Grice ed Occelo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania).
Filosofo italiano. A Pythagorean, according to Giamblico. Brother of Occilo di
Lucania. Occello appears to have held that the number III was the key to
understanding the world. However, according to Ippolito, he also believed that
in addition to the IV elements – earth, fire, air, and water – there was a
fifth principle which was circular motion. Filone says that Occelo believed
that it was possible to prove that the world is indestructible.
Grice ed Occilo – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Lucania).
Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico. Brother of Occelo di Lucania.
Grice ed Ocone – liberali d’Italia – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Benevento).
Filosofo italiano Grice: “Ocone has selected Croce as the quintessential
Italian liberal! That should please Oxonians like Collingwood!” -- Grice: “I
like Ocone’s idea of a liberalism without a theory – ‘liberalismo senza teoria’
– that should please J. M. Jack!” -- Grice:
“Speranza has noted that if Bennett
speaks of meaning-nominalism, we could well speak of meaning-liberalism.”
Grice: “While meaning-liberalism requires that the limit of one’s liberty to
make a sign stand for an idea is your co-conversationalist, meaning-anarchism
is Humpty Dumpty (‘I didn’t know that!’ ‘Of course you don’t’) and
meaning-conventionalism is the idea that there is a repertoire on which
conversationalists rely!” Si occupa soprattutto di temi concernenti il
neoidealismo italiano e la teoria del liberalismo. Allievo di Franchini, è
borsista dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli negli anni
1993-1994. Qui ha l'opportunità di lavorare direttamente nella biblioteca
personale di Benedetto Croce e con l'aiuto di Alda Croce, figlia del filosofo,
raccoglie e analizza il materiale scritto nel mondo su di lui. Un frutto
parziale e selezionato del suo lavoro vede la luce nel volume ragionata degli studi su Croce pubblicata
dalla Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli, che vince l'anno successivo la
prima edizione del "Premio nazionale di saggistica Benedetto Croce",
istituito dall'Istituto Nazionale Studi Crociani. È stato direttore
scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma, dalla quale è stato
successivamente allontanato per le sue posizioni nazionaliste. Successivamente
è entrato a far parte della Fondazione Giuseppe Tatarella ed è diventato
Direttore Scientifico di Nazione Futura. È anche membro del Comitato
Scientifico della Fondazione Cortese di Napoli, del Comitato Storico
Scientifico della Fondazione Bettino Craxi, del Comitato Scientifico
dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain e del Comitato Scientifico della
Fondazione Farefuturo. Attività e pensiero Fonda a Napoli, con un piccolo
gruppo di laureati e laureandi della Federico II, cittadini sanniti e
napoletani, il trimestrale "CroceVia" edito dalla Edizioni
Scientifiche Italiane, che si propone di rinnovare il messaggio crociano e che
entra in poco tempo nel dibattito culturale nazionale. Nel 2008 i suoi studi
crociani prendono corpo nel volume Benedetto Croce, Il liberalismo come
concezione della vita, pubblicato dall'editore Rubbettino nella collana
“Maestri liberali” della Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Il volume,
presentando l'immagine originale di un Croce partecipe del processo europeo di
distruzione delle categorie epistemiche, ha numerose recensioni. A partire
dalla sua interpretazione di Croce, Ocone elabora la prospettiva di un
liberalismo senza teoria, cioè storicistico e non fondazionistico. Il suo
progetto filosofico può essere così formulato: riconquistare il liberalismo
alla filosofia; ritornare in filosofia all'idealismo; ricongiungere il
liberalismo con l'idealismo (si vedano, a tal proposito, gli interventi di Ocone
nella polemica fra neorealisti e postmodernisti). In quest'ordine di discorso,
Ocone ritiene che la critica rivolta a Croce di essere un liberale anomalo, in
quanto nel suo pensiero il concetto di individuo sarebbe sacrificato, vada
ribaltato: l'individualismo non è affatto consustanziale al liberalismo, ma si
è legato ad esso solo in una sua prima fase di sviluppo (all'inizio della
modernità). Quello di Ocone è un liberalismo che non prescinde né dal senso
storico né dal realismo politico. Successivamente il pensiero di Ocone ha
assunto molti caratteri propri dello scetticismo politico di Michael Oakeshott,
in particolare della sua critica del razionalismo, del perfezionismo e del
paternalismo. Egli ha pertanto insistito sul carattere “anticonformistico” e “eretico”
del liberalismo, sulla priorità in esso del momento “negativo” o della
contraddizione. La critica delle ideologie, e in particolare del “politicamente
corretto”, diviene in quest'ottica il correlato pratico degli approdi
antimetafisici della filosofia contemporanea. E filosofia e liberalismo
finiscono per coincidere Da ultimo, la sua riflessione ha messo a tema il
significato teorico e storico dell’affermarsi dei cosiddetti “populismi” e
“sovranismi”. Essi, prima di essere ostracizzati, vanno per Ocone capiti: pur
in modo confuso e contraddittorio, lungi dall'essere un “incidente di percorso”
incorso al processo di globalizzazione in atto, essi ne segnalano la definitiva
crisi dell’ideologia portante: il globalismo. Questa ideologia può essere considerata
una radicalizzazione coerente della mentalità illuministica e progressista,
cioè da una parte del processo di secolarizzazione e razionalizzazione e
dall'altra dello speculare e connesso relativismo e nichilismo. I “populismi”
sono perciò per Ocone movimenti di reazione ai meccanismi di spoliticizzazione
(e connesso “disciplinamento” in senso foucaultiano) propri della
globalizzazione, che aveva definito la sua ideologia all’incrocio fra le
idee di due “deviazioni” dell’autentico liberalismo: il neoliberismo, sul
versante economico, e la cultura liberal sul versante di un diritto globale
fortemente eticizzato. Scrive su diverse riviste scientifiche e culturali
e sui maggiori organi di stampa nazionali. Attualmente è nella redazione della
rivista “LeSfide”, edita dalla Fondazione Craxi, e nel Comitato editoriale dell
quotidiano online “L’Occidentale”. Collaboratore de “Il Giornale” e de “Il
Riformista”, è opinionista politico di “formiche.net”, “Huffpost” e
“nicolaporro”. Molto seguita è la sua rubrica domenicale di riflessione
politico-culturale “Ocone’s Corner” sulla rivista online “startmagazine”.
Un estratto di un suo articolo (Intervista a Remo Bodei, in C. Ocone,
Prendiamola con filosofia, Il Mattino, è stato utilizzato dal Ministero
dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca come documento per la stesura
della traccia della prova scritta di Italiano negli esami di Stato conclusivi
dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore a.s. (Tipologia
BRedazione di un saggio breve o di un articolo di giornale2. Ambito
socio-economicoArgomento: La riscoperta della necessità di «pensare»).
Nella sezione Dal dopoguerra ai giorni nostri, Percorso 9f Il dibattito delle
ideeDall'“impegno” al postmoderno, Dal periodo tra le due guerre ai giorni nostri)
dell'antologia "Il piacere dei testi", editore Paravia, è contenuto
il suo saggio "Né neorealisti né postmodernisti" da "qdR". Saggi:
“Coronavirus. Fine della globalizzazione” Il Giornale, Milano); “La chiave del
secolo. Interpretazioni del Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Europa.
L'Unione che ha fallito, Historica, Cesena, “La cultura liberale. Breviario per
il nuovo secolo” Giubilei Regnani, Roma-Cesena); “Attualità di Croce” Castelvecchi,
Roma, “Il liberalismo nel Novecento: da
Croce a Berlin” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Il liberale che non c'è.
Manifesto per l'Italia che vorremmo” (Castelvecchi, Roma); “I grandi maestri
del pensiero laico, Claudiana, Torino); “Collingwood e l’Italia” Castelvecchi,
Roma); “Il nuovo realismo è un populismo” (Il Nuovo Melangolo, Genova, (Pietro Reichlin e Aldo Rustichini) Pensare
la sinistra. Tra equità e libertà, Laterza, Roma-Bari, Liberalismo senza
teoria, Rubbettino, Soveria Mannelli (con Dario Antiseri), “Liberali d'Italia” Rubbettino,
Soveria Mannelli (con altri autori) “Le
parole del tempo. Lessico del mondo che cambia” Pierfranco Pellizzetti,
Manifesto libri, Roma); “Spettri di Derrida, Annali della Fondazione europea
del Disegno (Fondation Adami), Il Nuovo
Melangolo, Genova); “Profili riformisti. liberali per le nostre sfide” (Rubbettino,
Soveria Mannelli); “Marx” (Momenti d'oro dell'economia"), Roma); “La
libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a
Bobbio, Laterza, Roma); “Croce. Il liberalismo come concezione della vita” (Rubbettino,
Soveria Mannelli); “Bobbio ad uso di amici e nemici” (Marsilio, Venezia); “Manifesto
laico, Laterza, Roma); “Lessico repubblicano” (Fondazione Giovanni Agnelli,
Torino, ragionata degli scritti su Croce; Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli. Cfr. Archivio borsisti in Istituto Italiano per gli Studi Storici Premio Benedetto Croce, su mediamuseum. Comitato
Scientifico, su Fondazione luigi einaudi.
Riccardo Ficara, La Fondazione Einaudi allontana Ocone perché
"filo-sovranista", su Secolo Trentino, La Fondazione, su Fondazione
Giuseppe tatarella. Organigramma, su
nazionefutura. Fondazione Cortese di
Napoli in//Fondazione cortese/
Fondazione Craxi, Comitato Scientifico dell'Istituto Maritain, sComitato
Scientifico e di indirizzo, su fare futuro fondazione. rubbettino. Gianni Vattimo Pubblicazioni La recensione, Caffe'
Europa, Duccio Trombadori, Questo don Benedetto somiglia a Nietzsche, su il Giornale,
Il blog di GIANNI VATTIMO: Corrado Ocone e la filosofia classica tedesca, su Gianni
vattimo. blogspot. com. La filosofia
politica è una pseudo-scienza. Parola di filosofo. E che filosofo!, su
reset. Attualità di Croce su opac., Europa: l'Unione che ha fallito; opac., La natura del potere svelata dal
coronavirus, su il Giornale, Coronavirus: fine della globalizzazione, Store il Giornale,
Fine di una storia, il ritorno della politica? su leSfide. Chi Siamo, su loccidentale. MIUR Traccia della prova scritta di Italiano
per gli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore
anno scolastico su archivio .pubblica.istruzione. Il piacere dei testi QDR Magazine Qualcosa da Raccontare, La
chiave del secolo: interpretazioni del Novecento, opac., La cultura liberale:
breviario per il nuovo secolo; Attualità di Benedetto Croce / Corrado Ocone, su
opac., Il liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin /su opac., Il liberale
che non c'è: manifesto per l'Italia che vorremmo su opac., I grandi maestri del
pensiero laico ntroduzione di Massimo L. Salvatori, su opac., Robin George
Collingwood, Autobiografia / R. G. Collingwood; prefazione di Corrado Ocone, su
opac., Il nuovo realismo è un populismo / Donatella Di Cesare, Simone Regazzoni,
su opac., Pietro Reichlin, Pensare la sinistra: tra equità e libertà / Pietro
Reichlin, A. Rustichini, su opac., “Liberalismo senza teoria”; su opac., “Liberali
d'Italia”; D. Antiseri; prefazione di Giulio Giorello, su opac., Le parole
del tempo; M. Barberis; P. Pellzzetti,
su opac., Spettri di Derrida opac., Corrado Ocone, Profili riformisti: 15
pensatori liberal per le nostre sfide opac., Karl Marx: teoria del capitale /
[visto da opac., La liberta e i suoi limiti: antologia del pensiero liberale da
Filangieri a Bobbio, opac., Benedetto Croce: il liberalismo come concezione
della vita, opac., Bobbio ad uso di amici e nemici, opac., Manifesto laico /
Enzo Marzo; contributi di S. Lariccia on un intervento di N. Bobbio, su opac., Lessico repubblicano:
Torino, Maurizio Viroli, su opac., ragionata degli scritti su Croce, opac., La
genialità di Marx agli occhi dei liberisti, riconosce i pregi dell'analisi, in archivio storico.corriere
Premio al Premio Croce di saggistica, in premiflaiano Ssu corradoocone.com.
Grice: “Speranza calls me a liberal, but then he calls Locke and Humpty Dumpty
a liberal too.” Grice: “Mussolini set a puzzle for liberalism – the Italians,
disorganized as they are, had to create a party: they called it the ‘Partito
Liberale Italiano’ – which is bound to close down! It opened in 1922 – while I
was at Harborne!” -- Grice: “The test of
a man’s intelligence lies in his ability to name his party – partito liberale
italiano – partito liberale democratico – partito liberale constituzionale –
the addition of ‘italiano’ at the end of ‘partito liberale italiano’ ENTAILS
that what Borolli did at Florence, by founding his ‘partito liberale’ – since
he omitted to add the ‘italiano’ was not the partito liberale italiano – but
fiorentino at most! Similarly, the partito liberale democratico is NOT the
partito liberale italiano, nor is the partito liberale costituzionale.
Mussolini had it clearer: there’s only ONE partito – partito nazionale fascitsa
– the infix ‘nazionale’ means that provincials should not appy!” -- Corrado Ocone. Ocone. Keywords: liberali d’Italia, liberalism, dal
liberalism al fascismo, il partito nazionale fascista e il partito liberale – Refs.: Luigi Speranza: “Grice ed Ocone” –
The Swimming-Pool Library.
Grice ed Oddi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Figlio di Oddo degli Oddi, convinto sostenitore della scuola di Galeno.
Professore per incarico del Senato veneziano assieme a Bottoni a Padova, dove
insegna e introduce senza ricevere emolumenti l'insegnamento della pratica
clinica nell'ospedale di San Francesco Grande, precedendo così tutte le altre
scuole. Commentari dell'Ateneo di Brescia
G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, coi tipi della Minerva, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dobbiamo al chiarissimo signor dottor Montesanto (Dell'origine della clinica
medica di Padova ec.) la bella ed interessante notizia, che il nostro Bottoni e
il suo collega Marco Oddo, calcando le traccie luminose segnate dal famoso
Montano pochi lustri prima, diedero novella vita al la clinica medica nello
spedale di san Francesco in Padova, condotti dalla sola nobile brama di
giovare. E qui avvertire mo cogli sludiosi di medicina,che il dotto autore,
dopo aver dimostrato con incontrastabile evidenza che l'Università padovana, la
prima d'ogni pubblico Studio d'Europa, vanta la fondazioneinessadiquellascuola,basedellamedica
scien za,ci porge il documento luminoso,che tanto onora li ricor dati
professori, e in particolare il Bottoni di cui favelliamo; il quale non essendo
da tacersi, lo riporteremo come ci viene fedelmente e con eleganza vôlto in lingua
italiana dal prelo dato signor Montesanto, che il trasse dagli Acta nationis
germanicae Facultatis medicae, quae,convocata natione, prae lecta et examinata,
digna judicata sunt,ut albo nationis insererentur. Consiliariis Christophoro
Sibenburger Carin thio, et Samuel Keller Hallense Saxone. Manoscritto presso la
biblioteca dell'Imperiale Regia Università di Padova. dette in vita
Boltoni , non è da passarsi solto silenzio quello d'essere stato dal Duca di
Urbino, unita mente ai altri quattro medici, chiesto del suo consiglio onde
togliere la città di Pesaro e il territorio da alcu ne febbri pericolose che
colà infierivano.N e taceremo , come a'dinostrisidimostròbellamente(1),che il
Bot Merita,a comune nostro giudizio,di essere celebrato con riconoscente
memoria e di venir rammentato in questo luogo il beneficio sommo impartito alla
nazione nostra dall'eccellentissimo uomo Bottoni , professore primario di
medicina pratica estraordinaria, il quale condotto dalla singolare
benivoglienza che da più anni a noi concede, oltre all'averci anche in
quest'anno dalla pubblica cattedra con ogni cura ammaestrati, a fine di giovare
vieppiù alla nostra istruzione si riuni nelloscorso inverno all'eccellentissimo
Marco degli Oddi, medico ordinario dello spedale di san Francesco e pubblico
professore, e con esso, finite la lezione, si trasferi sempre a quello speilale
medesimo seguito da toni fu, insieme al suo collega Marco degli Oddi, il
primo che dopo il celebre Montano gettasse i più so noi per visitarvi parecchi
infermi afflitti da diversi generi di malattie: per tal guisa egli aprissi l'adito
ad accuratamente mostrarci come sido vessero applicare alla pratica quelle
dottrine che avevano fatto il soggetto della sua pubblica lezione, esercitando
così i suoi uditori in tutto ciò che al dotto e sagace medico appartiene di
osservare e dipraticarea pro de'suoimalati. Cessate finalmente le lezioni, volendo
Bottoni che neppure durante le vacanze dell'Università mancasse a noi qualche
mezzo di ammaestramento, e potesse per noi esser posto a profitto il nostro
tempo,egli in una determinata ora della mallina recavasi ogni giorno a quello
stesso spedale :quivi, visitando alternativamente col signor Marco degli Oddi
gli ammalati, andava instruendoci, ragionando intorno a qualche caso tra i più
gravi da lui osservati. Il Campolongo perciò, vistosi promosso a medico di quel
l'ospitale, sipropose egli pure, allafoggia de'provetti nostri precettori, di
dare ogni giorno delle pratiche istruzioni: nel di susseguente alla sua nomina
occupò quindiprimo di tutti con molta insolenza e temerità quel posto chesoleva
essere destinato ai nostri maestri; nè, occupatolo, volle cederlo ad essi. Fermo
in suo pensiero diragionare aigiovanida quel luogo, non già una sola volta, o
per un giorno solamente, rinnovò la scena istessa per più giorni; e non
valseroa ri muoverlo nè a piegarlo le nostre istanze, direlte a far sì ch'ei
lasciasse liberi ü luogo e l'ora occupati per lo innanzi dai nostri maestri,e
che per sè volesse scegliere altra ora ed altro luogo. Ma, ostinato egli oltre
ogni credere, giunse, coll'insistere per le sue pratiche istruzioni, a turbare
quelle solite a darsi dagli altri prima di lui. Se dal Campolongo solo avesse
dovuto dipendere, tutti saremmo stati esclusi dal Mentre simili
esercitazioni, con si maturo consiglio intra prese a nostro vantaggio, andavano
proseguendo, un certo medicoper nome Emilio Campolongo,digiovanile età, col.
lega nell Università e professore della stessa cattedra , m a in secondo luogo,
di Marco Oddo,riusci,non sisa come, ottenere che la ispezione a d siedeva e la
cura de'malati, cui prima pre ilsolo Oddo,venissefra entrambidivisa,permodo che
quind'innanzi gli uomini fossero medicati longo, e le femmine dall'Oddo. dal
Campo l'ospitale; il che pure minacciava apertamente di voler far si che
avvenisse. La quale insolenza, divenuta già intollerabile ai signori professori
Bottoni ed Oddo, meritevoli per ogni riguardo di molta stima e riverenza, li
costrinse a partire dallo spedale, e con essi partirono quanti vi erano
studenti della nazione alemanna,rimanendo così affatto solo ilCampolongo nel
luogo da lui tolto agli altri. Informati poscia bene del fatio i governatori
dello spedale , costrinsero il Campolongo con severi modi a cessare dalla sua
pretesa, ingiungendogli, sepur voleva intraprendere qualche esercizio a
vantaggio di taluno degli studenti, di scegliersi un'altra ora ed u n altro
luogo. Cosi, mercè la prudenza dei nostri maestri e la costanza degli studenti
alemanni, fu vinta l'altrui pertinacia, edinostri esercizii vennero felicementea
ricominciare. Essendosi allontanati, come sogliono, dall'Università glo ltaliani
per far le vacanze presso leloro famiglie, li signori Albertino Bottoni e Marco
Oddo, eccellentissimi uomini e della nostra nazione sommamente benemeriti, affinchèfar
potessimo qualche profitto nello spazio di tanti mesi, continuarono le loro
pratiche istruzioni quasi ogni giorno nello spedale di san Francesco sino al
principio delle lezioni, con gran fatica e disagio loro,econsomma utilità nostra:
della qual cosa poco io dirò, potendo bene ciascuno dalla rela. zione del mio
antecessore rilevare le circostanze tutte che a ciòsiriferiscono. Aggiungasi, chevenendo
nella state invitati parecchi infermi alle terme di Abano, onde rendersi
vieppiù grati a'nostri, li condussero due volte colà, dando per tutti cavalli e
legno il signor Oddo, e quivi gl'instruirono circa il valore medico delleacque
termali e deifanghi. Verso lafine poi dell'ottobre fattasi la stagione opportuna
per le sezioni anatomiche, il Bottoni e l'Oddo stabilirono di aprire i cada
veri di quelle donne che morissero nello spedale ; e ciò col fine d'indagare
alla presenza degli scolari le sedi e le cagioni dei mali : fu però d'uopo abbandonare
ben tosto que lidi fondamenti della scuola clinica in Padova , che precedette
tutte l'altre in Europa. Lasciò il nostro Bot Il Bottoni e l'Oddo continuarono
anche nel successivo anno ad istruire nello spedale i giovani;ed in quest'anno
pure vennero ad insorgere nuovi dissidii, come ce ne informano gli atti di quell'epoca,
raccontandosiivi quanto segue: toni un monumento del suo buon gusto nelle
arti in un palazzo ch'ei fece erigere dirimpetto alla chiesa degli Eremitani
inPadova (intorno al quale allude la medaglia riportata da Tomasini(1),cheacquistatopo
sto si utile divisamento,poichè, mentre tutto era disposto per eseguire nel
giorno appresso la sezione di due donne, in una delle quali importava esaminare
lo sluto dell'utero, e nell'altra, mortaditabe, volevasidainostri precettori
scuo prire per dove penetrasse una piaga fistolosa esistente al torace,
Campolongo loro emulo propose a'suoi uditori d'intraprendere in quel giorno
medesimo l'anatomia dell'ute ro,esiserviper questa deidue suddetticadaveri. Nacque
da ciò che i governatori del pio luogo, resi avvertiti dell’ac caduto e mossi
dalle querele delle vecchie inferme, le quali temevano, morendo, di dover
essere del pari anatomizzate, prescrisserotanto all'Oddo, quanto al Campolongo,
di astenersi dall'incidere verun cadavere nell'ospitale, sotto pena di perdere
lo stipendio. In onta però alle tante opposizioni promosse dalla rivalità del
Campolongo contro il Bottoni e l'Oddo, perseverarono questituttavianell'utile
loro impresa d'istruirenellapratica medicina i giovani, conducendoli al letto
dei malati nello spe dale di san Francesco; poichè anche gli atti compilati dal
consiglieredella nazione alemanpa Pietro Paolo Höchstetter di Tubinga, ne
parlano cosi: A ciascuno di noi è palese con quanta diligenzasi diportasse
ilsignor Albertino Bottoni nelle sue quotidiane esercitazioni. Ogni giorno ei
ci conduceva al lettodi un nuovo malato, e c'istruiva intorno aldi lui morbo, indagandone
dottamente le cagioni, esponendone i segni e le indicazioni curative, non che
il prono stico :egli suggeriva inoltre non solo le più opportune medi. cine di
comune uso,ma quelle altresi chela sua pratica particolare gli avea comprovate
efficacissime; talche vennu ognora più a farsi manifesta la singolare bontà con
cui ila più anni questo insigne uomo ci riguarda. Ond'è che,seb. bene le teorie
mediche da noi apprese nelle nostrecontrade possano a tutta prima allontanarci
in qualche modo dal se guire le sue lezioni, la somma sua felicità nella
pratica e T'ottimo suo metodo di medicare serve però a ricondurci in. torno a
lui. Marco degli Oddi. Marco degl’Oddi. Oddi. Keywords: implicature: filosofia
naturale, Galeno.-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oddi” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Offredi – implicatura – lizio -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cremona).
Filosofo italiano. Gli era tributata
grande autorità nell’ambiente filosofico. Insegna a Pavia e Piacenza. In buoni
rapporti con Eugenio IV, Visconti e Sforza.
Saggi:“De primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis
adversus Petrum Mantuanum,” S.l., Bonus Gallus, Giambattista Fantonetti, Effemeridi delle
scienze, compilate da G. netti, Paolo-Andrea Molina, Rinascimento, Istituto
nazionale di studi sul Rinascimento, G. Robolini, Notizie appartenenti alla
storia della sua patria, raccolte da G. Robolini, pavese, G. Fantonetti,
Effemeridi delle scienze mediche, compilate da G. Fantonetti, Paolo-Andrea
Molina. OFFREDI CREMONENSIS ABSOLVTISSIMA COMMENTARIA [ocr errors] VNA CVM
QVAE STIONIBVS IN PRIMVM ARISTOTELIS Posteriorum Analyticorum librum,
Nunc primum mendis oinnibus expurgati, et egregijs scolijs
marginalibus illustrata, AC DVOBVS INDICIBVS, ALTERO, Qy I RES IN
COMMENTARIIS tractatas, altero, qui quastionum capita copiosissime
comple&titur, PRAETERE A DVPLICI TEXTVS ARIST. INTERPRETATIONE
AVCTA IN LVCM RE DEVNT. A PRAECLARISS. DOCTORIS
Hoc aut contingit propter posibilitatem intellectus D APOLLINARIS CREMONE
N. noftri, qui à principio est sicut tabula rasa, & non. 3. de anima tex.
in librum primum Posteriorum mouetur ad intelligendum, nisi de potentia ad
actí cap.is. reducatur sic autem intelligentia non cognoscunt,
Aristotelis, exposition cum semper in actu intelligendi existant, & eodem
modo , & nunquam in potentia. Bruta etiam non Mnis doctrina, et discurrunt
saltem discursu pfe&to, quamuis in prin- omnis disciplina incipiosint
in potentia ad cognoscendum, & hoc est telleştiua , ex præpropter
imperfectum eorum modum cognoscendi; existenti fit cogni- Concedi tamen
potest, q aliquo modo, & imper- tione. Manifestum feétè discurrunt.
Ex quo infertur, g per idem medium euidenter concludere habemus, nostrum
mia est autem hoc specu dum cognoscendi imperfectiorem esse modo
intelitia látibus in omnibus; gentiarī, et perfectiorem modo brutorum, per
hoc. f. mathematicæ enim scientiæ per hunc cum difcurfu
cognoscimus, qualiter neq; intelli- modum fiunt, & aliarum unaquæq;
argentia, neq; bruta cognoscunt. Cũigitur intellectui tium. Similiter aút
& orationes,quæ p nostro sit potentia semper admixta, &
cūdiscursu syllogismum, et quæ per inductionem; scientiā acquirat, in
discursu autem error, et recti- utræq; enim per prius nota faciunt do
tudo esse poffit, vbi etiam est admixta potentia, malum, ö error cötingere
poffit, vt colligitur de mente e &rinam; hæ quidem accipientes,tanğà
Arift.g . meta. cum dicit, q malum naturaliter eft
tex.6.19 B notis,illä uerò demonstrātes uniuersale poft potentiā, &
vlterius dicit, g in rebus æternis, perid, quod est manifestum singulare que
semper sunt actu, non est malum, neque error, Similiter aút, et rhetoricæ
persuadent: oportuit artem inuenire,qua in a&tibus rationis di- aut
enim per exemplum, et est Inductio: rigeretur humanus intellectus in acquirêdo
notitia aut per enthimema, quod quidem est vnius, ex notitia alterius, et
hæc fuit Ars Logicæ. Cum autem triplex sit intellctus operatio, quarum syllogismus
secunda primam fupponit, et tertia secundā vt colli Mnis doctrina,omnisý
disciplina gitur 3. de anima (Prima est simpliciü intelle&tio, Tex. c.at.
Secunda est simplicium compositio, vel divisio. Tertia intellettina
preexistente è co- est cognitio discursive His tribus operationibus sed priores
dus gnitione fit. Id, fi omnes que tres correspondent logicæ partes, quarum
prima magis conuenite fiant pacto consideremus,mani- habetur in lib. prædicamentorum
Arist. G admi- Lui, quatenus in feftum profeito fiet. Mathematica nang; niculis
ipsius scilicet lib. vniuersalium Porphiri, tellcdwet. fcientiæ illo
comparantur modo, caterarú ý lib. sex principiorum , obi logicè determinatur
artium vnaquaque. Sanè circa orationes de generibus, & speciebus
predicamentorum , prout quoque, fiueille p raciocinationes fiue per cunda est, quæ
habetur in lib. Peryhermenias, vbi de cognitione quadam simplici cognosci
habent, sem inductioncm fiunt, feruari modusidem fo- propositione determinatur,
et speciebus ipfius tàną let: in utrisq; nanque, per antea nota doctri de
inftrumento aliquid compositiuè, vel divisiuè co- C F na
nimirum fit, quippe cum in altera tanğ gnoscendi. Tertia verò in alys
Logicelibris conti- à cognofcétibus propofitiones accipiantur, netur, qui
cõmuniter Ars Noua dicuntur, vbi de in altera per singulare iam
notüipfum vni. instrumento determinatur, quo discurrere debet in versale
oftendatur. Simili profe&to modo, telle&tus,o3. de syllogismo, es
consequenter de alijs modis arguendi. Diuiditur autem tota illa pars hoc
Goratoria rationes fuadent, aut .n.exem modo , quia ficut in
a&tionibus Nature diuersitas plis,quod est inductio,aut enthymematibus
reperitur, quxdam .n. funt, qua ex neceffitate fiunt, g&quidē ratiocinatio
est, facultas ipsafolet quædam vi plurimum, quedam vero raro (propter oratoria
fuadere. defe&tum aliquem in natura,ficut monftra ) sicin
discursibus rationis quidam sunt, in quibus est nePro inductione
expositionis huius libri Pofte- cefsitas, & ifti cum rectitudine rationis
habentur. riorum , fub brevitate, videnda funt quædam, v3. Ală sunt , per quos
vt plurimum verum concludiqua fuerit necessitas, logicam inueniendi, et confetur,
non tamen necessariò. Alij verò funt, in quiquenter fcienciam huius libri, Quis
ordo huius libribus eft defectus rationis propter alicuius principi ad cæteros
libros logica Arist. Quis libri titulus,& defe&tum. Pars logice, in qua
de primis determiquid fubie&tú, & fic consequenter habebuntur
ipsius natur, iudicatiua dicitur, & eft illa,quæ traditur in Non pigeat hoc
cause. Quantū ad primum fciendum est primò, q libris Priorum,&
Pofteriorī,dita autem' est iudiloco videre Aszi cum modus nofter cognoscendi
fit medius inter mon catiua à iudicio, eo q iudicium eft cum certitudine. dum
intelligentiarī, er modum Brutoră, ab vtrifq; Vocata etiam eft analetica .i. refolutoria,
co gisa diftinguitur in hoc, g intelligimus cum discursie. dicium certum
de effe&tibus baberi nö poffit,nisifiat. Con quelle stravaganze ed empietà
iusegnavasi cercare col commercio de'demonj , colle magie e le incantagioni i
rimedj delle malattie, e le maniere di preservarsene. Meritavano maggior
illustrazione e lode altri insignim e dici Cremonesi di questo secolo. Apollinare
Offredi s o lenne filosofo, astrologo e medico, lettore di metafisica nello
studio di Pavia e di Piacenza, caro ed accetto ad Eugenio IV,Filippo Maria
Visconti eFrancescoSforza. A Filippo Maria protettor suo dedicò l’Offredi i
suoi Commentarj di Aristotile sull'anima, stampati poi in Milano, sui quali
piacemi di trascrivere il giudizio che ne fece l'illustre mio concittadino ed
amico il prof. Baldassare Poli. Con quest'opera, dic'egli, pre venne l'Offredi
in alcuni principii sull'origine delle idee lo stesso Locke, ecome quegli che
appartenendo a quell'onorata famiglia de'filosofi peripatetici italiani, che al
melodo naturale e sperimentale aggiunsero quello della critica e delle proprie
dottrine aveva proposto nuove ricerche superiori al suo secolo, e di cui van
tanto gloriose le scuole moderne. I n p rova di che il prof. Poli ne'suoi
saggi, e nella sua storia della filosofia ita liana riferisce alcune
proposizioni filosofiche dell'Offredi tratte dalle opere sull'esposizione e
sulle questioni de’libri d'Aristotele de anima (che ebbero poi tante edizioni),
dalle quali scorgesi come l'Offredi svincolasse la filosofia dall'impero
dell'autorità, e la posasse sul sentiero della libera e coscienziosa verità.
Quanto alla medicina Apollinare e celebrato per cure maravigliose fra i
migliori medici del suo tempo, e pubblicava al cune opere, di cui puoi vedere i
titoli nell'Arisi. Il 312 Elogia clariss. virorum Collegii
Pisan.1750 negliopuscoliscientificidelCalogerà). Secondo Volaterrado e Spacchio
non scrive quest'Offredi opera alcuna. Ma Ficino ne fa onorevole menzione in
una sua lettera del lib. V, ove dice che dalla salvezza dell'Offredi dipende quella
della filosofia de' suoi tempi. Non ricordato pure da'vostri sto rici e
biografi trovo Baccilerio Tiberio che è solo a c cennato nella Biografia medica
di Parigi, da cui apprendesi ch'egli fu professore di medicina a Bologna,
Ferrara, Padova e Pavia, e muore in Roma. Scrive un saggio intitolato Commentarii
sulla filosofia di Aristotele e di Averroe, che non sembra es sere giammai
stato impresso. Poche cose i nostri biografi ci tramandarono di Albertino de
Cattanei o de Chizzoli o Plizzoli da non confondersi coll'altro Albertino di S.
Pietro. Il Cattanei la dottissinio in varie scienze, dottrine e lettere, e
professore straordinario di filosofia, fisica, etica e teologia prima a P a
dova indi a Bologna, poi difilosofia morale e di medicina nello studio di
Ferrara e di Pisa collo stipendio di 495 fiorini d'oro (Alidosi, Borsetti
Storia del ginnasio di Bologna e di Ferrara. Fabbrucci, op.cit., in Calogera
7,27). Ficino lo chiama doctrinæ et honestatis exemplar; e lascia alcune opera accennate
dall'Arisi. Boezio, Hugues de St Victor, Alberto il Grande di Bollstädt e
Alberto di Sassonia, Aquino, Egidio Colonna, Guglielmo d'Alvernia, Enrico di
Gand, Henricus de Gandano, Roberto Vescovo di Lincoln detto Testa Grossa, il
francese Giovanni Gianduno o da Jandun contemporaneo e amico di Marsilio da
Padova e di Pietro d'Abano. Giovanni Duns Scoto e Antonio d'Andrea, Antonius Andreae
Scotista, il Burleusossia Burleigh, Pietro d'Abano ossia Concilialor differentiarum,
Buridano, Vio, Gregorio di Rimini (Gregorius Ariminiensis generale degli
Agostiniani nominalisti), Jacopo da Forlì e Gentile dei Gentili discepolo di
Taddeo fiorentino filosofi e medici del medesimo secolo; knalmente Pietro da Mantova
logico, PaoloVeneto filosofo, Apollinare Offredi --filosofo e Pietro Trapolino
da Padova uno dei maestri di Pomponazzi autore di un'opera De Ilumido Radicali,
tutti del 15.0 secolo. Il Nifo e l'Achillini sono citati nelle Questioni
aggiunte. Di Giovanni Marliano milanese detto il Calcolatore fanno menzione anche
i suoi libri anteriorie stampati especie quello Deintensione el remissione
formarum . La maggior parte di questi Commentatori sono noti e annoverati sia
nelle storie della Filosofia e della Letteratura, sia nelle Biografie
universali, e nelle Enciclopedie. Pietro d'Abano è uno dei più citati e studiati
dal Pomponazzi;è famoso e una sua accurata biografiafral'altresitrova nella
Storia scientifica o letteraria dello Studio di Padova del Colle.Sopra Jacopo
da Forlì che fu professore a Padova è da notarsi al proposito di questo lavoro
che egli è autore di un De Intensionc 339 titolo più particolare
che sta in testa alla prima pagina dopo l'indice delle Questioni si rileva che
esso pure si riferisce ai corsi dati dal Pomponazzi sul De Anima a Bologna.
Difatti il detto titolo è il seguente: “In nomine individuae Trinitatis
incipiunt quaestiones animasticae excellentissimi artium et medicinae doctoris,
domini Magistri Petri Pomponatii Mantuani philosophiam ordinariam in bononiensi
Gymnasio legentis. Sventuratamente il Codice di Firenze non ha che 57 fogli
invece di 267 che ne ha quello di Roma, e delle 79 Questioni di cui contiene
l'indice, 34 soltanto e non senza lacune vi sono trattate; queste corrispondono
generalmente per l'ordine in cui si ccedono, alle prime del Codice di Roma, ma
non sempre e talvolta con parole diverse. Le Questioni del Codice di Roma sono
114 ed esauriscono tutto il trattato di Aristotele, quelle del Codice di
Firenze non vanno guari al di là della metà dello scritto aristotelico e nelle
34 che sono esaminate e risolute non sono comprese le più importanti
dell'Indice come sarebbe quella della Immortalità dell'anima,soggetto del libro
famoso che porta questo titolo. Da un opuscolo del Brunacci è accertato che a
Padova ilPomponazzi comincið et Remissione Formarum , come il Pom
ponazzi,manoscritto registrato dal Tommasini nelle sue Bibliothecae Palavinae
manuscriptae publicae el privatae, Utin, a pag. 37. L'Apollinare, Pietro da
Mantova e Paolo Veneto sano più d'una volta dal Pomponazzi citati insieme; edifattosonotuttietreinpartedellalorovitacontemporanei.Paolo
Venetohafiorito nella prima metà del secolo XV ed è stato professore a Padova ;
la sua Somma di Logica e isuoi Commenti supra l'Organo sulla Fisica di
Aristotele e specialmente sul De Anima furono celebri e c o m mendatissimi. Di
esso parlano il Tiraboschi e il Papadopoli (Storia dell'Università di Padova) e
Poli nel Supplemento IV al Manuale della storia della Filosofia del Tennemann.
L'Apollinare e della famiglia Offredi o degli Orfidii da Cremona (Vedi Francesco
Arisi, Cremona literata Tomo I pag. 248, Parma e Tiraboschi, Storia della
Letteratura italiana, TomoVI LibroI capo2,e LibroIl capo2); fiori verso la netàdel!V°secolo;
ebbe fama grandissima e fu chiamato l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima
del Pomponazzi a Carte 40 che su discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et
Apollinaris ejus discipulus ». Fu difensore della filosofia Cristiana contro l'Averroismo;
insegnò a Piacenza evi fu aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al De
Anima di Aristotele esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze.
Esso fu stampato più volte nel15°secolo; la prima edizioneè di Milano 1474 (Vedi
il Tiraboschi e il Sassi, Storia della Tipografia milanese). In un volume stampato
a Venezia nel 1492 (esistente nella Biblioteca Alessandrina di Roma) da Boneto
Locatelli si trovano 1.o la Logica di Pietro da Mantova; 2.o il trattatello di
questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo instante”) citato
dal Pomponazzi nel suo “De Anima” ; 3.o un trattato responsivo di OFFREDI
Apollinare da Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; 4.° un
commento del Menghi alla Logica di maestro Paolo Veneto. Le due opere del
Mantovano portano questi titoli. Viiri praeclarissimi ac subtilissimi logicim a
incipit feliciter. Incipil sublilissimus tractalus ejusdem deinslanli. Il
trattato dell'Apollinare ha per titolo “Illustris philosophi et medici
Apollinaris Offredi Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem
communis opinionis adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il
principio di quello del Mantovano che il Pompovazzi cita colle parole Petrus de
Mantua o Mantuanus concivis meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem
(Magistri Petri Mantuani) de instanti. Dicemus primo naturaliter loquentes,
quod sola forma secundum se el quam libel sui proprietatem potest incipere el
desinere esse. Materia enim prima est ingenita el incorrutlibilis: el non plus
esl, - 340 eil 341 sul “De Anima” un corso che non potè
finire. Forse ad esso si riferiva il manoscritto che Tommasini (Bibliothecae Patavinae
publicae et privatae) dice di aver veduto nella libreria privata del Rodio. Quanto
a quello di Firevze, il titolo ci avverte, come abbiam detto, che esso deriva
come quello di Roma dall'insegnamento psicologico del Pomponazzi a Bologna.Si
troverà nell'Appendice l'indice delle questioni che vi sono registrate. È certo
in ogni modo che il manoscritto di Roma è il Commento intero del Pomponazzi sul
De Anima di Aristotele, e ciò che più monta e risulta dalla data apposta alla
fine del medesimo, è l'opera della sua età matura, l'espressione più completa
del suo insegnamento più importante, il corso da lui dato o compiuto sul “De
Anima”, nel tempo che segnò l'apice della sua attività, in quell'anno 1520 in
cui egli stesso datava dalla Cappella di S. Barbaziano in Bologna il De
Naturalium Effectuum Causis, fu ilvelerit de materia prima in rerum natura quam
nunc sil, velminus. Secundum tamen verilalem (cioè la fede) malaria ali quando desinil
esse ulinc onsccralione, plusaulem velminusali quando est de forma tam
subslunliali quam accidentali. Sed hoc proposilum non destruil. Er quo sequilur
quod si aliquod ens nalurale incipil vel desinil esse, ipsum incipil vel
desinit esse propter cjus formam substanlialem quae incipit vel desinit esse.
Premessa la eternità della materia, tutto il trattato si aggira sulle
difficoltà e le antinomie che possono sorgere dalla applicazione delle
categorie del moto e della quantità alla generazione e alla cessazione delle
forme nella materia, e specialmente dalla relazione della materia con la forma
nei virenti. La qualità delle argomentazioni giustifica la parola sublilissimus
aggiunta al titolo del Trattato e ricorda i ragionamenti della Scuola Eleatica
e specialmente di Zenone sul moto. Questo libro è uno dei più curiosi esempii
dell'ardire pur troppo sterile quanto ai risultati o b biettivi,ma non
infecondo quanto alla ginnastica della mente,con cui la Dialettica del Medio
Evo e della Rinascenza si accinse alla soluzione dei problemi più difficili.
Nel manoscritto di Firenze sopracitato come anche in quello che qui facciamo
conoscere Pietro Mantovano è spesso designato colle iniziali P. M. Il Sig.
Fiorentino è rimasto dubbioso se queste let tere indicassero Pietro Manna
cremonese, che il Pomponazzi nell'Apologia chiama viracerrimi in genii
gravissimique judicii. Essendo il Manna cremonese, è chiaro che il Pomponazzi
non poteva chiamarlo concivis meus. Di Pietro Trapolino, il più celebre dei due
Trapolini che il Pomponazzi ebbe per maestri, ecco ciò che dice il Papadopoli
Libro III, Sezione 2.a capo 6 della sua storia dell'Università di Padova.
Petrus Trapolinus Patavii nalus patricia genle....philosophus, malhemalicusel medicus
declinante SaeculoXV celeberrimus, Medicinam in Gymnasio palrioprofessuseslutconstatex
Albis gymnasticis. VixilannosLVIII; viveredesiitan. MDIX caipsadiequa caplum
direplumque Patavium estab exercilu Maximiliani, in eaquererum catastrophe quaemulla
conscripseralperiere. Superesiquem juvenis ediderat liber de Ilumido radicali.
Di AntonioTrapolino suo precettore in medicinail Pomponazzi parla nella12a delle
sue Du Vilazioni sopra il4o dei Meteorologici di Aristotele adducendo le
difficoltà che egli scolaro gli opponera su certe cause della mutazione delle
forme nei misti. Ivi l'autore avvicina Antonio Trapolino a Gentile Gentili, a
Jacopo da Forlì e a Marsilio (di Santa Sofia) altri rinomati professori di M e
dicina nell'Università di Padova. Di Pietro Roccabonella che fu pure suo
maestro è menzione alla fine del De Falo. Finalmente di Francesco di Neritone
altro suo professore oltre al cenno che ne fa. Grice: “Italians are rightly
obsessed with Pomponazzi. They complained he looked more ‘a Jew than an
Italian,’ but he predates Ryle’s Concept of Mind. One of his influences is
Offredi, a lizii – who wrote not just on Aristotle’s De Anima (a manuscript Pomponazzi
consulted) but who himself set to defend Pomponazzi – to prove that he was a
real lizio, he wrote on Analytica Posteriora too – “Only a true lizio will
comment on that!” -- Offredi. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Offredi,” The Swimming-Pool Library.
Grice ed Olgiati – classici – filosofia italiana –
Luigi Speranza -- (Busto Arsizio). Filosofo italiano. Grice: “I’m impressed that Olgiati
dedicated a whole tract to the idea of ‘soul’ in Aquino!” Si forma presso
Seminari milanesi. Collaborò con Gemelli e Necchi alla Rivista di filosofia
neo-scolastica e fondò con loro il periodico Vita e Pensiero. Fu insignito da
Pio XI del titolo di Cameriere Segreto e da Pio XII di Protonotario Apostolico.
Inoltre fu, assieme ad Gemelli, uno dei fondatori dell'Università Cattolica del
Sacro Cuore. Presso tale ateneo insegnò nelle facoltà di Lettere, di Magistero e
di Giurisprudenza. Fu condirettore della Rivista del Clero Italiano insieme a Gemelli.
Fu autore di innumerevoli scritti relativi alla religione e all'istruzione. I
suoi allievi più illustri furono Melchiorre e Giovanni Reale. Tomba di Agostino
Gemelli mons. Olgiati. Il libro Le lettere di Berlicche, scritto da C. S.Lewis,
oltre ad essere dedicato a Tolkien, è dedicato anche a Olgiati. Medaglia d'oro
ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'artenastrino per uniforme
ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte
— Università Cattolica del Sacro CuoreLa storia: Le origini, su uni cattolica. Saggi:
“Religione e vita” (Vita, Milano); “Schemi di conferenze” (Vita, Milano); “I
fondamenti della filosofia classica” (Vita, Milano); “Il sillabario della
Teologia” (Vita, Milano); “Il concetto di giuridicità in Aquino” (Vita,
Milano); “Marx” (Vita, Milano); Il sillabario della morale Cristiana” (Vita, Milano);
“Il sillabario del Cristianesimo, Vita, Milano) b I nuovi soci onorari della
Famiglia Bustocca. Almanacco della Famiglia Bustocca per l'anno 1956, Busto
Arsizio, La Famiglia Bustocca, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Francesco Olgiati. Olgiati. Keywords: classici, il gusto per
l’antico, ius, Aquino, sillabario, filosofia classica, filosofia no-classica,
logica classica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olgiati” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Olimpio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. He lived in the middle of nowhere. When he found his city became an
uncomfortable place for pagans, he moved to Rome.
