, proprio di Luporini ma anche della critica
fascista, secondo cui nonostante il pessimismo scaturito dalla delusione
storica, vi fosse in Leopardi una “inconcussa e nascosta fede”43, qualcosa che
lo induceva comunque a sperare. Come Gentile, anche Luporini dà un notevole
rilievo a quell’unica occorrenza del termine « ultrafilosofia » nello
Zibaldone, ma le attribruisce contenuti affatto diversi perché in essa « sembra
condensarsi la “disperata speranza” dell’individuo Leopardi »44. 45
Ibid., p. 38. Timpanaro considera che non era « accettabile » il « rimprovero »
mosso a Luporini, d (...) 27 Il terzo ed ultimo elemento di continuità, tra il
testo di Luporini e la produzione critica del Ventennio, sta infine nel
presentare Leopardi quale un « anticipatore di ulteriori dottrine »45. In
entrambi i casi, Leopardi diventa precursore politico di un’ideologia del
Novecento e, in entrambi i casi, diventa precursore di un’ideologia
strutturalmente ottimistica. L’ottimismo era, infatti, un aspetto culturale e
ideologico programmatico per il fascismo ma, d’altra parte, il progresso – e
quindi la visione ottimistica del divenire umano che lo sottende – è a sua
volta un perno essenziale dell’ideologia comunista. 46 C. Luporini,
Leopardi moderno, intervista a cura di F. Adornato, « L’Espresso », 1°marzo
1987, p. 1 (...) 28 Su questo punto vorremmo abbozzare le nostre prime rapide
conclusioni. Parallelamente al discorso critico più tradizionale e canonico,
che sin dall’Ottocento va definendo le varie fasi del pessimismo leopardiano,
si possono rintracciare nel Novecento le tappe di elaborazione del mito di un
Leopardi ottimista : un mito che forse proprio durante il Ventennio conosce la
maggiore diffusione, ma che non muore con la caduta del regime fascista. Il suo
permanere, sotto forme diverse, è forse proprio dovuto al vincolo che lo unisce
ad ideologie strutturalmente ottimistiche, le quali, quando designano nel
Leopardi un precursore, lo « piegano » naturalmente in questo senso. Alla luce
di queste considerazioni, assumono un significato particolare le parole che
pronuncia lo stesso Luporini, in un altro periodo di transizione, alla fine
degli anni Ottanta, davanti al crollo del regime comunista e davanti alla crisi
di quest’altra ideologia novecentesca. Non a caso, Luporini ritorna allora a
studiare Leopardi, per trovarvi l’espressione del suo sgomento : « Il sapersi
soli di fronte alla storia, senza speranze – senza nessuna garanzia, senza
nessuna ideologia, senza nessuna consolazione »46. Siamo molto lontani dal
messaggio ottimistico del Leopardi progressivo, e rimane poco delle antiche
speranze (di Luporini). Rimane però quello stesso amore per Leopardi, e quel
sentimento della sua ‘attualità’ più pregnante : 47 Ibid. Nella nostra
epoca così confusa e in fase di assestamento, nella crisi di tutte le categorie
con le quali ci siamo mossi finora, questa mi sembra un’idea liberatoria. Si
può, anzi si deve, essere disillusi : ma non per questo inerti e rassegnati.
Essere nichilisti e insieme attivi : ecco l’attualissimo messaggio di Leopardi.47Débat
Inizio pagina NOTE 1 Il testo Leopardi progressivo fu pubblicato per la prima
volta nel volume Filosofi vecchi e nuovi : Scheler-Hegel-Kant-Fichte-Leopardi,
Sansoni, Firenze, 1947. Come Luporini scrive in un’avvertenza ad una nuova
edizione, datata del febbraio 1980, « questo Leopardi progressivoebbe subito
una sua risonanza particolare, così che poi, nel corso di tutti questi anni,
molte volte sono stato sollecitato a ripubblicarlo in edizione separata. Questa
domanda proveniva da varie parti, ma soprattutto dal mondo della scuola
(insegnanti e studenti), il che mi ha sempre fatto particolare piacere » (C.
