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Monday, October 28, 2024

GRICE ITALO A/Z G GA

 

Grice e Gaetani: la ragione conversazionale e ’implicatura convesazionale di Catullo -- APVD NEAPOLIM – filosofia italiana – Luigi Speranza (Martano). Filosofo italiano. Grice: “I like Gaetani, for one, he is a duke – and kept beautiful gardens at Martano – he philosophised on the ‘ottocento’, as any philosopher from the Novecento would!” Figlio di Carlo, conte di Castelmola, e Giuseppina Chiriatti. La famiglia Gaetani annovera oltre al ramo dei Castelmola, anche quello dei Laurenzana, di cui si ricorda il Barone Di Laurenzana, esponente del movimento radicale. L'insegna araldica dei Castelmola è costituita da uno scudo forgiato di due strisce blu ondeggianti che lo attraversano in senso trasversale. I G., prima Caetani, vantarono alcuni papi, tra cui Bonifacio VIII.  Il padre, Carlo, avvocato, fu ripetutamente eletto tra le file dei radicali nel Consiglio comunale di Napoli. Da Napoli attiene, fino a tutta la Grande Guerra, alla cura del patrimonio fondiario in Martano, acquisito dal matrimonio con Chiriatti. Questa infatti si era trasferita a Napoli dopo l'uccisione del facoltosissimo padre Paolo, nell'ambito di una torbida vicenda che vide infine coinvolta la madre di le quale mandante, assieme al prete Mariano, dato che i due erano in tresca. Diviso il patrimonio tra le due figlie Giuseppina e Paolina Chiriatti, e la madre stessa, vennero iniziati i lavori di costruzione del palazzo Chiriatti-G.. A Palazzo Chiriatti-G. la famiglia venne a dimorare mentre man mano la gestione delle fortune familiari passava in capo a G., che si impegna in un'ardua opera di bonifica e di razionalizzazione colturale, culminata con l'acquisto di diversi macchinari ad alta tecnologia. E però proprio il malfunzionamento dell'attrezzatura finalizzata all'estrazione dell'acqua dai pozzi, bene capitale nelle aride campagne della zona, a determinare l'infiacchimento del capitale di famiglia e il progressivo indebitamento verso il Banco di Napoli, che culmina con la fine del fascismo.  Frattanto  G., che si fregia del titolo di duca, a seguito del matrimonio con la duchessa d'Ascoli, Leopoldina, si dedica alla FILOSOFIA, mentre, del resto, ha a ricoprire la carica di provveditore a Potenza. La sua filosofia e ispirata dalla Francia, della che e un grande amatore, nonostante il fascismo e nonostante la sua adesione al regime, che ad un certo punto ne impedì la circolazione in Italia. Crociano, segue lo schema tracciato dal maestro, mentre l'ultimo ricordo della natia Martano e un canto dedicato alle tradizioni grike, di cui raccomandava appassionatamente la conservazione e il culto.  Nei giorni furenti che precedettero il Referendum istituzionale appoggia in pubblici comizi la Monarchia, e per questo paga dazio dovendosi allontanare all'indomani del voto e rifugiarsi in Napoli, tutto teso negli studi letterari. Altre saggi: Villon (Napoli); “Un carteggio inedito di F. Bozzelli (G.), L'Aquila, Masseria, Martano (Lecce); “Un bilancio letterario” (Roma); “Per onorare un maestro: il Torraca, Napoli); “Catullo” (Roma); L'Ottocento” (Napoli); “La bancarotta del rosso: commedia in tre atti (Lecce); “Per la venuta del Duce” (Lecce); “Bernardo Bellincioni, Galatina (Lecce); “Il benedettino-cistercense d. Mauro cassoni nel Tempio, nella scuola, negli studi (Lecce);  “Ricordi di Croce” (Napoli); Vicende tipi e figure del Casino dell'Unione” (Napoli); Napoli ieri e oggi: passeggiate e ricordi” (Milano-Napoli); “Apud Neapolim” (Napoli); Fonti storiche e letterarie intorno ai martiri di Otranto, Napoli.  "Catullo" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Catullo (disambigua).  Sirmione, busto di Catullo Gaio Valerio Catullo (in latino: Gaius Valerius Catullus, pronuncia classica o restituta: [ˈɡaːɪʊs waˈlɛrɪʊs kaˈtʊllʊs]; Verona, – Roma) è stato un poeta romano. Il poeta è noto per l'intensità delle passioni amorose espresse, per la prima volta nella letteratura latina, nel suo Catulli Veronensis Liber, in cui l'amore ha una parte preponderante, sia nei componimenti più leggeri che negli epilli ispirati alla poesia di Callimaco e degli Alessandrini in generale. Il busto di Catullo presso la Protomoteca della Biblioteca civica di Verona. Origini familiari  Catullo da Lesbia, dipinto di Lawrence Alma-Tadema. Gaio Valerio Catullo proveniva da un'agiata famiglia latina che aveva contribuito a fondare la città di Verona, nella Gallia Cisalpina; il padre avrebbe ospitato Q. Metello Celere e Giulio Cesare in casa propria al tempo del loro proconsolato in Gallia[1]. Per quanto concerne gli estremi cronologici della sua biografia, Girolamo pone l'87 a.C. e il 57 a.C. rispettivamente come data di nascita e di morte e specifica che appunto egli morì alla giovane età di trent'anni. Tuttavia, poiché nei suoi carmi accenna ad avvenimenti che riportano all'anno 55 a.C. (come l'elezione a console di Pompeo e l'invasione della Britannia da parte di Cesare[4]), si è maggiormente propensi a ritenere che egli sia nato nell'84 e morto nel 54 a.C., dato per certo il fatto che sia morto a trent'anni.  Trasferimento a Roma, vita sociale e letteraria Trasferitosi nella capitale cominciò a frequentare ambienti politici, intellettuali e mondani, conoscendo personaggi influenti dell'epoca, come Quinto Ortensio Ortalo, Gaio Memmio, Cornelio Nepote e Asinio Pollione, oltre ad avere rapporti, non molto lusinghieri, con Cesare e Cicerone; con una ristretta cerchia d'amici letterati, quali Licinio Calvo ed Elvio Cinna fondò un circolo privato e solidale per stile di vita e tendenze letterarie. Durante il suo soggiorno prolungato a Roma ebbe una relazione travagliata con la sorella del tribuno Clodio, tale Clodia. Clodia viene cantata nei carmi con lo pseudonimo letterario "Lesbia", in onore della poetessa greca Saffo, molto cara a Catullo e proveniente dall'isola di Lesbo. Lesbia, che aveva una decina d'anni più di Catullo, viene descritta dal suo amante non solo graziosa, ma anche colta, intelligente e spregiudicata. La loro relazione, comunque, alternava periodi di litigi e di riappacificazioni ed è noto che l'ultimo carme che Catullo scrive all'amata fu del 55 o 54 a.C., proprio perché in essa viene citata la spedizione di Cesare in Britannia. Da alcuni suoi carmi emerge, inoltre, che il poeta ebbe anche un'altra relazione, omosessuale, con un giovinetto romano di nome Giovenzio. Catullo si allontanò, comunque, varie volte da Roma per trascorrere del tempo nella villa paterna a Sirmione, sul lago di Garda, luogo da lui particolarmente apprezzato e celebrato per il suo fascino ameno, situato nella sua terra di origine e che per questo induceva al poeta distesi periodi di riposo. Seguì Gaio Memmio in Bitinia: in quella circostanza andò a rendere omaggio alla tomba del fratello situata nella Troade. Quel viaggio non recò alcun beneficio al poeta, che ritornò senza guadagni economici, come sperava al momento della partenza, né la lontananza riuscì a fargli riacquistare la serenità perduta a causa dell'incostanza e dell'indifferenza di Lesbia nei suoi confronti. Fu tuttavia una nota positiva la visita alla lapide del fratello, in occasione della quale scrisse il Carme (a cui si ispira in seguito anche Foscolo per la poesia In morte del fratello Giovanni). Catullo non partecipò mai attivamente alla vita politica, anzi voleva fare della sua poesia un lusus fra amici, una poesia leggera e lontana dagli ideali politici tanto osannati dai letterati del tempo[6]. Disprezzava infatti la politica di allora, dominata da politici corrotti che servivano soltanto il proprio interesse: riteneva dunque che favorire l'uno o l'altro non significasse niente di meno che aiutare l'uno o l'altro a perseguire il suo vantaggio personale. Tuttavia, seguì la formazione del primo triumvirato, i casi violenti della guerra condotta da Cesare in Gallia e Britannia, i tumulti fomentati da Clodio, comandante dei populares, fratello della sua celebre amante Lesbia e acerrimo nemico di Cicerone, che verrà da lui spedito in esilio nel 58 a.C. ma poi richiamato, i patti di Lucca e il secondo consolato di Pompeo. Una nota da sottolineare è il Carme 52 dove, per usare le parole di Alfonso Traina, "il disprezzo della vita politica si fa disprezzo per la vita stessa":  (LA) «Quid est, Catulle? quid moraris emori? sella in curuli struma Nonius sedet, per consulatum peierat Vatinius: quid est, Catulle? quid moraris emori? Che c'è, Catullo? Che aspetti a morire? Sulla sedia curule siede Nonio lo scrofoloso, per il consolato spergiura Vatinio: che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?»  (Carme) Opera Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura latina Marco Antonio Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Liber (Catullo). Il liber di Catullo non fu ordinato dal poeta stesso, che non aveva concepito l'opera come un corpo unico, anche se un editore successivo (forse lo stesso Cornelio Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera) ha diviso il liber catulliano in tre parti secondo un criterio di tipo metrico: i carmi, sotto il nome di "nugae" (letteralmente "sciocchezze"), brevi carmi polimetri, per lo più faleci e trimetri giambici; i carmi, i cosiddetti "carmina docta" d'impronta alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci; i carmi sono gli epigrammi ("epigrammata"), in distici elegiaci.  Il mondo poetico e concettuale di Catullo  Il poeta Catullo legge uno dei suoi scritti agli amici, da un dipinto di Stefan Bakałowicz. Catullo è per noi uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neòteroi, poetae novi, (cioè "poeti nuovi"), che facevano riferimento ai canoni dell'estetica alessandrina e in particolare al poeta greco Callimaco, creatore di un nuovo stile poetico che si distacca dalla poesia epica di tradizione omerica divenuta a suo parere stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla quantità (in riferimento all'abbondanza dei versi di quest'ultima) piuttosto che dalla qualità. Sia Callimaco che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli antichi eroi o degli dei[7], ma si concentrano su episodi semplici e quotidiani. Per giunta, i neòteroi si dedicano all'otium letterario piuttosto che alla politica per rendere liete le loro giornate, coltivando il loro amore solo ed esclusivamente alla composizione di versi, tanto che Catullo dichiara nel carme 51: «Otium, Catulle, tibi molestum est:/otio exsultas nimiumque gestis» «L'ozio per te, Catullo, non è buono;/ nell'ozio smani e ti scalmani» (traduzione a cura di Nicola Gardini). Talvolta il poeta ostenta il suo disinteresse per i grandi uomini che lo circondavano e che stavano scrivendo la storia: «nihil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere» «non m'interessa, Cesare, di andarti a genio» (carme 93), scrive al futuro conquistatore della Gallia. Da questa matrice callimachea proviene anche il gusto per la poesia breve, erudita e mirante stilisticamente alla perfezione. Si sviluppano, originari dell'alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco[8], Teocrito, Asclepiade, Fileta di Cos e Arato, generi quali l'epillio, l'elegia erotico-mitologica e l'epigramma, che più sono apprezzati e ricalcati dai poeti latini.  Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè "levigato") a riprova del fatto che i suoi versi sono particolarmente elaborati e curati, le poesie raffinate e curate. Una delle caratteristiche peculiari della sua poetica è, infatti, la ricercatezza formale, il labor limæ, con cui il poeta cura e rifinisce i suoi componimenti. Inoltre, al contrario della poesia epica, l'opera catulliana intende evocare sentimenti ed emozioni profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e tematica, in particolare come nel carmen, una emulazione del fr. 31 di Saffo, come anche i carmina, ispirati agli epitalami saffici. Il carme, preceduto da una dedica ad Ortensio Ortalo, è una traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco, che viene ripreso per mostrare l'adesione ad una raffinata elaborazione stilistica, una dottrina mitologica, geografica, linguistica ed infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo un carme di breve durata può essere un'opera raffinata e preziosa.  Svetonio, Vita di Cesare Chonicon, ad annum Carme Carmi Secondo un'indicazione di Apuleio nell'Apologia, la donna a cui si riferisce Catullo rimase vedova di Quinto Metello Celere, sicché si può pensare a Clodia. Al riguardo si veda il carme. Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere nec scire utrum sis albus an ater homo. Non mi interessa affatto piacerti, Cesare, né sapere se tu sia bianco o nero. Eccezion fatta, forse, per i carmina. Morelli, Il callimachismo del carme 4 di Catullo, Cesena: Stilgraf, Paideia: rivista di filologia, ermeneutica e critica letteraria Granarolo, Catulle Lustrum, Granarolo, Catulle Lustrum, Harrauer, A Bibliography to Catullus, Hildesheim Holoka, Gaiu Valerius Catullus. A Systematic Bibliography, New York-Londra Rapisardi, Napoli Stampini, Torino Fleres, Milano Saggio, Milano Mazzoni, Bologna Quasimodo, Milano Errante, Milano Arbela, Milano Cetrangolo, Milano Ciaffi, Torino Pighi, Verona Mazza, Parma Ceronetti, Torino, Ramous, Milano Rizzo, Roma Corte, Milano Mandruzzato, Milano Caviglia, Roma-Bari Amico, Palermo Chiarini, Milano Paduano, Torino Canali, Firenze Natucci, Roma anche in formato Kindle Fo, Torino Commenti Ellis, Oxford 1Riese, Lipsia Baehrens, Lipsia Friedrich, Lipsia-Berlino Kroll, Lipsia Lenchantin de Gubernatis, Torino Fordyce, Oxford Pighi, Verona Quinn, Londra Corte, Milano Caviglia, Bari Merrill, Boston Syndikus, Darmstadt Studi Fedeli, Introduzione a Catullo, Roma-Bari, Laterza Ferguson, Catullus, Oxford Schimdt, Catull, Hidelberg Corte, Due studi catulliani, Genova Neduling, A Prosopography to Catullus, Oxford Braga, Catullo e i poeti greci, Messina-Firenze Hezel, Catull und das griechische Epigramm, Stuttgart Newman, Roman Catullus and the Modification of the Alexandrian Sensibility, Hildesheim Wheeler, Catullus and the Tradition of Ancient Poetry, Londra Moellendorff, Catullus hellenistische Gedichte. in Hellenistische Dichtung in der Zeit des Kallimachos, Berlino Rapisardi, Catullo e Lesbia. Studi, Firenze, Succ. Lemonnier, Marmorale, L'ultimo Catullo. Napoli Pontiggia, Maria Cristina Grandi, Letteratura latina. Storia e testi. Milano, Principato Kaggelaris, Wedding Cry: Sappho (Fr. 109 LP, Fr. 104a LP)- Catullus - modern Greek folk songs, Avdikos e Koziou-Kolofotia (a cura di), Modern Greek folk songs and history. Catullo, Gaio Valerio, Treccani.it – Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Lenchantin De Gubernatis, CATULLO, Gaio Valerio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Gaio Valerio Catullo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Gaio Valerio Catullo, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Gaio Valerio Catullo, su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata (LA) Opere di Gaio Valerio Catullo, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Modifica su Wikidata Opere di Gaio Valerio Catullo / Gaio Valerio Catullo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Gaio Valerio Catullo, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata. Opere di Gaio Valerio Catullo, su Progetto Gutenberg. Audiolibri di Gaio Valerio Catullo / Gaio Valerio Catullo (altra versione), su LibriVox. Bibliografia di Gaio Valerio Catullo, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Modifica su Wikidata (EN) Gaio Valerio Catullo, su Goodreads. Modifica su Wikidata Il Liber di Catullo tradotto in italiano, su spazioinwind.libero.it. Il Liber di Catullo con concordanze e liste di frequenza, su intratext.com. Le grotte di Catullo, su smugmug. Scansione metrica del Liber di Catullo, su rudy.negenborn.net. La Chioma di Berenice: traduzione di Alessandro Natucci, su digilander. libero.it. Il carme 64: traduzione di Natucci (PDF), su classiciscriptores. weebly.com. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Letteratura Categorie: Poeti romani Romani Nati Morti Nati a Verona Morti a Roma Gaio Valerio Catullo Epigrammisti Valerii Poeti italiani trattanti tematiche LGBTSalvatore Gaetani. Gaetani. Keywords: APVD NEAPOLIM, l’implicatura di croce. Croce, Catullo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gaetani” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Gagliardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia marinese –scuola di Marino – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Marino). Flosofo marinese. Filosofo lazio. Filosofo Italiano. Marino, Roma, Lazio. Grice: “I like Gagliardi; I spent some time with medics at Richmond, talking Greek! Anyhow, Gagliardi shows why the Angles prefer physician – since ‘medicare’ is such a trick!” – Grice: “Philosophically interesting bit is that Gagliardi applies ‘medico’ and qualifies it with ‘morale’!” Nasce a un feudo dei Colonna, nell'area dei Colli Albani, come riferisce Moroni nel suo Dizionario di erudizione, e come riferito dallo stesso G. nel in "L'idea del vero medico fisico e morale formato secondo li documenti ed operazioni di Ippocrate" (Roma). In effetti, il cognome G. esiste all'epoca a Marino ed è tuttora tramandato. E impegnato in ricerche morfologiche, microscopiche ed anatomo-patologiche a proposito delle ossa, compiendo importanti scoperte in questo campo. In “Anatomia delle ossa illustrata con le nuove scoperte", Roma) descrive per primo la struttura lamellare delle ossa. Inoltre effettua alcuni esami e ricerche comparative tra le ossa umane e quelle del vitello. Descrive probabilmente per primo un caso di tubercolosi ossea. La sua opera è piuttosto lodata, e l'“Anatomia” è ristampata. Fa importanti studi sul "mal di petto". Filosofa sull'educazione morale. Da anche ammonimenti contro i guaritori ciarlatani e forne alcuni suggerimenti deontologici. Abita nel rione Sant'Angelo, presso via delle Botteghe oscure. In questa strada, un suo servo è ucciso misteriosamente nottetempo. Durante le villeggiature dei papi presso la Villa Pontificia di Castel Gandolfo G. ha il privilegio di offrire la frutta al papa. Alessandro VIII gli conferì un titolo nobiliare, ma non sappiamo quale. I suoi lavori, conservati nelle maggiori biblioteche di Roma, rivestono un particolare interesse se anche duecento anni dopo la loro scrittura, il vice-direttore dell'Ospedale San Martino di Genova, Arata, da alle stampe una lettera inedita del G. sull'itterizia. Si ha svolto un proficuo lavoro di ricerca su G., scoprendo anche una firma del medico in margine ad un saggio discusso all'università La Sapienza.  Altre opere: “L'infermo istruito nelle scuole” (Roma); “Consigli preventivi e curativi in tempo di contagio dati in forma di dialogo” (Roma); “Relazione de’mali di Petto che corrono presentemente nell'Archiospedale di Santo Spirito in Sassia” (Roma); “L'educazione morale” (Roma). “Come sopra l'influenza catarrale che presentemente regna in Roma e Stato ecclesiastico” (Roma). Si veda l'annotazione di “Due baiocchi” in "Castelli Romani", Bossi, Dell'Istoria d'Italia antica, Enciclopedia Treccani G. Sterpellone, I protagonisti della medicina, Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Lucarelli, G., Giornale de' letterati d'Italia, Ros, La "Relazione de' Male di Petto" en el ambiente anatomo-clínico romano, in Dynamis: Acta hispanica ad medicinae scientiarumque historiam illustrandam; Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia, Emiliani; Lucarelli, Memorie marinesi, Marino, Biblioteca Torquati, Ordinamento universitario dello Stato Pontificio Tubercolosi ossea; G., TreccaniEnciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 1  te cose senza profondarvi in alcuna di efse, ed allora appunto diverrete più capaci di fare maggiori progressi, e tanto più se vi servirete per regolatore delle vostrej operazioni di quel saggio avvertimento feftina lente. Esploro dunque con private conferenze l'animo di ciascun di voi separatamente, per meglio accercarmi di ciò, che vi fa bisogno, non potendo il medico dare ajuto al suo infermo s se prima non avrà ben conosciute le cagioni del suo male, e spero in oggi; e domani di potere ricavare da voi ciò, che sarà più necessario, ch'io sappia, per meglio indirizzarvi. Ritiriamoci ora à fare il privato esame, per potere lunedì prossimo dar principio alle nostre giornate. M  Nella quale si mostra cosa si ricerchi d'eljena ziale per efere Medico je ciò, che gli rechi ornamento. Avveddi jeri dal vostro parlare;  che non siete tutti voi di genio uniformi, perche conobbi bene, che tal'uno di voi non restava persuaso, e altri più; ò meno, s’appagavano delle mie ragioni, e riflettendo, che ciò possa nascere dalla diversità delle vostre menti più o meno sublimi, e animose. Quindi è, che prima d'inoltrarmi nel presente ragionamento, stimo necessario di premettere una breve partizione delli vostri ingegni, a fine di regolare ciascuno di voi secondo la propria capacità: Ecer  tamente, conforme nell'esterno non vi assomigliate trà voi, così ancora nell'interno sarete differenti, cioè, che non ha ciascuno di voi la medesima capacità, e apertura di merite; il medesimo talento, e spirito, la medesima memoria, e ritentiva, e il medesimo giudizio, o perspicacia d'ingegno; onde, ciò supposto, io non puo con la medesima misura, e regola mostrare à tutti voi ciò, che vi converrà d'essenziale, è d'ornamento per potere diventare veri medici. Dunque mi convenne necessariamente dividere l’essenziale dall'ornamento, perche l'essenziale dove competere egualmente à voi, che fiete di mente più sublimi, che agli altri d'inferiore capacità: L'ornameiro poi, perche non potrà competere egualinente, nè potrà essere in tutti voi uniforme, bisogna regolarlo fecondo la  propria capacità, e genio di ciascuir di vois con pensare al modo, che possino l'ingegni inferiori uguagliare per altra via ancora nell'ornamento li più subliini; E ciò serve primieramente per dare un'ottima  direzzione alle menti di maggior capacità, in farli conoscere ciò, che si debba di elli premettere d'essenziale, per poscia potersi avanzare in quello di più, di cui saranno capaci. In secondo luogo perche non si confondano, & avviliscano le menti meno sublimi, anzi per istruirle , & ani. marle insieme à fupplire con l'Arte al di, fetto di Natura,  Certo, che ognuno di voi deve avere il medesimo fine, cioè di divenire Medico; Onde dovrà unitamente con gl'altri incaminarsi per la medesima strada, e fino à tanto, ch'abbia conseguico il suo in, tento ; Mà perche chi si trova in forze maggiori trà voi è portato facilmente dal suo spirito ad uscire dalla careggiata, quindi è, che bisognerà idearsi un caso, che dia un buon regolamento à tutti unitamente, che sarà il seguente:  Vi fia trà voi chi posseda in contanti due, chi trè , e chi quattro talenti , e che voglia ciascuno per uso proprio fabricarsi una casa compita, che abbiad d'avere il medesimno uso, e la medefima  fruto  struttura, certo è, che li fondamenti converrà, che li facciate uniformi, il sopra terra dovrà alzarsi eguale, le stanze doyranno essere di numero, e capacità consimili, altrimenti non avrà la medesima struttura. In idearsi queste case non potrà l'Architetto eccedere la spesa di due talenti, altrimenti non potria senza indebitarsi compire la sua fabrica ,chi di voi hå che due foli talenti; Si dolerà facilmente con l'Architetto chi ne hà d'avantaggio, perche non gl'abbia delineato fabrica più sontuosa , à cui facilmente egli risponderà, è meglio, che litalenti vi avanzinoy che manchino, perche li potrete impiegare in ornato, e così la vostra farà più bella comparsa ; Sentendo questo voi, che avete soli due talenti vi dolerete ancora coll'Architetto, che non vi rimarrà cosa da spendere per ornarla , e perciò la voftra fabrica non potrà comparire bella al pari delle altre, vi risponderà il medesimo, abbiate pazienza , che vi darò il modo per far comparire vaga la vostra ancora al pari delle altre : Mă se per vostradisgrazia spenderete li vostri talenti senza le buone regole dell'Architettura, é voglia ognuno di voi farsi una casa à suo genio . Vois che avete quattro talenti vorrete fare il doppio degli altri, vi profonderete più del bisogno ne' fondamentis farece muri più larghi; l'alzerete più dell' altri; con tutti li vostri quattro talenti Atenterete à copritla ; con che denari poi la stabilirete? A che servirii la magnifiċenza della vostra casa , non potendola in tutto compire per renderla usuale?  Tanto peggio seguirà in voi, che possedete meno, se nella vostra fabrica spetdeste più di quello; che dovete je po tete; correreste pericolo di non poterla ricoprire, onde vi rimarria affatto infruto tuosa,  Altro inconveniente ancora potrid fascere si nell'uno, come nell'altro caso, che saria di risparmiare ne' fondamenti qualche porzione de’talenti per impiegarla nell'ornáto, iii questo modo le vostre cafe fariano sempre in pericolo di rovina. $e , con tutta la sua bella apparenzas fatta  [ocr errors] ad imitazione di quei Mercadanti, che ciò che hanno tengono in mostra , e questi sono quelli, che ben spesso si veggono fallire.  Questa fabrica , ch'ora vi hò ideato è appunto la Medicina Pratica, la quale fi deve da tutti voi apprendere, e nella medema conformità, affinche ne ricaviate un metodo di medicare uniforme, facile , e sicuro , e se in apprenderla voi, che siete dotati d'ingegno più subliine degl'altri, vorrete stendervi più in oltre delli vostri Compagni, vi confonderete con facilità con tutto il vostro bel talento, perche fzcilmente il vostro spirito grande vi farà divagare in quelle cose, che apprese in altritempi , che resivi più capaci, meglio lo capirete, & adatterete al vostro bisogno. Șia per esempio, se in questo tempo, che attendete alla pratica , vi venisse fantasia di leggere, & imparare molti, e diversi liftemi, e li varj metodi di medicare, che Lono nella Medicina , questo vi reccherà confufione, contenendo tanta diversità di pensieri,d'ideese di modi con tutto che la  7  verità delle cose sia una sola , onde con Fagione riferisce Lacuna, (a) ch'esclamava à suoi tempi Galeno : Judicij veri difficultatem liquidò oftendunt tot , tàmque variæ hærefes, quòt in Arte Medicâ reper riuntur; E tanto maggiorinente, che  quefti distogliendovi da quel bell'ordine, che voi avevate preso in offervare l'andamenti de? mali con li vostri propri occhi, vi faranno acquistare una pratica fimile alla vostra ideata fabrica, che non farà côpita, & in conseguenza non ne potrete cavare quel profitto,che ne riporteranno li voftri Compagni , li quali à cagione della  maggiore attenzione, che hanno in apprendere quella sola,non divertendosi in altro, se ne approfitteranno bene, e la loro  pratica sarà compita , e potrà avere il suo uso, giacchè al parere di CICERONE (si veda): Affiduus ufus, uni rei deditus, die Ina genium ; & Artem fæpè vincit ; Sicchè in questa parte eforto tutti voi à non applia care ad altro , allora che prendete lame  pra(a) Comment 1. Aphorism. 1. ex Lecuno in Epit, Cicero pro Cornel. Balb.  1  [ocr errors] pratica, che à quell'esercizio, che fate, eccettuatone alcuni tempi destinati per Ja Notomia, e per la Boštanica, Perfezionati, che farete in detta, pratica, & appreso, che avrete un metodo facile, e più sicuro di medịcare, allora converrà di ornarla di altre cose, che abbiano correlazione con la Medicina , secondo il proprio genio, e capacità, con fermo proponimento però, che non vị abbiano da distogliere dallo studio di er fa , nè da confondere ciò, che auete con li propri occhi offeryato più volte, eţurto ciò, che avețe appreso per ornamento non l'avrete da profeflare come negozio principale, altrimenti vi distoglierà da quello , che avevate già acquistato dị buono nella - Medicina, ma sopra di cio più diffusamente ne tratteremo in ap: presto  Questą praticą, appunto acquistatą, mediante le reiterate esperienze, e diligenti osservazioni fatte intorno li Malati è quello , che fi ricerca d'essenziale nel Medico , & oltre di questa ogn'altra cosa, che s’acquisterà di più gli servirà d'ornamento maggiore: Che sia così,per consolazione di yoi, che siete d'ingegni meno sublimi, yeniamo alle prove.  La prima sarà con l'autorità d'Ippocrate chiara , e testuale ; Dice dunque , egli:(a) Ars fane medica jām mihi tota inventa ese videtur, quæ fic comparata eft, ut fingulas, da consuetudines , temporum occasiones doceat. Qui enim hoc pactó Artis Medicæ cognitionem habet , is minimum ex, fortuna pendet , fed & citrà fortunam, çum fortunâ rectè eam adminiftrabit ; Firma enim eft Ars tota Medica , cjusque prçceptiones , ex quibus conftat dr.  Consistendo dunque tutta la Medicina in sapersi ciò, che sia solito à farsi, e le congiunture de' tempi, nelle quali fi deve operare, queste chi meglio di voi le potrà sapere, avendole con li yostri propri occhi più volte osservate? e bastando ciò per bene medicare, secondo la dottrina d'Ippocrate, sarete dunque , mediante la vostra buona pratica, allora già divenuti  Me(a) Hippocr. in lib. de loc. in bom.nesa  Medici; E fe poi desiderate sentire sopra ciò più chiaro parere d'Ippocrate , legge. xe De decenti ornatu, dove così vi parla ; Sint cu in memoria tibi morborum curatio.  da harum modi, quo multipliciter, quomodò in fingulis fe habent; bọc enim principium eft in Medicina , medium, & finis = che sono appunto questi il costitutivo del. l'essenziale:  Sia all'oppofto tal'uno ornato di tut, te le scienze, nià che non abbia acquistato ancora in Medicina una buona pratica , questi non si potrà dire con tutte le sue scienze Medico pratico, perche non saprà ben mcdicare, e gl'accaderà per l'appunto, ciò, che succederia ad un'insigne Geo. grafo se volesse viaggiare senza la guida , queiti nelli bivj, ò trivj sbaglierebbe la strada , per non averne la buona pratica , e con tutto , che possedeffe la situazione di tutto il mondo, in un piccolo tratto di paese si smarrirebbe; Mà tutto questo con Pesempj più chiari ve lo farò costare,  Tralasciando di riferirvi un lungo Catalogo de' Medici , che hanno scritto in  fola  sola Medicina pratica, e che fiorirno con gran lode, mentre vissero, senza effere ornaci d'altre scienze, perche lo potre te, volendo, con li vostri proprj occhi rincontrare , leggendo i loro libri ; Vi riferirò solamente alcuni casi accaduti à Medici, ch'avevano appreffo di noi molta ftima', per essere versatiliminella buona pratica di medicare, e si poteuano annoverare trà quelli, di cui parla, Ippocrate nel libro De Arte : Viri hujus Aricis periti , re ipfi lubentiùs, quàm vero bis demonftrant ; li quali vennero al cimento con Medici di maggior grido di loro nelle altre scienze, e ciò , che ne seguì .  Gio: Giacomo Baldini ne fù uno di questi , il quale efsendo folamente un buon Pratico, e dotato d'isperimentată prudenza , era per li fuoi pingui guadagni molto invidiato da alcuni di quelli, che li riconoscevano in molte scienze superiori di gran lunga à lui, s'abbattè egli una volta in un consulto con due Medici delli più celebri nella facondia,  1  B  с рiй  e più versati in molte altre scienze,e per tal cagione poco conto facevano di lui; Ora questi avevano già premeditati li loro discorsi molto eruditi, à fine, che meglio comparisse à tutta una nobile Udienza , che vi dovea intervenire, la poca sufficienza, & infelice modo di di(correre del Baldini, furono sì lunghi li sudetti eruditiffimi ragionamenti, e s'ina oltrarono tanto in cose fuori del propofito, che in vece di dilettare annojarono tutta l'Udienza, & avvedutofi di ciò il buon Pratico, in vece di gareggiare con loro nell'eloquenza , fece un breve di. scorso, mà tutto indirizzato all'urgente bisogno, conobbe meglio degl'altri il male, lo confermò con l'autorità puntuale d'Ippocrate, fece il suo pronostico mortale, che si verificò in breve, venne alla cura , propose alcuni rimedj, e terminò il consulto con applauso uniuersale di tutta quella nobile Udienza , diccndo  : : mo, che ha discorso à proposito, e se ne partì tutto contento, e consolato.  Gio  [ocr errors][merged small] 1  1  Giovanni Tiracorda già in questo Archiospedale degnissimo Decano, che nella pratica Medica aveva quei bei lumi, che felicirano le cure ardue , si abbattè in un consulto con un Medico catedratico eruditissimo nelle lingue , c Greca in ispecie, nelle Matematiche, ed ancora nella Teologia ; L'Infermo era Oltramontano y poco prima giunto in Roma , che li ainmalaffe, ed in tempo di aria sospetta, il' di cui male fù creduto dal sudetto eruditiffimo Professore eflere una febbre etica , e con tali, erante ragioni s'ingegnava di provarlo in ispezie per il pollo basso che aveá, che fariano per certo bastate à formarne liga gran ležzione in cattedra. In tanto il buon Pratico Tiracorda penaya in fentire ciò, che conosceva non potersi in modo alcuno verificare, e dovendo egli concludere , con breve discorso fece capire essere il male del povero foratieri) una febbre maligna,e di pelimo costume, che se presto,e validamente non era foc corso farebbe morto, disse ciò, che con  veniva  B2  [ocr errors] veniva farsi con sollecitudine, e l'esito  funesto, in breve seguito , ne fù il Giu-  dice, chi di loro avesse meglio conosciu-  to il male, Riferirò   per terzo ciò, che seguì ad Antonio Piacenti mio Maestro, la di cui perizia nel ben medicare è nota , per via vere ancora molti, che furono da effo ne’loro gravi mali bene assistiti, onde per essere io interessato , non m'inoltrcrò di vantaggio in lodarlo, e lascierò, che facciano altri quella giustizia , che le sue gloriose ceneri meritano. Questi ebbe occasione più volte di trovarsi alsieme co' Professori di molto grido, per le varie scienze, che possedevano, e vedevo, che il suo configlio, ò era feguitato, ò volendosi fare diversamente  per lo più si sbagliava; Accadde una volta nella cura di un'Infermo, che pativa di un male graue di testa, creduto da esso procedere da pienezza d'umori viziofi, che nel basso ventre dimoravano, c per ciò gl’aveva proposto il dejettorio, che à ciò si oppose chi era versato più di luiin altre scienze fuori della pratica medicinale, con il motivo, che l'evacuazione glavria inolto pregiudicato. Stette egli faldo nella proposta già fatta, quale fù esaminata da altri Profeffori, e conclusa: ed eseguita che fù, l'efito moftrò d'onde procedeva il male, e chi l'aveva meglio accertato, posciache mediante l'evacuazione ne rimnase libero.  Due gran motivi si poffono dedurre dalli riferiti casi, uno di confolazione per voi, che non avete genio ; ò abilità all'acquisto di altre scienze, vedendo, che nella vostra sfera pratica; abilitati che sarete , potrete ftare à fronte con quelli di più letteratura di voi, purche abbiate prudenza , e giudizio in sapervi ben regolare; e l'altro servirà d'avvertimento à voi d'ingegno più perspicaces che desiderate apprendere tutto lo scibile, à non fidarvi folamente sù quello, ch'è ornamento Medico, dovendo ancor voi poffedere Fondatamente, al pari degl'altri, quella buona pratica Medica, ch'è la direttrice del ben curare, senza  [merged small][ocr errors] la quale sono inutili tutti gl'altri ornamenti: Consolatevi però ancor voi, che bramate d'apprenderli : perche quando saranno uniti alla buona pratica, vi ferviranno ancor'elli di scorta, e vi faranno divenire eccellenti Medici, & in prova di ciò non vi mancano esempj di cafile, guiti, che fanno conoscere quanto accrescano di chiarezza alle nostre menti le Filosofie sperimentali, la Ģeometria, l'Aftronomia, & altre scienze, che porfono avere correlazione con la Medici. na, mà per ora potrà bastarvi l'oracolo d'Ippocrate allora, che scrivendo à Tel, Lalo gli notificò: Geometria mentem acuit, e longè Splendidiorem reddit ; e nel libro de Aere, Aquis, & locis ; Ad Artem Medicam Astronomiam ipfam non minimum, fed plurimum poteft conferre ; Ben'è vero, che rari fono quelli, a'quali datum eft adire Corintum , perche tutte queste cose averle , poffederle, e maneggiarle à quel segno, che conviene, cnon più oltre non a ricerca minor prudenza di quella, che aveva il Re Mitridate iu reggere un  Coco  [ocr errors] Cocchio tirato da bravi , e numerosi de strieri, altrimenti andandosene tutte in pampani , e fiori, che non legano, produrranno pochissimo frutto, quantuns que fosse vaghiflima la loro prima ap. parenza.  Sicché parmi d'avervi à bastanza mostrato , che l'essenziale del Medico non consiste in altro, che nella buona, e soda pratica acquistata mediante le re. iterate osservazioni di ciò, che fiegua nelli progrefli de’mali, e quanto fiac. quisterà di più fia tutto ornamento.  E da questo si possono comprende reli gran vantaggi, che necessariamente nel ben medicare, non solamente li Gio. uani Praticanti, & Aliftenti ne riportano dalle continue offeruazioni , che fi fanno negli Spedali ove sono numerosi gl'Infermi, mà ancora gli Profeffori primarj, che ivi esercitano, potendo questi, mediante le reicerace osservazioni, che si fanno in lunga serie di anni, acquistare molta perizia pratica , e franchezza ancora nel medicare, conforme, che ogn'uno di esli ben se ne avvedeje lo confeffa.  E finalmente, acciocchè non resti quanto vi hò detto infructuofo,converrà, che ora vi mostri come vi dovrete contenere nell'acquistare detta pratica tutti assieme, e conformé, fi dovrà regolare ciascun di voi ; secondo la propria capacità , in quello, ch'è ornamento, mà effendo questi più punti , che meritano matura riflessione, bisognerà riportarli alla Giornata di domani, venite però tutti, e voi precisamente, ch'avere più brio, e spici:o più vivace deglalri preparati di sofferenza, perche sarà Giornata di attenzione, e mortificazione infieme.  [ocr errors][merged small] [blocks in formation] Nella quale si fà vedere ciò, che dovre farsi da tutti unitamente per ben confeguire una buona prática, e quello, che dovrà operare ciaschedino secondo la propria capacità per uguagliarsi a' Comia pagni in quello , ch'è ornamento.  Mi :  I   dispiace   nella Giornata di jeri accennato, ch'oggi vi mortificherei , perche jacula prævisa minus feriunt ; Mi persuado , che di già farete venuti preparati per sentire da me rimproveri sopra li vostri poco lodevoli portamenti, da me più volte osservati, mà abbiateci pazienza ò perche ciò G fa per voftro bene.  Ditemi di grazia à che fine venite in questo luogo pieno di miserie ? Frana camente mi risponderete : A prendere la pratica di Medicina; e questa in che modo la prendete yoi più disinvolti, & allegri , che mostrate d'esfere più spiritofi degl'altri? Con paffeggiare per lo Spe.  daledale, confabulando trà di voi sopra le novelle di queito mondo? Questo non è il modo da prendere pratica di Medicina, nella quale si richiede una fomma applicazione, mà più tosto da divertirvi: Sappiate, che lo Spedale non è luogo da perderci inutilmente il tempo in divertimenti, e svari, perche è ripieno di aria infetta, chi non brama d'approfita tarsi non si curi dimorarvi , mà se ne vada in aria migliore, e più amena di fta, che farà per lui più utile, e sicura , e non mi faccia cestar bugiardo, poiche in cal guisa continuando, non folamente daria à divedere che la Medicina sia Arte lunga , mà ancora, che non si possa in conto alcuno acquistare, essendo questo tutto l'opposto di ciò, che da principio vimostrai. 15 TMarcello disse, rimproverando li  suoi foldati, che non aveano fatto come e doveano, e poteano il loro uffizio: Mula  ta vidi Romanorum corpora, fed Romanum vidi neminem; e così ancora io potrò direfin'ora di voi: Multa vidi discipulorum  [ocr errors] corpora , fed difcipulum vidi neminem ; Spero però, che conforme servirono di stimolo a' suoi soldaţi le parole risentite di Marcello per fare, che superassero nel giorno susseguente Annibale,cosi le mie moveranno ancora gl'animi vostri in ay. venire ad operare con più attenzione, e fervore di prima scusandovi del passa  perche non sapevate ancora in che modo vi dovevate contenere ; Qual mutazione, oltreche recherà à voi gran vantaggio , si perche più prestamente vi sbrigherete, e con miglior ordine v’im. poffefferete della buona pratica Medica, à cui devono indirizzarsi tutte le vostre operazioni , sarà ancora di mia somma consolazione.  Prima però di porvi à questo ftudio pratico farà di mestiere, che possediate , oltre il buon costume, l'Istituzioni Me diche, con le quali diverrete già iniziati à questo nuovo esercizio, essendo legge d'Ippocrate di non doversi praticare altrimenti, ordinando egli (a) doppo aver  detto: (a) I* Hippocratis lige :  detto: Institutionem à puero fit moribus generofis , venendo alla Medicina pratica, Hæc verò cum facra fint , facris hominibus demonftrantur, prophanis verò nefas priùsquàm foientiæ facris initiati fuerint ; e facendo voi diversamente non potrete capire ciò, che vi si presenterà d'offer= väbile, e s’aveste ancora appreso la cognizione de'mali , vi recheria quefta un sommo vantaggio, insegnando Ippocrates ( b ) che Qui autem fignorum cognitio: nem habuerit is: folus ritè ad curationem aggredietur, caso che nò procurerete , che sia questo il primo vostro studio, e lo farere ; con discrivere in un libretto di memorie tutti li segni , che fanno venire in cognizione di quel tal determinato male, con indicarvi quali sono li essenziali ; ex. gr. dell'Angina, dell' Epátiride &c. é quelli, che sono distintivi; che fanno conoscere, se sia Colico, Ò Nefritico il male, se fia vera , ò falfa gravidanza, e così proseguendo in tutti quei casi confimili, che hanno bisogno  di (b) la lib.de Media  [ocr errors] [ocr errors] di qualche segno proprio, che meglio li faccia comprendere , e tutto ciò è necessario à farsi, perche attorno l’Infermo dalli segni si rinviene il suo niale , e questi sono neceffarj d'averli à memoria, perche all'ora non si può ricorrere à leggerli ne’libri, quando sareçe interrogati, che male quello sia ; Dovrete ancora lasciare in detto libretto di memorie molto spazio di casta bianca in ciasche, dun caso, doppo avervi descritti gl’accennati segni per notarvi ciò, che biso, guerà in appresso,  Acquistata , ch'avrete la cognizione de' mali più frequenti, e che vagano in quella stagione, e questo in breve tempo lo potrete fare , incomincierete ad osservare il modo, con il quale si curano , & in quel medesimno libretto dove avrete descritti li segni , v.g. della Punfura , capitandovi d'osservare il detto male, verrete descrivendo la cura, e mutazioni, che di giorno in giorno eslo anderà facendo, tanto in meglio, che in peggio, con tutto ciò , che offerverece  di riguardevole, mà succintamente con qualche contrasegno indicativo,per non fare scrittura voluminosa.  Di dette cure da offervarsi contentatevi di prenderne poche da principio, e le più facili , per poterle esattamente confiderare, e capire bene, quali in progresso di tempo l'anderete moltiplicando, e scegliendo secondo vedrete meglio poterle possedere , e comprendere; Avvertite però non caricarvenc troppo, nè di tralasciarle, se non ne avete veduto l'evento felice, ò funesto , quale noterere per meglio impoffeffarvi nelli pronoftici da farsi in casi consimili, nelle congiunture, che vi si presenteranno . E tutto questo è coerente al consiglio d'Ippocrate dato nella sua legge, ove dice : Ad bec longi temporis induftriam accedere neceffe eft, quod disciplina veluti gravidata  felicitèr , & benè crescendo maturus fructus efferat.  