Grice ed Olivetti – l’archivista – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Olivetti deals with some
topics dear to me and Strawson, like subject, transcendental subject, and the
rest – he also uses ‘analogy,’ which is a pet concept of mine – I have been
compared to Apel, so the fact that Olivetti in his ‘conversational’ approach
relies on him, helps!” - Professore a Roma -- preside della Facoltà di
filosofia. Formatosi nella Facoltà di Filosofia di Roma negli anni
sessanta, confrontandosi con i temi del rapporto fede e ragione nell'ambito di
un collegio di docenti orientato sul versante marxista, storicista,
postidealista, trovò in Zubiena il suo maestro. Con lui iniziò una
collaborazione intellettuale che lo portò a studiare i temi della filosofia
della religione, partecipando ai colloqui romani inaugurati dal filosofo
piemontese, dapprima come segretario e poi, dopo la morte di Zubiena come
organizzatore. Dopo iniziali studi di estetica religiosa e di filosofia
classica tedesca, si dedicò alla ricerca di un approccio neo-trascendentale al
tema della religione, insegnando filosofia morale a Bari e poi sostitundo
Zubiena nella cattedra romana di filosofia della religione. Giunse dopo
l'incontro decisivo col pensiero di Lévinas, ad elaborare una concezione di
questa disciplina come antropologia filosofica e etica in quanto «filosofia prima
anzi anteriore» su base storica, nata dalla dissoluzione in età tardo settecentesca,
soprattutto ad opera di Kant e Hegel, della onto-teologia. Molta rilevanza
aveva nel suo insegnamento lo studio dei classici tedeschi, in chiave storica,
e da ultimo il confronto sia con la fenomenologia, specie con Lévinas e Marion,
sia con la filosofia analitica. In Analogia del soggetto, la sua opera
maggiore, l'autore elabora una teoria analogica del soggetto, riprendendo
suggestioni di Husserl, Apel e Lévinas, confrontandosi con Heidegger e
suggerendo una teoria dell'"umanesimo dell'altro uomo" su base
staurologica ed etico-interinale («espropriarsi del caritatevole nell'interim
interlocutivo» ibidem). La tesi è che non esiste un'essenza dell'essere
umano. Tale essenza è immaginata, e senza siffatta immaginazione l'essere e
l'umano non si coapparterrebbero. Così si dice, in un certo senso la fine
dell'etica. Tuttavia così si dice anche che l'etica, e non l'ontologia, è la
filosofia prima, anzi anteriore. Di seguito l'autore prospetta un ripensamento
del soggetto trascendentale, con un differimento dell'ergo rispetto al cogito
cartesiano, partendo dal “loquor,” ovvero «dall'origine analogica di ogni
logica, in modo da scomporre la presenza trascendentale in sum-prae-es-abest.
Si perverrebbe così all'abbozzo di un «ripensamento dell'appercezione
trascendentale, in modo tale da reimmettere il pensiero rappresentativo nella giusta
traccia della rappresentazione. Attività accademica e influenza Direttore
dell'Istituto degli Studi Filosofici E. Castelli e poi dell'"Archivio di
Filosofia", si fece promotore di colloqui e convegni nei quali conveniva,
a Roma, ogni due anni, nei primi giorni di gennaio, l'élite della filosofia
della religione europea e mondiale (P. Ricœur, J.-L. Marion, V. Mathieu, S. Quinzio,
V. Melchiorre, E. Lévinas, L. Lombardi
Vallauri, B. Forte, B. Casper, Ingolf Dalferth, Jean Greisch, P. Capelle, Jean
François Courtine, E. Falque, Piergiorgio Grassi, Paul Gilbert, S.J. Stéphane
Mosès, Paul Mendes-Flor, P. Prini, Adriaan Peperzak, Richard Swinburne, Gabriel
Vahanian, Marcel Hénaff, Vincenzo Vitiello, Xavier Tilliette, Michel Henry,
James Taylor, tra gli altri). Nelle sue prolusioni e nei suoi contributi
introduttivi si prospettava lo sfondo su cui si sarebbero esercitati i contributi
e le discussioni del Colloquio, di seguito pubblicati in numeri monografici
della Rivista "Archivio di Filosofia". I temi trattati erano
spesso centrali nell'elaborazione di una filosofia della religione come
filosofia tout court e abbracciavano, negli anni ottanta e novanta del
Novecento, temi centrali come "Teodicea oggi?", l'argomento
ontologico, l'Intersoggettività, il Dono, la Filosofia della Rivelazione,il
Sacrificio, il Terzo. La sua personalità riservata entro l'ambito strettamente
scientifico e il rigore speculativo dei suoi scritti non ne hanno favorito una
conoscenza pubblica al di là dei circuiti accademici, e il suo insegnamento ha
lasciato un traccia significativa costituendo una vera e propria scuola di
filosofia della religione. Saggi: “Il tempio simbolo cosmico” (Milani,
Padova); “L'esito teo-logico della filosofia del linguaggio” (Milani, Padova);
“Filosofia della religione come problema storico” (Milani, Padova); “Da Leibniz
a Bayle: alle radici degli Spinoza briefe, “Archivio di filosofia”; “Analogia
del soggetto” (Laterza, Roma); "Filosofia della religione" in La
filosofia, Le filosofie speciali (Pomba, Torino); Avant-propos, in Le Tiers,
Archivio di Filosofia Archives of Philosophy, Considerazioni introduttive sul
tema: Postmodernità senza Dio?, in «Humanitas»
a.c. di F.Ciglia e De Vitiis Traduzioni e curatele: Kant I., La
religione entro i limiti della sola ragione, Romam Laterza); “La religione nei
limiti della sola ragione, I.Kant (Laterza, Roma); “Saggio di una critica di
ogni rivelazione, con introduzione J.G. Fichte, Laterza, Roma) ; Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 79, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Francesco Valerio Tommasi, Archivio di filosofia », 7Francesco
Valerio Tommasi, Le persone, infiniti fini in sé. Un ricordo lettore di Kant, «
Studi Kantiani », Filosofia della religione Fenomenologia Ontologia Teologia
Fede Ragione Bruno Forte, Del sacrificio
e dell'amore_In memoria, su, Tributo dell'Roma, Istituzioni collegate, su filosofia.uniroma1.
E. Giacca: un filosofo della
religione", Giornale di filosofia, su giornaledifilosofia.net. Archivio di
filosofia, su libraweb.net. Marco Maria Olivetti. Oivetti. Keyword: implicatura,
l’archivista -- “philosophy of language.” Cratilo, teologia del linguaggio,
esito teo-logico della filosofia del linguaggio, la religione razionale secondo
Kant, l’idea de fine – autonomia, il regno dei fini in Kant, religione e
linguaggio, l’esito teologico della filosofia del linguaggio, Jacobi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olivetti” –
The Swimming-Pool Library.
Grice ed Olivi – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Undine): Enrico Palladio degli Olivi
(Udine). medico e storico italiano. Anche filosofo.
Grice ed Onato – Roma – filosofia antica
– Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Onato or
Onata was a Pythagorean. Fragments from his treatise survive.
Grice ed Onorato – Roma – filosofia
italiana. Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Onorato was a member of the Cinargo who took to the habit of wearing
a bearskin.
Grice ed Opillo – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. Filosofo
italiano. Aurelio Opillo segue l'indirizzo dell’orto. Liberto di un
epicureo, insegna filosofia, ma sciolge la sua scuola per seguire Rutilio Rufo
a Smirne, ove compose varie opere, fra le quali Musarum libri IX. Aurelius
Opilius. Ueber die Schreibung “Opillus” statt “Opilius” vgl. F. Buecheler,
Rhein. Mus. 3 (1875) p. 440. Opilius lehrte zuerst Philosophie, dann Rhetorik.
endlich Grammatik. Später löste er seine Schule auf und folgte dem P. Rutilius
Rufus ins Exil nach Smyrna. Hier schrieb Opilius unter anderem ein Werk von
neun Büchern mit dem Titel “Musarum libri IX”. Nach den Citaten, die daraus von
Gellius und besonders von Varro, Festus und Julius Romanus gemacht werden, muss
er sich besonders mit Worterklärungen befasst haben. Ferner erwähnt Sueton
einen Pinax mit dem Akrostichon „Opillius"; da wir wissen (S. 31), dass
sich Opilius mit Scheidung der echten und unechten Stücke des plautinischen
Corpus abgab, werden wir diese Schrift dafür in Anspruch nehmen dürfen.
Zeugnisse. «) Sueton, de gramm. 6 Aurelius Opilius, Epicurei cuiusdum libertus,
philosophiam primo, deinde rhetoricam, nocissime premmetiram docuit. dimissa autem
schole Rutilinm Rufum (S. 73, 3) damnatum in Asiam secutus ibidem Smyrnae simulque
consenuit compositque variae eruditionis aliquod volumina, ex quibus novem unius
corporis, quia scriptores ac poetas sub clientela Musarum indicaret, non absurde
et fecisse et inscripsisse se ait ex numero divarum et appellatione. huius cognomen
in plerisque indcibus et titulis per unam (L) litteram scriptum animadcerto, rerum
ipse id per duas effert in parastichide libelli, qui incribitur pinax 3)
Musarum libri novem. Gellius 1.25, 17 Aurelins Opi-lines in primo librorum,
ques Mexerum inceripoit (über indutine). Bei Varro de lingua lat. wird er unter
dem Namen Aurelins angeführt 7, 60; 7,70 (proefica; i, 106, unter dem Namen
Opilins 7, 50; 7, 67: 7,79. Vgl. H. Usener, Rhein. Mus. 23 p. 682. Bei Festus
wird er citiert als Aurelius Opilius p. 141, dann als Opilius Aurelius p. 165,
ferner als Aurelio p. 68, endlich als Opilius p. 369 O. M. Vgl. R.
Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Bresl. philol. Abh. 1. Bd. 4. Heft p.
92). Charis. (Julius Romanus) Gramm. lat. 1 p. 128, 1 at ait Aurelius Opilius.
p. 84, 2 Aurelio plaret. Vgl. O. Froehde, De C. Julio Romano Charisii anctore
(Fleckeis. Jahrb. Supplementbd. 18, p. 592). 8) Der lirres Vgl. F. Ritschi,
Parerga p. 180, p. 239. Zu den Verfassern von indices plautinischer Stücke
rechnet Gellius 3. 3, 1 auch ungeren Aurelius. F. Osann, Aurelius Opilius der
Grammatiker (Zeitschr. für die Altertumsw. Nr. 25-28); G. Goetz, Pauly-Wissowas
Real-encycl. Bd. 1 Sp. 2514. Die Fragmente bei E. Egger, Lat. serm. vet. rel.
1843 p. 27 und Funaioli p. 87. (Oben S. 39 p. 122 Z. 7 v. u. ist statt „(C'os.
105)* zu lesen „(ca. 105)*; denn P. Rutilius Rufus war Cos. 105.)
Grice ed Opocher – giustizia – filosofia italiana – IVSTVM
QVIA IVSSUM -- Luigi Speranza (Treviso).
Filosofo italiano. Grice: “There are
two points that connect me with Opocher: ‘individuality’ in Fichte, since I
love the problem of the in-dividuum, perhaps influenced by my tutee Strawson
(“Individuals!”) – and Opocher’s ‘analisi’ as he calls it, of the ‘idea’, as he
calls it, of ‘giustizia’, particularly in Thrasymachus, for which I propose an
eschatological study!” -- Enrico Giuseppe Opocher. Con Ravà e Capograssi è
considerato uno dei maggiori filosofi del diritto italiani del Novecento. Nacque
da Enrico Giovanni, ginecologo. Durante la Grande Guerra la famiglia, timorosa
dei bombardamenti, si trasferì dapprima nella periferia di Treviso, quindi a
Pistoia presso una parente. Gli anni successivi riportarono un clima di
serenità e agiatezza, nel quale Enrico crebbe, dividendosi tra la città natale
e Vittorio Veneto, meta delle sue vacanze estive. Dopo il liceo fu avviato, secondo il volere
del padre, agli studi giuridici, benché fosse decisamente più inclinato verso
la filosofia. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Padova, ma continua a
coltivare i propri interessi personali seguendo le lezioni di filosofia del
diritto tenute dRavà. Sotto la guida di quest'ultimo stilò una tesi su La
proprietà nella filosofia del diritto di Fichte, con la quale si laurea brillantemente.
Ottenuta la libera docenza, vinse il concorso per la cattedra di filosofia del
diritto presso la facoltà di giurisprudenza a Padova, succedendo a Bobbio che
in Veneto era divenuto segretario regionale del Partito d'Azione. Nell'ateneo
padovano insegnò ininterrottamente per quarant'anni, tenendo lezioni per i
corsi di filosofia del diritto, di storia delle dottrine politiche e di
dottrina dello stato Italiano. È
ricordato in maniera particolare per i suoi studi sull'idea di giustizia, e sul
rapporto tra diritto e valori, nonché per la redazione di un celebre manuale,
Lezioni di filosofia del diritto, usato da generazioni di allievi. Fu magnifico rettore dell'Università. È stato
Presidente della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica.
Influenzato dall'amicizia con il cattolico Capograssi e col laico Bobbio, fu
azionista con Bobbio e Trentin, condividendo (a Palazzo del Bo) le attività
cospirative della Resistenza locale. Nel dopoguerra rimase amico stretto di
Trentin e di Visentini, divenendo a sua volta il maestro di Toni Negri. Saggi:“Individuale”
(Padova, MILANI); “Esperimentato” (Treviso, Crivellari); “Giusto” (Milano,
Bocca); “Filosofia del diritto” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Padova, MILANI);
“Gius-to” (Milano); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fulvio
Cortese, Liberare e federare: L'eredità intellettuale di Silvio Trentin,
Firenze University Press, 2citando D. Fiorot, La filosofia politica e civile –
filosofia CIVILE --. in Scritti, G.
Netto, Ateneo di Treviso, Treviso, Vedi G. Zaccaria, Il contributo italiano
alla storia del Pensiero, Padova, I rettori Unipd | Padova, su unipd.
Denominazione attuale: Società Italiana di Filosofia del Diritto, vedi. Giuseppe Zaccaria, Il Rettore della
tolleranza, in La Tribuna di Treviso, Toni Negri: «Un uomo davvero libero
nell'università chiusa degli anni '60», in [Il Mattino di Padova] Giuseppe
Zaccaria, Ricordo Omaggio ad un maestro,
Padova, MILANI, 2Giuseppe Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del
PensieroDiritto, Società Italiana di Filosofia del Diritto, su sifd. Grice:
“Opocher is concerned with ‘iustum quia iussum,’ which while transparent to
Cicero as analytically false a posteriori, it is just impossible to express in
Anglo-Saxon or English. Both iustum and iussum come from the same root. So what
is just is what is commanded. The principle of positivism. Opocher finds this
all too easy, so he rather examines Fichte, who tries to express in his vernacular
vulgar (Recht, Wesen, Gemein Wesen, and so forth) all the ideas of
contractualism – a contract between a ego and alter – on the wake of the
beheading of Marie Antoinette!”. Opocher. Keywords: giustizia – fairness, gius,
il concetto di gius nel diritto romano, iustum non quia iussum – verbal aspect
here --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Opocher: giustizia del
neo-Trasimaco.”
Grice ed Opsimo – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo
italiano. A Pythagorean cited by Giamblico.
Grice
ed Orazio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venosa). Filosofo
italiano. Orazio fu attirato dai problemi morali ed
estetici. Quinto Orazio Flacco. Muore a Roma. Soltanto nelle
"Epistole," Orazio dichiara di sentirsi attirato dalla filosofia
morale per la quale vuole abbandonare la lirica (I, 1, 10-23; II, 2, 141-144. Si
è notato che dal v, 145 alla fine questa epistola è un protrettico. Ma anche
negli scritti precedenti Orazio tocca spesso argomenti
filosofici. Scherzosamente, Orazio si chiama Epicuri de grege poreus
(Epist. I, 4, 16). Effettivamente egli, che dichiara di non voler giurare sulle
parole di nessun maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato. Nei
suoi studi in Atene conosce dottrine di scuole diverse, vede nelle sette filosofiche
una disciplina che non deveno essere ignorate. Orazio s’interessa soprattutto
per la morale applicata ai casi della vita. La sua indole, amante
dell’equilibrio, della tranquillità, della serenità, gli fa considerare con
simpatia l’etica del Giardino d'Epicuro, di cui si scorge l’influsso nella seconda
satira del primo libro, e nella terza di questo, in versi che abbondano di
reminiscenze a Lucrezioe. Orazio ri-assume la teoria del Orto d’Epicuro
sull’origine del diritto e delle leggi. Più volte, satireggia paradossi del
Portico: tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce ogni cosa.
Orazio disegna la caricatura degli stoici capelluti e barbuti che, predicatori
ambulanti, espongono precetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita. Ma
Orazio mostra di apprezzare maggiormente la severa nobiltà degl’ideali del
Portico. Orazio si avvicina sia all’Orto che al Portico quando loda la
vita semplice e sana della campagna. Ma quando sferza la caccia alle riechezze
e al lusso, Orazio si collega al Cinargo, delle cui diatribe si avverte
l'influsso nelle sue satire. Nell'insieme, la morale di Orazio è
utilitaria ed è diretta dall’esigenza dell’equilibrio e della misura. La sua non
è una teoria filosoficamente fondata e perciò non manca di
incoerenze. Nell’"Arte Poetica" si riconoscono abitualmente
riflessi di teorie del “Lizio” e particolarmente di Neottolemo di Pario, che
assegna alla poesia il duplice ufficio di dilettare e di giovare. Da Panezio si
fa provenire il concetto del "decorum", che ha un posto centrale
nella dottrina estetica che Orazio propugna. Quinto Orazio Flacco. Best
known as a poet, Orazio was sent by his father to study philosophy. His studies
were cut short when civil war broke out after the assassination of Giulio
Cesare. His works, frequently advocate the simple country life, and a number of
letters he published indicate a continuing interest in philosophy. Although he
had friends that followed the doctrine of The Garden, and he was clearly
familiar with these doctrines, it is not clear that he ever belonged to any
particular ‘school.’ Complete Works, Dent. In an examination of Horace's
philosophy, we should not look for that comprehensive love of wisdom generally
termed philosophy by the ancients, including science, ethies, and speculative
thought. Horace was not the speculative type of man to be interested in the
composition of the universe, "Quae mare compescant causae, quid temperet
annum, Quid velit et possit rerum Empe 00168 at Stert tan doddret acunen, fre
Wetaer the pLanete wander ad rol Fone spontareduer) 18 pedoedes or subt1e dtortinius
that Is Crazed."). Horace was a realist, concerned with the ethical side
of wisdom--with the conduct of life. Horace was thoroughly Roman, and the
Romans, except only a few lofty souls such as Lucretius, Cicero, and Virgil,
were of a practical, mundane nature. They cared little for the abstractions of
speculation. They were born to rule-- parcere subleatio et debellare
superdos.*2 than oupire, titg Shail be tnite are, to ozdain the law of peace,
to be merciful to the conquered andbeat the haughty down."). The
philosophy which appealed to the Romans was that which would give them mastery
over self, and hence over the world. But everywhere around him Horace saw the
tremendous waste of human energy, struggling nen, feverishly pursuing the
bubbles that do not satisfy, frittering away their man-hood, consuming time and
not achieving the mastery of life to which their heritage entitled them. For
such an audience, then, in whi h the will to live was the dominant
characteristie, norace, the sane, tolerant, and sympathetic man of the world,
with the insight which comes from contemplation and the inspiration which comes
from a realization of the dignity of his task, formulated his philosophy of
living, a simple, practicable oode of ethios, to help men to saner, worthier,
happier lives; & code which furnished a solution to the problems of life.
It is not an explanation of life, but a way of life, something tangible, a
touchstone by which men may test their own worth and contentment. How keenly he
felt the importance of his mission we may know from "Sic nihi tarda fluunt
ingrataque tempora, quae spem Consitiumque, morantur agendi naviter id quod
alike to the poor, alike to the rich, and the neglectThe mature sorace was
unusually well qualified to undertake this office of sage, monitor, and guide,
for he was the product of unusual home training, thorough training 1n the
schools of philosophy, and a very varied experience. Horace was ver, fortunate
in his home influence. Born of a freedman father, who knew life from the point
of view of the toiler, he early aoquired the common sense which 1s the basis of
sound living. His father gave him an insight into the things worth seeking, by
pointing out the conspiou-ous failures in his own vicinity. Instead of merely
advising his son to lite frugally, he called his attention to a certain
well-known fellow who had squandered his patrimony. Others he indicated as
shameful examples of the effects of lust. By taking as a precedent the action
of certain men whose lives were an example to the wole comunity, and shunning
the practices which had made others infamous, he could always have a criterion
of conduct. Further than teaching his son to distinguish clearly between vice
and virtue, keep his eyes open to the lives of those arourd him, and profit by
their mistakes, his father could not go, saying that others could explain to
him the reasons for shunning vice, and that he might learn these reasons,
horace was sent to the best possible schools, no doubt at no small sacrifice.
It 18 the finest possible tributeto the fundamental worth of this rustic
freedman that norace speaks ever gratefully and without shame of his humble
birth and boyhood training. just what norace's life at the 'University' of
Athens may have been, we do not know. sut he gives ample proof of nis entire
familarity with both Epicureanism and stoloism. The former, so ably expounded
by lucretius, must have made a profound impression on norace, the lover of
life. That he had a sympathy with their doctrine of impassiveness (to them the
duty of man being to increase to the utmost his pleasure, decrease to the
utmost his pain, and the highest pleasure being peace of mind) is proved
byTempora momentis Tapora potent. Oat qua gordine Dulla ("Not to be
exoited about anything, Numicius, is almost the one and only thing that can
make and keep a Ion sun and stars and the seasons departing in fixed course
there are who view with no tinge of and again "Gaudeat an doleat capiat
metuatre, quid ad rem ntere 1, ral eerento ne has esea beeter oat matters it,
worse than BotE In body and soudii, hs eyes stare and he ds dased In another
place he allies himself playfully with the more material enjoyments of the
Epicureans--Once he admits, hafe shamefacedly, his weakness for the hedonism of
Ceristippus ("Now imperceptibly I slip back to the terets of et, tot ne to
the worla ate the rorta to And in a second passage he praises the adaptability
of Aristippus,3 contrasted with the cynio. But a man with the rigid training of
Horace's early years could not be completely satisfied with the
superficialities of the Epicureaniem and Cyrenaism. He valued happiness, but he
had too much moral fibre to find it either in impassiveness or pleasure for its
own sake, and so in spite of his repugnance to the sternness of stoician, and
the severity of its "Sapiens", he was drawn toward the positive
virtue of the Stoias. No utterance could ring more clearly Stoic than the
following: "Vir bonus et sapiens audebit dicere: 'Pentheu, 'Adiman
bona.''Nempe pecus, rem,Comed bas entro toste httote tenth maniodsette sub
custode tenebo.'hoo sentit, 'Moriar.'("The good and wise man will make
bold to say, 'Pentheus, Ruler of thebes, what will you force an undeserving man
like me to suffer and endure?' 'I will take keep you under the charge of a grim
"The deity himself will free me as soon as I I suppose thig is what he
means, 'I will die.' Death is the final goal of things." ) Although he
appreciates the value of the stoic tenets he cannot take their asceticism
altogether seriously, nor adopt them in their entirety, and fling this jest at
them: "Ad summem; sapiens uno munor est cove, dives, Liber, honoratus,
pulcher, rex Denique Pree iple sanus, nisi oun pituita molesta est.
"?("To sum up, the philosopher is inferior to jove alone;tingo inga
aborea noalthg, sare winen troubiedThus we see that horace was an folectic,
sifting from all the schools of philosophy what wis finest, sanest and best
adapted to his needs. If there appear to be inconsistencies in his system of
ethics, and there are countless ones, we must remember that he regards himself
as the physician of morals, ministering to many kinds of ailmente, each one
demanding a diiferent prescription, and he knows all too well that life is too
complex to be reduced to a simple formula. To the Stoics Horace owes his
positive dootrine of self control, of a life in accordance with nature and
controlled by virtue, and his superiority to misfortune. To the Epioureans,
Horace owes his theory of the wise enjoyment of life, and to the Cyrenaics his
theories of moderation. Of nis own foibles and changeableness he says Cone
todtur t tale thdate pocune ("I commend the safe ana humble when funds are
low, brave enough in a poor environment; but when aught better and more
sumptuous falls to my good fortune,Horace's life experience had been a
kaleidoscopic one. His youth had been spent in association with the sons of the
wealthy and well-born,andthus he acquired that tact and urbanity which were so
valuable in his later relationships, and which enabled him to give advice on
matters of social conduct. Then followed his attachment to the hopeless cause
of the Republicans, with the disillusionment, loss of property, position, and
purpose. such a complete alteration of nis entire life scheme could not but
have a tremendous effect. Any faith that he might have had in politios as
worthy of a man's best efforts, was of course completely shaken. From that time
on he could write with thorough conviction of the insubstantiality of
"Ambitio". Besides he realized keenly the moral evils that followed
the civil ware, and pessimism and general contempt for nis shameful
countrymenHis fresh beginning in kome in a most humble position, gave him the
first taste of the real struggle of the great mass of men for the mere means of
existence. From this position he could see the weaknesses of the poor, their
unrest, and idle craving for the wealth which they failed to see wis not
conducive to happiness. It is perhaps from this phase of his existence that
orace gained an appreciation of the simple joys of life wich are attainable for
all--sunshine, the shade of tree, the river, wine, etc. Tastly nis friendship
with waecenas, coming after the bitterness of life, afforded him the leisure to
devote himself to poetry. ue had learned too well the instability of position
to value it over highly, but from this relationship he draws the principles
which he lays down as guides for patron and client.The burthen of Horace's
philosophy of life is the attainment of happiness. Since he has tasted of the
sweetness and bitterness of life, and now by virtue of his devotion to poetry
is somewhat removed from the toil and moil of the world, he thinks that he has
a better perspective, oa. better judge of the eternal values than the great
majority of men, blinded to the larger view by the details, and hence first
undertakes an explanation of the nature of happiness. Ultimately happiness is
the product of a definiteattitude toward life. It is not a mere matter of
chance. It is within the reach of all who care enough for it to pursue it in
the right way. An idle, aimless, drifting existence will never attain the goal.
the thoughtless, short sighten so man world must be brought to realize this,
must be aroused to a contemplation of the issues of life, for he who neglects
them will suffer for his neglect. "et miPosces ante diem librum cum
lumine, si non ("and if you will not call for a book with a light before
dawn, if you will not apply your mind to the pursuit of honorable ends, you
will be kept awake and racked with jealousy and 1ove.") Men's bodily
well-being, in wich they take such a keen interest, 18 not half so important as
right living. Si latus aut renes morbo temptantur acutoQuaere fugen morbi. Vis
reate vivere: Quis non?"l who does not?") And yet they place every
other interest belore the wise regulation of life, either because they are too
ignorant to realize its importance, or because they are too slothful and
cowardly to face the issues. "Nam our Bet andaum, ditters Surand tompue
inatun,2 ("When you make haste to remove what hurts the eye, Then let
every man take thought of whither his life 1s trending-- "Inter cuneta
leges et percontabere doctos, Qua ratione queas traducere leniter sevum;
("In the midst of all you must read and question the what lessens care,
what makes you your own friend, we aud walk, and tae pata of a iise mo 10e4.
When once men do come to acknowledge that nappin-ess in not an accident, but
tie logical outcome of & well considered and consistently pursued course of
life, they should give prompt attention to these matters of vital moment,and
thus horace indicates the first step toward the new life.Multit e arttase
fygere et sapteatia prineAnd once aroused it will not seem so difficult,
for"Dope up taot que coopst habit; aapeze aude; If a man really desires
happiness he must have an aggressive attitude toward it, for what is worth
achieving can be won only atthe expense of vigorous effort."Sedit qui
timuit ne non succederet. "3 osame has beer afraid of fallure, has
remainedAnd again,"Ho onus horret,10oodt at persert, ro cospore matus. One
shudders at the load as too great for his fueble spirit and feeble frame;
another takes it on his back and carries it to the end. Lest anyone should
think that because his past life has not been a worthy one it is useles or
ridiculous to attempt any serious reformation. Norace invites him to draw
inspiration from his own altered ideals. Quem tenues decuere togae nitidique
capilli, quem sois immunem Cinarse placuisse rapaci,Quem bibulum liquia1 media
de luce ralerni,, Cena brevis luvatet prope rivum sommus in led luglise puaet,
sed non incidere ludum. "Leroa.("I, whom fine togas ana perfumed hair
became, I whom you know witnout a gift pleased grasping leinars,the rill; I am
not ashamed to have had my sport, but would be, not now to out it
short.")Inconsistency 1s no disgrace, if you have veered to a wiser
course, jut whatever you do, don't delay, but act at once!"Qui recte
vivendi prorogat horam("He wao postpones the season of upright living is
like It gidea and will glide, rolling on to all time.""out downWith
this awakened interest, norace thinks it wellfor each man to test to the fill
each of the things wich men from time immemorial have deemed the "gunmum
bonum", with a view to adopting as his one, whichever one seems to have
the most real vaiue, to bring the calmand contentment that are significant of a
life well lived. The decision is amomentousone :"Non qui Sidonio
contendere callidus ostro lescit Aquinatem potantia vellera fucumOcrtius
accipiet damnum propiusque medullis, Quan qui non poterit vero distinguere
falsun. "3 ("He who has not skiil to know now to distinguish from the
purple of sidon, fleeces steeped in Aquinun, will not sustain a more certain
loss or one nearer his heart than he who will not be able to discriminate the
false from the true.")Try virtue first of all. "Si virtus hoc una
potest dare, fortis omissisHoo age delioiis. "1("If virtue alone can
bestow this, manfully give up pleasures, and make her your aim.") Or try
the pursuit of wealth;1 Tme tepates ous, 108 postrene ontts. 2part that squares
the heap.")Or try ambition:"Si fortunatum species et gratia praestat,
Meroemur servum qui diotet nomina, laevumQui fodicet latus et cogat trans
pondera dextram Porrigere. *4("If pomp and popularity secure bliss, let us
buy a slave to tell us the names, to nudge our left side, and force us to
stretch our hand over the counter.")And"Caude quod spectant ocull te
mille loquentem. "5"elonge that a thousand eyes gaze on you as youOr
test the pleasures of food and wine--Ne let fileen Cruad Tumaigue trons,Quad
deceat, guid non, oblitt."b10tus 0 mere apetie eadenith tod
unagesteproper, witt not "gt us takebaths, forgetful what 18Or the
satisfaction of mirth--jests.")Then, having advised each man to try for
hinself, for each must be the best judge of his own life."Metiri se
quemque suo modulo ao pede verun est. "2 a 100t-leht For caoh one to
measure hamsel or hieAnd he will never be sure that one of these thinge might
not have proved the key to happiness until he has used it and found Its
futility, Horace sung up the decision which each is bound to reach.Abstract
virtue is a hollow thing,"Virtutem verba putas etLnoun 11gna,
"3("You think virtue words, and a holy-grove sticks.")As Cioero
says, 4 suitable for a community of disembodied spirits, but hardly fitted to
men who consist of both body andsoul. It is too cold, too remote, andVre guan
satte ca virea, ge petat naen-s Nor will men find wealth any more satisfactory
thanvirtue as a "summum bonun", for its weaknesses are all too
evident. Even granted that it does have many undoubted
advantages,"Soilicet uxorem cum dote fidenque et amicosL Bone numa doret
Suadele eaus due, w2("For of course queen Cash bestows a wife with a
dowry,ney tan le acornid mith Sua bon and Lode .ho man ofhundred; so you will
be one of the masses.")Yet how fleeting wealth 1s!"Quiequid sub terra
est in apricum proferet aetas;Defodiet condetque nitentia. And the summum bonum
must be a permanent thing. rurther-more peace of mind and good health are not
conferred by it--Non animo curas."4ind poia gat ar res tover son the
asting oods bratheir lord, or troubles from his soul.") Nor is pleasure a
necessary accompaniment of riches. Nam neque divitibus contingunt gaudia 80118.
"5("I'or pleasures do not fall to the rich alone.")And his
advice is bad who bide you get money rightly or not,by hook or crook, just so
that you may get a nearer view of the plays of Pupius, for after all, they are
lachrimose plays, and why see them nearer?Besides, in the gest for wealth
alone, you areprone to lose the sense of all other values--("He has lost
his armour, has deserted the post ofполог,who is always slaving, entirely
absorbed in augmenting his fortune.")Ambition cannot satisfy any more than
virtue or wealth, for see the ignominy that it carries with it. One must seek
thefavor and the gifts of the fickle Roman mob"Plausus et antoi dona
Quiritis, "3and make friends of all sorts of peopleUt oulque est atra, Tia
quengue deotus adopta teand although the world applauds a man today, tomorrow
its fickle favore may be given to someone else, leaving 1ts former favorite
stranded, so that only a small taste of the pursuitof ambition will convince a
man that"Nex vixit male, qui natus moriensque fefellit. "5 pass de
not de bad life whose barta and deata have Furthermore the unrestrained
indulgence of theappetite is sure to result disastrously to both body and
mind,there is no ultimate good to be derived from a life of excess, so men must
rejectit, too, as the "summum bonum.""Sperne voluptates; nocet
empta dolore voluptas, "I•("Scorn delights; delight bought with pain
is hurtful.")None of these external things, then, can be regardedas the
"gummum bonum", since not only do they fail to bring the happiness
all men are longing for, but are the osuse of so much of the uncertainty and
distress which plague theworld."Qui timet hig adversa fere miratur eodem Quo
cupiens pacto; pavor est utrobique molestus,Improvisa simul species exterret
utrumque.Sa guto ue ast mette poutare sie ofe ad romDeflixis oculis animoque et
corpore torpet?"?("He who fears their opposites excites himself much
in the same way as he who covets them, the flurry in both cases is a
torment,whenever the unexpected appearanceagitates the one or the other.Whether
one joys orif at every-It is not that in themselves these things are
wrong--only that they are externals and one must not attach too much
significance to them. It is because men have overestimated them that the three
greatest ourses of the age have come upon the world--superficiality,
restlessness, and greed.Since men are always looking for something tangibleas
the secret of happiness they have bedome shallow, have grown to care far too
much for outward appearance, and far too little for inward appearance, and far
too little for inward worth."Si curatus insequali tonsore capilloslee
mediai credis neo curatoria egere("If I have met you with my hair dressed
by theha hare & hreed fa be ants beeatt a fosey tuno,or if my toga sits
unevenly and awry, you laugh;whole round of life, pulls down, builds up,
exchanges the square for the round?lou thinkmine an ordinary madness and do not
laugh, nor yet imagine I want a leech, or a trustee appointedtortune8, and tume
aboutn 12-out na1102 thean ill-out nail of theAnd this same belief that
happiness lies inexternals makes men restless--a feverishness that manifests
itself in the iorm of travelling, forever pursuing the happiness which forever
escapes them. now foolish it is to try to escape the things which batfle one by
seeking another clime!"Sed neque qui Capua romam petit imbre
lutoqueAspersus volet in caupona vivere; nee qui Frigus collegit, furnos et
balnea laudat Lt fortunatam plene praestantia vitam. leo si te validus
lactaverit Auster in alto, Idcirco naven trans Aegaeum mare vendas.Incolumi
Rhodos et mytilene pulohra facit quodr ben 11078, Sextl nonae oantnusrs.Dum
licet et volutem servat fortuna benignum, Romae laudetur, samos et Chios et
Fhodos absene. "2AAQpraise bake-houses and baths as fully making up thebe
praised, and uhois, and far-off Rhodes.")The peace for which men are
searching may be attained anywhere if they only know the secret."Nam si
ratio et prudentia curas,Non locus effusi late maris arbiter aufert.Caelum non
animum mutant qui trans mare currunt.Strenua nos exercet inertia: navibus
atque("So that in whatmay Bay You have lared a pleasent Lite, tor seineit
is common sense and wisdom that remove cares, and not a spot which commands a
wide sweep of sea, their climate, not their mind,they change whorun across the
sea.An active idleness busies us,in ships and carswe seek to live aright.Te Por
totH at u20ra0, 1 a contented sptritThe people are merely consuming time, not
living, who are forever on the march. They exhaust their energies and gain nothing
but discontent.And of these curses of looking to externals forhappiness perhaps
the worst is the ourse of avarice. Why seek for much in the world when one can
use so little and more cannot delight?"Quod satis est ous contingit ninil
amplius optet. "2' dia to whose lot 1a118 a competency, desire nothingThe
grasping continually after more only breeds dissatisfao-tion---There can be no
tranquillity so long as one is subject to an ever-increasing
desire."Semper avarus eget; certun voto pete finem. "3 praye iser 18 ever
in want; aot a fixed 80a1 to yourWhat a misshapen monster avarice is
anyway--"Belua multorum es capitum. Nam quid sequar aut
quem?"4("A many-headed monster you are; for wnat or whom shall I
follow:")As soon as one head is cut off new heads appear, so that it seems
inconquerable."Verum Ta de po sun horan turare preantes, "5How
helpless men are in the olutch of such a power as this, which never gives them
a moment's real rest and peace of mind!How wretched the heat of their desires
has always made mankind, and how heroie 1g the figure of the man who has risen
above them, is well illustrated by Homer's tale of the Trojan war, wherein the
struggling, feverish, dissatisfied Agamemnon and Achilles and Paris
arecontrasted with sane, calm, and prudent men like Ulysses and
westor."Nestor componere litesInter Peliden festinat et inter Atriden; Huno
amor, ira quidem communiter urit utrunque Seditione, dolis, scelere atque
libidine et ira Iliacos intra muros peccatur et extra.Rursus quid virtus et
quid sapientia possetUtile proposuit nobis exemplar ulixen,aspera multa Pertulit,
adversis rerum immersabilis undis. "I ("Nestor makes haste to settle
the strife between the son of Peleus and the son of Atreus; the one is fired by
love and both in common by wrath.and angerThere as Bannin nithin the valls o
ofun and with-Again as to what efficacy there is in virtue in Ulixes.many a
hardship over thewide ocean, a man not to be sunk in the adverse wave of
things.") If the seoret of happiness lies not in wealth, ambition, mirth,
or any of these external things, which in a limited measure may contribute to
the richness of life, but beyond the golden mean, pursued as an end in
themselves, are the cause of so much misery, discarding all such inoidentals
men must look for the real source of happiness within themselves. When men are
dissatisfied, it is not the world which is wrong, but their own attitude toward
the world.In culpa est animus, qui se non eifugit unquam. "Ihates his own.
with the harmless place; it is the mind that is at fault which never escapes
itself.") Two great doctrines Horsoe presones--the wise controlof life and
the wise enjoyment of life.the first thing men must learn is to adapt
themselves to circumstances, to frankly face the fact of the evil and injustice
in the world, to realize that such a thing as periect happiness is nowhere
existent and that all life 18 an adjustment.solue puae posot eret estare
beatum,2 Saost the one ate ony thng Lhat on rate andkeep a man
happy.")Chafing and fretting against the established order of the
universe, against life's seening inequalities, only serve to augment their
hardships. When once men do face the facts of life and bring themselves Into
accord with them, things wich fornerly seemed of greatest moment will be looked
upon with indifference.("Yon sun and stars and the seasons departing
infixed courses there are who view with no tinge of dread.")And it 18 not
only for his individual well-being, but for the benefit of the state as well,
that he have this philosophical outlook upon life. and Bet, to take up beae,
Ios nen to are deer toour country, dear to ourselves.")for ii we are
dissatisfied with our fortunes, our bitterness will taint every relationship in
life, but if we are sane, life will look back at us with the same calm expression--"Sincerum
est nisi vas, quodoumque infundis acescit."?Brow Sout,, ressel 18 olean,
Whaterer jou pour 1aOf prime importance i8 integrity of life. It is not enough
that a man assume all the outward appearance of goodness and make a great
parade of virtue. Qui consulta patrum, qui leges iuraque servat;Quo multae
magnae que secantur iudice lites; Quo res sponsore et quo causae teste
tenentur. sed videt huno omnis domus et vicinia tota introrsum turpem,
speciosum pelle decora. "3evidence cases are gained.but all his household
and theNo Bod thout he 18, Wit beautoous brtn) taz Unless the people no know
him best find him honourable and sincere, he need lay no olaim to worth. Low
senseless 1t 18 to delight in being called good by the world in general, forthat
very world will perhaps tomorrow call him a thief, or unchaste, or say that he
strangled his father. de deserved the commendation they gave him yesterday no
more than the slander they heap upon him today.caliny terig put ede manwao te
Fosous and Leedeto be reformed? It is perfectly clear how pernicious this false
praise is and to what lengths it leads men."Leu, si te populus sanum
recteque valentem Dictitet, occultam febrem sub tempus edendi Dissimules, donec
manibus tremor incidat unctis. If the people keep saying you are in sound and
perfect health, you conceal a hidden fever up to the hour ofR2E2™E60a:till paralysis seize your hands wile filledIn order to deceive the
world they offer sacrifices publioly to the gods, while secretly they are
praying to the gods of trickery to shield their crimes from detection. 3ecause
one is not a thief or a murderer he has no right to demand praise, for he has
his reward already in freedom from pun-ishment. or is it virtue to avoid evil
merely for fear of the consequences--"Iu nihil admittes in te formidine
poenae. "*("You will commit no crime through fear of
punishment.")Good men desire virtue for calm and peace that it brings
them--"Oderunt peccare boni virtutis amore."("Good men hate
sinning through love of virtue.")For it is what you are that really
counts, not what the world thinks. Even the school boy realizes this.("Yet
the boys at their games say: 'You will be king if you act rightly.'However many
of the externals of life fortune man have given a man, if he is weighed down by
the sense of his own guilt or unworthines, he cannot enjoy them. But the
manconsoious of his own rectitude feare neither loss of property or of
life."Si forte in medio positorum abstemius herbiscontestin 1lquidus
sortunae ctrus inauret;vel quia naturam mutare pecunia nescit, Val quia cunota
putas una virtute minora. "2forward, even though Fortune's clear stream
wereFreedom is another element in this wise regulationof life--freedom from all
these externals which so often bring disaster."Ne cOtia divitiis Arabun
liberrima muto. Lor the riones or the drabs,"t freedon of my ledsuz1oon
oiet etterr sede fehe tbao edntere: when hestoops down for a copper fixed in
the orossings, not see; for he who shall desire shall also fear: further, the
man who shall live in fear, I will never regard as free. Once the love of
riches has fastened itself upon a man he cannot escape it. If he only realized
what a hard master it was he would flee from it as the fox did from the lion in
the old fable.Omnia te angersue pattent a renta retroraum."tad, an oe be
aai0, a2 polateIf then, he have wealth, he must place it in its proper
position, else it may take out of his hands the direction of his life--it will
either be his master, or his slave."Imperat aut servit collecta pecunia
culgue, "3("Each man's hoard of money is his master or his
slave.")Horace boasts of his own freedom from the opinionof the
masseg--Noamai ons anotre trote ot putpite afeo, I do not hunt for the
suffrages of the fickle crowd by expensive banquets, and a gift of threadbard
olothes.Not only must a wise man control externals toattain perfect freedom,
but he must practise self-control.He must restrain his anger lest it be a
source of shame and humiliation to him."Qui non moderabitur iraeinfectum
voletesse dolor quod suaserit et mens, dum poenas odio per vim festinat
inulto.Tiperat, hune ente, hune Tu oupese oatera, 2t.that whion vexation and
passion nace prompted, waitoehurrying on with violence the punishment for his
unavenged hate.Ilese 1t 1f the elave, It' 18 theo1ourb it with the bit, yea,
curbAnd his envy, too, must be mastered, or it willmake him utterly
miseraole."Invidus alterius macrescit rebus opimis, invidia Siouli non
invenere tyranni maius tormentum."2("The envious man repines at his
neignbour's goodly• treater foreat than atos t hare not dtscoveredFor while he
is covetous of others' material blessings, he poisons his enjoyments of what is
his own.auriculas citharae collecta sorde dolentes. "3Bre he sane peaure
ta pantie faro to theateof filth.")Let no man surrender to envy of his
neighbor's lot, as did the ox and the nag in the fable."Optata ephippia
bos, pigre optat arare caballugQuan soit uterque libens densebo exerceat artem.
"IWhen men do yield once to the domination of avarice, envy, anger, public
opinion, they have lost their freecom just as did the horse which summoned man
to help him drive out the stag, and then could not shake the rider from his
baok.?And of no less importance is self confidence.A man will accomplish only
so much as he feels himself oapable of. Let hin therefore trust in his own
ability and others will have faith in him.Dux reset examen,n3"Qus elb1
fldot,("Whoso has self-confidence, will be king and head the
swarm.")The second doctrine is the wise enjoyment oflife. Happy indeed
whould you be 11--"Di tib1----dederunt artemque fruend1. "*("The
gods have given you the art of enjoyment.")But at any rate men may develop
their powers of enjoyment. Life 13 so uncertain and so brief, death so final
and always imminent --"Ire tamen restat Numa quo devenit et Anous.