Luporini, Avvertenze dal 1980 al 1992, in Id., Leopardi progressivo, Roma,
Editori Riuniti, 2006, p. ix). 2 Scrive Sebastiano Timpanaro a proposito
del titolo scelto da Luporini : « un titolo che per un verso alludeva
polemicamente alle “magnifiche sorti e progressive” derise nella ninestra
(volendo indicare che Leopardi, nemico del falso progresso borghese-moderato,
mirava ad un progresso molto più radicale, al di là dell’orizzonte politico
della propria epoca e del proprio ambiente), per un altro accoglieva
quell’accezione un po’sottile e non immune da ambiguità che questo aggettivo
ebbe per alcuni anni nel linguaggio politico italiano : non equivalente a
“progressista” (che sapeva troppo di radicalismo borghese), ma piuttosto a
“democratico avanzato”, di una democrazia destinata, senza rivoluzione, a
sfociare nel socialismo. Gli equivoci politici di quest’uso di “progressivo” ne
causarono la rarefazione e poi la scomparsa quando era ancora in vita
Togliatti, che ne era stato, se non l’inventore, certo il massimo diffusore
attraverso la formula della “democrazia progressive -- TIMPANARO, Anti-leopardiani
e neo-moderati nella sinistra italiana, Pisa, ETS, 1982, p. 150). 3 Si
tratta del v. 51 della Ginestra, in G. Leopardi, Poesie e prose, vol. I,
Poesie, a cura di M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano,
Mondadori (I Meridiani. L., “Leopardi progressive”. Brunetti, Il « nostro »
professore L., in Cesare Luporini 1909-1993, a cura di M. Moneti, numero
speciale della rivista « Il Ponte », LXV, 11, 2009, p. 60. 6 C. Luporini,
Leopardi progressivo, cit., p. 38 e 92. 7 W. Binni, La nuova poetica
leopardiana, Firenze, Sansoni. Sebbene molto diversi, il testo di L. e quello
di Binni hanno in comune l’originalità dell’impostazione critica, che contribuì
a rinnovare gli studi leopardiani nel dopoguerra. La migliore illustrazione e
analisi di tale svolta critica si trova forse ancora nelle pagine, ormai non
più recenti, di TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano,
Pisa, Nistri Lischi, 1965, p. 133-137. 8 Croce conia la voce « allotrio »
per indicare ciò che è estraneo all’estetica, rifacendosi al vocabolario
filosofico tedesco dell’Ottocento, e al greco “ἀλλóτριος,” che signifca «
estraneo, altrui ». 9 Per l’influenza di Giovanni Gentile sul mondo
culturale in epoca fascista, si veda in particolare G. Turi, Giovanni Gentile :
una biografia, Firenze, Giunti, 1996. 10 Il ruolo di CIAN negli studi
letterari nel periodo di transizione è stato recentemente studiato d’Allasia in
una serie di lavori, tra cui « Il virus malefico » dell’ideologia nazionale e
le illusioni di un « maestro di metodo » : Vittorio Cian, in Fascisme et
critique littéraire. Les hommes, les idées, les institutions, a cura di Vento e
Tabet, Caen, PUC (Transalpina). MARPICATI compie studi di letteratura italiana
a Firenze, pubblica alcune raccolte di poesie e vari testi di critica
letteraria. Ma sin dalla prima guerra mondiale mette da parte l’attività
letteraria – alla quale si consacra solo sporadicamente – per dedicarsi invece
alla politica, dapprima a Fiume, poi nella militanza e nel regime fascisti.
Assume vari incarichi prestigiosi, tra cui quello di Cancelliere dell’Accademia
d’Italia dal 1929, poi di direttore, nel 1930, dell’ISTITUTO NAZIONALE DI
CULTURA FASCISTA, e anche di vice segretario del Partito Nazionale Fascista dal
1931 al 1934. 12 Ecco quanto scriveva, ad esempio, Vittorio Cian, nel
1933, rivolgendosi a Croce e ai suoi discepoli : « Questi cerebrali, più o meno
giovini, chierici sterili e sterilizzatori, officianti nella cappella
all’insegna dello Spegnitoio, dovrebbero ormai decidersi. O smetterla,
rassegnandosi a tacere e a sparire dalla scena letteraria – e sarebbe tanto di
guadagnato – oppure mettersi al passo coi tempi nuovi » (V. CIAN, Rassegna
bibliografica, Giornale Storico della letteratura italiana. Mi sia consentito
di rimandare in questa sede a due testi miei, entrambi accessibili in linea :
S. Lanfranchi, La recherche des précurseurs, Lectures critiques et scolaires de
Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo et Leopardi dans l’Italie fasciste -- archives-ouvertes.fr/docs/00/37/21/89/7-12-08.pdf]
; Id., « Verrà un dì l’Italia vera », Poesia e profezia dell’Italia futura nel
giudizio fascista, « California Italian Studies », II, 1, 2011