Lo studio, che dovrete fare in casa sarà di leggere solamente dui, ò trèlibri pratici de’migliori , che potreteavere si antichi, che moderni scelti dal Direttore vostro Macítro, & in quelli procurerete rincontrare se ciò, ch'avete osservato si uniformi alli loro sentimenti, e noterete, in che cosa consista il di- . yario, per domandarne sopra ciò la cagione à chi sarà vostro Direttore nella pratica, ò almeno alli Medici Affiftenti di detto Archiospedale, che sono già pratici, de' quali ancora vi dovrete prevalere in molte occorrenze, potendoli avere più pronti, e nel luogo istesso dove vi esercitate,  Mà perche le conferenze accrefcono fervore, e facilitano insieme li progressi, per cagione dell’utile emulazione, e di sentire da? Compagni qualche cosa di più, che talvolta non fi sapeva ; Quindi è, che almeno una volta la settimana vi dovrete congregare tutti insieme per conferire ciò, che ogn'uno avrà acquistato di più nel suo esercizio pratico, & à questa conferenza potria avere qualche sopraintendenza il Medico Af fiftente di guardia, che deve necessaria.  mente  [ocr errors] mente essere nello Spedale permanente ; E quando sarete disposti à tal’utile esercizio non avrete da affaticarvi in cercare luogo à propofito, conforme era neceffario prima, perche voi, che di presente ftudiate avete avuta la sorte propizia, mediante l'animo generofo , e magnitico di Monsig. Illuftriffimo Gio: Maria Lang cifi, cho con tanti suoi incominodi, c con si considerabile spesa, à publico bene, hà stabilito sì grandiosa, e nobile Libraria , ed in questo medesimo luogo, dove vi esercitate, potrete ivi radunarvi, e fare con tutti li vostri commodi l'utilissime conferenze , con quel di più, che ne potrete ricavare da'vn'abbon, dantislima scelta di libri , che vi si custodiscono d'ogni scienza, & in particolare, assai più numerofi d'ogn'altra in Medicina. Qual commodo fe l'aveflimu avuto noi, che ora fiamo avanzati negl'anni, in nostra gioventù, quanto mai ci faria stato grato; poiche per fare conferenze allora, bisognava andare in luoghi privati à dare incommodo, e pure si face  vano  vano con fervore  conforme seguì int cafa del Dottor Girolamo Brafavola, dove ogni Lunedì si teneva congreffo publico, e si leggevano un difcorso con due problemi Medici, oltre le conferenze, che si facevano fopra altre materie, concernenti la Medicina, è detto.congreffo continuò con fervore per molti anni , e con profitto di chi lo frequentava. Talmente che tutta vostra la colpa fària se voi ora che avețe derta commodità la trascuraste', non potendosi ciò attribuire ad altro, e con vostra somma vergogna, che al poco desiderio, che aveste di approfittarvi.  Vi riuscirà più commodo di fare alcune diligenze intorno alli Malati, che vi fiere scelti da offervare , prima della visita del Medico Principale, che consor feranno d'interrogarli, con descrivere ciò, che vi troverete di novità per essere sbrigati , e pronti nel tempo della visita, nella quale sentirete voi ancora il polso à tutti gl’Infermi del Quartiere per impoffeffarvi delle differenze di esia  C  e ciò  e ciò farete con qualche attenzione particolare, per meglio comprendere ciò che nel giorno vi scorgerete differente dalla mattina , e nelle visite susseguenti, ciò, che di divario dalle antecedenti, ed in ispecie se più , ò meno celeri, se più, ò meno eguali , se più , ò meno duri, se più alti , ò più basli , e molte altre differenze, che avete gia letre nel trattato de' Polfi, ed occorrendovi sopra di ciò alcuna difficoltà , non abbiare timore di spiegarvi, e di dirlo à chi vi sopraintende , perche da tutti con somma cortesia vi sarà spianata; Starete attenti quando s'interrogano li Malati nuovi per rinve- ; nirne l'idea del male, & offerverete il modo , che si tiene con quelle persone idiote, che non sanno rispondere à ciò, che si domanda loro , & apprenderete la gran pazienza, che bisogna averci, per potervene servire ancora voi abbattendovi in Gimili Infermi idioti. Vi porrete à mcmoria quell'idea, che dal Medico Principale farà stabilita à quel male, e pet non dimenticarvene la noterere in  un libretto conforme vien praticato da. gl’Afiftenti, con notarvi insieme il no me dell'Infermo, e numero del letto, invigilerete in sentire , e capir bene cutte le ordinazioni, che si faranno, con rincontrarne ancora li suoi effetti, non trascurerete di sentire ciò, che si dice del pronostico del male, e d'ogn'altra cosa concernente tal'infermità, ed in ispecie in quelli, che vi siete scelti per osservare, e facendo yoi ciò, che vi hò decco , vi assicuro , che quell'Arte, che Ippocrate chiamò lunga, la farete divenire più breve di quello, che vi credevate, potendo yoi in tal guisa con facilità non solamente apprendere il modo più sicuro di medicare , mà ancora la franchezza del ben pronosticare, conforme insegna Ippocrate : (0) Eventa igitur per experientiam cognita prædicenda, id enim gloriam adfert , c cognitu ejt. facile.  *Terminata , che farà la detta visita seguirete il Medico , che vi conduce inpratica per osservare le visite, che sono per la Città, nelle quali procurerete di fare le vostre osservazioni nel miglior modo , che vi sarà permesso.  Con il sudetto vostro Direttore, e Maestro conferirete tutte le difficoltà, che vi occorrono, con animo però decerminato d'apprenderne li loro documenti, essendo questi li semi di  quanto di buono in voi germoglierà à suo tempoo conforme disse Ippocrate nella sua legge : Doctorum præcepta feminum rationem habent, non già di contradire con pertinacia à quello, che verrà da esso detto, e risoluto, ed imiterete in ciò le Api, che succhiano il mele da' fiori, è non già le Vespi, che pungono con li loro aculei colui, à cui si approssimano. Credetemi, che la modestia, e li buoni costumi, l'attenzione, e la docilità ne? giovani formano la base stabile di tutti li loro avanzamenti, dove, che il mal costume, la pertinacia , la garrulità , e la petulanza affatto l'atterrano, elanniçhilano.  Nelli  [ocr errors] [ocr errors] Nelli tempi poi, che saranno prof fimi alle offervazioni anatomiche comincierete ad alleggerirvi dalle occupa. zioni Mediche, per attendere con più fervore alla Notomia, e procurerete in quelle vicinanze di trovare un'Indice delle oftenfioni, che fi faranno , per istudiare preventivamente ciò, che pu- . blicamente si dimostrerà, ed in oltre vi troverete presenti à tutte le preparazioni delle parti, che si faranno in privato, non solo per meglio capire , & impofseffarvi di quello , ch'avete letto, mà ancora per mostrarvene già pienamente istrutti quando le vedrete publicamente dimostrare i  Non trascurerete , essendovi occafioni d'aperture de cadaveri, di trovarvi presenti à quelle, e tanto maggior mente se avrete osservato li mali di quei poveri defonti, e se non l'avrete visitati, procurerete informarvi delle loro infermità , perche mediante tali ispezioni verrete meglio in cognizione del luogo affetto, e di qualche cagione ancora di  detto  C 3  detto male, e noterete in succinto nel vostro libretto ciò, che si farà rinvenuto in quelle di considerabile , acciocchè vi resti memoria per prey aleryene à suo tempo. Ed affinche meglio le possiate ritrovare , riporterete in un repertorio per ordine alfabetico ciò , che offeryato avrete, tanto nelle cure de inali, esiti de’madesimi, che aperture de' cadaveri, senza lasciare nè pure un giorno di non notarvi qualche cosa offervata, e questo l'andrete bene spesso rileggendo, à fine non vi scordiate di ciò, che una volta apprendeste.  Quando si faranno l'ostensioni bota taniche non occorrerà, che trascuriate l'altre vostre applicazioni mediche,perche non richiedono queste quell'attenzione, ch'è necessaria per la Notomia. E tanto più, che durano tutta una stagione, onde basterà, che per tal'effetto Jeggiare qualche libro bottanico, e con l'esercizio oculare ricontriate nell'Orto Medico le più usuali per meglio conocerle , le quali per voi possono esse  re  [ocr errors] re sufficienti con la notizia delle loro  virtù.        Impiegato , ch'avrete il primo ane  no, con fervore, in fare tutto ciò, che  fin'ora vi hò detto, ristrignerete poscia   in una nota tutti quei mali più essenziali  à saperfi, che ancora non avevate offer-  vati, à fine , che capitandovi possiate in  quelli continuare li vostri studj, imitan.   do quei Giardinieri, che vogliono for  mare un vago prato di fiori ; Questi colo  tivano tutto quel terreno, e con buona  ordinanza vi dispongono li semi, à fine  non vi resti del sodo incolto, ove non  nascono fiori , mà sol'erbe campestri,  e che li fiori, che nascono , non resting  trà loro confusi.   Quando avrete già offervato ocularmente le cure de' mali più riguardevoli, e frequenti, e quelle occorsevi di nuovo, l'avrete più volte ancora rincontrate nelle cose essenziali, uniformi, e che possederete già la Notomia, elsendo divenuti capaci di meglio discernere ciò, che fate, all'ora converrà , che  [ocr errors] vi applichiate à rinvenire le cagioni de? mali , e non prima, perche essendo tante , e così diverse tra loro le cagioni descritte dagli Autori in un medeliino male per  la diversità di sì numerosi sistemi, novamente inventati, che se Galeno à fuo tempo giudicò al parere di Lacuna che : Judicis veri difficultatem liquido ostendunt tot, tantæque variæ hæreses, quot in Arte Medicâ reperiuntur ; Che giudizio accertato ne potreste formare voi ora , che sono cotanto più cresciute, prima d'essere nella pratica bene istrutti? Oggidi li giovani sono così perspicaci, per non dire arditi, che li raziocinj, che già udirono da’loro Maestri, quali come buona femenza dovriano conservare, & aspettare, che con il tempo crefceffero , conforme ordina Ippocrate nella sua legge: Tempus omnia hæc ad plenam nutritionem confirmat, in vece di çoltivarli ora non li seguitano più, & in vece di quelli se ne scegliono delli più vaghi, onde quando ciò abbia da esfere è pur meglio, che l'apprendiate quandofiete divenuti più suficienti à farlo, ed all'ora appunto, che sarete à pieno informati dell’idee de'mali, delli loro sina tomi, del modo, che s’abbiano à curare, e dell'esito , che possono avere, perche potrete allora con più sperimentato giudizio sceglervi quel raziocinio intorno alle sudette cagioni morbose più adattabile degl'altri al vostro bisogno: Sentite di grazia come al proposito ve lo infinua Ippocrate : (d) Preclara enim res eft, quæ ex opere , quod quis didicit proficifcitur oratio ; Écon maggior chiarezza in altro lạogo , (e) dove così parla : Ncque priùs ad ratiocinationis perfuafionem quàm ad ufum cum ratione conjunctum animum adhibere ; Ratiocinatio enim in eorum, quæ fenfu comprehenduntur recordatione quadam confiftit ; ed in appreffo : Nullum ex his , quæ folâ ratione concludun- , tur fructum percipere licet , verùm ex his , qua operis demonstrationem habent, fallax enim, & ad errorem proclivis affeverario; Ed operandosi da voi in questo modo, effendo già divenuti più abili, e capaci, da un principio più accertato ricaverete un ražiocinio è certo , ò per lo meno probabile, dove che facendosi diversamente con impoffeffarvi prima d'ogn'altra cosa delli raziocinj in aria, e di bella comparsa, che possono con danno notabile preoccupare le vostre menti, e quefti effendo Icelti da voi per mero genio , fenza saperne il perche, vi faranno dedurre delle conseguenze, che vi pareranno certe , ed evidenti, le quali in atto pratico le troverete diverse das quelle ve l'eravate figurate; onde per acquistare pofcia la buona pratica vi converrå deporli, conforme è convenus to farli da altrui, che se ne sono ayveduri , per non continuare ne' loro pregiudizj, e sentite come à meraviglia fi ritrovano costoro delcritti da Ippocrate: (f) Venuste enim cognitionis intelligentia apud iftos sparsa ejš . Cum igitur hi ex neceffitate indocti exiftant eos ad utilem *xercitationem cohortor . Mà veniamo all' esempio per caminare con più chiarezza. S'idei il più bell'ingegno, che frà voi si trova, che il tal male proceda da un' acido esaltato, è da un calore eccellivo, ne dedurrà subitamente con la sua perspicacia , dunque và curato con gli alkalici, ò con gl’attemperanti. Volesse Iddio, che ciò si verificaffe , non avreste per certo bisogno d'affaticarvi tanto intorno l'Infermi per apprendere la vera pratica , perche in questo modo diverreste presto Medici; Mà non è questo il modo da caminare con licurezza, perche se quella cagione non è accertata farà neceffariamente incerta ancora la conseguenza da quella dedotta , la quale potrà talvolta produrre all'innocenti Infermi un nocabile danno, perche Gi tra{curerà di far quello, che s’è osservato altre volte effer loro di giovamento per andare in traccia à ciò,ch'è incerto, e so. lamente da noi ideato. Qual verità udite con che chiarezza si ricava da Ippocrate:(8) Quidquid artėm artificiosè di&tum  ef(d) Hippide deciørd. (e) Id, in lib.de tracept  1  efem(f) In lib.pracept:  eft, (8) Hippocr.de decobabitki  [ocr errors] eft , non autèm factum, viam, rationem artis expertem arguit.. Opinabile fiquidem fine actione infcitiæ , nullius artis indicium eft ; Opinatio enim cum præcipuè in Arte Medicâ, eâ quidèm utentibus crimini vertitur; His verò qui eâ indigent exitium afferty fi namque  fuis verbis perfuafi exiftim mant se opus ex scientia profectum novisse, quemadmodùm aurum adulterinum igni probatur,tales se ipfi etiàm produnt ; e ciò lo conferma ancora nella sua legge, dicendo, che la sola opiņione ignorationem parit . Il modo dunque praticabile più sicuro sarà di dedurre la cagione demali dalla già accertata cura ,  osservata più volte profittevole, con que’lumi, che vi darà di più la Notomia, e quando anche per questa strada non se ne rinvenisse la più certa, non potrà nascerne quel pregiudizio già accennato , perche la cura anderà a suo dovere, essendo fatta secondo le buone osservazioni pratiche; oltre di che caminando voi con quest'ordine non vi regolerete con l'incertezza dell'opinioni degl'uomini,ogni giorno variabili, mà bensi con la certezza delli giudizi di Natura, sempre più accertati , come divinamente considerò Cicerone allorche diffe : Hominum com. menta delet dies, naturæ judicia confirwsat.  Quindi è, che Pittagora non fenza cagione faceva tacere li suoi scolari sinche aveffero compiti cinque anni di studio , perche voleva , che cominciassero à parlare quando appunto capivano ciò, ch'elli dicevano , e veramente chi presto parla non ha premeditato ciò, che dice, e chi non hà premeditato ciò, che dice, parla à caso.  Per conferma di quanto vi hò detto, ed à fine non prevarichiate ora, che avere da me sentito dire qual potesse esfere il inodo facile sì, mà non già sicuro, da prestamente liberarvi dall'intraprese fatiche, v'addurrò altri sentimenti d'Ippocrate,da’quali non potrete discostarvi se vorrete essere tenuti suoi veri seguaci, dice egli ( b :) parlando in termini difare progresso nella Medicina : At vero in Medicina iampridem omnia fubfiftunt in eaque principium , via inventa eft, per quam præclara multa longo temporis fpatio sunt inventa, bu reliqua deinceps invenientur; Si quis probè comparatus fuerit, ut ex inventorum cognitione ad ipforum investigationem feratur, Qui verò his omnibus rejectis , ac repudiatis aliam inventionis viam ; aut modum aggrediatur, to aliquid Je invenise jactitat, is cùm fallitur , tùm alios fallit, neque enim iftud ullo pacto fieri poteft. Ippocrate dunque vuole, che dalle cose accertate si passi all'investigazionc di esse,per meglio discernere ciò, che in quelle non fosse ancora palese,mà non già, che dalle incerte si pasli à fare al. cuna investigazione , dicendo chiaramente, che chi farà diversamente ingannerà se stesso , e gl'altri, e tutto ciò vie. ne più precisamente individuato redarguendo quelli, che dalle cagioni incerte ne vogliono dedurre una certa cura, come si legge in appresso: At verò nunc ad cos , qui novâ quadam ratione artem ex  přo."  propofita materiâ investigant nostra revera tatur oratio fiquidem eft calidum, aut fria gidum, aut ficcum, aut humidum , quod hominem lædit , & eum, qui rectè mederi volet opporret calido per frigidum, frigido per calidum , ficco per bumidum, & humido per ficcum opitulari . Exhibeatur mihi aliquis naturâ non admodùm robuftâ , fed imbecilliore; qui triticum crudum, & inelaboratum edat , quale ex areà fuftulit, carnes crudas , & aquam bibat , ex qua victus ratione non dubium eft quin multa ,  gravia fit perpeffurus. Nàm & doloria bus conflict abitur, & imbecillo erit corpore, O ventriculus corrumpetur, nequè vitam diù tollerare poterit . Quodnàm igitur ità affecto præfidium comparandum Calidum nè , aut  frigidum, an ficcum, an humidum? Siquidem horum quodque fimplex eft. Namque fi quod lædit ab his ipfis eft diversum contrario disolvere convenit , velut ipfifatentur - Eft enim certifima, & evidentiffima medela , sublatis quibus utebatur cibis , pro tritico panem exhibere , da  pro  crudis carnibus coctas, dj insupèr vinum propi  narly  nare, neque fieri poteft , quin his commu: tatis convalefcat ; e questa accertata cura come si è ritrovata , se non dal vedere, che le sudette cose hanno altre volte conferito in simili casi?  Seguitate pure la strada calcata da' noftri maggiori, se non volere errare, per la quale ebbe origine, e si è avanzata la vera Medicina, e questa è quella dell'offervazioni, conforine chiaramente confessa Ippocrate.(i) dicendo : Neque verò pigeat ex plebeis sciscitari  fi quid ad curandi opportunitatem conferre videatur , fic enim censeo artem univerfam coma moftratam fuiffe , quod fingula ex fine abi fervata, ad eadem aggregata fuerint. Animum igitur adhibere oportet fortuit,e occafioni , qu& plerumque fe offert , quæque cum utilitate, & lenitudine conjuncta eft, quàm cum sollicitatione, & forti defenfione; e ricavate pure li vostri raziocinj dalle cagioni de' mali, dalle cure à voi note, ed in quella conformità, che più vi appagano, che ottenuti in questa guisa, se  non fi) Hipp.praceptiones .  [ocr errors][ocr errors] non dimostrativi , faranno almeno inno-  centi, non potendo recare pregiudizio  alcuno, e state fermi in tale proposito,  per l'esempio di più d'uno , conforme,  che diceffimo, à cui è convenuto mutare  li raziocinj delle cure dapoi, che hanno  osservato in pratica meglio gl'andamenti de' mali, e non prima d'allora si sono  accertati , che l'opinione era assai diver-  sa dalla verità, conforme nel suo sogno  ci fà conoscere Ippocrate, ( a ) non solo  perche li comparvero assai differenti trà  di loro, mà perche la verità dimorava  appresso Democrito, che non s'inganna-  va, e l'opinione trà l’Abderiti già pre-  giudicati, per la falla loro credenza, che  Democrito delirasse. Appreso, che voi avrete le cagioni  ancora de'mali, all'ora sarete arrivati  à qualche perfezione maggiore , poten-  do, rotto già il silenzio Pittagorico, con  fondamento parlare, e con franchezza  ancora medicare, resterà solo d'istruirvi  in che modo si dovrà contenere ciasche-   duno (a) Hippo in epiß. Pbilope.2.  [ocr errors][merged small] D  [ocr errors] duno di voi in ornare, secondo la propria capacità ciò, ch'avrete acquistato tutti in commune.  > Parlerò prima con voi di mente fu. blime, e generofa, che vi pare un troppo angusto campo la sola Medicina , onde per far conoscere a tutti la vostra maggiore abilità, volete stendervi più oltre, ed all'acquisto d'altre scienze,conforme nelle private conferenze apertamente diceste, ove tal’un di voi mostrò genio grande d'apprendere le Mattematiche, altri l'Astrologia', e chi per ornamento le Lingue straniere, & in ispecie la Grecaj e chi per divertimento ancora l'erudizioni Istoriche i  Mi dispiace d'aver sentito dire, che trà voi yi fia chi lo faccia per genio grande, perche questo vorrei, che tutto lo ponefte alla fola Medicina's qual dovrete profeffare, onde viva pur sempre caurelato , e circospetto chi di voi hà  fimit geniono che non gli faccia perdere -Hamore à cid, ch'avrà dianzi acquistaso; perch'è solito, che chi apprende congenio grande una cosa nuova, trascura   necessariamente ciò, che prima se non  per genio , almeno per impegno lo appagaya .  Io per me non posso, nè devo op-   pormi à quanto deliderate, si perche è   onefto , sì ancora perch'essendo all'ora   voi già divenuti Maestri vorrete fare à  vostro modo ; Vi dò solo questo conse-  glio, che facciate regolare la vostra in  clinazione fempre dalla prudenza , e dal  giudizio, e che non la lasciare in tutta  sua libertà, e facendo voi in questo mo-  do non potrete errare, perché le sudette  virtù mai non permetteranno, che fi din  ftacchi dalla Medicina già appresa , nè  che nel fare li nuovi acquisti gli rubi  quel tempo, già destinato per lei, e final  mente faranno in modo , che non l'ap-  prendiate à quel segno di poterle pro-  feffare , mà per solo ornamento, e per   poterne ancora voi discorrere in quella   parte , che possa servire alla Medicina.   Mà vediamo d'ajurare , e consolare insieme voi altri, che restereste altrimena  1  [merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors][ocr errors] timesti, non solamente per la separazione, che faranno da voi li vostri compagni, inà eziandio per la cagione di essa . In primo luogo parliamo chiaro intorno a'vostri difetti , per dare à ciascheduno di essi il suo rimedio , s'è possibile. Dilli s'è poffibile,perche se sarete affatto inetti, & incapaci mutate mestiere, conforme hò fatto fare à qualcheduno di simile inabilità, perche altrimenti vi affaticherete in darno fino , che viverete , mà re, ò la vostra memoria apprende con qualche difficoltà , tenétela continuamente esercitata , che migliorerà, volendo Cicerone, (b) che : Affiduus usus uni rei deditus, & ingenium, a artem fepè vincit ; ò il vostro giudizio non è pronto , ajutatelo con l'attenzione, e vigilanza, date tempo, che si farà, perche molte piante fioriscono prima, & altre sono più tardive; ò il vostro discorso è alquanto infelice, e non siete pronti, esercitatevi nclli discorsi publici , bene imparati à memoria, discorretela continuamente con li  vostri (b) Cicero pro Cornelio Balbo.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] vostri compagni più franchi di voi, fae  tevi animo, & abbiate forma fiducia ,  che il vostro timore cesserà. Aspettate  ora da me di sapere il modo, che dovre-  te tenere per adornare ancor voi l'ope-  ra già fatta , à fine di non iscomparire  trà gl'altri vostri compagni, e con ragione. Già voi non vi curate d'uscire dal-  la Medicina , in questa dunque converrà  trovare l'ornamento, che sia adattato  al vostro bisogno, e doppo fatta matura  rifeflione, non trovo miglior conseglio  di quello, che fi ricava da Prospero  Marziano Medico di grand’ingenuità ,  all'ora , che ricercando la cagione, per-  che li Medici antichi erano tanto stima-   ti, & onorati assai più di quelli, che  vivevano à suo tempo, egli fù di fenti-  mento, che procedeffe ciò   per  effer stati. glantichi versatillimi ne' pronostici, e non vi sia discaro à sentire ciò, ch'egli diffe : () Cur prisci Medici tanti habiti fint apud homines, ut non folùm primas in  Ci. (c) Prosper Martian. 2.prediff. perf.23.  e  [ocr errors] D 3  Ciuitatibus, ac Regnis tenerent , Regibus Principibusque imperarent , fed etiàm summus honos , Diisque folis præstari folitus, Medicis tribueretur, admiranda enim circà agrotos , & præftitife, & prædixise eft. necessarium ; Sicut vice versâ mirum non eft ifi nunc adeù vvilitèr tractentur, quando nèc in curando, nèc in prædicendo quidquam spectabile pr&tent noftri, cum ea faciant tantummodò, a dicant , quæ ipfis idiotis sunt manifefia, & tamèn'artis pradantiam noftrorum temporum continuò jaEtant imperiti , Medicinamque posteriores ditasse profitentur , fed veniunt excufandi, eo quod antiqua thefauros adhùc non percepere, quibus tota quidem Hippocratis do. Etrina plena eft; Verùm præfens liber, [h.c. prædiétionum secundus ) adeò abundat, ur folus paupertatem, cu miferiam artis noftrorum temporum indicare fufficiat, nam quis nostrum eft qui centefimam partem eorum cognofcere poffit, qu& antiquiores Medicos comunitèr prævidere confueviffe in hoc libro teftatur Hippocrates ; Sicchè voi per fare spicco , & essere molto stimati  nella  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] nella professione impoffeffatevi bene de! pronostici d'Ippocrate , che uniti alla buona pratica acquistata , vedrete, che vantaggi questi vi recheranno , & effendo stati ricavaci da molte offervazioni uniformi, accadute in più secoli, non vi serviranno d'ornamento inutile,mà bensi molto profittevolese necessario, e tanto maggiormente se spoglierere ancora ciò, che v'è di migliore nell'Epidemj, ed in tutti gl'altri divini libri d'Ippocrate , per mettervene à memoria più , che  potrete , å fine di serviryene secondo li i bisogni, che vi si presenteranno, e que  sto studio lo farete in quell'ore, nelle quali vi persuaderete, che li vostri compagni le terranno impiegate all'acquisto d'altre scienzcacciocchè vi cresca il fervore ad apprenderle con emulazione.  Ornati, che sarete tutti nella conformità, che s'è detto, ogn'uno di voi ne farà la bella  comparsa ne consulti, ed all'ora si conoscerà chi di voi avrà fatta i  miglior elezione del compagno, e si rina contrerà, che voi, ingegni, ch'eravatemeno apprezzati degl'altri, per la voftra applicazione, e prudenza , certamente, che non iscomparirete tra gl' altri di maggior talento di voi.  Se il modo, che vi hò proposto non farà buono, e profittevole trovatene altro migliore,& acciocche lo possiate rinvenire più commodamente sia posto ogn' un di voi in sua libertà di sceglierlo à fuo piacere. S'avete genio di studiare prima della Medicina altre scienze, cosa ne feguirà facendosi, che non potendo sapere ancora cosa vi possa bisognare vi converrà ftudiarle ex profeso, e se l'avrete apprese con genio à quel fegno, che le pofliate profeffare, ciò, che studierete in appreffo; con minor piacere , lo subordinerete alla prima, che di già possedere. te, mà ne seguirà peggio ancora, che tutto farete meglio, eccettuatone il Medico, conforme vi farò costare in appresso.  Se il genio vi porterà ad apprenderle insieme con la Medicina, che ne feguirà? Ciò appunto , che accade à chi  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] in un medesimo tempo getta in un camро  semi diversi, e mescolati , e che ne raccoglierà? Un frutto confuso, e quem sto ancora à voi potrà succedere, poiche la bella ordinanza è quella, che facilita, e felicita le grand'imprese , dove che la confusione le preverte , e le annichila.  Inoltre s'avrete studiate le Mattematiche, con gran genio , e studio profondo, e vorrete poi fare il Medico niuna cosa di Medicina vi appagherà, cercherere in essa le dimostrazioni evidenti, e non trovandole, che ne seguirà, se non sarete nella pratica ancora versatiffimi? Che per temenza d'errare vi formerete un metodo di medicare à vostro modo , con pochi rimedj, creduti da voi sicuri à non poter nuocere , e semplici, come fono Occhi di granci, Stibio diaforetico, Sperma ceti, un poco di Caffia , qualche ottava di Tartaro di Bologna, qualche Clistiero, qualche bevuta d'ac. qua di Nocera , Oglio d'Amandole dolci, Sangue ircino preparato , Corno di Cervo filosofico, Giacinto bianco , e  cofe  [ocr errors][merged small] cole simili, tutte sicure à non poter nuocere, & in questa conformità vi regolerete tanto ne' piccioli, ne' gravi, che ne' gravissimi mali. Questo è un modo sicuro, mà nell'infermità benigne, e leggiere, non già in tutti i casi gravissimi, ne' quali è chiamato il Medico per dare un pronto riparo, non già per complimento, per espugnarlo, ò almeno per retundere la sua veemenza , e questo pretenderete di farlo con cose innocenti? ch'è il medesimo, che dire con cose  attività ? Queste dunque adoprerete ne' bisogni inaggiori , ne' quali : Melius eft anceps experiri remedium quàm nullum. Rimedi sicuri vi persuaderetç, che siano quelli, che non possono fugare il male ? Questa sarà una licurezza inutile, mentre non rileva il pericolo, sarà sicurezza, per chi assicura, non già per chi deve essere assicurato , perche se in quefta borasca si sommerge la Nave,non è tenuto chi assicurò al rifacimento del perduto, mentre che và tutto à danno dell'aficurato. Un tal modo di operare  lo  di poca  [ocr errors] lo potrebbe ancora esercitare , chi non sapesse altro di Medicina , perche già ch'è sicuro non ci vorrà grand'arte per praticarlo, mentre l'arte consiste in la. per conoscere ciò, che in un caso potrebbe nuocere, e nell'altro giovare, e per questo effetto si chiama il Medico, onde essendo gl'accennati rimedi sicuri, e non potendo nuocere à ch'effetto vi sarà bisogno del Medico per darli? Oltre di che, per parlarvi ingenuamente, questo modo di medicare è assai confimile à ciò, che fanno coloro , ch’imparano la scherma, che per non offendere, nè effere offesi adoprano certe smarre senza taglio, ed in vece di punta acuta hanno ivi un bottone di ferro foderato di pelle, ò cottone , qual sorte d'arme sicura in tempo di pace, di ch'efficacia sarà all?ora, che l'inimico ci affalisce con armi pungentiffime, lo potremo offendere , à almeno difenderci da effo? Credo di nò con questa sorta d'armi sicure, ci converrà per certo adoprare almeno armi eguali, e se saranno superiori riusci.  ranno  [ocr errors] ranno migliori ; il fimile appunto succederia quando il male grave alfalisse, se questo lo voleste espugnare con l'accennati rimedi sicuri, combattereste seco con quell'armi appunto senza taglio, e fenza punta, poco atte à fare validas difesa.  E non basterà in questi casi Parme sola , mà converrà saperla ben maneg. giare, per fare que' colpi sicuri riservati a' soli Maestri dell'arte, quali come li fapreste fare se mai non aveste maneggiate simili armi, volendovene talvolta prevalere?  Sò, che questa voce di medicamento sicuro, che non può nuocere'è molto plausibile appresso alcuni, che la considerano superficialmente, mà capita bene, è molto nociva , poiche nel bisogno più urgente non è tempo di passarlela con cose di poca attività, richiedendo quello ajuti maggiori , ò equivalenti alIneno ad esso, e tutto ciò, ch'è sicuro. à  non nuocere non basta per rimuovere ciò,che nuoce, onde se non ammazzano  direttamente possono almeno indirettamente nuocere, per la cagione, che non sono sufficienti à rimuovere ciò, che puol’ammazzare. Ippocrate,che conobbe tal verità assomigliò il Medico al Governatore della Nave: questi appunto trovandosi in una borasca di mare cofa dovrà fare ? Deve in primo luogo alleggerire la Nave, con gettar via ciò , che più l'aggrava, acciocchè tando più galleggiante non venga ricoperta dall'onde; Voi già mi capircte, onde non occorrerà mi spieghi di vantaggio, potendo considerare da voi medefimi , che alleggerimento rechino a'corpi, che si ritrovano nella tempesta del inale, eripieni di viziosi umori, si piccoli , e poco efficaci medicamenti.  Io non pretendo già porvi in difcredito li dettirimedj, perche in qualche caso possono essere profittevoli : Per esempio ne' veleni corrosivil'oleofi, ed in qualche altro caso ancora grave sono utilissime le copiose beure d'acqua, e cose simili, mà che siano sufficienti questi  per  per curare tutti li mali, dicovi apertamente di nò , perche in molti mali gravi convengono altri rimedi più efficaci, conforme ordinò Ippocrate : (d) V alentibus verò morbis, valentin natura medicamenta exbibeantur ; & altrove : Extre. mis morbis extrema remedia optima funt.  Anzi, che se si tralasceranno da voi li più efficaci in quei casi, che competono per sostituirvi questi più leggieridico, che peccherete d'omissione gravemente, potendone nascere pregiudizj gravi alli vostri Inferini in trascurar ciò, che li compete,per dar loro ciò, che non può recare profitto equivalente al bifogno. E quando il solo differire un rimedio possa recare del danno, come bene avvertì il divino Ippocrate : (e). Cum enim ab omni ante aliena fit procrastinatio, tùm verò maximè in Medicina , in qua di. latio vitæ periculum affert ; quanto maggiore lo recherà l'omiffione , essendo difetto più conliderabile della dilazione  Ne (d) Hipp de loc. in hom. (e)ld.in epift.ad Crat.  Nè per cimore d'essere tacciati di omiffione dovrete fare d'avantaggio di quello , che fiete tenuti di fare, perche all'ora incorrereste in un'altro errore , non inferiore al primo, mà come vidovrete in ciò regolare ve l'insegna Ippocrate nel primo Aforismo in tal guisa: Seipfum præftare oportet opportuna, & quit decent facientem.  Se divenuti Profeffori d'Astrologia farete ancora il Medico , non vi capiterà Infermo, che non vorrete alzargli las figura del decubito, non gli darete ri. medj se non che a' buoni aspetti de' Pianeti, e fuggendo li cattivi,cosa ne seguirà? Che perdendosi l'occasione pronta d'operare, l'Infermo se n'andrà all'altro mondo à riconoscere più da vicino li suoi malefici Pianeri, stanteche Occasio præceps, à quella bisogna , che indirizziate tutta la vostra attenzione, oltre di che vi servirete d'una scienza più incerta della Medicina per accertare ciò, che in essa crederete fallace. E se ornati di tutte l'erudizioni Istoriche vorrete esercitare ancora las Medicina per far pompa in quello, che meglio saprete , & è di vostro genio, comincierete à discorrere con li vostri Infermi,ò con altri, che ivi si troveranno presenti ab Urbe conditâ fino al tempo dell'Impero Romano, e con vostro sommo piacere , il meno poi , che farete sarà di pensare all'Infermo , che avete avanti gl’occhi, à cui dovete dare ajuto.  Iddio guardi, che tal’uno di voi , ch'avefse più spirito, che prudenza, s'annojasse di far ciò, che ho detto intorno l'osservazioni Mediche, e si volesse  porre à fare il Medico senz'avere acquistato un buon metodo di medicare, affidato solo in una gran scelta di belle, ed efficaci ricette, questi sarebbe simile à colui, che custodisce delle bellissime armi, mà non le så maneggiare, ed in conseguenza caderia in uno delli maggiori errori, che si possino mai commettere nella Medicina , cioè di divenire un gran Ricettante, e de' più validi, e pronti  ri  مرور  rimedi si Chimici, che Galenici, che avemo, e non sapendo il modo d'adopee rarli l'applicheria à casa, con tutto, che fi fosse ideato d'imitare un Capitano, che per conseguire la vittoria fi serve di valorosi soldati, e questo modo d'ope, rare quanto possa riuscire dannoso, lo lascerò considerare à voi, per quando farete divenuti già provetti ; solo riflettete ora, che quel Capitano, che non sa comandare li suoi valorosi soldati, in ve. ce di vittorie riceverà bene spesso delle sconfitte, e quel troppo ardire indica ignoranza, come afferi Ippocrate: (a) Audacia verò, artis ignorationem arguit : E in altro luogo :(b) At quod temerè fit nullo modo fubfiftere videtur, sed nomen tantùm inane efle .  Non riuscendo dunque tanti altri modi ricercati da voi sarà neceilario,che seguitiate quello, che v'è stato da me proposto, con il quale farete sicuri di abilitárvi à poter divenire veri Medici  E  )quan(a) Hippocr. de lege. (b) Idem in lib. de Arte,pro ftri fore inp Ver  ner  te,  fo fe  quantunque fiatc trà voi d'abilità difu. guali, & in particolare per quel profittevole uso, che potrete ricavare dalle diligenti, creiterate offervazioni fatte intorno l'Infermi, non potendosi questo apprendere in altro modo , conforme giudicò Ippocrate : (a) Usus namque, qui in fapientia , tùm in arte ei adjuncta , doceri nequit ; e questo di quanta efficacia fia, sentitelada Cicerone: (b) Aljungant ufum frequentem, qui umnium Magiftrorum precepta fuperaf.  Mà non vorrei, che tornaste ora à contriftaryi, voi, che fiete di natura malinconici, parendovi forse troppo, quanto v’hò proposto per neceffario in acquistare la buona pratica , perche se vorrete diyentare veri Medici, ed eflere compresi nel minor numero di quelli, di cui parlò Ippocrate nella sua legge così: Medici nomine quidèm multi, re ipfa perpauci , sarà necessario, che facciate dal canto voftro ogni posibile, & à fine  pro(c) Hipp.de decenti ornatu . (d) Cicero 1.de Oratore .  [ocr errors] proseguiare con maggior fervore li vostri studj, vi mostrerò in domani quella fortuna propizia, che vi potrà toccare in premio delle vostre virtuose fatiche. Venga pure chi di voi la desidera ottenere, che gli farò conoscere quella forte, ch'è sempre favorevole, non essendo soggetta à vicende, à fine, che di efla se ne innamori.  1  [ocr errors][merged small][merged small] GIORNATA III.  Nella quale si mostra la fortuna , che deve defiderare, e procurare il vero  Medico , e la via più figura  per ottenerla,  A  D un gran cimento oggi m'espon  in volervi mostrare la vostra buona fortuna, posciache desiderandovela propizia, durevole, e senz'effere soggetta á vicende, qual potrà essere mai questa fortuna sì prospera Quando nè le grandezze, nè gli onori, nè le ricchezze, né le delizie, e piaceri,cose cotanto bramatç nel mondo, la possono in cale stato costituire ? Appena è arrivato l'uomo alle grandezze, od onori sommi, che questi cominciaio da bel principio à contriftarlo, alle ricchezze, che l'infaftidiscono, alle delizie, e piaceri, che questi ancora non gli rechino goja, e confiderabile danno: in somma si scorge chiaraméte,che Nemo fua forte contentus.  [ocr errors][ocr errors] In conferma di ciò riferisce Ippon crare nella lettera scritta à Damageto , che Multi fene&tutem exoptant, cumque cò pervenerint gemunt, nulloqae in fatu firmâ mente perfiftunt . Principes, ac Reges privatum beatum prædicant , privatus Re. gium Imperium affe&tat , qui rem publicam regit, artificem tamquàm periculi expertem laudat , artifex verò illum velut in omnia potentiam exercentem. E pur questi quan to mai avranno desiderato fimili fortu. ne, quanto vi ayranno faticato peč conseguirle, & ottenute , che l'ebbero, punto ne rimasero contenti; Ela cagione di ciò fù, che questi andavano in traccia della bell'apparenza della fortu. na fallace, non glà della di lei sostanza ftabile , e quello, ch'è peggiore , la cer. cavano ancora fuor di strada, conforme nella sudetta lettera fi legge: Rettam enim virtutis viam puram , minimèque af peram, ac inoffenfam non cernunt ; Questa via dunque bisognerà , che ancora vi mostri, acciocchè pofliate tutti ottenere il yoitro intento, ed io uscire dal mio.  E 3  cie  [merged small][ocr errors] [ocr errors] cimento con reputazione ; state attenti per non isbagliarla, perche si tratta di fare acquisto di una fortuna stabile,eterna, e non soggetta á vicende.  Che il Medico debba essere foriu. nato non vi cade ombra di difficoltà ; mentre , che se fosse diversamente, chi mai fi vorria prevalere dell'opera di coPii, al quale la forte foffe contraria , Paveffe affatto abbandonato, e che non gli piovessero addosso da per tutto, che infortunj, e miserie, da ogn’uno sarebbe certamente sehernito, e per necessità gli converria mutar mestiere, sicchè è incontrovertibile, che Oportet Medicum fe forfanatum  Mà qual fia questa fortuna, che strada dobbiate tenere in cercarla, e ciò, che dovrete fare per confeguirla , procurerò ora mostrarvi con la buona fcorta d'Ippocrate, à fine non possiate sbagliare.  Due sorti di fortune fi ritrovano descritte da Ippocrate, (e) una delle  quali (c) 110 lib.de loc:in hom.  1quali è quella, ch'è fuori di noi, & ope* ra independentemente da noi, e l'altra, ch'è sempre con noi , & opera conforme noi vogliaino .  Quella, ch'è fuor di noi così apa punto egli la descrive : Sui enim juris eft, Fortuna , nulli imperio paret , neque ad cujusquam votum fequitur; qudla poi, ch'è sempre con noi l'accenna con dire : Mihi enim foli bi fortunatè afequi , idemque infortunatè non assequi videntur , qui recte quid ei malè facere fciunt , e dependendo il bene, ò male operare da noi, la for tuna dunque, che da ciò resulta, da noi dependerà, e sarà questa per sempre inseparabile da noi medesimi.  La fortuna dunque, ch'è fuori di noi è quella, ch'è affatto cieca , e non considera il merito di chi benefica, ma dà à chi più le aggrada di vantaggio ancora di quello, che il beneficato da ella sappia mai desiderare : Talvolta ad un Contadino avvezzo å zappare la terra, fà discoprire un tesoro; capace à farlo divenire molto ricco, con tutto, che le  sue  1  E 4  fue brame fossero di pochi soldi; Ad un? altro ancora più miserabile farà conseguire una grazia nel giuoco, che lo toglierà per sempre dalle sue miserie, e tutto ciò proviene-, perche vuol fare à suo modo, giacchè Sui juris eft, nulli imperio paret  L'altra poi; che risiede in noi, è quella, che secondo, che la trattiamo ella ci corrisponderà, se la vorremo propizia , se variabile, fe peffima, propizia, variabile ; e pelima ancora l'otterremo, conforme da ciò, che Ippocrate c'insegnò li puol dedurres & ancora dall'esperienza di coloro , qui rectè quid, vel malè facere fciunt, giornalmente vediamo.  Certamente, che la prima fortuna non è quella, che deve essere desideratiz, e procurata da voi, che non dovete zappare la terra , nè tampoco dilettarvi del giuoco, ed anco maggiormente , ch'effendo cieca, forda, e per non dispensare à dovere le sue grazie ingrata ancora , questa non deve effere defiderata da voi, che dovete conseguire il premio per giu  Aizia,  stizia , ed à quel segno, che vi si deve ;  Oltre di che la sua sola istabilità bafte,  rebbe per farvela odiare, dovendo voi   defideíare una forte stabile, e permanen-  te; per non provarne le di lei vicende,   Esclusa dunque la prima forte, neceffa-  riamente dovrete contentarvi della se   conda; e tanto maggiormente, che la   potrete regolare à vostro piacere.         In trè modi dunque potrete fabri-   carvi la vostra fortuna, ò buona , ò va-  riabile , ò peffima , se la vorrete buona ,   dovrete operar bene, conforme v'inse  gnò Ippocrate nel detto libro in tal gui-   la : Fortunatè enim affequi eft rectè facere,   hoc enim, qui fciunt faciunt , ed allora cià   otterrete , quando scaccierete affatto da   voi li vizj, e farete in modo, ch'ella sem   pre ammiri le vostre virtù, e si ponga in   soggezione, quando anche non voleffe,   di operare a'vostri vantaggi. Se poi la   bramerete variabile, fatela conversare   con le vostre virtù, e con li vostri vizj,   che imparerà dal diverso modo d'opera   re, che li pratica trà esli ad effere variag   bile  [ocr errors] 2  1  ;  bile ancor essa. Qual modo l'indicd ancora con dire : (f) Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluiffem ; cioè se per  via di virtù, e de vizj avesse voluto fare fortuna , non ad vos decem talentorum gratid, fed ad magnum Perfarum Regem proficiscerer ; con che fece conofcere ancora l'incostanza di detta fortuna, rimirandosi ella ben {peffo istabile, sì in quei fervigj, che dependendo dalla volontà di molti con la sola virtù non s'acquistano, come bene speiso l'esperimentano i Medici condotti; che nelle Corti, ove trà molti altri la provorno tale Seiano e Bellisario.Se poi vorrete farla divenite pellima, consegnatela in potere de' vostri vizj, che apprenderà da questi i loro pessimi costumi , e perima certamente diverrà, ed udite con quantas chiarezza ve lo dice egli nel libro sopracitato : Qui enim non reftè quid facis, non  fortunate afēqui poterit? quum reliqua , que æquum eft facere non faciat. Talmente, che la vostra buona fortuna, the voi  do!  (f) In epif.Abderir. Hippo  dovete procurare è quella che proviene dalle vostre buone, e virtuose opere, c questa l'avrete propizia, e ftabile fino, che vorrete , effcndo subordinata al vostro sapere, e volere, giacchè al parere d'Ippocrate nel luogo sopracitato, effa fi può felicemente conseguire, da chi sda e vuole: Et facile eft ipfam felicitèr alle. qui, fi quis fciens uti velint, d'onde faa cilmente n'è nato quel detto: Virtute dua cey comite fortuna.  Non basterà però d'avervi ciò brem vemente accennato, per potervi cons sicurezza determinare il modo , che dov vrete tenere in procurare questa buona, e tanto desiderabile fortuna, perche ciò, che vi hò detto fin'ora , non è sufficiente à farvi capire in che maniera vi dovrete contenere , allora, che sarete  Eper porvi in viaggio per cercarla, e ciò, che dovrete fare nel progresso di quello , 6 quanto di felice ne potrete riportare dalla vostra lunga, ò breve navigazione, onde sarà necessario, che per meglio esaminare li sopr’accennati punti, che cifiguriamo d'essere già presenti al porta dell'imbarco , e che nel fare detto viaggio mi serva della seguente ideata maniera per iinitare ancora in ciò Ippocrate, che dovendo andare a trovare la sua fortuna in Abdera, conforme udirete in appreffo, ancor egli vi si porcò per mare, ed in una nave non presa à caso, mà scelta da lui con molta cautela,come si legge nella lettera prima scritta à Damageto, che comincia : Cum apud te Rbodi ejem Damagete, navem illam vidi , cui Solis infcriptio inerat , quæ mihi perpulbhra , puppi probè, idoneâ carinâ inAructa , muliaque transtra habere vifa eft, tu verò eam comendabas c. cam ad nos mitrito @c. E tutto ciò, non senza gran mistero, mentre circospetto, e con il buffolo da navigare avanti gl’occhi deve viaggiare chi cerca la fortuna, e deve  per tale effetto scegliersi un bastimento sicuro.  Questo Porto è appunto il luogo , da dove s'intraprende, il camino verso il Tempio della felicità, ove dovrete por.  ancora  tarvi  1  tarvi, per conseguire la buona forte a. e queste trè navi sono già qui allestite per ogn’uno di voi, che voglia fare il sudetto viaggio , converrà , che à vostro piacere ve ne scegliate una di esse, mà prima , che facciate tal'elezione , nella quale facilmente potreste ingannarvi, fentite da me un breve ragguaglio di tali bastimenti, del loro modo di viaggiare, de pericoli, che s'incontrano, e dell' esito, che si hà della navigazione in ciascheduno di efli.  Mirate colà à finiftra, quella si chiama la nave del Sole, ivi la Prudenza regge il timane, la Giustizia invigila al buffolo , la Fortezza regola l'antenne ela Temperanza sopr'intende al tutto: ivi non risiedono altro, che virtù,e tutte attente alli loro assegnati ministerj. Per entrare in questa si ricercano due requiz fiti, e sono i Attestato di abilità, e provę di buoni costumi , altrimenti chi n'è privo, non vi fi può imbarcare.  L'altro bastimento, che stà alla deftra , li chiama la nave di Giano, questa  hà  [ocr errors][ocr errors] hà parimente buoni Piloti, che sono le accennate virtù, che regolano la nave del Sole, mà vi è solamente di male, che vi si trovano alcuni vizj, e tra questi vi è il proprio interesse, la Politica,la Menzogna, l'Adulazione, il Secondo fine, vestiti tutti di Zelo, ela Malizia, che s'infinge tutta umile, in somma vi sono con le virtù mescolati li vizj, che per dimorare insieme con esse conviene loro di stare molto circospetti, e tramutati in altri sembianti, e per entrare in detto bastimento, non si ricerca altro attestato, che dell'abilità.  Il terzo poi, situato nel mezzo, che fà sì bella comparsa, si chiama la nave felice : ivi al timone presiede la Malizia, al bussolo sopr’intende l’Inganno , lw vele si maneggiano dall'Astuzia, la Maledicenza,e l'Impostura consultano continuamente trà esse cose gravi, la Lussuria , la Gola, con tutti li vizj consimili festeggiano , ciripudiano tra loro, ed allettano chiunque vedono- ivi approfsimarsi ad entrare nella loro nave, dicen  do  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] do à tutti: Per entrare quì trà noi non si ricercano tanti requisiti; qui non serye abilità, li buoni costumi non s'apprezzano, basta, che abbiate genio à gustare de’noftri piaceri, che subitamente vi ammetreremo, e condurremo in un trata to al porto della felicità.  Vado vedendo, che tal'uno di voi è portato dal proprio genio di eleggerli questa nave, che ha il nome felice, con tutta l'apparenza di prosperità, senza pensare più oltre, conforme:(8) Magna pars hominum eft, que navigatura de teme peftate non cogitat. Mà riflettete bene à ciò, che fate, poiche non bisogna tosto fidarsi di quel bel nome, e di quella prima vaga comparsa, conviene ancora ri. flettere al fine, che può avere una simile navigazione, che ora vi spiegherò.  Si ftaccherà questa nave dal porto con allegria, mà nel viaggio incontrerà molti pericoli , perche non è regolata dalla Prudenza, e quantunque la Malizia , e l'Inganno facciano quanto pollo  [merged small][merged small][ocr errors] no,  (g) Sexeca de Traxq.Anims.sapoll.  1  no, acciocchè non si sommerga, nulladimeno questa non potrà sfuggire il passo dell'Ignominia , che stà situato un buon tratto di camino prima di giugne. re al porto della felicità, (dove bisogna neceffariamente arrivare per ottenere la buona forte) si rimira ivi uno scoglia grande, ove è la residenza maggiore di tutti li vizj, hà nella sua estremità, ver, so il sudetto porto alzate due gran colonne, ove è scritto : Non plus vltrà, affinche sappiano tutri li vizj, che fino colà possono giugnere , mà che più oltre è vietato loro il passare. Approdata, che sarà detta naye al sudetto scoglio, è su, bitamente visitata , e ciò, che di viziosa ivi si trova, con tutti'li viziosi , e vizj loro viene arrestato, non potendo anda, re più oltre simil pefte , cosa di buono vi potrà mai essere dove fono tanti vizj, consideratelo voi? Onde farà necessario, che tutto ivi rimanghi in potere de' vizj. Che faranno all'ora quei miserabili, che  s'imbarcarono in fimile navę, renduti schiavi de'proprj vizj ; qual fortunaspropizia avranno ritrovato, quando, che la loro pessima ancora l'abbandonorà, per non restare ancor essa schiava ed il tormento maggiore, che avranno, farà di rimirare con li propri occhi tra, passare quelli, che navigano ne i bastimenti del Sole,e di Giano ancora,fe chi viaggia in questa fi farà regolare dalle virtù ; oh che cattiva elezione avreste fatto mai se aveste condesceso al vostro genio ! come vi trovereste, che farele in fimili miserie , privi della libertà, e della forte? Plinio ciò predisse faggiamente, dicendo, ( a ) che Habet has vices conditio mortalium , ut advere  fa ex fecundis , ex adverfis secunda ne 2 cantur.  Sicchè fuggire, per quanto potete, i simili imbarchi , che vi conducono, non  al porto della felicità, mà bensì à quello ? dell'ignominia , e delle miserie ; onde  bisognerà, che vi scegliare è la nave del ? Sole, ò quella di Giano per giugnere ti al desiato porto della felicità, per ri,  F  tro(a) In Panegir. at Trajan.  [ocr errors] 2  [ocr errors] trovare la vostra buona fortuna  Il proprio genio vi farà inclinare talvolta d'entrare più costo in quella di Giano, con la quale crederete di poter ritrovare una miglior fortuna, à questo non mi opporrò, perche dove vi è la Prudenza , c la Giustizia, sc farete à lor modo , con tutto, che vi siano vizi ancora, questi non potranno molto nuocervi; Mà prima di entrarvi, sarà bene, che sappiate il viaggio, che fanno, si questa , à cui vi porta il vostro genio, che quella del Sole, che voi poco gradite, e che tributo portano sì l’una, che l'altra al Tempio dell'Eternità, affinche meglio fiate informati di tutto, prima , che vi determiniate all'imbarco.  S'incaminerà con prospero vento la nave di Giano verso il porto della felicità , incontrerà nel camino varie tempeste , mà la Prudenza, e la Giustizia, che la regolano, le opereranno senza il disturbo de’vizj, le supereranno tutte con la loro buona condotta; capiterannó molte, e varie occasioni assai vantag  giose,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] giose, se n'approfitterà più , ò meno chi farà ivi imbarcato , secondo, che si consiglierà con li vizj, ò con le virtù, fe darà orecchie a’yizj , & in ispecie al proprio interesse, gli dirà, che tutto può fare, fe alla Giustizia , se non quello , che deve, ch'è convenevole, e giusto, arriverà all'accennato passo dell'ignominia si fermerà per iscaricare ivi tutti i vizj, con tutto quello, che di vizioso fi ritrovi nella ricerca generale, che ti farà della nave, e se per disgrazia di chi ivi s'imbarcò, Coffe ftato guadagnato da? vizj, e fossero questi in detto viaggio divenuti arbitri della sua volontà, resterà ivi tutto l'acquisto fatto,come cosa proveniente dalla loro viziosa industria, e quel, ch'è peggio, ne seguirà del mifero passeggierofatto schiavo, ciò, che successe à chi navigò nel bastimento felice, le povere virtù con l'infelice forte abbandoneranno chi le tradì, chi le vilipese, e se n'andranno altrove à ritrovare chi meglio le tratti. Succedendo poi diversamente, è cie  l'in  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] F 2  [ocr errors][ocr errors] l'imbarcato abbia fatto tutto quello che gli fu suggerito dalla virtù fattosi il sudetto espurgo, e lasciati ivi tutti i vizj, proseguirà la nave il suo viaggio verso il porto della felicità, dove appena giunta, che si scaricherà tutto ciò, che fi porta al Tempio dell'Eternità, e lo presenterà la Gloria avanti il Tribunale della Giustizia eterna, che ivi à tal'etfetto presiede, domanderà questa, se quel tributo, che si offerisce sia stato in alcun tempo inescolato con robbe viziose , & inferce , risponderà la Gloria , che quantunque fia venuto accompagnato da' vizj, nulladimeno, che sia Rato già espurgato à bastanza nel pallo dell'Ignominia, dove tutto ciò, chew d'inquinato vi era , fù lasciato assieme con i vizj; non basta, risponderà la Giuftizia, è tributo, che ha avuto comercio una volta con cose infette, non deve andare à dirittura al Tempio dell'Eternità, fi consegni al Tempo , che gli faccia fare una lunga , e rigorosa quarantena onde bisognerà aspettare la discrezio  [merged small][ocr errors] ne del Tempo, quando le vorrà eternare!  Il viaggio poi, che fà la nave del Sole , è bensì più adagiato , perche que fta non naviga à tutti i venti, hà delle tempefte , mà le supera, perche la regge la Prudenza; non fà grandi acquisti, mà fono sicuri, perche li regola la Giustizia, nel passo dell'ignominia non si ferma punto, perche non hà seco li vizj, che la facciano trattenere per il loro sbarco, giugne finalmente al porto della fesicicà, non avendo quanto si porta per offerta avuto in alcun tempo comércio con cose infette, e viziose , appena presentato dall'Umiltà senza pompa avanti il Tribunale della Giustizia, che questa fubitamente ordinerà , che si trasporti tutto al Tempio dell'Eternità , eflendo cose pure, e non sospecte d'inquinamento alcuno, e che fi registri ancora trà gli Eroi il nome di colui, che l'offerisce, ed ecco la sua fortuna divenuta già stabile, ed eterna, per goder’ancor'effa i favori dell'Eternità.  AveteAvere già sentito il tutto, ora siete in istato di deliberarvi, e di prendere quel partito , che vorrete per consiglio mio, imbarcatevi pure nella nave del Sole, se avete tutti li requisici necessarj, che sono abilicà, e buoni costumi, e se ne siete privi, procurareli pure à tutto costo, perche farerc più sicuri di portare  offerte , fe non molto considerabili, alimeno sincere, ed affai gradite dall'Eter  nità, se lo farete di controgenio : Durum eft confcendere navim ; sappiare però, che è un quieto vivere, dove l'ainbizione non perturba la fantasia, l'ira non rode il cuore, l'invidia non consuma le mi. dolle, la superbia non accieca , e dove finalmente tutti gl'altri vizj non possono punto nuocere, ftantechè non vi dimorano, l'ingresso vi parer à duro, mà il rimanente vi riuscirà felice, e quando non aveste altro motivo di sceglierla, vi doyria animare å farlo , che Ippocrate per andare in Abdera à cercare la sua forte non fi fervi della nave felice, nè di Giano, mà benisi di questa del Sole, e la  :  CO- .  [ocr errors][ocr errors] comendò non solo prima d'averla provata, mà molto più dapoi, dicendo; (b) Cui cum Solis figno, etiam fanitatem apponito cùm re verâ , prospero numine vee la fecerit . E certamente, che prospero numine ancor in questa si navigherà per, essere regolata dalle sole virtù.  Se poi sarete risoluti di cercare la vostra forte sù la nave di Giano, procurerete almeno di non navigare à curti li venti, e terrete frenato il vostro inte. resse,acciocchè quando la Giustizia non potrà navigare , esso non ordini il disancoramento, e che quando la Sincerità vorrà operare, allora l'Adulazione non la turbi, e finalmente difautorerete tutti li vizj, che ivi ritroverete, e li porrete in catena , come tanti schiavi, altrimenti sotto specie, ed ombra di virtù v'inganneranno sempre: Fallit enim vitium fpecie virtutis,  umbra. Operando voi in questa maniera, acquisterete più gloria, che se navigate  nella (b) In 1.6 2.epift. ad Damagetum.  F4  [ocr errors] nella nave del Sole, perche vi farete saputi ancora difendere dagl'inimici domestici , e la vostra fortuna restando ammirata del vostro inodo d’oprare , vi sarà molto propizia , e gli darete voi medesimi stimolo d'invigilare à vostro favore, vedendo , che operate per eternarla; sappiate però, che in tutto il tempo di detta navigazione, vi converrà stare vigilantissimi , e non meno di quelli, che passeggiano sopra precipizj, mà à far questo hoc opus : bic labor eft.  Da queste trè figurate navigazioni, comprenderete non solo ciò, che nel corso di vostra vita vi potrebbe accadere, mà il modo ancora di schivarne ogni finiftro, che fosse valevole à ritardarvi l'acquisto della buona fortuna , perche se voi da bel principio vorrete darvi in preda a' viziosi piaceri , che progreffi mai potrete fare ? E che fortuna prospera potrete conseguire? Ed incominciando una volta à gustare le viziose delizie , non avrete più palato capace di assaporare il nettare delle vir  tù;  [merged small][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] tù ; la malizia, l'inganno , e la frode vi sosterranno sino che gl'è à grado , mà alla tine avendo conseguito ciò, che bramavano da voi , vi lasceranno cadere, anzi forse ajuter anno, come fanno l'infidi compagni, nel precipizio maggiore delle miserie, nel quale ritrovandovi, di chi vi dovrece lagnare? forse che della vostra mala sorte innocente , quando, che voi medesimi ne licte stati glautori. La vostra fortuna non ha mancato , ella troppo hà fatto per esservi propizia, ambiva di favorirvi, mà voi all'ora la tenevate lontana, perche credevate, che il trovarvi in delizie, in ispafli, e viziosi divertimenti, fosse il miglior negozio, che potreste mai fare : E se talvolta v'infinuava la strada delle virtù con qualche stimolo interno , voi la rigettavate con dispreggio , onde meritamente esclama contro costoro Ippocrate : (c) Indoetus autèm qui eft , quomodò fortanatè affequi poffit? Si quid enim etiàm affequatur, non Memorabilem fanè fucceffum babebit ; Qui  enim (c) Hippode locis in bom.  3. A  3  [ocr errors] cnim non rectè quid facit , non fortunate affequi poterit , quum reliqua , quæ æquum et facere, non faciat;cd altrove :(d) Ego verò ut fortuna quidem quavis in re non nibil tribuo , ità certè cenfeo malè à morbis curatis , ut plurimùm adverfam fortunam contingere ; e nell'epistola à Damagero così dice, parlando di simili sfortunati viziosi: Eorum res adversas derideo,eorum infortunia intento rifu excipio. Veritatis enim instituta violant.  Se poi vorrete seguitare la strada di mezzo, e mantenervi amico delle virtù senza discostaryi affatto dalli vizj, e questa con tutto sia meno pericolosa, non è molto sicura , perche quantunque in essa farete più ricchezze, stante il fecolo corroto, il buon nome non l'acquisterete stabile, e di lunga durara, edin conseguenza incostante farà la vostras fortuna , inercèche tutti quegl’artifici usati, quelli difettucci d'adulazione di qualche bugiòla à tempo, e di quelle mormorazioncelle coperte, di quel zeloaf(d) De Arteaffettato, e giustizia con il secondo fine, modi più tosto appresi da Correggiani ozioli, che da buoni Maestri, scoperti , che saranno dagl’uomini di stima , e di senno, questi vi perderanno quel concetto, che prima avevano di voi. Oltre di ciò, che vita mai infelice sarebbe la vostra, dovendo servire à due Padroni Deo, Mammona : Deo, ch'è il Protettore delle virtù, & Mammona de' vizj: Nemo poteft duobus Dominis fervire , Deo,  Mammond . Mà dato ancora il caso, che vi riusciffe di farlo, che vantaggio ne ricavereste mai, mentre le dolcezze dell' ingenuità ve le amareggierà l'adulazione, quelle della giustizia ve le dissapo, rerà il proprio interesse, quelle del zelo l'attolicherà il secondo fine, vivereftę continuamente inquieti , stando sempre vigilanti, che non si scoprissero li vostri difetti, perche vorreste passare per ingenui , e non sareste , per giusti, e prende reste ogni arbitrio contro il dovere, con qualche cosa di vantaggio -; ficchè il partito più sicuro farà di vivere lontani  da,  1  da'vizj, e starsene con le fole virtù ; perche quantunque le ricchezze non vi pioveranno addosso da per tutto, nè l'aura popolare vi porterà molto in alto, con tutto ciò quel buon nome, quel buon concetto, che formeranno di voi gl’uomini sensati, non vi sarà mai tolto, durando sempre stabile ; perche è fondato sù le vostre virtù, permanenti sù il vostro onore immutabile, che est Splendor virtutis , come S. Ainbrogio negli Officj asserisce. Onde voi operan+ do bene otterrete la sorte stabile, conforme ve lo predice ancora Ippocrate, (e) dove così parla : Fortunatè enim affequi eft re&tè facereshoc autem qui sciant faciunt , e d'avantaggio, viverete con una somma tranquillità d'animo,perche goderete tutto quel gran dilettoyche apportano le virtù a' loro seguaci, non potendosi ciò per altra via conseguire, mentre: (f) Semita certè=Tranquilla per virtutem patet unica vitæ ; nè per questo non istabilirete la vostra casa, anziche 1  le). Deloc.in hom. [f] Juvenalis forira 10:  me  ز  meglio degl'altri, e per due ragioni, la prima, per avere fatto li voftri acquisti onoratamente con le fole virtù; l'altra poi, perche il mondo non è così spopolato d'uomini, che amano, e seguitano le virtù, quanto da alcuni si crede, effendovene di molti, onde voi, che se guitare questa buona via ò sarete pochi, ò numerosi ; se pochi, viverete bene,  perche da molti Tarete stimati, fe poi į farete numerosi, converrà, che li viziosi  ancora , ch'avranno bisogno dell'opera vostra s'accommodina alli vostri retti costumi.  Caminando dunque voi per la via delle fole virtù , potrete senza fallo conseguire la vostra buona sorte, e por trete allora dire çon ragione : Nos te,  Nos facimus  fortuna Deam, coloque locamus •  Dove che caminando voi diversamente,  appena vi sarà permesso il poter dire :   Nos facimus fortuna Deam , mundos que locamus,  Stan  [ocr errors] Nos te ,  Stanteche appena  sù l'aura popolare iftabile, in tal caso, la potrete appog. giare, nella quale non si curò punto Ippocrate di fondare la sua fortuna, come da più motivi si ricava, c primieramente, da ciò, che scrisse egli à Democrito, manifestandogli, che dal volgo, disprezzatore delle buone opere, aveva ricayato più tosto riprensione, che onore, con che fà credere, ch'egli non procurava có compiacergli da cattivarselo, affinche aveffe detto bene di lui, e l'avesse onorato, perche la sua politica solo consisteva, in operare, conforme si doveva, ed in far ciò, che solamente era decente al vero Medico, conforme fi spiegò nel primo de' suoi Aforismi in tal guisa : Se ipfum præftare oportet, quæ decent facientem; e ciò in termini prù preciâ l'individua affai meglio in altro luogo , (8) dove così dice : Neque verò gratiam, qua tibi homines demerearis subtrabo , cum fit Medici præftantia digna , eorum autem, que per Instrumenta adhibentur, & de  mon  (8) Hipp in lib de præcepto  monftrationis eorum, quæ fignificant , reliquarumque ejusmodi memoriam adeffe oportet, quod fi vulgi tibi audientiam comparare voles, id non valdè gloriosè insti. tuas , neque tamen cum ostentatione portia. câ fiat, industrie enim impotentiam arguit, neque certè probo induftriam multo labore partam in alium ufum transferri , quod per Se fola ut eligatur grata fit ; Inanem enim fucı laborem cum ambitiofà oftentationes tibi impones.  In oltre tal verità si ricava ancora , dall'aver egli ricusato il servigio del potentiffimo Rè Artaserse, mentre certa cosa'era, che se avesse desiderato d'acquistare l'aura popolare , non doveva egli ricusarlo, poiche ritrovandosi in un tal posto, senza dubbio alcuno tutta la Persia saria corsa ad onorarlo, niuno averia potuto più dir male di lui per tema di non incorrere nell'indignazione del Rè potentissimo Artaferse, onde con averlo ricusato dà à divedere, che egli non fi curava punto di dett'aura popolare, nè delle ricchezze, e fortuna, che dacssa provengono, conforme apertamente fi spiegò nella lettera scritta alli Abe deritani, dicendo ivi: Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluifem viri Abderia tæ , nè decem quidè m talentorum gratiâ ad vos venirem, fed ad magnum Perfarum Regem proficiscerer , ybi &c.  E per far conoscere meglio à tutti, ch'egli non caminava per la via dell'aura popolare, nè delle ricchezze, mà bensì per quella della sola virtù volle portarsi in Abdera , folainente per visitare, e trattare con Democrito, e questo perche lo faccffe lui medesimo lo confesso, dicendo : (b) Eum autem gravibus , firmis moribus ele præditum intelligo ; talmente, che stimò egli fortuna maggiore quella, che sperava ottenere con trattare con un'uomo di questa sorta , per apprenderne da esso qualche buon dor cumento, non solamente de i dieci talenti offertigli dagl’Abderiti,inà ancora di tutte le ricchezze, e grandezze insie: me della Persią, & udite con quantan  chiz (h) in etir. Abderit.  [ocr errors] chiarezza lo dice : (a) Rex Perfarum nos ad fe vocavit nefcius mibi potiorem of fapientiæ , quàm auri rationem .  E finalmente , acciocchè meglio comprendiate , che quanto v'hò detto intorno alle trè strade, che vi sono per cercare la fortuna, o qual di queste dobbiate scegliere, s'uniformi sempre più con i sentimenti del gran Maestro, confermiamolo ancora con l'accennate trè vie di cercare la fortuna , contenute in detta lettera. Primieramente con il quomodocumque ditefcero ci addita un bivio, cioè tanto la strada, che conduceva in Persia , à fare acquisto di cesori, e grandezze considerabili, che quella di Abdera , che allettava all'acquisto di dieci foli talenti ; La prima di queste egli non la ftimò à proposito, perche conduceva in paesi barbari, inimici, e dove vi era la peste ; La seconda nè tampoco , perche dubitava, che quel vizio dell'inte, resse, que' dicci talenti, avessero possuto rendere servile, e schiava la sua virtù,  G  cosa (a) Hippo in epiß. Denetr.  cosa fece egli per battere su'l sicuro, fi fabricò la terza via, espurgata da ogni vizio, e prima d'incaminarti per essa la descriffe in tal guisa all’Abderiti: Mihi verò ad vos venienti , non Natura , neque Deus argentum promiserit . At nequè vos [viri Abderite] per vim obtrudite, fedlia berè artis liber â elle finite operâ . Qui autem mercede operam fuam locant, hi fcien. sias, tamquàm ex priore libertate manci. pio dantes , fervire cogunt .  Oh Ippocrate, se questi tuoi documenti fossero stati mai dati à rivedere à quel Quinto Petilio Pretore Urbano, à cui pervennero in mano i libri del dia finganno composti da Numa Pompilio , certamente che,ò l'averia fatti brugiare, conforme che fece quelli, o pure ti averia fatto quel favore , che fecero gli Abderiti al suo Democrito, che lo dichiarorno pazzo, e fi faria servito come Precote delle seguenti cognecture per dichiararti cale, primieramente avrias dedotto contro di te, che tu per portarti da Democrito, da cui non potevi sperare bene alcuno, perche appena aveva un Platano, che lo difendeffe dal Sole, ed un sedile di pietra, dove potesse sedere, mostrasti smoderato desiderio d'andarvi, conforme costa nella prima lettera scritta à Damageto , dove così dicit Navem ad nos mittito , fed fi fieri poteft, Hon remis , fed alarum remigio instruct amo res enim, eu amicitia urget. In oltre, che per  benc  andare in Persia , dove, oltre offerte sì grandiose , eri tanto desiderato da un Rè potentissimo, cu fosti prontissimo à rie cusar la chiamata , conforme costa nella lettera da te scritta ad Hiftano, senza riflettere , che quel potentissimo Rè poo teva distruggere la tua Patria per tua cagione. Chi dunque procura , ed effettua con tanta sollecitudine, ed anfietà una cosa, che non gli può recare profitto alcuno , e ricusa con altrettanta prontezza ciò, che gli può moltissimo giovare, senza considerare ciò, che può sopravenire di male dal ricusarla ; certamente, ch'egli si può condannare per pazzo. Saria stata però troppo ingiusta  que  [ocr errors] quefta sentenza di Petilio , quando l'avesse cosi pronunziata , poiche per condannare un'uomo savio per pazzo, prio mierainente si ricercano più rilevanti prove di queste : in oltre bisognava dargli le sue difefe', in cui deducesfe lc sue: ragioni prima di condannarlo, nelles quali faria stato dedotto, primieramente, che non sussisteva in fatto, che da Democrito non se ne poteva sperare bene alcuno, costando dall'Ippocratica confeffione , quanto mai di bene egli ne ficavasse , ch'è questo: (b) Tum ego  Democrite præftantisime magna hofpitalitatis tud munera mecum in Co reportabo, cùm multa me fapientia tua admonitione compleveris. Prçco enim tuarum laudum rem vertor, quod natura humana veritatem inveftigasti, a mente complexus es; Acceprâ autem à te mentis curatione discedo ; La grand'ansietà dunque di andare à fare simili acquisti, non era indizio di pazzia, ma bensì di somma prudenza , di sommo giudizio. Che poi per noneffere andato in Persia foffe censurato a torto è chiaro, mentre non avendo alcun bisogno di quanto gli poteva da ciò risultare, conforme egli confesso: (c) Nos vietu, veftitu, domo, omnique read vitam neceffariâ cumulatè frui ; Perfarum autem opibus uti , nequè mihi æquum eft; non doveva esporsi di andare à fervire popoli barbari , ed inimici, e quanto erano maggiori l'offerte, che gli faceva. no , tanto più lo costituivano loro schia, vo. E quando vi fosse andąco, cosa mai averia riportato? Oro, argento, onori sommi, e grandezze, e quetti potevano paragonarli all'acquisto, che fece, con Democrito, di dottrina, e faviezza di mente maggiore? Ed essendo egli andato per curare uno creduto pazzo, per cagione di quel medesimo ei ritornò più savio, e più dotto di quello, che era prima ; e da ciò fi può dedurre quanto mai bisogna stare cautelato à dichiarare pazzi coloro che non sono potendo queIti tali talvolta illuminare ancora i Savja  L'or(c) In epif. Hylani.  [ocr errors] L'ottima dunque di queste trè ftrade fi scelse Ippocrate , per acquistare la sua fortuna, e Pottenne profpera, stabi. le, ed eterna i poiche fino, che il mondo durerà, la fua fortuna ancora sarà ri. fplendente; per questa voi dunque vi dovete indirizzare le volere effere suoi veri seguaci, e questa ancor meglio la scorgerete, dapoi, ch'avrere nella Giornata di domani udita la gran deformi. tà de' vizj, ed il danno grande , che possono apportare questi al Medico, che caminasse per quella via , giacchè conto traria juxtà fe pofira magis elucefcunt ,  GIOR  [blocks in formation] Nella quale si tratta delli vizj , mostrando  quanti pregiudizi poffona apportare al Medico , e le in lui alcuni di esli pana fcufabili , almeno quelli, che sembrano Ermafroditi.  [ocr errors][merged small] Na dura , ed ardua Provincia og  gi intraprendo per voi, dovendo parlare contro la corrutela del tempi,  ' lati, e contro uno stile già invecerato , con tutto ciò bramando voi sapere da me il vero per non ingannarvi, dirò con Seneca ; (f) Quaramus quid aprime fa&tum fit, non quid ufitatissimum, & quod nos in poffeffione felicitatis eterna conftituat, non quod vulgo veritatis peffimo interpreti probatum fit.  Vorrei potcre scusare ancor io li vizj, conforme fanno quelli, che li rimirano solamente mascherati con gli abiti delle virtù à fine di consolarvi, sc  cofa  G4  [merged small][ocr errors] [ocr errors] 104 Dell'Idea del vero Medico. cosa difficile vi sembrasse mai il poteryene affatto spogliare. Per esempio ricoprono la bugia con il manto della prudenza , e dicono, ch'è prudenza di celare all'Infermi la verità, perche ciò fi fà per loro bene , acciocchè non si contristino maggiormente del male, che foffrono. Gli adulano ancora talvolta se defiderano qualche cosa , che non competa loro, con tutto, che possa molto nuocere, sotto pretesto d'aver carità, ed à fine, che vietandola non s'inquietino maggiormente, e così vanno ricoprendo molti altri vizi per renderli familiari, e meno deformi . Mà perche hò promesso di parlarvi con chiarezza, e fincerità, non potlo, nè devo adularvi. Li vizj li dovrete cenere per vizj; e le virtù per virtù : Li vizj, e le virtù le dovete considerare , come due linee p2rallele, che non possono in alcuna delle loro particombagiarli, come due contrarj diametralmente opposti, che non possono tra loro convenire; Dovete con. fiderare li vizj come mostri spaventofi ,  che  che avvelenano con l'alito chiunque ad effi fi avvicina , come dunque ardin, Tete d'accostarvi ad essi per ricoprirli?  Mà conceduto ancora , che si poteffero mai travestire, ditemi di grazia, viaggiorefte voi con una comitiva di ladroni, benche fossero travestiti in abito di gatantuomini, caminereste sicuri di non effere offesi da essi, con tutto, che fossero sì civilmente adornati a Certamente mi risponderece di nò: Tali apa punto fono li vizj, poniamoli addosso quelmanto, che volemo, e questo non facendoli mutare il loro perverfo costume, sempre vizj saranno, sempre nuoceranno di molto ; E siccome li Leoni, e le Tigri per quante carezze loro fi fac ciano mai deporranno la fierezza, cosi ancora al parere di Seneca: Vitia nun, quàm bona fide manfuefcuniş trasmutateli pure in che sembiante volete, anzi, che essendo questi travestiti , faranno de danni peggiori, perche non potendosi conoscere per vizj à prima vista, non li potranno subitamente scacciare da chiKabborrisce, onde ancora trà questi ayeriano all'ora maggior campo libero da machinare le loro infidie, ed acciocchè meglio putiare scoprire li loro tradimenti, contentatevi, che ve ne descriva qualch’uno di quelli , che nel Medico fono più decestabili, e nocivi, con pers mettermi che non servi quell'ording solito à praticara da chi tratta di esli , perche essendo fregolati non meritano di effere trattati con buon'ordine, ba. standomi solo di farvi capire la loro deformità, c quanto erano mai da Ippo, crate odiari, e creduti nocivi al vero Medico, mentre giudicò essere parte di buona Medicina il saperfi:(8) Qua faciunt ad demonftrandam incontinentiam quæftuofam, & fordidam Professionem ixexplebilem habendi fitim , cupiditatem, de traditionem, impudentiam , fiquidem iftas Spectant ad eorum cognitionem dc.e non già à fine di seguitare , må bensì di fug. gire fimili diferci. La bugia, inimica scoperta del ge  nerc (g) De decenti babita.  nere umano, come tratta li suoi fidi re. guaci & Li separa, scoperti che sono, dal publico, e privato commercio de viventi, fà, che niuno presti loro più fede, gli costituisce infami, e li pone il più delle volte in evidente pericolo di vita, facendoti publicare ciò, che non fù mai verità, e questa come si potrà scusare nel Medico in ispecie, in cui ella è reato più grave, che non è in altri Profeffori, sì di Legge, come ancora di Teologgia, e che ciò sia, veniamone alle prove, Dica una bugia il Procuratore al suo Cliento gli potrà pregiudicare nella robba, venendo talvolta à perdere mediante quella la sua lite ; La dica un Teologo, che abbia di già prevaricato, à chi è da lui diretto nello spirituale, gli farà perdere l'anima ; La dica il Medico al suo Ammalato, gli farà perdere la robba, la vita, e l'anima insieme , ed ecco l'esempio chiaro: Dica il Medico al suo Infermo, il di cui male si avanza : Lei stia di buon'animo, che la sua infer. mità non è di gran momento , li segni  non  [ocr errors] nonsono mortali , Ella guarirà , fi fidi di me, viva pure sicuro, e riposato ; mediante questa bugia l'Infermo non pensa a' casi suoi, non aggiusta le partite dell' anima, che premono tanto, non fà téItamento, non dinunzia li suoi crediti, è ripostini segreti, non accresce diligenze, acciò la sua cura sia allistita da Me. dici più esperti, si avanza tanto in un tratto nel male, che si sopisce, o sų aliena di mente, resta incapace à fare cosa alcuna di proposito, e se ne muore, ed ec  che ha perduto la vita , la robba, e l'anima ancora, se per ispeciale grazia di Dio non fù illuminato à pentirsi de' suoi peccati prima , che diveniffe incapace à poterlo fare, e questi sono trè reati nati da una sola bugia, la quale benche dete ta à fine di sollevargli lo spirito, in vece di ciò gli hà cagionato un'improvisas morte, per lui così svantaggiosa. Dis spongono le leggi, che li delitti sono maggiori, e più qualificati, quando li delinquenti ne hanno commessi numero maggiore, è della medesima fpeçie, ò  CO,  equivalenti, ficchè calcolandosi mag. gior numero di tali reati nella bugia del Medico, che in quella del Legista, e del Teologo, in conseguenza viene , che è più grave delitto la bugia nel Medi. co , che negl'altri due sopr'accennati Profeffori. In oltre se il Medico, per persuadere al suo Infermo, acciò prendesse con maggior fiducia il rimedio da lui propostogli, affermasse, che quel medesimo avesse giovato ad altrui, e ciò non fosfe vero , rincontrandosi poscia la verità, in che discredito rimarria ape preffo à cui disse tal menzogna, certo è, che non lo terria in avvenire più nel numero de' veri Medici, mà bensì di parabbolani,de' quali Ippocrate cosi disse: (h) Virtutis apud ipfos modus eft , id quod deteriùs eft, mendacii enim ftudium exercent ; e parlando de' Medici menzogneri così disse: (i) Quapropter veritate nudati, omnem improbitatem, ac ignominiam ing duunt. L'adulazione è vizio, che s'infinua  dol(h) In epiß. Domag. (i) Dedec.bablik,  dolcemente, e con galanteria , è un veleno , che fi beve fraposto con un'apparente netrare, e questa parimente nel Medico cresce in qualità di reato, posciacchè dica qualsifia altro Adulatores à taluna, ch'è deforme, non meno di aspetto, che povera di abilità.: Voi Giete una bellissima, una compitissima , egalantiffima Giovane, fiete eccellente in molte cose; nelle quali non avete chi vi fuperi ; le darà compiacimento bensi con formo suo diletto, ma non l'ucci derà ; Dica il Medico ad una sua Infer. ma, che desidera gustare un grappolo di uva: V. S. ne puol mangiare un poco , perche bisogna condescendere qualche volta al desiderio dell'Inferma , quod face pit nutrit , lo faccia pure liberamentes Se la povera adulata Inferma lo farà, non folamente vi averà compiacimento, e diletto per allora , mà poscia potrà ancora morire per tal cagione, non è quem sto caso già da me inventato, mentre si legge in Ippocrate seguito nella figlia di Eurianatte, che per aver gustata l'uvale crebbe non solo notabilmente il male, mà se ne morì, dice egligdoppo di avere narrato, che l'era sopragiunta la refrigerazione delle parti estreme il delirio: (1) Ifta autèm ut ferebant ex deguftata uva huic contigerat ; potrete dunque voi nel Medico scufare l'adulazione omicida per conciliarvi la grazia dell'Infermo ? Risponderà Ippocrate certamente di no, perche dice egli in termini precisi dell'adulazione nella regola dal vivere: (m) Is velut res horrenda vitari debety a gratia vitanda per quam unitas deperit.  E non solamente è reato gravissimo nel Medico l'adulazione in ciò, che riguarda la regola del vivere, mà ancora nel prescrivere medicamenti . V'incontrerete in molte contingenze, nelle quali gl'Infermi , ò glastanti proporranno riinedi, ed il più delle volte quegli, che non saranno à proposito, in questi casi avvertirete bcnc à non adulare il genia di chi li propose', mà doverete fare ciò, che il bisogno richiederà, e non altri  menti: (1) Epid.lib.3./46.2.egroting (in) Do pracipe.  [ocr errors][ocr errors] per adula  menti: Conforme ancora, se venendo  proposto da altri Medici ciò, che non vi  parerà essere profitcevole all'Ammala-  to, in tal caso non dovereste  zione tacere, e lasciar correre ciò, che  fù proposto da altrui , mà bcnsi con tut-  ta civiltà addurre li vostri motivi, cra-   gioni, che avete in contrario, à fine  venghino esaminati,essendo questo l'ob-  bligo de veri Medici, conforme Ippo-  crate insegnò, dicendo: (n) Qui quid-  quid do&trinâ acceperunt in medium profen   & facultate dicendi utuntur , ad gratiam comparati, & pro gloria,qua indè provenit decertare parati,doctrinam fuam ad veritatis lucem repurgantes.  Dell'Ateismo vizio esecrando non ve ne saria d'uopo parlarne , perche egli è cosi repugnante, che chi hà uso di raa gione mi pare assai difficile vi poffa in effo cadere, con tutto ciò, perche certe proposizioni, che sparse, e feminate alle volte fi ritrovano in alcuni libri, che vengono da lontani paesi, potriano alle  menti (n) De decohabitu.  runt ,  1  0  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] inenti di voi, che volete volare troppo i alto,recare qualche disturbo, non istimo  superAuo di dar loro sopra ciò qualche  luine, à fine stieno più circospette, e  cautelare, e particolarmente nel sentire  certe proposizioni dirette à ridurre le   operazioni animaftiche alla sola machi26 na, e struttura del corpo fatta dalla na  tura, con sì mirabile artificio, guarda  tevene pure da queste , perche hanno de l'ateismo nascosto, e tenete fermo, che en vi voglia sempre un primo Movente di  . ftinto, e separato dalla struttura, perche de quantunque la detta struttura fia necef.  faria alli moti interni, ed esterni , nulla-  dimeno senza il primo Moyente, che è   l'anima rationale nell'uomo , cessa ogni li moto regolato, come si scorge chiara.  mente ne' cadaveri, ne' quali con tutto,  che rimanga la mirabile struttura , sepa-       rata ch'è l'anima dal corpo iyi ogni mo-  le     to regolato finisce.   Nè solamente nel leggere ciò , che viene scritto converrà stare cautelati, e circospetti, mà ancora in quello fi sente  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] riferire intorno alle pazzie di coloro , che, per essere reputati di singolar dottrina , tralasciorono di credere ciò, che dovevano, perche non capacitava le loro meni materiali, se non ciò, che con li propri occhịrimiravano, ò palpavano con le loro mani, contro de' quali Sant' Agostino fortemente inveisce, chiamanı doli uomini di carne.  Spero dunque, che per quanto leggerete di male in questo genere , ò sentiFete dire, non diventerețe così pazzi , che vi vogliate assomigliare alle bestie , Je quali, in ciò, che riguarda il dare un minimo contrasegno interno d'eternità, punto non s'assomigliano all'uomo,mentrechi mai di effe ha saputo ritrovare il modo di scolpire, ed intagliare l'effigie brutale di alcuna della sua , ò d'altra fpecie, come seppe inventare l'industria umana? ed ancora in durissime pietre , per conservarla visibile, tale quale appunto ella fù vivente, per secoli innumcrabili? e ciò donde è proceduto ? se non da quell'interno desiderio , che  l'uo  )  [ocr errors] Puomo hà in fe fteffo d'eternità.  L'Ira è un vizio, che deforma li suoi seguaci, li quali conforme diffe un sayio Letterato, molto da me stimato, eriverito, fe questi li potessero rimirare nello specchio , allora, che sono nel suo furore, yedendosi divenuti così deformi, e trasfigurati in mostri,odierebbono,non solamente cal vizio , anziche se medesimi; Modo tenuto dalli Spartani,che per fare concepire orrore all'ubriachezzas conduccyano li loro figliuolini in certo tempo dell'anno, nel quale fi concedeva libertà d'ubriacarsi, in luogo publico , affinche questi vedessero , che deformę spettacolo cagionava tal vizio, per concepirne in avvenire di esso maggior spavento . Voi dunque per meglio apprendere à che segno dobbiate tenere lontana da voi l'ira, non accaderà velo moftri con parole , essendo di maggior efficacia , che rimiriate con li vostri propri occhi , in chi si trova adirato, più al vivo una tale, c tanta deformità, giacchè:  H 2Segnius irritant animos demiffa per  aures  [ocr errors] Quàm quæ funt oculis subiecta fide  "libus, E così comprenderete meglio ancora , se tal vizio sia tollerabile nel Medico, che deve avere sempre l'animo compofto , conforme comanda Ippocrate de Medico : Eum quoque spect are oportet, ut animi temperantiam excolat, non taciturnitate folùm , verùm etiam reliquâ totius vita moderatione , quod ad illi comparandam gloriam plurimum affert adjumenti ; e più chiaramente, ancora lo comanda in altro luogo, (a) dove dice: Ne quid perturbato animo facias ; Ed è la cagione appunto di ciò, perchè il Medico, che deve invigilare con somma attenzione alle cure de' suoi Infermi, non deve avere la mente turbata, per poter meglio discernere li partiti megliori, e più profittevoli, che dovrà prendere à prò de fuoi Malati, ed à tale effetto Ippocrate comanda, che sia incombenza del Medi  co (a] Inlib de decora.  co il sedare litumulti, ordinandoli ef pressamente:(6) Tumultus verbis caftiges, G ad omnia fubminiftrandi te prome  ptum adhibeas.  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Converrà però prima in voi medesimi se mai foste dall'ira predominati, che sediate li vostri interni cumuli, per poter muovere più facilmente glaltri con il vostro buon'esempio ad imitarvi.  Mà vi sono alcuni Iracondi, che credono essere cosa nociva alla salute il ceprimere in un subito li loro primi moti, onde per tal cagione lasciano termin nare il loro corso : Mà quanto questi s'ingannino lo fà vedere Ippocrate con dire :(c) Ira contrabit , cor, pulmonem in fe ipsa, din caput, & calida , bumidum; il qual testo Vallesio così la spiega : Ira eft furor fanguinis circa cor c. hinc  fit ut fervente Sanguine,cor , pulmo , & caput calefcant , & repleantur. Nimirùm fanguis fervore tumet, & venas, arteriasque tumefacit, fed ob vebementem calorem, qui illis in locis eft, co contrabitur  ubi[b] Dodec.hab. [c] 6.Epid.fe5.4.,  [merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] H 3  ubique fanguis. Undè fit, ut multis ob iram oculi, du vene frontis intumefcant, & tota facies rubore suffundarur , eo tempora pulfent , & caput doleat , quin do febris fuu perveniat . Si persuadono dunque questi, che gl'accennari danni che cagiona l'Ira à parti sì principali, sia più vantaggio di pazientarli, che di rimuoverli?  