"5("It remains for you to go where iuma and Anous have
descended.")There is no hope of a life after death in norade--it ig an
eternal exile. Yet he is not pessimistic about 1t. Death18 Inevitable; accept
1t as such, and since there 18 only this brief span of years for every man,
ending all too soon in oblivion, let him on that account make the best possible
use of each day--"Carpe Diem" --so that thedoom of death will appear
only as a dark background enhancing the brightforeground of life. Looking
foward, looking backward breed discontent. Think only of the present.The surest
way to get all the possible joy out oflife is to live every day as though it
were the last--Grata superveniet quae non sperabitur hora. "I("Amid
hope and care, amid fears and passions, believe every day has dawned for you
the last; so, welcome shall arrive the hour your will not hope for.")If
men keep this thought ever in mind they will f1ll each moment so full of the
richness of living that there will beno regrets, no joys postponed to a future
day which will never be theirs, when the summons of death does come.This means
that to avoid disappointment men mustenjoy right now whatever the gods may have
given them--"Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam grata sum manu,
neu dulcia differ in annum;HE 200619e 2000 Ter18 133e 21beater("Whatever
hour the deity has blessed you with, dosoever you have been, you may say you
have lived apleasant life.If among these blessings wealth is numbered, let men
not hoard it, but enjoy its benefits--("Po what end have I a fortune if I
am not permittedThe man who spares in anxiety for hisneima., no 18 all too
severe 18 next door to a For there is much to enjoy in ine world--andmost of
the really worth while sources of pleasure are within the reach of all. shere
18 health--There are all the delights of the country and out-of-door
life--"Ego laudo ruris amoenirivos et musco circumlita saxa nemusque.brown
rocks and wood.king, as soon as I have lorsaken tnose soenes you extol to the
skies with loud acclaim.") And--"Novistine locum potiorem rure beato?
Tenat ef Taoe conle er onete ont uraCumsemel accepit Solem furibundus acutum? Est
ubi divellat somnos minus invida cura?Deterius Mbyois olet aut nitet herba
lapillis?"4("Know you a place preferable to the blessed country?I
nore Leasant bree2e allays ailke te tury of treDogstar and the commotions of
the Lion, when once he has gone mad by receiving the stings of the Sun?Is there
a spot where envious care less distraots our slumbers? Is the scentThere is
simple food which nourishes without distressing--"Pane egeo iam mellitis
potiore placentis. "I"Besad, is what I want now more pleasant than
hondedThere is sunshine, free to all, of which norace is 8o fond--"golibus
aptum. "2How foolish it is to want more when these things, if properly
regarded, will make one's life rich and blessed--The wise nan will learn to
value and employ what is within his reach.Not the least of the joys of life is
friendship.There is a deal of the utilitarian point of view in orace's advice
about sooial interoourse. The life of a reculse cannot be the richest one,
contact with other people is both necessary and valuable. Ae Epicurius said,
"Friendship enhances the charm of life; it nelps to lighten sorrowe and heighten
ine joys of fellowship." Hence it is to a man's advantage to make himself
as agreeable as possible. temust not pry into people's secrets--"Arcanum
neque tu sorutaberis illius unquam. "1nYou must never po dato secret on
the meetbut when they have been confided to him, he must keep
them--"Commissumque teges et vino tortus et ira. "2"a teraladon
a trust, thouga plied alike mita vineFor"Et senel emissum volat
irrevocabile verbum. A word once let slip, flies beyond recall.")He must not
be boorish, merely to prove that he 18 a man of Independence and stannia, for
thereby he simply makes himselfObnoxioug~~"Asperitas agrestie et
inconcinna gravisque. A boorish rudeness, at once unlovely and
offensive.")When he takes up the oudgels in defence of some
trifle--"Alter rixatur de lana saepe caprina,Propugnat nugis armatus. Equally
disgusting is the fellow who slavishly bows to every opinion of his host merely
to keep his favour--"Sic iterat noces et verba cadentia tollit,Ut puerum
saevo credas dictata magistro Reddere vel partes mimum tractare secundas.
"6actor in a farce handling the seoond part.")Horace gives a deal of
sound advice about the relationship of client and patron. There are numerous
duties whioh a client owes to his patron in return for his favor.First, he should
be grateful for the gifts he receives:-An rapias. "Pistat, sunasne
pudenteror tense a tans erence waether you take with modestySeoond, he should
be willing to share cheerfully in his patron's chosen pastimes.or blamebe you
for composing poetry.")"¿u cede potentia amici"So do you give
way to the mild requests of your power-Because even the closest bonds of
friendghip have been broken because of dissimilarity of tastes and
unwillingness to compromise. It is foolish to try to dress and live in
anextravagant way as one's patron does. The patron knows only too well his
client's ciroumstances and will despise him for trying to imitate him when he
cannot afford it. By all means let him not complain of trifles, but bear
hardships without grumbling."Brundisium comes aut Surrentum ductus
amoenumQui queritur salebras et acerbum frigus et imbres, Aut cistam effractam
et subducta viatica plorat,("He who has been taken as a companion to
Brundisium, or lovely Surrectum, and complains of the jolting roadsSion one ote
1059 014 Ba11 ao an ance,Beatet.-poon erer her real 10sse8 and sortowe get
noAnd further he should try to appear cheerful for the benefit of those around,
for--"Demesupercilio nubem; pleurumque modestus Occupat obscuri speciem,
taciturnus acerbi."3If the client finds that he is humiliated by
patronage, loses his independence and his self respect, if his patron i8 the
sort of man no makes presents only of what he cares nothing ior and dislikes,
as the host woo pressed upon his guest pears that were so plentiful that wat he
refused, went to the pigs, then he had much better break off therelationship,
for it is degradation.Wen should be most careful of their choice offriends, so
that when accusations assail one who is well known, they may protect him and
back him up. I and it pays to have a rezard for the wishes of others, even if
it costs a little effort, for--"Vilis ancorun est annona, bonis ubi quid
desset."? went are & of arlends 18 Low, when those who wantAnd it is a
source of shame to a man to be mock-modest and refuse to help another when it
is in his power to do so--("But I was afraid I might be thought to have
undervalued my influence, a dissembler of my true power, profitable to mygelf
alone.") Tact is absolutely necessary to success in a social way. There is
a proper time for everything, as Horace warns Vinius Asina when he commissions
him to present books to Caesar. One must be careful not to intrude upon the
great, but must await a suitable opportunity, lest by his excessive zeal he
offends the one he would please. Conceit is unbearable and will destroy
friendship. Ut tu fortunam, sio nos te, Celse, feremus. "5("As you
bear your fortune, so shall we yourself, Celsus.")Just how highly dorace
valued social interoourse isshown by his careful instruotions to orquatus on
the duties of host and guests. The host should be most discriminating in his
choice of guests so that all may be congenial--Jungatur que part, "loeat
par("That like meet and be associated with like.") and that all be
the kind which will not make friendly table conversation a matter of gossip
outside--sit qus atota forae edemthet. andoos("That amidst our faithful
friends there be none to carry our talk abroad.") A friendship of long
standing is an invaluable thing and not lightly to be broken, as he warns
Julius Florus, who has become estranged from lunatius. The best possible
summary of Horace's philosophy of life is his own prayer. Sit mihi quod nuno
est, etiam minus, et mihi vivamQuod superest aevi,si quid superessevolunt diSit
bona librorum et provisae frugis in annumneu fluitem dubise spe pendulus
horae.Sed satis est orare Iovem quae donat et aufert;Det vitam, det opes,
aequum mi animum ipse parabo. "4Inay ire 2or aselt the renaindes ofidarg,
1onsI may live for myself the remainder of my gods will any to remain for
me.May I havegood stock of books and of provisions for each year, trembling on
the hopes of the man.
Grice ed Ordine – BRVNO – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Diamante). Filosofo italiano. Professore a Calabria.
Rriconosciuto come uno dei massimi studiosi del Rinascimento e Bruno. Ben noto
ai lettori per i suo eccellente saggio su Bruno, è anche uno dei migliori
conoscitori attuali del milieu sociale, artistico, letterario e spirituale
dell'età del Rinascimento e degli inizi dell'Età moderna.Sigillo d’Ateneo
dell’Urbino. Centro di Studi Telesiani,
Bruniani e Campanelliani. “L' utilità dell'inutile” (Milano, Bompiani). Opere:
“La cabala dell'asino”, “Asinità e conoscenza in Bruno” (Teorie & oggetti,
Napoli, Liguori, Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo); “La soglia dell'ombra -- Letteratura, filosofia
e pittura in Bruno” (Venezia, Marsilio); “Contro il Vangelo armato: Bruno, Ronsard
e la religione” (Milano, Cortina); “Teoria
della novella e teoria del riso” (Napoli, Liguori); “Tre corone per un re.
L'impresa di Enrico III e i suoi misteri” (Milano, Bompiani). Classici per la
vita. Una piccola biblioteca ideale, Collana Le onde, Milano, La Nave di Teseo,
Gli uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere” (Milano, La Nave di
Teseo). Grice: “Some like Bruno, but I don’t – for one, he was a PRIEST before
he was burned – no philosopher *I* know is a priest. Being a priest, as A. J.
P. Kenny well knows, disqualifies you as a philosopher. Campanella was a priest
too, and I’m not sure about Telesio. I mention the three because while there is
a Keats-Shelley Association in Rome, only the Italians can think of ONE centro
di studi TELESIANI, BRUNIANI e CAMPANELLIANI – enough to have a triple split
personality!” Nuccio Ordine. Ordine. Keywords: Bruno, futilitarianism, riso,
risus significant laetiia animae – il sorriso di Macchiaveli, centro di studi
telesiani, divenne centro di studi telesiani, bruniani, e campanelliani! –
telesio not a priest!--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ordine: l’inutilita
dell’utilitarismo di Geremia Bentham” – The Swimming-Pool Library.
Grice
ed Orestada – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. A Pythagorean cited by Giamblico. He freed Senofane from slavery – as
cited by Diogene Laerzio.
Grice ed Orestano – l’opzione eroica – filosofia
italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Alia). Filosofo italiano. Self-described as a
‘Federalista siciliano’ --. Grice: “There is something pompous about Italian
philosophers and their isms – Orestano’s ism is the superrealism!” Grice: “When I was invited to deliver my
lectures on the conception of value, I was hoping it was a first, but Orestano
had written two big volumes on it!” – Studia a Palermo. Insegna Palermo, Pavia,
e Roma. Collabora con Marinetti nella concezione del futurismo, e lavorando ad
alcune pubblicazioni comuni. E inoltre vicino alle idee politiche, collaborando
tra l'altro con “Gerarchia.” Invitato da Balbo nella Libia italiana, difende gli
ideali e gli intenti italiani in contrapposizione al nazionalismo. E eticista,
fenomenologo e promulgatore d'un'idea filosofica positivista che egli stesso
denomina “super-realismo.” Si ritira a vita privata nel su palazzo di Roma per
dedicarsi alla sua opera principale “Nuovi principi” (Milano, Bocca). Membro
dell’Accademia d'Italia e della Società filosofica italiana e dell’Istituto
Siciliano di Studi Politici ed Economici. Autore di noti aforismi, a lui sono
intitolate una via di Roma e una scuola di Palermo. Saggi: “Opera omnia”
(Padova, C. E. D. A. M.); “Comenio”, Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti
della scuola”, Angiulli, Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della
scuola”, A proposito dei principi di pedagogia e didattica” (Città di Castello,
Alighieri);“Un'aristocrazia di popoli -- saggio di una valutazione
aristocratica delle nazionalità” (Milano, Treves); “Verità dimostrate, Napoli,
Rondinella); “Opera letteraria di Benedetta, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia);
“Esame critico di Marinetti e del Futurismo” (Roma, Estratto dalla
"Rassegna Nazionale"); “Civiltà europea e civiltà americana” (Roma,
M. Danesi); “Nuove vedute logiche” (Milano, Bocca); “Il nuovo realismo”
(Milano, F.lli Bocca); “Verità dimostrate, Milano, Bocca); “Idea e concetto” (Milano,
Bocca, Celebrazioni I, Milano, Bocca Editori, Celebrazioni, 2, Padova, MILANI, “Filosofia
del diritto” (Milano, Bocca, Gravia levia, Milano, Bocca); “Saggi giuridici,
Milano, Bocca); “Verso la nuova Europa” (Milano, Bocca); Prolegomeni alla scienza del bene e
del male, Milano, Bocca); “Leonardo, Galilei, Tasso” (Milano, Bocca); “La conflagrazione
spirituale e altri saggi filosofici” (Milano, Bocca); “Pensieri, un libro per
tutti”; Studi di storia della filosofia”; “Kant”; “Rosmini-Serbatti”; “Nietzsche”;
Contributi vari, studi pedagogici, studi danteschi; Aligheri e saggi di
estetica e letteratura; conversazioni di varia filosofia; corsi, ricerche e conferenze,
studi sulla Sicilia, Filosofia della moda e questioni sociali, Dizionario Biografico degli Italiani, E. Guccione,
L'idea di Europa in Federalisti
siciliani tra XIX e XX secolo, A. R. S. Intergruppo Federalista Europeo,
Palermo, E. Guccione, Da un diario una nuova pagina di storia, in La politica tra storia e diritto, Scritti in
memoria di L. Gambino, G. Giunta” (Angeli, Milano); Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Quando i vincitori scrivono la storia della
filosofia: il caso di F. Lamendola, Arianna, O. Castellana, Il rapport tra stato e Chiesa nel
pensiero politico, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. I valori
egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli
valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono
espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta
dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi
va speciali, così, quando adopera
i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico –
con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o
quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi.
Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi
quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza
concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò
che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora
si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio
o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che
modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione?
Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda
può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si
noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della
volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali
restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o
anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due
forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per
esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad
arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può
raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante
per . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale
di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio
della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di
valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti
concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI
VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le
quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola
dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di
volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le
variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE
ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più
importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO
DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore
di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il
valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL
DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE
al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno
si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza
concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la
circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula
sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione
materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr. glianze. Invece
L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore.
La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui
si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se
la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica
si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la
circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un
proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W
(99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al
danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per
quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si
associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La volizione
altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per
attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza
aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u).
Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore
della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W
(ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) >
W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U)
W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0
W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con
segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di
queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come
indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque
riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla.
‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della
volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si
è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di
una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla
determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE.
L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante
constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti
concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori,
dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel
modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità
della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e
repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra
affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi
come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si
comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai
valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL
PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U)
(U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni
ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di
“Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione
delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al
polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto.
Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi
quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi
delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta. (ū) si possono
fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore
nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio
iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al
momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò
facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale,
allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la
volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo
che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui.
In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione
iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati
fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente
concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra
loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la
maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col
proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui.
Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui
si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o
grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s
duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL
CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione
che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde
alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi
tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose
dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal
semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi
comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in
principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra
l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di
questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della
valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”.
Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”,
si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre
il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra
del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i
termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una
semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse
altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse
altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande
interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più
basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto
di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può
esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti
proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e “r”.
Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono necessarie
talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora
i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE
D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui
si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e
che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante
e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F , 1 W(ru) = Cg -0 Y Y
g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0
, , limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= –
00. pure evidente, che la
trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE
è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore
dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando
però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà
pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla
grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che
l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si
sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula.
Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si
determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono
mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per
far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a
“g” ogni volta una costante “c” o “c '”. Queste formule non modificano i limiti
funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la
formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C , lim W (gu) = - ' Sin qui
abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però,
se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente,
supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore?
Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così
le formule. T r W (ru) = 0 9 + c g +di e
Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore
deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il
valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può
riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso
valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà
un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E
se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare
quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO
DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e
per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo
colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al
posto di “r”. Sicchè si avranno i
seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di
alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula
del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y
gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0
T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0.
Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a
colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di
tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or
ora ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri
guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande
valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di
piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto
PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale
(1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti
estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno
distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il
punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di
una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti.
Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO
D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O
INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui,
positive, o, come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”,
cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la
formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >. Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di
binomi: gr g+1 1 T (go+ 1)r.
Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due
binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Recenti studi sui valori morali in Italia. TAROZZI
comunica al congresso di psicologia (Roma) un programma di etica scientifica,
sotto il titolo: Sulla possibilità di un fondamento psico logico del valore
etico. I risultati dell'indagine psicologica sono capaci di assumere importanza
di fondamento e di criterio nella determinazione del valore etico delle azioni
umane e nell'apprezzamento etico degli individuiumani? Questo il
problema.Tarozzi crede possibile una risposta affermativa, e ne dà le ragioni.
Il valore etico è il risultato di un apprezzamento morale. L'apprezzamento
morale è funzione della coscienza morale, che si forma in noi storicamente e
psicologicamente. E siccome lo studio della formazione storica si risolve pure
in un'indagine psicologica, così la vera sede della dimostrazione del valore
etico è la psicologia. A ciò non si può opporre, che il valore etico dipenda
direttamente dal fine etico, e che questo per l'assolutezza sua (o teologica o
categorica) sia indipendente dalla causalità psicologica e antropologica. Giacchè,
anche ammessa questa indipendenza del fine etico, nulla vieta che essa riceva
una interpretazione psicologica e antropologica. Si può cioè voler sapere come
sia possibile nella realtà (umana) il fine etico, e ciò conduce anche a
interpretare la relazione dei valori etici con quei fini, e a trovare il
criterio per la valutazione morale degl’individui umani. Fra il principio
assoluto e l'atto concreto,più ancora fra quel principio e l'individuo, intercorre
la eterogeneità più radicale. Per giudicare quindi se l'atto compiuto o da
compiersi stia in un giusto rapporto col principio, è necessaria una
interpretazione psicologica. Senza questa interpretazione la valutazione etica
alla stregua dei principi assoluti non può farsi. Ove poi si abbia un concetto
non teologico, nè categorico del fine etico, la psicologia può darne non solo
l'interpretazione, ma anche, coll'aiuto dei dati dell'antropologia e della
sociologia, una vera e propria dimostrazione. L'ufficio della psicologia nella
dimostrazione del fine etico è anzi assai più rilevante, perchè da questa dimo
strazione dipende. Primo se il principio sia ammissibile oppur no. Secondo, quale
valore etico abbiano le azioni e gl'individui in base al principio dimostrato.
Ma non a questo si ferma l'ufficio dellapsicologia nella morale. Volendo
fondare un'etica, umanistica nelle sue basi,e umanitaria nelle sue norme,
un'etica cioè rispondente alla concezione di un significato morale della vita
umana,la coscienza del quale giusti fichi, non in senso di fine, m a in senso
di fondamento, i particolari propositi delle volizioni umane, la psicologia
porterebbe i più decisivi elementi a una tale concezione della umanità. La
psicologia è scienza sovrana nell'àmbito dell'etica umanistica. Senza di essa è
impossibile la ricerca di un significato morale della vita, che assuma valore
di fine dopo essere stato fondamento e criterio, e risponda alle tendenze onde
la moralità positiva si svolge nella storia dell'umanità. Oltre a questo
contributo diretto della psicologia all'etica, vi sono gl'indiretti,
consistenti nella difesa,che solo la psicologia può fare contro lo scetticismo
morale. La legittimità di una valutazione etica, che abbia forza di per sè, si
suole negare da chi crede che il bene e il male siano risultato di convenzioni
sociali più o meno inveterate, mutabili secondo i vari tempi e I bisogni, e non
rispondenti a una costante necessità della vita e della natura umana. Per
riparare dallo scetticismo si è ricorso o all'utilitarismo o alla metafisica. Ora,allo
scetticismo e anche ai suoi falsi rimedi (l'utilitarismo e la metafisica) non
può opporsi efficacemente che la ricerca psicologica. Essa sola, riuscendo a
determinare positiva mente le concezioni fondamentali del valore morale, porge
argo menti di difesa sia contro la negazione di un fondamento reale e
necessario del valore etico, sia contro le affermazioni erronee od arbitrarie
di esso (1). Un esempio importantissimo dà Tarozzi dell'ufficio della
psicologia nell'etica, accennando ai problemi concernenti la ricerca dei
fondamenti psicologici della solidarietà o dei fondamenti naturali di essa,
come li chiamava Genovesi, opportunamente ricordato dall'autore. Questo esame
particolareggiato comprende la crudeltà e le sue varie forme, la simpatia, così
in generale, come nelle sue due manifestazioni principali, gl’atti di cortesia
e di protezione. Le dispute sulla natura umana, così conclude Tarozzi, attendono
la loro decisione non dagli argomenti del razionalismo, ma dai fatti che la
psicologia può rivelare e valutare. Quando fosse dato di stabilire, che non è
generale nell'uomo l'avversione al potente, ma allenatureavare, fredde, crudeli,
quando si potesse esplorare in un àmbito sempre più vasto l'estensione dei
fatti e degl'istinti della simpatia, sì da rendere legittimo il costituire con
essi il concetto dell'umanità, questa umanità sarebbe il fondamento di una
morale immanente, estranea, benchè non opposta, all'utilitarismo. Quando si
potesse attribuire positivamente, cioè psicologicamente e antropologicamente,
un valore definitivo al rapporto di solidarietà, e stabilire che esso risponde
a un istinto originario, valido per se stesso,e non per l'esperienza della sua
utilità, sarebbe tolta all'utilitarismo quella base consistente nella
proposizione universale, che l'uomo agisce per il suo utile. Ne c'è da temere
che i dubbii della ricerca psicologica si riflettano nella morale, perchè i
risultati che la psicologia ci potrà offrire non avranno valore di
modificazione del contenuto normativo della morale, ma bensì tenderebbero
a modificare il carattere formale di essa, come dottrina del dorer essere e
come scienza. Al Congresso medesimo Calò presenta una comunicazione intorno
alla Calderoni ritiene che l'assenza della ricerca e della sufficiente analisi
di quello ch'è il fatto ultimo e irriducibile su cui poggia tutta la vita
morale, il giudizio etico, ha impedito il costituirsi dell'etica come scienza.
Molto ha anche nociuto “la nessuna, o quasi, distinzione che si è fatta tra il
giudizio etico e il giudizio teoretico o conoscitivo, La morale deve invece
ricercare come ogni altra scienza, dei fatti ultimi, elementari, irriducibili
su cui fondare l'edificio autonomo delle proprie investigazioni. L'elemento
irriducibile, la realtà ultima, da cui deve prendere le mosse ogni dottrina
morale, è un fatto psicologico, un sentimento, non uccidere per esempio, apparterrà
sempre al contenuto normativo della morale, qualunque conclusione possa trarre
la psicologia intorno agl'istinti di pugnacità e di ferocia. Ma se le
conclusioni intorno al fondamento umano delle tendenze alla solidarietà e alla
simpatia saranno negative, l'etica e un sistema dottrinale, la cui imposizione
presenta i caratteri della accidentalità e della fluttuazione dei fatti
sociali, oppure i caratteri trascendentali metafisici o religiosi; e perciò la
valutazione etica e una gradazione fondata su altra base, non su quella della
realtà effettiva dei fatti umani. Se invece quelle conclusioni saranno
positive, l'etica, assumendole come sue proprie, avrà a fondamento il
significato psicologico e antropologico dell'umanità morale e potrà
scientemente stabilirei valori umani in relazione conesso. Infine TAOROZZI ri-assume
il suo credo in queste parole, che tutto si debba attendere dalla scienza, e
che essa sola possa spiegare un giorno perchè abbiano universale valore massime
conversazionali come queste: Non uccidere u ‘non mentire,’ “Ama il tuo prossimo.
Ogni qual volta noi giudichiamo del valore morale d'un sentimento, d'un'azione,
d'una determinazione volitiva, tale giudizio si presenta alla nostra coscienza
con un sentimento particolare di approvazione o di disapprovazione. L'esame
retrospettivo ci dice, che quel giudizio non risulta da un meccanico
sovrapporsi dei concetti del soggetto e del predicato (buono, giusto, ecc.),
dal paragone delle loro estensioni e connotazioni rispettive, dalla rivelazione
pura e semplice del loro rapport. Ciò che interviene, e ciò che più importa, è
il sentimento di approvazione o di disapprovazione, di adesione o di
ripugnanza. Qui si presenta un problema fondamentale. Trattasi di vedere se il
sentimento di approvazione o di disapprovazione accompagni semplicemente, come
effetto o come carattere, la rivelazione del rapporto in cui l'obbietto
considerato è con quel predicato. O se quel sentimento appunto renda possibile
la costituzione del predicato e quindi, mercè la capacità di riferimento
propria della ragione, l'enunciazione del rapporto. Questo problema non può
essere risoluto senza una analisi comparativa del giudizio conoscitivo e del
giudizio valutativo. E quest'analisi mostra appunto che, mentre nella funzione
conoscitiva il sentimento è un sopraggiunto, nella funzione valutatrice è, al
contrario, costitutivo del rapporto. Conoscere è constatare, attingere ciò che
è; mentre nel valutare, l'atteggiamento dello spirito non è di chi constata, ma
di chi reagisce. Non di chi afferma e riconosce l'essere, ma di chi vi aggiunge
qualcosa risultante da ciò che in lui non corrisponde, ma risponde alla realtà
conosciuta. E l'atteggiamento non di chi afferma o nega, ma di chi si
sovrappone alla realtà, o che le assenta o che le si ribelli, sia che lodi, sia
che condanni. Mentre, per il teoretico, il sentimento è un accessorio
trascurabile, per il moralista, esso è la vera realtà etica, poichè il senti
mento serve a caratterizzare qualsiasi obbietto di giudizio etico. In ultima
analisi, ogni giudizio etico si riduce ad approvazione o disapprovazione d'un
sentimento, d'un istinto, d'una volizione, d'un'azione. Ora l'approvazione e la
disapprovazione non sono che due speciali sentimenti, due forme diverse
d’uno stesso sentimento, il sentimento del valore. Ilgiudizio etico, dunque, intanto
è possibile in quanto si compie una sintesi fra l'obbietto conosciuto e la
ragione valutativa ch'esso suscita in noi. E, insomma, questa stessa reazione
che costituisce tutto quanto noi diciamo di quel fatto qualsiasi ch'è assunto
come soggetto del giudizio. Si direbbe che quel fatto tanto ha di realtà etica
quanto e come vive nel senti mento valutativo. Questo poi varia e quasi si
determina e si atteggia diversamente secondo gli obbietti a cui si riferisce, e
di venta volta a volta sentimento del giusto, del buono, del santo, dell'eroico
o dei loro contrari, di rimorso o di auto-sodisfazione, di rimpicciolimento o
di stima di se stessi,di pace dell'anima, ecc.; di modo che può dirsi che
ognuna di queste determinazioni del sentimento di approvazione e di
disapprovazione ha una sua individualità e che l'analisi di esse ci dà
l'analisi di tutta la coscienza morale. Il sentimento del valore, come fatto
fondamentale della coscienza etica, si pone a norma della realtà interiore e
dispone gerarchicamente i vari istinti e le varie tendenze. Un'altra sua
proprietà è anche quella di avvertire ogni atto che rappresenti un non-valore
come un'intima contradizione, il che dà luogo al sentimento particolare
dell'obbligazione. Il sentimento del valore è dunque di sua natura tale da
assumere, di fronte al resto della realtà psichica, un'attitudine speciale e da
contrapporre all'esistenza di fatto un'esistenza di diritto. Esso si distingue
profondamente dal piacere e dal dolore, perchè questi sono stati subbiettivi
interessanti semplicemente l'individualità del soggetto, mentre ilsentimento del
valore è obbiettivo anche rispetto alla individualità del soggetto che giudica.
Il sentimento del valore oltrepassa la sfera della mia utilità o del mio
benessere individuale; sono io che sento, ma non perme. Altro carattere
differenziale è questo, che nei sentimenti di piacere e dolore lo stato
subbiettivo è confuso con l'oggetto della rappresentazione, mentre nel
sentimento del valore, l'oggetto è nettamente distinto dall'atto valutativo e
può essere rappresentato come obbietto di conoscenza teorica. Ciò ch'è
piacevole e spiacevole non esiste che nel sentimento e per il sentimento, mentre
ciò ch'è valutato è chiaramente rappresentato di fronte all'atto giudicativo, è
insomma conosciuto. Non si può valutare se non ciò ch'è ben noto, tanto è vero
che la valutazione si presenta spessissimo sotto forma di preferenza e il
valore viene appreso comparativamente ad altri come plus-valore o come minus
valore. Sebbene il giudizio di valore abbia il suo punto di partenza nel
sentimento,esso non esclude, anzi richiede necessariamente l'intervento della
funzione conoscitiva, la quale prepari il terreno su cui possa esercitarsi la
funzione apprezzativa. La grande varietà dei giudizi morali osservabile fra
individui diversi dipende appunto dal diverso modo come sono appresi e
considerati gli obbietti,dai diversi elementi che ci pone in luce la funzione
conoscitiva. Così, mentre l'analisi del processo della valutazione etica è
compito della psicologia morale, gli obbietti a cui le nostre valutazioni
morali si riferiscono non possono esser tratti analiticamente dalla natura
stessa dei nostri sentimenti di valore. Essi possono essere determinati in
parte in base alla considerazione di rapporti for mali della volontà, in parte
in base all'esperienza storica e sociale, quale è studiata dall'etica storica comparative.
Calderoni, nelle sue Disarmonie economiche e disarmonie morali, si è
recentemente proposto di porre in rilievo talune concordanze fra le leggi
economiche del valore e della rendita e le valutazioni morali sociali. In tal
modo egli crede che l'economia politica possa apportare un contributo positivo
alla scienza della morale e aiutarne il definitivo costituirsi. La vita morale
può considerarsi, così Calderoni, come un vasto mercato, dove determinate richieste
vengono fatte da taluni uomini o dalla maggioranza degli uomini agli altri, I quali
oppongono a queste richieste una resistenza, secondo i casi, maggiore o minore,
e richiedono alla loro volta incitamenti, stimoli, premi e compensi di natura
determinata. Questi stimoli o incitamenti prendono la forma sociale di
approvazione e di biasimo, di lodi, di gloria, di premio e punizione. Premesse
alcune nozioni intorno alla legge dell'utilità marginale e alla formazione della
rendita, non soltanto fondiaria, ma anche, in generale, del consumatore e del
produttore, Calderoni accenna più particolarmente a due specie di disarmonie
economiche che si verificano nei fenomeni di rendita. La prima è conseguenza
del principio che, data la unicità del prezzo in un mercato, il compratore e il
venditore realizzano un vantaggio, rappresentato dalla differenza tra ciò che
sarebbe bastato a indurli a comprare o a vendere la singola dose in questione,
e ciò che, per effetto del mercato, vengono a ricevere. Ora, se i prezzi sono
proporzionali ai costi marginali delle merci, essi non sono proporzionali ai
costi di tutte quelle dosi che non sono al margine. Tutti coloro che si trovano
più o meno lontani dal margine di produzione o di i mezzi di produzione si
trovano infatti in quantità limitata e variano grandemente per qualità ed
efficacia, sicchè la produzione si compie in condizioni differentissime da
diversi individui,e l'au mento di produzione fatto con mezzi più costosi, mette
quelli che impiegano i mezzi più facili in una posizione privilegiata, ch'è poi
quella da cui la rendita deriva. Queste e altre considerazioni mostrano, che il
fenomeno della rendita non si può correggere mai assolutamente, e che dà luogo
a vere e proprie disarmonie economiche. La seconda specie è descritta da Calderoni
così. Supponiamo che sia raggiunta in un modo qualsiasi l'abolizione dei più
stri denti ed evidenti fenomeni di rendita. In tal caso tutti iprodut consumo
si trovano a fruire di un prezzo, che basta soltanto a rimunerare quegli individui,
i quali cesserebbero dal produrre se il prezzo ribassasse; e godono perciò di
un vantaggio differenziale, o rendita, più o meno grande. Nè è possibile la
correzione automatica del fenomeno della rendita, mediante aumento di
produzione da parte di quelli che guadagnano di più, e conseguente ribasso di
prezzi, perchè non sta ad arbitrio dei produttori di ottenere in quantità
indefinita le merci in quistione. tori riceverebbero retribuzioni equivalenti,
per ciascun loro pro dotto, a ciò che è necessario e sufficiente per indurli
alla loro produzione. E nondimeno non si potrebbe ancora affermare che
all'eguaglianza di retribuzione per i produttori dei diversi prodotti
corrisponda una intima ed effettiva eguaglianza nei sacrifizi o nel lavoro che
il prodotto costa a ciascuno. La misurazione di questo rapporto implicherebbe
la conoscenza dei bisogni e dei desideri più intensi, dei sacrifizi più gravi
per ciascun individuo e porterebbe a risultati assai diversi. Dal fatto che due
individui sono disposti a dar la medesima somma per una merce o a contentarsi
di una data somma per un servigio, nulla può dedursi intorno alla in tensità
del desiderio che hanno o del sacrificio che fanno : come dal fatto che due individuisi
scambiano una merce, non puòde dursi che chi la cede la desideri meno di chi
l'acquista. Dal persistere di queste differenze è condizionata un'altra serie
di disarmonie economiche più sottili e più intime e per loro na tura
irriducibili, perchè persisterebbero anche quando si riuscisse a stabilire
rapporti equivalenti o eguali sul mercato. Dopo questi cenni Calderoni passa a
rilevare le analogie tra fatti economici e fatti morali, le quali renderebbero,
a suo giudizio, possibile una concezione economica della morale. Anzitutto, non
meno in morale che in economia, ciò di cui effettivamente si giudica è, non il
valore complessivo o generale degli atti e delle attitudini, di cui s'invoca
l'adempimento o l'osservanza; ma il loro valore marginale e comparativo, valore
atto a variare e col numero di questi atti effettivamente compiuto dagli
uomini,e col numero altresì di quegli altri atti, cui si rinuncia per compierli
Vi è nella vita una gran quantità di
atti ed attitudini, che pure essendo di una incontestabile utilità, puressendo essen
ziali alla conservazione ed al benessere della convivenza umana, non entrano
nell'ambito di ciò che noi chiamiamo la morale. Perchè? Con ciò Calderoni
vuole opporsi a tutta quanta la tradizione intuizionistica e kantiana in
filosofia morale. Gl’atti morali non hanno alcun valore assoluto, ma un valore
esclusivamente marginale e comparativo. Perchè nonostante la loro
desiderabilità astratta, nonostante i vantaggi totali che la società ritrae dal
loro adempimento, vantaggi certamente assai maggiori, nel loro complesso, a
quelli degli atti che la morale esalta; essi sono tuttavia atti di cui non è
deside rabile un ulteriore aumento, la cui DESIRABILITA marginale comparata, in
altre parole è zero o addirittura negativa. Gl’atti prodotti dall'istinto
personale di conservazione o da quello della riproduzione della specie non sono
considerati virtuosi, perchè, ben lungi dal richiedere un incitamento, essi
richiedono freni, gl’uomini essendo piuttosto proclivi ad eccedere che a
difettare in essi, e a sacrificar loro l'adempimento di altre funzioni che sono
marginalmente o comparativamente PIU DESIRABILI. Le nostre tavole di valori
contengono tutte quelle cose, per ottenere un aumento delle quali, in noi
stessi o negli altri, siamo disposti a de terminati sacrifice. Ma non già tutte
le cose che possono apparirci DESIRABILI. Col crescere delle azioni virtuose
esse tendono a diminuire di valore, come analogamente il diminuire delle azioni
viziose tende a render meno disposti a far dei sacrifici per diminuirle
ulteriormente. Ond'è sempre concepibile un limite, naturalmente molto diverso, secondo
i casi, oltre al quale il vizio, di verrebbe una vizio, viene infatti per la
domanda e per l'offerta etica lo stesso che per la domanda el'offerta economica.
In una società di completi altruisti avrebbe pregio l'egoista. L'ALTRUISMO è
una virtù il cui valore è strettamente connesso colla presenza di egoisti o
almeno di non altruisti nella società. Queste considerazioni confuterebbero la
legge morale di Kant, che prescrive di seguire massime capaci di divenire
universali. Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame fatto
rigorosamente in base a questo criterio. Moltea zioni sono per noi un dovere, appunto
perchè gl’altri uomini non le fanno e rimangono tali a condizione che non siano
troppi gli uomini capaci e volonte rosi di imitarle. Come in una barca
sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende
strettamente dal nu e la un virtù, virtù, mero di persone sedute
dalla parte opposta. Se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il
capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle
buone volontà dei passeggieri. Si può credere che si possa ovviare a questi
errori particola reggiando quanto più è possibile i precetti e le sanzioni,
individualizzandole in grado estremo. Ma alla stessa maniera che in un mercato
non si può variare il Prezzo secondo gl’avventori, così alla legge
d'indifferenza del mercato, corrisponde una legge d'indifferenza morale, per
cui sono stabilite regole comuni non troppo discutibili e sanzioni precise, non
atte troppo a variare e applicabili alla media dei casi. La necessità di dare
precetti e sanzioni generali dà luogo a fe nomeni analoghi ai fenomeni di
rendita. Alla generalità e rigidità della legge morale farà contrasto la
varietà delle condizioni individuali, per le quali si verificheranno vantaggi e
svantaggi differenziali da individui a individui. Il dovere per ciascuno sarà
di fare, non già quello che nel suo caso è il meglio o l'ottimo, ma ciò che in
media è meglio che gli uomini facciano di più,di quanto ora non facciano. Non
agendo così egli si attirerà una sanzione, che nel suo caso, potrà anche
talvolta essere immeritata. Le pene e i premi hanno un costo marginale che cresce
col cre scere della loro severità e grandezza,e colla loro estensione; mentre
colla loro estensione diminuisce la loro efficacia marginale. La gloria e
l'onore, come l'infamia, diminuiscono rapidamente di efficacia quanto maggiore
è il numero degl'individui che ne frui scono o soffrono. Così alcuni si
troveranno a godere di lode o gloria molto superiore al loro merito,
individuale, per avere compiuto azioni, poniamo, talmente conformi al loro
carattere che sarebbe piuttosto stato necessario punirli, se si fosse voluto di
ciò premesso, Calderoni trova le analogie fra le disarmonie economiche e
morali. stoglierli dal farle. Altri subiranno invece biasimo o infamia di gran
lunga sproporzionata alla loro colpa. Se poi i precetti e le sanzioni fossero
più particolareggiate e commisurate a ciò che è necessario e sufficiente per
indurre ciascuno al ben fare, rimarrebbe ancora una gran diversità nelle
condizioni individuali, delle quali non si potrebbe tener conto senza diminuire
l'efficacia dei precetti e delle sanzioni medesime. E questo dà luogo all'altra
specie di disarmonie morali analoghe a quelle che persi sterebbero nel campo
economico,se si correggesse la legge d'indifferenza del mercato. Queste
disarmonie morali infatti persiste rebbero,anche se le prime si venissero a
eliminare,analogicamente a quello che è stato osservato nei fenomeni di rendita.
Grice: “I love Orestano loving Benedetta” – Grice: “Orestano takes Meinong very
seriously – as he should! Few outside Austria do! Meinong symbolses the I with
‘e’ from Latin ‘ego’ (Italian io), and the other with a, for Latin ‘alter,
Italian altro. So we have W for value (worth), and the possibilities that ego
desires the evil for alter – sadism. When ego desires the good, he is altruism.
Altruism can be reciprocal. In a purely altruistic society, things go well –
but Pound knows who’s against that! That’s why Orestano finds sympathy for
Meinong, and so do I” --. Francesco
Orestano. Orestano. Keywords: l’opzione eroica, Alighieri, Galilei, Tasso,
Vinci, concezione aristocratica della nazionalita, l’eroe Mussolini, l’eroe
Enea, Weber e la teoria dell’eroe carismatico, l’ozione dell’eroe non e una
ozione. It’s not an option, Calderoni. Luigi
Speranza, “Grice ed Orestano”.
Grice ed Oribasio – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. – Giuliano’s personal philosopher. He shared
Giuliano’s enthusiasm for paganism. His treatises survive.
Grice ed Orioli – implicatura – la logica della
monarchia romana – i sette re – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vallerano). Filosofo italiano. Grice: “Only in Italy, a philosopher, rather than a cricketer, is
supposed to take part in a revolution and write a book about his shire!” -- Fondatori
della Repubblica Romana. “De' paragrandini metallici” (Milano, Fondazione Mansutti). Il padre,
medico, lo condusse a Roma, dove si laureò brillantemente. La professione non
lo attraeva molto: lo troviamo, infatti, professore di filosofia nei seminari e
nei licei dell'Urbe. Da Roma si trasfere a Perugia, dove si laureò. Insegnò a
Bologna. Partecipò con gli allievi all'insurrezione delle Romagne;
successivamente fu eletto membro del governo provvisorio di Bologna, che fu
sciolto in seguito all'intervento militare dell'Austria. Tentando di mettersi
in salvo,salpò da Ancona diretto in Francia con un altro centinaio di
rivoluzionari; ma il brigantino Isotta sul quale viaggiava venne catturato
dall'allora capitano di vascello della marina austriaca Francesco Bandiera
(padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio) e tutti i rivoluzionari
furono arrestati. Venne incarcerato a Venezia. Poco dopo venne liberato, forse
per mancanza di risultanze gravi sul suo conto.
Iniziò così l'errare, costretto a fuggire da terra in terra, inneggiando
sempre all'Italia unita. Fu professore di archeologia alla Sorbona. A Bruxelles
insegnò. Soggiornò anche a Corfù, dove tenne un corso dnell'università della
città. Quando Pio IX concesse
l'amnistia, poté tornare a Roma, dove tenne la cattedra di archeologia. Le sue
attitudini per il giornalismo non attesero molto per farsi notare, e così fondò
un periodico politico che ebbe però vita breve, La Bilancia. Fu eletto deputato al parlamento della
Repubblica Romana. Quando il governo pontificio fu restaurato, in
riconoscimenti dei suoi meriti, fu nominato consigliere di stato. Pubblica
molti saggi di filosofia. Tra i più famosi sono da menzionare “Dei sette re di
Roma e del cominciamento del consolato” (Firenze), “Intorno le epigrafi
italiane e l'arte di comporle” (Roma). Prese parte alla polemica sui sistemi di
prevenzione contro i fulmini e la grandine, che coinvolse anche Bellani,
Beltrami, Demongeri, Lapostolle, Normand, Majocchi, Contessi, Molossi, Nazari,
Richardot, Scaramelli, Tholard e Volta. Le compagnie assicurative usarono
questi studi per valutare rischi e premi per i campi agricoli. Riconoscimenti Il comune di Vallerano (VT) lo
ha onoratocon l'intitolazione di una delle vie principali del borgo antico,
quella del Teatro comunale, e con l'apposizione di una lapide commemorativa
sulla facciata della casa in cui lo scienziato nacque. A Viterbo un Istituto
Statale di Istruzione Superiore -che comprende il Liceo Artistico e diversi
indirizzi di Istituto Professionale, A. Ghisalberti, nella voce della
Enciclopedia Italiana, vedi, riporta queste date di nascita e morte, A. Ghisalberti,
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione
Mansutti, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M.
Bonomelli, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F.