[http://escholarship.org/uc/ismrg_cisj], In realtà, i primi sintomi di’insofferenza
RUSSO li da mentre scrive un articolo sulla critica foscoliana recente, nel
quale rivendicava la « politicità » di un testo come Le Grazie e la legittimità
di una lettura che non si attenesse ad un’analisi strettamente letteraria,
estetica e formale. Questo esempio viene a dimostrare quanto detto subito dopo
nel nostro studio, ovvero l’ipotesi di un allontanamento progressivo dalle
posizioni crociane durante gli anni Quaranta, che nel 1947-1948 giunge a
compimento (L. Russo, Le Grazie di Foscolo e la critica contemporanea, “Italia
che scrive”. Luporini, “Critica e metafisica nella filosofia kantiana, «
Rendiconti della Reale Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze
morali, storiche e filologiche », s. VI, XI, 1935, pp. 87-115. 17 Il
testo faceva parte di un volume scritto dai docenti del liceo dove L. insegna,
in occasione del centenario della morte di Leopardi, nel 1937 : C. Luporini, Il
pensiero di Leopardi, in Studi su Leopardi, Livorno, Belfronte e C., 1938
(Pubblicazioni del R. Liceo Scientifico « Costanzo Ciano », 1), Nella sua
autobiografia, BOBBIO cita un disegno di GUTTUSO che illustra una delle prime
riunioni clandestine del movimento, riunito nella villa di Umberto Morra,
vicino a Cortona, nel 1939. Vi si vedono Bobbio, Luporini, Capitini (con
davanti a sé un testo che porta la scritta « Non violenza »), MORRA, lo stesso
GUTTUSO e CALOGERO (con un altro testo intitolato invece « Liberalismo sociale
») (N. Bobbio, Autobiografia, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 41 e 172). 19
C. Luporini, Qualcosa di me stesso (25 maggio 1979), in Questo testo è la
trascrizione dell’ultima lezione tenuta, dall’autore, nella Facoltà di Lettere
di Firenze, al momento dell’andata fuori ruolo » (ibid., p. 233). 20
Ibid., p. 240. 21 Ibid., p. 244. 22 Ibid., p. 241. 23 C.
Luporini, Con Heidegger 1931-1933. Alcune riflessioni, oggi, tra filosofia e
politica, in Heidegger in discussione, Atti del Convegno internazionale «
L’eredità di Heidegger », Roma, 29-31 maggio 1989, a cura di F. Bianco, Milano,
Franco Angeli, 1992, p. 39. 24 G. Gentile, Manzoni e Leopardi (1928), in
Opere, vol. XXIV, Firenze, Sansoni, Gerace, Leopardiana, in La tradizione e la
moderna barbarie. Prose critiche e filosofiche, Foligno, Franco Campitelli
Editore, 1929, p. 194. 26 B. Croce, Leopardi in Poesia e non poesia,
Bari, Laterza, 1923, pp. 103-119. 27 Ibid., p. 107. 28 I due testi
si trovano oggi nel volume di GENTILE, Manzoni e Leopardi, cit. Il primo, Le
Operette morali, fu pubblicato per la prima volta in « Annali delle Università
toscane », poi come proemio di un’edizione delle Operette morali curata da
Gentile nel 1918 (G. Leopardi, Operette morali, con proemio e note di Gentile,
Bologna, Zanichelli; il secondo, Prosa e poesia nel Leopardi, fu invece
pubblicato nel « Messaggero della domenica ». Vi è, nello Zibaldone,
un’unica occorrenza del termine « ultrafilosofia », come vi è, del resto, una
sola occorrenza del termine « pessimismo », ma nella critica leopardiana questi
due hapax hanno goduto di grandissimo successo. Leopardi scrive. E un popolo di
filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra
rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo
l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo
dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo -- manoscritto
dello Zibaldone. Ricordiamo, a tale proposito, il giudizio formulato da Noce,
secondo cui GENTILE « sentì se stesso come il filosofo di Leopardi, come il suo
vero continuatore perché l’attualismo avrebbe realizzato quell’ultrafilosofia a
cui Leopardi aspira: Noce, Gentile, Per una interpretazione filosofica della
storia contemporanea, Bologna, Il Mulino. PASINI, Tutto il pessimismo
leopardiano, Parenzo, Coanna, Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, in Scritti
critici e Ricordi, Torino, Utet. Per una presentazione dei testi, dei contenuti
e degli autori di questa particolare produzione critica leopardiana, oggi poco
nota, rimando alla mia già citata tesi di dottorato (S. Lanfranchi, La
recherche des précurseurs, LANFRANCHI, De centenaire en centenaire. L’Italie
fasciste célèbre ses poètes (Foscolo, Leopardi, in Fascisme et critique
littéraire, Caen, PUC (Transalpina 12). L., Il pensiero di Leopardi, cit., p.