Onde non dovrete in conto alcuno farvi dominare dalla collera, e non solamente per quello che riguarda la buona direzione della cura, mà ancora li vostri proprj avanzamenti, stanteche quel povero Infermo pur troppo annojato dal suo male , avvedutofi, che ancor voi gli accrefcere moleftia, adirandovi per ogni piccola cagionc,se ne disfarà facilmente per non potervi più soffrire.  La Superbia nella Medicina à che segno sia deforme riflettetelo in Menecrate Medico, che insuperbito forfe per effergli alcune piccole cure riuscite felici, ed ayer sentito dire, che Esculapio, in quei tempi rozzi per tal cagione fù annoverato trà Dei, egli volendolo su  pe  [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][merged small] perare, scrivendo ad Agesilao Ř è de Spartani ; pose nella soprascritta : Ager filao Regi Menecrates Juppitèr ; gli calzò bene però la risposta, che gli fù data da quel saggio Rè in tal guisa : Menecrati Medico Agefilaus Rex mentis fanitatem; nè fù ciò sufficiente per reprimnere la sua superbia , mentre riferisce Leone Sansio, (d) che : Eo furoris in hoc genere delatus eft , ut quofcumque liberaffet à morbo jurejurando anté sanitatem rcceptam adıētos , Jecum deindè benevalentes adduceretistatis temporibus tamquam  fervos; atquè jatellites, eâ tamen lege, ut alius quidèm Herculis insignibus indutus ; alius Apollinis babitum gerens ; alius Mercurii perfonam fuftinens , alius aliumi mutatus in Deum, Menecratem, utpote Jovem Optimum Maäimum Dii minorum gentium sequerentur. Onde converrà, che la teniate lontana da voi , per non essere stimati pazzi, e maggiormente quando vi troverete nell' auge delle vostre prosperità , perche allora la superbia molto vi potria nuocere,  fc [d] In Florid.9.prafat.  [merged small][merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small] H 4  se foste da efla dominati, allora vi sforzeria à distaccarvi dalli vostri più antichi, e cari amici, solamente perche vi conobbero prima, che le vostre fortune incomincialfero : E pafferia ancora più oltre allora il suo ardire, fe ella potesse dominaryi à suo modo, meiltre vi faria prendere tal compiacimento di tutte le vostre, sì grandi, che picciole opere, come se fossero singolari, e da niun'altro fattibili à quella perfezzione, che voi fatte l'avrete, senza permettervi punto d'indugiare å formarne concetto, con forine far fi deve delle cose proprie , almeno fino a tanto, che dal tempo fiano tolte dalle mani dell'Adulazione, e pofte in quelle della libera sincerità, à fines che doppo averle ben confiderate dia loro il suo giusto valore, secondo il quale , e forse meno deve stimare le cores proprie, chi si trova in prosperità di fortuna , per goder egli il favore dell'adulazione. Onde in tutti gli stati , e maggiormente in quello di prosperità, nel quale sarete più oiservati da tutti doveteseguitare l'ottimo conseglio d'Ippocrate , (e) che dice : Medicum urbanitater quamdam fibi adjunétam babere convenit, affinche possiate effere da tutti tenuti cortesi, umani , e senza superbia.  La defiftimazione, ed il disprezzo del compagno è un vizio dependente dalla superbia, onde develi dal vero Me dico abborrire, al parere d'Ippocrare: Ne superbus , do inhumanus videatur ; E tanto più , che deve essere d'animo modesto, e cemperato , di ottimi coitumi, umano, e giusto, conforme egli giudicò nel libro de Medico : E se il Si. gnore diede à voi maggior talento degl' altri vostri compagni, perche nel coufronto, che ne fate, in vece di ringraziarlo, mostrate più tolto di biasimarlo, con dire, che difetraffe in non fare uguale à voi chi è d'inferiore capacità di voi, potendo il disprezzato rispondervi : Ipfe fecit nos, & non ipfi nos; Dunque, che colpa è la mia 2 E non avendo voi ragione da dotervene meco, prendeteveland  con Tel Dedec.org.  [ocr errors] con chi mi hà fatto ; sicchè fuggire pure   fimil vizio, che può ancora paffare più   oltre,inentre da quel disprezzo,da quel-  la disistimazione nascendone il discredi-   to del vostro compagno, chi sà, che non  vi facessero divenire pessimi Medici, fer-  vendovi di caloccasione per procurare  qualche servigio di colui, che fù da voi  posto in discredito? Olère di che;chi fos-  te mai di simile viziosa natura disprez-  zeria ancora bene spesso quelli piccoli  mali, che in breviffimo tempo possono  divenire giganti con non piccolo disca-  pito della sua esistimazione.        Qando mai potessero fcufarsi, che  non credo , in alcrui li vizj spettanti alla  gola, che sono la crapula, e l'ubriachez-  za , nel Medico sempre faranno molto  condannati, perche dovendo egli gior-  nalmente opporsi a' defideri depravati  de' suoi Infermi, con ordinar foro las  dieta, come mai potrà persuadergliela,  se non gli darà egli buon'esempio? Fa-  cendo più profitto questo di qualunque  ragione, al parere di Seneca, che vuole,   che  [ocr errors] 1  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] 20  che (f) Longum iter eft per præcepta, bre  ve, & efficax per exempla. E se poi de' la vostri disordini ne fossero stati spettatori in li vostri Infermi, come mai potreste per  fuader loro il contrario, di ciò, che voi seco faceste? Se volete dunque essere ub  bediti fiate fobri, e tali certamente dooi vrete essere, se non vorrete essere peg{ giori de' bruti stessi, perche conforme  riferisce Ippocrate:(g) Sitit quidem Aper, oli sed quantum aquæ appetit, Lupus vero di.  laniato quod Je se obtulit necesario alimento, quiescit; Mà quando tutto ciò non vi bastasse vi doveria far abborrire que fti vizj la sola rifellione, che questi poffono ó abbreviarvi la vita, ò per la meno  rendervela penosa, fino, che viverete. co  Non essendovi cosa nel mondo più nociva della Lussuria, chi potrà mai scue farla negl’uomini, quando, che la vedianio sì moderata , e sì ben' regolata dal solo istinto di natura in quasi tutte le bestie prive dell'uso di ragione , alla riserva folainente di alcune poche , trà  quali (f) Epift.6. [5] In cpif.Demag:  [ocr errors][ocr errors] ti  [ocr errors] quali vi sono quelle , che più s'assomis gliano all'uomo, che sono li Scimiotti, e Gatti mamoni, rare volte li bruti à confusione de' sensuali fi  veggono  do. minati da detto vizio, se non sono proffimi à quei tempi destinati dalla natura, per la moltiplicazione della loro fpecie, solamente il Lussurioso è più brutale di effi , che non ha in ciò  hà in ciò tempo determinato, essendo in ogni tempo dominato dal suo vizio, che lo consuma , & annichila, conforme riferisce Ippocrate : (b) Ep annorum quidem temporum ordo terminus eft brutis ad choitum, at homo perpetuò insano libidinis aftrostimulatur.  Qual'estro infano di libidine faria più , che in altri detestabile nel Medico, fe non lo sapeffe reprimere con la sua continenza , posciacchè dovendo egli giornalmente conversare con donne conforme avverti l'istesso Ippocrate:() Et omni horâ mulieribus , virginibus illi occurrunt; Sicchè Iddio guardi, ch'egli non corrispondesse con tutta fedeltà à  quella (h) In epift.Damage (i)  De doc.ork  [ocr errors] per ca.  quella somma confidenza , à cui  gione della sua profeflione; viene am-  meslo, diverria ogni suo trascorso reato  gravillimo, sì proprio, che della pro-  fellione isteffa , talınente, che l'innocen-  te Medicina ancora ne faria calunniaca.  Onde voi, che desiderate far molti pro-  grelli in essa , dovrete vivere lontani, e  detestare simil vizio ; Altrimenti perde-  reste ogni speranza di fare un minimo  progresso in effa ; Converrà dunque,che  fedelmente offerviate il seguente giura-  mento d'Ippocrate : Juro &c.fed castam,  bu ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm  ætatem meam perpetuò præftabo.   Ecercamente, che non dovrete fare diversamente, sì per li vostri avanzamenti, che per profitto delli vostri Infermi, mentreche, come mai potreste applicare con attenzione alli vostri vantaggi, alle cure de' vostri Infermi, se le vostre menti in quel tempo divagassero altrove, e fossero distratte in linili oba brobriosi pensieri ? Confido dunque,che con la vostra prudenza, e temperanza  [ocr errors][merged small] nonnon sarete per cadere in simili reati , che sono detestati da putti, per essere mancamenti commessi in mestiere di buona fede, conforme è la Medicina,  L'Ingratitudine è vizio ancor esso detestabile, per essere aborrito ancora dalle fiere, essendosi osservata tal’una di esse aver usata gratitudine al suo benefattore ; mà questa sarebbe ancora più detestabile, se nella Medicina seguisse , che lo Scolare si mostrasse ingrato al suo Maestro, mostreria certamente, è una natura molto perversa, ò di aver perduto l'uso di ragione, mentre qual gratitudine mai potria egli sperare, che non l'usò à cui tanto era tenuto, quali progrefli mai potria fare, allontanandosi da chi gli porge la mano per sollevarlo, e promoverlo? Credo,che un simile yizio, Ò Giovani generosi farà sempre lontano dalle vostre menti, conforme deve stare dalla mente di chi spera divenire Maestro, per il motivo di non aver à ricevere il fimile contracambio da' suoi Scolari, che stimolati dal suo mal'esempio faria  facile  facile loro riuscissero essi ancora ingrati.  Quindi è, chę Ippocrate per esimere li  suoi Şcolarida un fimile obbrobriofo ar-  tentato gli faceva obligare con poliza  e promettere con giuramento le seguenti  cose: Juro , & ex fcripto Spondeo planè  obfervaturum, Præceptorem quidem , qui  me hanc artem edocuit , Parentum loco ha-   biturum , eique cùm ad viftum, tùm etiàm  ad usum neceffaria , grato animo communi-  çaturum, & fuppeditaturum, ejusque poftea   ros apud me eodem loco   9.quo germanos fratres, eofque, libanc artem addifcere volent,absque mercede, fyngraphâ edoctu  [ocr errors][ocr errors][merged small] rum &c.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Da un'altra poco inferiore ingratie tudine spero vi guarderete voi, che ambite avanzarvi per la via delle virtù , & è, che se sarete da qualche vostro come pagno fatti chiamare à dar consiglio, ò in loro assenza sostituiti à curare tal* uno de' suoi Malati , non tramerete contro loro insidie , per subentrare in sua vece , stanteche tal’enorme ingratitudia ne, non è usata, fe non da quelli, che sono ignoranti, e che diffidano per la buona via delle virtù potersi avanzare ; e per tal cagione si servono di quella del vizio ; Onde con ragione consigliava Ippocrate al Medico à non prevalersi delli Softituti ignoranti , ftanteche de’loro errori ne resta debitore colui, che li propone, in questo caso però non ne re, steria punto debitore, poiche pagheria il mancamento commesso con la sua elpulfionc , & affinche non abbiate da ri, cevere fimile ingratitudine v'iinpegnerete quanto meno potrete di promovere ignoranti, e maliziosi ,  34 0  fono  e  €  L'Invidia, che per lo più proviene dalla mancanza di ciò, che fi desidera, è da altri si vede possedere , come la po. trere seguitare senza condannare voi stesi inabili à potere conseguire ciò, che bramate , avendolo potuto ottenere un' altro vostro compagno, questa non vi avyedete, che vi fà dichiarare da voi medesimi da poco, e codardi ? Onde impiegherete aflai meglio tutto quel tenipo,e pensieri,che malamente li spregano  [ocr errors][ocr errors] in invidiare il bene altrui, con cercare di conseguire ciò, che desiderate , per le sue yie proprie, & oneste, e credetemi, che questo vizio non regna se non negli animi vili, e codardi , trà quali voi, che avete abilità, e spirito vi dovete vergognare di esservi annoverati,e tanto maggiormente, che questi viziofi furono da Democrito giudicati ancora stupidi, ed ignoranti,allorche ad Ippocrate disse:(a) Et certè fufpicor pleraque in Arte tuâ aut per invidiam, aut per ingratitudinem palàm contumeliâ affici ; & in appresso dice , Cum fint ignorantes , quod melius eft dama nant , calculoruin enim fuffragia stupidis attribuuntur, nequè ægrotantes fimùl ap  probare volent, neque ejusdem Artis focii bi teftimonio confirmare , cùm invidia obfter  Gr. Veritatis enim nulla eft cognitio, nei què teftimonii confirmatio,  Ed è certamente cosa assai difficile, i che li seguaci di simil vizio poffino con  tenersi nel semplice desiderio di ciò, che da essi è invidiato, senza passar più oltre  [ocr errors] ne  (a) In epift.Damaget.  in procurarlo ancora , e con modi ignominiofi, anziche si serviranno talvolta della calunnia, e dell'inganno, per confeguirlo, e vi pare, che simili maniere fiano degne del vero Medico rationale ? Quando Ippocrate (b) giurò, che : Medicum ratione utentem, alterum numquàm invidiosa calumniaturum? Mà che siano modi praticati solamente da quelli, che Forensem quæftum fectantur , trà quali non faria convenevole, che voi fofte annoverati.  Mà acciocchè possiate mantenervi lontani da simile obbrobrioso yizio, sarà necessario, che vi dia alcuni utili avver. timenti, che sono: Vedendo yoi avanzare qualche vostro compagno nellinegozj,è cosa nacurale,che fentiate dentro di voi un certo stimolo, che incomincicrà da principio a farvi contriftare,e questo sarà appunto il primo seme, che insinuerà dentro di yoi l'invidia per farvi divenire suoi seguaci, di questo, affinche efla non trionfi di voi, è servitevene disprone per avanzarvi ancor voi, con   imitarlo, se il detto vostro compagno  opererà conforme si deve, ò di remora,  fe vedrete , ch'egli si avanza per la via  del vizio, ed in tal caso, con riflettere  solamente, che à voi non conviene d'in-  vidiare ciò, ch'è disdicevole al vostro  onore, detto seme verrà in un tratto di-  Itrutto. In oltre sappiate, che non do-  vete rimirare solamente l'efteriore com-  parla, che fà il vostro compagno, mà  ancora dovrete rillettere à quanti disag-  gi, che talvolta soffrirà egli per effajalle  fatiche eccellive,all'inquietitudini grane  di, alla scarsezza del tempo, ch'egli hàg  che gli toglierà ancora il riposo necessa-  rio, le quali cose se tutte le rifletterete ,  certamente in vece d'invidiarlo , più  tosto lo compatirete, e direte con Vir-  gilio :    Non equidem invideo miror magis.   A tempo di Seneca vi era un certo vizio vagabondo, chiamato da lui Core curfatio, che necessitava li suoi scguaci andar girando continuamente per las  I 2  Città  [ocr errors][ocr errors] Città allo sproposito cercando li negozi senza aver prima determinato nella loro mente quali, mà solamente quei, che à ventura si presentavano loro d'avanti, e questo tal vizio lo descrive  per  un'inquieta dapocaggine, un perdimento di tempo, con non altro profitto,che d'una certa stanchezza di corpo,acquittata per tanto girare ora in quà , ora in là.  Galeno, conforine egli riferisce nel principio del suo merodo , fù da alcuni di quelli, che pareva, che l'anassero più degl'altri , stimolato fortemente à seguitare questo vizio, dicendogli, che se non tralasciava d'essere tanto indagatore del vero, e non si accomodava allo stile di quel tempo, d'andar girando tutta la mattina, à visitare per complimento li Signori, e la sera d'andare à cenare seco, non saria stato amato, nè averia contratto le loro amicizie, riferendolo appunto in tal guisa : Me verò ex iis , qui me unicè diligere funt visi, nonnulli fæpè increpant , quòd plus justo veritatis studia Jim addiétus , quafi nec mibi ipfi ufui , niec  ipfis  [ocr errors] [merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors]  ipfis in totâ vità fim futurus , nifi, & ab   hoc tanto veritatis indagande studio defi-  ftam, da manè salutando circumeam ,   vefperi apud potentes cænem. His enim   artibus tum amari , tùm amicitias conci-   liari, tùm verò pro artificibus haberi &c.   Ed in tanto non volle egli condescende-   re à farlo, perche la giudicò per cofa   impropria di chi era seguace di ottimo   Maestro, soggiugnendo in appresso da-   poi averne commendato alcuni di que-   fti : At horum nemo , nèc mane potentium  fores ipfos falutaturus , nè vefperi cænatu-  rus frequentabat , fed ficut Hefiodus cer,  cinit :     Namque alium ditem cernens cui deeft,     quod agatur :  Ipfe folum vertit tauris, & semina        ponit.  Onde fuggirete ancora voi simile vizio,  se desiderate d'essere veri seguaci d'Ip-  pocrate.       La Pertinacia, e lo spirito di con-  tradizzione sono due difetti nel Medico  di sommo rimarço, e non si possono per   con  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] I 3  conto alcuno in lui scusare ; se vi contaminasse mai il primo, vi costituirebbe ignoranti, cogliendovi quella bella proprierà, che hanno li Dotti, ch'è : Sapientis eft mutare confilium ; vi faria anche di peggio,che vi costituirebbe simili alle bestie, perche farebbe divenire ancor voi incapaci di ragione , e perciò venendo esclusi dal commercio degl'uomini savj cosa fareste infectaci di simile vizio? Se poi, che Iddio je me liberi fofte invali da quel 'cattivo spirito di contradizzione y guai alli vostri Infermi, perche venendo loro proposto da altri ciò, che si deve, e voi non volendo, che fi eseguisse , mà più tosto in vece di quello , altra cosa contraria, come anderebbe l'a cura facendosi à vostro modo, se foste ancora pertinaci? Ippocrate insegnò à questo propofito ciò che si debba Fare, e che ne risulti di male facendosi diversamentc , & è:(0) Neque fanè indecorum fuerit fi Medicus in rei præfentis anguftiâ , circà agrum verfaturz imperitiæ etiam tenebris circumfufus , alios quoque accerfiri jubeat, quo communi confilio , que in rem agri sunt disquirantur, & illi ad præfidiorum facultatem operas fuas confoTint; e cosa ne seguirà seregneranno trà di essi questi vizj? De eo munimini ambitiosè contendere, se ipfos ludibrio exponere, Sicchè voi , che sperate divenire veri Medici Ippocratici, vi converrà tenere lontani da voi tali vizj, che tanto vi potriano pregiudicare.  etiam [C] Hipp.præcept.  L'Avarizia fù talmente odiata da Ippocrate, che se avesse potuto l'averia del tutto sbandita dal mondo, poiche scrivendo à Crateva erbario famofiffimo de' suoi tempi, così appunto gli manifeftò il suo desiderio : Quod si Crateurs amaram pecuniæ cupiditatis radicem excindere poffis , ut nulla ejus reliquia extent, hoc probè teneto, quod unâ cum hominum corporibus , etiàm malè affeétos purgaremus, fed hæc quidem in votis habenda : Tanto scrisse Ippocrate, con tuttoche non gli fossero ancora giunti à notizia li documenti di Demnocrito , cheportandosi poscia alla sua cura in Abdera da lui medesimo sentì , trà quali vi fù questo contro l'avarizia: (d) Quinàm enim Leo aurum defolium in terrum abdidit? Quinàm Taurus , alienum ufurpandi cupiditate , ad prælium impetu quodam delarus eft &c. e con ragione così esclamava Democrito scorgendo l'uomo caduto in tal vizio peggiore de'bruti.  Quanto mai cresca la deformità dell'ayarizia in chi è avanzato negl'anni sentitelo da Cicerone:(6) Avaritia senilis vituperanda eft maximè : Poteft enim quidquañ effe abfurdius , quàm quo minus via restat , eò plus viatici quærere?  Mà più d'ogn'altro la saria obbrobriosa nel Medico , perche essendo stato da Ippocrate dichiarato fimil vizio per male più grave della pazzia, cgli farà tenuto non solo di crederlo tale, mà ancora di medicarlo, onde se in vece di far ciò lo procurasse, ecustodisse in femedesimo con diletto , in qual trascorso egli incorreria? E certamente più grave,  e me  [d] inefiß.Damag. [e] In Cat,Maior.  [blocks in formation] e meno scusabile faria, che in ogn'altro, per non aver egli apprezzato li documenti d'un tanto Maestro, che sono li seguenti: (f) Miserabilis sanè eft humana vita , quòd ad eam totam intolerabilis are genti cupiditas, velut hybernus flatus pervaferit, ad quem morbum infania graviarem curandum , utinàm Medici umnes potiùs concurrerent. E lo dimostra in termini precisi altrove , () dove così saggiamente consiglia : Neque verò exigenda mercedis cupiditate duci oportet, nifi ut ad artem edifcendam tuos inftruas , fuadeoque nè in eo inhumanitèr nimis te geras, fed & opum affluentiam, & facultates refo picias, interdùm gratis cures , itaùt memoris gratitudinis potiorem,quàm præfentis existimationis rationem habeas. Quòd fi thofpiti, vel egeno largiendi occafio se te offerat his , vel maximè fuccurrendum eft. Qui enim erga homines humanum fe exhibuerit, is artis amore teneri censetur. Cofa dirà l'Avaro , & altri viziosi leggendo, tanti ottimi consigli, dati loro da Ippo  crate? [f] In epif. Senar. Abderit. [5] Inlibede prai:  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] crate 2 Mi persuado; che quello appunto , che diffe Quinto Pecilio Pretore Urbano, riferito da Livio, allorche ebbe terto li libri di Numa Pompilio, che erano stati tanti secoli sepolti : Se fe eos in ignem coniecturum , perche , dos legi, fervarique non oportere; e questo perched non per altro, perche egli era Pretore, e non gli compliva, che altri sapessero , che molte cofe, ch'egli faceva erano mal fatte , poiche que' libri altro non contenevano, che di rimuovere ciò, che non era ben fatto, e ciò, ch'era sommamente pregiudiziale al popolo, trattandosi in quelli De diffoluendis falfis religionibus.  Questo vizio certamente non farà scusato da chi è di mente sana , nè da chi ben riflette à quanti disaggi mai soggiacino li miseri Avari senza potersi sapere ad utile di chi lo faccino. In beneficio proprio certamente che nò, poiche non altro, che travagli ne ricavano dal cumulare, che fanno ; A prò degli Eredi 2 nè tampoco, perche se potessero immaginarsi , che gli Eredi volessero  go  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] godere con ispendere liberamente, priveriano fubitamente dell'eredità, fic. che di questi solamence Padrone ne rimarrà l'avarizia , inentre per sodisfarla esi cumulano , c questa , che ne farà di tanti avanzi ? facilmente non sapenda servirsene li consegnerà al lusso, affinche disipandoli in un tratto ne impingui altri Avari.  Ippocrate odiava il lusso grandemente, à segno , che compose un libro contro di effo, ch'è appunto quello De Decenti ornatu , nel quale non solamente incarica à Medici di fuggirlo , mà dà ancora per cagione del lusso il modo di distinguere li veri Medici da Parabolani, de quali ultimi parlando, così dice: Si enim conventu facto ambitiofa, e quem fuofâ fuâ profeffione decipientes in urbium circulis verfantur, Quos ex veftitu , cum cæteris ornamentis, quis cognofcere poterit, quin etiam quò fumptuofiùs ornati fuerint , cà majori odio adversandi , ab eis, qui eos confpexerint , fugiendi ; dove de veri, e buoni Medici cosi ne parla : Quia  bus  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] bus non ineft exquisitus, nequè cariofus ornatus, qui fe fe excultus venuftate, cu frugalitate, non tam ad fuperfluam curiofitatem,quàm ad optimam existimationem, prudentiam, e animi moderationem compararunt , ad inceflum verò eo femper sunt habitu ; Sicchè dal Medico seguace d'Ippocrate devesi fuggire il lusso per quanto gli preme la propria riputazione ; certe mode straniere, e galanti non gli competono , come si legge (b): Peregrie nus cultus immodicus calumniam tibi com. parabit .  Tiberio s'ingannò, allorche propoftofi in Senato di proibire il gran luffo di quei tempi, essendo egli di sentimento contrario, persuadendoli, che in lasciarlo correre à briglia sciolta, da se medefimo si faria stancato, e perciò disse : Nos pudor , divites satietas, pauperes egestas in meliùs mutet; qual vergogna ne' suoi {moderati succeffori punto non si mirò mentre in Nerone si vidde à che segno s'inoltrasse il lufto. Mi persuado però,ch'egli si volesse ingannare per altro fine   politico, mentreche girandosi dal lusso  continuamente la ruota della fortuna ,  gli compliva più di vedere tante muta.  zioni di stato ne' suoi sudditi, che disau.  torato chi li cagionava, e tanto mag-   giormente che avendo questo vizio un  dominio tirannico s'uniformava al suo  governo . Tiraneggia per verità il luffo  li suoi seguaci , mentre l'impoverisce  e vuole eliggere da tutti gradimento di  quanto male fà loro. Ordina , che dalla  Persia , e dall'Indie sia trasportato un  drappo non più veduto , forza li suoi sem  guaci à prenderlo ad ogni maggior co-  ito, e fà, che oltre il gran dispendio  ringrazjno quel Perfiano, quell'Indiano  ancora, che lo portò, perche appagò il  loro desiderio , li quali ne resteranno fa-  cilmente ammirati, non meno di quello  ne rimanesse Tacito , allorche li Romani  per abbassare gl’animi dell’Inglesi, li fe-  cero assuefare à molti costumi loro, e da   essi non più praticati, e l'appresero per  foimo favore , mà ben se ne ayvide Ta-   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] cito del fine, che in ciò si aveva dicendo: (i) Que humanitas cenfebatur, cùm efet Species fervitutis.  L'Infedeltà, e Fellonia sono vizi confederati, e detestabili in ogni qualità di Persone, mà più d'ogn'altro nel Medico, posciache ogn'uno ciò, che ha di più prezioso, che sono la vita, e l'onore glielo fida; Onde se csso mancaffe, à cui gli prestò tanta fede, che gastigo mai li potrebbe trovare de' maggiori, che lo potesse punire à bastanza , avendo commesso un reato di fimil forta, un mancamento di buona fede ? Sicchè odiateli pure simili vizj esecrandi, conforme l'abborriya Ippocrate, non volendo insegnare la Medicina à chi non aveva giurato prima sù tutte le Deità ciò,che segue, cioè: (1) Nequè cujusquam precibus adducturus , alicui medicamentum letale propinabo , neque hujus rei author cro , nequè simili ratione mulieri pellum subdititium ad fætum corrumpendum exhi  bebo,  (i) In Vita Agricola.  11) In lurejuri Hippocr.   [ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] bebo, fed caftam, ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm diatem meam perpetuò præftabo . Sicchè con ragione, e con giusti motivi verrà escluso chi mai in fimili vizj cadesse dall'effer vero Media co, e degno seguace d'Ippocrate,  Non è piccolo difetto nel Medico l'essere troppo curioso di quelle cose , che non fanno al suo mestiere, conforme tra l'altre sono li fatti domestici de' suoi Infermi; onde da tal vizio ye ne dovre. te aftenere,perche tal curiosità vi potria tenere distratti da quel negozio, à cui dovete principalmente applicare, ch'è il ben dirigere le cure de vostri Infermi, come y'astringe il giurainéro d'Ippocrate,ch'è questo:In quafcumque domos ingrediar , ob utilitatem Ægrotuntium intrabo.  Mà di più di questa ancora può efa fere viziosa la troppa curiosità delle cose moderne, e peregrine, e particolarmente ne' Medici giovani, che non pofsedono ancora la Mcdicina à quellas perfezzione , che fi richiede ; onde da questo vizio v'asterrete , sì perche vi fa  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] ria divagare inutilmente in cose, che ancora dal tempo non sono state ben digerite , come ancora vi terria lontani da ciò, che farà necessario di fare, cioè d'impossessarvi bene di quanto è stato da molti secoli confermato, à segno, che diverreste periti nelle novità incerte, rimanendo inesperti nell'accertate da lungo tempo , quali poscia sentendole vi giugneranno nuove ,. sopra di che mi riporto à ciò, che disli nella secondas Giornata , nella quale mostrai, come vi dovrete regolare per divenire Medici. Solo ora vi foggiugno quello, che à questo proposito ne dice Ippocrate, ed affinche meglio discerniate tutto il vizioso, per tenerlo lontano da voi: (m) Multæ namque ad ambitiofam quamdam operam comparat& videntur , ea videlicet , qua de nulla re utili quaftiones agitant ; E quali siano le cose utili nella Medicina, lo spiega in appresso soggiugnendo : Priusquàm verò ad Ægrum ingrediaris , fac cognitum habeas quid agendum fet ;.  ple(m) De dec.org.  che  pleraque enim non ratiocinatione , fed au» dia  xilio indigent : E se ciò non fosse chiaro ida  à sufficienza passiamo al libro De Fractua cioè  ris, dove parlando de' Medici , qui sao da  pientiam fibi falsò arrogant , così chiaracha mente dice : Verùm enimverò multa hoc stil modo hac in arte æftimari folent. Quod la enim peregrinum eft , nèc dùm conftat an en utile fit, confueto, quod jam norunt utile  elle anteponunt , quodque ab ufu communi day abhorret ei, quod eft probè cognitum ; e non evi vi sia discaro di sentire quanto mai à ci proposito redarguisce Ippocrate coloro, ei che vanno cercando le belle idee : (a)  ei Hujufmodi igitur , ubi præellem non tàm de vi curandi ratione cum illis conferrem, verùm, m ut auxilium ferrent audactèr peterem : Veo d. nuste enim cognitionis intelligentia apud eito istos Sparfa eft , cum igitur , bi ex necesitait; te indocti existant, eos ad utilem exercitaci- tionem cohortor, ubi prçceptorum cognitione .: deftituuntur.  L'Ozio padre di tutti li vizj, se non t; lo terrete lontano da voi, vi potria farperdere tutto ciò, che di buono aveste mai acquistato; Egli è capace di farvi nauseare le virtù , d'arrestarvi nel mezo della vostra carriera, d'abbatęrvilo spișito , e finalmente di trasfigurarvi in quella mostruosa figura, che più sarà di suo genio, e sențite appunto, come ne parla Ippocrate di questo pessimo vizio: (b) Quod enim otiofum eft , nilque agit ad improbitatem viam affectat, ad eamque rendit ; Talmente che per divenire voi yeri Mcdici, dovrete fuggir l'ozio , deftruttore d'ogni yostro bene; c per ciò farç, vi dovrete ancora astenere dalle frequenti musiche, dalli ridotti de' Novellifti, e da altri consimili divertimenti, ne? quali non si puol'acquistare altro, che dį pascere inutilmente la curiosità, ed il proprio genio , e ciò con ragione fi puol giudicare tempo perduto, perche profitto alcuno da essi non se ne ricava.  Gran infortunio sarebbe della Me. dicina, quando v'entraffe la Malizia à corteggiarla, avendo questa già impa  rato  (h) Dedecenti babits,  [ocr errors] rato adimitare tutte le bạone virtù con finzioni soprafine , ed in che guisa, ne parleremo più diffusamente in appresso; Solamente ora vi avvertirò, che se tal?  uno di yoi reftasse mai inferrato da fimi31 le vizio diyerrebbe subito uniforme à 1 quei Medici descritti da Ippocrace :(9)  Qui quidem Perfonarum, quæ in Tragediis producyntur maximè fimiles esse videntur ;  mentrechę farebbe tante comparse difi ferenti, quante gliene dettasse la sua madi lizia nelle congiunture à lei opportune , ci mà come termineria la tragedia lo moAd stra Ippocrate chiaramente doppo aver N avvertito, che Orium , ignavia mali  tiam quærunt, soggiugnendo: (d) Hi enim - Sunt, qui fora frequentant , ruditate, ac Ti infcitia sua imponentes, & circulis Civita  tum verfantes ; Talmente che per non cheffer yoi posti nel numero di Parabolani  necessariamente vi converrà fuggire , afe e detestare fimil vizio . Il timore, e l'ardire , con tuttoche K 2  sem-  (c) In Hippocratis lege.  (d) Hippoer.de dec. habitu.   [ocr errors][ocr errors] 2.  [ocr errors] sembrino trà di loro contrarj, nulladimeno vengono molto biasimati da Ippocrate nel Medico, dichiarandoli in lui per segni viziosi d'ignoranza, dicendo egli : (e) At verò imperitia malus eft thefaurus , malaque opes reconditæ iis, qui ram tùm opinione ipfi, tùm revera possident fecuritaris animi, du lætitiæ expers, timiditatis, & audaciæ nutrix; Ac timiditas quidem impotentiam , Audacia verò artis ignorationem arguit. Perloche non di potrete nè segúitare, nè scusare, nè anco sotto lpecie nel primo di circospezzione, e nel secondo di spirito, perche diversi sono trà loro il timore, e la circofpezzione, l'ardire, e lo spirito . Il timore vi farà perdere l'occasione pronta , che vi si presenterà di operare per non faperla voi conoscere, ma non già la circospezzione, che nasce dal poffe dere molto bene ogni danno , ed ogni profitto, che ne poffino risultare da ciò, che voi farete, onde questa vi renderà folamente per breve tempo irresoluti,  e fino (e) Hipp Text.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] e fino a tanto, che averete bilanciato il bene, & il male, e conosciuto, ch'avrete quale delli due prevalga , sarete prontissimi esecutori di quanto avrete deliberato. L'ardire poi per essere temerario vi porterà con violenza ad operare , onde non vi farà diftinguere quando ve ne dobbiate servire , dove, che lo spirito , che vi rende perspicaci, & accorti, Ve. lo farà ben capire , quando fia tempo. opportuno di farlo, conforme egregiamente avverti Ippocrate : (f) Temeraria namquè proclivitas, do promptitudo,quam. vis valdè fit utilis, despectui eft , at confiderandum quando bis uti liceat.  L'Odio è un vizio, che trà li maggiori può divenire il primo, quando fi stenda fino alli ultimi confini della sua iniquità, cioè alli benefizj ricevuti, pafsando allora à quell'esecrando reato , che solamente trà gl'uomini regna, esfendone le bestie più fiere esenti, conforme da tanti esempj registrari nello Istorie si può comprendere, & in ispecie  di (f) In lib.de Medica  [merged small][ocr errors][merged small] K 3  [ocr errors] [ocr errors] di quel fiero Leone , che nell'Anfiteatro Romano il' véce di divorare il suo Beriefattore condannato ivi ad bestias, lo difese dalla violenza delle altfc, mà quellos che si rende più considerabile, si è, che alle volte' , quanto č maggiore il benefizio, tanto più viene perseguitato dall'odio, giacchè al parere di Tacito: (g) Beneficia coʻusquè leta sunt , dùm videntur exfolvi poffe, ubi multum antevenere pro gratia odium redditur; Darebbe l'animo à voi non dico di seguitare' vizio sì obbrobrioso, e ripugnante' ad ogni  in il pretesto del naturale di chi lo segue , inclinato a farlo, per non potersi moderare. Senticenc però prima d'impegnarvi à ciò, cosa ne diffe ad Ippocrate, quel grand’amatore della giustizia Democrito:(b) Plerique' verò quæ natur& hoc adSéribentes Benefactorem odio' habent, co parům abeft ut indignè ferant fi debitores effe puténtur , fed eu pleriquè artis ignorantiam in se ipfis habeotes, a imperiti  (g) Annal. lib.4. [h]. Epiß. ad Damageexiftentes, id quod meliùs eft purgant intero   stupidus enim fiant suffragia. Talche il   solo sospetto d'essere infetti da un fimile   vizio, vi renderia incapaci per sempre   di quanto voi bramate conseguire.  Quanto mai sia difficile d'esprimere  tutte le trame dell'ingarinoz ed impostu-  ra, sentitelo riferire da Ippocrate in tal  guisa : (i) Difficile eft multorum malorum  machinatricem folertiam verbis exprime-  re, cum eorum fit infinitas quædami din  bis cum dolofis conimentis prava mente in-  ter le conversentur; apud eos autèm virtu-  tis modus habetur , quod eft deteriùs; men-  dacia enim amant, do in bis fe exercent,   voluptatis ftudium extollunt; legibus mini-  me parentes a   Certamente che meglio non fi poteva da Ippocrate esprimere l'inganno vizio tanto diletto da' maližiofi Impostori, mentre da questi li modi più improprj, che si praticano sono credati per loro virtù , nè fi seguita da efi altro studio, che della menzogna, nè fi atten  de (i) In epist.Domaget.  [merged small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] K 4  1.  avendo  de ad altro, che à piaceri, e diversi-  menti, fenz'alcun timore di gastigo. Le  tristizie di costoro non si pofsono mai   à bastanza esprimere, stanteche, fingen-  dosi questi Mcdicis con modi improprj.  accreditano li loro medicamenti , non   punto di rossore ne di servirsi di testimoni corrotti, che con menzogna: attestino il gran giovamento, che das quelli ne ricevettero con tuttoche non se ne fossero mai prevaluti, nè di ripromettere ne' mali incurabili quella certa salute, che non è in potere de' Medici,  , quantunque espertislimi , il farla conseguire ; In oltre giudicano graviffimi, e inortali tutti quei mali, benche di sua natura leggieri , purche rechino aglo Infermi qualche apprensione, affinche credano questi esfere stati mediante la. loro virtù risanati , e d'avantaggio , per non essere riconvenuti d'aver errato ne? pronostici, parlano con doppio linguag. gio , à tal’uno diranno, che quel tale Ammalato deve necessariamente morife,& ad altri, che deve infallantemente  mie  [ocr errors] rllanare, per avere pronto si nell'ano, che nell'altro evento chi contesti la loro, fimulata perizia in sapere ben prevedere gl’esiti de' mali; Milantano in oltre costoro i loro grand’arcani, con i quali fi vantano d'avere refuscitato molti, già fatti spediti da Medici. Solamente dico. no con verità, che in mano loro niuno. muoja, perche ridotti che li hanno in: pessimo stato di salute, abandonano li loro Infermi, non potendoli più lusingare con le solite false speranze di salute, de' quali prima fi servivano per ifmugnere le loro borse. Per inantenersi poi in creditozli pongono forto alte protezioni, e sfuggono d'incontrarsi con Medici dotti, ed esperti, non porendo ftare à fronte con chi ben sa discoprire la loro ignoranza . Al divino Ippocrate furono note alcune di queste verità, mentre egli (1) così ne parla : Qui igitus in ignorantia profundo fubmerfi funt , ij prædicta ( cioè l'operare con ingenuità) minimè percipiunt , cum Medici nomine iz  digni [] Intib.præcepat  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] 'digni re ipfà comprobent ; quàm repente  evetti fint , fortune tamén egentes per die  vites quofdam ex anguftiis emergunt viri-  que es éventu nominis celebritatem adepti  &c. ed in appreffo : Qui certè ad curatio-  nem non accedunt ; ubi vident miserabilcm  effe affectionem, c ejulatibus plenam, alio-  rum-Medicorum congreffum fugiunt; e in  altro luogo: (m) Qui igitur eos reprébena  dunt qui viltis à morbo manus non admo-  vent , non minùs adhortantur ad ea fufci-  pienda , quæ attingere fas non eft ; quàm  que fas eft , in eoque apud eos qui nomine  tenus Medici sunt admirationem fibi conci-  liant , ab artis verò peritis ridentur.   Mà crescerebbe più oltre ancora l'iniquità di costoro, quando ; che unisfcro alle loro male arci l'ippocrisiaj conforme che più volte si è osservato' ins ral'uno di essi,che postosi adosso un'abito di fimulata penitenza, e' čutto umile con li seguenti artificj procurava di maggiormente accreditarli. Introdotto, ch'egli era clandestinamente in qualche  cura  (m) in lib.de Arte,  čura, doppo di aver fatte molie insolite, ed affetrate offervazioni intorno all'Ammalato, cosi incominciava à parlare : Io coinpatisco infinitamente li Signori Medici, che lo curano s perche questo è un male'assai oscuro , e difficile à ben curarsi, non essendo ciò da cutti, fin qui scorgo , che hanno fatto tutto quello , che sapevano", nè io drdisco di biasimare ciò, che fino ad ora harino fatto, perche quest'abito ; che porto in doffo non mi permette di dir male del mio prosimo, nè di togliere la riputazione à Profeffori cotanto accreditatie tanto maggiormente, che quando anche non foffe ftato fatto a fuo' dovere ciò, che si è fatto sin’ora', non siamo più in tempo d'impedirlo, dico bene , che io peccherei mortalmente, se non' dicelli libera.. mente ciò, che debbasi fatie in avvenire, questo male à conto mio và curato in tal guisa : Primieramente gli si devono dare i tali, e tali' rimedi , e dipoi develi fare in questo modo, e ac fi opererà diversamente, io mi protesto che questo poveroInfermo se ne morirà quanto prima ; e lo.   vedrete con vostro cordoglio. É fe tal  uno degli astanti più prudente lo prega-  va d'abboccarsi con li Medici della cura,  à fine di comunicar loro questi suoi sen-  timenti, ei ricusava tal congresso, con  pretesto , ch'essendo odiato da tutti li  Medici per la sua ingenuità, e dottrina  non fariano mai condescesi à quanto di  buono egli avesse proposto, onde , che  reputava non solamente superduo tale  abboccamento , må ancora non pratica-  bile da un suo pari, che deve,per l'umil-  tà, che profetava, effere injinico delle  difcordie; onde avessero pure fatto ciò,  che ad esli pareva , e piaceva , bastando-   gli d'aver accennato il gran pericolo, ed  il modo insieme più sicuro da sfuggirlo  per mera carità di giovare à quel povero  Infermo così aggravato , non già per in-  teresse alcuno, da cui egli n'era lonta-  nisiino. Infinite confusioni cagionarono  simili parole pietose in più cure , stante-  che tal’uno de' più creduli, che vi si tro-  vorno presenti, diffe : Sentiste , con che   [merged small][ocr errors] modestia parlava quel sant'Uomo, se non fosse così scrupolofo, oh quanti errorici averia discoperti, commesli da' noftri Medici ignoranti in questa cura ! Si vede però, ch'egli intende, perche hà fatto certe osservazioni particolari intorno all'Ammalato, che non le abbiamo vedute fare da' noftri Medici. Ed altri di più consigliavano à licenziare tutti li Medici per farlo curare da esso folo, per-. fuadendofi, ch'egli l'averia certamente guarito . Quali danni ne riportino li poveri Infermi da costoro, che Medicorum congreffum fugiunt,gli espresse assai bene, e con pochissime parole Ippocrate nel sopracitato libro , dicendo ivi; Ægroti verò dolore conflictati in utrâque improbia tate natant ; cioè in quella dell'ignoranza, e dell'inganno di simili viziosi Impostori.  Quello però, che reca non ordinaria meraviglia si è, che il popolo più volte caduto à dar fede à fimili viziosi Impostori con danno notabile, & evidente della propria falute ritorna di bel  nuo  nuovo a creder loro , & à restarne insieme nuovamente deluso, conforme ancora che con tutto abbiano questi nociuto à molti, niuno contro di essi dell'offesi ne fà risentimento , e la cagione di ciò / non puol'essere altra, che godono questi quel vantaggio, che hanno le donne di mala vita, da cui ne s'allontanano molti, che da esse furono danneggiati, nè alcuno contro di esse ne fà rilentimento proporzionato al male ricevuto', e ciò cre. do, che segua sì nell'uņo, che nell'altro caso,per la vergogna,che ogn’uno di essi hà di manifestarsi con atto publico per imprudéte, onde perciò pazienta,e ţaçe.  E finalmente se per disaventura un fimile yizio contaminafle mai il Media co dotto, ma politico, oh quanti danni ancor peggiori di questi apporteria à molti, posciacchè inestandosi al ben radicato sapere l'inganno , e l'impostura , che frutti velenosi mai produrrią unas fimile pianta ? e nocenda questi senza effere creduti nocivi, non solamente trà l'idioti , mà ancora trå li più cautelati,  e cir.  )  )  e circospetti troveriano lo smaltimento, c per non diffondermi più oltrc, dirò solamente che il Medico dorco, e politico, quando che fosse divenuto Impostore, avendo egli perduto la sua ingenuità diverrebbe allora non solamente tiranno de' suoi Infermi, facendo loro arţificiosamente credere , che da esso depende lą loro falute, anziche la vita isteffa , e che non poțriano nè pure un momento di più yiyere, quando si allontanassero dal suo consiglio,& ajuto,mà ancora di tutti gli altri Professori ingenui , potendoli conculcare à suo piacere per prevalersi egli delle frodi somminiftrategli dall'inganno, alle quali non potendo contraporre le proprieşper esserneprivi,conviene loro cedere , per non sapersene schermire, giacchè Års luditur Arte. Fuggite dunque yoi, che ambite di mantenervi ingenui, e divenire veți Medici fimil vizio, e voi, à cui specta d'invigilare alla publica salute.  Non tantum tollerate nefas hanc tole lite peftem.  