Mansutti. Milano: Electa, G. Polizzi,
Alla ricerca dello «specioso» e dell’«insolito». G. Leopardi, «Lettere
Italiane», Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. -- rità assai leggieri, e, se grandemente non m'inganno,
assai consentanei alla ragione, de'quali ho stiinato aver bisogno,
l'enunciazione de'puri fatti che costruiscono l'istoria della dignità regale
nella città de'sette colli, ha dovuto essere da me corretta, e
ridottasotto la forma seguente. Come lo abbiamo già detto, la successione al
trono, mai non appartenne in Roma a fi gliuoli maschi de' re precedenti. Essa
appartenne sempre a' generi loro, quando ve n'ebbe di viventi (Numa, Servio,
Tarquinio il Superbo). Lo sposo della figliuola Maggiore fu a tutti gli altri
preferito (Servio). Quando i generi erano morti, la successione passa ai
primogeniti del primo genero (Tullo Ostilio, secondo la mia correzione della
leggenda che lo concerne; Anco Marcio). Quando si tratta di due re, in luogo di
un solo, e di quella magistrature binaria ed a vita che si surroga ne primi tempi
alla dignità regia, parimente non si rinunzia a queste medesime regole, e se
non trovansi due generi che potessero elevarsi al potere supremo, si'elevano
egualmente a quello, secondo l'ordine legale due figli di genero (Remo e
Romolo; Bruto e Collatino). La figliastra del re fu equiparata alla figlia nel dritto
di dare il trono al marito, o aʼsuoi discendenti maschi, in un tempo ,in cui probabilmente
figlie proprie non esistevano (Tullo Osti). Quando non v'ebbero, nè generi, nè
figliuoli di generi, il trono passa a’nipoti che s'a mò riguardare, in sì fatta
contingenza, come legittimi eredi de’dritti degli ascendenti loro (Tullo
Ostilio, se si preferisce l'ipotesi , nella quale egli è nipote d'una figlia di
Romolo maritata ad Osto. Fuori della serie deʼre, o de 'magistrali che ne
tenner le veci, tra gli stessi pretendenti che, senza ottenerla, dimandano la
dignità suprema, uno di quelli, de' quali l'antichità ci ha trasmesso la
memoria, è stato ugualmenle un genero di re (Numa Marcio); due altri, ne'quali'
non ci è dato riconoscere questa qualità, non hanno dimandato il trono per le
vie legali ma cercarono d'ottenerlo con un delitto (i figliaoli d'Anco ); due
di che solo si parla presso Plutar se si ricusi di considerare 1'Ersilia
dalla quale discende, come figlia di Romolo, e se si rispetta la tradizione,
secondo la quale l'ultim re non è che il patrigno o al più ilpadre adotetivo
della seconda Ersilia. In un caso, nel quale il capo supremo non potè far
valere il dritto di successione alla sua dignità negl’eredi maschi delle sue
figliuole, ne in altro modo potè effettuare la trasmissione della suprema
autorità per via d'altre donne sue discendenti, almeno tramandò il suo grado
nell'erede necessario della moglie: Bruto rispetto a Lucrezio Tricipitino suo
successore nella pretura massima, o vogliam dire nel consolato. Quando non vi
furono eredi quali che si fossero di lato di donna, il trono, sempre messi in
non cale imaschi,ricadde in unapersona e slranea,cioènonlegatadipiirentelacolla
fami glia reale (Tarquinio Prisco ). Quando,nonostantel'aversieredi legit timi
per parte di donna,una persona estranea conseguì la dignità regia, ciò avvenne contra
il dritto, per la forza dell'armi: Tazio). Non altra è l'espression' rigorosa de'
fatti, cosi come sono riferiti dagl’antichi, o come io dovetti correggerne la
sostanza e l'enunciazione, secondo le regole di una critica, se posso dirlo, in
nessun modo 'temeraria.'Le mie autorità , i miei ragiovamenti , non sofferirono
contraddi zióve ne’loroparticolari,eme nechiamo felice. Si volle 'solamente
avvertirmi che nel mio si stema erano alcuni fatti dubbiosi, e ricavati
perconghiettura. stato . co: Voleso e Proculo,sono statiproposti senza
gran fattofermarsi sopra la proposizione; non hanno preso sul serio la lor qualità
di candidati, e sembrano'avervi rinunziato essi stessi; finalmen tefurono messi
innanzi inun tempo ,nel quale tutto che concerne le leggi relative alla succes
sione regia era evidentemente suggetto di contro versia , e dispuldvasi intorno
alle basi stesse di questa parte della costituzione organica dello Io risposta,
ioviho presentato l'analisi, per così dire più condensata, delle tradizioni;
lebo prese da prima quali si leggono; mi sono per 'messo unicamente qualche
volta. o. Spesso la successione al trono in Roma s' è fatta contra ogni
principio d'equità, d'utilità, e di convenienza reciproca de' cittadini. Perchè
(per qui contentarmi d' un solo esempio il quale abbraccia un lungo periodo
d'anui), non certamente a vantaggio del partito latino, o di quel deʼ sabini,
sotto la dinastia etrusca, la dignità regia resta sempre nella fazion toscana. Grice:
“Orioli philosophised on many topics. To Italian philosophers, who are
OBSESSED, during their unstable political history, with political philosophy,
his ‘research’ on the consulate proves helpful. He notes that Romolo had no son
– so who to succeed him? Other than that, he was almost shot (Orioli, not
Romolo) after trying to oppose what he called the Roman theocrazy – or
theocracia – For Orioli there are various cracies: theocracia, democrazia,
TIMOcrazia, and ARISTO-crazia. Francesco Orioli. Orioli. Keywords: implicatura.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orioli” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ornato – filosofia italiana – la
conversazione d’Antonino con Antonino -- Luigi Speranza (Carmagna Piemonte). Filosofo italiano. Visse vita
ritirata, modesta e schiva d'onori e ricchezza intesa soltanto allo studio. Coltiva
le scienze fisiche e matematiche, la filologia, la poesia, la musica e con
singolare amore le discipline metafisiche. Sii trasferisce a Torino dove
frequenta alcuni esponenti dell'aristocrazia sabauda. Tra le sue amicizie più
importanti Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei concordi è insegnante
di matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato nella segreteria dell'Accademia
delle Scienze di Torino e successivamente professore presso la Reale Accademia
Militare. In seguito ai moti rivoluzionari e nominato da Santarosa Ministro
della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si rifugia in esilio a Parigi. Nella
capitale francese stringe amicizia con Cousin e la sua casa è frequentata da
numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter rientrare in Italia e si ritira a
Caramagna dove riceve le visite dei patrioti Pellico, Provana, Gioberti e
Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà sepolto nel cimitero
monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione dei “Ricordi
di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone Ottolenghi, E.
Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, O. Becchio G. Calogero, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono
essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su
comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero
Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e
contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla
IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a
quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del
lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in
mente a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due
stati passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto,
ma segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il
caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di
associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il
primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo
nel sogno. Quello, proprio del giovane troppo dedito al senso. Questo,
del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire
il difetto del giovane si esorta a fuggire quello del vecchio. Il
carattere che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare,
cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè
stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora
senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni
senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo ogni volta
che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non
sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la
compassione senza aggiungere con Epitteto che ella debba essere puramente
esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La
compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima,
e contrario alla natura, il saggio non essei'c accessibile alla
compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §,
dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è
una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge
talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul punto particolarmente della
compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso
tutti gli uomini e Antonino uno stoico poco fedele al principii della sua scuola, e segue
piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento
della pietà essere il carattere distintivo delle belle e grandi
anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non togliete
nè Voltare dal tempio y nè dalla natura umana la compassione. Fu in
questa deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del
Portico [PORTICUS – stoici], Antonino e stato preceduto da altri
stoici romani illustri. Il che non potea non avvenire, perchè secondo un
antico senario greco, il cuore soltanto del malvagio non è capace di
essere ammollito. E però il severissimo CATONE, già deliberato in quanto a
sè di morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli
amici e concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro
procelloso per non lasciarsi cogliere in Utica da Cesare vincitore,
come avea pur pianto alcuni anni innanzi per un fratello
amatissimo, quando trovandosi esso Catone al comando di una legione in
Macedonia, alla novella che il detto fratello era moreute in Enos città
della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da
Tessalonica, contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare
tempestosissimo, e giunto in Enos trova il fratello già spento (Plut.,
vita di Catone). E pianse certamente Cornelio Tacito, benché stoico
anch’egli, quando, dopo aver narrato come era vissuto e morto, non
senza sospetto di veleno, Giulio Agricola suo suocero, aggiungeva
queste patetiche parole. Beato te. Agricola, che vivesti sì chiaro
e moristi sì a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto;
quanto a te, quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla figliuola tua,
oltre all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che
non ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci
di abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto; avremmo
pure raccolti precetti e detti da stamparli nei nostri animi. Questo
è il dolore, il coltello al nostro cuore.Senza dubbio. 0 ottimo padre, per
la presenza della moglie tua amatissima, ti soverchiarono tutte le
cose al farti onore; ma tu se stato riposto con queste meno lagrime, e
pure alcuna cosa desiderasti vedere al chiudere degli occhi tuoi. Fra le
varie divisioni dei beni appo gli stoici, l’una è questa, che
dei beni altri sono finali, altri efficienti, altri e finali insieme
ed efficienti. I beni finali sono parte della felicità e la
costituiscono: gli efficienti solo la procurano: i finali ed efficienti
insieme e la procurano e sono parte di quella. Del primo genere
sono la letizia, la libertà deir animo, la tranquillità, ecc. Del
secondo, l’uom prudente ed amico; del terzo, tutte le virtù. L’uom
prudente ed amico è un bene efficiente, perchè muove con la sua dispozione
razionale la tua diapoaizion razionale (lib. V), cioè è occasione a te
di buone azioni. E nello stesso modo è un bene di quel secondo
genere ogni cosa, o sia pensiero o altro, che è occasione a te per
camminare verso la perfezione. Di questo bene parla ora Antonino.
Il quale, per lo esser solo efficiente, e non finale, cioè pel non
essere accompagnato ancora da quel sentimento intimo di gioia
perfetta che costituisce la felicità, non attrae invincibilmente il tuo
volere; ed è necessario quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che
questi si sottragga da tutte le altre cose che ne lo possono sviare
(conferisci quello che ne insegna la teologia intorno alla grazia). E
quando Antonino chiama questo bene razionale (che è attributo
generale del bene appo gli stoici), il fa per opposizione al preteso bene
degli Epicurei, che è sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il
piacere come sommo bene, giudica che il bene sia sensibile: noi il
giudichiamo intelligibile. E più sotto. Non è bene dove non è ragione.
Tutte queste cose era necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del
testo, dove la maggior parte dei cementatori ed interpreti ha
voluto cangiare la parola efficiente in civile o vuoi sociale con
manifesto danno del senso e del pensiero di Antonino. Dispensazione in
greco “economia” vale generalmente governo della casa, amministrazione. E
perchè molte cose si fanno pel governo della casa, le quali da per
sè sole non si farebbero (come per esempio il risparmiare certe
spese perchè le sostanze famigliar! sopperiscano al mantenimento di
quella), quindi è stata applicata questa voce ad ogni cosa che si
faccia con fine provvidenziale, benché sia di nessun pregio in sè od
anche noiosa; come p. e. il gastigare i rei. È usata sovente in questo
senso dagli filosofi latini di tarda età, e stoici ed altri, e
massimaniente dai padri della chiesa. È tra noi disusata perchè è
disusato il concetto ch’ella esprime. Ma per provare la sua antica
cittadinanza in Italia alleghera il passo seguente di Cavalca,
l’ultimo dei citati sotto essa voce nel V. della Crusca (Medicina
del cuore). Per divina dispensazione avviene che, per li pessimi vizi e
gravi, grave e lunga tribolazione ed infermitade arda e salvi l’anima. Da
una nota dell’Ornato credo che, quando la scrive, inclina per l’interpretazione
di questo luogo, a dar ragione a Xilandro contro i posteriori. Se non
muta poi di parere, il senso di questa espressione con libertà di parole dovrebbe
essere liberalmente cioè con liberalità di parole, o generosamente poiché
così anche lo Xilandro intende lo £À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo
raccomandare la generosità nelle preghiere, Antonino intenderebbe di
biasimare le preghiere che non mirano che all’interesse proprio di chi
lo fa. E però loda quella preghiera degl’Ateniesi, i quali, al dire di
Pausania, solevano pregare non solo per tutta l’Attica, ma anche per
tutta la Grecia. Auto nel senso peripatetico e scolastico, è l’affezione
costante deWente: e per quel carattere di costanza si distingue dalla
disposizione che è variabile. Appo gli stoici è la forza o virtù (andreia)
che mantien l’ente in quella affezione costante; o, siccome essi
favellano, è spirito (intendi aria) che mantiene il corpo e il contiene:
perchè l’ente ò corpo appo loro. La mente dell’ universo, dice Senone,
penetra per tutte le cose particolari e le mantiene e governa: ma non
tutte nel medesimo modo: perchè nelle une si manifesta come
abito (pietre, legni); nelle altre come natura (intendi principio
organico mero: piante, alberi); nelle altre come anima (principio animrle
mero: bruti); nelle altre ancora come mente e+ ragione
(anima ragionevole universale e sociale appo Antonino; uomini. Le
cose governate dair abito sono adunque i corpi dove non è altro principio
costituente che il generale di corpo: dove per conseguenza non è altro
carattere distintivo che quella affezione (modo d’essere) costante por cui sono
il tal corpo anziché il tal altro. Sono la classe infima e generalissima
di corpi, che noi chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla
natura, oltre al carattere generale di corpo v’ ha già il carattere
d’organizzazione. Nelle cose governato dall’anima, oltre al carattere di
cor poreità e di organizzazione, v’ha di più quello di animalità ecc. Le
classi si van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per
carattere la razionalità. In questo il testo è. in più d’un luogo
corrotto, e verìsimilmente havvi anche qualche lacuna. Non potrei
dire precisamente quali sieno le emendazioni seguite o fatte da lui,
perchè una sua lunghissima nota sulle difficoltà di questo
paragrafo, oltre che è piena di cancellature e in gran parte non
intelligibile, è anche manchevole, essendone stato lacerato via, non so
da chi (forse dall’Ornato. medesimo per aver mutato parere), un mezzo
foglio. Nel voltare in italiano io mi sono discostato il
meno possibile dalle sue parole stesse e ho serbato inalterato il senso della
sua interpretazione. Questo paragrafo, essendo corrotto in più luoghi, dei
quali l’emendazione e inutilmente tentata finora, è diversamente inteso dagli
interpreti. Ornato lascia scritto al principio di una lunga nota: Di
questo veramente corrotto paragrafo non so che partito trarre. La sua
interpretazione che io seguii nel volgarizzamento vuol dunque
essere accettata con quella medesima riserva con che egli la propose.
La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e fors’anche
mutilata.Ornato non la tradusse in alcun modo, riserbandosi di farlo
quando avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia
molte note. Nel mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto
da Schiiltz, non perchè egli approvasse in tutto quella lezione, mna
perchè non seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è
corrotto, e chi corregge in un modo e chi in un altro, e chi ancora
difendo la vulgata. Io ho seguito quella fra le molte e
varie emendazioni, dalla quale parvemi almeno di poter trarre un senso
chiaro. Poi sensori tutto il paragrafo conf. anche V, 33, e Seneca. More
quid est? aut finis, aut transitus. Tutti gli interpreti che io conosco
finora, compreso anche Gataker, il quale nondimeno si scosta dal vero meno
che gli altri, pigliano qui il granchio (fan pietà Dacier o Joly che
seguono ciecamente Gasauhono, come fa pure Barberini: iMilano poi è
la stessa pecora sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker),
confondendo insieme, siccome fossero una sola cosa, la toù 3Xou
(fùaiv e il ToO xóojjiou ’hys.u Qvixdv; quando anzi nella
distinzione di queste duo cose è fondato il senso di tutto il paragrafo. La
toO SXou qjvlcjis è la potenza creatrice o facitrice primitiva; lo
•óyepwvixòv toO xóopiou è la potenza governatrice, dipendente da
quella prima, generata, o formata da quella prima. Siccome la natura dell’
uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo non meno che il corpo; e
la mente dell’uomo poi gOTema il corpo. Il senso adunque di tutto
il paragrafo è questo. La natura dell’universo decreta, determina con deliberazione
ragionevole il mondo, dan-dogli, per così dire, un corpo ed una mente.
Ora, o questa mente, a cui è affidato il governo del mondo, segue
la ragione (perchè la mente nel senso dello ^ìf£|jiovixbv può anche
talora essere sragionevole). E allora tutte le cose che ella fa, sono
quali le ha determinate generalmente dà principio la
natura formatrice del tutto, sono involute in quella prima
determinazione, sono conseguenza necessaria di quella prima determinazione,
ecc.; ovvero essa mente non segue sempre la ragione, e
allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere che non solamente
le cose di minor conto che ella fa, ma anche le cose principali
sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che nelle cose principali
ella sia sragionevole. Dunque non può essere sragionevole nè anche
in quelle di minor conto; dunque tutte le cose vanno secondo ragione. Godo
di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato e quindi trarre in luce
la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo migliore se l’ autore
avesse potuto ripulire e pubblicare egli stesso il suo lavoro); perchè
l’interpretazione e illustrazione contenuta in essa è ingegnosissima,
naturalissima e confermata da tutto quello che conosciamo della fisica
degli stoici. La natura universale (n toù óXov (pdcjts), la potenza
facitricc o creatrice è il divino puro, il quale trae l’universo dalla sua
propria sostanza, è l’unità assoluta senza distinzioni e diversità di
parti, è la natura naturane; la potenza governatrice, la mente che
go- verna il mondo (TÓrìysixovixóv toù xó^jxou), generata da quella
prima, è all’incontro, nell’attuale diversità delle cose,' nella
nauìra naturata, nel mondo propriamente detto e composto di anima e di
corpo, è, dico, la provvidenza, l’anima di esso corpo. Al novero degli
interpreti che frantesero questo § è ora da aggiungersi Pierron. Ed è
tanto più da stupire che il sig. Pierron abbia egli pure sì mal
compreso, in quanto che, avendo egli già prima tradotto la Metafisica di
Aristotele, dovea essere suf- ficientemente versato nelle dottrine
filosofiche delle principali scuole della Grecia. Quasi tutti i
traduttori hanno franteso questo luogo, pigliando l’iwoia per
intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne intellectus hoc feraf.... il
senso letterale, aggiungendo ciò che è sottinteso, è: vedi se la nozione
(che tu hai di te stesso come uomo) soffre cotesto, soifre cioè che
tu dica esser nato a goder dei piaceri. Pierron, seguendo l’
esempio di tutti i suoi predecessori, pigliò anch’egli Vhvo'.a per
intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena à le prétendre. Colia
bontà delle singole azioni vuotai procacciare di ben comporre la
vita. Il testo e bravissimo. Talvolta troppo fedele alla lettera e
studioso di conservare tutta la brevità dell’ origi- nale, avea
tradotto: ai vuol comporre la vita mettendo inaieme le azioni ad
una ad una; poi comporre inaieme la vita accozzando le azioni ad
una ad una; poi allogando le azioni ad una ad’una. Non credo che so
avesse potuto ripu- lire e terminare egli stesso il suo la- voro,
si sarebbe contentato di alcuno di questi tre modi, che tutti
peccano di oscurità e di ambiguità. A costo dì essere men breve, io
ho creduto di dover essere piò chiaro non solo in questa frase, ma
in tutto questo paragrafo, svolgendo un poco il concetto dell’autore
siccome io l’intendo. Quasi tutti gli interpreti fran- tendono. 0.
Nel novero degli interpreti che fran- tesero questo luogo comprendi
ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue docilmente- Gataker e Schultz.
L’errore sta nel legare Io i^’oioy ctv xoti up^rìae col ófUTw che
precede; laddove si riferisce all’azione alla quale l’animale
ragionevole tendea e nella quale è stato impedito. E ciò pare che abbia
poi capito lo Schultz nella sua seconda edizione del testo greco, avendo egli
posto una virgola dopo il óutù. (15) Se tu vo/eafi ftema la debita
ri- tterva.., che da lei etesaa; cioè a dire: se tu volesti
assolutamente e non a condizione soltanto che la cosa fosse possibile;
questo atto della tua volontà fu veramente un male, perchè, come è
detto altrove, l’ animai ragionevole non dee voler nulla che non
sìa in poter suo, ed anche il bene re- lativo, non dee volerlo se non se
con- dizionalmente, cioè in quanto sia possibile; rimpossibilità essendo
per gli stoici sinonimo di non voluto dalla natura e dal destino, al
quale il savio non dee ripugnare. Che se poi la cosa voluta da te
fu una di quelle che non sono pur buone in senso relativo, e quindi
il volerla fu un appetito, pren- dendo il vocabolo volere nel
significato volgare, cioè un moto del senso, piut- tosto che della
volontà ragionevole; tu non ricevesti nocumento nè
impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma bensì mento, ragione
o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo la tua propria
natura non puoi essere impedito da nissuna forza esteriore. Così intendo
questo luogo, così certamente è stato inteso dall’ Ornato (assai
diversamente dagli altri interpreti che io conosco, Gataker, Schultz e
Pierron), e questo senso ho procurato, di esprimere traducendo.
L’Ornato lasciò una breve nota a questo luogo, ma in essa non fa che
avvertire le difficoltà del tradurlo, stante la povertà dell’italiano,comparativameute
al greco, e scusare l’ oscurità e l’ ambiguità della traduzione tentata da lui.
Di tutto questo paragrafo fa quattro tentativi diversi di traduzione,
tutti laboriosissimi, come appare dalle molte cancellature e correzioni.
In margine alla quarta od ultima prova scrisse: Sta qui fermo,
perche farai peggio se cangi. Non fu quindi senza molto bilanciare
che mi risolsi a fare io, come feci, una quinta prova, essendomi
sembrato che il miglior par- tito fosse qui di tradurre letteralmente,
e spiegare i sensi del testo nelle note. Ad illustrazione del senso stoico
di tutto il paragrafo ricordiamoci priiniera- inente che secondo
gli stoici: c Dio, considerato dal lato fisico, è la forza motrice della
materia, è la natura generale, e r anima vivificante del mondo;
conside- rato dal lato morale, è la ragione eterna che governa e
penetra l’universo, è la provvidenza benefica, è il principio della
legge naturale che comanda il bone e proibisce il male. Ricordiamoci
ancora che l’aria, come uno dei due elementi attivi e parte essa
stessa della sostanza divina, ò dagli stoici considerata come il
principio della vita sensitiva. Dice adunque Antonino: non contentarti
ora- mai di essere unito con Dio a quel modo solamente che sono
uniti con lui gli esseri solamente sensitivi, cioè per mezzo della
respirazione; ma fa’ ancora di unirti con lui a quel modo che si
appartiene agli esseri intellettivi, cioè con cognizione e accettazione
libera dello scopo che Iddio ha proposto al- r accettazione libera di
quelli. E però, siccome tu traggi dall’aria ambiento gli elementi
della tua vita sensitiva, traggi ancora dalla ragione ambiente gli
elementi della tua vita intellettiva. L’esistenza delle' cose dissolvendotù
(Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì ocùrCg cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa
ti (JiOo- p^). Qui mi pare che fosse il caso di dovere
assolutamente abbandonare la lettera e contentarci di esprimere il
senso del testo, piuttosto che cercar di tradurne le parole, che non sono
traducibili in italiano. L’Ornato avea detto: tutte le, cose vanno
soggette a mutazione. E tu stesso ti alteri continuamente, e
peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era contento, come appare
dall’usato segno. E in vero che significa quel tutte le cose vanno
soggette a mutazione f Significa, e non può significare di più, che tutte
le cose possono essere mutate e lo saranno effettivamente quando
che sia; ma ciò liou esprime quella condizione delle cose, per cui
non hanno stato, o modo di essere che perduri pure un istante senza
mutamento, che è la vera condizione delle cose secondo il pensiero di
Anto- nino e voluta esprimere da lui. Chi do- vesse tradurre questo
luogo in tedesco, lo potrebbe fare, parmi, benissimo dicendo: Alle (Unge
aind in unaufhorlichem anclera-werden; come si dice in werden non
solo dai filosofi, ma anche nel lin- guaggio famigliare, quando di una
cosa che non è ancora, ma si sta incomin- ciando 0 si va facendo,
si suol dire: Die Saehc iat noch ini werden. Ma la nostra lingua
non ha tutta la flessibi- lità del tedesco, uè sarebbe chiaro, uè
permesso il dire in italiano: tutte le coae sano in un continuo mutarai. È
una singolare coutradizione di Marco nostro e di, altri stoici
poate- riori il venir cosi spesso parlando con tanto dispregio
della materia che aottoatà alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, —
A"edi anche YI, 13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un
animale perfetto e bellissimo, il cui corpo è la materia, e
l’anima, Dio (vedi i Ricordi passim, e specialmente X, 1). Le rughe sul volto
del vegliardo, le screpolature delle ulive e del fico vicini ad
infradiciare, la bava del cignale ed altre sì fatte cose hanno pure
una certa grazia e venustà, perchè il mondo è perfetto, e nulla è nelle
suo parti che non conferisca alla bellezza del tutto. Perchè dunque
ora tanto dispregio non solo per tale o tale altra parte, ma
universalmente per tutta , la materia che sottosta, quando questa
materia, che non è poi altro per gli stoici se non se il suhstratum
indeter- minato di tutto il contingente sensibile, è essa pure
sostanza divina secondo la scuola?
Intendi: « o tu voglia dire che il mondo sia stato formato di
atomi. ed abbia quindi origine dal caso; o che sia stato formato di
nature (essenze, entelechie, monadi), ed abbia quindi per origino
l’ intelligenza, o la natura, che qui è sinonimo di intelligenza;
que- sta cosa pongo io certa anzi tutto, come tratta dalla mia
osservazione immediata, che io sono attualmente parte di un tutto
governato da una natura. » Con altre parole: « o tu faccia venire il
mondo dalla pluralità, o tu lo faccia venire dall’unità, ella è
cosa di fatto che io ci ravviso attualmente una pluralità governata
da una unità. » Il qual me- todo di filosofare, per cui, lasciata
stare la disputa intorno all’origine delle cose, si viene ad
esaminare la realtà attua- le di esse; lasciato stare il lontano e
mediato, si viene ad osservare l’ imme- diato e prossimo; lasciata stare
la co- gnizione dedotta, si viene a far capo alla cognizione di
fatto acquistata per osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il
lettore che appo stoici mondo, tutto, natura, Dio sono
V sostanzialmente la stessa cosa, e però quelle che
poco innanzi furono chiamate parti del tutto, qui sono dette della
natura. Dìo, natura, mondo, tutto sono espressioni diverse che
corrispondono a modi diversi di considerare una stessa cosa, e
questa diversità è relativa alla mente finita dell’uomo che non può
si- multaneamente contemplare gli aspetti e momenti diversi delle
cose, e non alla realtà obbiettiva. Quindi ò che le espres- sioni
soprascritte sono non di rado usate runa per l’altra, poiché
sostanzialmente significano la medesima cosa. Il mondo KÓrfixog),
dice il Laerzio, era dagli stoici considerato: 1® come causa 0
pbtenza informatrice di tutte le cose che sono {natura nuturans, i;
t£- Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la quale, come
artefice e informatrice di sé medesima, trae da sé stessa e informa tutte
le coso con suprema saviezza e divina necessità, cioè secondo le sue
leggi che sono quelle della ragione; 2" come la totalità delle
cose informate e ordinate dalla potenza informatrice immanente in esse e
go- vernatrice di esse (dotta allora xòv Toù xd^fjLou) e quindi
come l’opera vivente, il vivente organismo, o corpo organato da
quella {natura naturata); finalmente come l’unità dei due,
cioè dell’ organismo vivente e della forza or- ganatrice e
governatrice, in quanto l’uno non si distingue dall’altra se non se
per la contemplazione della mente finita deU'uomo. Vedi i Prologo
nell’edizione di Torino. Fa che tu vi sottoponga col pensiero... di che
io ragiono. Ho conservato tutte le parole della interpretazione dell’Ornato,
perchè non avrei saputo quali altre più chiare sostituir loro;
atteso che io non son sicuro di intendere qui nè che cosa abbia voluto dire
r Ornato, nò che cosa Antonino. Ornato volea faro a questo luogo una nota;
ma non la fece, e non trovo altro,, che si riferisca a questo luogo,
ne’suoi manoscritti, se non se un cenno pel quale è indicato che
egli lesse qui ò, ti risolutamente^ ove tutti gli altri, che io
conosca, lessero &ti; e che egli intese r Ù7TÓ0OU diversamente da
tutti gli altri interpreti. Gataker e Schultz che lo segue da
vicino, non sono più chiari. Le quali tu apprendi»,, considerazione del
tutto. Così l’Ornato svolse ed illustrò il pensiero di Antonino espresso
brevissimamente e, parmì anche, poco chiaramente nel tosto. Non ho
mutato quasi nulla alla versione di questo paragrafo lasciata d’Ornato,
sia perchè ho motivo di credere che ne fosse già poco meno che
contento egli stesso, trovando io questo paragrafo nettamente ricopiato;
sia perchè non avrei voluto correr pericolo (li alterarne benché minimamente
il senso, trattandosi di un luogo che egli intese assai
diversamente da tutti gli altri interpreti. Vuol dire che non bastano
le impressioni buone che noi riceviamo per mezzo della sensibilità,
le quali possono e sogliono venir cancellate da impres- sioni
contrarie, ma ci vuole anche il la- voro deir intelletto che riduca quelle
ad unità e le fermi cosi nel nostro spirito, formandone come un
corpo di scienza. Non basta l’osservazione, l’applicazio- ne dello
spirito alle cose di circostanza, ma ci vuole ancora la
contemplazione, l’ applicazione dello spirito alle cose permanenti,
al generale immutabile. Solo col ridurre ad unità il moltiplice, a
generalità il particolare, si possono radicare le cognizioni nell’ anima,
la quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza
cui la semplicità del cuore dee far rimanere se- creta naturalmente nel
cuore, ma non artatamente celata; ed allora è l’ani- ma veramente
grave e soda e come chi dicesse, veneranda. Sul fine del para-
grafo fa la enumerazione delle diverse categorie alle quali si dee
riferire l’oggetto osservato. Questa nota dell’ Ornato che per le troppe
citazioni del testo greco non può qui darsi che in parte, trovasi
in- tera nell’edizione di Torino. Grecismo, per suole accadere. Non
era possibile il tradurre altrimenti. Del resto vada a rilento chi
per la sola ragione del non potersi tradurre sempre colla stessa
voce una stessa parola del testo, accusa Antonino qui ed altrove di
arguzia. Gli stoici crede- vano che, là dove è una stessa parola,
debbe essere anche una stessa idea. Ed anche Platone (vedi il Cratilo) il
credette; e il credette il Vico: e tanti j altri il credettero: e noi il
crediamo., Se quella idea generalissima che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv
non si trova più annessa al nostro amare, ciò j non prova altro se non
che il greco e l’italiano sono due lingue diverse. E sap evadicelo.
Il passo di Platone è nel Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo liberalmente
educato, dice, udendo egli lodare e magnificare un tiranno od un re, gli
par di udire lodato e magnificato un pastore, perchè egli munga di
molto latte; e l’animale cui pasce e munge il re, gli pare anche
più ritroso e più infido di quello cui pasce e munge il pastore; nè
men rozzo nè meno ineducato stima egli l’uno che l’altro, mancando
ad amhidue il tempo per badare a sè, e vivendo il primo fra le mura
della reggia a quello stesso modo che l’altro nella capanna sul monte.
Del resto, il senso generale di tutto questo paragrafo, non bene inteso,
se- condo me, dagli interpreti, mi pare che sia: Tu dèi farti
capace sempre pih cho tu puoi vivere da filosofo in questa tua
corte come faresti in. quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad
ogni •passo esempi di quel che dice Platone: uomini che vivono nei
palagi come fa- rebbe un rozzo pastore in sul monte: ingolfati cioè
quelli e questo nelle cure materiali del governo dell’armentoV E
sottintende: se per costoro il palagio non è altrimenti che una capanna,
non può ella con più ragiono essere la reggia per te come un ritiro filosofico?
Gran ragione ha qui Antonino di raccomandare a sè medesimo anche ' questo
genere di contemplazione, cioè a dire lo studio dei fenomeni, e
delle maraviglie, come egli dice sapientemente, “dell’organismo
corporeo degli animali e deir uomo massimamente: perchè non è altro
studio il quale possa per via più compendiosa e sicura condurre alla
co- gnizione della infinita sapienza, e provvidenza infinita della causa
reggitrice del mondo. Nè l’uorao può presumere di conoscere sè
medesimo, sé non conosce almeno un poco di queste mara- viglie, cioè come
si formi, cresca, si conservi, si rinnovi e deperisca il suo corpo,
quale sia la natura e il modo di operare della causa o principio a
cui dehbonsi riferire questi fenomeni, quali le relazioni di questa vita
orga- nica del suo corpo con quella del prin- cipio che in lui
sente, vuole, e pensa, e come possano questo due vite modificarsi fra
loro scambievolmente. In vero chi aspira a conoscere sè medesimo,
per quanto sia dato all’uomo di pur conoscere sè stesso, e non cura di
co- noscere un po’intimamente anche questa delle due parti di che si
compone Tesser suo, porta gran pericolo di er- rare nel vano, e di
prendere astrazioni por realtà, il che avvenne appunto agli
stoici, ignorantissimi di anatomia o quindi più ancora di fisiologia.
Perchè uno appunto degli errori fondamentali della loro filosofia,
quello por cui mu- tilavano la natura umana escludendo da essa la
sensibilità che riferivano al corpo come a cosa straniera all’ uomo
propriamente, il quale per essi non era altro che ragione e volontà;
questo er- rore, dico, è in gran parte da attribuire alla
imperfezione delle loro cognizioni, ai loro errori circa la costituzione
fisica delluomo e le relazioni in che ella si trova colla sua
costituzione morale e intellettuale; o per dire più veramente, alla loro
totale ignoranza dello leggi che governano i fenomeni dell’or-
ganismo corporeo dell’uomo, delle rela- zioni intimissime della vita di
esso organismo corporeo con quella della mente, e della natura egualmente
spirituale di ambidue. Questi versi sono di Omero e sono dei più
famosi nell’antichità, dei più spesso citati e ripetuti, imitati
dai poeti posteriori; o però Antonino non li scrisse per intero, ma
solo quei brani che sono stampati in corsivo, bastando quelli a
richiamare alla memoria i versi interi, alle diverse sentenze
contenuto in essi alludendo egli poi nella parte se- guente del
paragrafo. Con questi versi Glauco (dopo aver detto magnanimo Tidide a
che mi chiedi il mio lignaggio?) incomincia la sua risposta a Diomede, il
quale, prima di accettare il combattimento con lui, aveagli chiesto
qual fosse la sua stirpe. Io li ho tradotti letteralmente, giovan-
domi in parte della traduzione del Monti, la. quale, come nota a tutti i
lettori, avrei volentieri dato qui inalterata, se in essa fosse più
fedelmente espresso, e nell’ ultimo verso non interamente guasto il
senso delle parole di Omero. Il qual verso, voglio dire il 149\ è tradotto da Monti
come segue: CosxVuom • nasce e così muor: il che fa fare un falso
sillogismo a Glauco, il quale secondo la traduzione del Monti,
concludendo, affermerebbe dell’wo/Ho ciò che dovea affermare delle
schiatte umane, mutando, come direbbero i loici, nella conclusione
il piccolo termine, che nella premessa minore- non era uomo ma schiatta o
stirpe, come disse il Monti. E pure il verso di Omero ò chiarissimo.
Questo strafalcione il Monti non avrebbe fatto se, come quasi
ignorante del greco, con tante altre traduzioni avesse saputo consultare
quella mirabilissima, non solo per eleganza di stile ma ancora per
fedeltà, precisione e chiarezza, del Voss, il quale in cinque bellissimi
esametri tedeschi traduce letteralmente i cinque esametri greci. Anche il
Pope, sebbene i suoi lavori sui poemi di Omero, tutto die
pregevolissimi per altri rispetti, non meritino il nome di traduzione,
non fece qui lo sproposito di Monti. Ed altri ancora potrei nominare
dei nostri che con nobilissimo intendimento si diedero all’ardua
impresa di recare nella nostra lingua chi l’una e chi l’altra di
quelle poche reliquie che ci rimangono della greca poesia (dico poche
rispetto a ciò che fu divorato dal tem- po); i quali avrebbero meglio
inteso e meglio tradotti moltissimi luoghi se avessero potuto
consultare, se non tutti gli interpreti, cementatori ed espositori,
almeno i traduttori tedeschi. Ma basterà che io nomini il più valente, a
parer mio, di tutti, Belletti, al quale, tranne forse una più
intima notizia del greco, nulla mancava, non valor d’arte, non
felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione perfetta, o prossima alla
perfezione, dei tragici greci. E in vero, leggendo io le traduzioni del
Bcllotti e riscontrandolo diligentemente cogli originali, ebbi in
moltissimi luoghi ad am- mirarne la eccellenza, anzi direi quasi in
tutti quei luoghi dov’egli capì ab- bastanza intimamente il suo testo
e non erano difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore. Ma anche
in molti altri luoghi io ebbi a lamentare che egli pure non abbia
saputo o potuto giovarsi delle eccellenti traduzioni fatte da* suoi
predecessori alemanni. Nel solo Agamennone, che anche considerato
in sè stesso e non come parte di una grande e sublime trilogia, è
forse il più bel monumento della scena antica, e certamente il più
grande di tutti per sublimità tragica, recondita filosofia,
splendore di immagini e copia di alti e forti pensieri, quanti errori
avrebbe evitati il Belletti, quante meno scempiaggini avrebbe fatto dire
a quella grande anima e colossale ingegno di Eschilo, so egli
avesse solo potuto pro- fittare della traduzione e dei Prolegomeni di
Humboldt? Non dirò del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo^ che
forse non era an- cora pubblicato quando il Bellotti traducea
l’Agamennone. Ed è tanto più da lamentare che a Bellotti siano
mancati questi sussidi, quanto è meno da sperare che sia presto per
sorgere un altro ingegno italiano, il quale possa fare quello che avrebbe
potuto il Bellotti. Ritornando al paragrafo di Antonino e al luogo
citato di Omero, è da notare come siffatti pensieri intorno al poco
o niun valore della vita considerata in sè, e di tutte le cose
umane e dell’ uomo stesso, così frequenti nei poeti ebraici;
frequentissimi in questo scritto di An- tonino e divenuti quasi abituali
nei cristiani dei primi secoli, si trovino pure non di rado anche
nei poeti greci più antichi, voglio dire in quelli delle prime e
più splendide epoche della greca letteratura, sebbene i Greci fossero
un popolo di allegra immaginazione. Forse non dispiacerà al lettore
il vederne qui raccolti alcuni esempi: nell’ Odissea la terra non nutre
nulla di più infermo che Vuomo. Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che
siatn noi dunque o che non siamo f Leggiero veder d’ ombra che sogna.
Letteralmente la seconda parte. L’uomo è l’ombra di un sogno. Nel
Prometeo di Eschilo e non vedevi V
imbecille natura a vano sogno eguale onde è impedito il cieco umano
gregge? Nell’Aiace di Sofocle, perocché
veggo non essere noi, quanti viviamo, altro che larve ed ombra
vana. Nel Filottete del . medesimo Sofocle, Filottete chiama sè
medesimo: ombra di un fumo. Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto
incomincio a stimare tutte le cose umane come un' ombra, E vuoisi
notare come appo i tragici ed anche appo i) lepidissimo Aristofane
la parola effimeri, cioè quelli che durano un giorno, è spessissimo
usata come sinonimo di uomini. A queste, o ad altre simili sentenze d’
antichi ed illustri poeti, le quali erano nella memoria di tutti gli eruditi
del suo tempo, alludeva evidentemente Antonino con quelle sue
parole: il più breve detto, anche di quelli che sono i più noti
ecc., accennava poi per esempio quelli di Omero. Questa nota fu
scritta in tempo che io, quasi appona ripatriato dopo trent’anni di
assenza, e mandato a stare in un cantuccio al tutto vacuo di studi
e di lettere (prendendo i vocaboli in un senso un po’ alto), e
ridottomi a passare nella solitudine i pochi momenti d’ozio che r
esercizio di un pubblico ufficio mi lasciava, avea potuto, non saprei
diro perchè, immaginarmi che il valentissimo sig. Bellotti fosse già del
numero di quei felici che più non vivono altri- menti sulla terra
che per la memoria di opere egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del
mio errore, non cangio nulla a quello che ho scritto di lui; ma
aggiungo V espressione di un voto, che deve esser quello di tutti gli
amatori delle buone lettere desiderosi di vedere vie più chiara e
più grande la rino- manza di un nobilissimo ingegno: ed ' è che
l’esimio sig. Bellotti, come sta ora, da quanto mi dissero, rivedendo
o migliorando il suo Yolgarizzamento di Sofocle, così possa egli
poi rivedere ed emeudare quello ancora di Eschilo, il quale, a
parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello, tranne forse al- cune
eccezioni, non pecca gravemente che nella parte lirica; laddove in
questo trovai, 0 parvemi certamente trovare, molti luoghi da dover
essere emendati non solo nella parte lirica troppo spesso non
traducibile in italiano (come è in- traducibile Pindaro, secondo che fu sen-
tenziato anche da G. Leopardi non ismentito dal tentativo più
audace che felice di Giuseppe Borghi); ma eziandio nel dialogo.
Ella comjyie nondimeno..», si avea proposto. Mi sono scostato, anche
nel senso, interamente dall’ Ornato, il quale avea tradotto: ella
rende intero e com- piuto quanto ella avea fatto fino allora;
primieramente perchè il senso voluto esprimere dall’ Ornato non mi
sembrava abbastanza chiaro; e poi, e principal- mente perchè mi
parve troppo grande licenza il tradurre per quanto avea fatto fino
allora, il tò irpoTcOiv, il quale mi sembra qui usato nel senso il più
ovvio del verbo “7rp.oT{6T)|ju”, che è quello di proporre, e così
l’ intende anche lo Schultz contrariamente al’Gataker seguito dall’
Ornato. Veggo bene le ra- gioni che possono avere gl’indotto a
interpretare a quel modo. Ma non mi persuadono. Il pensiero di An-
tonino mi sembra chiaramente, l’anima razionale, la quale non si propone
altro che di operare sempre secondo ciò che richiede il momento
presente, e di aver caro tutto ciò che le interviene, come cosa voluta
dalla natura, in qualunque istante le* sopravvenga la morte, compie
sempre interamente il compito che ella si avea proposto, e in modo
soddisfacente a sè stessa; ella ha tutto ciò che potea desiderare,
ha totalmente esaurita la sua parte come attrice sulla scena del
mondo; e appunto il morire quando la natura lo vuole, è la conclusione,
il compimento della parte a lei assegnata e da lei liberamente accettata
nel gran dramma della vita universale. Bone avverte qui il Gataker aver
già Socrate usato il medesimo argomento per indurre Alcibiade a
disprezzare la moltitudine, alla* quale peritavasi di farsi innanzi
a concionare: qual è, diss’egli, di costoro quegli che ti impau- risce?
forse Micillo il ciabattieref Trigaió il conciatore f Trochilo il
ferravecchio? ora non sono costoro quelli dei quali si compone V
adunanza del popolo? Che se non temi di favellare a ciascuno di
essi separatamente, che è dò.che ti fa timido a parlar loro riuniti
insieme? Il ragionamento di Socrate era giustissimo applicato ad una
moltitudine di popolo riunito, e avrebbe anche potuto ricor- dare ad
Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li Ateniesi conservatoci da Plu-
tarco: preni ad uno ad uno »iete tante volpi; riuniti insieme siete tanti
allocchi. Ma il medesimo ragionamento applicato allo cose di cui
parla Marco nostro non ò molto concludente. E una melodia, per es.,
come qui avverte opportuna- mente il Pierron, è qualche cosa di più
che una semplice successione di suoni, e Antonino dimentica di
considerare ciò appunto per cui le note musicali hanno potenza da
commovere T anima sì intimamente. Avverta il lettore che idea tragica
fondamentale ai poeti greci era la lotta infelice della volontà e liberta
morale dell’ uomo contro l’ inflessibile necessità; o per dir più
veramente, quella fatale retribuzione di giustizia che risulta
inevitabilmente alla vita umana dalle leggi necessarie dell’ordine
morale. Perchè quella necessità che non era punto upa cosa cieca secondo gli
stoici, apjio i quali il /«<o non era altro che la
concatenazione delle cause secondo le leggi della na- tura, cioè
della ragione e quindi della giustizia; quella necessità, dico, non
era punto una cosa cieca neppure nella mente dei poeti: sendo che a
Nemesi figlia appunto di essa necessità e particolarmente incaricata di
vendicare i delitti e rovesciare le troppo grandi e- immeritate
prospérità, a Nemesidico, e alla Giustizia (5“tx-ri), che erano i
due concetti più puri fra tutte le divinità immaginate dall’ antico
politeismo, il semplice, ma sublime buon senso dei Greci riferiva
tutto ciò che risguarda il supremo governo del mondo. L’idea dunque
della giustizia era congiunta con quella della necessità^ sebbene
in modo diverso, anche nella mento dei poeti, come in quella degli
stoici. Cho se Antonino non fa qui esplicitamente alcuna allusione
a quella retribuzione di giustizia, che era l’elemento morale della
tragedia greca, ma solo allude alla inutilità della lotta contro alla necessità,
e sembra così impicciolire l’idea nobilissima dell’antica tragedia; egli
è perchè questa inutilità intendeano gli stoici e i poeti allo stesso
modo, e quasi esprimevano colle medesime pa- role; laddove
intendeano in modo diverso quella retribuzione: e non erano forse i poeti
quelli clie la intendeano in modo men vicino al vero. Benissimo il
Gataker ricorda qui alcuni detti memorabili di Pocione, conservatici da
Plutarco, ai quali alludea probabilmente Antonino in questo luogo.
Già condannato a morte per giudizio iniquo de’ suoi cittadini, in
proposito. di uno che non ristava dal dirgli vil- lanie, disse
Focione: non sarà alcuno che faccia costui cessare dal disonorar «è
medesimo? E già vicino a morire, questa sola ingiunzione fece al
figliuolo: dimenticasse il fatto ingiusto degli Ateniesi. Quanto alle
parole che seguono di Marco nostro: mpposto che non e in fingenac, non
debbono esser prese come, espressione di nn sospetto nel caso
particolare di Focione, ma bensì in un senso generale, quasi dicesse
Antonino con istoica riserva, non bastar sempre le parole a dar
certo fondamento a un giudizio sulle disposizioni interne dell’animo
altrui, nè doversi mai fingere, neppur quando il fingere potesse gio-
vare a bene edificare gli uomini. Da stólto (à|*vu/jiov). Traduce inìquo,
seguendo lo Schultz che tradusse iniquum. Ma non e ben risoluto di
aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come appare dal consueto segno.
E veramente non parmi che lo ayvcofjLov possa esser preso in questo
senso, sebbene abbia quello ingrato, disleale, disamorato. Il senso
più ovvio di questo aggettivo è privo di senno, stolto, inavveduto, e
parmi che 41 1 reo Aurelio questo senso quadri benissimo in questo ,
luogo, meglio che non faccia quello di inìquo. Dopo aver detto Antonino
essere da pazzoy cioè a dire da stolto, il volere che ì malvagi non
pecchino; aggiunge che lo ammettere in tesi gene- rale ed assoluta,
poiché non si può fare altrimenti, che essi debbano di neces- sità
peccare, e il volere ad un tempo che essi facciano una eccezione a
favor tuo, è cosa non solo às. stolto ma anche da tiranno: da stolto
perchè l’eccezione, anche di un solo caso non è possibile ai malvagi;.da
tiranno perchè vuoi esser distinto e che ti si abbia maggior
rispetto che agli altri uomini. Anche il Gataker intende 1’
àyvwi^ov così; iPierron segue lo Schultz. Parole di Epitteto malissimo
interpretate da Pierron, che riferisce l’àiro OavTi al padre, quando deve
essere riferito al figliuolo, corno fece Ornato, seguendo Gataker e
Schultz. La medesima sentenza si trova anche nel Manuale del mede-
simo Epitteto con parole poco diverse, e fu benissimo tradotta dal Leopardi. Se
tu hacer<fi per avventura un tuo Jigliolino o la moglie, dirai teco
stesso: io bacio un mortale. Manuale, Tutto è opinione. Il lettore
com- prenderà facilmente come il senso stoico di questa frase,
tante volte ripetuta da Marco nostro, è al tutto alieno da quello
della famosa sentenza del sofista Protagora: V uomo è misura di tutte
le cose. La sentenza del sofista si riferiva ad ogni cosa, alla
verità obbiettiva, alla moralità come alla sensibilità, e tendea
quindi a distruggere la possibilità' di ogni cognizione teorica, la
morale come la religione. La sentenza di Antonino al contrario, il
quale, per un errore direi quasi magnanimo, riduceva, seguendo gli
stoici anteriori, tutta l’essenza dell’ uo- mo alla ragione e alla
volontà ragionevele, non si riforisce ad altro che alla sensibilità, cioè
ai piaceri e ai dolori di cui essa sensibilità è soggetto. Intendi
raziocinio nel senso proprio dei loici, cioè facoltà del sillogizzare,
operazione propria dell’intelletto; e nota qui il carattere esclusivo
del Portico, il quale considerava e stimava un nulla, non che la
sensibilità ma l’in- telletto stesso, a paragone dei buon uso della
volontà, cioè della moralità della ragione. Traducendo ho usato il
vo- cabolo raziocinio piuttosto che intelletto, perchè in italiano
il senso della parola intelletto può essere troppo facilmente
confuso con quello di ragione, la differenza fra i due non essendo così ben
determinata nella nostra lingua, come è fra i due corrispondenti tedeschi
Verstandnis e Vernunft. Ornato. Keywords: implicatura, Antonino, ad
seipsum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ornato” – The Swimming-Pool Library.