68. 38 Secondo TIMPANARO: L’esperienza esistenzialistica [Luporini] se
l’era ormai lasciata decisamente alle spalle ; eppure essa aveva lasciato una
traccia nell’interesse per i temi leopardiani della “vitalità” e del rapporto
natura-ragione, nel rifiuto di un’interpretazione troppo storicisticamente
angusta del problema Leopardi. Timpanaro, Anti-leopardiani e neomoderati. L.,
Leopardi progressivo, Timpanaro, Classicismo e illuminismo, c L., Leopardi
progressivo.TIMPANARO considera che non era accettabile il « rimprovero » mosso
a Luporini, di aver fatto di Leopardi un « precursore del marxismo. Timpanaro,
Classicismo e illuminismo. Ma certe pagine del libro di Luporini e alcune
formule in esse contenute (segnatamente quell’anticipatore di ulteriori
dottrine) se non rendono « accettabile » un tale giudizio, perlomeno ne
spiegano l’origine. L., Leopardi
moderno, intervista a cura d’Adornato, « L’Espresso ». Cesare Luporini. Luporini. Keywords: corpo e mente, corpo animato –
l’anima di Vinci – la mente di Leonardo – i corpi di Vinci – il Leopardi
fascista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luporini” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Luzzago—implicature – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Brescia). Filosofo italiano. Nato da Girolamo e da Paola Peschiera,
in una delle più importanti famiglie del patriziato cittadino, e educato alla
pratica devota e all'apostolato. Nel convento di S. Antonio dei gesuiti si
impegna in un corso di filosofia. Dibatte in pubblico 737 argomenti filosofici!
Con l'aiuto di Borromeo partecipa a Milano ai corsi di teologia dei gesuiti di
Brera. Si laurea a Padova. Desideroso di entrare a far parte della Compagnia di
Gesù, le difficoltà economiche della famiglia, causate da alcune transazioni
inopportune del padre, glielo impedirono. Conservatore dei Monti di Pietà, e protettore della Compagnia delle Dimesse di S.
Orsola e di altri due istituti caritativi bresciani: il Soccorso e le Zitelle.
Ri-organizza e da nuovo impulse a un'altra istituzione sorta dopo il Concilio
di Trento: la Scuola della dottrina cristiana. Fonda la Congregazione di S.
Caterina da Siena. Per far sì che il suo operato continuasse, fonda la
Congregazione dello Spirito Santo, che raccolse i membri della classe dirigente
cittadina con l'obiettivo di co-operare più efficacemente e concordemente al
sostegno di tutte le buone istituzioni e mantenere un clima di Concordia.
Infatti, intercede per la conciliazione delle famiglie nobili bresciane spesso
in conflitto. La sua indole caritativa
emerse soprattutto quando venne a far parte del Consiglio di Brescia, dove sa
armonizzare le strutture governative ed organismi canonici. Nelle opere scritte
vi sono indicazioni per i cavalieri di Malta, sulla carità, ispirati al modello
della Compagnia di Gesù. Durante il suo viaggio a Roma esamina le strutture di
beneficenza per poi proporle a Brescia. Ha la possibilità di conoscere F. Neri.
In un'epistola a Morosini, e informato che Clemente VIII, prende in
considerazione il suo nome per la carica di arcivescovo di Milano. Fu avviata
presso la Congregazione dei riti la causa di beatificazione. Leone XIII,
riconosciute le sue virtù eroiche, gli conferì il titolo di venerabile. Dizionario Biografico degli Italiani, A. Cottinelli,
Vita del venerabile patrizio bresciano: dedicata ai comitati parrocchiali,
Tipografia e libreria Salesiana, A. Cistellini, Il movimento cattolico a
Brescia, Morcelliana. A. Fappani, Enciclopedia bresciana, Opera San Francesco
di Sales, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, S. Negruzzo, L'allievo santo: Roccio precettore, in «Annali di Storia
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precetto. L'educazione del gentiluomo, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Alessandro Luzzago. Luzzago. Keywords: implicatura.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luzzago” – The Swimming-Pool Library.
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