Ded [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Del miserabile vizio dell’Ignoranza poco sarà d'uopo parlarne, sì perche vi è già nota la sua deformità, sì ancora perche vi vedo incaminati à gran passi per la strada della sapienza,solamente vi riferirò per vostra consälazione, affinche prestamente ne diveniate veri possessori di questa, ciò, che Ippocrace à questo proposito insegnò, con una bella somi  glianza , & è: (n) Non alitèr enim ac Miniftri , & Miniftræ in domibus tumultuantes, ac ceriantes , fi quando de repente eis hera adfuerit, attoniti conquiefcunt , fimilitèr etiàm reliqua animi cupiditates malorum, hominibus funt administre, at ubi fapientia in conspectum fe dederit, tanquàm mancipia reliqui affe&tus difcedunt. Insegna parimente Ippocrate nell'iscoprire li seguaci di tal vizio il modo da conoscere li Medici ignoranti, mà di ciò non devo parlarne, perche il mio fine è diretto à detestare li vizj , fenza andar cercando li viziosi. Non però tacere devo il gran danno, che questi apportanoalla povera Medicina riferito da Ippocrate irel principio della sua legge in tal guisa : Omnium profectò artium Medicina nobilisfima, verùm propter eorum , qui eam exercent ignorantiam c. omnibus artibus iàm longè inferior habetur .  Finalmente con la Maledicenza terminerò io ancora di dir male de vizji questa è un vizio assai incivile, perche opera sempre contro li buoni costumi, e contro la civiltà , questa certamente non si dovrà seguitare da voi, venendovi da Ippocrate tanto proibita nel libro : De Medico, che in tal guisa incomincia: Hoc fcripto Medico imperamus, eo dicimus, dove tra l'altre cose, che coinanda vi sono le seguenti: Ut animi temperantiam excolat , non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquâ totius vitæ moderatione , bom nis, ac honeftis fit moribus, & æquus in omni vitæ confuetudine fe præftare debeat ; Le quali cose come le potrete osservare, essendo maledici ? Ed affinchè meglio comprendiate quanto il ben moriggerato Ippocrate odiasse questo vizio, passia  L  mo  [ocr errors] mo à rillettere ciò, ch'egli dice nel libro  De Arte , il quale comincia così : Non  nulli turpitèr in sectandis artibus artifi.  cium suum collocant , neque id, quod facere  Se credunt meo quidem judicio obrinent , sed    Jue scientia oftentationem faciunt aci E  poi soggiugne : Qui verò ea, quæ ab aliis  sunt inventä inhoneftorum verborum arti-  ficia contaminare contendit , nequè quida  quàm corrigit,   fed à peritis inventa, apud imperitos traduçit . Is fanè prudentice exiftimationem tueri velle non videtur , fed potiùs naturam fuam, aùt ignoratiam nem malitiosè prodere : Solis enim artium ignaris, hoc opus competit, qui ambitiofiùs quidem contendunt , neque tamen improbie tate suâ ullo modo præftare poffunt, ut aliorum opera, vel recta calumnientur , vel non recta repræhendant : Eos igitur , qui in alias artes hoc modo invadunt,coerceant, fi poffint , quibus hæc cura eft, quorumque id intereft. Vedete voi à che segno odiava il divino Ippocrate li maledici, che voleya , che fossero ristretti , essendo indegni di convivere tra uomini di ono.  re  [ocr errors] [ocr errors] re. Crederei, che quanto hà detto cosi chiaramente , & al propoliço Ippocrate vi pofsa bastare per odiare un limil vizio, e tanto maggiormente se rifletterete, che quanto voi direte di male degli altri, altri ancora ne potranno dire di voi , ficchè parlate bene degl'altri, Ò tacete  Țacerò ancor Ia per non nausearvi di vantaggio nel descrivervi la laidezza di tutti gl'altri vizj, sperando , che ciò, che vì hò detto di questi pochi,pofsa baftare, per farvi prendere odio a tutti gli altri, ed à quel segno , che li viziofi lo porteranno facilmente alle virtù, qual? odio pero spererei, che in un subbito deponessero į viziosi , se spogliati per pochi momenti d'ogni loro difetto, si aboccaflero insieme con effe, allora cofa disebbono sentiamolo da Seneca; (a) Quidquid opravi inimicorum execrationem puto ; Quidquid timui Dii boni quantò melius fuit , quàm quod concupivi cum multis inimicitias gefi, & in gratiam ex odio res  L 2  dii (a) De Vita beata cap.2.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] dii buc. quid aliud quàm telis me opposui dc.  Avere inteso come parlerebbero bene li viziosi se avessero la forte dili berarsi da? loro difetti solamente per breve tempo, approfittatevene dunque voi, giacchè per sempre, se vorrete, potrete effere di mente capaci di conoTcere la loro deformità, e fuggirla. Mà quando mai credeste per cosa molto difficile di potervene affatto spogliare, fate almeno, che con le vostre virtù vi si fra. meschi solamente tanto di vizioso, quanto communemente si tollera nell'oro di lega bassa , c non più , che non arriva ad avvilirlo, nè à fargli perdere il suo vago Splendore.  Passerò ora alla seconda parte per esaminare se li vizj ermafroditi si possino alıneno tollerare nel Medico.  Per vìzio ermafrodito intendo quello, che dalla malizia , e dall'inganno viene talmente trasmutato in virtù, che difficilmente si potrà discernere, se prima non si scoprono le sue parti vergognose,  che  و  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] che fino ad ora non hanno sapuco, ne  potuto ricoprire. Sia per esempio, se la malizia,e l'in-   ganno vogliono , sono capaci di trasfi-   gurare così bene la superbia in umiltà,   l'iniquità in zelo di giustizia , che diffi,   cilmente senza l'ajuto del disinganno ,   che scopre le loro vergogne , li potranno   distinguere. Nel prino caso si serviran-   no facilmente de' seguenti artificj. Da-   rete à suo tempo voi un'opera alla luce,   ò vi riuscirà felice la cura di un male  grave, è cosa facile, che ne abbiate del  compiacimento interno, e questo avvan-  zandosi più del dovere, è facile ancora,  che palli à farvene qualche poco insu-  perbire, di quell'opera, di quella bella  cura, cosa faranno la malizia, e l'ingan-  no per farvene affatto insuperbire ? Ri.  copriranno la piccola vostra superbian  con il manto dell'umiltà , & in congiun-  tura, che sentirà lodarvi gl'insinueranno  in tal guisa à rispondere : Questo non so-  no cose degne di lode, sono bagattelle,  non meritano d'essere lodare da un Vir: L3 tuofo suo pari, sono parsi di un debbole ingegno ; Chi sentirà si limili risposte resterà sorpreso da üná tanta umiltà, ed állora maggiormente s’infervorirà dilo darvi, entrerà nelli meriti della causazed allora appunto avranno compito il loro negozio,in farvi maggiormente insuperbire, che cosa converrà fare per iscoprire le vergogne alla in ascherata superbia , per conoscere se quella umiltà sia stata vera ; ò fimulata; bisognerà ricorrere al disinganno, che la scopra. Aspetterà questi facilmente la congiuntura proposito, & in vece di lodaryi dirà tutto quello, che la finta yostra umiltà aveva già detto di voi, con qualche par, ticolarità di più, che sarà vera , sì perche il disinganno non mentisce; sì ancora perche i chi è capace d'insuperbirli, non essendo di gran prudenzaś può in qualche cosa trascorrere ; Allora sentendosi la superbia toccata sul vivo lacererà in un tratto il bel manto dell? umiltà, e da se medesima mostrerà le fue vergogne rispondendo : Come ! non  fono  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] ز  sono cose degne di lode? sono parti di  un debbole ingegno sono bagáttelle?  sono tutte cose d'eterna memoria ; voi  non le capice, perche liete un'ignorantë.  Che ne dite ? questa è quell'umiltà, che  una volta parlava così bene; è forse scu-  sabbile nel Medico avendo questa un  naturale si fraudolento? Mi persuado ,  che ora, che la conoscere ; non la scuse-  rete, anzi la biasimerete più costo. Nel secondo caso se venisse in pen-   siero à tal’uno, che Iddio non voglia, di   promovere al servigio d'un'Ipocondria-   co da lui curato qualche suo amorevole,   mà dovendosi rimovere chi attualmente  lo serve, e competencemente bene, sen-   za l'ajuto della malizia, e dell'inganno.».  non si poiria ciò effettuare. Questi cacci-   vi vizi per servirlo, che cosa faranno ?   procureranno di vestire l'iniquità con   abito di zelo di giustizia, e che diča à   quell'Ippocondriaco, ch'è vero, che   viene servito bene da quel suo Ministro,  mà che premendogli tanto la sua salute,   il suo zelo, & il suo obligo richiedono   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] gli procuri sempre li suoi vantaggi, ed in ispecie trattandosi di propria salute, e di salute, che gli premetanto, per 12 conservazione della quale il Signor Tale foggetto nel suo mestiere unico, che non hà pari, saria veramente à propofito , mà non per questo è dovere di far perdere il pane à chi lo ferve, si dice solamente, che lo sappia , che vi è chi lo servirebbe assai meglio, caso che capitasse mai congiuntura ; Fatti, che hà l'iniquità questi projetti ad un'Ippocondriaco, che non brama altro, che vivere, con tutto quel di più di male, che sentirà dire  per altre  vie di quel povero galantuomo, che lo   serve,procurate da chi vuole lubentrare;  Credete voi, che non si effettuerà fimile  tentativo dall'iniquità? Forse prima di  otto giorni farà espugnata la Piazza,  perche tanto si batterà, che si farà brec-  cia, e vi si porrà dentro, e di sì bella  impresa ne trionferà la sola iniquicà. Voglio, che sia vero , che il  Ato ne sia capace, má vediamo un poco  se il fine è stato retto, e se il zelo digiu-   stizia  1  che il propo  [ocr errors] [ocr errors][merged small] stizia ne fù egli il primo motore? Chi avrà procurato simile ingiustizia , certainente, che non sarà molto eccellente nel suo mestiere, perche chi è tale, è ancora giusto , e prudente, dunque ve ne saranno de' più esperti di lui. Ciò supposto procuriamo, che il disinganno ne faccia le sue diligenze, e questo facil. mente farà infinuare al sudetto Ippocondriaco, che giacchè hà megliorato nella mutazione di quel suo Ministro, procuri ancora di mutare il Medico , e ne trovi un'altro megliore di quello, che ha presentemente, e piacendogli tal'insinuazione, cd effettuandola, cosa dirà colui, quando si vedrà fuori del servigio? fi lamenterà forsi del torto, che gli ha fatto, avendolo tanto tempo ben servito ? mà di chi si lamenterà? dovrà dolersi di se medesimo, perche gli è stata fatta quell' ifteffa giustizia , ch'esso hà procurato foffe fatta altrui; Dà dunque a conoscere chi operò in questo modo, che non ebbe per fine il zelo di giustizia , perche questo non gli è piacciuto, mà forse ne  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ebbe  [ocr errors][ocr errors] ebbe qualchedun'altro di quelli, che low no chiamati secondi fini, cosa ne dite voi di questo vizio ermafrodito & vi pare di poterlo scusare nel Medico; e se ve ne fofreche non credo ; tal’uno trá efi to scusereste forse ? Io per me lo scuserei nella forma appunto , che diffe di fimili viziofi Democrito ad Ippocrate: (b) Cum igitur tot indigenas; e miferas ánimas videamus quomodò eorum vitam ejusmodi intemperantja deditam ludibrio. non bao beamus 2  Molte altre frodi,tramåte dalla malizia, e dall'inganno potrei orá riferirvij fe non dubitäsli, palesate; che fosseros che tal’uno ( di voi non dico , che siete di ottima inclinazione ) sentendole riferire se ne potesse abusare; onde in ciò procurerò con Tacito più tosto Artem oblivionis , quàm memoria.  Avete già udito la gran deformità de' vizj, il danno, che apportano a'suoi seguaci, ed il non doverfi seguitare ; nè fcufare in conto alcuno , che possonofervirvi di motivi efficacissimi per tenerli lontani da vois purche non si siano di già radicati ne' vostri cuori, nel qual caso faria necessaria la gran Medicina proposta da Ippocrate per isvellere affatto li vizj, ch'è la seguente: (C) Equidem omnes animi morbos vehemences(che sono appunto i vizj) insanias reputo ; cùm opiniones quasdam, da vifa rationi fufcitant, ex quibus fanéscit s qui per virtutem repurgatur.Preparerò dunque per la Giornata di domani la sudetta Mediciija,dalla quale se ne avrete bisogno rimàrrete certamente sanatis casos che nò, preservati almeno da fimili infezioni, in avvenire . Venite tucci, che vi aspetto con desiderio ; perche sarà Giornata di molto profitto quella , in cui si parla delle virtù.  [ocr errors][merged small] [blocks in formation] Nella quale.  fi discorre dell'acquisto delle virtà, e del bene , che apportano al vero Medico , e se alcuna di effe  fi poffa in lui cenfurare  non  Vanto mai sia infelice, e miferabile  la condizione umana,lo dimostra.  110 non solamente li vizj,mà anca. ra le virtù, posciacchè li primi,che tanto nuocono, spontaneamente in noi germogliano, e le seconde, che sono così utili,  senza reiterare fatiche, & una lun. ga , & industriosa coltura si acquistano. Appena nasce l'uomo, che in lui subitamente l'ignoranza si manifesta, e quel primo vagito , che dà n'è il primo contrafegno , mentre non ne sà ancora il perche egli lo faccia : Cresce, ela malizia fi scopre, l'ira, e la gola si manifestano ; S'inoltra nella gioventù , e la lussuria si risente, e di mano in mano , che gl’anni fi avanzano, li vizj tutti un  dop  [ocr errors][ocr errors] doppo l'altro fi veggono germogliare;  Con ragione dunque disse Democrito :  (d) Totus homo ab ipfo ortu morbus eft ;  e ne assegna la cagione : Talis enim ex  materno cruore Sanie permixto promicuit  Infelice , e miserabile dunque condizio  ne umana, che per fare acquisto di ciò,  che l'è nocivo, punto non hà d'affaticar-  si, perche spontaneamente li vizj li fan-  no possessori di noi, essendo concepiti,  e nascendo con noi medesimi, e questa  è la cagione, perche erunt vitia donec  homines, dove, che per ottenere ciò ,  ch'è di nostro sommo bene dupplicate  fatiche si ricercano; La prima delle quali  consiste nello svellere da noi le tanto im-  poffeffate radici de vizj, e l'altra d'an-  dare à poco à poco introducendo in sua  vece li semi delle virtù, e ciò non basta,  perche conviene ancora di cuftodirli  fino à tanto, che siano assicurate bene le  loro radici, per non essere dove sono se,  mentari suolo nativo. E perche ò lante  virtù spontaneamente ancor voi, ccon   quel(d) In epi.2.Damaget.  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small][merged small]  quella medesima facilità non germoglia.. te in noi per renderci felici? Conosco, che voi fiere un'attributo divino, ma non per questo, vi dovęte tanto sdegnare di unirvi con noi, che siamo creati ad im. magine, e fimilitudine di Dio, conosco ancora, che per ricevervi li richiede abitazione espurgara da ogni iminondezza, pura, e proporzionata à voi, e se per questa cagione voi state lontane da noi, la colpa non sarà la vostra, mà bensì di noi medesimi, che siamo quelli, che vi impediamo l'ingresso, e che ritardiamo si gloriofe conquiste, che ci possono rendere beati, con trascurare ciò, che voi richiedete  Oggi sì, che voglio far prova di voi per conoscere à che segno liano gli animi vostri generosi, e se avere ancora acquistato l'uso di ragione , potendo, se vorrete, ciò che si trova d'infelice in voi commutarlo in prosperità, e ciò, ch'è disgrazia in fortuna: Accingetevi pure, se ne sarete sprovisti, all'acquisto delle belle virtù, se ambite divenire Semidei,  dicendo apertamente Ippocrate, (e) ches Medicus Philofophus Deo &qualis habetur ; e cosa voglia intendere per Medici Filosofi lo spiega divinamente in appresso, cioè quelli, che habent , quç faciunt ad demonstrandam incontinentiam, quatuoSam, ac sordidam profefionem, inexplebilem habendi fitim , cupiditatem , detraa &tionem, impudentiam ; che sono per l'appunto quelli, che seguirano le virtù , ed hanno in abbominazione li vizj.  Sbandito dunque , che avrete da voi ogni vizioso inquinamento, e perciò renduti più capaci dell'acquisto delle eroiche virtù, proporrò in primo luogo ciò, che concerne alla Religione, come quella, ch'è la suprema di tutte le virtù, & ancora la loro base fondamentale, in cui sono appoggiate tutte le altre.  La Religione quanto debba essere àc  cuore al Medico, sentitelo da Ippocrate: (f) Hactenus igitur cum sapientia, communionem , eorumque etiàm plurima habet Medicus, nam & Deorum cognition  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] дет  (C, &f) Hippode $65.0TMnem ipfe potiffimùm animo complectitur , cumque aliis in affe&tibus , & casibus Medicina multum Deos colere comperitur duc. e tutto ciò lo afferisce dapoi di avere insegnato, che nella Medicina vi era ancora: Superftitiofi metus aversatio preAantia Divina . E non solamente à benefizio vostro ciò converrà , che facciate , mà ancora à prò de' vostri Infermi, perche venendo ogni bene dal Cielo , nelle vostre più gravi, e pericolose cure converrà , che non vi fidiate della vostra fola perizia, mà ancora, che supplichiate Dio, che vi assista con la sua santa grazia à bene indirizzarle; qual pio sentimento si ritrova ancora descritto in Ippocrate, e dato à coloro, che disprezzando gli ajuti Divini , fi raffidavano solamente ne' loro incantesimi, à cui cosi parlò risentitamente; (8) Quos contrafacerc decuerat, facra facere nimirùm , & precari , ad Templa deducere, Diis fupplicare ; e sotto dice: Maxima ergò, fceleratisima peccata Deus expiat , dapu  rificat (g) De morbo facro..  rificat tuteláque noftrâ existit ; e non imitando voi la gran pietà di tanto Maestro come potrete essere annoverati trà suoi seguaci ?  A questa viene in seguela la Prudenza , la quale è una virtù al parere di Democrito riferito da Ippocrate, che non solamente fà conoscere, e bene distinguere il prasente, mà ancora fà prevedere il futuro: (a) At folus hominis sensus recta intelligentia eminùs splendescens. Quod præfens , & futurum eft prævidet; E questa è quella, che toglie ogni confufione, e libera da qualunque pericolo chi la poisede : Qui enim hæc ipsa prudenti cogitatione difponunt , ii & facilè liberantur , meum risum fubleuant ; E questa non si può ottenere senza prima rimovere da noi tutti quei vizj, che prevertono la nostra mente, trà quali li principali sono l'ira , la superbia , l'avarizia , l'invidia, e l'inganno, li quali sono tutti capaci di farla prevaricare, e renduta che sarà per la mancanza di  M  que(a) Epist. ad Damag.  [ocr errors] questi quieta, e tranquilla , la Prudenza con maggior facilità si potrà acquistare.  Senza questa bella virtù, regolatrice di tutte le buone operazioni, non pensate di potere esercitare la Medicina, perche come vi potrete regolare senza effa , allorche v'incontrerete in Maláci indiscreti, e disobbedienti, in mali simulati, in controversie con altri Profeffori, ed in tanti altri emergenti, che vi possono giornalmente accadere, in quali laberinti vi trovereste? in quante confufioni, se non aveste la scorta della Prudenza, quali inquietudini provereste se foste privi di sì bella virtù ? (6) Non poteft effe vita jucunda, à qui abfit Prudentia , come disle Cicerone; Cni possiede detta virtù hà quanto di buono poffa mai desiderare, ftanteche (c) Nullum Numen abest fi fit Prudentia.  Quindi è, che Ippocrate fino, che visse non solamente fi fece regolare in tutte le fue operazioni da questa virtù, come nelle sue memorie si scorge, mà consiglia li suoi seguaci , e comanda loro insieme à non discostarsi punto dal suo patrocinio, insegnando ancora il modo per acquistarla, conforme da moltislimi suoi documenti potrete comprendere , de' quali ve ne riferirò quei soli, che sono registrati nel libro De decenii habitu , dove doppo aver descritto il vestire positivo del Medico accreditato, soggiugne : Qui se fe, ex cultus venuftate , frugalitate, non tàm ad fuperfluam curiofitatem , quàm ad optimam existimationem, prudentiam, e animi moderationem compararunt; e passando à ciò, che deve provedersi di necessario  con(b) 5.Tufculon. (c) Juven.fat.10  per  il suo mestiere , lo avvertisce, che sia prudente in farlo, altrimenti : Horum penuria mentis inopiam, at detrimentum affert ; Vuole anco in appreffo, che usi prudenza in prevedere ciò, che può avere di bisogno j'Infermo, che non operi con animo turbato, che sedi le confusioni, e li tumulti, che sgridi l'Infermi disobbedienti,l'intimorisca , mà insieme con prudenza, che Blandè eos excipiendo, consoletur , confor  [ocr errors][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] me ancora, che avverta di non li prevalere di Sostituti imperiti, affinche de' loro mancamenti non resti esso debbitore, e quelli , che opereranno in tal guisa cosa acquisteranno? Gloriam tùm apud majores, tùm apud pofteros fibi comparabunt; e finalmente insegna il modo di conseguire con facilità la sudetta virtù, soggiugnendo : Qui etfi non multarum rerum cognitionem habent , earum tamen ufis afliduo prudentiam affequuntur .  Apprendercla dunque ora, che fapete il modo facile per conseguirla , caso,che non ne foste proveduti à sufficiene za , per imitarlo anco in questa.  La Giustizia, una delle altre virtù principali confifte, al parere di Galeno , di dare à ciascheduno ciò, che gli compete: (d) Naturæ iustitiam in eo confiftere, ut quod unicuique competit distribuat ; E. questa non la potrete acquistare, se da voi non terrete lontana l'iniquità, con turti li suoi vizj feguaci, che sono le passioni, l'adulazione, ed altri, che operano tutto il contrario di ciò, che alla   Giustizia piace. Il bene, che apporta  detta virtù è dupplicato, perche non fo-  lamente benefica chi la riceve , mà an-  cora, chi l'esercita; chi la riceve ottiene  tutto quello , che deve desiderare, e  conseguire, e chi l'esercita non puoles-  sere censurato à ragione, perche le sue  operazioni saranno sempre regolare con  giustizia, e tutta quella giustizia, che  si fà , si riceve ancora da altrui, in ciò ,  che riguarda gli proprj avanzamenti  ftanteche (e ) Fundamentum perpetud coe  mendationis, famæ eft juftitia, fine qua  nihil effe poteft laudabile. Meritamente  dunque compete al giusto di fiorire co-  me la Palma : Juftus ut palma florebit,  perche conforme la Palma quanto è più  caricata di grave peso, tanto maggiore  mente sormonta , così ancora il giusto,  quanto più fi procura deprimerlo, tanto  maggiormente viene inalzato.        Questa eroica virtù non solamente  viene incaricata da Ippocrate al Medico   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] M 3  con  (e) Cicero i.de Offic.  con precetti, dicendoli : (f) Æquum autem in omni vitæ confuetudine se preo ftare debet ; e ne assegna la ragione, fog. giugnendo: Cum omnibus in rebus multum fit in justitia præfidii; mà ancora fù da lui medesimo seguitata, conforme in tutte le sue memorie si può rincontrare, trà quali per non dilungarmi, riferirò solaméte ciò,che si legge in una lettera da lui scritta al Senato di Abdera, nella quale dicc à tal proposito : Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluiflem viri Abderita , nè decem quidem talentorum gratiâ ad vos venirem , fed ad Perfarum Regem proficifcerer , ubi Urbes tote opibus humanis refertiffime occurrissent; e ne assegna la cagione, perche ei non lo fece foggiugnendo: Regias autèm opes ignominia mihi futuras, opulentiam Patria inimicam reportaffem, quibus circumaffuens Urbium Grecia deftructor exifterem ; Antepofe dunque Ippocrate à sì confiderabiliffimi proprj vantaggi il publico bene, fù dunqu'egli perciò disinteressarissimo,e come  tale (t) De Medico.  [ocr errors] tale fece conolcere à che segno amava la giustizia, non potendolo chi veramente l'ama con prove più demostrative far costare, che con quelle dell'essere di. finteressato.  Custodire dunque la Giustizia co. me pupilla delli vostri occhi , perche questa è quella , che vi può rendere feli. ci, non potendoyi mancare cosa alcuna, quando la vostra mente sia giusta, come viene espresso in due versi esametri scol. piti sopra la Porta Romana di Marino mia Patria, Feudo Nobile dell'Eccellentiffima Casa Colonna, che sono: Hic tibi tuta quies, do que cupit odia  virtus. Defisietquè nihil, fo mens non deficit  equa ,  Infeparabile dalla Giustizia deve effere la Fortezza, pofciacchè non sempre li potrebbe eseguire ciò, che la prima dispone senza l'autorità della seconda. Ippocrate diede la legge conforme fi avevano da regolare gl'Infermi,mà ordinò ancora al Medico fuo Esecutore,  che  M 4  che in caso di trasgressione de' suoi Malati fi armasse di fortezza per farla eseguire : (8) Eumque à fuis cupiditatibus deterreat, bu fimul quidèm cum amaru- , lentiâ vehementèr increpet . E questas virtù come s’acquista ? con togliere da noi ogni timore, ogni pufillanimità, con invigorire lo spirito, e rendere l'animo pronto, & obbediente ad eseguire ciò, che li viene dalla discrera Giustizia ordinato'.  Doppio bene parimente ne nasce mediante la sudetta virtù ; Il primo è , che sono sicuri gl'Infermi curati da chi è giusto di non essere adulati, ponendosi da essi in esecuzione tutto ciò, che loro compéte, e non di vantaggio, e l'altro è, che chi la possiede ne riceve stima , erispetto,ponendo in sogezzione coloro, con quali si tratta .  Örnatevi dunque voi ancora di quefra neceffaria virtù, dovendo nelle occorrcoze resistere alli'defiderj dopravaci de voftriInfermi, male avvezziin sanità  ز  [ocr errors] à cra  (5) Hippode decenti ornatu ,  [merged small][merged small][ocr errors] * crapulare giornaliente , e dovendo  opporvi à ciò, che fuor di proposito ver-  rà motivato dagli aftanti, come potreste  resistere, se non foste armati di fortezza,  e costanza , neceffariamente caderefte  nell'adulazione con danno sì della loro  Calute', che della vostra riputazione ;  oltre di che con pochi contradittori vi  abbatterete , perche conoscendovi di  quell'animo descritco da Orazio ;   Juftum ; tenacem propofito virum.  Non Civium ardor prava jubentium, Nec vultus instantis T yramni: Mente quatit.  Per loro quiete più di uno vi lascierà  stare senza recarvi moleftia .   La Temperanza è quella virtù, che frena li noftri (moderati desiderj, e li restrigne dentro i limiti dell'onesto , e ci rende finalmente padroni di comandare à noi stessi ; Quindi è, che Democrito, fiinproverando coloro, che hanno defiderj smoderati , (h) disse : Et cùm multis dominare velint , fibi ipfos imperare ne  queunt : (3) Hipp. epif.Damag,queunt ; Senza questa bella virtù nelle maggiori prosperità non si puol godere di quelle e Alessandro il Grandes appena ebbe notizia, che vi erano più mondi, che subitamente si concristòs e perdette tutto quel contento, che forli aveva ris cavato dalle coniquifte di più Regni , perche gli crebbe subitamente il delide, rio ambizioso di fare maggiori progrefli.  Come s’acquisti questa virtù linsegno Seneca s ( b ) con dire : Sani erimus , cu modica concupifcemur, fi unusquisque se  numeret , metiatur fimul corpus , fciatquè hec multùm capere, nec diù pode ; Nihil tamen æquè tibi profuerit ad temperantiam omnium rerum, quàm frequens cogitatio brevis avi, a bujus incerti, quidquid facies refpice ad mortem ; Octima Media cina, e degna veramente di quel gran Morale per moderare i nostri sfrenati desiderj. E con ottimi sentimenti ancora si ritrova registraro in Ippocrate in tal guisa: (i) Quod fi quis omnia , quæ facit pro viribus mente verfaret, vitam ab omni  cafu (h) Epif.94. (i) Inepif. Damago  cafu immunem fervaret, se ipfe probè non fcens, fuam ipfius concrétionem apertè intelligens, cupiditatis ftudium in infini, tum non extenderet, fed naturam divitem, & omnium alumnam per ea, quæ abundè suppetunt, sequeretur. Quemadmodùm autèm optimus corporis habitus affectionum periculum denunciat s lic magnus rerum fucceffüs lubricus eft.  Elsendo dunque tanto utile questa virtù, quanto è desiderabile la propria felicità, la dovreté bramare, e procurare insieme, e non solamente per vostro proprio bene, ma ancora delli vostri Infermi; perche se sarece immersi profondamente nelli vostri fmoderati desiderj, avrete la mente sempre così distratta da quelli, che à tutt'altro penserete, che à ciò, che possa essere di profitto agli Ammalati, e se pure lo farete, farà cog mence stanca, per breve tempo, e di paffaggio, doveche avendo roli delide, rj onesti, questi poco vi affaricheranno la mente , onde avrete campo di applicare con più attenzione alle cure, e da  [merged small][ocr errors] [ocr errors] inferioris che eravate al negozio, divers sete superiori, alleggeriti che ne farete, con notabile vantaggio di chi si prevalerà dell'opera vostra.  E tanto maggiormente, che l'offervanža di si bella virtù non fù solamente incaricata da Ippocrate a' suoi seguaci, comandando loro:(2) Eum quoque Ipe&t are oportet, ut animi temperantiam excolat, non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquả totius vite moderatione Quòd ad illi comparandam gloriam plurimum affert.adjumenti ; Ed altrove: (m) Bonum Medicum minimè impellit ut fuam atilitatem quærat , verùm ut potiorem fuæ existimationis rationem habeat ; Itaques longè  satiùs eft à morbo fervatis exprobrare, quàm perniciosè habentes emungere ; Mà di più per darci esempio la volle egli medesimo religiosamente osservare, po. sciacchè chiamato dal Rè Artaserse, e con che promesse !.(n) Auri igitur quana fum volet, reliquaquè quibus indiget effuse  ei  (1") De Medico.  (m) De precept. (n) Ix epift... Hellefp.Præfee.  6110  ei exhibeto, di ad nos mittita, cum Perform rum enim optimatibus eodem erit honore; Şicchè la promessa confilteva in ricchezze, commodi , & onori à quel fegnio, che ne ayeise potuto defiderare, cosa rifpo e il modeftiffimo ? (0) Quàm celerrime refcribe, nos vietu, veftitu , domo, omniquè re ad vitam neceffaria cumulatè frui; Pere sarum autèm opibus uri neque  mibi  fquum eft; E scrivendo à Demetrio manifesto anche meglio la sua moderazione, di, cendoli: (P) Rex Persarum nos ad fe vocavit nefcius mihi potiorem effe fapientiæ , quàm auri rationem; Chi altro farebbe itato di animno sì moderato in fimili congiunture, che ad una chiamata di un Rè potentissimo, alle offerte sì grandiofe si fosse potuto contenere con quella moderazione Ippocratica di ricusarle? Ne crediate, che Ippocrate non considerasse li vantaggi , che ne poteva riportare, perche in congiuntura, che ricusando, per non rendere schiava - la scienza Medica delle venalità, li dieci talenti offer  [ocr errors] tigli (0) In epift.2. Hystania (p) In epift.Demetr.  .  tigli dalli Abderitani per la cura di Democrito , così loro rispose :(9) Ego verò ja omnibus modis ditefcere voluiffem viri  Abderit , ne decem quidèm talentorum gratiâ ad vos venirem, sed ad magnum Perfarum Regem proficifcerer, ubi Ürbes tot& opibus humanis refertiffimæ occurriffent dc. divitiæ non funt pecuniæ undequaquè comparat&; Magna enim sunt virtutis facra , quæ à juftitiâ non teguntur , Jedin apertum fe proferuntur. Ex morbis quajtum non facio.  Sono tutti questi esempi, che provano un'eroica moderazione di animo, una somma temperanza, e se è vero ciò, che riferisce Seneca, (r) che Platonc, ed Aristotele ricavassero più profitto dalli costumi di Socrate, che dalle sue parole. Questi del nostro Ippocrate sono tali, che possono bastare à togliervi dalIa mente ogni (moderato desiderio per farvi divenire seguaci di sì eroica virtù , come è la Temperanza, ed allora potrete con essa ridervi di quelle vagheapparenze di felicità da alcuni tanto apa prezzate, consistendo tutte in fottilidima superficie, mentre dentro di se, non altro contengono, che incommodi. Un legno dorato fà una vaga apparenza,mà dentro di se, non altro nudrisce, che molte tarle , che lo divorano, nè vi G2 discaro à sentire ciò, che ne dice Seneça: (S). Et cum auro teita profundimus quid aliud , quàm mendacio gaudemus ? Scimus enim fub illo auro feda ligna lati. tare buco omnium istorum, quos incedere altos vides bracteata felicitas eft , infpice , e disces fub iftâ tenui membrana dignitasis quantùm mali lateat . Sicchè la vera felicità non consiste nell'esterna apparenza , non nella superficie vaga, må bensì nel godere internamente una tranquilla calma, che dalla bella apparenza esterna più costo viene turbata, che dotta.  Hò cercato, come si fuol dire , per mare, e per terra un ritratto al naturale della verità  pro  per      farvelo vedere, mà non  l'hd  17 Epiß.115.   1  1  l'hò potuto ritrovare à proposito, perche, chi l'hà dipinta con il viso coperto, chi dentro un pozzo al bujo, chi l'hà profondata anco più bassa, onde non sapevo come fare per farvela vedere , non troyandola delineata in formas ostensibile . Mi venne in pensiero diricercare in Ippocrate , fe in occasione, che fù per curare Democrito l'avessi à forte potuto vedere nel suo  emi abbattei per l'appunto nel sogno, che egli fece prima di andare in Abdera , nel quale al vivo descrive la Verità , ed in quella guisa appunto, che gli comparve in sogno, (t) ve la descriverò ancora io. Gli parve di vedere, nel primo spuntare dell'Aurora una bella Dea alta, e risplendente, ornata positivamente, e senza pompa , li suoi occhi risplendevano come dui scintillanti stelle, ed avendolo preso per la mano lo conduceva per la Città di Abdera à passo lento, e finalmente nel disparire, che fece ella gli disse , ch'era la Verità , e che nel giorno  pozzo,  se(1) Is Epift.P hilop.  3  [ocr errors][ocr errors] seguente lo aspettava da Democrito do. ve dimorava.  Meritano veramente molte circo. stanze di questo misterioso logno d'efservi interpretare; La prima delle quali è la sua maestosa bellezza, e questa denota, che la verità è degna di essere da tutti amata; La seconda il suo ornamento positiuo, e senza pompa significa, che non hà bisogno di francie, nè di altri abbellimenti superfui ; La terza, li suoi occhi risplendenti mostrano , che ella abbia necessità di buona vista, dovendo vedere , e ben discernere li vizj, che la perseguitano; La quarta, con il prendere per la mano Ippocrate fà comprendere, che non vuole contraere amicizia con  gente di cattivo costume, perche bene li avvedeva, che appreffo ad Ippocrate non si accostavano nè la bugia, nè l'adulazione ; La quinta il condurlo à palli lenti inferisce, che chi vuole andare accompagnato con la verità non deve caminare in fretta, mà adagio , come faceva Ippocrate. La festa il dire, che lo  N  aYC  [ocr errors] averebbe aspettato da Democrito, dove ella dimorava, significa, che non ama le grandezze del mondo, ne vuole fare la fua comparsa, se non in quei luoghi , dove alla è conosciuta , e rispettata con fchiettezza, e sincerità.  Obella Dea, se questi sono li voftri fentimenti, date à divedere , che voi fiete troppo folitaria , modesta, e circospetta; E perche non frequentate luoghi più magnifici, e non vi fate vagheggiare publicamente ? Forse, che temete di faziare chi vi rimira con il vostro afpetto, conforme fù detto di Poppea Sabbina bellissima Dama de' suoi tempi, per non farsi vedere in publico , che col viso coperto ? E finalmente , perche non conversate con persone di sfera inaggiore de poveri Filosofi, con quali domesticamente voi trattate? Sapete come risponderà facilmente la Verità: lo son contenta di ftarmene così solitaria, perche fono troppo odiata , sentendomi dire da per tutto : Veritas odium parit ; ed io, che abborrisco di soggiacere à quest'  [ocr errors] odio, per vivere quiera , e tranquilla , son forzata nel mondo à ftarmene folie faria ; Solamente nel Cielo godo ogni libertà , ivi sono amata da tutii, ivi sono il Caduceo di eterna pace, e fapete per. che ? Perche ivi l'Invidia non mi perseguita , l'Adulazione non mi tradisce, l’Iniquità , è la Malizia non mi possono punto nuocere, come dunque posso io in Terra liberamente conversare , senza pormi à rischio di perdere quanto ho di buono, quanto ho di pregiabile, ch'è ciò, che dico. Se io comparisle da per tutto, non potrei fare di meno di non incontrarmi bene spesso con miei iniqui, e fraudolenti persecutori, e se questi, che fanno tante prede mi guadagnassero con lodare la inia bellezza, e mi facesseroprevaricare , non farei più virtù, onde per mantenermi tale, quale devo essere sono forzata vivere in folitudine con il mio bene accostumato Democrito.  Avrete da quanto vi hò descritto sin'ora compreso non solamente la bele  N 2  lezzalezza della Verità , mà ancora li suoi divini costumi, onde fi accinga pure ogni uno di voi à sposarla , perche cosa più bella , ed utile di questa non potrete ritrovare, e tanto maggiormente, ch'è affai facile à potervi fortire una simile ventura, bastandole , che finceramente l'amiate, che farà tutta vostrą. Vi avverto però, ch'ella è gelofillima, ondę vi converrà per conviverci in pace odiare la menzogna, l'adulazionc, l'iniquità, e l'inganno, altrimenti vi perderefte in un'istante la sua grazia.  Mi perfuado , che lo farete di cuore, perche Ippocrate , ch'ebbe la sorte, come dilli , di rimirarla una sola volta , ccome in sogno, ne restò così invaghito di ella, che fino, che visse l'amò fedelmente, à segno di esporsi ad evidente pericolo di perdere tutto il suo acquistato concetto; Posciacchè nella cura di colui, ch'era avvezzo di vivere à suo capriccio, e perciò facilmente fù ferito in testa, confesso candidamente di averlo curato male, dicendo , ivi : Hoc me  latuit  [ocr errors] latuit sectione opus habere , deceperunt aux sèm me future.(a)  Biasimerà taluno di quelli che amano più la loro estimazione, che la Verità questa tua confeffione publica ò Ippocrate, trattandosi di un'errore di questa forta , c tanto maggiormente, che niuno ti forzava à palesarlo, e ti diranno : Dovevi pure prevedere, che la maledicenza avrebbe fatto contro di tè quanto poteva per iscreditarti, à cui egli rifponderia facilmente, se vivesse, non mi dà faftidio, che si mormori di me, purche io non tradisca la Verità, hò voluto lasciare quest'esempio,acciocchè li miei seguaci non cadano in simile errore, e segua pure contro di me quel male ne så seguire ; Sapete, che danno ne hà riportato Ippocrate da simile confessione ? Due elogij frà gl'altri, capaci à renderlo glorioso per tutta l'eternità, che sono li Teguenti:  Cornelio Celso così ne parla di questo fatto : (b) A futuris fe deceptum  effc (a) L16.5.Epid <grot.-7. (b) Lib.8.cap.4.  N 3  effe Hyppocrates memoriæ prodidit , more fcilicèt magnorum virorum ; & fiducian magnarum rerum habentium; Năm tevia ingenia ; quia nihil habent, nil fibi detrahunt; magno ingenio, multaque nihilominùs babituro convenit etiàm fimplex veri errò: ris confeffio; præcipuèque in eo ministerio , quod utilitatis causâ pofteris traditur, ne qui decipiantur eâdem ratione ; qua quis antè deceptus eft.  Quintiliano ancora lo commenda in tal guisa: (c) Hyppocrates clarus in Arte Medicâ videtur honeftifimè fecife , dùm proprios quofdam errores confeffus eft , boc fine , nè posteri peccarent.  Certamente, che non avrebbe riportáte tante lodi Ippocrate, se avesse tenuta celata tal verità, e se non avesse confessati li propri errori, non li darebbe tanta credenza à ciò, che dice.  Dunque animateyi voi ancora à ree guitare un sì glorioso Maestro, e non remete dalla Verità , che sposerete , doverne riportare alcun svantaggio, anzi  te  (c) Lib.z. cap.8.  [ocr errors][ocr errors] tenete per infallibile di poterne voi ana cora ricavare glorie immortali.  Il difensore maggiore, ch'abbia la Verità è il Disinganno, egli è quello, che discopre ciò, che si fà contro di essa, che impiega ogni sua attenzione , & efficacia à suo prò, non prendendosi alcuna soggezione de' vizj, anco maggiori, in manifestare le loro iniquità; Hà finalmente tal possanza, che qualunque Verità più occulta la rende palese à tutti Niuno senza il di lui ajuto sarebbe capace d'avvertire alli proprj errori ; onde converrà se vorrete seguitare la Verità paffare con esso lui ancora buona corriso pondenza , rispettarlo, e farvelo vostro amico di confidenza ; Vi avverto però, che se vorrete veramente confederaryi con il Dilinganno, non dovrere effere ostinati, nè pertinaci nella vostra opinione, perche altrimenti nel meglio vi abbandonerà , onde converrà di farvi regolare in tutto da lui , e vedrete come vi favorirà nelli maggiori vostri bifogni.  Se non si fosse fatto regolare Ippo: crate da questa eroica virtù, come mai fi sarebbe potuto avvedere del sopr’accennato errore, e d'altri, e proprj, e del Medici suoi coetanei , che egli riferisce ; Certo è, che se fosse stato pertinace nella sua opinione il Disinganno non gli avrebbe fatto conoscere la Vericà qual' era , & in ispecie nel caso di quell'Ancella di anni dodici, nella quale ei confessò,:(d) Hoc cognitum eft rectè fe&tione opus habere , fecta eft autèm non velut opportebat , fed quantùm reli&tum eft , pus in ipso factum est ; Et in questo confeffa, che non fù fatto il taglio à suo dovere . Nel male di Eupolemo, chi gli averia manifeftato:(e) Hic videbatur biberari pofle, fa unicâ amplå feftione fectus fuiffet ; E perche non si fece ? Mortuus eft.  Conforme ancora nel caso di quell' Uomo quafi leproso, (f) che andando al bagno di acqua solfurea guarì dal male,che aveva, mà morì poscia Idoprico per la retrocesfione del primo; E di Scamandro, (8) à cui gli accelerò la morte un potente folutivo, come avrebbe possuto dire : Videbatur plus temporis fubstinere potuille. nisi ob vim pharmaci; E nel figlio di Teoforbo :( 6 ) Huic exulcerats est alvus fortitèr à magnâ pharmaci vehementia , moru tuus eft autèm tertiâ die poft potionem ; Nella moglie di Antimaco , à cui : (i) Datum eft potu Elatherium vehementius , quàm opportebat, pou mortua eft circà mediam noctem; In quell'uomo Eubeo, (i) il quale:Cùm bibiffèt pharmacum expurgans fres dies purgabatur, e mortuus eft ; E nel caso di Artandro, (m) il quale : Sanus erat à catapotio extinctus eft ; E finalmente in quello di Trinone , (n) lasciando di riferirne altri : Cùm ad nervum fanè parum medicamentum erodens fuiset adhibitum, opistotono mortuus eft.  Dunque queste utili memorie, che noi leggiamo in Ippocrate tutte le dovemo al Disinganno, che gliele fece cos nofcere. Ovirtù così sublime, perche ancora non consigliaste tanti altri Profeffori eccellenti, che scriveffero ancor esli con questa Ippocraticà ingenuità nello scoprire li propri errori à pofteri; Quanto bene averia apportato à noi simile verità; Hanno scritto; è vero, molo te mirabili osservazioni, mà hanno ancora con quelle più tosto cantato li loro trionfi, che compianto le altrui sventure. Fate almeno, che li secoli venturi godano di questo bene , & à voi toccherà di ereditäre ò Giovani ingenui questa purità di scrivere Ippocratica ; se vi uniformcrete conforme egli fece alli consigli del vostro disinganno:  yemo  (g) Epid.lib.5.&gr.15. (h) Ep.lib.5.&gr.17. (1) Ep. lib.s. agr.18. (1) Ep.lib.5.agro3s. (m) Lib.s. agr.42: (a) Lib.gi .gr.74  7  La Vigilanza à che segno sia neceffaria nel Medico , ne dà non piccolo contrasegno il sagrificio, che bramava Esculapio del Gallo, fiinbolo della vigilanza, volendo facilmente quell'antico Nume della Medicina far capire a suoi seguaci ciò medianto, che desiderava da essi, più d'ogn'altra cosa , la  vi  [ocr errors] )  [ocr errors] vigilanza, e con ragione, stanteche nella Medicina : 60 ) Occafio præceps; occafio in que tempus non multum ; E se à prenderla quando si presenta , non li fà con atten zione è cosa facile di perderla , con dia scapito di ciò, che si poteva ottenere in vantaggio dell'Infermo ; Quindi è, che Ippocrate dà titolo di ottimo Medico à colui solo; che prevede le cose future, dicendo :(p) Medicum prænotionem adhibere optimum effe mihi videtur ; Prenoa scens enim , & prædicens apud ågrotos, da prafentia, & præterita, & futura ; E questo non già per altra via , che  per quella della vigilanza , si può ottenere. Per conferma di ciò fà à proposito la somiglianza, che apporta Ippocrate (9) del Medico con il Governatore della nave, che si ritrova in tempeita, à cui non conviene già dormire per non sommergersi insieme con il suo baltimento trà l’onde; Ed in verità yi converrà essere nelle vostre cure molto circospetti, e vigilanti,  non  (0) Hipp.Præceptiox.  (9) De veteri Medio.   (p) Di Prenot.  non essendo sufficiente la fola vostra pea tizia , mentre che al parere d'Ippocrate: (r ) Bonis autèm Medicis fimilitudines pariunt errores , ac difficultates; E cresce maggiormente à tempi noftri tal neceffità  per cagione della separazione, che ha fatto la Medicina dalla Cirugia , e Farmacia, perche fe allora baftava una parte di vigilanza , dicendo il detto Ippocrate : Nec folùm feipfum præftare oportet opportuna facientem, verùm, e agrum, affidentes de exteriora, a' quali dovendo invigilare il Medico, acciò non trascurino di fare ciò, che da esli si deve, ora maggior obligo gli corre di dupplicarla per questa nuova aggiunta.  Nè vi riferirò, per perfuadervi ad essere vigilanti, l'esempio, che ne diede in se stesso Ippocrate, per non avervi à ripetere tutto ciò che abbiamo di esso, mentreche non fi legge nelle sue opere cosa che non denoti una somma avvedutezza, una grandissima vigilanza , & in ifpecie ne' suoi pronostici, ne'quali fi  puol (r) Epid. lib.6.dift, &:  puol dire con ragione, che ancora de Bercore collegit aurum , onde spero , che con rincontrarle ocularınente à fuo tema po, sempre più vi crescerà lo stimolo di efsere vigilanti, e tanto maggiormente ne sarete, quando in quelle leggerete, (che : Vigilantia verò &c. ad vitæ boneftatem refert . Majorem enim apud alium fibi gratiam conciliat, fi ad artem traducatur , eique decus, ob gloriam comparat ; & in appresso: Bonus Medicus vigens ipfus artis opifex nuncupatur.  Della Vigilanza è compagna inseparabile, e fedele la fatica , la quale per essere opposta all'Ozio padre di tutti li vizj, li può chiamare madre di tutte le virtù, e questa nella Medicina è cosi essenziale, che senza essa è impoflibile di poterli acquistare, esercitare, ed ampliare ,  A voi dunque, che desiderate essere veri Medici converrà accingervi à triplicara facica. La prima vi servirà per fare acquisto della Medicina; La secon  dada per impiegarla nell’efercizio di effa , ela terza finalmente per lasciare degną memoria di voi in ampliarla à quel fegno', che vi farà permesso dal vostro ingegno.  Già della prima ne fù discorso nella seconda Giornata, nella quale fù moftrato ciò, che si debba fare per conseguire la buona pratica ; mi resta fola. mente ora da soggiugnervi, che quella sola non può bastare per farvi vivere ripofati , e senz'altra briga , ftanteche quantunque, fia sufficiente per potere esercitare la Medicina, nulladimeno per essere ancor voi annoverati trà Proferfori più esperti, e capaci di dare più accertati consigli vi converrà infino al fine di voftra vita faticare in fare sempre nuovi acquisti, restandoyi tuttavia molto da apprendere, sì per incontrarvi alle volte in mali non più osservari, conforine Celso avvertì , dicendo : Sæpè vero etiàm nova incidere genera morborum , che per essere la Medicina scienza sì va#a, che niuno fin'ora ha potuto scoprire li suoi ultimi confini, nè Ippocrate, nd tampoco Esculapio, che ne furono l'Inventori , conforme egli confessa ingenuamente :(t) Ego enim ad finem Medicinæ non perveni, etiamfi iàm fenex fim, nequè enim ipfius Inventor Esculapius.  Quale appunto debba essere la seconda fatica nel professarla, così ve la descrive: (1) Crebro ægrum invife diligentem considerationem adhibeas, ut iis, qui decepti sunt per mutationes accurras; Facilior enim tibi cognitio fuppetet , fimula què te promptiùs expedies • Instabilitèr enim moventur quæ in humidis confiftunt. Questo testo è così chiaro , che non hà bisogno di dichiarazione maggiore, ris' chiedendo da voi Ippocrate nell'esercizio pratico la fatica unita alla vigilanza, e facendo voi in questo modo vi assicura, che minori brighe avrete, perche presto tirarete à fine ciò, che facendo con trascuraggine vi apporterebbe maggiori incominodi, La terza fatica è arbitraria, e viene  fo(t) In Epif.Democt (0) De decenti babiru.  [ocr errors] folamente abbracciata da quelli fpiriti investigatori, che hanno unita la vivacità dell'ingegno alla prudenza, e questi per  il desiderio , che hanno di eternare li loro nomi, riescono in tale opera profittevoli, de' quali credo , che frà voi ve ne farà caluno abile, dal quale spero non si ricuserà fatica sì gloriosa,abbracciata, e consigliata insieme da Ippocrate, dicendo: (*) Nunc verò ea , quibus summo studio prudentes incumbere debent, partim quidèm à majoribus excerpta, partim verò etiàm nunc per nos inventa ad te fcripfimus.  Nè delista taluno di voi, che sia abile à sì gloriosa impresa d'effettuarla per vedere impallidito di volto, emaciato di corpo, & invecchiato prima del tempo chi abbracciò fimile fatica; posciacchè da quell'emaciazione di corpo, da quel pallore di volto, e dal comparire più vecchio, ch'egli sia, gran benefici ne hà ritratti che sono,maggior vivacità di mente , senno, e prudenza.  Mà (x) In Epif ad Reg.Demetr.  [ocr errors] Mà quando ancora da tal gloriosa cagione ne risultasse qualche fisico svantaggio, fi bilanci qualsia peggiore, se quefto, ò pure quello, che ne proviene dall'ozio; e si vedrà senza fallo, che l'oziofi non solamente sono soggetti ad infermità peggiori di quello fieno gli ftudiofi, mà ancora , che terminano più presto la loro miserabile vita , onde non è prudenza il temere ciò, che può recare minor danno per andare in traccia à ciò, che ne può recare maggiore, e con lo svantaggio di più, che à prò degl'affaticati Letterati stà sempre preparata un' eternità di gloria, dove, che à danni de gl’oziofi una perpetua ignominia.  Non mi stenderò di vantaggio in esaminare le altre virtù , che restano perche vi si richiederia più tempo di una sola giornata, e tanto più , che poffedendo voi le già descritte vi si renderanno famigliari tutte le altre; Solamente del più bel frutto , che producono le virtù , ch'è il buon costume, non sarà fuori di proposito oggi parlarne , stante  che  che questo da Ippocrate viene stretta. mente incaricato al Medico , per farvi conoscere insieme à che segno egli lo profeffava .  Il buon costume è un'abito essence ziale per la vita civile, acquistato solamente da chi poliede un'aggregato di moltiffime virtù', trà quali risplendong la Prudenza, la: Sincerità, la Gratitu, dine , l'Umiltà, la Discretezza , la Bez nedicenza , l'Urbanità, e la Conyenienza, e questo abito deve essere continuato, perche fe la Superbia , l'Ira , l'Ambizione, & altri vizi di fimile perversa natura l'interrompono, il buon costume passa fubitamente in cattivo, Chi hà la forte di poffederlo è ricchisiino, mentre hà un tesoro, del quale quanto più ne fpende , tanto più resta in capitale ; Per csempio, chi hà il buon costume di lo-, dare, non solamente non riceve alcun discapito dalle lodi, che dispensa, mà n'è perciò egli ancora lodato. Devesi nondiineno usare prudenza in non eccedere molto con affettazione ne' buonicostumi, ftantęche alle volte, quando sono soverchiamente adoperati, e con affettazione nauseano, & in vece di apportare del bene,fanno del male, e tanto maggiormente, quando ciò viene regolato da qualche secondo fine, nel qual caso la lode istessa può essere nociva, e perciò ebbe à dire Tacito ; Peffimum inimicorum genus laudantium.  A che segno sia necessario al Medi, co il buon costume, mediante il quale viene colta ogni ambiziosa contesa, lo dimostrò Ippocrațe doppo di aver fatto , conoscere la necessità , che vi sia di consultare con altri Profeffori li mali oscuri, soggiugnendo : (a) De eo minimè am. bitiosè contendere , fe ipfos ludibrio exponere; Pofciacchè fimil maniera non è propria de' Medici racionali, mà solamente di quelli triviali, che : Forenfem queftum fectantur , conforme egli dice in appreffo.  Nè solamente il mal costume pone in discredito chi lo esercita , mà passt  O 2  per [a] De Præcept,  و  'per causa sua ancora nell'innocente Medicina la calunnia ; L'esempio è chiaro : Contrasteranno due Medici tra di loro acerrimamente, se fi debba, ò no dare un'orzata in un male acuto, se debbali, ò nò colare,fe prima debba darsi, ò doppoi il seccimo giorno, e se sia praticabile ayanti, che il male sia terminato, le quali essendo questioni inutili, e come fi fuol dire , di lana caprina , perche con l'esperienza fi può rincontrare se ne posfa feguire quel gran danno, che si figura chi contradice, onde finili contese non poffono à mio credere autenticare al  che l'imprudenza, e mal costume di chi le promove, e picciol male recheriano, se la colpa di ciò restafse trà li foli Artefici altercanti, il peggio è, che ne passa alla Medicina la calunnia; Quest'esempio non è stato inventato da me, ritrovandofi descritto da Ippocrate così bene, che non vi recherà punto di noja il sentirlo riferire : (b) Que igitur ignorantur bee funtó quanam de causâ in morbis acutis, quidam Medici toto vita tempore in Ptifanî non colatâ exhibenda perfeverents rectè fe curare existiment; Quinàm etiàm omni ratione contendunt', ne ullo modo hordeum æger devoret , quoad indè magnum fecuturum detrimentum exiftiments  morbis (b) De ration. Tic.in morbiacut.  tro,  verùm per linteum excolantes ejus fuccum porrigunt . Horum etiam nonnulli , nequè Ptisanam craffam , neque succum exhibent, ubi quidem dùm feptimum diem eger attigerit , alii verò dùm in totum morbus judicatus fuerit ; E ciò, che da simili altercazioni ne fiegua l'esprime in tal modo : At verò Ars tota magnam quidèm apud vulgum calumniam fubftinet , ut nullam omninò Medicinam efe exiftiment a kquidem in acutis morbis, in tantùm inter Te diffentiunt Artifices , ut quæ alter exhi. bet, veluti optima reputans , etiàm mala alter exiftimet.  Due ingiurie vi farei nel medesimo tempo , se pretendesli d'insegnarvi il buon costume: una saria di riputarvi male accostumati, che per  ļa Dio grazia non siete, e l'altra di credervi stolidi, ed  incapaci di ragione , per non esservi approfittati di ciò, che vi disli, detestando quei vizj, che costituiscono il mal cos ftume. Continuare di buon'animo á fuggire li vizj, e seguitare queste virtù, che vi hò mostrato, e non dubitate , perche Hi vostri buoni costumi in breve diverranno ottimi, & acciò possiate conseguire con più facilità fimil sorte vi rappresenterò alcuni costumi eroici d'Ippocrate, li quali vi potranno fervire di norma in moltissime vostre occorrenze , che vi si presenteranno facilmente à suo tempo.  Egli fù così esemplare nell'offervanza degli ottimi costumi, che non sò fe trà Medici ( alla riserva di quelli dia chiarati già Santi) ve ne sia stato, ò ve ne sia di presente , chi lo possa uguagliare  La Pietra del paragone per cono. fcere se il costume sia ottimo sono li onori, ftanteche honores mutant mores , onde quando l'onorato non cambia li fuoi costumi in peggio per cagione dell? onore ricevuto's tenete pure per certo,  che  )  che il suo costume sia ottimo. E la ca. gione di ciò è, perche con gli ottimi regna l'umiltà in grado eroico, e dove è questa , la fuperbia non s'accosta, fa. pendo per esperienza, che inutilmente impiegheria ogni sua fatica, e la superbia è quella, che perverte il buon co. stume , mà contro l'ottimo non fi ci  meriti,  )  Che Ippocrate abbia ricevuti onori fommi non trovo fi controverta da ale cuno, mentre fù chiamato dal Rè potentiffimo Serse, con promesse di ciò, che egli avesse saputo desiderare, oltre di costituirlo Magnato della Persia, fù cre duto ancora, che discendeffe dal Dio Esculapio, che fosse in grazia del Rc Demetrio', e di molti altri Potentati, e finalmente, che ricevesse dagli Ateniefi onori maffimi, non solo umani, mà ancora divini effo vivente, come costa per Senatus Consulto, ch'è questo : Ut igitur conftet Populum Athenienfem Græcis femper utilitèr confuluife , utquè dignam pro meritis Hyppocrati gratiam referat, decrevit  Poo  0 4Populus ut is magnis mysteriis ; Hor fecùs at Hercules Jovis filius publicè initiaretur, O coronâ aureâ mille aureorum coronaret tur. Coronam ipfam Quinquatribus magnis in gymnico certamine pręcone proclamante, omnibus Coorum liberis liceat non  fecùs às Atheniensium Athenis pubertatem ageres quod coram Patria ejufmodi virum proCreavit, Hyppocrates verò, ut Civitatis jis re, victu in Pritaneo toto vita tempore donetur.  E questi commi onori qual mücazione produsero ne' suoi costumi? niuna appunto, mentre non furono capaci di farlo insuperbire, come fi legge nella sua lettera , che scrisse già divenuto vece chio à Democritó : Et ego fanè plus repræhenfionis , quàm honoris ex arte mihi confecutus videor ; Vedete quanto stimava l'onori maslimi, e se s’infuperbivad punto di quelli, credendoli inferiori ad una picciola riprensione , dico picciola, perche delle grandi non n’era capace un’Ippocrate . Più gli premeva , per quanto li può congetturare dalla mede  fima lettera, la cagione delli ònori,mentre mostrava di dolersi, che eisendo diyenuto già vecchio non era potuto ancora giugnere à tutta la perfezione dell' Arre; volendoci forsi con questo far conofcere, che non sono tanto pregiabili gli onori, quanto è la cagione, che li produce, ch'è la virtù , la quale dipende tutta da noi, doveche gl'effetti di quella dipendono dall'altrui volontà; Avendo dunque Ippocrate resistito à non fare alcuna mutazione nelli suoi buoni coftumi in tanti, e tali onori ricevuti, è contrasegno evidente, che foffero arri. vati al grado dell'ottimo , nel quale solamente, come fi è mostraro, sono im.mutabili li costumi.  Che vi sia stato à luo tempo, ò dapoi fino al presente chi abbia.conseguito limili onori, non se ne ritrova memoria, per quanto fia stata cercata, onde non hà alcun'altro Medico avuto occasione, doppo di lui di mostrare ugual costanza del suo buon costume in fimili prosperità; Ricevendo dunque voi onori, faprece  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] con l'esempio di un tanto Éroe, confora me vi doyrete contenere affinche le prosperità, che ne risultano da esli , non vi facciano, conforine appunto fecero prevaricare li antichi Romani, che fusono ne' primi secoli della Repúblicas esemplari in bontà, mà avanzandoli pom fcia nelle ricchezze andavano declinando , e finalmente nell'auge delle loro felicità, e grandezze da buoni divennes ro cattivi , onde con ragione esclamò Tacito : Felicitate corrumpimur. Mi di{piacerebbe però sommamente,che simili sventure si verificassero in voi, perche goderei vedervi tutti esemplari, e degni imitatori d'Ippocrate, non solamente nella dottrina, mà ancora negli ottimi costumi  Mi rimane per totale conferma del mio intrapreso assunto di corroborare con altri esempi ciò, che hò proväto con le ragioni ancora.  Il primo de'quali sarà di farvi vedere, con quanta civiltà egli scrise de gli antichi intorno à quelle cose che effi  11011  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] non sapevano, e che furono dalla sua induftria inventate . Dice egli intorno la regola del vivere : (c) Alii quidem aliud ättigerunt, totum verò nes unus quidem adhùc ex his , qui antè extiterunt ; Neque tamen eorum quisquam reprehendendus , quòd invenire non potuerint ; quin potiùs Jaudandi omnes'; quod quædam inveftigao tione aggreffi fint ; Neque ergò que recta dieta non funt argüere decrevi , fed his , qué abundè funt cognità affentiri in animo habeo ; quæ igitur ab iis , qui antè nos fuerunt reétè di&ta funtzde bis fieri non poteft fi alitèr ferihatur, ut reétè fcribam, quæ verò non rectè dixerunt fi ea quidem , quod ità non habeant redarguero nihil profecero ; E cosa abbia fatto in questo caso lo dice in appresso, cioè: Que non rette fuerint cognita aperiam; Quin etiàm qua corum nultus , qui antè me fucrunt explicare aggreffus eft qualia fuerint demonftrabo ; Ed altrove con chę prudenza ne parla:(a) Sed nequè de victus ratione quid  quàm  [c] Dx viftus ratione lib.i.  [d] De ratione vitus in grutis.   [ocr errors] quàm effatu dignum veteres fcriptis tradiderunt , eamque , quamvis magna res fit, omiserunt s Varia tamen morborum fingua lorum genera , multiplicemque eorum divid fionem non ignorarunt quidàm. Avete of servato con che creanza , con che giua stizia; e con che prudenza ne parla un' Ippocrate de' suoi Antichi, scusandoli in ciò, che non seppero, e non pregiudicandoli punto in seguitare, e confeffare ciò, che di buono efi dissero; Si è praticato questo buon costume da alcuni de' noftri Moderni verso li Antichi? Mi pare di leggere, per dire il vero, più tosto il contrario, anzichè mi sono avveduto, che taluno di efli há palleggiato con tal fasto invidioso dace sopra quelle gloriose ceneri, che ne sono rimasto molto scandalizato, rifettendo, che Ippocrate con li suoi Antichi diversamente faceva, nė vi riferirò da vantaggio per non farvi nauseare di ciò, che essi ancora hanno fatto di bene .;  Per fecondo vedremo, come egli fi portò in quelle cose, che lo toccavanoal vivo. Gli pervennero à notizia alcune   predizioni (e) credute da Prospero Mar.  ziano suo Espositore accurato, Astro-  loggiche, che appresso gli Egizj si prati-  cavano in quei tempi, che erano alli   Greci ancora ignote, le quali non li pia-  cevano, mentre disse : Egnautèm hujuf-   modi vates effe nolo ; e con ragione, per-   che gli pervertevano ciò, ch'egli con   tanta diligenza aveva ricavato dalle  proprie offervazioni intorno alli prono-   stici de' mali, e che aveva appreso dagl'   altri, e pure con questa modestia si con-   tonne : Prædictiones Medicorum referun-   tur permultæ tùm præclar& , tùm admira-   tione dignæ, quales neque equidèm prædixi,   neque quemquàm, qui prædiceret, audivi;   e cosi destramente se ne liberò senza   contradirle . Questa maniera sì dolce   non è stata già praticata nel giugnere à   notizia tante belle invenzioni Anatomi-  che ; contro la circolazione del sangue   cosa non fù detto mai? Senza possedere   un'ottimo costume non fi può lodar ciò,   che (e) Lab.2.Prædi&ionum  [ocr errors] che perverte un'abito fatto da lungo tempo, e che si è praticato per lunga serie di anni.  Per terzo riferirò comę egli firegelaya quando era necessitato à palesare qualche errore commesso. Questo lo faceya senza individuarne l'Autore, ece cettuatone li proprj, li quali publicamente confessava , come già fentiste, parlando del disinganno, e questo, da chi vien praticato Solainente d'Ippocrate fi racconta fimile ingenuità, & in caso ancora, che abbią apportato laws morte,  Per quarto finalmente per far trionfare la sua gran bontà riferirò il giuramento, ch'egli fece, che nella Medicina à suo tempo non vi era alcun Medico razionale, (f) che non fosse di buoni costumi, e questo giuramento, chi lo farebbe à tempi nostri ? Onde bisogna neç ffariamente confeffare, che unico fia stato Ippocrate non solamente nella dottrina, mà ancora nell'ingenuità de' co  stumi; [f] In lib.de præcept,  [ocr errors][ocr errors] ftumi ; Sicchè con ogni giustizia li com. pere il principato nella Medicina, che egli da tanti secoli pofliede.  Dovrete yoi dunque per essere tee nuti degni, e veri suoi seguaci non folaa mente abbracciare,& uniformarvià ciò, ch'egli scrisfe in Medicina , mà ancora ftrettamente osservare quanto nella morale si debba fare, ftimando forG il buon' Ippocrate più necessarj li buoni costumi al vero Medico, delli suoi Fisici docu. menti, mentre questi li lasciò in libertà di ciascheduno di seguitarli, mà li primi con giuramento forzava tutti ad offer. varli esattamente, obligandoli a giurare di essere grati, di vita incolpabili, onorati, casti, giusti, modefti, pudichi, fedeli , e di somma segrerezza , e sentite sotto che pena l'obligava: Hoc igitur jusjurandum , fi religiosè obfervavero, ac minimè irritum fecero , mihi liceat cum fummâ apud omnes existimatione perpetuò vitam felicem degere's & artis uberrimum fruEtum percipere , quod fi illud violavero,  pejeravero , contraria mihi contingant ;  E quan  [ocr errors] E quanto mai il buon costume nel Medl  att  [ocr errors]  mente si può comprendere da ciò,   dice nel libro Di lege : Quifquis enim   Medicine scientiam fibi vere comparare   volet eum his ducibus voti fui compotem  fieri oportet natura, dottrina , moribus   generofiss è chiunque di questi ne farà   privo, come uomo profano, diverrà im-   meritevole gli sia dimostrata una scien-   za sì facra , conforme e la Medicina,   soggiungendo ivi : Hæc verò cum sacra  fint , facris hominibus demonftrantur , pro-  phanis verò nefas,   Sono dunque, secondo la mente d'Ippocrate , effcnziali nel Medico le virtù morali , e nientemeno di quello fieno li documenti Fisici, ed in conseguenza ancora come tali apporteranno necessaria- . mente un commo bene al vero Medico , non potendo esser tale, se non ne farà ornato à sufficienza, conforme in termi. ni precisi più diffusamente lo dimostra lo stesso Ippocrate nelli libri De Medico, © De Decenti ornatu, e nel libro De Pre  و (  9  ceptionibus , ove affinche non se ne possa dubitare l'attesta con prova legale, cioè mediante il suo giuramento, ch'è questo : Hoc namque jurejurando affirmare audeam , Medicum ratione utentem , alterum nunquàm invidiosè calumniaturum, fic enim animi impotentiam prodit. Verùm id potiùs faciunt , qui forensem quastum  seEtantur . Sicchè per essere veri Medici razionali dovrete essere ornati di virtù , e non contaminati da’ vizj , conforme sono quelli, che per essere meri mercenarj non meritano il titolo di vero Media co , quantunque fossero nelli documenti Medici versati ; e perciò saggiamente egli nel libro De Lege asserisce: Non folùm verbo , fed etiam opere Medici existimationem tueri oportet; ch'è quanto dovevo mostrarvi nella prima parte.  Se poi alcune virtù fi poffino giuftamente censurare nel Medico, che è la seconda parte del mio discorso, in qualche caso crederei di sì, conforme con un'esempio riferito da Ippocrate brevemente vi farò vedere.  P  TutteTutte le virtù hanno un fine retro, e se fi lasciano operare à tutto loro potere s'inoltrano con tanto fervore, che da alcune di esse in vece di ricavarné profitto , se ne riporterà del danno, La Giustizia, & il Zelo, tra le altre , fe si cferciçano con sommo rigore, & à quel segno, che arriva la loro autorità. Quefte sono capaci di porre cutto il mondo in sconcerto, e perciò diffe Salomone:(+) Noli effe juftus multùm; onde è necessario unirlo alla civiltà per renderle fruttuose.Simili fconcepci appunto potrebboro giornalmente accadere nella Medicina, fe il Medico si voleffe fervire della sola Giu. ftizia, del solo zelo con quell'Inferma male avvezzo in fanità à fare à fuo modo , allorche trasgredendo alla regola di vivere,fosse da esso con tutta giustizia riprefo, & afpramente sgridato di tal’erróre, cosa se ne ricaverebbe di profitto da çal giuftiffima,mà indiscreta riprensione? Se non che, ò l'Infermo facesse peggio  in; (1) Ecclef.cap.79  1  [ocr errors] in avvenire, e che senza alcun profitto perdesse ogni çispetto à chị lo riprese, ed in questo ca fo giustamente il Medico verria censurato, perche non si servi in fare una simile riprensione del prudens ziale consiglio d'Ippocrate, (a) che dice ciò, che deve fare, doppo di averlo afpramente {gridaco,& è : Simulque cum commonefaciendo , & blandè excipiendo consoletur ; & altro ve dice : Condonandum aliquid consuetudini ; Quel poco di dolce, che gli porgerà doppo l'amaro della riprélonę opera tato di bene che faràche la Giustizia usata divenga profittevole ,  Il ţimile pariinentě ne seguirà se voi, con zelo poco discreto , vorrete riprendere taluno , che sia ricaduto in mali venerci ; questo tale, quanto più lo [griderețe , tanto peggio farà , bisogna dolcemente che gl'infinuate , e gli facciate capire il danno , & il pericolo, che gli può sopravenire da fimili ricidive, le miserie, la morte penosa inevitabile saranno quelle , che, inlinuate con gius  [ocr errors] (a) In lib.præcept.  [ocr errors] dizio, lo potranno più facilmente perfuadere di fuggire simili errori, perche questi motivi restano impressi per lungo tempo nella mente , mà le gridate, che passano presto in oblivione , riescono infruttuose, perche sentendosi con animo irritato , non s'apprendono quanto: fi dovriano . Molti altri esempi potrei apportarvi, mà credo , che li riferiti pollino essere sufficienti per farvi capire tal verità ; Volete dunque, che le vostre virtù non fiano censurate , accompagnatele, e non le fare operare fole, e fate appunto conforme si suol praticare con le donzelle vistose à fine non si mormori di loro che accompagnate con altre donne più provetre , e prudenti possono trattare in privato, e comparire in pliblico senza taccia.  Mi persuado che li documenti, le ragioni , e gl'esempj d'Ippocrate, che vi (hò addotti fin'ora, saranno senza fällo sufficienti a farvi incaminare per il retto fentiero delle virtù , il quale spianato in tal guisa , fe à caluno di voi paresse tut  tavia  [ocr errors]  tavia disastroso, non occorrerà s'affati  chi di vantaggio, perche per lui non fa.  ranno à proposito le virtù, e per tanto  se ne viva pure à suo bell'agio con li  suoi vizj diletti, nè occorrerà, che in do-  mani quivi si presenti, perche voglio in  avvenire parlare solamente a quelli, che  hanno generosamente determinato d'ab-  bandonare affatto li vizj, e seguitare le   sole virtù.   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][ocr errors] G. I Ô R N Å TA V I.  Nella quale s'accenda il modo di prévalerfi   del consiglio delle virtù contra l'infidie.  de vizj, affinchè il vero Medico poffan  godere una vita iranquilla , e lasciare   di se doppio morte una gloriufi memoria :   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] On mio contento non ordinario vi  vedo oggi, prima del solito , quì tutti preferiti; posciacchè averidoviderto nel fine della Giortiada di jeri, che chi nơn s'era già determinato di seguitare le fole viétừ, non occorreva ch'oggi forfè venuto; temevo che almeno quelli , che gliscorgevo più pensoli degli altri, foffero mancati; Mà vedendo quì ancor voi, e più ilari , e disinvolti del consue. to, è chiaro contrafegno, che le vostre menti, che si ritrovavano nelle Giornate passate ambigue, non sapendo ancora à che partito appigliarsi, abbiano già déterminato di seguitar le virtù, avendo jeri gustato, e meditato in appressoquanto di benc da elle ne possa risultaa re; Onde tutto il giubilo interno; che voi ora provares non nasce da altro, che dall'essere divenuti padroni del vostró volere. Spero dunque, che tutti inGeme äverere avuto la medesima forte d'allontanarvi affatto da' vizj, e di confederarvi con le sole virtù, e queste fatele ora padrone dispotiche della vostra voz lontà, e non temere de viżj , che fuor di voi fi ritrovano , che possano essi punto nuocervi, con tutto che vi tramaffero continue insidie per lo sdegno concepi . to contro di yoi's che ve ne siete da efti affatto allontanati , perche farà curau delle virtù il difendervi: Vi säria gran timore quando questi inimici teneilero tuttavia assediato il vostro cuore, e fiorreffero liberamente d'intorno alla voftra volontà ; Allora sì che tion potreste fidarvi delle loro insidie , ftanteche in tal caso le virtù non potriano affiftervi. Vivete dunque cautelati á non tradire. voi stesli orche ne fiece liberi; e questo seguiria facilmente quando apriste qual  [ocr errors] che segreta porta , per dove poteffero i'vizj dentro di voi tornare. Per altro faccino  pure  fuori di voi quel più , che possono s che punto non vi potranno danneggiare.L'esempio l'abbiamo chiaro ne i Romani, che fino ch'ebbero Annibale nell'Italia stiedero con ragione molto mesti, ed affitti per il timore delli gran danni , che poteva loro  apportare, mà appena partito, sollevorno lo spirito, con tutto che proseguisse à molestarli, e di niuna cola elli ebbero più spavento, che della guerra intestina, la quale alla fine fù cagione , che perdelfero la loro libertà.  Parerà oggi discorso superfluo il mio,mentre voi avêdo in abbominazione li vizj;ed essendovi dichiarati seguaci delle virtù, potrete con la guida di esse consigliare più tosto gl'altri, che aver bisogno di Direttore, con tutto ciò perche non avete à bastanza ancora acquiftato Puso di prevalervi di effe , non vi farà infructuoso il sentire da me in compendio quel bene , che à suo tempo, ed  [ocr errors] [ocr errors] in tutti i vostri maggiori bisogni , questo vi apporteranno , potendo ciò ancoras fervire per confermarvi di vantaggio della vostra lodevole risoluzione.  E cominciando prima dalla Religione, che con puro cuore profeffate , poiche  Non fi comincia ben se non dal Cielo ; Qucfta non solamente vi darà lume, e vi fervirà di scorta per quello che riguarda l'eternità, mà vi configlierà di fare fempre uniti con le virtù, facendovicon chiarezza vedere la deformità de' vizj, e li gran danni che apportano; Quindi è, che neceffariamente la fapienza deve ftare unita con la Religione, conforme diffe Lattanzio : Homines ideò falluntur , quòd aut Religionem fufcipiunt omissá Sapientiâ , aut Sapientia foli student omissa Religione , cum alterum fine altero non poffit effe verum ; Oltre di che vi farà conofcere meglio di che forta d'amici avrete da fare elezione, perche fe vi abbattete con taluno di coloro, che sono affatto increduli di ciò, che non veggono, v'in  [ocr errors] [ocr errors] finuerà, che questi non sono à proposito per voi , che ci trattiace quanto porta il mero bisogno ; ma non più oltre, perche questi sono tenuti da Sant'Agostino per tomini carnali , dicendo ; In homine carnali tota regula intelligendi est consuetudo cernendi quod solent videre credunt ; quod non folentznon credunt; conforme ancora, che fuggiare ogni altro vizioso , è che v'intrinfechiare solamente con chi è seguace delle virtù, e finalmente vi terrå fempre circospetti in non prestare fede à ciò,che leggerete, ò sentirete dire; che poffa in qualche parte alienarvi dal suo vero sertimento  Non ritrovandovi ora in istato di potere profeffare la Medicina , per non essere totalmente esperti in essa , vi converrà cercare ottimi Direttori, nella di cui elezione consigliandovi con la Pradenza , v'insinuerà, che vi appoggiate -à quell'appunto, che descrive Cicerone in tal guisa : Eft igitur adolescentis majores natú vereri, ex iisque deligere optimos, e probatisimos , quorum confilio , atque  au  auctoritate vitantur : Ineuntis enim ætatis, inscitia ferum conftituenda da regenda prudentiâ eft.  V’insinuerà d'avantaggio la giustižia come vi dovrete contenere per acquistarvi il loro affetto , che sarà, oltre l'accennato ossequio, di esser loro fede  li, e schiecti z di moftrarvi sempre pune è tutali, obbedienti, e diligenti in tutti li  affari, che v'insporranno, perche operando või in questa guisa, non solamento v'istruifanio con tutto l'amore, må vi loderanno da per tutto, dalla quale preventiva commendazione germoglieranno à suo tempo li principi delle vostre fortune', e troveretegià spianata la ftria da de voftri progreni s állorché principierete à medicáre.  Intraprendendo con questi felici principj l'attual'esercizio della Medicinás allorche' già farete divenuti esperti , non pafferă lungo tempo, che molti di prevaleranno dell'opera vostras & allora appunto li vizj vi comincieranno à muoa vere guerras e Vinvidia farà la prima  ämoà molestarvi. Questa già da bel principio vi aveva fissato adosso li suoi maligni sguardi , mà non prima di vedervi avanzati si muoverà per suscitarvi contro li suoi seguaci, e le comanderà, che spargano da per tutto, che fiere troppo giovani , che non avete ancora pratica sufficiente, e che dicano con finto zelo : Oh poveri Malati, che si pongono nelle voItre mani, se questi guariscono seguirà per miracolo, non per la vostra perizia, e se vedrà, che ciò non basti per arrestaryi ne' vostri progrelli, invigorirà allora li suoi comandi, e farà disseminare dalli medesimi, che siete veramente infelici, mentre quanti Malati vi capitano, tanti ne muojono, e che non sanno capire , come siano così pazzi coloro, che vi chiamano. Sentendovi calunniare à torto in tal guisa, cosa dovrete fare? Non altro, che consigliarvi con la Prudenza, e con la Giustizia, che vi favoriranno assai bene : primieramente vi esorteranno a non prendervene alcun fastidio, perche è affai migliore la vostra  forte  و  sorte , per essere invidiati , che non è quella delli vostri calunniatori , che non hanno chi l'invidj, mà appena tal’uno, che li compatisca. Vi consiglieranno poscia à non prendervela con quei miseram bili , e vili esecutori dell’Invidia , perche operano come suoi schiavi, non già come uomini liberi, e se foffero in loro libertà opererebbero come voi, che aba borrite simili iniquicà. Vi consiglieranno bensì à mortificare l'Invidia in questa forma, cioè, di contraporle la vostra umiltà, quando d'Invidia vedrà, che voi non siete ricorsi alla vendetta rarne il suo ajuto, mà in sua vece vi servite dell'Umiltà, resterà talmente forpresa, e confusa, che si vergognerà in avvenire di ciinentarsi più sola con voi, avyedendosi di non potervi abbattere ; mà cosa farà per non cedere? Si unirà con il Dispreggio, e con lo Sdegno per necessitarvi à ricorrere alla Vendetta. Questi vizj baldanzosi comanderanno à qualchuno de' suoi petulanti seguaci, cine vi faccia una mala creanza, e vi mo  per implom desti senz'averne data occafione, in queIto caso ricorrete subbitamente per consiglio alla Prudenza, che vi farà capire, che di tal'ingiuria , non ne doyete chiedere fodisfazione dalli seguaci del Dispregio, e dello Sdegno, perche quei, che seguitano questi yizj , come imprudeņti, sono ancora pazzi, & į pazzinon essendo capaci di discernere ciò che fạnno, non sono tenuti di renderne conto; Contro li principali dunque, & autori caderà il vostro sdegno , e questi, come vi consiglierà che li mortifichiace ? Non già con la vendetta, perche questo appunto desidereriaạo che faceste, cioè, che ricorreste ad un'altro vizio, che vi tradise, e cogliessę nel mezo per forzarvi å rendervi à loro discrezione, inà bensì con la sola sofferenza tanto da essi temuta per il grandanno, che loro apporta, & affinche lo facciate con aniino generoso vi riferirà li seguenti casi.  A Diogene Filosofo Stoico, mentre stava disputando particolarmente della collera , gli fù da un protervo giovane  fpu  Sputato in faccia , sopportò egli il tutto piacevolmente , e da savio, e solo disse: Io non vado veramente in collera , mà non lasciò però di dubitare , fe in questa occasione doveffi farlo.  Catone mentre staya difendendo una causa ricevette da Lentulo giovane seditioso ua folenne sputacchio nella fronte, egli si nettó, e rasciugò la fronte , & armato di una gran sofferenza, solo diffe: lo affermarò à tutti, ò Lentulo, che fi gabbano quelli, che negano, che tù abbi bocca. Rifettendo voi dunque all'ingiuria maggiore della vostra fatta ad uomini di tanta stima, & al modo, che si conțennero vi si renderà più facile l'esecuzione del confimile ripiego propostovi dalla prudenza , mediante il quale avvedutosi il Dispregio, e lo Sdegno, che in vece di quocervi vi hanno accresciuto ftima appresso tutti, desisteranno ancora eff di più moleftärvi, vedendosi dalla vostra sofferenza delusi, e vinti, Arriverete al fior degl'anni avan.  [ocr errors] zati già ne' commodi, & in conseguenza con più lautezza nudriti. Allora vorrà facilmente la lussuria cimentarsi con voi, e per farvi qualche danno considerabile, vitenderà molte insidie , vi farà trovare occasioni pronte; procurera, che siate con vezzi, e lusinghe adescati; Allora cosa farere?ftate faldi,perche sarà contro voi questa una gran guerra, mentre non avrete campo in quel punto preso di consigliarvi con le virid, ftanteche : Vinum, & Mulieres faciunt prevaricare Sam pientes., come ben diffe Salomone. State faldi, che è pur troppo vero, che molti si sono arrenati per questa cagione nel meglio de’loro avanzamenti : Vi converrà dunque procurare di prevenire l'infidie della lussuria, e non aspettare di cssere prevenuti da effe , e questo lo farere , quando sarete prossimi à quel tempo con chiamare à consiglio generale turte le virtù per risolvere cosa sia efpediéte,che facciate,ò di accasarvi,e con chi, ed in che tempo, ò di continuare lo Aato libero,e con che cautele maggiori,La Prudenza, e la Giustizia vi con figlieranno facilmente à prender mor glie, con il motivo gịultiflimo,che quel la vita, che da voltri genitori riceveste con voi non si estingua, mà che per la conservazione della propria specie law propaghiate ne posteri, ed à buon fine ancofa, che non abbiate tanto da impazzirvi nella vostra vecchiają à cercare l'eredi, conforme ad alcuni, che non mai fi cușorono del titolo di padre è accaduto; La sola difficoltà si rifringerà allo sciegliere chi faccia per poi , perche la Prudenza, e la Giustizia vi vorranng consigliare diversamente da quello si pratica in alcuni luoghi, dove il folico  di cercare chị abbią dotę groffa , chi sia bella, e fpiritosa; la Prudenza non vorrà, che cerchiate questo, in primo luogo, mà bensì, chi sia di buoni natali, di perfetta faļute, e di ottimi costumi, ¢ ben’educata ; e con ragione, perche non deve essere affare di minore impostanza l'accasarsi, di quello, che sia di fær compra di un cavallo; e se per comprare  un  [merged small][merged small][merged small][ocr errors] [merged small][ocr errors] un cavallo ( che non riuscendo buono fi può subitamente dar yia) fi ricerca in primo luogo la buona razza, fe fia fano, e se abbia vizio'alcuno, perche nel pro- : vedersi della compagnia inseparabile non si hanno da fare fimili diligenze Sicchè trovato che ayrete chi abbia le condizioni sudette stringete, senza più indugiare , il vostro matrimonio, con quella dote, che avrà, senza ricercarne d'avantaggio, che farete un'ottimo negozio, perche quattro faranno le doti, che prenderete, una sola apprezzata , e trè inestimabili , per non effervi prezzo, che le uguagli', e saranno, la buona nascita,la salute, e gli ottiini costumi, con la buona educazione, & avvertite à non fare diversamente , per non cadere nella sventura di Socrate, che fi abbatte in una inquietisima Santippa. Circa il tempo in cui lo dovrete fare viconsiglieranno, che non lo facciate nè troppo giovani , nè croppo vecchi, mà bensì nell'età virile, ed allora appunto, che ayrete stabilito un'assegnamento suffi  ciente  1  [ocr errors]  ciente per il inantenimento della vostra  fameglia, e non prima , pèrche si ricerca  fenno, e cominodica per effere, buon Pa-  dre di fameglia. Non troppo giovani,   per non distogliervi da vostri studj, ed  avanzamenti, ne' quali non sarete anco-  ra bene stabiliti , nè troppo vecchi, per  non lasciarli, se avrete figliuoli, troppo  immacuri, e senza avyiamento, e per  non foccombere ancor yoi fotto il peso  del matrimonio prima di quello , che  fareste vivendone disciolti , conforme  à tanti è accaduto ,  Şe poi voi adurrete alla Prudenza ,  e Giustizia li seguenti motivi, che avete   esimervida simile legame, che sono; ò che già vi è nella vostra fameglia, chi sia atto à sostenere un simil peso, ò che dubitate , che la moglie, e l'educazione de'figliuoli vi possano distogliere dalla voftra professione, qualche altro inotivo à voi folamente noto non crediare, che yi forzeranno già à farlo, vilascięrano in tutta yostra libertà, vi consogneranno bensì alla Fortezza, e Tempe  Q:  per  [ocr errors] ranza,  }  ranza , acciocchè vi consiglino, e prestino ajuto in caso, che la Luffuria vi fa. ceffe qualche violenza . Il consiglio, che quefte virtù vi daranno sarà facilmente, che siate circospetti, ed appena , che vi sarete avveduti di qualche laccio, che yi tenderà la Lussuria di troncarlo,e prima che vi poniate il piede, che siate fempre cautelati nel parlare , ę fentendo qualche parola equivoca, l'interpreciate sempre à favore dell'onestà, né la crediate detta per voi, che ricevendo qualche cortesia insolita, la crediate fatta solamente per isperimentare la vostra modestia, e non ad altro fine , onde la cancellerete subitamente, acciò la rimembranza di quella non turbi la vostra fantasia ; Che vi moftriate sempre sostenuti più tosto, che galanti in certe occasioni di confidenze, dalle quali con bel modo procuriate di liberarvene , che da certi luoghi sospetti,se ne potrete fare a meno, ne stiate lontani, & andandovi, procuriate efservi in ore, che vi fieno altri, perche al parere di Seneca : Magna pars  peccatorum tollitur fe peccaturis teftis alibi  Aat(a); ed ivi non vitrattenjate più del  bisogno necessarios e sempre con discorsi   serj, ed uniformandovi alli consigli della  Fortezza, e Temperanza non diffidate  punto della loro allistenza nelli maggio  si vostri bisogni, che dureranno lino à  tanto. che sarà in auge il fervore della  vostra gioventù .  Il vizio della gola vorrà aticor'egli  fare tutti li suoi sforzi contro di voi in  decto tempo più profpero di vostra vita,   per vedere se vi potesse adescare; e cofa   farà a comanderà facilmente à qualche-  dano de' suoi ricchi feguaci , che facen-   do uno de' fuoi sontuolillimi pranzi, o   cena; conviti ancor voi; considero , che   vi troverete in quel punto preso incri-   garislimi, perche rifletterete allora , che   le ricuserete tale invito , sarete' tenuti   per uomini incivili, che non gradite li   favori, e cortefie, che vi fi fanno; fed    l'accetterete,metterere ad un gran risico   Ja vostra temperanza , onde vi converrà   (*) Episi 11.di questo ancora chiederne preventivo Consiglio s. per aver pronto il suo fano imedio per quando vi capitaffe il bio fognb.  si Consigliandovi preventivamente con la Prudenzás.per sapere in che modo allora vi dovrete contentere, sarà facilesi chievi dica;;che se viritroverete in luoo ghi dove sia solito, e che frequentemente li Medici fiano convitati, & intervenghino in fimili bancheteis. non ricusate tali inviti s perche quelle cose, che sono folite', nou recanto alcuna aimniirazione, non facendosene caso,basterà solamente; che yi sappiate regolare con giadizio in non pregiudicare di molto alla vostra  consueta fobrietás perche nuocerestu e è  più li denti nel masticare , che la gola nell'inghiottire si e diportandovi in tal guisa,la gola avrà poco guadagnato con voi; Sepois dove voi dimorerete , non fosse in uso, mà solamente, che di rado li Medici v'intervenissero con modo al  fai civile, che lo ricusiate pure,non man.. candovi legittima scusa, mentre ò la vo(tra complessione non assuefatta à fimili disordini, ò qualche cura riguardevole, che avrete in quel tempo, queste vi potranno efiinere onestamente da qualunque taccia d'inciýiltà . 03.15  Sò che vi appagherete di tal distinzione saviazfatta dalla Prudenza, effendo. voi capaci di riflettere , che dove i Mea dici ricevono spesso simili correfie fono molto stimati, ed in conseguenza i loro difetti non sono con tanta attenzione norati da tutti, come l'opposto segue dove di detta stima si penuria.  E certamente l'esperienza hà fatto vedere, che nel secondo caso, quando li Medici si sono voluti azardare à fimili cimenti, se ne sono poscia pentiti, ftante che, ò per non essere cosa solita , ò mediante la curiosità di vedere in che modo si regolavano coloro, che tanto biafie mano la crapula, hanno ritrovato iyi molti spettatori de' loro portamenti, che li hanno posti in qualche suggezio.  