Oro -- Grice e Trissino – la difficolta dei segni di
Trissino non favori la diffusione di sua filosofia – filosofia italiana (Vicenza).
TRISSINO-DAL-VELLO-D’ORO -- or ORO (Vicenza).
Filosofo italiano. Ritratto di Vincenzo
Catena. Persona di spicco della cultura rinascimentale, notissimo al tempo, il
Trissino incarnò perfettamente il modello dell'intellettuale universale di
tradizione umanistica. Si interessò, infatti, di linguistica e di grammatica,
di architettura e di filosofia, di musica e di teatro, di filologia e di
traduzioni, di poesia e di metrica, di numismatica, di poliorcetica, e di molte
altre discipline. Nota era, anche presso i contemporanei, la sua erudizione
sterminata, specie per quel che riguarda la cultura e la lingua greche,
sull'esempio delle quali voleva rimodellare la poesia italiana. Fu anche
un grande diplomatico e oratore politico in contatto con tutti i grandi
intellettuali della sua epoca quali Niccolò Machiavelli, Luigi Alamanni,
Giovanni di Bernardo Rucellai, Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Giambattista
Giraldi Cinzio, Demetrio Calcondila, Niccolò Leoniceno, Pietro Aretino, il
condottiero Cesare Trivulzio, Leone X, Clemente VII, Paolo III, e l'imperatore
Carlo V d'Asburgo. Fu ambasciatore per conto del papato, della Repubblica di
Venezia e degli Asburgo, di cui fu un fedelissimo, come tutta la sua famiglia
da generazioni. Scoprì e protesse l'architetto Andrea Palladio, appena
adolescente, nella sua villa di Cricoli, vicino Vicenza, che venne da lui
portato nei suoi viaggi e fu da lui iniziato al culto della bellezza greca e
delle opere di Marco Vitruvio Pollione.Giovanni Giorgio Trissino nacque a
Vicenza l'8 luglio 1478 da antica e nobile famiglia. Suo nonno Giangiorgio
combatté nella prima metà Professoreil condottiero Niccolò Piccinino, che al
servizio dei Visconti di Milano invase alcuni territori vicentini, e
riconquistò la valle di Trissino, feudo avito. Suo padre Gaspare era anch'esso
uomo d'armi e colonnello al servizio della Repubblica di Venezia e sposò
Cecilia Bevilacqua, di nobile famiglia veronese. Ebbe un fratello, Girolamo,
scomparso prematuramente, e tre sorelle: Antonia, Maddalena, andata in sposa al
padovano Antonio degli Obizzi, ed Elisabetta, poi suor Febronia in San Pietro
nel 1495 e dal 1518 rifondatrice insieme a Domicilla Thiene di San
Silvestro. Targa marmorea che Trissino fece realizzare a ricordo
del suo maestro Demetrio Calcondila in S.Maria della Passione a Milano Trissino
studiò greco a Milano sotto la guida del dotto bizantino Demetrio Calcondila,
sodale di Marsilio Ficino, e poi filosofia a Ferrara sotto Niccolò Leoniceno.
Da questi maestri imparò l'amore per i classici e la lingua greca, che tanta
parte ebbero nel suo stile di vita. Alla morte di Calcondila, fece murare una
targa nella chiesa di S.Maria della Passione a Milano, dove fu sepolto il suo
maestro. Il 19 novembre 1494 sposò Giovanna, figlia del giudice Francesco
Trissino, lontana cugina, da cui ebbe cinque figli: Cecilia, Gaspare, Francesco, Vincenzo e Giulio. Trissino sostene l'Impero come istituzione,
come d'altronde era tradizione nella sua famiglia da generazioni, ma ciò venne
interpretato in spirito antiveneziano e, per questo, egli fu temporaneamente
esiliato dalla Serenissima. Nel 1515, durante uno dei suoi viaggi in Germania,
l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo autorizzò all'aggiunta del predicato
"dal Vello d'Oro" al proprio cognome e alla relativa modifica dello
stemma gentilizio (aurei velleris insigna quae gestare possis et valeas), che
nella parte destra riporta su fondo azzurro un albero al naturale con fusto
biforcato sul quale è posto un vello in oro, il tronco accollato da un serpente
d'argento e con un nastro d'argento tra le foglie, caricato del motto "PAN
TO ZHTOYMENON AΛΩTON" in lettere maiuscole greche nere, preso dai versi
110 e 111 dell'Edipo re di Sofocle che significa "Chi cerca trova",
privilegi trasmissibili ai propri discendenti. Stemma di
Giangiorgio Trissino dal Vello d'Oro come appare nel volume dedicatogli da P.F.
Castelli. In quegli stessi anni intraprese diversi viaggi tra Venezia, Bologna,
Mantova, Milano (dove conobbe Cesare Trivulzio, comandante francese) e Padova
(dove riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri). Poi si recò a
Firenze ed entrò nel circolo degli Orti Oricellari (i giardini di Palazzo
Rucellai) in cui si riunivano, in un clima di marca neoplatonica e di
classicismo erudito, Niccolò Machiavelli e i poeti Luigi Alamanni, Giovanni di
Bernardo Rucellai ed altri. Qui il Trissino discusse il De vulgari eloquentia e
compose la tragedia Sofonisba. Questi anni agli Orti Oricellari furono
centrali, sia per quanto il poeta ricevette intellettualmente, sia per la forte
impronta che lasciò sui suoi sodali: si vedano le tragedie di Giovanni di
Bernardo Rucellai e il poemetto le Api (in endecasillabi sciolti, concluso
dalle lodi del Trissino, cfr. il paragrafo sul Profilo religioso del Trissino)
o le poesie pindariche di Luigi Alamanni, o ancora i punti di contatto fra le
tante digressioni erudite sull'arte militare contenute nell'Italia liberata dai
Goti che rimandano all'Arte della guerra del Machiavelli, elaborata proprio in
quegli anni. Anzi, le idee linguistiche del poeta spronarono lo stesso
Machiavelli a scrivere anche lui un Dialogo sulla lingua, nel quale difende
l'uso del fiorentino moderno (cfr. il paragrafo Opere linguistiche). In
seguito si recò a Roma, dove stampò nel 1524 la Sofonisba (dedicandola papa
Leone X), la prima tragedia regolare, e la famosa Epistola de le lettere
nuovamente aggiunte ne la lingua italiana (dedicata a Clemente VII), un
arditissimo libello in cui si suggeriva l'inserimento nell'alfabeto latino di
alcune lettere greche per segnalare alcune differenze di lettura (vedi sotto).
Intanto il figlio Giulio, di salute cagionevole, venne avviato dal padre alla carriera
ecclesiastica e, dopo il suo soggiorno a Roma sempre presso papa a Clemente
VII, divenne arciprete della cattedrale di Vicenza. Sempre a Roma, nel
1529 Trissino diede alle stampe alcuni testi fondamentali: la versione riveduta
della Epistola, la traduzione del De vulgari eloquentia, Il castellano (dialogo
sulla lingua, dedicato a Cesare Trivulzio ed ispirato a quello dantesco), le
Rime (dedicate al cardinale Niccolò Ridolfi) e le prime quattro parti della
Poetica (il primo trattato ispirato alla Poetica di Aristotele, da poco
riscoperta), con le quali il programma di riforma letteraria classicheggiante
avviato con la Sofonisba può dirsi quasi concluso. Per i prossimi 20 anni il
poeta non stamperà più nulla. Queste opere sollevarono un grande clamore per
la loro arditezza e disorientarono (o meglio: orientarono diversamente) la
nascente letteratura italiana: nessuno aveva osato finora riformare addirittura
l'alfabeto, né aveva avuto ardire di cancellare l'intero sistema dei generi in
uso fin dal Medioevo (le sacre rappresentazioni e il poema cavalleresco, in
primis) per farne sorgere dal nulla dei nuovi, cioè poi quelli antichi (la
tragedia, la commedia e il poema epico). Da questi libelli prese avvio la
secolare questione della lingua italiana. A Bologna, nel corso
dell'incoronazione di Carlo V a Re d'Italia e Sacro Romano Imperatore, egli
ebbe il privilegio di reggere il manto pontificale a Clemente VII e Carlo lo
nominò conte palatino e cavaliere dell'Ordine Equestre della Milizia
Aurata. Secondo quanto riportato dallo storico Castellini, Trissino
rifiutò posizioni di potere offertegli dai pontefici a seguito dei successi
riportati come diplomatico (Nunzio e Legato), ad esempio l'arcivescovado di
Napoli, il vescovado di Ferrara o la porpora cardinalizia, in quanto desideroso
di una propria discendenza ed essendo il figlio Giulio avviato nella gerarchia
ecclesiastica. Rientrato a Vicenza sposa Bianca, figlia del giudice Nicolò
Trissino e di Caterina Verlati, già vedova di Alvise di Bartolomeo Trissino. Da
Bianca ebbe due figli: Ciro e Cecilia. Alla nomina di Ciro come erede
universale, si scatenarono le ire di Giulio che per lungo tempo lottò in
tribunale contro il padre e il fratellastro per poi morire in odore di eresia
calvinista. Anche a seguito delle divergenze causate dai cattivi rapporti con
Giulio, la coppia si divise quando Bianca si trasferì a Venezia, dove morì il
21 settembre 1540. Trissino manifestò il proprio fervente sostegno
all'Impero dedicando, qualche anno prima della morte, a Carlo V il suo poema in
27 canti L'Italia liberata dai Goti, il primo poema regolare destinato, come si
vede fin dal titolo, ad essere importante per la Gerusalemme liberata di
Torquato Tasso. Nel 1548 stampò anche la commedia I Simillimi, anch'essa la
prima commedia regolare. Villa Trissino di Cricoli (VI) Intanto nella
villa di Cricoli alle porte di Vicenza, già dei Valmarana e dei Badoer e
acquistata dal padre Gaspare, si radunava una delle più prestigiose Accademie
vicentine. Qui Trissino scoprì uno dei più grandi talenti della storia
dell'architettura, Andrea Palladio, di cui fu mentore e mecenate, che portò nei
suoi viaggi con sé ed educò alla cultura greca e alle regole architettoniche di
Marco Vitruvio Pollione. Morì a Roma l'8 dicembre 1550 e fu sepolto nella
Chiesa di Sant'Agata alla Suburra. Vennero alla luce le ultime due parti
della sua Poetica, la quinta e la sesta (dedicate ad Antonio Perenoto, vescovo
di Arras), che erano comunque già pronte, come si evince dalla chiusura della
quarta parte. Progetta e attua una imponente riforma della lingua e della
poesia italiane sui modelli classici, cioè la Poetica di Aristotele da poco
riscoperta, i poemi di Omero, e le teorie linguistiche esposte di Alighieri nel
“Della volgare eloquenza” riscoperto da lui stesso a Padova. Un programma in
piena antitesi sia con la moda del petrarchismo di P. Bembo, sia con quella del
romanzo cavalleresco incarnato supremamente dall' “Orlando furioso” di L.
Ariosto, che allora infuriavano. Il programma di riforma venne esposto
attraverso saggi diversi, cioè un saggio di orto-grafia e di orto-fonetica
(Epistola dele lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, dedicata a
Clemente VII), un saggio di teoria della lingua italiana (Il castellano,
dedicato a C. Trivulzio), due saggi di grammatica (“Dubbii grammaticali” e la “Grammatichetta”)
e un manuale di teoria dei generi letterari (“Poetica”). Tali proposte (specie
quella di modificare l'alfabeto inserendovi alcune lettere greche così da
rendere visibili le differenti pronunce di alcune vocali e di alcune
consonanti) e la riscoperta del “Della volgare eloquenza” di Aligheri) sono
clamorosi e fa esplodere in Italia la secolare questione della lingua,
idealmente chiusa da “I promessi sposi” di Manzoni. Questa intensa
speculazione teorica ha il suo sbocco fattuale in quattro saggi poetici, tutte
molto importanti: la Sofonisba (dedicata a Leone X), la prima tragedia regolare
della letteratura moderna (regolare si definisce un'opera costruita secondo le
norme derivate dai testi classici, essenzialmente la Poetica di Aristotele e
l'Ars poetica di Orazio), L'Italia liberata dai Goti (dedicata a Carlo V), il
primo poema epico regolare, e I simillimi (dedicata al G. Farnese), la prima
commedia regolare. Si aggiunga un volume di poesie d'amore e di encomio (Rime, dedicato
a N. Ridolfi) di gusto anti-petrarchista e ispirato ai poeti siciliani, agli
Stilnovisti, ad Aligheri e alla tradizione del Quattrocento, tutte cassate dal
Bembo. Anche queste opere sollevarono un grande dibattito, ma saranno destinate
ad avere un ruolo centrale nello sviluppo degl’umanita italiana ed europea, se
si considera l'importanza che la tragedia e l'epica, ad esempio, hanno in tutta
Europa. A lui si deve anche l'invenzione dell'endecasillabo sciolto (cioè senza
rima) ad imitazione dell'esametro classico, anche questa un'invenzione
destinata a fama europea. La sua produzione comprende diversi generi:
innanzitutto un Architettura, incompleto, ricerche sulla numismatica,
traduzioni, ed orazioni varie. Se ci si concentra solo sugli studi di teoria del
linguaggio, si ha a che fare con pochi testi, ma tutti rilevantissimi,
attraverso i quali struttura un coerente programma di riforma del linguaggio
sui modelli classici e sul linguaggio d’Alighieri ispirato alla Poetica di
Aristotele, ad Omero e al “Della volgare eloquenza”, un sistema da opporre sia
alle Prose della volgar lingua del Bembo di qualche anno prima, che aveva dato
come modelli solo Petrarca e Boccaccio (riducendo, quindi, i generi letterari
solo alla lirica e alla novella), sia all'”Orlando furioso” di L. Ariosto, che
è un romanzo cavalleresco e non un poema epico. Attraverso il proprio programma
iverrà a creare una tradizione di gusto classico del tutto nuova che nei secoli
a venire si affiancherà al bembismo sebbene agli inizi gli fu avversario. Il
suo sistema iinfatti, vuole sopperire ai vuoti lasciati dal petrarchismo
bembesco e proseguire lo sperimentalismo della tradizione antica e
quattrocentesca (la cosiddetta docta varietas). Né egli e l'unico convinto di
queste idee, come si dice ancora oltre, ma era affiancato da S. Speroni, B.
Tasso (padre di Torquato), A. Brocardo, P. Tolomei, A. Colocci, M. Equicola e
altri ancora. Volendo sintetizzare, le sue opere si raccolgono intorno a
tre date: Dà alle stampe a Roma la tragedia “Sofonisba” (composta prima
agli Orti Oricellari) e l'Epistola sulle lettere da aggiungere all'alfabeto.
Tutte le sue opere stampate in vita sono scritte secondo l'alfabeto da lui
congegnato e non con l'alfabeto usuale. Vengono date alle stampe sei opera:
“Della volgare eloquenza”, le prime IV parti della Poetica, il dialogo “Il
castellano, le Rime, i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta. Dà alla luce il poema L'Italia liberata dai
Goti, e la commedia I simillini. Passeremo in rassegna le principali opere
poetiche, tranne gli Scritti linguistici, che hanno un paragrafo
apposito. La Sofonisba è in assoluto la prima tragedia regolare della
letteratura europea, destinata a vasta fortuna specie in Francia. Secondo il
modello antico, Trissino compone una tragedia in endecasillabi sciolti, che
imitano i trimetri giambici (il verso a questa data fa la sua prima
apparizione), divisa in quadri da cori rimati: alcuni cori sono canzoni
petrarchesche mentre altri, invece, canzoni pindariche (che fanno anch'esse qui
la loro prima apparizione e si ritroveranno nella poesia di Luigi Alamanni e
poi ancora di Gabriello Chiabrera). L'argomento (con sensibile differenza dai
classici antichi) è storico (preso da Tito Livio), non fantastico, mitico o
biblico. L'azione, come poi sarà canonico nel teatro regolare, si svolge nello
stesso posto (unità di luogo) e nello stesso giorno (unità di tempo) e prevede
in scena un numero limitato di persone. Venne recitata durante il carnevale di
Vicenza, messa in scena dall'amico e allievo Andrea Palladio. La proposta
piacque, tutto sommato, e riscosse successo: l'endecasillabo sciolto, metro
nuovo, fu approvato anche dal Bembo (come ricorda Giraldi Cinzio) e divenne da
allora in poi il metro quasi canonico del teatro italiano, specie tragico (vedi
sotto). Anche nelle Rime si mostra uno sperimentatore e il Petrarca,
modello obbligatorio a prescindere dal Bembo, si fonde con immagini derivanti
da altre epoche e da altri autori, in special modo la poesia occitana, quella
siciliana, gli stilnovisti e Dante, i poeti quattrocenteschi. Nel sistema del
Trissino è possibile usare ancora metri come, ad esempio, i sirventesi e le
ballate (cassati dal Bembo) o anche introdurre particolari nuovi come gli occhi
neri di guaiaco della donna amata, immagine inventata dal poeta su un referente
quotidiano della cultura cinquecentesca e non in linea con le immagini tipiche
del Petrarca (occhi di stelle e simili). Il Castellano è un dialogo sulla
lingua dedicato a Cesare Trivulzio, comandante francese a Milano. Si ambienta a
Castel Sant'Angelo e ha per protagonisti Giovanni di Bernardo Rucellai (il
castellano, appunto) e Filippo Strozzi, amici degli Orti Oricellari. Il
Trissino espone per bocca del Rucellai il suo ideale linguistico, preso dal De
vulgari eloquentia, cioè quello di un volgare illustre o cortigiano, mobile ed
aperto, fondato in parte sull'uso moderno e concreto della lingua, e in parte
sugli autori della tradizione letteraria. Questi autori sono soprattutto Dante
e Omero poiché dotati di enargia, cioè della capacità di rendere visibili a
parole ciò di cui stanno narrando. Le idee linguistiche del Trissino
sollevarono grande clamore (fondate com'erano su un testo la cui paternità
dantesca non era ancora assicurata) e fecero scoppiare il secolare 'dibattito
sulla lingua italiana' concluso, come detto, almeno idealmente, dal Manzoni tre
secoli dopo. Fra i molti che parteciparono al dibattito si ricordi il
fiorentino Niccolò Machiavelli al quale il Trissino aveva letto il De vulgari
eloquentia sempre agli Orti Oricellari, il Bembo, ovviamente, Sperone Speroni,
Baldassarre Castiglione. Poetica Le teorie che soggiacciono a questo
vasto programma vengono esposte nella Poetica (1529), libro fondamentale non
solo per il Trissino, essendo in assoluto il primo libro di poetica in Europa
ad essere modellato sulla Poetica di Aristotele, destinato a fama secolare in
tutto il continente. Né banale né senza rischi era, come potrebbe apparire,
l'idea di resuscitare dei generi letterari di fatto morti da millenni e lontani
per gusto e ispirazione dalla società rinascimentale. Sul piano
linguistico immagina una lingua di ispirazione dantesca e omerica, cortigiana e
illustre, che contempli l'innovazione e la tradizione, che sia aperta a una
collaborazione ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo
del toscano trecentesco, che ottemperi anche l'inserimento di neologismi e di
dialettismi. Nella poesia lirica si appoggia, sempre dietro Dante, alla
tradizione occitana, siciliana, stilnovista e dantesca e anche petrarchesca.
Nella metrica saccheggia ampiamente il trecentesco Antonio da Tempo che ancora
contempla ballate e sirventesi, generi cassati dal Bembo, come detto, e si
mostra vicino allo sperimentalismo della poesia quattrocentesca. Discorre,
inoltre, della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e
latino, come fatto da lui nei cori della Sofonisba, proposta che avrà grande successo
nei secoli a venire, specie nella poesia per musica e nel melodramma.
Discorre poi della tragedia, della commedia, dell'ecloga teocritea e del poema
omerico, i generi resuscitati dal mondo classico. A ogni genere vengono date
ovviamente le proprie regole tratte da Aristotele, cioè le unità di tempo e di
luogo, per la tragedia e la commedia, e le unità narrative, per il poema epico.
Vengono quindi stabilite le nette differenze fra il romanzo cavalleresco e il
poema epico. Mentre il romanzo cavalleresco narra una vicenda fantastica
costituita dall'intreccio di molte storie diverse (alcune delle quali destinate
a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla conclusione generale della
vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà essere di matrice storica e
dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà venire raccontata dall'inizio
alla fine, e i pochi protagonisti dovranno ruotare tutti attorno ad essa, tutti
per un solo scopo, e le loro vicende dovranno venire concluse entro l'arco del poema,
non lasciando nulla in sospeso. Il genere epico, inoltre, secondo una
caratteristica che gli diventerà propria, viene dal Trissino investito di un
alto valore morale e politico, profondamente pedagogico, ignoto al romanzo, che
lo trasformano in un percorso di formazione morale e culturale. Per
questi tre generi nuovi, il poeta propone l'endecasillabo sciolto,
corrispettivo moderno dell'esametro e del trimetro giambico classici (vedi
paragrafi sottostanti). Sul piano dello stile e dei registri il poeta rimanda
alle teorie dei greci Demetrio Falereo e di Dionigi di Alicarnasso, che
ponevano come vertice dello stile poetico l'energia, cioè la capacità di
rappresentare visivamente con le parole le cose di cui s sta narrando,
prerogativa, per il Trissino, dello stile di Omero e Dante. Sempre dietro
Demetrio e Dionigi, divide la lingua italiana in quattro registri stilistici e
non tre, come voluto dalla tradizione medievale e bembesca (la cosiddetta rota
Vergilii, secondo la quale esistono 3 registri stilistici soltanto: quello
basso, esemplificato dalle Bucoliche, quello medio dalle Georgiche, e quello
alto o tragico dell'Eneide). Questo veniva a reimpostare daccapo i rapporti
ormai consolidati fra genere letterario e registro stilistico, e fu una novità
che avrebbe causato non poco l'insuccesso di un poeta il cui punto debole fu
proprio lo stile. Tornò in scena con L'Italia liberata da' Gotthi, un
vastissimo poema di endecasillabi sciolti in 27 canti, stampato nel 1547 (primi
9 canti) e nel 1548 (restanti 18), ma iniziato intorno ai primi del secolo,
nell'età di Papa Leone X. Esso è di fatto il primo poema epico moderno e sarà
destinato, come la Sofonisba, a inaugurare un genere del tutto nuovo, in
dichiarata antitesi alla tradizione medievale del romanzo cavalleresco che in
quegli anni stava sfondando con Ludovico Ariosto. L'idea che soggiace
alla composizione dell'opera è illustrata nella famosa Dedica a Carlo V che
precede il poema, dove il Trissino dichiara di essersi ispirato ovviamente ad
Aristotele e all'Iliade di Omero. Con la guida di Omero e di Demetrio Falereo
(e non di Dante, si noti), inoltre, reclama l'uso di un volgare illustre che
contempli l'inserimento di voci dialettali, arcaiche o anche latine e greche,
come infatti nel poema avviene. Come detto più volte, inoltre, lo scopo del
poema è 'ammaestrare l'imperatore', non solo attraverso dei modelli
cavallereschi, ma anche attraverso conoscenze tecniche di architettura, arte
militare e via di seguito. Il poema è ligio, insomma, a quanto stabilito nella
Poetica: la trama è tratta da un accadimento storico cioè la guerra gotica tra
l'imperatore bizantino Giustiniano I e gli Ostrogoti che occuparono l'Italia
(per la quale il poeta segue lo storico bizantino Procopio di Cesarea), che
viene raccontata dall'inizio alla fine, e i (relativamente) pochi protagonisti
ruotano attorno ad essa. I personaggi, a loro volta, saranno specchio di
altrettanti vizi e virtù da correggere, in questa crociata che sarebbe anche un
percorso di formazione bellica e morale del suo lettore ideale, cioè Carlo V
stesso. Il poema, atteso da vent'anni dai dotti italiani, fu uno dei più
clamorosi fiaschi della storia letteraria italiana, come noto, anche se ebbe un
impatto profondissimo. Critiche violente vennero da Giambattista Giraldi Cinzio
(che ne parla nei suoi Romanzi) e da Francesco Bolognetti, ma non solo. I quali
derisero il poema per la sua imitazione pedissequa dei valori dell'eroismo
classico (grandezza e generosità d'animo, nobiltà e gloria), per l'attenzione
estrema alla corretta applicazione delle regole aristoteliche, più che alla
fluidità della narrazione o al dare un rilievo psicologico ai personaggi,
assolutamente frontali. Inoltre, la ripresa parola per parola del modello
omerico (ma in generale di tutte le moltissime fonti tradotte dal poeta) fu
ritenuta noiosa, e la solennità dell'argomento venne a scontrarsi con la
prosaicità dello stile trissiniano, del metro senza rima costruito in maniera
formulare (come quello di Omero ovviamente) che rende il dettato fiacco e
stereotipato. I lunghi intervalli eruditi, inoltre, in cui il poeta si dilunga
nelle descrizioni degli accampamenti, dei monumenti della Roma medievale, di
città, architetture, armature, eserciti, giardini, mappe geografiche
dell'Italia, precetti morali, massime e apologhi eruditi e via di seguito,
soffocano la narrazione epica (nella prima edizione il poema è addirittura
corredato da tre cartine geografiche) e rendono il poema di difficile
lettura. Ciò non toglie, tuttavia, che l'Italia liberata abbia un posto
di rilievo nella letteratura: la visione di un mondo superiore di eroi solenni
e composti nella dignità del loro ideale e della loro missione, tipicamente
aristocratici, anticipava le preoccupazioni morali della Controriforma. Sarà proprio alla fine del secolo, infatti,
che il poema trissiniano avrà la sua fortuna, col Tasso ma non solo. “I
simillimi” w l'ultima opera stampata dal poeta e i modelli sono indicati da lui
stesso nella dedica a Farnese: Aristofane e la Commedia antica -- Menandro è stato
riscoperto solo nel Novecento) -- sul modello della quale il Trissino ha
fornito la favola dei cori (con l'appoggio anche dell'Arte poetica di Orazio)
ma non del prologo. Dichiarata è anche l'ascendenza da Plauto (essenzialmente i
Menecmi). Il testo è costruito in versi sciolti, ovviamente, mentre i cori sono
costituiti anche da settenari e sono rimati.Le opere linguistiche
Frontespizio del Castellano di Giangiorgio Trissino, stampato con lettere
aggiunte all'alfabeto italiano da quello Greco. I suoi saggi di filosofia del
linguaggio sono essenzialmente quattro: l'Epistola, Castellano, Dubbi,
Grammatichetta, oltre, ovviamente la Poetica. Accese discussioni suscita
il suo esordio letterario, cioè la proposta di ri-formare l'alfabeto classico
italiano, di radice latina – Lazio -- contenute nell' “Ɛpistola del Trissinω”
delle lettere nuωvamente aggiunte nella lingua italiana”, dove suggerisce
l'adozione di grafia dell’abecedario di vocali e consonanti della fonologia
greca al fine di “dis-ambiguare” un segno diversi resi allora, e ancor oggi,
con il medesimo segno grafico: e e o aperte (“ε” ed “ω”) e chiuse, z sorda e
“z” sonora (“ζ”) – “Speranζa” -- nonché la distinzione dell’“i” e dell’ “u” con
valore di vocale (i, u), o di consonante (j, v). Ri-propone questa idea, sebbene
ricorrendo a segni diverse, anche l'accademico della Crusca (cruschense)
Salvini, sempre senza successo. Accolta fu nei secoli a venire, invece, la
sua proposta di utilizzare la “z” al posto della “t” nelle vocaboli latini che
finiscono in “-tione” (implicatione > “implicazione” -- oratione >
orazione) e di distinguere sistematicamente il segno “u” dal signo “v” (uita
> “vita”) I punti principali
dell'abecedario riformato sono i seguenti: carattere fonema Distinto da
Pronuncia “Ɛ”, “ε”; E aperta [ɛ] E e E chiusa [e] “Ω” “ω” O aperta [ɔ] O o O
chiusa [o] V v V con valore di consonante [v] U u U con valore di vocale [u] J
j con valore di consonante J [j] I iI con valore di vocale [i] “Ӡ” “SPERANӠA”
“ç” – Sperança -- Z sonora [dz] Z z Z sorda [ts]. Tali idee vengono
confermate. Nel Castellano, propone il modello di una lingua
cortigiana-italiana formata dagli elementi comuni a tutte le parlate dei
letterati della penisola, non solo nel lessico ma anche al livello della
fonetica (visibile ormai grazie al suo abecedario ri-formato). La sua teoria si
appoggia ad Omero e soprattutto alla sua traduzione del “De vulgari
eloquentia”, e vede amplificata nella “Poetica”, in riferimento a tutti i
generi letterari, ed e illustrata materialmente nella sua Grammatichetta messa
a disposizione da Trissino stesso e i Dubbi grammaticali. Alla sua tesi si
dimostrano particolarmente ostili i toscani, ovviamente, visto che Aligheri
stesso asserisce nel trattato che il toscano non è il volgare illustre. Tra di
essi spicca il Machiavelli, come accennato, che compose un “Dialogo sulla
lingua” nel quale reclama la specificità del fiorentino in opposizione a Bembo
e anche a Trissino, che nella grammatica di base parte sempre dalla lingua
letteraria, anche perché l'unica in grado di assicurare a livelli profondi una
similarità fra i vari parlari italiani. Un esempio: se nel toscano di Poliziano
è normale usare “lui” in funzione di soggetto, Bembo invece rispolvera “egli” e
lo stesso fa Trissino. Machiavelli, invece, difende l'uso di “lui”, normale a
Firenze. La riforma trissiniana dei segni dell’abecedario italiano, applicata
sistematicamente da lui in tutti i suoi saggi (anche negli appunti!), è un
prezioso documento delle differenze di pronuncia tra il tosco toscano e la
lingua cortigiana, fra la lingua letteraria e la corretta pronounia Nordica (e
vicentino) perché applica i propri criteri nel pubblicare i suoi saggi o
nell'interpretare alcuni segni del toscano. La conseguente maggior difficoltà
non favoresce la diffusione della sua filosofia e porta diverse critiche da
parte dei filosofi suoi contemporanei. Sebbene sia noto come esegeta
aristotelico, il Trissino si era formato, invece, sul finire del Quattrocento e
nei primi del Cinquecento nelle capitali culturali italiane sature di cultura
neoplatonica e mistica: non ci riferiamo solo agli anni a Milano presso il
Calcondila (amico di Marsilio Ficino) o a Ferrara presso il Leoniceno, ma
soprattutto a quelli trascorsi agli Orti Oricellari fiorentini e nella Roma di
Leone X, figlio di Lorenzo de' Medici. Importanti sono i due ritratti che ci
vengono lasciati da due contemporanei. Il primo è il quello di Giovanni di B. Rucellai, che nel poemetto in versi sciolti Le
api, dopo aver discusso dell’armonia cosmica e della dottrina
ermetico-platonica dell’Anima Mundi, specifica ai vv. 698-704: «Questo sì bello
e sì alto pensiero / tu primamente rivocasti in luce / come in cospetto degli
umani ingegni Trissino, con tua chiara e viva voce, tu primo i gran supplicii
d’Acheronte ponesti sotto i ben fondati piedi / scacciando la ignoranza dei
mortali». Insomma il Trissino viene riconosciuto come un interprete del
pensiero platonico e, si direbbe, democriteo. Il secondo, invece, riguarda le
esposizioni rilasciate al'Inquisizione, dopo la morte del poeta, da parte del
Checcozzi, il quale dichiara che il Trissino «faceva discendere le anime umane
dalle stelle ne’ corpi e diede a divedere come i passaggi di quelle di pianeta
in pianeta fossero stimate altrettante morti e dicesse essere pene infernali
non le retribuzioni della vita futura ma le passioni e i vizi» (in B. Morsolin,
Giangiorgio Trissino. Monografia di un gentiluomo letterato del secolo XVI,
Firenze, Le Monnier). A questo si aggiungano ancora la ripetuta ammissione di
credere nella salvezza per sola Grazia (Morsolin, confermata nell'Epistola a
Marcantonio da Mula), cioè di essere a rigore un luterano, e la lunga
requisitoria contro il clero corrotto contenuta contenuta nell'Italia liberata,
requisitoria che però, come rilevato da Maurizio Vitale (in L'omerida italico:
Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi»,
Istituto Veneto di Scienze ed Arti, ), non figura in tutte le stampe del poema
ma solo in quelle indirizzate forse in Germania. Anche quindi, auspicava
un riordino interno della Chiesa e una sua restaurazione morale, in linea con
il generale movimento di riforma che scoppio' nel Rinascimento, con Lutero,
Erasmo etc.... senza per questo farne un luterano in senso stretto. Insomma, è
un tipico esponente della tradizione religiosa pre-tridentina, in cui il
fervido sostegno alla Chiesa romana e la vicinanza coi papi non escludono forti
iniezioni di filosofia idealista e della scuola di Crotone, di stoicismo e di
astrologia, di tradizione bizantina e millenarismo, in cui Erasmo da Rotterdam,
M.Lutero, Agrippa von Nettesheim, Pico, Ficino si fondono in una forma
religiosa eclettica e ancora tollerata prima dell'apertura del Concilio di
Trento. Le persecuzioni inizieranno dopo la sua morte e vi verrà coinvolto, invece, il figlio
Giulio, vicino al calvinismo, che subirà l'Inquisizione. Il suo poema, una
vera enciclopedia dello scibile, è molto interessante a riguardo, e queste
venature di pensiero religioso inquiete ed eclettiche sono evidenti in maniera
palese. Si ricordino gl’angeli che portano nomi di divinità pagane -- Palladio,
Onerio, Venereo etc... -- e che non sono altro che allegorie delle facoltà
umane o delle potenze naturali (Nettunio, angelo delle acque, ad esempio, o
Vulcano come metonimia del fuoco) come indicato nel De Daemonius di M. Psello e
nel pensiero idealista o accademico. E questo uno dei punti più bersagliati dai
critici contro lui, per primo, ancora una volta, G. Cinzio. Di A. Palladio
cura soprattutto la formazione di architetto inteso come filosofo umanista. Questa
concezione risulta alquanto insolita in quell'epoca, nella quale all'architetto
era demandato un compito preminentemente di tecnico specializzato. Non si può
capire la formazione filosofica ed umanistica e di tecnico specializzato della
costruzione dell'architetto Andrea della Gondola, senza l'intuito, l'aiuto e la
protezione di lui. È lui a credere nel giovane lapicida che lavora in modo
diverso e che aspira a una innovazione totale nel realizzare le tante opere. Gli
cambia il nome in Palladio, come l'angelo liberatore e vittorioso presente nel
suo poema L'Italia liberata dai Goti. Secondo la tradizione, l'incontro tra lui
e Gondola ha nel cantiere della villa di Cricoli, nella zona nord fuori della
città di Vicenza, che in quegli anni sta per essere ristrutturata secondo i
canoni dell'architettura classica. La passione per l'arte e la cultura in senso
totale sono alla base di questo scambio di idee ed esperienze che si rivela
fondamentale per la preziosa collaborazione tra i due "grandi". Da lì
avrà inizio la grande trasformazione dell'allievo di G. Pittoni e Giacomo da
Porlezza nel celebrato Andrea Palladio. E proprio lui a condurlo a Roma nei
suoi viaggi di formazione a contatto con il mondo classico e ad avviare il
futuro genio dell'architettura a raggiungere le vette più ardite di
un'innovazione a livello mondiale, riconosciuta ed apprezzata ancora oggi. Il
sistema letterario inventato dal lui non e il solo tentativo di preservare un
rapporto diretto con la cultura degl’antichi con Aligheri e con l'umanesimo del
Quattrocento, che il sistema bembiano esclude. Molti altri condividevano le sue
idee, infatti, come A. Brocardo, B. Tasso, anche loro intenti a inventare nuovi
metri su imitazione dei classici. Tuttavia, se si eccettua forse S.
Speroni, e uno dei pochi che struttura nella sua Poetica un sistema
totale, onni-comprensivo, aristotelico in senso pieno, dove ogni genere è
regolato in maniera specifica; e questo gli permette di essere un punto di
riferimento privilegiato. Bisogna fare a questo punto una distinzione
essenziale fra le sue produzione filosofica e le sue teorie letterarie. Le
opere poetiche, forse con la sola eccezione della Sofonisba e delle Rime, sono
notoriamente brute. Lo stile è fiacco e prosaico e la narrazione dispersa in
mille meandri eruditi, ragione per cui furono conosciute da tutti, lette e
ammirate, ma non apprezzate né imitate dal punto di vista stilistico. L’invenzione
del verso sciolto, che e centrale nella storia letteraria europea, infatti, non
e destinata a fiorire con lui ma solo alla fine del secolo perché venisse
accettata entro un poema di genere e di stile alto come quello epico. La sua
filosofia, invece, trova un successo secolare, non solo in Italia ma in molti
paesi europei specie nel Settecento, con la nuova moda del classicismo. Questo
specie per quel che riguarda i due generi principali del mondo degl’antichi, la
tragedia e l'epica, e con essi anche il verso sciolto. In Italia si può
dire che ha grande fortuna col verso sciolto e col poema epico, ma minore col
teatro tragico. La Sofonisba, quando usce, non era in Italia l'unica tragedia
di imitazione antica, anche se era la prima: vi erano, infatti, anche quelle di
Giovanni di Bernardo Rucellai, composte sempre agli Orti Oricellari. Ma la
tragedia ispirata ai modelli antici non trovò terreno in Italia e fu
soppiantata presto, già a metà del secolo, da quella 'alla latina' -- cioè
piena di fantasmi, conflitti, colpi di scena e sangue, shakespeariana insomma),
riportata in auge a Ferrara dalle Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio -- una
linea di gusto che, alla fine del Cinquecento e nel Seicento, si sposerà in
pieno col teatro gesuita, di ispirazione anche esso stoica e senecana.
Non così nell'epica e nel verso sciolto. Il poema del Trissino è nominato
infatti da tutti i principali autori epici dell'epoca (e spesso in mala fede),
da Bernardo Tasso (intento anche lui alla realizzazione del poema Amadigi, che
nella prima stesura era in versi sciolti) e Giambattista Giraldi Cinzio (che
compose contro l'Italia liberata il volume Dei romanzi), F. Bolognetti e via
via fino a Tasso. Quest'ultimo parla spesso dell'Italia liberata nei Discorsi
del poema eroico e, sebbene ne rilevi i limiti, la tiene presente chiaramente
come modello teorico e anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata (fra
cui la famosa morte di Clorinda, ripresa da quella dell'amazzone Nicandra, ad
esempio). Vale la pena specificare che il titolo di “Gerusalemme liberate”,
infatti, non fu deciso dal Tasso (che nei Discorsi chiama sempre il suo poema “Goffredo”),
ma dallo stampatore A. Ingegneri, che doveva aver notato la somiglianza
dell'opera tassiana col poema trissiniano. Mentre nel Rinascimento i
critici iniziavano a discutere dei rapporti fra poesia epica e romanzo
cavalleresco, si assiste a un lento processo di 'acclimatazione' del verso
sciolto nei poemi narrativi. Dapprima viene usato nei generi minori, come le
ecloghe pastorali, i poemetti georgici, gli idilli o le traduzioni, ma alla
fine del secolo sarà impiegato in opere imponenti come l'”Eneide” di Caro, o
nel poema sacro del Mondo creato di Tasso, o nello stile fastoso dello Stato
rustico di G. Imperiale o quello classico di Chiabrera in pieno Barocco. Anzi, proprio Chiabrera
(non a caso allievo di Speroni) si può dire che sia il suo grande erede,
animato come lui dal desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi
letterari sui modelli classici. La Poetica è citata dal Chiabrera in punti
importanti, sia in difesa del verso sciolto, sia dei generi metrici non
bembeschi o nuovi, sia, implicitamente, nella ripresa del mito di Dante e di
Omero (cfr. il paragrafo apposito in Chiabrera). Il Trissino ebbe ancora
fortuna anche nel XVIII secolo, con l'edizione in due volumi Scipione Maffei di
Tutte le opere (Verona, Vallarsi, ancora oggi punto di riferimento
indispensabile), e con nove tragedie intitolate Sofonisba, una delle quali
d’Alfieri. Grande fu l'influenza anche nel melodramma: si contano ben
quattordici Sofonisba, una delle quali di Gluck e uno di Caldara. Ma a parte la
fortuna della Sofonisba, considerando che la riforma poetica dell'Accademia
dell'Arcadia si ispira dichiaratamente alla poesia e alla metrica del
Chiabrera, possiamo dire che il Trissino sia stato uno dei fondatori della
poesia arcadica e capostipite di una tradizione letteraria, anche quella del
melodramma settecentesco. Non a caso è uno degli autori più presenti nella
ragion poetica di Gravina, maestro del giovane Pietro Metastasio, la cui prima
opera sarà la tragedia Giustino, una riproposizione quasi parola per parola del
III canto dell'Italia liberata dove si narrano gli amori di Giustino e di
Sofia. PCastelli dedica la poeta una intera monografia (La vita di
Giovangiorgio Trissino oratore e poeta). Si può dire, quindi, che non solo
nell'epica il Trissino abbia avuto fortuna, ma anche nel teatro italiano, anche
se nelle forme del melodramma e non quelle della tragedia, come tipico della
tradizione italiana. Questo grazie, soprattutto, alla mediazione del Chiabrera,
che seppe rendere le forme metriche del Trissino (prima fra tutte il verso
sciolto) di insuperabile eleganza. Nell'Ottocento si ricordino l'Iliade
di Vincenzo Monti e l'Odissea di Ippolito Pindemonte, che proseguono la grande
storia del verso sciolto nella traduzione italiana, e le considerazioni di tre
grandi scrittori. Il primo è Manzoni che, meditando sul romanzo storico,
rifletté anche sui rapporti fra creazione poetica e verosimiglianza storica
date da Aristotele nello scritto Del romanzo storico e, in genere, de’
componimenti misti di storia e d’invenzione. Il secondo è G. Carducci che
stronca il poema ne I poemi minori del
Tasso (in L’Ariosto e il Tasso) e il terzo è B. Morsolin che compose la
biografia del poeta (Giangiorgio Trissino o monografia di un letterato) che
ancora oggi è indispensabile.Francia In Francia, invece, si assiste in un certo
senso alla situazione opposta e le teorie del Trissino trovarono vasta eco più
nel teatro che nel poema epico, questo anche perché in generale il teatro
classico francese ha sempre prediletto i modelli greci ai latini e il teatro,
in genere, al melodramma. Nel teatro francese l'influenza della Sofonisba sarà
forte: la prima rappresentazione documentata in francese è nel castello di
Blois, davanti alla corte della regina, Caterina de' Medici, non a caso una
fiorentina[29]. La corte di Francia era già abituata d'altronde alla poesia
italiana di stile classico da almeno trent'anni, dopo il soggiorno presso
Francesco I di Francia di Luigi Alamanni. Da qui in poi si conteranno otto
Sofonisba fino alla fine del Settecento, una delle quali di Pierre Corneille.
Non così invece nell'epica, genere che in Francia trovò poco seguito, e nel verso
sciolto, che non si acclimatò mai nella poesia francese, poco adatta per suo
ritmo naturale a un verso senza rima. Il Voltaire, che amava l'Ariosto, ricorda
l'Italia liberata nel suo Saggio sulla poesia epica più che altro per rilevare
le pecche del poema. In Inghilterra si ricorda la fortuna del verso
sciolto (blank verse) a partire dal XVII secolo, che avrà la sua consacrazione
nel Paradiso perduto di Milton, e le lodi tributate al Trissino da Pope nel
prologo alla Sofonisba di Thomson. In Germania si ricordano tre Sofonisba.
Anche Goethe possede una copia delle Rime trissiniane Opere: “Sofonisba,
tragedia Ɛpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua
Italiana; De vulgari eloquentia di Alighieri; traduzione Il castellano,
dialogo: Daelli; Poetica; Dubbi grammaticali; Grammatichetta; L'Italia liberata
dai Goti, poema epico I simillimi, commedia Galleria d'immagini Gian
Giorgio Trissinoincisione da Tutte le opere non più pubblicate di Giovan
Giorgio Trissino, Miniatura di Gian Giorgio Trissino. Incisione da
Castelli La vita di Giovangiorgio Trissino, Targa a Trissino, in piazza Gian
Giorgio Trissino. Targa posta sulla casa natale di Gian Giorgio Trissino,
in corso Fogazzaro 15 a Vicenza, opera di Bartolomeo Bongiovanni.Medaglione
posto nel salone di Palazzo Venturi Ginori, a Firenze, raffigurante Giovan
Giorgio Trissino, membro dell'Accademia Neoplatonica che lì ebbe sede.
Bernardo Morsolin Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo
XVI, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino. Bernardo
Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo
XVI,Margaret Binotto, La chiesa e il convento dei santi Filippo e Giacomo a
Vicenza, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino, Bernardo
Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato. L'incisione
recita: DEMETRIO CHALCONDYLÆ ATHENIENSIIN STUDIIS LITERARUM
GRÆCARUMEMINENTISSIMOQUI VIXIT ANNOS LXXVII MENS. VET OBIIT ANNO CHRISTI
MDXIJOANNES GEORGIUS TRISSINUS GASP. FILIUSPRÆCEPTORI OPTIMO ET
SANCTISSIMOPOSUIT. Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino,
ernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato; Bernardo
Morsolin Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI, Giambattista
Nicolini, Vita di Giangiorgio Trissino, Nell'originale sofocleo "τὸ δὲ
ζητούμενον ἁλωτόν", letteralmente "ciò che si cerca, si può
cogliere". Bernardo Morsolin,
Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato, Pierfilippo Castelli, La
vita di Giovan Giorgio Trissino, Pierfilippo Castelli, La vita, Antonio
Magrini, Reminiscenze Vicentine della Casa di Savoia. Bernardo Morsolin,
Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato. Bernardo Morsolin,
Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato, Silvestro Castellini, Storia
della città di Vicenza...Pierfilippo Castelli, La vita di Giovan Giorgio
Trissino, 1753, nota a pag 48 Bernardo
Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI,
1Come i saggi di Lucien Faggion ricordano, per preservare il patrimonio
famigliare non era inusuale sposare cugini di altri rami della medesima
famiglia. La decisione di scegliere Ciro
come proprio erede ebbe ripercussioni drammatiche per diverso tempo. Oltre al
trascinarsi della causa civile intentata da Giulio al padre e a Ciro, nacque
una vera e propria faida tra i discendenti Trissino dal Vello d'Oro e i parenti
del ramo dei Trissino più prossimo alla prima moglie, Giovanna. Le voci che
fecero risalire a Ciro la denuncia anonima alla Santa Inquisizione delle
simpatie protestanti di Giulio nel 1573, spinsero Giulio Cesare, nipote di
Giovanna, a uccidere Ciro a Cornedo nel 1576, davanti a Marcantonio, uno dei
suoi figli. Quest'ultimo decise di vendicare il padre, accoltellando a morte Giulio
Cesare che usciva dalla cattedrale di Vicenza il venerdì santo del 1583. R.
Trissino, altro avversario dei Trissino dal Vello d'Oro, s'introdusse nella
casa di Pompeo, primogenito di Ciro, e ne uccise la moglie, Isabella Bissari, e
il figlioletto Marcantonio, nato da poco. Si vedano al proposito vari saggi
sull'argomento di Lucien Faggion, tra cui Les femmes, la famille et le devoir
de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles. Dovette affrontare una
causa civile intentatagli dai Valmarana: negli ultimi decenni ProfessoreAlvise
di Paolo Valmarana perse villa e tenuta, giocandosele col patrizio Orso Badoer,
che rivendette la proprietà a Gaspare Trissino. Gli eredi Valmarana tentarono
di riprendersela ipotizzando un vizio all'origine, ma il tribunale diede
ragione ai diritti del Trissino. Si veda Lucien Faggion, Justice civile,
témoins et mémoire aristocratique: les Trissino, les Valmarana et Cricoli au
XVIe siècle,. Bernardo Morsolin,
Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI, voce Trissino
nel sito Treccani L'Enciclopedia Italiana.
Paolo D'Achille, Trissino, Giangiorgio, in L'Enciclopedia
dell'Italiano. "Palladio" è
anche un riferimento indiretto alla mitologia greca: Pallade Atena era la dea
della sapienza, particolarmente della saggezza, della tessitura, delle arti e,
presumibilmente, degli aspetti più nobili della guerra; Pallade, a sua volta, è
un'ambigua figura mitologica, talvolta maschio talvolta femmina che, al di
fuori della sua relazione con la dea, è citata soltanto nell'Eneide di
Virgilio. Ma è stata avanzata anche l'ipotesi che il nome possa avere
un'origine numerologica che rimanda al nome di Vitruvio, vedi Paolo Portoghesi,
La mano di Palladio, Torino, Allemandi, 2 Dal volantino della mostra dedicata a
Trissino, in occasione dell’anniversario della promulgazione dello Statuto del
Comune, organizzata dalla Provincia di Vicenza, Comune di Trissino e Pro Loco
di Trissino. L. Cicognara, Storia della
scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, Giachetti,
Losanna, 1824. Sull'autore in generale si vedano almeno tre testi
fondamentali: Pierfilippo Castelli, La vita di Giovangiorgio Trissino,
oratore e poeta, ed. Giovanni Radici, Venezia, Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI, Firenze, Le Monnier, Atti
del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza); N. Pozza, Vicenza,
Neri Pozza, Sulla Sofonisba: E. Bonora La "Sofonisba" del
Trissino, Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, M. Ariani, Utopia e storia nella
Sofonisba di Giangiorgio Trissino, in Tra Classicismo e Manierismo, Firenze,
Olschki, C. Musumarra, La Sofonisba ovvero della libertà, «Italianistica»,
Sulle Rime: A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella
tradizione del classicismo, Ferrara, Panini, C. Mazzoleni, L’ultimo manoscritto
delle Rime di Giovan Giorgio Trissino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di
letteratura e filologia italiana, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori,
Sull'Italia liberata si vedano almeno (in ordine di stampa): F. Ermini,
L’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino. Contributo alla storia
dell’epopea italiana, Roma, Romana, A. Belloni, Il poema epico e mitologico,
Milano, Vallardi, Ettore Bonora, L'"Italia Liberata" del Trissino,Storia
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poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma, Bulzoni, Renato Bruscagli,
Romanzo ed epos dall’Ariosto al Tasso, in Il Romanzo. Origine e sviluppo delle
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dibattito culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori, I. Pagani, La
teoria linguistica di Dante, Napoli, Liguori,
C. Pulsoni, Per la fortuna del De vulgari Eloquentia nel primo
Cinquecento: Bembo e Barbieri, «Aevum», E. Pistoiesi: Con Dante attraverso il
Cinquecento: Il De vulgari eloquentia e la questione della lingua, «Rinascimento»,
Per le trafile del codice dantesco posseduto dal Trissino, oggi alla Biblioteca
Trivulziana di Milano, cfr. l'introduzione diRàjna alla sua edizione del De
Vulgari Eloquentia (Firenze, Le Monnier) e G. Padoan, Vicende veneziane del
codice Trivulziano del “De vulgari eloquentia”, in Dante e la cultura veneta,
Atti del convegno di studi della fondazione “Giorgio Cini”,
Venezia-Padova-Verona, V. Branca e G. Padoan, Firenze, Olschki, Tutti i testi
del Trissino si rileggono nei due volumi intitolati Tutte le opere Scipione
Maffei (Verona, Vallarsi, 1729), che non riproducono però l'alfabeto inventato
riformato. Alcuni testi hanno avuto delle edizioni moderne: La Poetica si
rilegge nei Trattati di poetica e di retorica del Cinquecento B. Weinberg,
Bari, Laterza, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato dal Trissino.
Scritti linguistici, A. Castelvecchi, Roma, Salerno (che contiene la Epistola
delle lettere nuovamente aggiunte, Il Castellano, i Dubbii grammaticali e la
Grammatichetta). I testi sono riprodotti con l'alfabeto inventato dal Trissino.
La Sofonisba è stata curata da R. Cremante, nel Teatro del Cinquecento, Napoli,
Ricciardi, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato dal Trissino ed è
dotato di un vasto commento e introduzione. La traduzione del De vulgari
eloquentia si può leggere in D. Alighieri, F. Chiappelli, nella collana “I
classici italiani”, G. Getto, Milano, Mursia, oppure, assieme al testo latino,
nel 2 tomo dell’Opera Omnia curata da Scipione Maffei (vedi sotto). Per
l'Italia liberata dai Goti e per I Simillimi si deve ricorrere, invece, alle
prime edizioni o all'edizione del Maffei o alle ristampe sette-ottocentesche.
Per l'elenco completo di tutte le stampe, ristampe, studi ed edizioni sul
Trissino vedi Alessandro Corrieri, Giangiorgio Trissino., consultabile (aggiornata
al 2 settembre ) presso// nuovorinascimento.org/cinquecento/trissino.pdf. A. Palladio Trissino (famiglia). Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Gian Giorgio Trissino, Gian Giorgio
Trissino (altra versione) / Gian Giorgio Trissino (altra versione) / Gian
Giorgio Trissino (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere
di Gian Giorgio Trissino,. Opere di Gian Giorgio Trissino, su Progetto Gutenberg.
Gian Giorgio Trissino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. ItalicaRinascimento:
Giovan Giorgio Trissino, L'Italia liberata dai Gotthi. L’uomo solo ha il
comercio del parlare. Questo è il nostro vero e primo parlare. Non
dico nostro, perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo. Perciò che fra
tutte le cose che sono solamente a l'uomo e dato il parlare ,sendo a lui
necessario solo. Certo non a gl’angeli non a gl’animali inferiori e
necessario parlare. Adunque sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo
bisogno di esso. E la natura certamente abborrisce di fare cosa alcuna
invano. Se volemo poi sottilmente considerare la INTENZIONE del parlar [parabola]
nostro, niun'altra ce ne troveremo, che il MANIFESTARE all’altro questo o
quello CONCETTO de la mente nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima e
neffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire questo o quello gloriosi
concetto, per la qual sufficienzia d'intelletto l'uno è TOTALMENTE NOTO all'altro, o per sè, o almeno per quel
fulgentissimo specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi e in cui
avidis simi sispecchiano. Per tanto pare, che di ni uno SEGNO DI PARLARE ha
mestieri. Ma chi opponesse a questo, allegando quei spiriti, che cascarono dal
cielo; a tale opposizione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi
trattiamo di quelle cose, che Sono Che Q a bene essere , devemo essi
lasciar da 3 parte, conciò sia che questi perversi non vol lero aspettare
la divina cura. Seconda risposta,e meglio è,che questi demoni a MANIFESTARE fra
sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere , se non qualche cosa di
ciascuno, perchè è, e quanto è 1 : il che certamente s a n no ; perciò che si
conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. Agl’ANIMALI INFERIORI poi non fu
bisogno provvedere di parlare. Conciò sia che per solo ISTINTO DI NATURA siano
guidati.E poi tutti quelli animali, che sono di una medesima specie, hanno le
medesime azioni, e le medesime passioni; per le quali loro proprietà possono le
altrui conoscere; ma aquelli che sono di diverse specie, non solamente non e
necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo
alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che IL SERPENTE che PARLA
a la prima femina, e l'asina di Balaam PARLA, a questo rispondo, che l'ANGELO nell’asina
e IL DIAVOLO nel serpente hanno talmente operato che essi animali mossero gli
organi loro. E così d'indi la voce risultò distinta, come vero parlare; non che
quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del serpente altro che
fischiare. Il testo ha: nonindigent, nisiutsciantquilibetde quolibet, quia
est, et quantus est. Parrebbe più proprio il tradurre cosi:non hanno bisogno di
conoscere, se non ciascheduno di ciaschedun altro, che è,e quanto è: ossia
l'esistenza e il grado. Se alcuno poi argumentasse da quello, che Ovidio
disse nel quinto della Metamorfosi, che LE PICHE parlarono. Dico che dice
questo FIGURATAMENTE, intendendo altro. Ma se si dicesse che le piche al
presente e altri uccelli parlano, dico che è falso; perciò che tale atto NON è
parlare, ma è certa imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si
sforzano di imitare noi in quanto SONIAMO ma non in quanto PARLIAMO (cf.
‘talk,’ ‘speak’, ‘speak in tongues’). Tal che se quello che alcuno
espressamente dicesse, ancora la pica ridicesse, questo non sarebbe se non
rappresentazione , o vero imitazione del SUONO di quello, che prima avesse
detto. E così appare, agl’UOMINI SOLI essere stato dato il PARLARE; ma per qual
cagione esso gli fosse NECESSARIO, ci sforzeremo brievemente trattare. Che e
NECESSARIO agl’uomini il comercio. Ovendosi adunque l'uomo NON PER ISTINTO DI
NATURA ma per ragione. E essa ragione o circa la separazione !, o circa il
giudidizio, o circa la elezione diversificandosi in ciascuno; tal che quasi
ogni uno de la sua pro . La voce del testo discretio sarebbe resa meglio dalla
parola discernimento. del parlare. , pria specie s'allegra; giudichiamo
che niuno intenda l'altro per la sua propria AZIONE o PASSIONE, come fanno le
bestie; nè anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro, come l'angelo,
sendo per la grossezza e opacità del CORPO mortale la umana specie da ciò ritenuta.
Fu adunque bisogno che volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE IL SUO
CONCETTO avesse qualche SEGNO SENSUALE e razionale; per ciò che dovendo
prendere una cosa da la ragione, e ne la ragione portarla, bisognava essere
razionale; ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare, SE
NON PER IL MEZZO DEL SENSUALE e bisogno essere sensuale, perciò che se 'l fosse
solamente razionale, non potrebbe trapassare; se solo sensuale, non potrebbe
prendere dalla ragione, nè ne la ragione de porre. E questo è segno che il
subietto, di che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono, egli è per
natura una cosa sensuale e inquanto che, secondo la volontà di ciascu ,
significa qualche cosa, egli è razionale 1. Iltestoha: Hoc equidem signum est, ipsum
subjectum nobile, dequoloquimur: natura sensuale quidem, in quantum sonus est ,
esse; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum. A noi
pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questo segno, l'aliquod
rationale signum et sensuale di cui ha parlato poche righe più sopra, è per
l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo. Sensuale per natura, in quanto è
SUONO. Razionale, in quanto che, se A che uomo fu prima dato il parlare, e
che disse prima, & in che lingua l'uomo solo fu dato il parlare. Ora istimo
che appresso debbiamo investigare, a che uomo fu prima dato il parlare, e che
cosa prima disse, & a chi parlò, e dove e quando, & eziandio in che
linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima
parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del
mondo, si truova la femina, prima cheniunaltro, aver parlato, cio è lapre
sontuosissima EVA, la quale al DIAVOLO, che la ricercava , disse , ‘Dio ci ha
commesso , che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso,
e che non lo tocchiamo , acciò che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in
scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato, non di meno è ragionevol
cosa che crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa
inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa.
Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo, che
sarebbe di troppo ; ma ,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega
meglio col senso di tutto il Capitolo. 9 Anifesto è per le cose già dette
, che a pensare, che così eccellente azione de la il generazione umana
prima da l'uomo, che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo
ad esso essere stato dato primier mente il parlare da Dio, subito che l’ebbe
formato. Che voce poi fosse quella che parla prima, a ciascuno di sana mente
può esser in pronto e io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o
vero per modo d'interrogazione, o per modo di risposta. Assurda cosa veramente
pare, e da la ragione aliena, che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima
che Dio; con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uomo. E siccome, dopo
la prevaricazionedel'u m a n a generazione , ciascuno esordio di parlare
comincia da heu ; così è ragionevol cosa , che quello che fu davanti ,
cominciasse da alle grezza , e conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio,ma
tuttoinDio,& esso Dio tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo
p a r lante dicesse primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di
sopra detto, l'uomo aver prima per via di risposta parlato, se risposta
fu,devette esser a Dio; e se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che
parrehbe contra quello che avemo detto di sopra. Al qual dubbio
risponderemo,che ben può l'uo mo averrisposto a Dio, chelointerrogava, nè per
questo Dio aver parlato di quella LOQUELLA, che dicemo.Qual è colui, che
dubiti, che tutte le cose che sono non si pieghino secondo il voler di Dio,da
cuièfatta, governata,econservata , ciascuna cosa ? É conciò sia che
l'aere a tante alterazioni per comandamento della natura in feriore si muova,
la quale è ministra e fattura di Dio, di maniera che fa risuonare i tuoni,
fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi, e slancia la grandine ;
non si moverà egli per comandamento di Dio a far risonare alcune parole le
quali siano distinte da colui, che maggior cosa distinse?e perchè no? Laon de
& a questa, & ad alcune altre cose credia mo tale risposta bastare.
Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da le cose superiori,come da
le in feriori), che il primo uomo drizzasse il suo primo parlare primieramente
a Dio , dico, che ragionevolmente esso primo parlante parlò s u bito,che fu da
la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo crediamo,che molto più cosa
umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che egli sia sentito,e senta
come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni perfezione principio &
amatore ,inspirando il primo uomo con ogni perfezione compi , ragionevole cosa
mi pare, che questo perfettissimo animale non prima cominciasse a sentire, che
'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse contra le obiezioni, 11
Iudicando adunque (non senza ragione trat, che non era bisogno che l'uomo
parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro segreto senza parlare, ed
anco prima di noi discerne ; ora (con quella riverenzia , la quale devemo usare
ogni volta,che qualche cosa de l'eterna volontà giudichiamo),dico,che avegna che
Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una medesima cosa quanto a Dio) il concetto
del primo parlante senza parlare, non di meno volse che esso parlasse; acciò
che ne la esplicazione di tanto dono, colui, che graziosamente glielo avea do
nato,se ne gloriasse.E perciò devemo credere, che da Dio proceda , che ordinato
l'atto de i nostri affetti, ce ne allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il
loco, nel quale fu mandata fuori laprimafavella;perciòchesefuanimato l'uo m o
fuori del paradiso, diremo che fuori: se dentro , diremo che dentro fu il loco
del suo primo parlare. Ra perchè i negozii umani si hanno ad esercitare per
molte e diverse lingue, tal che molti per le parole non intesi da molti, che
se fussero senza esse; però fia buono investigare di quel parlare, del quale si
crede aver usato l'uomo, che nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima
l'uomo parld, e donde fu l'autore di quest'opera. madre, e senza
latte si nutri, e che nè pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come
in altre molte, Pietramala è amplissima città, e patria de la maggior parte dei
figliuoli di Adamo .Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione,
che creda, che il loco della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi
sotto il Sole, a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare,
cioè la sua materna locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere
essa essere stata quella diAdamo.Ma noi,acuiilmondo èpatria, sì come a'pesci il
mare , quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che
amiamo tanto Fiorenza,che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno
le spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E
benchè se condo il piacer nostro , o vero secondo la quiete de la nostra
sensualità, non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo
lumi de'poeti e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e
particularmente si descrive , e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del
mondo , e le abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo
equatore,fermamente comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più
nobili e deliziose che Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son
cittadino; e molte nazioni e molte genti usare più dilette vole, e più utile
sermone , che gli Italiani. R ir tornando adunque al proposto, dico
che una certa forma di parlare fu creata da Dio insie me con l'anima prima ,e
dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e quanto a la construzione
de'vocaboli , e quanto al proferir de le con struzioni; la quale forma
veramente ogni par lante lingua userebbe, se per colpa de la pro sunzione umana
non fosse stata dissipata, come di sotto si mostrerà. Di questa forma di par
lare parlò Adamo , e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la torre di
Babel , la quale si interpreta la torre de la confusione. Questa forma di
locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i quali da lui furono detti
Ebrei ; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò che il nostro Redentore ,
il quale doveva nascere di loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la
grazia, e non di quella de la confu sione 1. Fu adunque lo ebraico idioma
quello, che fu fabbricato da le labbra del primo par lante . ' Il testo ha :
qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem ,non lingua confusionis, sed
gratiæ frue retur.E deve tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo
l'umanità , usasse della lingua della grazia , e non di quella della
confusione. Hi come gravemente mi
vergogno di rin 15 e per De la
divisione del parlare in più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non
possia mo lasciar di passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa , e
l'animo la fugge , non starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai
peccati , oh da principio , e che mai non finisce, piena di nequizia; non era
stato assai per la tua corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e
stesti in bando de la p a tria de le delizie? non era assai, che per la
universale lussuria, e crudeltà della tua fami glia, tutto quello che era di te,
fuor che una casa sola, fusse dal diluvio sommerso , il male , che tu avevi
commesso , gli animali del cielo e de la terra fusseno già stati puniti ? Certo
assai sarebbe stato; ma come prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo
anzi terza ; e tu misera volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che
l'uomo , o vero scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo
gli occhi da le sferze, che erano rimase , venne la terza volta a le botte, per
la sciocca sua e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu
rabile uomo, sotto persuasione di gigante, di , superare con l'arte
sua non solamente la na tura,ma ancoraessonaturante,ilqualeèDio; e cominciò ad
edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione,
per la quale sperava di ascendere al cielo, avendo intenzione, lo sciocco,non
solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia senza
misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo?
Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna , & a battiture
assueta , il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione
castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua concorsa ;
parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte
impiombavano,parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per
ter ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere
s’affatica vano , quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che
dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera , diversificandosi in
molte loquele , da essa cessavano , nè mai a quel medesimo comercio convenivano
; & a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osservò che
in luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro
neamente la volgata nel testo latino , si deve leggere : pars amussibus
tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre : parte
arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano. istessa loquela attualmente rimase , come a
tutti gli architetti una , a tutti i conduttori di sassi una,a
tuttiipreparatori di quegli una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che
di quanti varj esercizj erano in quell'opera , di tanti varj linguaggi fu la
generazione umana disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di
ciascuno , tanto era più grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li
quali il sacrato idioma rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio
loro; anzi gravemente biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli
operanti.M a questi furono una minima parte di quelli quanto al numero ; e
furono , sì come io comprendo , del seme di Sem , il quale fu il terzo
figliuolo di Noè , da cui nacque il popolo di Israel, il quale usò de la
antiquissima locu zione fino a la sua dispersione. e specialmente in Europa. Er
la detta precedente confusione di lin gue non leggieramente giudichiamo , che
allora primieramente gli uomini furono sparsi per tutti iclimi del mondo e per
tutte le re gioni & angoli di esso. E conciò sia che la P
Sottodivisione del parlare per il mondo, principal radice dela propagazione
umana sia ne le parti orientali piantata , e d'indi da l'u no e l'altro lato
per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione nostra distesa; final mente
in fino a l'occidente prodotta , là onde primieramente le gole razionali
gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di tutta Europa. Ma
ofusseroforestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o pur nati prima in E
u ropa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi seco ; e
parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte la
settentrionale , & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci , parte de
l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari , come di sotto
dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari , Tedeschi, Sassoni , Inglesi
& altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo
solo per segno, che avessero un medesimo prin cipio , che quasi tutti i
predetti volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo
idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel
tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua . si chiama
Europa, e più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta ,
tenne un terzo idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia ; perciò
che volendo affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spagnuoli ,
Francesi & Italiani .Il segno adunque che i tre volgari di costoro
procedessero da uno istesso idioma,è in pronto;perciò che molte cose chiamano
per i medesimi vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama
,& altri molti.Di questi adunque de la meridionale Europa , quelli che
proferiscono oc tengono la parte occidentale, che comincia da i confini
de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte
orientale, cioè fino a quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno
del mare Adriatico e la Sicilia. Ma quelli che affermano con oil,quasi sono
settentrionali a rispetto di questi ; perciò che da l'oriente e dal
settentrione hanno gli Ale manni , dal ponente sono serrati dal mare in 1 Il
testo ha : A b isto incipiens idiomate , videlicet a finibus Ungarorum versus
orientem aliud occupa vittotum quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est
protractum . Totum autem , quod in Europa restat ab istis , tertium tenuit
idioma. E deve essere tradotto cosi: A cominciare da questo idioma, cioè dai
confini degli Ungari verso oriente, un altro idioma occupò l'intero tratto che
da quei confini in là si chiama Europa , e che si protrae anche più oltre.
Tutto il tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19
glese, e dai monti di Aragona terminati , dal mezzo di poi sono chiusi
da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a
pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla
prova , cimentare. , ragione, che
avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo
aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che intervenne al parlare , che da
principio era il medesimo. Ma conciòsiachepercammininoti più tosto e più
sicuramente si vada , però so lamente per questo nostro idioma anderemo,e gli
altri lascieremo da parte , conciò sia che quello che ne l'uno è ragionevole ,
pare che eziandio abbia ad esser causa ne gli altri. È adunque
loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in tre parti diviso ,
perciò che alcuni dicono oc , altri si, e altri oil. E che questo dal principio
de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente provar si deve)
appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli eccellenti dottori
dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo il medesimo parlare
si muta , e de la invenzione de la grammatica. A la quale
convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la edificazione
di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte cose
convengono, e massimamente in questo vocabolo,Amor. Gerardo di Berneil , «
Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di Navara, «De'finamor
sivientsenebenté.» M. Guido Guinizelli, « Nè fè amor , prima che gentil core,
Nè cor gentil,prima che amor,natura.» Investighiamo adunque , perchè egli in
tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste variazioni in
sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par lare da quello
de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani , e altramente i Pisani : e
investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano differenti nel
parlare,come è iMila nesi e Veronesi, Romani e Fiorentini;e ancora perchè siano
differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome di gente,come Napole
tani e Gaetani , Ravegnani e Faentini ; e quel che è più maraviglioso,
cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli che in una medesima città
dimorano , come sono i Bolognesi del borgo di san Felice , e i Bolognesi della
strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e varietàdi sermone,che
avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste. Dico adunque , che niuno
effetto avanza la sua ca gione, in quanto effetto,perchè niuna cosa può fare
ciò che ella non è.Essendo adunque ogni nostra loquela (eccetto quella che fu
da Dio insieme con l'uomo creata) a nostro benepla cito racconcia,dopo quella
confusione,la quale niente altro fu che una oblivione de la loquela prima,
& essendo l'uomo instabilissimo e va riabilissimo animale , la nostra
locuzione ne durabile nè continua può essere ; m a come le altre cose che sono
nostre (come sono costumi & abiti), simutano;cosìquesta,secondo ledi
stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi.Però non è da dubitare
che nel modo che avemo detto,cioè,che con ladistanziadeltempo il parlare non si
varii, anzi è fermamente da tenere ; perciò che se noi vogliamo sottilmente
investigare le altre opere nostre,le troveremo molto più differenti da gli
antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra età, q u a n
tunquecisianomoltolontani1.Ilperchèaudace mente affermo, che se gli
antiquissimi Pavesi ora risuscitassero,parlerebbero di diverso parlare di
quello, che ora parlano in Pavia ; nè altrimente questo , ch'io dico , ci paja
maraviglioso , che , 1Iqualicisianomolto lontani (magis....quam a
coetaneis perlonginquis). ciparrebbe a vedere un giovane
cresciuto,il quale non avessimo veduto crescere.Perciò che le cose , che a poco
a poco si movono , il moto loro è da noi poco conosciuto;e quanto la va
riazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto essa cosa è
da noi più stabile esistimata.Adunque non ci ammiriamo,se i discorsi di quegli
uomini,che sono poco da le bestie differenti, pensano che una istessa città abbia
sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la variazione del parlare di
essa città non senza lunghissima successione di tempo a poco a poco sia
divenuta , e sia la vita de gli uomini di sua natura brevissima. Se adunque il
sermone ne la istessa gente (come è detto) successivamente col tempo si varia,
nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il par lare di coloro, che
lontani e separati dimorano, sia variamente variato; sì come sono ancora
variamente variati i costumi & abiti loro , i quali nè da natura,nè da
consorzio umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la conve nienzia de i
luoghi nasciuti.Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica ; la quale
grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi
tempi e luo ghi.Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata , non
par suggetta al singulare arbitrio di niuno, e consequentemente non può essere
variabile.Questa adunque trovarono,ac ciò che per la variazion del parlare , il
quale DE LA VOLGARE ELOQUENZIA. 23 De la varietà del parlare
in Italia da la destra e sinistra parte de l'Appennino. Gian Giorgio Trissino
dal Vello d'Oro. Oro. Keywords: la riforma della lingua italiana, filosofia del
linguaggio, Alighieri, lingua e linguaggio, codice di comunicazione, il parlare
umano, il parlare solo umano, la prima lingua, la parlata dei genovesi, la
filosofia del linguaggio in Alighieri, l’eloquenza, la filosofia del linguagio,
only man speaks. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trissino” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Orrontio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A senator and
follower of Plotino – cited by Porfirio.
Grice ed Orsi – filosofia italiana – filosofia
fascista – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Palma di Montechiaro). Filosofo italiano. Grice: “Orsi uses ‘psicologia
speculativa’ where I would use ‘psicologia filosofica,’ since speculativa opposes
to prattica, rather!” --Allievo di Ottaviano, insegna a Catania. Pubblica nella
sua attività di ricerca scritti minori di autori italiani e il saggio “Gl’hegeliani di Napoli.” Cura l'edizione
dell'opera di Ottaviano su Campailla; “La psicologia filosofica di Spaventa” –
e stato nella segreteria della rivista “Sophia”. Altri saggi: “Lo spirito come
atto puro,” “La filosofia moderna,” “L'uomo al bivio: immanentismo o
cristianesimo? Saggio di realismo esistenziale, “Antropologia”; “Psiche e meta-fisica”
“Psicologia speculativa” “Sulla psico-patia”. Grice: “The D’Orsi – and indeed a
Domenico D’Orsi, back in the 1700s, are a very noble family in Sicily. D’Orsi
is associated with “Sophia”, founded by Ottaviano. His interests have been many
and varied – but most notably philosophical psychology, which the Italians call
‘psicologia speculativa’ as opposed to cheap scientific psychology. They have
the great Spaventa, who philosophized on the most abstract issues concerning
the old Roman idea of an ‘animo’. Compared to what Ryle’s and Watson’s
psychological behaviourism is a no-no-no!” O’Orsi has philosophized on
democracy. I democratici can be ingenuii, as I prefer them, or critici. He has
also ‘cured’ the edition of Ottaviano on Campailla, and went continental to
study Napoli!” Grice: “Orsi has done a lot to allow us to understand Spaventa.
As most Italians, Spaventa was fascinated by the Hun, and cared to trasnalte a
book that the Hun never cared to read: Lotze’s Elementi di psicologia
speculativa. I can imagine Spaventa wondering what he was doing, bringing
Lotze’s ‘seele’ as ‘animo’. The ‘elements’ by Lotze, as translated by Spaventa,
are elementary enough – but the section on the ‘soul/body’ (anima/corpo),
‘animo/corpo, corpo animato, corpo inanimate) is interesting. But far more
interesting is Orsi’s unearthing Spaventa’s “Psiche e metafisica” – not to be
confused with LABRIOLA’s essay by the same name. This is a hodge podge of
reflections. But mainly anti-materialistic. While an emergentist, Spaventa (as
discovered by Orsi) struggles to understand the connection between ‘sentire’ and
‘sentito’ and more generally, between the ‘sentire’ as a processo fisiologico –
Spaventa goes on to distinguish three levels of the ‘sentire’ – the first is
the processo fisiologico itself, the second is what Spaventa, as unearthed by
Orsi, calls the ‘unita distintiva del sentito’, and the third is the ‘unita
reflessiva del sentito’ or ‘raprresentazione’. So if you feel cold, there’s
cold qua processo fisiologico of a ‘corpo animato’ – ‘uninanimated bodies
cannot FEEL cold’ – second there is the unity of COLDNESS as distinctive from
say, HEAT. And third there is the concetto ‘’freddo’ – so that there is a
‘unita reflessiva del sentito’ – the expression ‘freddo’ now NAMES or
represents, or stands for the sensation itself. Domenico D’Orsi. Orsi. Keywords:
animo, amore, Ottaviano, Campailla, Spaventa, gl’hegeliani di Napoli, Sophia.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orsi” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ortensio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A philosopher.
Grice ed Ortes – il verso -- filosofia italiana –
Luigi Speranza -- (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “Being English, I was often
confronted with that very ‘silly’ song by Cleese and Idle, but then they were
never the first! Which is good, since they are Cambridge and Ortes is Oxonian!
Viva La Fenice!” -- Considerato uno dei più dotati tra i filosofi veneti
settecenteschi, precursore nell'analizzare dal punto di vista della produzione
complessiva alcuni aspetti come popolazione e consumo. La sua impostazione
filosofica si fonda su un rigoroso razionalismo. Nel mercantilismo vide far
gran confusione fra moneta e ricchezza. Fu un sostenitore del libero scambio pur
con alcune restrizioni della proprietà che interessavano il clero, anche se
appartenevano al passato ed è considerato per questo un anticipatore di Malthus,
ma con qualche contraddizione. Malthus prevede l'aumento della popolazione, in
trenta anni, in modo esponenziale, quindi molto di più dell'aumento delle
sussistenze. Altre saggi: “Grandi, abate camaldolese, matematico dello Studio
Pisano, Venezia, Giambatista Pasquali, “ Dell'economia nazionale” (Venezia); “Sulla
religione e sul governo dei popoli” (Venezia); “Saggio della filosofia degli
antichi” -- esposto in versi per musica (Venezia); “Dei fedecommessi a famiglie
e chiese,” Venezia, “Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto
all'economia nazionale: errori popolari intorno all'economia nazionale e al
governo delle nazioni” (Milano, Ricciardi), R. Donati (Genova, San Marco dei
Giustiniani). Catalano, Dizionario Letterario Bompiani. AMilano, Bompiani, Citazionio
su Treccani L'Enciclopedia Italiana. Quanto i suoi studi matematici influissero
sul suo metodo economico,vedremo; qui, brevemente, come in fluissero sulle sue
considerazioni filosofiche. Così, scrive egli delle opinioni (1) ed ecco si
studia di ridurre a (1) “Calcolo sopra il valore delle opinioni e sopra i
piaceri e i dolori della vita umana”, Venezia, Pasquali, ristampato dal Custodi,t.XXIV
degli ECON. MOD. FILOSOFIA IN FORMULE MATEMATICHE numero
determinato il valore dell'opinione, che alcun gode, per possedere certa
qualità che lo pone innanzi agli altri nella scelta degli oggetti piacevoli.
Questa buona opi nione nasce o dai natali,come la nobiltà,la patria ecc., o
dallaprofessione,come la milizia,lelettere ecc.,o da qualche prerogativa, come
dall'autorità, dal merito ecc. Ciascun uomo fornito di alcuna di queste qualità
gode di qualche cosa che non godrebbe se ne fosse privo. Ortes si studia di
determinare il valore di questi beni recati dall'opinione. Valga un esempio. Se
si chiede quanto aggiunga di valore alla nobiltà l'opinione della stessa, Ortes
ragiona così: postoche larenditagiorna liera di tutte le famiglie nobili sia
20,000, quella che proviene da cariche,magistrature,commende ecc. 3,300, quella
che vien data dall'opinione,cioè coll'autorità di disporre di più posti, e
colla riputazione dei grandi sul volgo, a 700,posto che il numero di tutti i
nobili sia 10,000, il valore di tutta la nobiltà sarebbe espresso da 20,000 + 3,300
+ 700 = 2. Falostessocoin 10,000 puto per le altre opinioni,di cui dice esser
pretesto la virtù,ma verofinel’interesseproprio,poichè,dipen dendo il valore
delle opinioni dalla ricchezza attuale o possibile, è manifesto che si deve
prima d'ogni altra cosa cercare l'utileproprio. Avverte che v'ha sempre
un'opinione predominante che varið col variare dei secoli: ai tempi di Roma li
bera era la conquista;sottoAugusto illusso;ilplato nismo ai tempi di
Costantino; l'investitura ai tempi di Gregorio VII ; le lettere sotto Leon X
;finalmente lozio a tempi dell'autore! Strana è questa classificazione,
44 PIACERI E DOLORI. tuttavia 1?Ortes mostra come il pretesto della virtù
coprisse basse mire di privato interesse. Lo stesso ozio ha il suo pretesto
dell'ordine, benchè sia figlio di vana alterigia.L'uomo che dee servire a molte
di queste opi nionisaràpiùcivile,ma piùtimidoefinto;chiapoche; sarà più
rozzo,ma anche più sicuro e più libero. E come l’Ortes si studia di ridurre a
calcolo le opi nioni,così parimenti i piaceri e i dolori. Meno originale e meno
astruso è l'Ortes in questo scritto.Con molta inesattezza di idee e di lingua,
espone daprincipioladottrina chetuttociòcheèconforme alla conservazione e
sviluppo del nostro essere, genera piacere; il contrario,dolore; parla dei
dolori e piaceri delsenso,dei dolori e piaceri dell'opinione; mostra l'uomo
naturalmente soggetto al dolore, e che il piacere non è che un sollievo del
dolore; con ragionamento curioso studiasi mostrare che il piacere non può mai s
u perare il dolore, perchè il piacere essendo preceduto, secondo l'Ortes, dal
dolore, sopito che questo sia, tutto quel di più di piacere che si volesse
applicare gene rerebbe dolore contrario, come l'indigestione dopo la fame
cessata, la stanchezza dopo la danza ecc. Il calcolo del piacere e dei
dolori dipende dal grado della elasticità delle fibre onde alcuno è
fornito,e,quanto ai piacerie dolori d'opinione, dalla stima che ciascuno
fadeglistessi. L'autore nonpretendeanovitàdidot trina, professa di avere
scritto secondo la propria espe rienza, con un temperamento indolente é coisuoi
sensi inun'etàdimezzo.Vedrem poi com’eglistessone ab bia dato un giudizio
severo. Due altre opere filosofiche si hanno dell’Ortes : un
ragionamento delle scienze utili e delle dilettevoli per
rapportoallafelicità umana;— e riflessioni su gli oggetti apprensibili, sui
costumi e sulle cognizioni umane per rapporto alle lingue (1); ma si può
dispensarsi dal tener dietro a questi discorsi, che, a dir vero, son
pesantissimi. In sostanza l'uno si riduce a mostrare l'ufficio delle umane
facoltà nella scienza e nelle arti belle,anche queste in titolandole scienze ma
dilettevoli,in contrapposto delle a ltre che chi ama scienze utili; nelle
scienze tiene il campo l'intelletto, nelle arti belle l'imaginazione; quelle
hannoperoggettoilverocom'è,questeilveroma ela borato dalla fantasia. Quindi
discorresi in quali termini sia concesso il lavoro dell'imaginazione e
concludesi sul tenore dell'epigrafe : Sol la scienza del ver giova ed alletta.
L'altro ebbe occasione dallatraduzione del Pope, perchè volendo ragionare delle
difficoltà del tradurre, si trova così accresciuta in mano la materia, che
piuttosto d’un proemio s’appiglia a farne un saggio a sè. In fatto prende la
cosa da alto, e filosofeggia sulla varietà reale degli oggetti e sulla varietà
nel modo di rappresentarseli, onde s'apre l'adito a discorrere delle lingue e
delle loro diversità, quindi intorno l'uso della parola, e particolarmente
intorno all'eloquenza. Infine ritorna donde era partito, e conclude che se il
traduttore può benissimo esporre le verità apprese da altra lingua, non potrà
tuttavia produrne tale impressione negli ani mi, come ne è prodotta
dall'originale, se non facendo sene come nuovo autore, esprimendole cioè
inmodo; tip. Pasquali. SUL MODO DI TRADURRE. Non si può negare che
osservazioni argute si tro vino spesso nell'Ortesa ncheinqueste
riflessionisugli oggetti apprensibili, suicostumi, e sulle cognizioni umane per
rapporto alle lingue; ma pur troppo è d'uopo cercarsele in una lettura assai
noiosa. Qualche volta dà risalto a quell'idea che vedremo poi sua prediletta in
economia, che cioè quello solo riesca ove siavi la pubblica persuasione, non
già ove questa non corrispondaagliimpulsi; e però egregiamente dice, che allora
un ammiraglio potea condurre gli’inglesi in
America, come un tempo un romito potea condurli in Soria, perchè gl’inglesi
stessi voleano e avean voluto così. Qualche volta, faticosamente sì, ma pur si
conduce a qualche sentenza netta e perspicua, come, p. es., dopo GOLDONI,
COLTURA ALLAMODA, PUB. OPINIONE. Adatto all'indolee ai pregi della propria lingua. Chi volesse calcare l'autore
straniero sarebbe come chi cre desse ricopiare un ritratto con soprapporvi
isuoi colori, coprendone così e confondendone letinte,ecangiando il quadro in
un mascherone o in un empiastro. necessità invece che gli scrittori s'accordino
sempre col carattere nazionale de'lettori; e qui l’Ortes osserva, che il
miglior poeta comico italiano de'suoi tempi potea bensi starsene in Francia per
passar quivi meglio i suoi giorni, ma non giammai perchè il suo talento comico
fosse così ben rilevato nella lingua francese a Parigi, come il fu già in
Venezia nel dialetto suo veneziano. Qualche volta sembrerebbe anche gaio,come
quando si lagna che, temendosi la fatica dello studio, si trascu rassero le
cognizioni vere, contentandosi di dizionari, giornali, compendi o altri
repertori per dilettare, diver tire,ocome diceano,per amuseare! È USO DELLA
PAROLA PEI GOVERNI avere deplorato che il mondo governisi da chi più ciarla ,
non da chi più sa, egli conclude: se chi preten desse governar altri senza
render ragione del suo go verno,sarebbe uomo assai vano;ilsarebbe non men
certamente chi pretendesse governarli per sola copia ed eleganza di voci.
Qualche volta infine dimostrasi d'animo aperto e sollecito per le innovazioni.
« Qui cade a proposito (così egli) d'avvertire l'errore di quelli che si
figurano di richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune (cioè gli in
teressi comuni, pubblici, universali in contrapposto ai particolari, privati, speciali)
perquantovi sifosse smarrita, col rinovar quelle leggi che ne prescrivevano le modificazioni
a'tempi de'lorobisavoli, progetto al tutto assurdo e impossibile. La verità e
la ra » gione comune potrà ben richiamarsi per leggi, per quanto a'tempi
trasandati fosse stata più riconosciuta » per sè stessa in quei costumi, di
quel che il sia ai tempi presenti per costumi che la modificassero in contrario
di sè medesima; giacchè essa in sè stessa è una sola di tutti i luoghi e di tutti
i tempi; ma il richiamarla al presente per le sue modificazioni antiche, quando
tali modificazioni debbon ad ogni tempo esser diverse, non può essere che una
miseria » di mente, per cui si creda la natura non più capace » d'invenzioni in
sua natura, di quel che siasi un po vero consigliere segreto che creda operar
in sua rece. Chi declama contro i nuovi costumi che si vanno in » troducendo, e
deplora gli usati che si van disusando; ha molta ragione se inuovi costumi son
modificazioni di una ragion men comune, di quel che siano gli usatichea
quellidan luogo. Ma seinuovicostumi son » tanto buone modificazioni della comun
ragione, quanto gli usati che siperdono; ei declama inutilmente, come se
ciòfosse contro il variar de venti, essendo l’una e l'altra cosa quanto
innocente, tanto inevitabile e necessaria,e potendo,anzidovendo,quella comun
ragione,per disposizione di natura e per sapienza illimitata del supremo suo
artefice, praticarsi sempre per modificazioni diverse, e comparire in sembianze
ché non siano giammai le stesse, essendo nondimeno la stessa per sè medesima.
Senza questo una simile verità o ragione correrebbe rischio di non esercitarsi
che per inganno; ed è ancor vero che talvolta con richiamare la verità, la
ragione, e la religione stessa per le sole loro modificazioni esterne di tempi
molto remoti, si riesce a perdere tutto il senso reale ed interno di queste
virtù, incariabili per sè stesse, riducendole a quelle materiali loro
modificazioni esterne, senza alcun rapporto a quell interno lor senso e
significato. Si pigli intanto l'Ortes in parola, poichè avrem campo di trovarlo
in seguito così reluttante a certe modificazioni che non sembra quel desso.
Meglio avremo occasione di riandare alcuni suoi pensieri dello stesso libro,
che con certo apparato filosofico mettono innanzi quell'armonia degli interessi,
da lui tanto raccomandata nelle sue opere economiche. Ma lasciamo per ora
queste meditazioni di filosofia. Gianmaria Ortes. Ortes. Keywords: verso. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ortes” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ostiliano – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A follower of the Porch. Ostiliano’s claim to fame was that
Vespasiano banished him from Rome.
Grice ed Otranto – implicatura – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Otranto). Filosofo italiano. Grice:
“Otranto wrote a tractatus ‘de arte laxeuterii,’ which is an art of
‘divination,’ as when we say that smoke divinates fire!” -- Grice: “Had Otranto
not written ‘scritti filosofici’ we wouldn’t call him a philosopher!” – Filosofo.