R 4  [ocr errors] ne,  he', mediante la quale ; se hanno procutato di contenerli nella sobrietà, hanno. fentito de'motteggiametitizñiehte da effi graditi, e se hanno disordinato, gli sono giunti all'orecchie certi sussurri della's fervitů z che diceva : Il buon Medico che biasima tanto li disordini , egli troppo fà peggio di noi, andiamo à credere cið, ch'egli dice; Se poi taluno di elle fia restato gabbato dal vinos non hà troVato già chi l'abbia seusato ; conforme fece Seneca a favore di Catone; impuitato di fimile vizio, dicendo, che non poteva essere, che un Catone fi ubriacasses mà quando che ciò fosse stato vero, in un Catone fimile vizio faria passato in virtù .  Mà non si sono già pentiti quelli ; the civilmente ricufarono fimili inviti, mentre fattisi capaci coloro, che desideravano di vederli crapolare; dalli giusti motivi apportaci per iscusa, rimasero più tosto edificati, che disgustati da fiinili repulse, ed in segno di ciò ne diedero in avvenire attestati di maggior ftima: Ne  ро  [ocr errors] [ocr errors] potrei di questi efempj riferire alcuni a mà, per non dilongarmi troppo , ftimo bene di tralasciarli . Sicche, per vincere la gola , il partito più sicuro sarà di fuga gire l'occasioni pronte di crapolare con un'onesta ritirata , conforme la Prudene za configlia :  Stabilito che avrete il vostro itato à quel fegno che potrete ; non solo per decentemente vivere , e mantenere con decoro la voftra casa j mà ancora con la vostra economia accrescerla commodamente; allora l'ingordigia , e l'infariabia lità di cumulare vi comincieranno & muover guerra, e quello, che farà più formidabile con apparenze vantag: giofe v'infidieranno alla vita , mentre vi Itimoleranno, e vi violenreranno infieme ad accettare tutto ciò che vi si pre fenterà davanti , e fe quefto non bastera à renervi nottése giorno occupati, vi ftimoleranno à procurarne de' nuovi fervigj, e certainente non per altro fing, che per distruggere in breve il vostro inzia dividuo con una eccelliva fatica, con  una  1  250 Dell'Idea del vero Medico. una continua inquietudine di animo,con una perpetua schiavitudine, credute tutse dal Mondo pazzo per felicitàe per prosperità di fortuna  Cosa dovrete dunque fare per rimuovere da voi un sì evidente pericolo di vita, che vi sovrasta 2 Vi converrà certameute prenderci rimedio prima, che questi nemici facciano breccia nel vostro cuore., e parlamentino con il vo. ftro desiderio, perche altrimenti con lo fplendore dell'oro li guadagneranno, ed il suo rimedio ficuro farà, che quando  ' non ifta concento di ciò che hà, e vorrà procurare cofe maggiori, di consigliarvi tosto con la Prudenza, che questa facilmente lo quieterà con dirvi : Cofa bramate d'avantaggio a non avete, più di quello vi bisogna rimirate quanti altri, che hanno accor essi egual merito alvoftro, sono più attempati di voi, e pure non sono così ben proveduti, come voi fiere: Ditemi, che tempo avete , che vi avanza , quando appena ne resta tanto ,che basti per lo studio necessario's e pery il bisognevole riposo ?  E quale di questi due tempi vorrete impiegare nelle cure di più, che deside rate confeguire ? forse il primo ? La Giustizia se'ue sdegnerà per non esser vostro: Forse il secondo, che è cutro vostro & come potrete vivere s fapendo voi, che: Quod caret alterna requie durabile non eft. Riflettete attentamente, che lo le pioggie curte cadessero sopra pochi campi, in vece di ravvivarli, e rendera li più fécondi , opprimeciano più costo quanto di verde li ricopres e che la gran Providenza ,che saggiamente opera, dispensa il publico bene à prở di cucţi; facendo, che il Sole non per pochi, mà bensi per tutti risplenda', c finalmente che le taluno vorrå soverchiainente cam ricare il suo stomaco, anco di dolcissimo cibo , gli converrà ben spesso soffrire aspri dolori di ventre. Risplende molto l'oro, må riflettere ancora , ch'è più' grave di qualunque altro metallo , onde neceffariamene ammaffarne di molto non  si può  G può senza restarvi affatto oppresli id Breve sotto il suo grave peso, o per la meno perderci la propria libertà; Quindi è, che faggiamente Curio ricusò da'. Sanniti tutta quella gran quantità di oro, che gl'avevano portato 5 dicendo foro, che esso credeva cosa più gloriosa il poter comandare à chi molt'oro possedeva , di quello che fosse il possederne di molto ; volendo in tal guisa farci ca. pire, che non si poteva cumulare oro in: gran copia, e mantenere la sua libertà. Il mio configlio dunque è, che freniate il vostro defiderio, acciò non bramjata nè pure una cura d'avantaggio di quel le, che potrete commodamente reggere, e tanto maggiormente, che quefta voce Cura appresso li Latini non significa altro, che Briga, è travaglio, ex eo quod cor edat, dw excruciet, delle quali conviene ayerne folamente tante,quante baftino à poterle fofferire, e non più , verificandosi in esse più, che in ogn'altra cosa quel detto: Ne quid nimis . Sentitene però il parere della Giustizia per res  go:  [ocr errors] golarvi fino dove vi potrete stendere;  per non incorrere nella caccia d'insa-  ziabili.  Voi sarete facilmente rimasti per   ora appagati di quanto vi avrà detto la   Prudenza, à segno, che non vi curerete   sentire altro conseglio, con tutto ciò per   convenienza almeno sarete tenuti,aven-   dovi ciò la sudetta incaricato, di sentir-   ne il parere della Giustizia , intorno al  vostro regolamento, e con tale occasio-  ne vi potrete consigliare ancora sopra   un certo ripiego, che facilmente il vo-   ftro desiderio visuggerirà, cioè di all.com   gerirvi de’ servigi antichi per proveder-   vi de' nuovi di maggior vostro profitto,   e minor briga, il quale non lo dovrete   porre in esecuzione senza l'approvazio-   ne della Giustizia.   Esposto , che avrete a questa fanta virtù ciò, che bramate sapere, ella cortesemente y'insegnerà ciò, che dovrete fare intorno al vostro regolamento, che sarà di misurare in primo luogo le vostre forze , & il tempo, che vi resta libero,  [ocr errors] e poi l'impiego , che vi si presenta, e se rincongrerete le misure proporzionate trà di loro , accettatelo pure, senz'alcun timore della taccia d'insaziabili; Vi suggerirà però, che stiate bene oculati in prenderne le dette misure à suo dovere, affinchè non reftiate ingaonati, perche . altrimentiaffatto infructuofo riusciria il fuo configlio,ed acciocchè non segua un tale errore, vi darà lei medefima dug meze canne, una delle quali la troverete molto scarfa, e l'altra affai vantaggiosa; con la prima yi ordinerà, che miluriate le voitre forze, & il tempo, che vi ayanza ; con la feconda l'impiego, che vi li presenta, e prendendo voi le misure in questa guisa yi assicura la Giustizia , che non potrete errare. Doye che facendoli da voi diversamente, tutte le altre meze canne , che adoprerete ve le porgerà il yostro desiderio fatte à suo modo, e saranno tutte yantaggiose di molto quelle, con le quali misurerete le vostre forze, & il tempo, e scarsiffime quelle, delle quali yi servirete per misurare l'occasio  ni,  [ocr errors][ocr errors] ni , e questa è la cagione de? sbagli, che fi prendono contro il volere della Giuftizia , c per due capi, (primieramente, perche chi misura in cal guisa erra per abbreviare la lunghezza di fuá vita , divenendo omicida di fe medesimo, sì ancora per il danno,chie nc poffono riceveré alcunische ad ore affai incongrue, ed à mente stracca gli cocca per fimilisbagli essere curati.  In glçre vi dirà apertamente, che non dovrere in conto alcuno disfarvi delli servigi antichi per prenderne de' nuovi in fua veće, perche non avete alcuna giusta cagione di farlo , anziche facendolo, mostrereite una somma ingratitudine in abbandonare chi in temро  de' vostri bisogni vi fù grato , e chi vi favori ne' vostri avanzamenti, non con altro motivo, che de' yostri maggiori vantaggi ; se poielli, senza alcuna vostra colpa, fi alienaffero da voi , in questo solo caso, perche volenti nan fit injuria, lo potreste fare senz'alcuna taccia d'ingratitudine; e së esercitaste la  Me256 Dell?idea del vero Medica, Medicina in certi luoghi lontani, dove alcuni li prevalgono di un Medico fino à tanto, che lo vedono incominciare à far negozj, ed allora se ne disfanno per prenderne à proteggere un altro : İyi basterebbe pazientare un poco, che vi li presenterebbe l'occasione di poter: lo fare, mà dove ciò non li costuma vị convien’essere grati, e costanti, fische sarete capaci di medicare,  Con tutto che resterere per qualche tempo appagati di quanto vi hanno consigliato la Prudenza, e la Giustizia perche il vostro desiderio yerrà conținuamente bersagliato daļli sudettį ab. bominevoli vizj, sarà necessario, chcimploriate l'affiftenza della Fortezza , e Temperanza , acciò perseveriare sempre Itabili nell'offervanza di detto consiglio, & il maggior bene, che dette virtù vi potranno apportare, sarà d'infinuaryi diverse istorie di coloro, che per essere Itati insaziabili, nel colmo delle loro credute prosperità sono mancati, eche infelice memoria di esia ne fią rimasta trà  noi  [ocr errors] و  [ocr errors] noi, mentre chi ha lasciato la sua fameglia appena slattata , senza indirizzo, a senza guida, chi intricata la sua eredità , per non aver avuto tempo in vita di ben'impiegare li suoi avanzi; chi, doppa fofferta una lunghissina, e dispendiosa infermità, acquistata per li suoi grans Strapazzi , appena hà lasciato tanco, che bastasse al suo funerale; e finalmente cosa sia stato detto di tutti doppo morti, cioè, che non'ınericavano d'essere compatiti, perche erano morti per colpa loro, avendo voluto abbracciare troppo, e più di quello, che potevano reggere, çon tutto quello, che la maledicenzą gradita, e senza timore alcuno så inventare di peggio contro i poveri des fonti,  Impresli, che avrete sì spaventosi esempj nelle vostre menti, con la riferfione, che il simile seguirebbe in voi,  fc cadefte in tali errori, non temeţe più , che il vostro disiderio possa essere superato da simili vizj , perche questi gļi serviranno di un gran freno ,  R  Nelle  Nelle vostre maggiori prosperită l'Adulazione ancora vi farà doppia guerra la prima confifterà in ispargere di voi più lodi di quelle , che meriterete, per risvegliarvi contro l'Invidia , quando fi foile mai adormentata, mà trovandovi già premuniti de' buoni avvertimenti dativi dalla Prudenza, non vi potrà punto nuocere in questo primo asfalto, e se uniręcę alla fofferenza una profonda , e fincera umiltà, supererete l'Adulazione, el'Invidia nel medesimo tempo, Màvedendofi da voi la maliziosa Adulazione fchernita , adoprerà tutte le sue frodi per violentarvi ad essere suoi seguaci , e per farvi divenire per forza Adulatori, come farà mai ? Sentite bene; Pren. derà l'occasione di qualche cura grave, nella quale intervengano molti parenti, & amici dell'Infermo, e vi farà da  queiti  porre in angustie di diventare Adulatore per forza, per li seguenti impulsi : Vi dirà taluna di esli , questo male si aggrava, perche non gli fate applicare quattro vefficatorja se ne morirà senza  questo  [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small] questo rimedio, e la colpa farà tutta yostra, che trascurate un rimedio sì efficace. Un'altro vi dirà: perche non gli date una buona Medicina da tirare giù ? lo volete lasciar morire senz'ajuto? ayver, cite, se muore , fentirere, che si dirà di voi, à me basta di avervelo avvisato. Vi sarà ancora trà essi chị vi ayyertirà, che se gli cavate sangue morirà certamente, perche non gli conviene; e d'avantaggio vi dirà , che se lo cayerere lo amazerete, e derro male farà per appunto un'infiammagione interna , nella quale non conviene ciò, che viene proposto , e gli sarà necessario quanto viene ritardato. Vedete in chę angustie , in che laberinţi vi troverefte, se non aveste la Prudenza configliera ? Imitercste senza dubbio, ò quel Medico, à cui un tempo fà , fù suggerito da un'amico dell'Infermo , in un caso simile , un certo riinędio, dicendo, che lo proponeva , perche cra esso ancora mezo Medico ; A cui alquanto alterato gli rispose: & io son tutto Medico , conviene dunque, che la mecà ce  [ocr errors][ocr errors][merged small] fi: 28    1  da al tutto; Io, che sono tutto, non voglio che si dia , non si deve dunque dare; O pure quell'altro, che ritrovan. dosi in un fimile intrigo», doppo aver dette le sue ragioni , senza profitto, rifpose : Giacchè loro Signori ne fanno più di me, facciano loro la cura , e se ne andiede via, mà ciò non lodandolo la Prudenza, sentirete dunque da lei , in che forma vi dovrere regolare.  Sentendo riferire da voi questo fatto la Prudenza disapproverà molta, che chi non è Professore, ardisca così francamente di proporre, ed escludere quelli rimedj, che in mali sì gravi danno molto da pensare alli medesimi Professori provetti, e che pongano à cimento li onorati, con modi si violenti, di diventare Adulatori, e facilmente in tal guisa vi consiglierà: Dite le vostre ragioni à chi bisogna, con animo composto, e questi, ò fi appagheranno di quelle , ò nò, se ne resteranno fodisfatti, rimarrà già terminata la controversia , e potrete fare liberamente à voftro modo, se poi persisterahtio ancora ostinati nella loro opis nione , allora suggerite, che tratrandosi di un male sì grave con tante controverfie, desiderate nella cura di avere altri Professori compagni per meglio risolve. re ciò, che si debba fare ó e procurate, che con sollecitudine ciò segua y acciòcchè la lunga dilazione non pregiudichi all'Ammalato, e che ne consulti siano presenti coloro, che fuscitorno le controversie , affinche sentano con quante circospezioni sono serviti gl'Infermi, ed ancora se avranno qualche cosa di più la poffano dedurre à tutti.  Facendo voi à modo della Prudens za, non dovete avere più timore di prevaricare, perche la Fortezza vi assisterà, c consolerà insieme , l'assistenza sarà di non farvi prendere in questi casi certi : dannosi ripieghi, che sariano , in vece de' vefficanti d'applicare li senapismis di un purgante , dare un leniente, ed in tanto d'andare differendo la sanguigna , facendovi conoscere, che l'operare in questo modo non è da Medico, mà bensi  [ocr errors] 9  [ocr errors] da Adulatore, e che quancunque questi tali nelli funesti eventi fieno dall’Adulazione tenuti indocenti, e difefissorio però dalla Giustizia creduti rei di gran colpa s con tutti quelli, che ne diedero l'occasione, e vi confolerå parimente la Fortezza con dirvi: Si poffono chiamare tempi felici nella Medicina li presenti, non vedendoli ora l'Adulazione premiata à quel segno, che era ne' tempi di Galeno, nè la lincerità così vilipesa; Allora trionfavano li Medici Adulatori, erano ricchi, e potenti gerano stimati , e riveriti, ogn’uno facęya à gara di fayòrirli, eli onorati, sinceri, e docti se ne stavano abbandonati, derisi, evilipeli, e se non fosse stata la mia grand'alistenza,che prestavo loro , nè pure úgo ne sarebbe rimasto di efli, anzi Galeno isterlo, che non avesse prevaricato per quanto venivano violentati dall'Adulazione :' So, che presterete fede à quanto vi dico, mà volendovene accertar meglio di quanto fuccedeva in quei cempi leggere ciò , che Galeno riferisce nel primo del suo  [ocr errors] me.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] metodo, che appunto è questo: Eoque jure fit cum ægrotare cçperint Medicos advocent , non quidem optimos į utpotè quos per Sanitatem noscere nunquam ftuduerunt , fed eosy quos maxime familiares habent ; quique ipfis maximè adulentur , qui du frigidam dabünt; si banc popofcerint, lavabunt cùm juferint; a nivem; vinum= que porrigent poftremò quidquid jubebitur mancipiorum ritu facient &c. itaque non qui meliùs arten callet ; fed qui adulari aptiùs novit apud iftos magis in pretio eft , buic omnia plana's perviaque funt , huic ædium fores patent ; hic brevi efficitur dives, plurimùmque poteft &c. Quali violenze oggidì sono cessate , mercèche hanno imparato molti à proprie spese à non commertere più la loro vita in mano degl'infidi Adulatori, e perciò essendo mancati per loro l'impieghi, e li gran guadagni, che in breve facevano,è mancato ancora quel grand'impulso, che vi era à dover effere Adulatori per essere adoperati, e tutto questo mi costa  per essere io la Fortezza, che affifto à quei  ز  e. lig a fe ne be he ni dy 112 to 5, 10  generofi spiriti,che abborriscono l'Adulazione , & abbandono quei vili, che se le danno in preda  Se poi non bastasse all'Adulazione d'avervi fatto violentare da parenti, ed amici, mà volesse ancora farvi forzare dall'Infermo isteffo à divenire suoi fem; guaci , in questo caso, fatte che avete le diligenze propostevi dalla Prudenza; e. che mediante quelle egli non resti appagato, la Giustizia non vi violenterà già à continuare il servigio, vi forzerà bensì à non divenire Adulatore , onde in questo caso, con tutta civiltàs procurerete ( quando l'Infermo' non deliri) di consegnare ad altri ciò, che non fà per la vostra riputazione ; ben’è vero, che questi sono casi rarissimi avendo molte altre cose da penfare l'aggravato Infermo, che di voler'essere adulato, con tut  per farvivedere, che ve ne sia stato qualcheduvo, che abbia desiderato di cllcre adulato fino alla morte, viriferirò la presente istoria : Una persona di qualità cospicua, molti anni sono, dovendosi  pro  to ciò  [ocr errors] [ocr errors] provedere di Medico; ne scelse uno tutto di suo genio, ed avendolo participato al suo amico di confidenza ; questi in vece di rallegrarsene seco se ne condolse, dicendogli apertamente, che poteva fare meglior'elezione , essendovene tanti più esperti del già eletto 3 replicò à questo: Lolo-sò beniffimo, mà hò voluto pren derne uno, che faccia à mio modo ancora quando mi trovo ammalato, perche io non poffo Coffrire quel Medico, che allora mi voglia forzare à fare à suo modo, gli rispose saviamente l'amico : Signore, chi fà à suo modo quando ft benes: conviene , che faccia à modo del Medico quando ftà male, non poffo lodare la sua elezione, con tutto che sia di suo genio, perche si tratta di Medico, à cui si consegna la propria vita, non già di un servidore di mera comparsa ; che poco importa di che abilità egli sia, mà non paffarono molti anni, che detto Signore cadde inferino di lunga , e fiftidiosa malacia, che terminò finalmente, per essere vissuto à suo inodo in un'ascelfo interno, espurgava della marcia per feceffo , la vidde l'isteffo Infermo, che diffe, non farà marcii , må bensì il pangrattato, che hò preso questa mattina lo domandò al suo Medico, che gli rispose per dargli gufto, quello appunto & Signore, e con quel pangrattato se ne mori, adulato sempre fino al fine della fua vita.  L'Iniquità, e l'Inganno confederati , nôn porerido più Toffrire, che voi godiare quella bella tranquillità interna per cagione delle vostre virtù, vorranno ancora effi con le loro frodi adoperare ogni sforzo possibile per turbarla ; ed in fare ciò vi toccheranno facilmente nel più vivo, inolestandovi in qualche cosa di vostra somma premura , e doppo di aver consultato trå fe più danni,risolve, ranno alla fine di farvi perdere il servigio di quelli, che vi sono più á cuore, € tanto si adopereranno,e con tanti mezi s'ingegneranno, che finalmente gli riufcirà ciò, che bramavano i onde voi, senza faperne il perche , e senza averne  data  و  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] data alcuna occafione , essendosi con in? sidie segrete proceduto , all'improviso vi troverete esclusi da quel servigio da voi tanto prediletto. E che farete allora? vi dolerete forse con la Giustizia ; che siete stati licenziati à torto ? Avvertite , che facendo in tal guisa imitereste Santippa, che si doleva della morte di suo marito , perche si faceva morire å torto, à cui il sapience Socrate rispose : E che desideravi forse, che io foli fatto morire à ragione ? questa appunto è la mia gloria, che sono fatto inorire à torto. Sicchè alla Giustizia non vi cooviene ricorrere, må berisi dapoi che fi sarà alquanto calmato quel senso, che neceffariamente vi avrà apportato una nuova ingrata, ed improvisa, dovrete ricorrere alla Pradenza per riceverne il suo configlio à fine di poter più spedicamente restituire all'animo vostro quella bella calma, che dall’Iniquicà, e dall'Inganno gli era stata rubata :  La Prudenza senrendo da voi tal novità vi consolerà certamente, ftate  al  [ocr errors][merged small][ocr errors] allegri, dicendovi , che questa è una's grazia, che vi fà la Divina Providenza, facendovi capire , che vi dovete alquana: to staccare da ciò, che nel mondo vi è più caro , per confidare solamente in lei, che non mai hà abbandonato chi fedelmente la serve. E di che vi dolete? forse perche perduto avete un servigio à voi caro ve ne restano pure tanti altri? com- .. partite tra questi il vostro affetto, che così non avrete fatta perdita alcuna potendone del vostro amore ricevere da molti maggior ricompensa di prima, ò pure (che sarà meglio ) questo vostro amore non gradito dagl'uomini accrefcetelo à Dio, che vi recherà molto maggior profitto di quello , che vi rendeva prima. E se veramente amate di cuore quella casa, che avete perduta g non vi dovete contristare della perdita vostra , mà bensi della sua , avendo lasciato voi, ch'eravate già istrutti da tanto tempo nelle complessioni, e mali di chi ivi conviveva per prenderne uno affatto novizio , che prima , che ne qa divenuto  1  capace à quel segno, che voi siete, vi vuole del tempo affai, & in tanto come anderà? e poi se questo nuovo eletto fù complice ancor'egli nelli segreti trattati dell’Iniquità, e dell'Inganno , che bell. acquisto , che averà fatto, prendendo uno di simili costumi in vostra vece , che fiete uomini di onore, talche non voi, mà chi vi lasciò hà occasione d'afAliggersi, perche danno à se stesso feçe, non à voi, che per essere esenti da questa briga ne ricevere sollievo ; chi è pari. mente entrato in luogo vostro , se pur? egli è complice, come disfi , ayrà molta occasione da contristarsi per la finderesi, che gli resta di non avere operato come dovea, e per il timore, che un giorno il fimile possa succedere à lui ancora.Quietatevi dunque , giacchè rammarico alcuno non vi resta d'averli mal serviti, con questa ferma fiducia, che in quel sito ( come tante volte è accaduto ) da dove la malvagità, e l'inganno hanno tolto à viva forza un virgulto , la Giustizia vi pianterà un vago, e glorioso lauro  con  [ocr errors] con questo motţo ;Ųno avulo splendidior non deficit alter; molto di più vi potrei dire, se non lo riputaffe superfluo, poiche gl’animi vostri ben moriggeräti con pochi motivi si sodisfano, e li calma. no, allorche vengono da accidenti im. provisi turbati,  Udifte come vi consolo bene la Prudenza, e con che fortį motivi , li quali fe li cerrețę impressi nelļe vostre menti, quantunque vi giungano simili accidenti in avvenire, punto non vịcontristeranno, avendo questi forza di disporre gl'animi vostri à foffrirli coftantemente, ed in conseguenza di fare, che li sudetti vizj delle loro iniquità non trionfino.  L'Ambizione yorrà ancor'effa nell' auge delle vostre fortune tentare, fe  potesse fare con yoi quaļche acquisto; s'ingegnerà di porvi nella mente idee grandiofe , viftimolerà à molte imprese, con pretesto di rendervi a' pofteri gloriofi : Per esempio , fe y'insinuerà di comporre qualche vago sistema di Medicina, qualche nuoyo metodo di medicare , à qualche altra cosa non pensata , nè tencat fin'ora da altri, e voi ricorrere subbita. mente alla Prudenza per consiglio, e vedrete come v'indirizzerà bene ; intorno à nuovi sistemi, e metodi di medicare vi farà questo dilemma: O ve ne sono trà gl’inventari de' veri,ò nò; Se ye ne sono, perche non li seguitate? che cosa yolete cercare di megliore della. verità? Se poi non vi è cosa ancora accertata in quelli, avendoyi per tanti secoli frayagliato una infinità d'uomini dotti, cosa yi persuaderete di fare di vantaggio ? non vi avvedete , che indarno faticherefte ancor voi, senza speranza alcuna di gloria, e se pure la conseguiste saria per pochi momenti; Il sistema, ed il metodo corrispondono al tutco, e quando questo non regge , e non suflifte, è se. gno evidente, che le fuc parci costitutive fono difertose; Impiegate dunque ogni voftra fatica in accertare , e rendere palese qualche parte di esli, che vi avvedrere, che sia oscura, ò che manchi, la quale benchc minima , nulladimeno una gran gloria vi apporterà, allorche l'averete accertata, e rinvenuta , e lascierete tali imprese grandi a' pofteri , che fi renderanno più facili a'medesimi, ale lorchè acquistate, saranno maggiori notizie delle loro parti costitutive,di quel, le ve ne fieno al presente; E per non effere creduți imprudenti scegliere di queste le necessarie , come avvertì Cicerone, (a) dicendo : Alterum eft vitium, quòd quidàm nimis magnum  gran  )  ftudium , multamque operam in res abfcuras , atque diffaciles conferunt , eafdemquè non necesarias; e quelle ancora, che sieno proporzionate alle vostre forze, come insegnò Orazio :(b) Sumite materiam vestrisqui firibitis    aquam.  Viribus , & verfate diù quid ferrere     cufent  Quid valeant humeri.   E perciò vi consiglierà la Prudenza d'impiegarvi in yostra gioventù intorno į a' ritrovamenti Anatomici , Chimici,  of[a] Primo de Officiis. (b] De Arte Poetica.   osservazioni Mediche e d'altre cose   utili, che richiedono ayvedutezza di  mente, buona vista , afsiduità , pazien-  za, e sanità, e questi accertati, che sono  incontrovertibili, rimangono per fem-  pre, e vi dissuaderà in detta età di dare  alla luce trattati di nuovi modi di inedi.  carc,essendo allora appunto come i frut-   ti fuori di stagione, che non hanno tutta  la loro sostanza, dovendosi ciò maturare  nell'età avvanzata, e colma d'esperienze  pratiche , dal che si può dedurre la ca--  gione, perche talvolta ne’libri,che trat-  tano di pratica , alcune cose, che vi fi  ritrovano non si verificano punto, e ciò  proviene , perche furono descritte da  Medici , che non avevano ancora tutta  l'esperienza necessaria per meglio accer-  tarle.   Vedendo questo vizio di non avere { potuto nella vostra persona fare alcun  guadagno, vorrà far prova, se per l'amore, che portate à qualche vostro figliuolo vi potesse far prevaricare, e vi anderà suggerendo à poco a poco, che avendo  S  voi  [ocr errors][ocr errors] voi de' buoni Protettori, gli procuriate, mediante il loro ajuto, qualche titolo nobile , qualche carica onorifica superiore alla vostra condizione per inalzarlo, e dargli insieme attestato del vostro amore, e benche questo non cada nella persona vostra direttamente, con tutto ciò, venendo procụrato da voi, tanto sarete tenuti consigliarvege con la Prudenza, anzi con la Giustizią-ancora , e consigliandovi con queste virtù vi diranno concordemente, che il maggior benc, che voi potrete fare a' vostri figliuo, li sarà, il procurare con ogni maggiore judustria , che divengano capaci , e meriteyoli di dette cariche, di detti titoli, che così, con poco ajuto de' vostri Protettori, potranno à suo tempo conseguire ciò, che sapranno desiderarc, e gloriosamente, venendo loro ciò conferito à cagione del proprio mcrito, ed operando voi in tal guisa , l'Ambizione nonpotrà trionfare di voi; trionferebbe bensì, quando che voi usaste violenze in procurar cose, delle quali non ne fossero  [ocr errors] me  [ocr errors] meritevoli, nel qual caso ancora quanto farete loro ottenere sarà per l'appunto consimile à quel titolo nobile, e speciofo, che si legge nel frontispizio di qualche libro, à'cui la materia rozzamente,  senza dottrina in esso trattata non gli corrisponde, che in vece ne formi concetto di esso chi lo legge, e considera, lo muoye più tolto al risos e perciò resta in un cantone derelitto, senza che alcuno più lo consideri,  L'Avarizia con duplicato pretesto di zelo vi assalirà ancor'effa, ftantechę se non avrete figliuoli, ò nipoti y’infinuerà, che facciate degl'avanzi più che potrete, à fine di stabilire qualche degna, e grandiosa memoria di voi à prò de' posteri; fe poi gli averete, li facciate ancora per lasciarli più commodi, ed in questo frete bene circospecti, poichè  Fallit enim vitium fpecie virtutis ,  du umbra; Onde appena, che in voi fentirete certi impulli, certi stimoli infolici di cumulaà tali effetei, consigliatevi con 13 S2  PruePrudenza, e con la Giustizia, le quali vi faranno capire ciò, che dovrete fare , c vi diranno facilmente intorno alla memoria grandiosa, che meditate di lasciasciare, essere meglio, che la lasciare ale quanto meno magnifica, e senza alcuno ajuto dell'Avarizia, che grandiosa con viziosi avanzi, perche tutto quel di più, che mediante il vizio l'accrescerete, in vece di apportarvi gloria , vi recherà ignominia , e che rispetto al cumulare di vantaggio per li figliuoli, e nipoti non lo facciate, perche quello lascierete loro di più,acquistato con Avarizia consumerà ciò, che avrete onestamente acquiftato, in oltre che voi siete tenuri di lasciar loro tanto, che li bafti à potersi avyanzare ancor'essi nelle virtù, stante  che :  Haud facilè emergunt quorum vir  tutibus obftat  Res angufta domi . : E v'infinueranno d'avantaggio, che Ippocrate v'insegnò' chiaramente à tal proposito ciò, che dovete fare, dicen  dovi  [ocr errors] [ocr errors][merged small] dovi: (a) Neque verò exigende mercedis  cupiditate duci oportet , nisi ut ad artem  edifcendam tuos instruas; E che quando  gli averete duplicato, ò triplicato ciò,  che fù lasciato à voi, e vi bastò per di-  venire virtuosi, sarete giudicari da tutti  per buoni Padri di fameglia, e che av-  vertiate bene, che certe ricchezze, che  superano la propria condizione, e per  altro non bastano à mantenersi in altra  sfera superiore , sono pericolosissime,  perche à cui fi lasciano , volendosi trat-  tare quefti d'avantaggio di quello, che  compete loro, preftamente le dißiperan-  no, conforme l'esperienza quotidiana lo   dimostra ben? fpeffo , per non volere   questi tali ad altro impiego applicare ,   che à quello dello dispendioso diverti-   mento, non servendo ftrertiffimi Fide-   commiffi , nè altri legami inventati per   impedirlo; ftanteche nella medesimais   conformità, che da'viventi si passeggia   sopra li sepolcri de’defonti, cosi ancora   per l'appunto si passa sopra le loro vo-   [ocr errors][ocr errors] lon(a) De pracept.  S 3.  278 Dell'Idea del vero Medico. lontà, e che quello, à cui dovrete invia gilare più d'ogn'altra cosa farà, di lasciarli virtuosi, ben’educati, e con buoni avviamenti, che allora , quantunque li lascierete con mediocri commodi, da se medesimi potranno divenire ricchi, e con questo vantaggio maggiore , che quelle ricchezze, che da se medesimi fi accumuleranno , non già le disliperan10 , conforme bene speffo in quelle , che si ereditano succede. Ponderate bene questi consigli, e servitevene, se volete in tutto abbattere l'Avarizia.  Incominciando voi à porre il piede nella vecchiaja , à cui conviene di cedere, ve ne avvedrete facilmente, quando che non potrete con quella facilità di prima reggere le voftre solite occupazioni , ed allora cosa farete? Non altro certamente che di consigliarvi con tutte le virtù, che v'indirizzinó per qual via dovrete caminare acciocchè voi , li quali sarete utili alla Republica per la lunga esperienza, che avrere, possiate più lungamente giovarle.  La  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] La Prudenza, come Maestra di tutte le altre virtù vi dirà, che non è  convenevole d'abbandonare tutti quei fervigj di coloro, che da voi per lungo tempo ne hanno ricavato del profitto nella loro salute , ed anco lo sperano in avvenire, per la fiducia , che hanno in voi, efsendo in istato ancora di potere ben'oprare , nè tampoco parte di elli , perche faria molto odiofa una tale vom ftra parziale risoluzione ; onde voi non potendo disfarvene, per non sentire ilamenti dei vostri clienti, vi converrà perfare di andare sostituendo qualcheduno, che vi poffa alleggerire almeno la fati  ed acciò abbiate facilità in eleggerlo, vi apporterà le trè malime sostituzioni , che il mondo tutto rimirò nel primo secolo della commune falurcs cioè : La prima, che fù fatta da Augusto in persona di Tiberio ; La seconda da Galba in quella di Pilona ; e la terza da Cocceo Nerva in quella di Trajano; ed in tal guisa facilmente v'istruirà , dicendovi : Nella prima Augusto ebbe una  $4  pelli  [ocr errors] pessima intenzione,inentre scelse un soggetto di reprobi costumi; un Tiberio ben noto per la sua iniquità, ed al sostituente più di ogn'altro, stanteche: (6) Comparatione deterrimâ fibi gloriam quafavisse . Nella seconda vi fù ottimo fine, perche fù eletto un meritevole, solamente si mancò ne i mezi , e di questo ne fù cagione l'avarizia di Galba, giacchè:(c) Confit at potuiffe conciliare animos, quantulacunque parci jenis liberalitate, c perciò ebbe l'esito infelices Nella terza finalmente tutti li requisiti furono ottimi, non vi fù punto di vizioso sì nel principio, che ne i mezi, e fine , e perciò fù gloriofiflima. Queste , benche fie00 state sostituzioni maflime, nulladime‘no possono servire di norina ancora nelle picciole, mentre dalla prima ne ricaverete, che vi sarà  che vi sarà poco bene accostumato; chi farà vizioso non meriterà di essere da yoi eletto ; Dalla seconda ne dedurrete, che chi elegge deve stare lontano dall'avarizia, e non esser  punto  do[b) Tasit. Annal lib. 1. [] Tacit. Hia.Jib.1.  redominato da questo vizio, se brama, che tutto vada felicemente ; Sicché la terza, in cui concorrono tutte le buone condizioni farà quella , che si dovrà imitare da voi per fare una degna elezione,mentre non fù già eletto da Cocceo Nerva Trajano per cagione di parentela , nè di {moderato amore, che gli portasse , mà bensì per il suo merito, e per la bontà de' suoi costumi, e non ebbe già per fine principale di gratificare l'eletto, mà solamente coloro , che doveano effergli. fudditi, e perciò riuscì un'ottimo Imperatore, e felicissimi tempi furono chiamati quelli del suo Impero. Non intendo già per questo di consigliarvi d'abbandonare li parenti, gl'amici, e quelli, che più d'ogn'altro ainate, perche ciò non saria ragionevole, anzi vi dico, che fiere tenuti à preferirgli ad ogn'altro eguale, ed anco qualche poco superiore à loro, conforme vi ordinerà la Giustizia isteffa , vi avverto solamente, che non vi serviate della parentela, dell'amicizia, e dell'amore per inicroscopio, acciò  ز  [ocr errors] vingrandischino di molto il soggetto, che prendete di mira per sostituirlo, altrimenti v'ingannerete , e chi lo mirerà fenza questi microscopj se ne avvederà molto benes conforine capirete anco voi istelli rimirandoli fpassionatamente ins fimile forma : E' ud verso affai trito; mà però che cade molto al proposito quello, che dice:  Quifquis amat ranam, ranam putat  effe Dianam; E la cagione fiè, perche l'amore non solamente så ingrandire il merito , mà ancora så ricoprire li difetti degl'oggetti amati. Se farere dunque voi la vostra elezione con rimirare li soggetti calig quali realmente sono 1109 alterati, per quali vi pofsono parere, non solamente sarà questa gradita , e profitcevole, mi eziandio riuscirà per voi gloriosa , conforme seguì à Cocceo Nerva, à cui la maggior gloria , che gli fia rimasta trà tante altre è quella ; di aver'egli saputo eleggere un Trajano per fuo successore all'Impero , e solo da questi ogn'uno  [ocr errors] ora comprende à qual segno giugnesfero la sua prudenza , il suo giudizio, e la sua integrità, ed essendo questi documenti della Prudenza per appunco coerenti à ciò, che Ippocrate c'insegna, cioè :(d) At verò imperitis nunquam quidquàm procurandum committes. Sin minùs ejus, quod malefactum eft vituperium in te recidet &c. non potrete da esli punto discoItarvi.  Palliamo ora all'incunbenza, che dovrà avere questo vostro sostituto, il quale essendo da voi scelto di buoni cos stumi, e dotto, caminerà in curto fecon: do la vostra direzione, onde profitcevole in conseguenza sarà , à cui l'avrete proposto, perche ne riceverà da esso un servigio alliduo, animato dal vostro prático configlio, e di questo ve ne prevalerete da principio ne'casi più leggieri, per poi, fecondo che v’andrete inoltrando negl'anni, avanzarlo ne'.gravi, con questo però, che abbiate l'occhio arrento al servigio, con visitare ancor voi di quando in quando gl'Infermi, per diriga gerli meglio con li vostri più accertati consigli , e facendo voi in questo modo non solamente non avranno fcapitato punto li voftri Infermi, anzi che più toito acquistato , restando loro tutto il voAro consiglio come prima con l'afiftenza maggiore del giovine sustituito, che da voi , mediante le vostre occupazioni, non lo potevano esiggere, e precisamente nelle ore più fastidiose, e tutto questo benefizio sapete perche lo riceveranno, ftanreche il sostituto fù scelto da voi, e da voi non preso à caso, mà bensì capato trà li buoni per il migliore, dove che se fosse stato preso per via di raccomandazioni, e senza la vostra dependenza , non caminerebbero le cose così felicemente, poiche sdegneria tal da voi independente sostituto caminare con le yostre direzioni, volendo far'egli à suo modo, e non saria picciolo favore,quando ve lo facesse, in caso di qualche controversia , di non ispargere da , che voi siete vecchi rimbambiti, e che  quan; [d] De dec.orn.  non  [ocr errors] non fiete più capaci di medicáre, per iscreditarvi con fimili menzogne, e da ciò qual vantaggio se ne riporteria à prò degl'Infermi, se non che una confusione, una inquietudine continuata , ponendosi in dubbio talvolta à chi de* due fi dovesse prestar maggior fede, se al giovane petulante, e scostumato,ò al vecchio, benche ingiustamente vilipeso; Con ragione dunquc Ippocrate inveisce contro costoro, che per vie indiretre si avanzano, dicendo: (e) Quàm repentè evecti fint, fortunæ tamèn ægentes per divites quofdam ex anguftiis emergunt utrique exi eventu nominis , celebritatem adepti, & in pejus ruentes luxu diffluunt , quæ in arte nulli rationi reddende sunt obnoxia negligunt ac.  In questo proposito il Disinganno, che hà il cuore sincero vi scoprirà un'altro pregiudizio delli massimi , che corrono trà alcuni , che non sono nella professione versati, quali credono per cosa utile nelle cure le controversie, edissenzioni trà Medici, e dicono, che essendo trà essi discordi, si scopra allora meglio la verità, confondendoli da quefti tali ciò, ch'è disputa virtuofa , utile anzichè neceffaria , dalla diffenzionc, e discordia superflua, e viziosa, nata dal mal costume . Il Disinganno vi scoprirà il tutto, e vi dirà: la disputa neceffaria è quella, che risulta da qualche indicazione dubbiofa per meglio discernerla, e questa trà Professori esperti, e di buoni costumi termina prestamente ; perche seguitandofi da elli solamente il configlio megliore, in un subito si accertano, le quali ragioni , e quali motivi prevalgono, se gl’affermativi, ò pure li contrarj, ed à megliori concordemente si appigliano ; Dovechè la diffenzione, e difcordia , che proviene dal mal costume, che per lo più viene fomentata da puntigli, e germoglia da picciole occasioni, non solamente è molto dannofa , inà perche si yà al cattivo, non mai viene affatto terminata,stanreche in simili contenzioni = Qui velit ingenio cedere nullus  eriti  [ocr errors] erit ; ela cagione di ciò n'è, perche tutto proviene dalle volontà discordi,che non amano di unirsi assieme, nel qual caso lę ragioni più valide, li motivi più evidenti, ò non appagano, ò non si vogliono capire, à segno , che alla fine annojarifi del troppo altercare, in vece della decifione letteraria fi passa qualche volta all' obbrobriosi improperj, senza ricavarne altro profiețo, che : Şeipfos ludibrio exponere , come insegnò Ippocrate , (f) € questo è per appunto quell'ideato bene', che à prò degl'Infermi se ne riportą da fimili contese, sicchè non v'è altra strada, che quella della concordia, à cus uniteci il consiglio già propostovi dalla Prudenza, & approvato dalle altre virtù entrando voi nella vecchiaja, se bramate con vantaggio,e profitto de' vostri Infermi alleggerirvi dalle fatiche, nel qual caso trovădoyi aggravati dall'ostinata Discordia , la Giustizia non vi obligherà à paziétare di vataggio,mà farete, che ogn’uno si serva pure à suo piacere ,  (6) Lib. de Praçept.  [ocr errors] Inoltrati, che poi sarete nella vecchiaja , che ve ne avvedrere pur troppo, se non vi vorrete lusingare, dalla notabile mutazione, che proverete in voi da quello , ch'eravate una volta, poiche le forze del vostro corpo languiranno, il vostro perspicace ingegno, la vostra. gran memoria, la vivacità del vostro fpirito, il discorso così spedito non si scorgeranno più quelli, che già furono, rincontrandoli ogn'uno molto mutati. In tale stato inevitabbile, cosa vi converrà fare? Non altro certamente, che d'imitare quei celebri Pittori, che per non perdere quel glorioso nome, che per lo passato aveano acquistato, allorche si avvedono, che i loro pennelli non sono più à dovere regolati dalla tremolante mano  li sospendono per trofei delle loro opere già fatte, e terminano in questa guisa gloriosamente il loro mestiere.  Seneca assomigliò faggiamente la vecchiaja alla nave, che comincia per la sua antichità à scomporsi, dicendo:  Quem  12  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Quemadmodùm in Have, que sentinam  trabit uni rime , aut alteri obfiftitur : Ubi  plurimis locis laxari cæperit , q cedere,  fuccurri'non poteft navigio dehiscenti : Ità   in fenili corpore aliquatenùs imbecillitas  fuftineri , c fulciri poteft, ubi tamquàm   in putri ædificio omnis junctura dilabitur ,  Odùm alia excipitur , alia difcinditur cir-  cumspiciendum eft quomodò exeas . E po-  tendo egualmente la detta nave, che il  vecchio, pericolare nel suo consueto  viaggio, converrà dunque ad ambedue  prendere il sicuro porto per prolungare  più, che sia poflibile il suo essere.   Mà questo distaccamento vi parerà il più duro, il più difficile di qualunque altra cosa, che averete emendata in voi sino à quel tempo; sì perche quest'impotenza insensibilmente se ne verrà ayanzando, onde in un subbito non ve ne potrete avvedere, e forse non prima di allora , che voi sarete renduti affatto inabili per la repugnanza grande , che hà Pumana natura à dichiararsi inabile, come ancora, perche non godendo più  T  quel  е  quella bella perspicacia di mente, quella pronta risolutezza di prima, non saprete così bene, come una volta, scegliere, e prontamente eseguire li buoni consigli della Prudenza, e se il buon'abito fatto non vi ajuterà allora à fare tal risoluzione, infingardamente procrastinando di giorno in giorno ad effettuarla , farete più tosto voi prevenuti dalla neceflità, di prevenirla ; Sicchè prima, che voi abbandoniate li negozj; elli averanno lasciato voi's Quindi è, che per non cadere in fimile obbrobriofa miseria converravvi, per ben consultarla, nè d'afpettare allora , che la vostra mente farà notabilmente deteriorata, nè, per eseguirla, quando sarete molto proflimni al non potere più operare, e quanto queste risoluzioni più generosamente intraprese saranno , tanto più gloriosamente, e facilmente vi riusciranno, nè crediate , che un simile distaccamento, con tutto che la nostra natura vi repugni , lo sia impoflibile à farsi, mentre lì è veduto praticare da più d'uno , e trà gli altri dalMedico Romolo Spezioli , il quale nel colmo delle sue prosperità, doppo un lungo servigio della Regina Cristina di Svezia , di gloriofiflima memoria, che continuò finche ella visse; doppo essere ftato Medico Pontificio della santa memoria di Alessandro Ottava, incaminatosi già per la via Ecclesiastica, proseguì questa, e lasciò affatto nell’auge delle sue occupazioni, e della sua età con generosa risoluzione, contento di ciò che aveva acquistato , l'esercizio della Medicina , nè alcuno de' suoi clienti si è potuto dolere con ragione di lui, perche li abbandonò è vero,  mà     per   servire folo à Dio, che con quanta esemplarità egli lo faccia , offenderei non solamente la fua modestia con riferirlo, mà temerei ancora, con fargliene molti encomj, che non restaffe à bastanza appagato chi con occhio fincero giornalmente rimira le fue degne operazioni.  