Sull'infanzia e sulla formazione poco è noto. Non si sa dove oggiorna e studia,
né chi siano stati i suoi maestri. La sua filosofia, però, lascia immaginare
una formazione molto solida. Insegna a Casole. Tradusse la liturgia di Basilio
ed altri testi liturgici per volontà del vescovo. Le sue competenze
linguistiche gli valeno inoltre degli incarichi diplomatici. Interprete al
seguito dei legati papali Benedetto, cardinale di Santa Susanna, e Galvani. E a
Nicea al seguito del re Federico di Svevia. Saggi: “L'arte dello scalpello”,
con una raccolta di testi geo-mantici ed astrologici; traduzioni di testi
liturgici; “Dialogo contro i giudei”; Tre monografie o syntagmata “Contro i
Latini” -- su questioni dottrinali significative nella polemica fra cattolici
ed ortodossi (quali la processione dello spirito santo o il pane azzimo);
un'appendice ai tre syntagmata; lettere e frammenti di lettere;. J Hoeck-R.J. Loenertz, Nikolaos-Nektarios von
Otranto Abt von Casole. Beiträge zur Geschichte der ost-westlichen Beziehungen
unter Innozenz III. und Friedrich II., Ettal. M. Chronz: Νεκταρίου, ηγουμένου
μονής Κασούλων (Νικολάου Υδρουντινού): « Διάλεξις κατά Ιουδαίων». Κριτική
έκδοση. Athena, L. Hoffmann: Der anti-jüdische
Dialog Kata Iudaion des Nikolaos-Nektarios von Otranto. Universitätsbibliothek
Mainz, Mainz, Univ., Diss., Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Homosexuality in a textual gap in what was going on
in Italian Byzantine convents under Roman rules. Longobards being raped, or
raping Greek monks. Nicola Nettario d’Otranto. Otranto. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Otranto” – The Swimming-Pool Library. Grice ed Ottaviano –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Grice ed Ottaviano – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. Filosofo
italiano. il primo principe. Historia augusta, scritta d’Ottaviano. His
philosophical teachers are well known. The education of a prince. Augusto
lasciò alla sua morte un dettagliato resoconto delle sue opere: le Res Gestae
Divi Augusti. Svetonio in particolare racconta che una volta morto, lasciò tre
rotoli, che contenevano: il primo, disposizioni per il suo funerale, il
secondo, un riassunto delle opere, da incidere su tavole in bronzo e da
collocare davanti al suo mausoleo, il terzo: la situazione dell'Impero. Quanti
soldati erano sotto le armi e dove erano dislocati, quanto denaro era
nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali, oltre alle imposte
pubbliche.[166] Il testo dell'opera è tramandato da un'iscrizione, sia in
latino sia in traduzione greca, rinvenuta nel 1555. Era incisa sulle pareti del
tempio, dedicato alla città di Roma e ad Augusto, situato ad Ancyra (l'odierna
Ankara, la capitale della Turchia) e pertanto è stata denominata Monumentum
Ancyranum. Altre copie, molte delle quali sono giunte frammentarie, dovevano
essere incise sulle pareti dei templi a lui dedicati. In uno stile
volutamente stringato e senza concessioni all'abbellimento letterario, Augusto
riportava gli onori che gli erano stati via via conferiti dal Senato e dal
popolo romano per i servizi da lui resi; le elargizioni e i benefici concessi
con il suo patrimonio personale allo Stato, ai veterani di guerra e alla plebe;
i giochi e le rappresentazioni dati a sue spese; infine gli atti da lui
compiuti in pace e in guerra. Il documento non menziona il nome dei
nemici e neppure quello di qualche membro della sua famiglia, con l'eccezione
dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa, Gaio Cesare e Lucio Cesare,
oltre al futuro imperatore Tiberio. Ottaviano fu totus politicus, fin
dall'adolescenza. Forse lo rivendicava egli stesso nelle sue memorie. L'unico
frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo esattamente le sue parole
racconta di lui men che diciannovenne alle prese con una imprevista e
imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto in termini
politici. Si trattava di un «miracolo» ed egli capì subito che andava
capitalizzato. Durante i giochi da lui organizzati in memoria di Cesare, nel
luglio 44 - momento di massima incertezza politica, tra 'liberatori' perplessi
e cesariani frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per ben sette
giorni. Il fenomeno fece molta impressione. «Il volgo – scrive Ottaviano nelle
sue memorie - credette (“vulgus credidit”) che quella stella significasse che
l'anima di Cesare era stata accolta tra gli dei immortali. Usando tale pretesto
(quo nomine) feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al busto di Cesare che
feci consacrare nel foro». Il brano è citato da Plinio nella Naturalis
Historia, il quale commenta: «Queste furono le sue parole, destinate al
pubblico, ma una gioia intima gli suggeriva che quella stella era nata per lui,
e che lui nasceva in essa» (II, 93). L'episodio ha avuto una eco imponente
nella letteratura poetica e storiografica, coeva e successiva. La formale
decisione del Senato romano - che stabili essere Giulio Cesare un dio - ebbe
luogo il primo gennaio del 42: Divus lulins. In tal modo Ottaviano diventava
ope legis «figlio di Dio», Divi filius. C'è chi pensa che già nell'agosto 43,
in concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, Ottaviano abbia
ottenuto tale prezioso riconoscimento'. Ma di fatto le premesse Ottaviano le
aveva poste con l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una
vasta tradizione superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio. Ma
al benefico «astrum Caesariso fa già riferimento Virgilio giovane, e ormai
rinfrancato, nell'Ecloga IX, v. 47. La carriera di Augusto era incominciata già
l'anno prima, quando, neanche allora in ottima salute, aveva raggiunto Cesare
in Ispagna per esser presente all'ultima durissima lotta contro i pompeiani,
culminata nella battaglia, fino all'ultimo incerta, di Munda. Difficile
stabilire se Cesare lo avesse già allora notato, se Azia - madre di Ottaviano -
abbia attratto l'attenzione di Cesare su di lui, se Ottaviano abbia forzato la
situazione superando le esitazioni materne. Quanto ci sia di riscrittura post
eventum e quanto invece di autenticamente vero in questo passaggio, che i
biografi cortigiani di Augusto esaltarono come premonitore, forse non si potrà
mai accertare. In ogni caso spicca la capacità dimostrata da Cesare di
scegliere un 'successore', In politica non accade quasi mai. I capi carismatici
hanno, oltre che l'idea della propria indispensabilità, anche la certezza della
propria superiorità. Di qui la loro sospettosa sfiducia verso il proprio
entourage, nel quale pur debbono 'pescare' chi verrà dopo di loro. A sua volta
Ottaviano ha cercato per anni, e resta tra gli arcana delle sue ultime ore di
vita se sia stato davvero pago della scelta compiuta (Svetonio, Vita di
Tiberio, 21). E ben si comprende: Cesare sceglieva un figlio adottivo ed erede
che poteva, se si fosse confermato capace, diventare un capoparte; Ottaviano,
invece, pur avendo «restaurato la repubblica» cercava un successore. Anche dal
modo in cui risolse questa tormentosa difficoltà degli anni finali viene fuori
il ritratto di un politico totale dotato di una visione in cui la certezza
della propria insostituibilità' (che rende, tra l'altro, ancor più disperante
la ricerca di un successore) si sposa con la tenacia nel perseguire
l'attuazione di un disegno; coniugare conservazione e rivoluzione, dare alle
istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una salda cornice di
conservazione. Il che era molto di più, e molto più complicato, di una
riproposizione aggiornata del 'principato di Pompeo'. Gli anni della lunga pace
non erano stati facili. Non erano mancati, in quei lunghi anni di governo
solitario, congiure, insidie, e persino il rischio che i conflitti si
riaprissero. Da qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono e non
irrilevanti. E se Seneca ne era informato vuol dire che ne trovava la traccia
nelle inedite Historiae ab initio bellorum civilium che suo padre aveva
continuato a scrivere e ad aggiornare ma non se l'era sentita di pubblicare. E
anche questa prudenza di uno storico accorto, che da giovane aveva fatto a
tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per Augusto, alla
fine, l'unica scelta possibile era quella della «storia sacra». Perciò, quando
la lunga 'pace civile' del suo interminabile governo non ebbe più bisogno di
una ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica,
egli inventò un altro strumento che affermasse in modiessenziali e monumentali,
sperabilmente 'per sempre', la sua verità: il solenne e sacralizzante riepilogo
dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi, non soltanto ad una
cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nacque in lui l'idea delle
Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero e perciò salvatesi:
covate e limate nel corso degli anni, e alla fine pronte, oltre che per
l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato intimidito e
allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca dell'erede
designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui Druso. Per
Roma era una radicale novità. Era la via epigrafica alla «storia sacra», sul
modello delle grandi epigrafi regie del mondo iranico (Dario a Bisutun) e del
mondo egizio, faraonico e poi Il ruolo delle Res gestae era quello non solo di
dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare anapoditticamente
ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare accettare questa
'verità' come l'unica vera nel momento stesso in cui la successio dinastica ne
rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro grandezza e, insieme, la
loro fragilità.
Grice ed Ottaviano – collettivismo – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Modica). Filosofo. Grice: “Perhaps with Holllinghurst, and Hogarth, of course,
Ottaviano is one of the few who have cherished in the analysis of ‘la curva’ or
‘la linea’ – and it has revived a debate which should fascinate a few!” Diplomatosi
a Modica, si laurea a Milano. Straordinario di Storia della Filosofia a Cagliari,
poi a Napoli, ottenne la cattedra, conseguendovi la libera docenza ne passò poi
a Catania, dove fonda e diresse l'Istituto di Magistero, insegnandovi. Fonda la
rivista “Sophia”. Grande conoscitore della filosofia del periodo medievale, di
cui peraltro ritrova e studiò molte opere inedite, elaborò una propria teoria. Delle due saggi, “Critica dell'Idealismo”
(Napoli,) e “Metafisica dell'essere parziale” (Padova), la prima ma fu ben
presto censurata e poi bruciata pubblicamente a causa della sua dura critica
all'Idealismo di Gentile. Questa sua opposizione a Gentile, nonché le sue
critiche a Croce, gli valeno dure vessazioni accademiche. Compone inoltre un ampio e comprensivo
Manuale di storia della filosofia (Napoli). Membro dell'Accademia d'Italia, si
occupa, per primo, della filosofia di Gioacchino da Fiore, esaltato d’Aligheri
nella Commedia, pubblicandone un saggio. Pubblica il codice di Oxford “Joachimi
Abbatis Liber contra Lombardum,” che attribuì a qualche seguace della scuola di
Fiore. Mentre celebrava, a Novara, Pietro Lombardo, riprese a parlare di Fiore,
presentandolo come un romantico "ante litteram" e un fautore della
nazione italiana. Segnalò pure due ignorati codici gioachimiti della biblioteca
Casanatense di Roma, occupandosi altresì della condanna di Gioacchino da parte
del Concilio Lateranense ed evidenziandone lo sgomento suscitato. Inoltre,
nella rivista Sophia, diretta da lui ed allora edita dalla MILANI di Padova,
diede spazio a vari studiosi gioachimiti. Sempre sull'argomento, ritenne
dapprima Gioacchino un triteista, ma, dopo aver visionato le tavole del Liber
figurarum, scoperto da L. Tondelli propese invece per un'ortodossia trinitaria.
Fonda e diresse un partito nazionale d'impronta social-liberale, che però non
ebbe seguito. Opere principali: Pietro Abelardo. La vita, le opere, il
pensiero” (Poliglotta, Roma); “Il "Tractatus super quatuor evangelia"
di Fiore, Archivio di filosofia, Padova, Testi medioevali inediti. Alcuino,
Avendanth, Raterio, Anselmo d’Aosta, Abelardo, Incertus auctor” (Olschki,
Firenze); Joachimi abbatis Liber contra Lombardum (Scuola di Gioacchino da
Fiore), Reale Accademia d'Italia Studi e documenti, Roma, Un documento intorno
alla condanna di Gioacchino da Fiore” (Rondinella, Napoli); Pier Lombardo, in
Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione
del Libro, Urbino); “Critica dell'Idealismo” (Rondinella, Napoli); “Metafisica
dell'essere parziale” MILANI, Padova); “La tragicità del reale, ovvero la
malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia” (MILANI, Padova); Tommaso
Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in
Italia, introduzione e note D. D'Orsi” (MILANI, Padova); E. Scarcella,
Dizionario Biografico degli Italiani, D. D'Orsi, Il filosofo della quarta età:
ricordo di Ottaviano, quotidiano “La Sicilia”, Catania, di. D.'Orsi, Tra
Socrate e Gesù: quattro anni fa moriva, quotidiano “La Sicilia”, Catania,. E. Scarcella,
Dizionario Biografico degli Italiani, stituto
dell'Enciclopedia Italiana, Roma,. Gioacchino da Fiore Massimiliano Pace, Info Magazine. Grice: “I
love Ottaviano: he had three main interests: philosophy, philosophy, and
philosophy. More specifically, as a Sicilian he was not interested in Italian
philosophy, which he found too continental; he loved a mediaeval – and he loved
Gentile – he corresponded extensively with him! La visione cristiana di Ernesto
Buonaiuti, F. Campitelli, Foligno 1924. A proposito di un libro sul
Prepositino, in «Rivista di filosofia neoscolastica», a. XX, 1928, pp. 366 –
371. Traduzione, prefazione e note di: Anselmus Cantuariensis, Opere
filosofiche, trad. pref. e note di C. Ottaviano, 3 vol., Carabba, Lanciano
1928. Metafisica del concreto. Saggi di una Apologetica del
Cattolicesimo, Angelo Signorelli editore, Roma 1929. Ricerche lulliane,
in «Estudis universitaris catalans», XIV, 1929, pp. 1 – 13. Pietro
Abelardo. La vita, le opere, il pensiero, Tipografia Poliglotta, Roma
1929. Otto opere sconosciute di Raimondo Lullo, in «Rivista di cultura»,
maggio – giugno 1929, pp. 214 – 224; luglio – agosto 1929, pp. 289 – 296;
tradotta in francese: L'Ars compendiosa de R. Lulle, avec une étude sur la
bibliographie et le Fond Ambrosien de Lulle, Paris 1930; ristampata sempre in
francese: L'Ars compendiosa de R. Lulle, avec une étude sur la bibliographie et
le Fond Ambrosien de Lulle, par Carmelo Ottaviano, Librairie philosophique J.
Vrin, Paris 1981. Guglielmo d'Auxerre. La vita, le opere, il pensiero,
Biblioteca di filosofia e scienze, Roma 1930. A proposito di un libro su
S. Anselmo, in «Rivista di filosofia neoscolastica», a. XXII, 1930, pp. 379 –
387. I problemi del realismo, in «Giornale critico della filosofia
italiana», n. 5, 1930. Le “Quaestiones super libro Praedicamentorum” di
Simone di Faversham, in «Memorie della R. Accademia dei Lincei» Serie VI, vol.
III, fasc. IV, Roma 1930. Traduzione, prefazione e note di: Tommaso
d’Aquino, Saggio contro la Dottrina averroistica dell’unità dell’intelletto,
Carabba, Lanciano 1930. Traduzione, prefazione e note di: Tommaso
d’Aquino, Saggio sull'essere e l'essenza e altri opuscoli, prefazione,
traduzione e note critiche di C. Ottaviano, Carabba, Lanciano 1930.
Frammenti abelardiani, in «Rivista di cultura», fasc. 11, Prof. P, Loescher,
Roma 1931, pp. 3 – 23. Il "Tractatus super quatuor evangelia"
di Gioacchino da Fiore, in «Archivio di filosofia», Parte I, Padova 1931, pp.
73 – 82. Osservazioni critiche sui presupposti del problema della
conoscenza. Il superamento dell'immanenza sulla base della nozione di
individuo, in «Archivio di filosofia», n. 3, novembre 1931, pp. 35 – 47.
Il pensiero e il suo atto, in «Archivio di filosofia», n. 4, dicembre 1931, pp.
20 – 31. La riforma della logica di Aristotele, in «Archivio di
filosofia», n. 4, dicembre 1931. Nota polemica, in «Rivista di cultura»,
n. 9 – 10, 1931. Le opere di Simone di Faversham e la sua posizione nel
problema degli universali, in «Archivio di filosofia», 1931. Traduzione,
curatela e note di: Tractatus de Universalibus attribuito a San Tommaso
d’Aquino, a cura di C. Ottaviano, Reale Accademia d'Italia, Roma 1932.
Introduzione, traduzione, prefazione e note di: Anselmo d'Aosta, Il Monologio,
Palermo 1932. Antologia del pensiero medioevale. Per le scuole medie
superiori, Ires, Palermo 1932. Testi medioevali inediti. Alcuino,
Avendanth, Raterio, S. Anselmo, Pietro Abelardo, Incertus auctor, a cura di
Carmelo Ottaviano, Olschki, Firenze 1933. Riccardo di San Vittore, la
vita, le opere, il pensiero, in «Atti della Reale Accademia dei Lincei», Traduzione,
prefazione e note di: Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente verso
Dio, traduzione, prefazione e note di C. Ottaviano, Antologia del pensiero
medievale per le scuole medie superiori, Palermo 1933. Il pensiero di
Francesco Orestano, Ires, Palermo 1933. Il superamento dell'immanenza in
B. Varisco, in «Archivio di filosofia», n. 4, 1934. Traduzione e note di:
P. Abelardus, Epistolario completo. Contributo agli studi sulla vita e il
pensiero di Pietro Abelardo, trad. it. e note critiche di C. Ottaviano, Ires,
Palermo 1934. Joachimi abbatis Liber contra Lombardum. La Scuola di
Gioacchino da Fiore, a cura di Carmelo Ottaviano, Reale Accademia d'Italia -
Studi e documenti, Roma 1934. Critica del principio d'immanenza, in «Rivista
di Filosofia Neoscolastica», a. XXVI, 1934, p. 559 - 577. Il perduto
“Liber de potentia, obiecto et actu” di Lullo in un manoscritto romano, in
«Estudis franciscans», Un documento intorno alla condanna di Gioacchino da
Fiore nel 1215, Rondinella, Napoli 1935 (poi ripubblicato in "Siculorum
Gymnasium", Università di Catania, 1949). Storia, filosofia della
storia, scienza della storia, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Un brano
inedito della Philosophia di Guglielmo di Conches, A. Morano, Napoli
1935. Il cosiddetto “riferimento necessario alla coscienza”
nell'idealismo, in AA. VV., Atti del IX Congresso nazionale di Filosofia,
(Padova 20 – 23 settembre 1934), Padova 1935, pp. 348 – 363. Novità in
filosofia, Milani, Padova 1935. Pier Lombardo, in Celebrazioni
piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione del Libro,
Urbino 1936. Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli 1936. (Pubblicato
nuovamente da Milani, Padova 1948) Traduzione, prefazione e note di:
Pietro Abelardo, L'origine delle monache; e La regola del Paracleto,
traduzione, prefazione e note di Carmelo Ottaviano, Carabba, Lanciano
1936. L'unica forma possibile di idealismo, in «Rivista di Filosofia
Neoscolastica», a. XXVIII, 1936, p. 47 – 64. La scuola attualista e Scoto
Eriugena, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Riflessioni sulla polemica
Orestano – Olgiati, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», a. XXIX, 1937, pp.
83 – 86. Curatela di: T. Campanella, Epilogo magno (Fisiologia italiana).
Testo inedito con le varianti dei codici e delle edizioni latine, a cura di C.
Ottaviano, Reale Accademia d'Italia, Roma 1939. Kritik des Idealismus,
mit einer Einfuhrung von Fritz-Joachim Von Rintelen: Realismus-Idealismus?,
Aschendorff, Munster 1941. Metafisica dell'essere parziale, MILANI,
Padova 1942. L'unità del pensiero cartesiano e il cartesianesimo in
Italia, MILANI, Padova 1943 Scritti (1928 – 1945) con 327 giudizi
della critica italiana e straniera, Tipografia agostiniana, Roma 1946.
Panteismo o trascendenza, in «Humanitas», n. 42, 1949. Il problema morale
come fondamento del problema politico, Milani, Padova 1952. L'idealismo
trascendentale e la metafisica classica, in «Rivista di Filosofia
Neoscolastica», XLV (1953), pp. 535 – 570. La soluzione scientifica del
problema politico, Rondinella editore, Napoli 1954. Le incertezze della
scienza moderna, Padova 1959. Progetto di un disegno di legge per salvare
la Democrazia dalla dittatura, MILANI, Padova 1961. Dalla democrazia
ingenua alla democrazia critica, MILANI, Padova 1961. Che cosa è il
social-liberalismo, MILANI, Padova 1962, Lineamenti programmatici per una
riforma della scuola italiana, MILANI, Padova 1962. Presentazione di:
Agostino Sepinski, Cristo interiore secondo San Bonaventura, presentazione C.
Ottaviano. trad. di suor M. Luisa Orgiani, Politica popolare, Napoli
1964. La tragicità del reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio
sulla mia filosofia, MILANI, Padova 1964. Critica del socialismo: ossia
Introduzione alla teoria della proprietà per tutti, MILANI, Padova 1964.
Introduzione alla teoria delle proprietà per tutti, ovvero la mia soluzione al
problema economico-politico, MILANI, Padova 1968. Didattica e pedagogia.
Ovvero la mia riforma della scuola, MILANI, Padova 1968. La legge della
bellezza come legge universale della natura. Considerazioni teoretiche e
applicazioni pratiche, MILANI, Padova 1969. Manuale di Storia della
filosofia, 3 vol., La Nuova Cultura, Napoli 1970. Manuale di storia della
filosofia e della pedagogia, La Nuova Cultura, Napoli 1972.
Appunti di pedagogia contemporanea, 1974 Personalismo e collettivismo.
Introduzione alla teoria della proprietà privata per tutti, Solfanelli, Chieti
1978. Tommaso Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del
cartesianesimo in Italia, introduzione e note a cura di Domenico D'Orsi, MILANI,
Padova 1999. «Sophia: fonti e studi di storia della
filosofia» Da a. 1, n. 1 (gen./mar. Palermo: Ires, Il complemento del titolo
varia in: rivista internazionale di fonti e studi di storia della filosofia;
poi in: rassegna critica di filosofia e storia della filosofia. Luogo ed
editore variano in: Napoli, A. Rondinella; poi in: Padova, Milani. Alcuni degli
articoli più significativi scritti da Ottaviano per Sophia: Le «rationes
necessariae» in S. Anselmo, in Questioni e testi medievali , in «Sophia», nNovità
abelardiane, in Questioni e testi medievali , in «Sophia», n. 1, 1933, pp. 99 –
101. Storicismo attualista, in «Sophia», Storicismo attualista, seconda
puntata, in «Sophia», n. 1, 1934, pp. 149 – 164. Controversie medievali. A
proposito della paternità tomistica di un “Tractatus de universibus”, e della
data del “De unitate intellectus”, in «Sophia», Intorno al IX Congresso
nazionale di Filosofia di Padova, in «Sophia», n. 2, 1935, pp. 285 – 287.
Intorno alla critica dell'immanenza, in «Sophia», Critica del principio di
immanenza, in «Sophia», A proposito della storia, in «Sophia», n. 3 – 4, 1935,
pp. 613 – 617. I grandi idealisti contemporanei, in «Sophia», n. 3 – 4, 1935.
L'idealismo sulla via di Damasco, in «Sophia», n. 3 – 4, 1935. Contraddizioni
idealistiche, in «Sophia», n. 3 – 4, 1935. La fondazione del realismo, in
«Sophia», n. 2 – 3, 1936. Postilla alla “Difesa del principio di immanenza”, in
«Sophia», n. 2 – 3, 1936. Postilla a “Immanenza, idealismo e realismo”, in
«Sophia», n. 2 – 3, 1936. Idealisti per forza, in «Sophia», Ancora sulla
fondazione del realismo, in «Sophia», n. 3, 1937. Fanatismo idealista, ovvero
l'agonia dell'Idealismo, in «Sophia», n. 3, 1937. Nuova illustrazione del
documento intorno alla condanna di Gioacchino da Fiore nel 1215. Postilla, in
«Sophia», n. 3, 1937, pp. 360 – 365. Intorno all'idealismo e al realismo, in
«Sophia», n. 4, 1937. Postilla all'art. di Chiocchetti: “A proposito
dell'idealismo di C. Ottaviano”, in «Sophia», n. 3, 1939. Anti-moderno, in
«Sophia», n. 3, 1939, pp. 265 – 281. Intorno alla critica all'idealismo, in
«Sophia», n. 2, 1940. Intorno alla valutazione della filosofia moderna, in
«Sophia», n. 4, 1940, pp. 483 – 506. La teoria delle “species” e l'idealismo
immanentistico, in «Sophia», n. 1, 1943. La natura della sensazione e la fondazione
del realismo, in «Sophia», n. 3, 1946. Referendum ai nostri Lettori in
occasione della ripresa delle Rivista, in «Sophia», «Sophia», Il vero
significato della relatività galileiana nel movimento, in «Sophia», n. 3 – 4,
1947, pp. 285 – 330. Natura pura e soprannaturale, in «Sophia», n. 2, 1949. I
fondamenti logici della relatività, in «Sophia», n. 1, 1950, pp. 37 – 50. Gli
argomenti probativi dell'evoluzionismo, in «Sophia», n. 2, 1950. Intorno al
significato storico dell'idealismo italiano, in «Sophia», n. 1, 1951. Intorno
alla legge di conservazione dell'energia, ossia del materialismo, in «Sophia», Intuizionismo
e logicismo in matematica, in «Sophia», n. 3 – 4, 1951, pp. 342 – 345. Intorno
alla gratuità dell'ordine soprannaturale, in «Sophia», n. 1, 1952, pp. 39 – 45.
Postilla a E. Riverso, Aporie e difficoltà del Positivismo logico, in «Sophia»,
n. 2, 1953. Valutazione critica del pensiero di B. Croce. 1) L'estetica, in
«Sophia», n. 1, 1954. Valutazione critica del pensiero di B. Croce. 2) Lo
storicismo assoluto, in «Sophia», Bilancio di Benedetto Croce, in «Sophia», n.
2 – 3, 1954. Einstein filosofo, in «Sophia», n. 3 – 4, 1954, pp. 260 – 274.
Giudizio intorno alla Logistica, in «Sophia», n. 1, 1956. Logica, matematica,
poesia, in «Sophia», Crolla l'idolo einsteiniano, in «Sophia», n. 2, 1960, pp.
213 – 217. Il “compagno Scioccherellov”, ossia la tragicommedia del comunismo,
in «Sophia», n. 3 – 4, 1960, pp. 450 – 453. Mi intrattengo ancora con il
“compagno Scioccherellov”, in «Sophia», “Individui di tutto il mondo unitevi”,
ossia Critica della democrazia come idea-forza, in «Sophia», Giudizio su
Benedetto Croce come uomo politico, in «Sophia», n. 4, 1961. L'assalto alla
diligenza, ossia la scuola privata ecclesiastica e laica all'assalto del tesoro
della Stato, in «Sophia», Difesa della scuola statale, ossia l'Antistato contro
lo Stato, in «Sophia», L'“ordine della scuola italiana”, in «Sophia», suppl. n.
2 al n. 1 -2, 1962. In difesa dell'umanità Abbasso gli scienziati, viva i
filosofi!, in «Sophia», n. 1 -2, 1965. Come integrare la dottrina relativistica
di Einstein, in «Sophia», AA. VV., Carmelo Ottaviano nella filosofia del
Novecento, Atti dei convegni tenuti a Milano e Catania nel 2007, a cura di
Francesco Rando e Francesco Solitario, Prometheus, Milano 2008. A.
Cartia, Tempo, memoria e infinito. I temi del tragico nell'opera di Carmelo
Ottaviano, a cura di Alessandro Ghisalberti e Francesco Rando, Prometheus,
Milano 2013. G. Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia
1950, p. 146. F. Coniglione, «Sophia». Nel segno di Ottaviano: una
rivista a tutto campo, in AA. VV., La cultura filosofica italiana attraverso le
riviste, a cura di Piero Di Giovanni, Franco Angeli, Milano 2006, pp.
89-124. B. Croce, Conquiste filosofiche a passo di carica e a suon di
tromba, in «La Critica», Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo di Carmelo
Ottaviano nel trigesimo della morte, quotidiano “La Sicilia”, Catania, del
23/02/1980. D. D'Orsi, Tra Socrate e Gesù: quattro anni fa moriva il
filosofo Carmelo Ottaviano, quotidiano “La Sicilia”, Catania, del
24/01/1984. D. D’Orsi, Appunti autobiografici ed evoluzione filosofica di
Carmelo Ottaviano, in Archivium Historicum Mothycense, V (1999), pp. 57 –
68. D, D’Orsi, Metamorfosi di un'opera quale compendio di una vita
filosofica, Introduzione a Carmelo Ottaviano, Tommaso Campailla. Contributo
all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e
note a cura di Domenico D'Orsi, MILANI, Padova, Noce, Il problema dell'ateismo,
Teismo e Ateismo politici: postulato del Progresso e postulato del Peccato, Il
Mulino, Bologna 1964, pp. 519 – 520 n. 8. A. Del Noce, Giovanni Gentile,
Il Mulino, Bologna 1990, pp. 35 – 36 n. 24. R. Di Tommasi, Compendio di
una vita filosofica: Carmelo Ottaviano, in Voci dal Novecento, a cura di Ivan
Pozzoni, Limina Mentis Editrice, Villasanta Ferro, L'«antimoderno» di Carmelo Ottaviano,
in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Garin, Cronache di filosofia italiana
1900/1943, laterza, Bari 1966, p. 460. V. Mathieu, La filosofia del
Novecento. La filosofia italiana contemporanea, Le Monnier, Firenze 1978, pp.
116 – 117. C. Mazzantini, La riduzione ad absurdum dell'immanenza
gnoseologica, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Anno XXVI, Fascicolo
III, maggio 1934, Vita e Pensiero, Milano. P. Mazzarella, Il contributo
di Carmelo Ottaviano agli studi di filosofia medievale, in «Sophia», n. 3 – 4,
1956, pp. 334 – 376. P. Mazzarella, Tra finito e infinito. Saggio sul
pensiero di Carmelo Ottaviano, Milani, Padova 1961. P. Mignosi, Carmelo
Ottaviano, in «La Tradizione», n. V – VIII, 1929. F. Minazzi, Il
principio di immanenza nel dibattito filosofico italiano degli anni Trenta: il
confronto tra Giulio Preti e Carmelo Ottaviano, in numero monografico de «Il
Protagora», Aspetti e problemi della filosofia italiana contemporanea, a cura
di Antonio Quarta, XXVIII-XXIX, gennaio 1988 - dicembre 1989, IV serie, nn.
13-16, pp. 245-274. E. Scarcella, «OTTAVIANO, Carmelo» in Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 79, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Roma, 2013. M. F. Sciacca, Di una recente critica del principio di
immanenza, in «Ricerche filosofiche», anno V, fasc. II, 1935, pp. 127 –
133. M.F. Sciacca, Il secolo XX, Bocca, Milano 1942, vol. I, p. 665 n. Ottaviano.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ottaviano” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Ovidio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Filosofo italiano. Publio
Ovidio Nasone. Muore a Tomi, rivela influssi filosofici assai svariati. A
Posidonio, mediato da Varrone, si fa risalire la rappresentazione dell'età
dell'oro e dello sviluppo della cultura (“Met.” XV, 96 5898; “Fasti” I, 335
sgg; IV, 395 sge.). Dalla setta di Crotona deriva in larga misura il libro
XV delle Metamorfosi (69-478), in cui Pitagora -- di cui si dice che si innalza
sino al divino colla filosofia e scorge con l’animo ciò che la natura nega agli
sguardi umani -- espone ai discepoli un ampio insegnamento sulla natura, il
divino, numerosi problemi naturali oscuri e condanna l’uso delle carni animali,
giustificando questa proibizione con la teoria della metempsicosi. Nella
tesi che nulla è stabile nella natura e nell’uomo, che anche gli elementi si
trasformano gli uni negli altri, si notano invece influssi eraclitei e di
Girgenti. La formazione del mondo dal caos (Met. I, 1, sgg.), in complesso,
riecheggia il portico, ma include anche elementi che fanno pensare a Girgenti,
ad Anassagora e a Lucrezio. For a contemporary Roman reader of Ovid's
Metamorphoses – usually just the emperor -- who has made his way through the
labyrinth of mythological tales that comprise, one segment becomes in some ways
a fresh start. It begins the third and last pentad. As he marks this formal boundary,
Ovid introduces what he calls a *historical* emphasis. Troy is founded, and
from Troy's story that of Rome arises. Roman matter, settings, and themes
occupy ever more of our attention as the thing approaches its end. Ovid
includes some of the same tales that he had used in his less successful (less
read, not even the emperor read it!) in
the Fasti, his “most Roman work” in terms of its proclaimed matter: the very
Roman calendar – “tempora cum causis Latium digesta per annum.” – And the
Romans always found a cause to celebrate! As we read of Hippolytus deified as
Virbius, or encounter the list of Alban kings, the last pentad of the
Metamorphoses, too, begins to resursigate for a more imperial readership the “Fasti.”
And yet the latter ‘Roma historical’ part of of the Metamorphoses is fully
continuous with the first part, simultaneously a fresh start and a seamless
continuation. Ovid’s *Roman* historical emphasis is a development of
long-established patterns. First Trojan, then Roman subjects signal the work's
conclusion, wherein the large-scale historical progression promised in the
work's opening lines will be fulfilled: having set out "from the first
beginnings of the world," primaque ab origine mundi Ovid's narrative will
now reach "my own times," mea tempora the present for both author and
readers. Thus, if we, after reading of so many nymphs and maidens transformed
into trees or waterfowl, are surprised to find Romulus and Julius Caesar
turning up, Ovid's development and fulfillment of narrative patterns also
remind us that from the start we had reason to expect such figures to appear.
His vast work of transformative myth embraces even them. Whereas Rome
contribute something new to the last pentad of the Metamorphoses, she also
functions in a fashion that Ovid has made throughly familiar. Already at the
start, the council of the gods, called by Jupiter to discuss Lycaon's crime,
offers a striking Romanisation of heaven's architecture and social
distinctions, with mention of “atria nobelium,” “plebs,” and the like."
When Ovid represents Jupiter summoning the gods to the “palatia Caeli,” Jupiter
becomes not only Romanized but a reflection of Ottaviano, whose casino stood on
the earthly Palatine Hill. Shortly thereafter, Ovid explicitly addresses
Ottaviano in a context that links Lycaon's assassination attempt on Jupiter to
contemporary attempts on Ottaviano’s life (1.200-205). Both crises cause
astonishment throughout the world. “Nec tibi grata minus pretas, Auguste,
tuorum est, quam fuit illa loui.” Thus, in returning to current events Ovid
recalls to our minds their heralded arrival near the beginning. Also familiar
is the narrative use Ovid makes of the Roman matter. Rome functions largely as
a frame for other tales, which are often only tenuously related to the
newly-prominent national theme – or rather the theme of the history of the
nation. We are well aware, when we arrive at this point, that traditionally
important and familiar cycles of myth, such as those concerning Theseus and
Hercules function mainly as framing devices that connect tales. Many of these
are only tangentially related to the framing narrative, or are even altogether
remote from it. No sooner does Ovid introduce Troy than he begins to employ it
in this now-familiar narrative mode. The traditional story appears to establish
a structural pattern for the progress of the narrative, but it is soon
displaced, as tales succeed tales. Troy may be familiar ground, but its
familiarity does not enable us to predict our convoluted path through Ovid's
work with any confidence. Who could guess, when Laomedon founds Troy, that Ceyx
and Alcyone would occupy much of our attention? As we read their tragic tale,
we may observe thematic links to other tales in the Metamorphoses, as in the
personification of Somnus, which formally recalls those of Inuidia and of Fames.
Yet the topic of Troy has disappeared, at least for now, from view. So has the
new historical emphasis. For the tale of Ceyx and Aleyone is as mythical, as
fabulous, as anything in the preceding material. Indirection and
unpredictability remain characteristic of the narrative even as Ovid draws
Roman historical material within his scope. One might expect Roman historical themes
to alter the Metamorphoses. Instead, the Metamorphosis-motif alters them. An
especially powerful symbol of Ovid's transformative language is his last and
most ambitious personification, the House of Fame. After Ceyx and Aleyone, Ovid
abruptly returns to Trojan subjects with Aesacus, then recounts the sacrifice
of Iphigenia and the arrival of the Greek fleet at Troy. But before proceeding
with the Trojan War, he introduces a remarkable descriptive passage on Fama,
beginning with these lines: “orbe locus medio est inter terrasque fretumque
caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod est usquam, quamuis
regionibus absit, inspicitur, penetratque cauas uox omnis ad aures. Fama tenet
summaque domum sibi legit in arce.” There is a place at the middle of the
world, between land, sea, and the heavenly region, at the boundary of the
threefold universe. From here one can see anything anywhere, however distant
its place; and every voice comes to one's hollow ears. Rumor holds it, and
selected its topmost summit for her house. This is the last and the most
ambitious, though not the longest, of the large-scale personifications in the
Metamorphoses ambitious because, whereas with Inuidia and Fames Ovid achieves a
rich and grimly detailed impression of corporality through his descriptive
language, here indistinctness is paradoxically the goal of precise description.
The lines just quoted appear to establish theplace of Fama's house, but in a
way that defeats definition; for the house occupies a liminal site, hovering at
the boundaries between earth, sea, and sky. The structure itself if it can be
called a struc-scarcely separates inside from outside, for its porous nature defeats
such distinctions: “innumerosque aditus ac mille foramina tectis addidit et
nullis inclusit limina portis: nocte dieque patet; tota est ex aere sonanti,
tota fremit uocesque refert iteratque, quod audit. nulla quies intus nullaque
silentia parte.” She added innumerable approaches to the building, and a
thousand openings. With no doors did she shut its threshold: it lies open night
and day. The whole house is of resounding brass, produces a roar, echoes and
repeats what it hears. There is no quiet within, silence in no quarter. In and
out of the house issue personified rumors: atria turba tenet: ueniunt, leue
uulgus, cuntque mixtaque cum ueris passim commenta uagantur milia rumorum
confusaque uerba uolutant. A throng occupies its halls; they come and go, a
light crowd; lies mixed with truth wander here and there by the thousands; and
the confused words of rumor roll about. Only when this expansive description is
finished do we learn its relevance to its surroundings: rumors of the Greek
expedition have reached Troy (12.63-66). This house of Fama and her attendant
rumors, "lies mixed with truth," creates a remarkable preface to the
beginning of the Trojan War, inviting us readers to consider it as an
interpretive comment on all that follows. Feeney connects the passage to themes
of poetic authority in the Metamorphoses; indeed, the authority of Ovid's epic
predecessors, especially Homer's lad and Odyssey and Virgil's Aeneid, is at
issue in the later books of the Metamorphoses, where extensively adapted
sometimes severely distorted-versions of their tales are woven into a new
fabric. For much of the rest of Book 12, for instance, Nestor narrates the
battle of Lapiths and Centaurs, as he did in Book 1 of the liad (1.263-68): but
Homer's version is a brief summary, meant to illus-trate a point in its
context, Ovid's a vast expansion that engulfs its context, displacing the
Trojan War in our attention for hundreds of lines. Fama dominates the rest of
Ovid's poem, from Book 12 to the end, not only because of the formal
introductory description of the house of Fama, but also because of the
increasing role of internal narration in the later books: as the poem proceeds,
the epic narrator recedes, and more and more tales are reported by an internal
narrator to an internal audience. Fama also forms a boundary for Books 12-15,
prominently recurring at the very end of the Metamor-phoses, where fama
provides the means of the poet's continued sur-vival: perque omnia saecula
fama,/ siquid habent veri uatum praesagia, winam (15.878-79). The recurring
presence of Fama serves as a reminder of the fundamental lack of definition and
stability characteristic of narrative style throughout the work. Flux remains
Ovid's theme to the end, and Fama provides both a symbol and an embodiment of
flux within the narrative. Fama resists the tendency toward interpretive
simplicity and transparency that the introduction of historical and political
topics might lead us to expect. As we proceed through the last pen-tad,
historical and historico-political modes of understanding events, however
pervasive their presence, ultimately never reduce Ovidian flux to order. Fate,
for instance, a cosmic principle beloved of some Greek and Roman historians,
whose workings they trace in the unfolding of events, duly turns up from time
to time in Ovid's Metamorphoses, and does so as a theme of historicized myth
that is likely to remind us of Virgil's Aeneid. Yet, whereas the Aeneid is
deeply imbued with a sense of fate, guiding the reader to a teleological
understanding of myth and history, fate is an historical prop in the
Metamorphoses part of the furniture of historicized myth. Far from dominating
its context, the context dominates it, as in the summaries of the Eneide that
Ovid employs as framing devices -- non tamen euersam Troide cum moenibus
esse/spem quoque fata sinunt.” These lines introduce Enea’'s departure from
Troy with unmistakable reference to Virgil's plot and theme. WhereasVirgil
integrates fate (fatum, il fato) into the structure and architecture of the
“Eneide”, however, Ovid reduces fate and its impact on events to barest
summary. Ovid acknowledges Virgil's historical vision without permitting that
vision to structure his narrative or his readers' experience of it. Instead, Ovid
shamelessly *appropriates* Virgilian turns of phrase in the national epic for a
characteristic Ovidian witticism, playing simultaneously on the literal and
figurative senses of euersam. Troy's walls are physically overturned, but her
hopes, conceptually and metaphorically are not overturned. Sylleptic implicature
of this kind saturates the Metamorphoses and embodies its themes of
transformation on the narrative surface: the loss of human identity in
metamorphosis, the shifting of boundary between human and natural, indeed the
obscuring of any such boundary are events typical of the Metamorphoses;. Ovid
now sets the plot of Virgil's Aeneid among them, exploiting Virgilian language
for his own transformative wit. Although there is a shift to historical and this
national theme, and with them a more direct engagement with Ovid's epic
predecessors, the Metamorphoses remains the same poem it was. The porous,
echoing, boundary-less, and visually indistinct house of Fame incorporates all
within it. Ovid's epic predecessors are a conspicuous presence and readers
familiar with them may try to understand Ovid's material in similar terms. Yet
Ovidian slipperiness remains. Ovid refuses to be pinned down, to yield to
interpretive stability, although his readers may crave it. In fact, by
introducing interpretive frameworks familiar from his predecessors-Virgilian
fate, for instance, in the lines quoted above Ovid takes advantage of his
readers' desire for clarity: he invites us to reach conclusions, then fails to
sustain them. The concept of fate drawn from the philosophy of the Porch is one
interpretive possibility that turns up in the Metamorphoses, yet without the
structured development that Virgil gives it; Augustan historical vision is
another. By introducing historical and political subjects into his work, Ovid
invites readers to consider the relationship of the Metamorphoses to the world
outside it -- not only to the Aeneid and earlier Roman epic on historical
themes, but also to Augustan ideology and its expression outside poetry -- in
the architectural projects, for instance, by which Ottaviano “transforms’ the
Romans' physical environment. When he introduces the voyage of Aeneas alluding
to the plot and eventhe vocabulary of Virgil's epic, Ovid acknowledges his
contemporary readers' awareness that the Aeneid has overwhelmed other versions
of this story. Ovid could not retell this story with directing readers
awareness from his own text to Virgil's. When Ovid incorporates the apotheosis
of Romulus into the narrative of Book 14, readers are likely to find that their
thoughts turn unavoidably to Ottaviano’s identification of himself as Romolo –
Roma’s first king -- , and to accompanying images and slogans concerning the
foundation of Rome. Because Ottaviano eventually gains, like Romolo, a place
among the dia, Ovid's apotheosis of Romulus invites his readers at least
provisionally to define the relationship between this figure from the remote
past and his contemporary embodiment. Ovid presents a parade of heroes in the
later books of the Metamorphoses. Hercules leads the way; then Aeneas, Romulus,
Julius Caesar, and Ottaviano form a triad of apotheosised mortals. These three figures
are already iconic when they turn up in Ovid's poem iconic in the sense that
they resemble images that are powerfully identified with meanings, like the
statues of these very heroes that stood in Ottaviano's forum. Because Ovid's
parade of heroes arrives accompanied by preexisting interpretive baggage, it
will be worthwhile to contrast these two fundamentally different sites of
meaning, each with its own ways of associating ancient with contemporary heroes.
The Forum of Ottaviano an architectural space well designed and equipped to
promote a unified and coherent set of messages about the relationship of past
to present; and Ovid's Metamorphoses, a fluid narrative on the prevalence of
change, whose author enacts his theme by mischievous artistry, establishing
patterns of meaning, then disrupting and fracturing them. Historical patterns
are among those that Ovid deliberately reduces to incoherence. Each of these
sites of meaning is powerfully manipulative, and each achieves its impact by
means well suited to the message. Meeting a Roman hero in the “Forum Augusti,”
the observer's upward gaze would encounter not only an impressive image, but
also a titulus, identifying him, and an elogium, recording his achievements. Furthermore,
this experience takes place within an architectural complex, the Forum Augusti,
erected by Ottaviano in payment of a vow made while fighting his adoptive
father's assassins at Philippi.Within so structured an experience, the observer
of its visual images and inscriptional texts is unlikely to go far astray in
interpreting them. Although the battle occurred some time ago, the Forum
itself, dedicated, is a recent reminder of that event for the readers of Ovid's
Metamorphoses. In the parallel exedras along its longer sides stood statues of Enea
on one side and Romolo on the other. For Ovid to set the parallel apotheoses of
these same heroes near each other is to make inevitable the reader's
recognition of Ottaviano’s meanings attached to these deified heroes. At the
same time, in the Metamorphoses these figures are iconic in a far less tightly
regulated context of meanings than they are in the forum. Though now purely
verbal, they resemble ideological statements less than do the forum's statues.
Ovid presents his portraits, so to speak, without titulus and elogim to
regulate their interpretation. Thus exposed, the portraits lose their
interpretive transparency and become vulnerable to incorporation into Ovidian
flux. Consistent with the organization and coherence of the Forum Augusti is
the fact that its symbolism is easy to interpret. Within the temple of “Mars
Ultor,” for instance, stood cult statues of Mars – MARTE LUDIVISI – Romolo’s
father, parent and protector of the Romans, and Venus, the ancestress of the
Julian gens. Everything about these images directs the viewer's attention away
from the adultery of Marte and Venere so prominent in their mythological
tradition. Only the irreverent and satirical perspective that Ovid offers in
Tristia 2 resists the ennobling abstraction of such figures and drags adultery
back into view. There, Ovid describes the cult statues of Marte and Venere, who
stood next to each other in the temple's cella, as Venus Vitori ncta (Ir.
2.296), "Venus joined to the Avenger" -- an expression that invites
reflection on the sexual significance of “iungere." Venus's husband stands
outside the door, wir ante fores."? A myth of political origin, its
official representation in art, and resistance to it are prominent also in the
Metamorphoses in the tale of Arachne. It is enough to emphasize here that the
tale offers rich reflections on official interpretation of art. When Minerva
chooses to depict her victory over Neptune in the two divinities' dispute over
the naming of Athens, her tapestry, decorously ordered and balanced, promotes
its didactic message with unavoidable clarity, while offering an aesthetic
correlate to the power of enforcement that lies behind that message. Readers
often side with the Arachne and her irreverent depiction of divine misbehavior;
yet Minerva does not ask for our approval, nor need she take much thought for
the judges of the con-test. Her views of the story are enforceable and will
determine the outcome of the plot. Her power allows her to impose her
perspective on events. Because the historical subjects of the later books of
the Metamorphoses so often bring official interpretations within view, it is
worth noting that, according to one political approach to literature currently
in favor, only official interpretations are possible. On this view, all
activity of writing and reading takes place within a fixed political system,
often unrecognized by the participants, that "advances the interests"
of "elites."' Proponents of this approach offer a powerfully
reductive historicism: nothing is important about literature except the
historically determined power-relationships that govern its production and
reception; all attention to literary qualities of a text is sentimental and
self-indulgent aestheticism. Whereas this view contracts all understanding of
literature to the narrowly political, some recent writers on history in Roman
literature expand the historical to a larger field that embraces Varro's
theologia tripertita and the universal history of Cornelius Nepos, Diodorus Siculus,
and others. In the shift, for instance, from mythological to historical
subjects in the Metamorphoses, we can see a broad similarity to Varro's “De
gente populi Romani.” Wheeler's work on elements of history in the
Metamorphoses shows that Ovid's awareness of historical principles is far
deeper and more intimate than has been recognized before. For instance, the
poem's "alternation between diachrony and synchrony is a narrative
technique characteristic of universal history. The poem's chronological
framework from first origins to the present also reflects the aims of universal
history; yet Wheeler, like most critics today, does not view the poem "as
a natural process of evolution from chaos to cosmos, culminating in the peace
and properity of the Augustan age."' Arguing for a subtler and less
overtly political patterning of events, Wheeler traces historical principles
behind the increasingly historical subject matter of the last pentad. The
movement from myth to history represents "a shift," in Wheeler's
view, "from a theologia fabulosa to a theologia civilis." The terms
are Varronian, and invite us to contemplate the Metamorphoses alongside Varro's
“Antiquitates rerum humanarum et divinarum” -- a massive and comprehensive
work, among whose aims was to organize conceptions of divinity into mythical,
natural, and civic (Aug., Ci. Dei 6.5). Ovid is known to have used the “Antiquitates”
as a source in the later books of the Metamorphoses as well as in the Fasti,
and it is surely right to call attention to the presence of Varronian
principles in Ovid's work. Yet, Varro's conceptual organization does not
structure Ovid's work, and Varro's religio-historical vision only partly
informs Ovid's. Ovid brings Varro into the mix just as he does Ottaviano’s
mythologizing and the historical mythologizing undertaken by his epic
predecessors, especially Homer, Ennio, and Virgil. P. Hardie has recently
argued for the presence of Livy in the Metamorphoses, arguing that Ovid's
vision is fundamentally historical. Ovid writes the long historical epic that
Virgil self-consciously had abjured. Recent emphasis on history in Ovid has
much to teach us about his intellectual depth and awareness of contemporary affairs;
yet it also runs the risk of presupposing a conceptual tidiness and order that
Ovid's work in fact thwarts and defies. The historical vision of the Metamorphoses
remains deeply fractured, stubbornly resistant to schematizing, and
intentionally incoherent. Ovid acknowledges historical conceptions, but his
work escapes their power to shape his material and to govern our responses to
his text. Ovid's"historical" books are as strange, perverse,
unpredictable, and provocative as the "fabulous" books that precede
them.In Book 11, the Metamorphoses suddenly becomes historical: "the
'historical' section actually begins at with Laomedon's founding of Troy. To be
sure, the poem has pursued the course of history from the opening lines of Book
1, while Romanization on both a large and small scale has kept contemporary
reference, analogies, and allegorical interpretive options before our eyes
throughout the progress of the work. Yet the foundation of Troy, which turns up
as a narrative topic just after King Midas has received ass's ears, abruptly
brings the poem's subject-matter within the boundaries of history. For the Romans,
in so far as a distinction was made between history and myth, the Trojan War
tended to mark the dividing line. This, with its aftermath, occupies the next
three books. Because, however, Rome's origins are in Troy, this also begins a
narrative sequence that continues to the end of the poem, and indeed to the
moment of reading for Ovid's Roman audience. In the last pentad,
"mythical" tales continue unabated, but now jostle with tales from
Roman history and even "current events," all brought within the
narrative sweep. Among "current events" we may locate the
transformation of Julius Caesar's soul into a star. Yet this transformation is
thoroughly mythologized, for it occurs among the activities of the goddess
Venus. With Troy's foundation, history arrives well integrated into the poem's
patterns of mythological narrative. We might expect that lin-carity and clarity
of narrative progress would arrive along with historical subjects, and indeed
the last pentad is sometimes described as if this were the case. When we reach
Laomedon's Troy the principle of chronological sequence takes charge again: it
is 'after that' rather than 'meanwhile' that sustains the illusion of reality. But
Wilkinson's impression is in fact illusory. The amount of material recounted by
internal narrators steadily increases in the later books, so that chronological
movement is constantly interrupted and postponed by tales of the past, recent
or remote. Even more remarkable is the fact that history arrives together with
manifest anachronism. It is often noted that the participation of Hercules in
the foundation of Troy -- his rescue of Hesione and his capture of the city
after Laomedon refuses him the promised horses -- occurs some 1400 lines after
the hero's death and apotheosis. Ovid makes no attempt to reconcile the
chronology. Wheeler has explored Ovid's anachronisms in revealing detail,
showing that at Hercules' death. Troy is assumed to exist already in the world
of the poem, and that "Ovid could have avoided the anachronism by placing
stories about the dead and deified Hercules in the mouths of characters who
report retrospective events in inset narratives that temporarily suspend the
main chronological thread. Instead, Ovid flaunts his disruption of chronology,
first recounting Hercules' death and apotheosis, then introducing a narrator,
Alemene, mother of Hercules, to recount his birth. Chronology appears to
reverse direction, but chronological dislocation turns out to be more complex
than simple reversal. Wheeler's conclusions refute the common notion that
Ovid's shift to historical topics results in a more linear narrative
explication and greater chronological regularity. The reintroduction of
Hercules is therefore part and parcel of a larger web of anachronism involving
the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis, both of which
should have occurred already in the poem's historical continuum. It should be
clear, furthermore, that Ovid's transpositions of the foundation of Troy and
the marriage of Peleus and Thetis are a deliberate structural strategy to furnish
new points of origin for the narrative of the final books of the poem. That is,
Ovid deliberately violates his earlier chronological scheme to provide new
beginning points for the final pentad i.e., from the foundation of Troy and the
birth of Achilles to the present) As a result, the formality and regularity of
the pentadic structure produces a paradoxical result: on the one hand, it
divides the work symmetrically into thirds and hence to some extent structures
the experience of the reader: we may compare the division of Virgil's Aeneid
into halves, in allusive reference to the Odyssey (1-6) and Iliad (7-12)."
On the other hand, in effecting a new beginning for thelast pentad, Ovid
reinforces the narrative indirection and unpredictability that have characterized
the Metamorphoses from its beginning. The tales that follow the foundation of
Troy both illuminate and obscure the newly initiated narrative patterns of the
last pentad. At this point, Ovid's readers may expect him to expand upon the
origins of the Trojan conflict. He does so in his account of Peleus and Thetis,
the parents of Achilles, but hastily summarizes the elements of the story that
are traditionally the most important: Thetis receives a prophecy that she will
bear a son who will surpass his father; Jupiter, despite his passion, avoids
mating with Thetis "lest the universe contain anything greater than
Jupiter" (ne quacquam mundus loue maius haberet, 11.224). Ovid alters the
authority for the prophecy, substituting the shape-shifting divinity Proteus
for Themis as its source. He then develops the story in his own way, dwelling
upon a description of the bay frequented by Thetis, Peleus's attempt to,
assault her (which she thwarts by shape-shifting), Proteus's advice to Peleus
that he tie her up as she sleeps, and the successful results. Some of this
account will remind us of epic predecessors, for Proteus is familiar from the
Odyssey (4.384-470) as well as from a brief appearance carlier in the
Metamorphoses and from Virgil's Georgics. Yet in emphasizing shape-shifting and
sexual assault, Ovid flaunts the unedifying nature of his account and its lack
of relevance to any of the large-scale themes, providential, historical, and
originary, that one might expect at the threshhold of events that lead to the
foundation of Rome. An account of origins this may be, with reference to
historical subjects, and formally analogous to Virgil's reworking of Homeric
material in the Aeneid. Yet Ovid offers it manifestly without the interpretive
guidance that would associate it with Virgilian themes. As an account of
origins, it explores causes of the Trojan War still more remote than those
developed by Ovid's pre-decessors, suggesting a line of interpretation that
traces events back to lust, violence, and deception at least as much as to
beneficent destiny. Ovid on the one hand traces Trojan subject matter from its
origins, and on the other characteristically takes his narrative into
unforeseen directions. The tales of Daedalion and his daughter Chione and of
Geyx and Aleyone are intricately linked to the matter of Troy; yet in them Ovid
pursues free-wheeling digressivevariety that is entirely consistent with the
earlier books of the Meta-morphoses, in no way more linear, predictable, or
goal-directed than formerly. At the end of Book 11, Troy, chronology, and fate
turn up in another tale of amorous pursuit. Ovid attaches his tale of Aesacus,
a son of Priam first known from Ovid's version, to that of Geyx and Alcyone,
whose unhappy tale of fidelity and loss has long occupied our attention.
Observing the royal couple, now transformed to kingfishers, near the shore, an
old man and his neighbor shift their conversation to another sea-bird, the
diver, who likewise turns out to have a human history and even royal lineage.
In a send-up of learned claims to poetic authority," Ovid's narrator
cannot tell us which of the two interlocutors is the source for the story:
proximus, aut idem, si fors tulit... dixit. The irony of this crisis of
authority is especially marked by the genealogical king-list that follows,
which approaches annalistic, even inscriptional style: et si descendere ad
ipsum ordine perpetuo quaeris, sunt huius origo Ilus et Assaracus raptusque
loui Ganymedes Laomedonue senex Priamusque nouissima Troiae tempora sortitus.
frater fuit Hectoris iste: qui nisi sensisset prima noua fata iuuenta forsitan
inferius non Hectore nomen haberet. And if you wish to follow his lineage down
to him in continuous sequence, his ancestors were llus, Assaracus, Ganymede,
seized by Jupiter, and Priam, allotted Troy's last days, That bird there was
Hector's brother. If he had not experienced a strange fate in early youth,
perhaps he would have no less a name than Hector's. Ovid appears simultaneously
to claim and to obscure authority for the tale. To complete the paradox, he
refers to the king-list as ordo perpetuus (755), "a continuous list":
thus the pretensions of his carmen perpetum to be a universal history,
conducted in unbroken sequence from first beginnings to the present, serve to
introduce a tale of admittedly indeterminate origin. The tale that follows is
primarily a natural actiology, incorporating both historical and epic subjects
into an account of how Hector's brother became the origin of a species of
sea-bird. Aesacus chasesHesperie, who in her hasty flight steps on a snake,
Eurydice-like, and dies of its bite. Her pursuer is introduced as hating cities
and devoted to rural life, yet unrustic in his susceptibility to love: non
agreste tamen nec inexpugnabile amori/ pectus habens. Amor agrestis is not
uncommon in the Metamorphoses and will soon be fully developed in the tale of
Polyphemus (13.750-897). What is unusual in Aesacus are his guilt and remorse
at Hesperie's death: uulnus ab angue a me causa data est. ego sum sceleration
illo, qui tibi morte mea mortis solacia mittam. The wound was given by the
snake, the cause by me. I committed a greater crime than the snake, and will
send you consolation for your death by my ow. When he throws himself from a
cliff, the sea-goddess Tethys pities him and transforms him into the diver; the
verb mergitur (795) at the end of the story echoes the noun mergus (753) at its
beginning. Thus, the whole story is framed as an aetiology of the bird's name,
and so establishes a link between the history of Troy and the origins of the
natural world. Trojan history, along with all notions of historical progress to
the glorious present, becomes naturalized and incorporated into aetiological
explication; natural phenomena, meanwhile, receive a history, and suggest that
an historicized understanding of nature is possible. Natural actiologies are
prominent in Ovid's integration of Trojan subjects into the Metamorphoses. As
he introduces more Roman subjects and Roman heroes into his narrative, his
atiological focus turns from the earth to the heavens. The poem's first
apotheosis is that of Hercules. A sequence of apotheoses and catasterisms
follows. After Jupiter promises Venus to make the soul of her descendant,
Julius Caesar, into a star, she, although unable to prevent Caesar's murder,
snatches the soul from his limbs and carries it to the heavens. There, having
become a star, it rejoices to see its own deeds outdone by those of Ottaviano. When
Ottaviano forbids his own deeds to be preferred to his father's, personified
Fama reappears to thwart him: hic sua pracferri quamquam uetat acta paternis,
libera fama tamen nullisque obnoxia iussis inuitum prefert unaque in parte
repugnat. Although he forbids his own deeds to be preferred to his father's,
nevertheless Fame, free and not yielding to any commands, prefers him against
his will, defying him in this matter only. To attribute modestia to a ruler is
standard in panegyric, and equally standard are the exempla that follow;'' but
because these lines appear in the Metamorphoses, they invite multiple
perspectives on the events described. Readers are already familiar with Fara as
the source of "lies mixed with truth," which issue from her echoing
house, and have met her also as "the herald of truth," offering an
accurate prophecy about the royal succession among Rome's early kings: destinat
imperio clarum praenuntia ueri/fama Numam. Later, Pythagoras claims Fama as his
authority for predicting the rise of Rome: nunc quoque Dardaniam fama est
consurgere Romam. To be sure, any claims of truth for Fama are problematic in
the Metamorphoses. The identification of Fama as praenuntia weri occurs in a
context of manifest anachronism, the irony of which would have been obvious to
Ovid's Roman readers. The succession of Numa, the second king of Rome, was an
accepted part of the historical record. But Ovid's readers knew well that the
tradition of his visit to Crotone as a student of Pythagoras is chronologically
impossible. Cicero (Rep. 2.28-29; Tusc, 4.2) and Livy (1.18.2-5) point out that
Pythagoras did not come to Italy until the fourth year of the reign of
Tarquinius Superbus, years after Numa's death. The Ovidian narrator, however,
exploits the audience's awareness of the anachronism to launch one of the
greatest non-events of the poem. After Fama's appearance in the tale of Numa,
her recurrence as an agent in the tale of Julius Caesar's soul exemplifies the
ambiguous natureof the politically charged episodes at the end of the
Metamorphoses. Few passages in the work provoke such widely divergent views as
the apotheosis of Caesar's soul, and all of them, I would maintain, can find
support in Ovid's text and are in fact generated by it: that Ovid introduces
the apotheosis and Augustan panegyric "in all seri-ousness," and
"employs the official terminology in an entirely loyal fashion", that
this material is ridiculous, satirical, even subversive. This is intentionally
incoherent, presenting the reader with irreconcilable interpretive options.
Certainly there is a striking dichotomy in modern critical positions taken on
whether the apotheosis is integral to the larger work or loosely added as
extraneous matter. The eulogy of Ottaviano and the account of Giulius Caesar's
apotheosis are not the organic end of a persistent thematic development. It
should be evident from the numerous examples of apotheosis in the Metamorphoses
that Julius Caesar's catasterism is the repetition of a common tale-type, which
is associated with the end of narrative sequences, books, and pentads, and the
poem as a whole, however. As for the apotheoses of Aeneas and Romulus, we find
that they prepare for and introduce not only the apotheosis itself of Caesar's
soul, but also the interpretive questions it raises. Ovid resumes the
engagement with Virgil's Aeneid that he had begun, and intermittently pursued. Ovid
takes over from Virgil the burial of Aeneas's nurse Caieta as an initiatory
gesture: in the Aeneid it begins Book 7, and Ovid's version of Aeneid 7-12
begins here, too. Ovid adds an epitaph for Caieta: hic me Catam notae pietatis
alumnus/ ereptam Argolico quo debuit igne cremauit. By emphasizing Caieta's
rescue from one fire and cremation by another, Ovid calls attention to an
etymological explanation of her name from kaiew, glossed by cremare. Thereby
Ovid alludes to the derivation that Virgil omitted. Ovid is in a sense
commenting on Virgil's text, noting an etymology that would later find a place
also in Servius's commentary on the Aeneid. Another effect of Ovid's revision
is to fill out the earlier account, suggesting that there is more to the story
than what Virgil provides. There follows a severely abridged summary of the
Aeneid. After Aeneas's arrival, the subsequent war in Latium up to Venulus's
embassy to Diomedes requires only nine lines. Ovid here resumes his earlier
procedure in retelling the Aeneid. Most of Virgil's work he reduces to brief,
sometimes comically abbreviated, summary. Ovid also adds many tales not in
Virgil. In parallel fashion, Ovid had earlier refashioned the lliad, expanding
the inset tale of the Lapiths and Centaurs to great length, and adding two
tales not in Homer's account: a nearly inconclusive struggle between Achilles
and the invulnerable Cygnus, and a verbal battle, the debate over the arms of
Achilles. In both of them, Homeric heroism becomes attenuated until it is
barely noticeable. Ovid now reworks two tales from the Aeneid that had offered
accounts of transformation: the companions of Diomedes, transformed to seabirds
(Aen. 11.271-74; Met. 14.494-509), and Aeneas's ships, transformed to nymphs
(Aen.; Met.). In Ovid's account, the first of these becomes a tale of unequal
justice typical of the Metamorphoses, though thematically remote from the
Aeneid: Acmon, recounting the miseries that Diomedes' crew has endured at the
hands of Venus, impiously provokes her (Met.14.486-95). Dicta placent paucis
(Met. 14.496), "his words picase few" of his com-rades; but Venus
punishes both Acmon and those who opposed him with arbitrary transformation.
Her power is amply demonstrated; yet the lesson of the tale remains at best ambiguous,
and its conclusion seems to transfer its uncertainties into the visual sphere.
These are uolucres dubiae, and any attempt to identify them must remain
frus-trated: 'si, uolucrum quae sit dubiarum forma, requiris,/ ut non cygnorum,
sic albis proxima cygnis (Met. 14.508-9). The alternating pattern of severe
abbreviation and vast expansion of Virgilian material provides a context for
the apotheosis of Aeneas, an event foretold but not narrated in the Aneid.
Jupiter begins his consolatory prophecy to Venus in Aeneid 1 by mentioning the
foundation of Lavinium and Aeneas's apotheosis. Both are assurances that fate
and Jupiter's established plans have not changed: parce metu, Cytherea, manent
immota tuorum fata tibi; cernes urbem et promissa Lauini moenia, sublimemque
feres ad sidera Caeli magnanimum Aenean; neque me sententia uertit. Cease from
fear, Cytherea: your fates remain for you unmoved. You will see the city and
promised walls of Lavinium, and you will carry aloft great-souled Aeneas to the
constellations of heaven; my decision has not changed. Jupiter's prophecy,
which at this point already has passed well beyond the plot of the Aeneid,
embraces all Rome's fortunes within a reassuring teleological vision. Among the
events prophesied is the reconciliation of Juno with the Romans, which is to prove
important both for the Aeneid and for Ovid's recontextualization of Virgilian
topics: quin aspera luno, quae mare nune terrasque metu caelumque fatigat,
consilia in melius referet, mecumque fouebit Romanos, rerum dominos gentemque
togatam. Furthermore, harsh Juno, who now wears out sea, earth, and heaven with
fear, will turn her plans to a better course; along with me she will cherish
the Romans, lords of all, the people of the toga. We ought better to call this
not the but a reconciliation, for, introduced after Jupiter's mention of
Romulus and the foundation of Rome, it appears not to refer to the
reconciliation that actually occurs in Aeneid 12. There, shortly before the
final encounter of Aeneas and Turnus, Jupiter appeals to Juno to give up her
wrath. Juno does so, stipulating that the Latins not be required to give up
their language and dress, and that Troy remain fallen (Aen. 12.791-842). In
Aeneid 1, however, Virgil follows Ennius's “Anales” in dating Juno's
reconciliation to the time of the second Punic War, Ennius's own subject, as
Servius notes on the words “consilia in melius referet: quia bello Punico
secundo, ut ait Ennius, placata luno coepit fauere Romanis.” Virgil mentions
the chronologically later reconciliation long before describing the former. In
Book 1 Jupiter takes a longer view of destiny, showing that a conflict
introduced but unresolved in the Aeneid, the future hostility of Carthage, will
eventually be resolved happily. Whether we take Juno's reconciliation in Aeneid
12 to be incomplete, impermanent, or, limited to only some of Juno's grudges, it
contributes only a partial sense of closure to the end of Virgil's poem. Ovid's
transformation of Aeneas into the divine Indiges more specifically recalls
Aeneid 12 than Aeneid 1, especially the beginning of Jupiter's address to Juno
at Am. 12.794-95: 'indigetem Aenean seis ipsa et scire fateris/ deberi caelo
fatisque ad sidera tolli' Ovid does not closely follow the chronology of Juno's
reconciliation in Aeneid 12, however, shifting it instead to a time beyond
Vergil's plot, and just preceding the apotheosis of Aeneas, which indeed it
serves to introduce: iamque deos omnes ipsamque Aencia uirtus lunonem ucteres
finire coegerat iras, cum bene fundatis opibus crescentis Iuli tempestius erat
caelo Cythereius heros. And now Aeneas's virtue had compelled all the gods,
even Juno herself, to put an end to old anger, when the resources of rising
lulus were well established, and the hero, Venus's son, was ripe for heaven. The
thoughts and language strongly recall the Aeneid, but Ovid introduces these lines
into bizarre, surreal surroundings of his own making. Their immediate context
is one of the strangest transformations in the poem-the tale of Turnus's
hometown, Ardea, changed into the heron. Turnus and the town Ardea may be
Virgilian in their associations, but Ovid's treatment is remote from Virgil,
and takes his own aetiological procedure to new extremes. It is typical of
Ovid's natural aetiologies that they account for the first animal of a species,
tum primum cognita praspes, and that they stress the continuity of traits and
features in the change from the old to the new shape. This case goes beyond the
typical in the sheer imaginative effort required to make the shift from a
ruined city, with all its attributes, to a heron. Cities, as human social
organizations, are characteristically distinct from the natural. This is not
just any city, but one embedded in the human history of Rome and Rome's
enemies, and familiar in Rome's national epic. Yet Ardea retains even its name
in its migration into the avian realm as the first heron -- et sonus et macies
et pallor et omnia, captam quae deceant urbem, nomen quoque mansit in illa
urbis et ipsa suis deplangitur Ardea pennis. It had the sound, the wasted
condition, the pallor everything that befits a conquered city. Even the city's
name remained in the bird, and Ardea beats her breast, in mourning for herself,
with her own wings. These remarkable lines, which immediately precede the
apotheosis of Aeneas, provide no contextual introduction to the apotheosis, no
invitation to form a close approximation of Ovid's and Virgil's Aeneas. Aeneas
and his virtus abruptly arrive. Yet no sooner do the gods and Juno give up
their wrath, introducing a new and impressive array of literary, historical,
and political associations, than the tone of Ovid's version of the apotheosis
becomes intrusively comic. Venus canvasses the gods like a Roman politician:
ambieratque Venus superos. She appeals to Jupiter's grandfatherly pride, and
seems to treat numen as a rare and valuable commodity in begging some of it for
her son, 'quamus parvum des, optime, numen,/ dunmodo des aliquod. All these
details are at least potentially comic, as is the argument wholly successful in
the event- with which Venus concludes her speech. One trip to hell is enough:
'satis est inamabile regnum/adspexisse semel, Stygios semel isse per amnes'. These
lines are a comic correction of Virgil. Later readers were to be distressed
that Virgil's Sibyl, otherwise a knowledgeable prophetess, was unaware of
Aeneas's apotheosis, which Jupiter had explicitly prophesied in Book 1 and was
to prophesy again later. Otherwise she would not have assumed a second trip for
Aeneas to the infernal regions after his death: quod si tantus amor menti, si
tanta cupido bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere Tartara, et insano
iuuat indulgere labori, accipe quac peragenda prius. (Aen. 6.133-36)But if your
mind has so great a longing, so great a desire to swim the Stygian pools twice,
twice to look upon dark Tartarus, and it pleases you to indulge in an insane
effort, learn what must be accomplished first. Servius tries to reconcile the
death of Aeneas, implied here, with Ovid's apotheosis of him, though he could
have mentioned Jupiter's two prophecies in the Aeneid itself. Servius proposes
that simulacra of apotheosized heroes, no less than of ordinary folk, are to be
found in the underworld. We do not know whether readers and critics in Ovid's
time were already vexed about the Sibyl's evident lack of knowledge, but Ovid's
Venus, correcting bis with semel, sets the record straight. Once Venus has
asked the help of the river Numicius in washing away all that is mortal in
Aeneas, she completes the process of making him into a divinity whom Quirinus's
crowd calls Indiges, and has received with altars and a temple (quem turba
Quirini/nun-cupat Indigetem temploque arisque recepit). This information is
profoundly historical, for how Romans understand the altars and temples of
their gods, how they connect the remote to the recent past, depends on the
symbolic narrative or narratives that their minds associate with monuments in
their city. Ovid's revision of Vergil is the revision of a well known and
compelling historical vision. Ovid's concluding lines on Aeneas also, as
editors note, offer a parallel to the language of an inscription for a statue
of Aeneas found at Pompeii: appel/latus/g.est Indigens (pa)ter et in deo/rum
n/umero relatus (CIL 12.189.1 = Dessau 63). Mention of the turba Quirini looks
forward to the apotheosis of Romulus later in Book 14, but first there
intervenes a king-list an annalistic structuring of the past remarkable in
finding a place in the Metamorphoses. Like the renaming of Aeneas, the list of
Latin kings also recalls to Roman readers their reading of inscriptions. This
king-list also recalls earlier lists in the Metamorphoses, such as the
genealogy of Aesacus. His transformation is a natural aetiology, and likewise
Aeneas's shift to divine status as “indiges” can be viewed as just another
transformation, an addition to the tale of Ardea transformed into a heron. We
might almost think of it as an undifferentiated item in a vast accumulation of
transformation-tales that could be arbitrarily lengthened by further addition.
The reason, however, that we cannot quite do so is the fact that it is not
isolated, but participates in a pattern of apotheoses. The apotheosis of
Hercules establishes a pattern that is reinforced strongly by the apotheoses of
Romulus and of Julius Caesar's soul. Their greater number toward the end of the
poem appears to signal both their own importance and their closural impact. Ovid's
list of Latin kings does not lead directly to the apotheosis of Romulus, but to
the tale of Pomona and Vertumnus, which he dates to the reign of Proca. The
tale is rich in closural features, cut from the same cloth as the apotheoses
that frame it. Viewed as an incident of deceptive seduction and
barely-suppressed violence, the tale of Vertumnus can also appear a
distraction, leading the reader's attention away from the transformation of
historically important heroes into gods. The tale is a "romantic
comedy," yet regards it as compromising its context. It is no secret that
it disrupts what might be called the Aeneadisation of what is otherwise far
from being a Roman epic just when it begins to show promise (or make fraudulent
promises) of turning a new leaf and beginning to be such an epic, and one in
the Augustan mode to boot. Coming as it does between Aeneas and Romulus, the
tale of Vertumnus defeats closure and deflates any last hope of the poem's
imagining Rome’sHistorical Destiny (or imagining the World's destiny as Rome's)
because an ample and effective representation of the myth of Romulus would be
crucial to a celebration of Rome's place at the end of history as the end of
history. When Ovid abruptly returns to his long-interrupted king-list, he
remarkably FAILS to mention Romulus. Rome's walls are founded in the passive
voice, and only Romulus's enemy, the Sabine king Tatius, receives mention by
name -- proximus Ausonias iniusti miles Amuli rexit opes, Numitorque senex
amissa nepotis munere regna capit, festisque Palilibus urbis moenia conduntur.
Tatiusque patresque Sabini bella gerunt -- Next the military might of unjust
Amulius ruled rich Ausonia, old Numitor received, by his grandson's gift, the
kingdom that he had lost; on the festival of Pales the city's walls are
founded. Tatius and the Sabine fathers wage war. Scholars have attempted to
explain by various means Ovid's drastic compression of Rome's origins. Ovid
avoids repeating what he writes in the Fasti. The foundation of Rome offers no
opportunity for metamorphosis, although Helenus is to represent Rome's
foundation exactly in such terms later, in another context. And Ovid wishes to
avoid competing with Ennius's account in the Annales. These explanations
themselves are speculative, but the text seems to call for explanation because
Ovid has so strikingly omitted an obvious opportunity to serve up an account of
Rome's origins. Ovid's critics easily fall into the his hermeneutic trap. His
text demands interpretation without providing the resources to arrive at one.
Romulus and his apotheosis are an especially impressive instance of the
self-consciously missed opportunity, the Ovidian narrative tease. Because Romulus
was so well-known to Ovid's Roman readers as a mythico-historical parallel to Ottaviano,
few topics are richer in potential for allegorical exploitation and panegyric
symbolism; and this potential goes almost totally unrealized here. Ovid's
approach to Romulus is no approach at all. Ovid omits the founder's exploits
and shifts all attention to the divine sphere. The apotheosis of Romulus and,
as it turns out, that of his wife Hersilia result from divine actions, whose
description is the province of myth. Historians who record their exploits give
them standing as historical figures. Deprived of exploits, they re-enter myth.
By remythologizing history Ovid incorporates it into the world of the
Metamorphoses, in which divinities are active and humans largely are acted
upon. He also opposes euhemeristic modes of interpreting the shift from mortal
to divinity, in accordance with which a human's heroic actions approach and
approximate the divine, resulting in the hero's veneration as divine by other
humans, and his reception among the divinities as one of them. Ennius's
historical epic, the Annales, reports that, at Romulus's death, Romolo now has
a life among the gods -- Romulus in caelo cum dis genitalibus aeum/ degit. Ennius
probably took a euhemeristic interpretation of Romulus's deification. Virtue
and political merit open the gates of heaven. It is highly likely that the
deification of Romulus, who performed the mighty benefaction of founding the
city, was the innovation of Ennius. Ennius here will have been placing Romulus
in the tradition of the great monarchs who won immortality by emulating
Hercules. Although the details of Ennius's account are far from clear, Ovid's
non-euhemeristic approach is apparently the reverse of his principal source,
the original and canonical version of Romulus's deification. History appears to
be going backwards as the divine agents in the Romans' war with Tatius take
action. Juno unlocks the gate to the invading Sabines despite having so
recently given up her wrath against the Romans -- inde sati Curibus tacitorum
more luporum ore premunt uoces et corpora uicta sopore inuadunt portasque
petunt, quas obice firmo clauserat Iliades; unam tamen ipsa reclusit nec
strepitum uerso Saturnia cardine fecit. Then the Sabines, born at Cures, keep
their voices muffled like silent wolves; they assault the Romans, whose bodies
are sunk in slumber; they seek the gates, which lia's son [Romulus] had barred;
yet one of them Saturnian Juno unlocked. She made no noise as she turned it on
its hinge. After all the emphasis on Juno's reconciliation earlier, in the
apoth-cosis of Aeneas, her behavior here is glaringly inconsistent. We may try
to rationalize Juno's actions by appealing to Ennius's historical framework, by
which Juno gives up her wrath at the second Punic War. But Ovid makes no
attempt to clarify and so rescue historical consistency; indeed, he appears to
mock the tradition of multiplereconciliations of Juno, exploiting it for its
comic absurdity. There are serious consequences as well: the equation of
history with destiny breaks down. Soon Juno will be favorable to the Romans
once again at the apotheosis of Hersilia, but meanwhile two other divinities
intervene: first Venus, unable to undo Juno's hostile act in unbarring the
gate, entreats the Naiads living next to Janus's shrine in the Forum Romanum to
come to her assistance. Their spring, normally cold, they bring to a hasty
boil, thus blocking the way to the Sabines and allowing the Romans time to arm
themselves. Next, Mars addresses Jupiter, requesting deification for Romulus as
the fulfillment, now: due, of a long-standing promise. Mars cites Jupiter's
original words, representing them as an exact quotation: tu mihi concilio
quondam praesente deorum (nam memoro memorique animo pia uerba notaui) "unus
crit, quem tu tolles in cacrula caeli" dixisti: rata sit uerborum summa
tuorum. Once, at an assembled council of the gods, you told me (for I
remem-ber, and marked the pious words in my retentive mind),there will be one
whom you will carry to the blue of heaven.' Let the content of your words be
fulfilled. The words Marte quotes appear to gain even more authority by
referential confirmation from outside the text of the Metamorphoses doubly
cited, as it were: for while Mars cites Jupiter, Ovid cites Ennius's Annales. Readers
of Ovid's contemporary Fasti will remember the recurrence of Ennius's line in a
third context, for Mars cites it there as part of a parallel appeal for
Romulus's deification. Although Marte describes his son to Jupiter as the
latter's "worthy grandson" (Met. 14.810), Romulus's exploits have no
part in the appeal. Deification results directly from Jupiter's promise, so
strongly emphasized, and at the beginning of the speech Mars needs only to
establish that now is the time for its fulfillment: tempus adest, genitor,
quoniam fundamine magno res Romana ualet nec praeside pendet ab uno, praemia
(sunt promissa mihi dignoque nepoti) soluere et ablatum terris inponere caelo.
Since, father, Roman affairs are well established on great foundations, and do
not depend on a single protector, it is time to pay the reward it was promised
to me and to my worthy grandson to remove him from the earth and to place him
in heaven. In all this there is no mention of Romulus's great benefactions,
such as might sustain a euhemeristic interpretation of the hero's advancement
to divine status. Far from avoiding comparison to Ennius, Ovid ostentatiously
quotes his predecessor's work, as if to flaunt the fact that in stripping the
hero of exploits he has eliminated Ennius's interpretation of them. Ennius's
words, transferred to so un-Ennian a context, may appear well suited to a
familiar allegorical parallel, reminding Roman readers once again of their
second Romulus, likewise destined for the skies. Yet Ovid's apotheosis of
Romulus functions but feebly as an Ottavian icon precisely because of its lack
of historical specificity. Lacking res gestae, Ovid's Romulus offers readers
little to go on in drawing conceptual parallels to the achievements of
Ottaviano. There are many similarities between the apotheosis of Romulus in the
Metamorphoses and that in the Fasti. In both works Ovid makes an emphatic
identification of deified Romulus with QVIRINVS, reinforcing relatively recent
developments in the story. In both Ovid quotes the line from Ennius and repeats
the apostrophe Romule, tra dabas (Met. 14.806, F. 2.492) at the moment when the
apotheosis occurs. Yet in their larger contexts the two passages are remarkably
dissimilar. While in the Metamorphoses Romulus's apotheosis is his whole story -simply
one in a series of apotheoses extending from Hercules to the end of the work, in
the Fasti his apotheosis has a context in the life and exploits of the hero.
Romulus appears so often in the “Fasti” that the episodes concerning him are
numerous enough to trace out a biography of him, even if by installments. Ovid's
version of the Roman year gives Romulus an unprecedented amount of space, far
beyond the natural occasions offered by tradition (such as, for example,
Romulus's involvement in the foundation myths or in the actual rituals of the
Parilia or the Lupercalia). The identification of Augustus with Romulus even to
the point of his apotheosis demandd a 'positive' picture of Romulus. If the
violence and ruthlessness of Romulus's exploits in the “Fasti” make him a
problematic parallel to Augustus, we may suppose that Ovid gives himself an
easier task in the Metamorphoses by keeping Romulus's deeds out of his
narrative. In the “Fasti”, for instance, Marte mentions Romulus's dead brother
Remus always a difficulty in positive portrayals of the founder whereas in the
Metamorphoses Marte prudently omits *any* mention of Remus. Yet even the
attenuated Romulus of the Metamorphoses presents difficulties to allegorical
interpretation. As we saw earlier, Marte explains that it is now time for
apotheosis because Rome's condition, now well-established, "does not
depend on a single protector" (nec praeside pendet ab uno, Met. 14.809). Hence,
Romulus can be safely removed from the earth. Applied to Ottaviano, this remark
makes a poor allegorical fit. It calls attention to problems of succession that
afflicted the princes, on whom alone the res Romana manifestly did depend. The
apotheosis of Hersilia is even more remarkable, and Ovid's de-euhemerizing
revision of Roman history enters upon fresh territory with her. With Hersilia
there was probably no euhemeristic tradition for Ovid to work against. Ovid can
invent an apotheosis for her, representing it as a purely divine initiative. Tradition
granted her notable exploits without apotheosis; Ovid grants her apotheosis
without notable exploits. Romolo’s wife was well known to Roman readers for
being the Sabine wife of Romulus and for her active role in reconciling her own
people to the Romans. In several accounts, after the abduction of the Sabine
women and subsequent conflict between Romulus's men and the angry parents,
Hersilia sues for peace with Tatius and the Sabine fathers (Gellius 13.23.13;
Dio Cass. 1.6). Her other signal achievement takes place shortly thereafter.
According to Livy, Romulus blames the Sabine parents for the conflict, which
resulted from their pride in not allowing inter-marriage in the first place. Ersilia,
importuned by the entreaties of her sister Sabines, intervenes with Romulus to
argue that their parents ought to be pardoned and allowed to live in Rome: ita
rem coalescere con-cordia posse. Harmonious union of Romans and Sabines is,
according to Livy's patriotic interpretation, the whole point of the rape of
the Sabine women; and this view was widespread. It was not in wanton violence
or injustice that they resorted to rape, but with the intention of bringing the
two peoples together and uniting them with the strongest ties. So writes
Plutarch in introducing Ersilia. Dionysius of Halicarnassus also accepts this
pro-Roman motive for the rape. Ersilia's achievements, like those of her
husband, disappear entirely from Ovid's account of her apotheosis, as does the
whole story of the rape of the Sabines, in which she traditionally plays so
important a part. After Romulus's transformation into the deified Quirinus,
Juno sends Iris to bring instructions to the grieving widow, addressing Ersilia
as "chief glory of both the Latin and Sabine peoples": "o et de
Latia, o et de gente Sabina/praecipuum, matrona, decus.’ Has Juno become
reconciled to the Romans this time because of their union with the Sabines, a
people known for exemplary piety? We might suppose so, especially now that
Romulus is identified with the Sabine divinity Quirinus. For whatever reason,
Juno offers Ersilia a chance to see her husband again if she will go, under
Iris's guidance, to the Quirinale, Quirinus's hill, a place associated with the
Sabines' presence in Rome:53 siste tuos fletus et, si tibi cura uidendi
coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini qui uiret et templum Romani
regis obumbrat:Stop your tears and, if you care to see your husband, under my
guidance seek the grove that grows green on Quirinus's hill, and shades the
temple of Rome's king. Ersilia follows Iris's instructions and proceeds to
Romulus's hill. A star descends, causing Ersili's hair to catch fire a divine
portentand she passes into the air. Rome's founder receives her, changes her
name and body, calling her Hora, quae nunc dea tunca Quirino est (Met. 14.851).
Of course, Ersilia's apotheosis, like Romulus's, can be allegorized as
panegyric. There’s a parallel to LIVIA, so reinforcing the connection of
Romulus to Augustus. Yet if Ovid's goal in this double apotheosis is to promote
panegyrical identifications, he has lost an impressive opportunity. Especially
after his irreverent, even scandalous, version of the rape in Ars amatorial, Ovid
could now have made amends with Ottaviano and with history by serving up a
traditionally patriotic rape of the Sabines, including the achievements of
Romulus and Ersilia, both available for cuhemeristic treatment. Ovid's version
is once again conspicuously remote from Ennius's. It is unlikely that Ersilia's
transformation into the divine Hora occurred in the Annales, and Ovid probably
originated Ersilia's apotheosis. In doing so, Ovid remythologizes history,
reducing human agency and minimizing the potential of his Roman characters to
serve as flattering parallels. In evaluating the historical character of the
Metamorphoses, we can view apotheosis as part of historical progress in the
work. As we saw above Wheeler regards the movement from fable to history, from
the heavens to the city of Rome, as "a shift from a theologia fabulosa to
a theologia wilis"67 Another view is, however, possible, in accordance
with which the fabulous incorporates all else into its domain-including
history, politics, and current events. Terms like "fabulous" and
"mythological," of course, are not simply descriptive of the subject
matter that Ovid has taken up; he has entirely transformed the nature of the
fabulous, mythological, and the historical alike. He Ovidianizes them all,
Hersilia no less completely than the rest. When Iris reports Juno's words to
the bereaved Hersilia, she eagerly asks to see once again the face of her
husband, concluding her request with these words: 'quem si modo posse uidere/
fata semel dederint, caelum accepisse fatebor' (Met. 14.843-44). Hersilia is
using caclum as a metaphorical equivalent for the summit of happiness, as Bömer
aptly notes, citing Cicero's letters to Atticus: in caelo sum (Att.
2.9.1); Bibulus in caelo est (Att. 2.19.2). Hersilia supposes Romulus
"lost" (amissum, Met. 14.829) and evidently knows nothing yet of his
apotheosis -certamly nothing about her own. She simply uses a conventional,
proverbial form of speech to express her anticipated happiness.** But events
make her expression literally true, as the star descends and Hersilia rises to
the heavens. Ovid's transformative wordplay often operates in just this way:
words that initially appear figurative become literal, the conceptual shifts to
the physical, and a transformation described in terms of plot is enacted first
on the level of style." Hersilia's apotheosis is a fine instance of
Ovidian wit, yet is also a typical instance, similar to many others that
readers have enjoyed by this stage in the work's progress. As they enjoy
another of Ovid's transformative witticisms, they also may reflect on the power
of his transformative vision, which now incorporates even their own history. As
he exploits Hersilia's apotheosis for so fine a joke, Ovid grants us an ironic
perspective on Roman origins, compromising their fated-ness and bringing out
their contingent character. Throughout the last pentad, historical events lose
their connection to fata and pass under the sway of Fama in its full range of
ambiguity and contradiction: "lies mixed with truth" (mixtaque cum
ueris... commenta, 12.54) issue from the house of Fama, while "Fame, the herald
of truth" (praemuntia uri/ fama, 15.3-4), announces Numa's impossible
visit to Pythagoras. Fama is a touchstone for the fractured historical vision
of the Metamorphoses. Fasti (Ovidio)Fasti Ritratto immaginario di Ovidio
(di Anton von Werner) AutorePublio Ovidio Nasone 1ª ed. originaledal 9 d.C.
Editio princepsBologna, Baldassarre Azzoguidi, 1471 Generepoema epico Lingua
originalelatino Modifica dati su Wikidata · Manuale. I Fasti sono un poema che
espone le origini delle festività romane, quindi è un'opera di carattere
calendariale ed eziologico di Ovidio, scritto in distici elegiaci, ad
imitazione degli Aitia (Cause) di Callimaco, di cui riprende, oltre che il
metro, anche alcune soluzioni formali e narratologiche. L'opera, scritta
molto probabilmente per aderire alla moralizzante propaganda tipica dell'età augustea,
fu progettata in un totale di 12 libri, secondo l'andamento del calendario. Con
essa l'autore, che probabilmente attingeva a Varrone e a Verrio Flacco, si era
proposto di spiegare l'origine della differenza tra i giorni fasti (dalla
parola latina "fas", lecito) in cui i Romani potevano trattare
gl’affari pubblici e privati, e i giorni “INfasti,” nei quali era vietato. Al
tempo stesso, Ovidio, parlando con il dio di turno, indaga e rivisita, mese per
mese, tutti i molteplici riti, le festività e le consuetudini, tipiche del
costume e dell'uomo romano, che, al suo tempo, si praticavano senza ormai
conoscerne l'esatta origine o valenza. Tuttavia, dei Fasti si sono
conservati solamente 6 libri, da gennaio a giugno. Questo fatto si spiega con
la famosa relegatio (esilio che non comportava la perdita dei beni né tantomeno
dei diritti civili) che colpe Ovidio e che non gli permise di terminarla.
Indice 1Struttura 1.1Libro I: gennaio 1.2Libro II: febbraio 1.3Libro III:
marzo 1.4Libro IV: aprile 1.5Libro V: maggio 1.6Libro VI: giugno 2Note 3Voci
correlate 4Altri progetti 5 Collegamenti
esterni Struttura Libro I: gennaio Il primo libro doveva presentare una dedica
ad Ottaviano. Quest'ultima, ora spostata al secondo libro, è stata sostituita
(verosimilmente nell'esilio di Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al
nipote adottivo di Augusto stesso, Germanico. Dopo la dedica, Ovidio ri-evoca
brevemente la nascita del calendario romano e il significato dei giorni
fortunati o dies fasti, per poi passare al mito di Giano, esposto dal dio
stesso in colloquio con Ovidio, sul modello degli Aitia callimachei e, dopo un
distico sulle None di gennaio, modellato sulle sezioni astronomiche di Arato,
all'esposizione dell'origine dei riti agonali, dei riti in onore di Carmenta,
inframmezzato da una esposizione sulle Idi, che divide questo mini-epillio in
due sezioni, la prima delle quali è una lunga profezia sulle origini di Roma
recitata dalla stessa ninfa. Libro II: febbraio Dopo un'apostrofe al
distico elegiaco, che Ovidio afferma di aver piegato alla poesia eziologica,
dopo che in gioventù fu il suo verso d'amore e ad una dedica a Cesare (forse
Augusto), si passa a parlare dell'origine del nome februarius, per poi discutere
delle calende, con la rievocazione del mito di Arione, delle none, con il mito
dell'Orsa Callisto, di Fauno, dei Lupercali e di Roma arcaica. Ovidio rievoca,
poi, le feste Quirinalia, le cerimonie ferali e la festa del dio Terminus e si
sofferma a parlare del regifugium, con la leggenda di Lucrezia. Infine, parla
della festa degli Equirria. Libro III: marzo Sezione vuota Questa sezione
sull'argomento opere letterarie è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Libro IV:
aprile Sezione vuota Questa sezione sull'argomento opere letterarie è ancora
vuota. Aiutaci a scriverla! Libro V: maggio Sezione vuota Questa sezione
sull'argomento opere letterarie è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Libro VI:
giugno Sezione vuota Questa sezione sull'argomento opere letterarie è ancora
vuota. Aiutaci a scriverla! Note Voci correlate Festività romane Fasti (antica
Roma) Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su
Fasti Collegamenti esterni I Fasti di P. Ovidio Nasone; tradotti in terza rima
dal testo Latino ripurgato ed illustrato con note dal dottor Giambattista
Bianchi da Siena, Venezia, Nella stamperia Rosa, 1811 (on-line) Traduzione in
inglese dei Fasti, su tkline.freeserve.co.uk. URL consultato il 7 giugno 2007
(archiviato dall'url originale il 10 marzo 2007). V · D · M Publio Ovidio Nasone
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