Nè devo in questo proposito paffare sotto silenzio il ritiro , che fece Antonio Piacenti di felice memoria, mio di  T 2  let  [ocr errors][ocr errors] lettissimo Maestro, avendo voluto egli tra le altre fue virtù, per compimento della sua gloria collocarvi questa ancora del bel distaccamento dal mondo,e nell' istabilirlo mi disse, che lo faceva per prevenire la sua inevitabbile impotenza, ftimando , che il prevenirla fosse cosa più vantaggiosa , che d'effere da effas prevenuto per gl’esempj, che aveva offervati in alcuni , che quantunque decrepiti, e finemorati, con tutto ciò non vollero lasciare di fare il Medico' più per rendersi ridicoli appreffo li giovani, che punto non li compativano, che di effere a' suoi Infermi profittevoli, e con ammirazione di tutti ponevano à pericolo quel buon concetto , che avevano fino allora acquistato, per un tenuiffimo, c miserabbile premio, del quale non nc avevano alcun bisogno, per essere già divenuri molto ricchi.  Sicchè per isfuggire simili sventure vi converrà d'andar pensando in tempo opportuno, e quando ancora sarete con fegtimenti vegeri, à questo buon ritiro,  c fino  [ocr errors] la  e fino da quel tempo appunto, che.co“ mincierete ad alleggerirvi le fatiche, perche ciò, che la Prudenza allora vi consigliò fù tutto preordinato à questo effetto, e la prima diligenza, che vi converrà fare sarà di agiustare li yoftri affari domestici in quella forina appunto, che fogliono praticare quei saggi viandanti, che devono sempre stare allestiti per passare in remotislimi paesi, e che non possono indugiare punto, allorche sono ayyifati  per partenza. Questi tengono sempre pronto ciò, che fà di bisogno per il loro viaggio, si aggiustano le loro puntuali rimelle , e poi danno la sopraintendenza generale di ciò, che possedono à chi fedelmente lo custodisca, ed à tal ministero eleggono un proprio figliuolo,se farà prudente economo,e fenza vizj,altrimenti un'estranco di provata fedelcà, economia, e prudenza .  Dato un buon fefto , che voi averen te alli vostri affari domestici in tanto, che anderete vedendo se caininerà tutto à vostro modo , per poterlo emendare,  [merged small][ocr errors] [ocr errors] fe in qualche cosa difettasse, à fine di non avervi più da inquietare intorno ad csso , fupplicherete le virtù, che vi configlino , e preftino il loro ajuto, in questo penultimo paffo, che dovrete fare, le quali avendovi sempre affiftito per lo paflato, certamente che non vi abbandoneranno nel meglio, ed allora appun  che vi trameranno infidie la fastidiofaggine, l'impazienza, il sospetto, l'incostanza, l'amore proprio, con il soverchio timore di ciò, ch'è inevitabbile , vizj tutti, che aspettano il quando voi farete languenti non meno di corpo,che di mente, per dominarvi à fuo modo ; nel qual compaflionevole stato cosa fareste mai di buono, se non ayelte le virtù consigliere?  Queste divideranno facilmente il loro conGglio in sette parti; La prima farà il quando lo dovrete farê; La feconda il come ; La terza dovë ;La quarta con chi ; Quinta;con che preparamenti; Sesta, cosa dovrete allora fare; Ela settima, che cosa fuggire.  Primo,  ز  Primo ; circa al quando, vi dirà la Prudenza, che allora appunto facciate il vostro distaccamento, quando che proverete sensibile il peso degl'anni, che la memoria vi anderà notabilmente mancando, e che fentirete la fatica, benche allegerita, molto molesta , ed averete allora giusto motivo di pensare solamente à voi stessi , senza più indugiare à farlo.  Secondo, intorno al come lo doyrete fare, vi consiglierà la Giustizia di usare ogni maggior civiltà possibile in licenziarvi da tutti quelli, che si prevagliono di voi, con far loro conoscere, che fino à tanto, che avere potuto, non avete risparmiato nè fatica, nè incommodi per servirli bene, ma ora, che vi sono mancate le forze, il solo buon'animo, che vi resta, non lo credere sufficiente per li loro bifogni, e che li confoliate insieme, che avendoli già voi proveduti di soggetti non inferiori à voi , potranno essere da questi in avvenire affai bene affiftiti; Ne seguirannofacilmente varj atti di reciproca tencrezza, mà fate, dirà la sudetta virtù, che questi nè vi distolgano dalla risoluzione già fatta, nè vi pongano in qualche forta d'impegno d'averla in qualche loro occorrenza, ò imprudentemente da ritrata tare , ò mancar loro di parola.  Terzo, nè vi consiglieranno già , che vi scegliate qualche solitudine remota per fare il vostro ritiro, mà bensì un'appartamento assolato della vostras casa, nel quale vi sia minore strepito, anzichè vi dissuaderà la Prudenza, se aveste mai qualche pensiero d'allontanarvi dal. la Città, d'effettuarlo, per li seguenti motivi, perche ne' piccioli luoghi non potrete ritrovare tutti quei commodi, nè godere di quei vantaggi, che nelle fole città vi sono, dove il governo risiede, la civiltà, e la convenienza rcgnano, doveche al contrario questi mancano, ò almeno scarseggiano, oltre il correre rischio di penuriare di molte cose, s'incontrano facilmente de' disguki, à cagione della poca cognizione,   e civiltà, che ivi li suol praticare , & in  ispecie con quelli, che la dottrina, & il  valore l’inalzò, essendo perciò molto  dall'inciviltà odiaci, e benche Scipione  il Grande nel suo, non tutto volontario  ritiro in Linterno; (perche lo fece per  accomodarsi alla necelli:à di quei calun-  niosi tempi) avesse la sorte di essere stato  venerato da molti uomini facinorofi,che  ivi accorsero per ainmirarlo, è stato egli  quasi singolare in questo, mentre altri  furono assai diverLamente trattati, trà  quali basterà riferirne uno solo,mirabbi-  le     per   l'accidente, che vi s'incontro. Venne volontà nel secolo passato ad un' Officiale maggiore di guerra,doppo molsi illustri fatti felicemente occorsili, di ritirarsi alla sua picciola patria, già dia venvto vecchio, per godere ivi la sua quiete. Mà appena giontovi , che incon minciò ad essere deriso, e beffeggiato da quei rpstici abitatori; Ditali impropri trattamenti se ne rammaricava il valo, roso vecchio, mà per non prenderla con tanti, andava disimulando. Si suscita.  [merged small][ocr errors][ocr errors] tono in questo mentre alcuni principj di guerra, ed ecco all'improviso Inviati con sacchetti d'oro, che andavano cercando quel merito così vilipeso da quella rustica progenie, allora quel meritevole prendette spirito, e per mortificare li suoi persecutori fece spandere quell' oro alla vista di tutti, che ammirati attoniti, e confusi ebbero occasione di ravvederli del loro errore ; mà se quell' oro non compariva , il merito ivi non già risplendeva.  Mà perche avanzandovi nella vecchiaja non potrete sapere à che segno la vostra salute si di corpo, che di mente vi potranno reggere ; Quindi è, che  per compire faggiamente il corso di vostra vita, le virtù vi consiglieranno à sceglicre chi potrà essere à proposito per voi, allorche vorrete vivere solamente à voi medefimi, tanto in caso di felice, che di penosa vecchiaja , e facilmente yi diranno la Prudenza, e la Giustizia : fceglietevi å tal'effetto un Direttore spiricuale de' più dottia e discreti, che vi  COR  [ocr errors] conservi vivi li yoftri abiti virtuofi. Una amico fido, e prudente, che vi suggerisca ciò, che dovrete operare, caso che, ve ne dimenticaste , che sopraintenda.a’ vostri interessi,acciocchè non fieno trafcurati,per negligenza di chi li maneggia. Un parente amoroso, e disinteressato, per supplire all'amico, e dare anco soggezione à chi vi serve, ed un servidore abile, che vi allista con carità , amore, e discretezza, e questi non basterà , che yeli siate scelti, mà dovrete ancora mane tenerveli ben’affetti, altrimenti disguftandoli con voi , vi troverete intrigati a, e sappiate la cagione del disgusto de' trè primi, quale potria effere ; l’incommodo, senza loro utile, delle frequenti visite, e brighe continue per voi, mediante le quali annojari , fi potriano facilmente alienare da voi;mà per rimediare à quefto, non dovrete fare altro, che di fervirvi della potentissima efficacia di qualche cortesia usata loro si che, se ve ne farà d'uopo, cambierà in un tratto ogni più dura fatica in ispasso", ogni noja in  ز  piacere, ed ogni più grave disaggio in dilettevole divertimento ; caso poi, che non ve ne fosse molto bisoglio, diportandovi voi con esli grati , essi ancora verso di voi saranno più diligenti, aslidui , ed affezionati : Munera , crede, mihi placant, bomines  que, Deosque ; E renete pure per certo , che favolosi sono quei casi, che di alcuni Gentili fi raccontano, che tutto elli facevano per puro amore, e che l'incommodo maggiore degl’altri era da questi lo più ricercato; Mà però con il servidore abile, che dovrà stare affiduo con voi, per tenerlo contento, vi converrà praticare due modi, uno privativo, che consisterà in non maltractarlo nè con fatti, nè con parole, dovendo voi, che avrete bisogno di lui, acquistarvi il suo amore, e facendo voi diversamente, in vece di guadagnaryelo , più tosto lo perderefte, quando che ve qe portasse : E vero, che difettando egli, lo dovrete correggere, mà pero con maniera umana, con farglicapire'il suo fallo, non già con ingiuriara To, e caricarlo di strapazzi, perche venendo trattato da voi in tal guisa , cosa ne seguirà ? O che vi abbandonerà nel meglio, e voi come rimarrefte? O continuerà a fare peggio di prima, e voi cam fa avreste acquistato ? E l'altro positivo, che consisterà in fargli capire, che voilo amate di cuore, e non per solo vostro vantaggio , mà come fosse un vostro figliuolo, e che ciò sia, lo crederà allora appunto quando si vedrà trattato bene da voi, comandato con discretezza, c meglio di ogn'altro glielo farà capire , quando si vedrà regalato da voi con giudizio , e questo regalo non consisteria in altro, che di usargli un'amorevolezza pecuniaria , à proporzione del vostro potere, ogni anno nel vostro giorno natalizio,con promettergli negl'anni venturi sempre di raddoppiarla, e questa, con tutto che sia una gran cosa in apparenza, voi, che sarete avanzati negl’ anni, la potrete ufare con più generosità de' padroni giovani,che sperano di cains pare lungo tempo, & al servidore gli sarà grato à segno, che non lascerà cosa, che possa giovare à farvi vivere più luagamente, che non la procuri. Avrà fempre timore , che non vi disgustiare , che non patiate , & allora appunto lo avrete già interessato nella vostra vita, e nericaverete un'ottimo servigio.  pare  Quinto, oltre li preparamenti neceffarj già da voi fatti  per  sostentamento, e sollievo del corpo, vi consiglieranno facilmente, & in ispecie la Fortezza , à farne ancora degl'altri per l'animo, non meno necessarj de primi, e questi saranno di proyedervi di molta sofferen  ed ilarità, che facilmente ve ne bifogncranno , acciò non venga turbata la vostra bella tranquillità di animo, che goderere, santeche trà mali familiari dell'inoltrata vecchiaja yi fi annovera quello ancora della fastidiosaggine, e questa non con altro rimedio si puo curare  che con l'abbituara sofferenza ; E perche danneggiano ancora di molto pell’età avanzata la malinconia, & il  di  za ,  [merged small][ocr errors] disgusto; Quindi è, che per tenerli lone tani, vi è d'uopo dell'ilarità , mediante la quale solamente diverrete ad essi superiori.  Sesto , parerà forse cosa impropria à chi udirà , che voi come Medici  provetti possiate avere di bisogno allora del parere altrui intorno à ciò, che dovfete, ò non dovrete operare, mà fe ben rifletterà , che non mai fù nocivo ad alcuno il caminare con il consiglio della Prudenza, e della Giustizia in ispecie, cambierà facilmente parere , e tanto maggiormente, che niuno in caufa propria puol'essere competente Giudice e più precisamente in quella età, in cui tutto ciò, che abbiamo di meglio, allora languisce; Le virtù luderte vi diranno à tal proposito, che non crediate già,che il vostro ritiro abbia à servire per totale riposo del vostro corpo, 8c acciocchè se ne stia affatto ozioso, & infingardo, perche passereste in tal caso, da un'estremo vizioso all'altro, senza profitco alcuno, essendo questo egualmente nocivo  dell'  dell'anrecedente, perche, come ben sapete, consistendo la vita nel continuo movimento de fluvidi , che dentro il nostro corpo si aggirano , & ancora, che questo venga agevolato dalle pressioni musculari , sicchè ogni qualvolta cefferete di muovervi, non avendo tanta forza li muscoli, in istato di quiete , di propellere , neceffariamente seguirà , che detti duvidi lentamente scorreranno, e più d'ogn'altro ne' vecchi, impoveriti de' spiriti, onde in conseguenza ne verrà, che la vira iftelsa ne riceverà del danno notabile, mancandole ciò, che se le deve , per il suo più necessario prolongamento, oltre di che ne' vecchi cade un'altra necessità particolare di doversi muovere, & è, perche tendendo eli alla ficcità, li loro tendini, e legamenti, atti più dell'altre parti à contraerla , cessando di moverli si possono irrigidire à segno, che impediscano loro affatto il poter più camminare , conforme più chiaramente fi scorge in quei vecchi, che à cagione di qualche loro  [ocr errors]  indisposizione per lungo tempo forzata-  mente giacciono in letro, li quali, ben-  che abbiano superato quel male, che li  teneva al riposo, nel volere camminare   si accorgono di non poterlo più libera-  mente fare come prima. Il sudetto ritiro  dovrà servire bensì per riposo, e calma  della vostra mente, già stanca per li so-  verchi pensieri, la quale non dovrete',  nè potrete quietare con renderla affaito  oziosa , mà bensì con contracambiare   quei di già nojosi con altri più ameni , ! quei cotanto laboriosi, con altri, che  non la stanchino di vantaggio, mà più  tosto la ricreino, conforme in appresso  diremo.      Mà ritornando al moco , che vi  competerà di fare , questo sarà appunto  quello, (vi dirà la Giustizia ) che altrui  di età avanzata voi avrete consigliato,  cioè di farlo in tempi sereni, & aria ri.  scaldata dal Sole, non già irrigidita del-  la notte, & allora appunto, che il vostro  stomaco ayerà digerito il cibo, con que-  fta avvertenza di più, che avvedendovi di non potere continuare l'esercizio, a quel segno di prima, lo modererete, non tutto in un tratto, ma bensì à poco à poco, finche vi poniare in una regola di poterlo continuare, senza voftro disaggio, & à quel segno , che lo stimerete necessario , e ve lo permetteranno levostre indisposizioni, che soffrirete, & acciocchè sia continuato per quando non potrete uscire à cagione de' tempi fred. di ventofi, ò umidi,lo farete in casa. Solevano à tal'effetto una volta li vecchi praticare l'esercizio chiamato dell'attacco, che conGsteya in istringere con le mani un certo ferro foderato di corame, che era conficcato in due lati prossimi ad un'angolo della stanza, all'altezza di un'uomo, al quale attaccati , non solamente si distendevano , mà con maggior agilità ancora movevano faltellando li piedi, modo appreso forse da Eumene, che ritrovandosi assediato, per avere più agili li suoi cavalli, caso che gli fosse convenuto fuggire, in un modo assaiconfimile a questo li esercitaya, mà fù nel  fea  secolo passato già dismesso tal'esercizio,  con molti altri neceffarj alla salute,e non  se ne sà comprendere altra cagione, se  non perche, non erano commodi, stan-  teche strapazzavano il corpo', il che fi  congettura dal vedere , che da allora in  qua non si è aèreso ad altro, che à cerça-  re questo commodo, fe pure commodo   si potrà chiamare ; (soggiugnerà la Pru-  denza) ciò, che incommoda la salute ;  Commodo si potrà dire una carozza,che  posi shule Molle con cignioni lunghi, che  non isbarta punto, allorche le sue ruote  urtano ne' faili, per chi foffre il inale di  pietra nella vellica, per chi parisce bru-  ciori di orina , per una giovane gravida,  folita di abbortire, perche ò non posso-  no soffrire lo sbattimento, ò è loro no-   civo; onde :  conviene , che facciano conformc è loro   permesso; Mà per un giovane sano, à cui   lo sbattere gli conferisce alla salute, af-  sodandogli la sua buona complessione  commodo non si deve chiamare,mà ben-  si incommodo, perche presto glicla in-   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] ز  [ocr errors] 0  el  [ocr errors] .com  commoderà. A questo proposito vi riferirò un caso terribile di un Cavaliere, il quale à cagione di propria commodità non moveva nè pure un dito, se non gli era accompagnato da chi lo serviva, fi faceva fino imboccare, quanto mai egli era commodo ; onde lo conduffe la sua pazzia à diventare un tronco, mercechè volendo una volta muovere un braccio, non lo poteva più fare,un piede nè tampoco , e come un ciocco gli convenne vivere, se pure quello vivere li  [ocr errors][ocr errors] poteva dire,  Dall'esercizio corporale ritorniamo à quello della mente, la quale, conforme dicemmo, non la dovrete stancare di vantaggio con cose laboriose ayendo voi à tal'effetto bramato, e procurato il vostro ritiro, mà nè tampoco converrà di tenerla affatto oziosa, acciocchè non ritorni à coltivare le specie antiche, non sapendo, che altro fi fare. Nel principio del vostro distaccamento, come vi suggerirà la Prudenzala terrete occupata in diverse cose, con il suo rin  par  [ocr errors][ocr errors] partimento dell'ore più proprie ad esse. Ne darete alcune agl'esercizj fpirituali à prò dell'anima vostra , secondo il configlio del vostro Direttore,qualche altra servirà per l'esercizio corpcrale, e le rimanenti alla quiete della mente faranno da voi destinate in due maniere , cioè, con leggere , ò sentirlo , e con il riposo; Li libri da leggere, proprj per tal'effetto, già ve li sarete scelti , allorche vi preparaste per il ritiro , e si può supporre, che saranno inorali, prediche, vite più esemplari de' Santi, e cose confimili, e se vi sarete serbato qualche libro Medico, questo facilmente non tratterà di altro, che del regolamento della vecchiaja, e del modo conforme si possa più agevolmente ella sopportare , & inoltrandovi finalmente nella penosa vecchiaja, non troverete maggior refrigerio, e sollievo, che di uniformarvi in tutto nella volontà di Dio, e se giornalmente farete qualche meditazione sopra la morte, vi recherà questa del vantaggio , perche divenendo perciò superiori  [ocr errors] ad effa, non vi potrà punto contristare, allorche da vicino la scorgerete venire, e tanto maggioripente se meditandola rifletterere, che se ne viene per togliervi dalle miserie, e collocarvi in un'eternità di bene, essendo voi vissuti con le buone direzioni delle virtù, non già con le lufinghe fallaci de vizj. Settimo, finalinente, diranno le vir. tù , se volessimo rammentarvi tutto ciò, che non è convenevole, che ora facciate inolto averelimo da dirvi, solamente alcune cose vi avvertiremo, nelle quali potreste facilmente cadere . La prima delle quali sarà , ( se vorrete caminare con le buone direzioni della Prudenza ) che avendo voi una volta per giusti motivi risoluto di lasciare la Professione, non mai più dovrete pentirvenç, e ritornar di bel ouovo à profeffarla», se non in quel caso impossibile, che voi cựngiovenifte, altrimenti facendolo acquisterefte ritolo,ò d'instabili , imprudenti, ò per la meno di superbi, potendosi da ciò .cognetturare, che allora non lo facesteper impotenza, mà bensì per isdegno   concepito per non vedervi stimati à quel  segno, che bramavate di essere. La seconda, se vi venisse mai volon-  tà di mutare, senza giusta, & urgentili-   ma occafione , il vostro già fatto tefta-   mento, mà solamente per motivo di me-   gliorarlo, che non lo facciate, vi comanderanno la Prudenza, e la Giustizia in   conto alcuno, mentre questo saria uno   delli maggiori infortunj , che vi poteffe   allora accadere, perche se quello , che   avrete fatto in tempo , ch'eravate con   sentimenti più vegeti, ora non è di vo-   stra sodisfazione , come potrà fodisfarvi   l'altro fatto da voi , dapoiche vi siete ritirati, à cagione di debolezza , non nie- 110 di corpo,che di mente la quale entre-   rà prestamente, per essere in quella età   sospettosa nella casa della dubietà, mà    ritrovandofi ancora languida , e piena di   timore tosto le sembrerà un laberinto,   non sapendone rinvenire la strada das uscirne, e perciò la sera penserà ad una    cosa, e depofta quella, la mattina ad un'   altra,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] V 4  altra, oggi farà di un genio, e domani facilmente di un'altro, e durando per qualche tempo così incostante, non folamente si confonderà, mà s'inquieterà ancora ; onde quel tempo, che avevate dato alla calma del vostro animo , in questo modo glielo rubbereste per darlo alla vostra inquietudine , fenza ricavarne un minimo profitto, perche se pure giugnefte à fine di stabilire la vostra ultima disposizione, sarà questa assai peggiore della prima, e se non arriverete à compirla , l'inquietudini riccute, che giovamento viaveranno apportato ? E quanto dette virtù vi hanno ordinato, l'esperienza pur troppo l'hà fatto vedere, mentre chi nel suo ritiro hà avuto simile tentazione, non solamente è vissuto inquietissimo tutto quel tempo, che aveva destinato alla sua quietc, mà hà fatto una nuova disposizione del suo avere così intrigata, così confusa, che hà dato di fe molto da dire. In niun tempo si deve andare in traccia dell'ottimo, essendo questa distruttivo del bene,  mà  [ocr errors] 1  mà in questo stato meno d'ogni altro  nel quale è molto espediente di dare  orecchie à ciò, che si legge in Tacito,  ed è : Confilium , cui impar erat fatu per-  mifit ; E certamente, che quando siete  meno capaci di risolvere, è pur meglio,  che lasciate correre ciò, che faceste di  vostro genio quando eravate più atti,  che di mutarlo divenuti meno sufficienti  ancora ad emendarlo. Vi pregiudicherà per terzo ancora   di molto la troppa curiosità, & in ispecie   de fatti domestici , come ben vi avverri   tirà la Prudenza, perche più d'una vol-  ta sentirete cose tali, che vi turberanno   notabilmente la vostra quiete,& affinche  dal non ricercarli fi scanzi ogni pregiu-  dizio, fate., che quel vostro amico, quel  vostro parente, de' quali da principio   parlammo, gli diano il suo rimedio, ci   pensino essi, che meglio di voi lo faran-  (no , e senza inquietudine vostra. E caso  poi, che la necessità portaffe di farvenc   consapevoli sfuggano per quanto si può  di dirvelo di sera , per non togliervi   0  [ocr errors] il riposo della notte.  La quarta intorno à ciò, che dovrete fuggire in caso di qualche incommodo abituato, che da soverchi anni procedere , la Giustizia, e la Temperanza vi diranno : Ricordatevi, che una volta in altri non l'avreste curato, mà folamente mitigato; onde non facciate, che la molestia , che vi recaffe vi stimoIalle ancora à divenire carnefici di voi medesimi , con pretendere di farvelo curare, conforme à più di un Medico avanzato negl’anni è accaduto , per esserfi voluto esporre al taglio della pietra , quantunque ad altri così avanzati in età non l'averiano consigliato.Questa penfione , che Iddio hà posto sù il gran benefizio della lunga età che vi ha conceduta , vuole, che da voi fi paghi, altrimenti il fudetto benefizio mancherà prestamente 5 Limnolesti pruriti esterni , li bruciori d'orina , le vigilie frequenti, che bene spesso ne' vecchi accadono , fapete pure, che non vanno curati con rimedi eradicativi, mà mitigar ben fi  de  [ocr errors] 1  [ocr errors][ocr errors] devono con cose anodine, trå quali il  latte , amico de vecchi asciutti hà il  primato , e per essere ancora egli il pris  mo querimento, che si prende, non è  disdicevole , che non venendo à cagionc  del soverchio sonno ritardato, sia ancora  Pultimo, conforme praticò con profitto  Fabio Mafsimo nella sua età decrepiti.       Per quinto avvertimento vi con-   verrà stare molto circospetti per non   cadere in certi errori, che li vecchi li   stimano sussidi dell'età cadente, ftante-  che provando languidezza di forze fi,   portano con desiderio (moderato à pre-   valerli de’yini più generosi, e di altri   più fpiritosi liquori , intorno a' quali vi  ricorderà la Temperanza, che sapete  pure quanto di male apportino alla in-  languidita tefta , all’inaridite viscere,  e quanto di solfo communicano alli ni-  trofi fluvidi, ed in conseguenza di che   danno essi siano , che voi ben lo sapete,   onde in vece di questi vi servircte più   ļosto del perfetto cioccolato , de' buoni   brodi, de' vini gentili, e delicati, c di altri liquori consimili, presi con moderazione, e con questa distinzione , che effendo taluno di voi grasso, & avendo disposizione al soverchio sonno prenderà spesso il cioccolato la mattina, nel doppo pranzo , ò di sera il caffè , ò il the, è la bollitura di salvia , sc poi sarà dimagrito , e sottoposto à vigilie, las mattina frequenterà più tosto un brodo con la fetta del pane ivi bollita, e del cioccolato se ne servirà qualche volta doppo pranzo immediatamente, conforme ancora in vece del thè, e del caffè ricorrerà all'uso della bollitura dell'orzo abrustolato, resa grata con qualche odoroso liquore, all'emulsioni fatte in brodo , con semi di meloni , in particolare fe farà molestato da pertinaci vigilie.  Per fefto , fuggite ogni sorta di be vanda gelata, vi diranno la Fortezza, e la Temperanza , quantunque la moleIta fete, che alle volte suole travagliare li vecchi vi rendesse ansiosi di effe, perche sapete pure quanto danno vi po  triano  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] triano recare, & in vece di queste servis  teyi delle bevande attualmente calde ,  che vi smorzeranno con più facilità la  sete per quella cagione à voi nota, che  sciogliono li liquori caldi più facilmente  quei fali, che titillando le papille del  gusto non solamente le costringono, mà  recano ancora aridità à tutta la mem-  brana interna del palato , & esofago in-  crespandola à guisa di carta pecora, e  questi con il liquore caldo vengono più  facilmente sciolti, & ancora le parti ina-  ridite con più prontezza fi distendono,  doveche dalle gelate ne segue l'opposto,  e per questa cagione tali acque sono  consimili à quelle , che   Quò plus sunt potæ , plus fitiuntur aqud;  E perciò non si sà capire per qual cagio-  ne in particolare ne' vecchi sia stato dif-  messo il bevere caldo tanto praticato  dagli antichi Romani , e tanto maggior-  mente, che dall'abuso di dette acque  gelate ogn'anno ne seguono delli casi  funesti, coine ben sapete ; Dal soverchio   bere,  7  bere, con tutto che non sia gelato, ve no asterrete ancora,  effendoyi noto quanto di male possa apportare alli stomachi debilitati dagl’anni, potendo non sólamente inlanguidire li fermenti digestivi, mà opprimere insieme preventivamente quel calore, che stà per finire. L'esperienza dimostra chiaramente , che le piante annose inaffiate à suo dovere si conservano, mà soverchiamente più preftamente mancano,  Per settimo, v'avvertiranno la Prudenza, e la Giustizia di non porvi in una regola rigorosa di vivere, con il motivo della moderazione del vostro esercizio consueto , perche la natura già affuefatta da tanto tempo à quella quantità di nutrimento, vedendolo tutto in un tratto notabilmente scemare ne riceveria incommodo considerabile, costando pur troppo per esperienza , che alcuni vecchi,li quali l'hãno voluta tanto ristrignere preltamente sono mancati. Quello, che dovrete praticare sarà di guardarvi da certi cibi di dura cozzione, di cattiva  qua  qualità atti à poter nuocere , per altro nella quátirà l'anderete moderando con occasione, & avyedendovi di non poterla ben diggerire, allora l'anderete scemando, mà però lentamente, accioca chè non riesca molto fenfibile derta mutazione, perche è cosa evidente, che allora appunto, che i vecchi allentano di mangiare , poco resta loro di vita.  Peggiore di questo ancor saria, se cadefte in quella opinione tanto dangosa , che per vivere fano sia neceffario di prender cose, che non facciano escrementi, mà che con l'odore delle vivande, con qualche brodo di sostanza, si possa meglio , e con più salute campares di quello si faccia con tante altre cose piene di parti escrementose, perche la Datara vuole fi camini per le sue strade ordinarie, vuole da tutti egualmente efiggere ciò, che brama . Quell'incommodo, che vi reca nel restituire le feccie ella sà per quali fini lo faccia , non è à caso. Non n'elimè già Alessandro Magno dal suo fetore, conforme che li suoi Cor  teg  teggiani adulandolo dicevano , perche ella non sà cosa sia signoria, e grandezza fà che la morte (a) Æquo pulsat pede pauperum tabernas,  Regumque Turres.  Per tre gran benefici la natura volle , che vi fossero li tanto odiati escrementi: Primo, perche dentro di noi si facilitassero mediante queste tante digeftioni, che vi si fanno , conforme l'esperienze chimiche ad evidenza lo dimostrano, in tante digestioni fatte con il Fimo, e da quì rifletcete quanto s'ingannino coloro, che procurano anziosamente à forza di tanti reiterati purganci star-, ne senza; Per secondo, che nell'uscire che fanno impari à conoscere ogn’uno se stesso, à che segno debbasi insuperbire chi dentro di se conserva fimili fetidillime materie; E il terzo per convincere chi non credesse il primo, con farlivedere quanta fecondità questi rechino alli terreni sterili, che colsuo beneficio divengonono fertiliffimi , talche erroneaè à priori quell'opinione di potersi nudrire con cose, che non abbiano escrementi, conforme ancora tale à pofteriori si dimostra per essersi veduto chi l'hà voluto praticare divenire un marafino, che in breve fini i suoi giorni.  Per ottavo , & ultimo finalmente, ch'è forse il più forte di tutti, vi diranno le virtù : Guardatevi da quelli trè gran persecutori de' vecchi, che sono, la caduta, il catarro, & il corpo soverchiamente lubrico ; La caduta , voi sapere molto bene, che per due gran motivi è nella vecchiaja più dannosa, che in altre etadi, sì per essere li vecchi di mi. nor vigore, e li più facili à terminare la lor vita , ritrovandosi arrivati allo scorto di effa , sì ancora, perche cadendo come un tronco ciò, che viene loro percoffo riceve colpo pieno, non venendo riparato dall'agilità delle mani, nè dallo scanzo della vita , come segue ne' giovani di maggior agilità di loro, onde per evitare una simile fventura dovrete andare sempre con il vostro bastone, ne  fa  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] farere come alcuni, che l'abboriscono per mofrar braura , quando braura più tosto sembreria l'ayere in mano il bastone di comando"; onde non senza mia stero fù chiamato da’ Latini il bastonc della vecchiaja Scipio, & il prendere Sufcipio.  L’occasioni di prendere li catarri à che segno le dobbiate fuggire, l'efperienza altrui ve ne fece maestri, (vi suggerirà la Temperanza) mentre osservaIte, che chi li espose all'aria rigida, chi ftiede in luogo soverchiamente caldo, chi disordinò in cibi grossi, come sono il formaggio, legumi , & alrre cose consimili furono da essi moleftati, converrà dunque à voi ancora fuggirli, se non avrete quell'erronea massima, che ebbe quel Medico, che disordinava molto, sù la fiducia, che niuna cosa gli potesse nuocere, dicendo, che li Legislatori non sono soggetti alle leggi, mà gli convenne soffrire la morte immatura per questa sua falsa credenza; e finalmenre quanto dobbiate stare cautelati, per non incor  rere  1  rere nella foverchia lubricità di ventre,  non occorrerà vi sia suggerito, sapendo i da voi medesimi, che l'abuso de' dolciu  mi, cde'frutti producono fimile indifposizione. L'irascibile ancora spesso in, citata con l'abuso de' cibi caldi per accrescere pungoli alla bile , quanto la poffino rendere frequente nell'età avanzata lo sapete assai bene, con tante altre cagioni, che farà superfluo viliano ram,  mentate. i  Essendo voi dunque nel corso della vostra vita camminati sempre con le dii rezioni delle virtù, avete da sperare fer  mamente di potere incontrare una gloriosa morte, perche esse in quel vostro  estremo bisogno, più che non fecero in é altri,vi assisteranno; La Prudenza vi farà  soffrire ciò, ch'è inevitabile, con animo  generoso ; La Giustizia sperare quel pre7 , mio, che sarà dovuto alle vostre gloriose  opere ; La Fortezza vi darà cuore da refiftere intrepidi ad ogni patimento più duro ; e finalmente la Temperanza vi consolerà, con farvi vedere, che trà  X 2  quel  [ocr errors][ocr errors] ز  quelli molti , che vissero, pochi ne giunsero all'età voftra ; onde voi, che avrete sempre dato saggio di tanca moderazione, come potrete non contentarvi di essere già vissuti à bastanza, potendo con intrepidezza dire :  Vixi, quem dederat curfum for  tuna peregi; Sicchè felice sarà la vostra morte , & invidiabile da tutti , nè crediate che fiano per abbandonaryi queste doppo morte , perche allora più che mai saranno inseparabili da voi,posciacchè quando ancora eravate viventi si poteva dubitare, che potefte essere, ò nò, prudenti, giusti, forti, e temperari, perche in realtà potevate dare occasione à dette virtù d'alienarsi da voi, mà doppo morte, che tal cagione finì, non si potrà più dire di voi, che prudenti, giusti , forti, e temperati non foste, ficchè resteranno allora da voi eternamente inseparabili le vostre virtù. E chi mai rimarrà doppo morte più glorioso di voi? forse il ricco? questo no, perche le sue ricchezze già  al  [ocr errors] Ja morte,  allora passarono in altri, non sono più  fue; Forse il potente ? nè anco, perche  la sua grandezza è rinchiusa allora den-  tro la sua urna , & il suo potere è diven-  tato un niente; Forse chi ottenne fingo-  lari prerogative di natura , come sono  la somma bellezza, salute , e robustezza  di corpo? questi nè tampoco, perche  quelle già furono, e non sono più doppo restando un nulla , giacchè :   Quod fuit, non eft pro nihilo reputatur .  Solamente dunque chi vive seguace del-  le virtù può sperare di ritenere ancora  per se doppo morte quanto gadè in vi-  ta, e fù suo proprio , con tutta quella  gloria imınortale, che acquistò chi visse  virtuosamente, de' quali parlando Ip-  pocrate (*) così diffe : Quique hac viâ  incedunt gloriam tùm apud majores , tùm  apud pofteros fibi comparabunt, ch'è quan-  to dovevo mostrarvi.       Ed eccoci giunti al fine della festa  Giornata, e convenevole sarà di ripo-   sarci,farci, in venerazione di chi creò l'Universo, giacchè egli ancora requievit die Septimo ab universo opere , quod patrarat , do benedixit diei feptimo , & fanétificavit illum  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] X 3  (-) De decenti babita ,  è à priori (2) Horat.Carnr. odc 4   fa.  dicom (e) Hipp.de Pracepticx.   fo     quan   (1) De pracept:  fione  [d] Epidem.lib.5. @grot.28. ex Valefio. [e] Epid.lib 5. ægrot.7. (f) Epidilib.5.&gt.g.  ap(4) In epift. Abderit. (r) Epift.6.  rano  (d) In Comment Hipfoer. de Fraft.  fers (b) 18 epiß. Damogit,  alla (a) In epif Philop.  K  per(a) In lib.præcepto  ch' Th. In lib.de pracept:  fprone [b) De preception.   Set   era (b) In 2.epiji. ad Domeg.  1  F 3  i   [ocr errors] fare  1  (h) Hippocr. de veteri Medico  C2  pra(c) De decerti babits.   In.  Morale,  DE'FIGLIUOLI  e Medica DEL DOTTOR DOMENICO GAGLIAR DI  Divisa in due Parti. PARTE PRIM A  Sopra l'Educazione Morale. DEDICATA ALLA SANTITA'DI N.S. INNOCENZO XIII,  Neglectis urenda filix innascitur agris  Hor. Sat. 3. lib. I. In ROMA, MDCC XXII.  Nella Stamparia di Pietro Ferri alla Minerva.   Con licenza de'Superiori .  [blocks in formation] [ocr errors] sien L Titolo gloriofifsimo di Padre Universale , it quale viene fo  lamente attribuito all'Altissimo Merito di Voltra Santità , mi rende più  a 3animoso à consagrarle la prcfentc Opera sopra l'educazione de'figliuoli Morale, e Medica, con ferma speranza , che Ella comc zelantissimo amatore del buon costume non solamente la riceverà sotto il potentissimo fuo patrocinio; ma le farà di vantaggio godere gl'effetti della sua somma clemenza ; mercecche non permetterà già qucsta, che rimanga infruttuoso ogni qualunque suo documento profittevole allo stradamento de'figliuoli per farli divcnire amanti dellc virtù, cd aperti nemici de' vizj, essendo tal desiderio appunto il maggiore che possa avere un'ottimo Pan  dre;  mente dal principio del suo Gloriofiflimo Pontificato ha fatto la S. V. colle operazioni più gloriofe conoscere al mondo tutto; vedendosi tanto il suo Paterno Zelo, quanto la sua somma beneficenza indiri, zati folamente al giusto, ed all' onesto, gastigando i 'rei , c premiando i meritevoli: conforme appunto costumarono tanti Santillimi Pontefici suoi Antca natì di gloriofiffima memoria. Talmente che l'Eroiche Virtù in V. Beatitudine essendo ereditarie, si trovano profondamente radicate,e queste di fimin le natura debbono neceffaria,  men,  a 4  zarsi, seppure l'ottimo potranno sormontare. i Nè lì veggono nell' Antichissima , c Nobilissima Famiglia de Conti ereditarie l'eroiche virtù dc'suoi Maggiori nei foli Sommi Pontefici ;. mentre risplendono questo ancora , in tutti gli altri, c. con applausi universali; cssendosi veduti do. po la dcgnissima esaltazione di V.B. al Trono Pontificio, nc' più a Lei congiunti di Sangue la medesima nioderazione di animo, ed affabilità princicra ; assegno chc,non senza ammirazione,fan ben conoscere a tutti, che le presenti felicità non han  na  a gli animi generosi, e forti, in cui regnano abituate l'Eroiche Virtù.  In tempi dunque felici, o fortunati,ne'quali la verità svelata pud comparire avanti al Principe , godo la forte di presentarle prostrato à Santissimi Piedi di V.B. e consagrarle inficmc qucfte mie fatiche, diret. te non ad altro, che al publico bene; mostrando queste a Padri di faniglia,non folamente l'obbligo loro, ma cziandio il modo più facile d'indirizare benc i proprj figliuoli, affinche non divengano elli viziosi per. turbatori della publica quie  te.  ritevole dell'efficace Patrocinio del Principe, essendon'egli di essa vigilantissimo Custode: Contribuendo dunquc alla felicità del Principato la buona cducazione de'figliuoli , como cagione della publica quicte; affinchè là S. V. possa godere tutta quella lunga serie di anni felici , che ardentemente le bramo con ogni maggiore offequio la supplico à volerlo rendere degno del suo Supremo Patrocinio, potendo questo accrescere alle sue prove, e ragioni momento di forza bastevole a renderle più convincenti nel ripulire gli animi rozi,dano, e baciandole i Santillimi Piedi con profonda venerazione mi umilio.  Di Voftra Beatitudine  Omilifs,e fedeliss. Suddito  Domenico Gagliardi.  AL  C  On rilevanti motivi ho intrapre  so lo scrivere sopra l'Educazione de' figliuoli : primieramente, perchè leggendola Sacra Scrittura ho con chiarezza conosciuto l'obbligo grande col quale da essa viene aftretto ciascun Padre ad educar bene i propri figliuoli; ordinando l'Ecclesiastico al 30. Curva cervicem ejus in juventute, fu tunde latera ejus, dum infans eft, ne forte induret, Ego non credat tibi, Er erit tibi dolor anime . Doce filium tuum , E'operare in illo , ne in turpitudinem illius offendas; e trovandomi molti figliuoli era anch'io compreso nel numero di questi . Incominciando dunque a cercare qual modo foffe il migliore , per sodisfare a’mici doveri, benc mi avvidi alla prima, ch'era d'uopo conosce  per congetturare meglio ove le proprie inclinazioni li aveffero portati . In feguela di questo considerai, che indarno si sarebbe affaticato ogni qualunque ben’esperto educatore, se l'educando difetrasse nella esatta regola del vivere, quantunque fosse dotato dalla natura di un'ottima indole ; mercecche il nudrimento , eccedente in quantità, e qualità, potrebbe cagionargli internamente tal moto inordinato negli spiriti, che fosse capace di togliere alla sua mente quella limpidezza neceffaria a chi ha d'apprendere la buona educazione .  Si avanzò più oltre la mia mente coi suoi pensieri, cominciando a meditare se co gli ajuti medici, allorchè già introdotto negli educandi l'accennato interno sregolamento, si fosse potuto questo calmare; c con molti lumi ricevuti da Ippocrate, ove tratta de  Aere  Aere , Aquis , EX Locis , arrivò a comprendere, che potevano queste giovaredi molto in tale occasione.  Accertatomi per le fudette rifleffioni, che l'educazione de' figliuoli poteva trattarsi da un Medico provetto, appartenendo appunto ad ello più che ad ogni altro il conoscere i temperamenti, donde nascono i naturali, la regola del vivere, ed il modo di calmare gi’interni moti inordinati de’fluidi, mi accinsi a tale impresa, non potendomisi addoffare da critici, che io abbia contravenuto al documento, che insegna Orazio nella sua Arte poetica a chi brama di scrivere con profitto, cioè:  Sumite materiam veftris qui fcri  bitis æquam  Viribus , & versate diu quid fer  re recufent,  Quid valeant humeri. E per corrispondere con attenzione,  grandezza dell'argomento intrapreso, formai alla prima la seguente partizione di effo.  Divisi primieramente la presente Opera in due parti, cioè in Morale, c Medica, affinche con facilità maggiore ti riuscisse di apprendere quanto scris vo trovandolo non confuso.  Nella prima Decade troverai descritti molti avyertimenti, che dò, acciocche chi voglia accasarsi; possa provederli di ottima moglie; nè ti paja ciò fuori del nostro proposito ; perchè se non si abbatcerà in una moglie prudente, ed onesta , duc gran mali riceverà l'educazione de' suoi figliuoli; il primo de'quali sarà ereditario dicendol’ ArioIto:  Di vacca nascer cerva non vede  sti, Ne mai colomba d'aquila, nè figliaonefti E l'altro poi come potrà queste ajutarti ad educarli bene , fe non sapràche cosa sia la buona educazione, per non averla mai in se medesima sperimentata? Laonde conviene conchiudere, che la base fondamentale della buona educazione consista in iscegliersi una ottima consorte; ed avendola trovata, fi danno parimente molti documenti utili per mantenerla costante nel suo buon costume ; ed inoltre si mostra di quai modi si doverd fervire avendo sbagliato alla prima nel provedersi di effa , affinche molto minori divengano i suoi infortunj.  Nella seconda Decade principia. 1'Educazione Morale de figliuoli; ed in questa scorgeranno i Padri di famiglia quanto siano tenuti d'invigilarci, e quali inconvenienti nascono dalle loro  era,  [ocr errors] zio la similitudine de campi, nc'quali fa vedere di che pregiudizio sia questa, dis cendo:  Neglectis urenda filix innascitur  agris E che le Madri non debbansi abu, fare dell'amore verso i figliuoli, essendo questo trascorso molto nocivo allawi buona educazione, a segno che, se molti non avessero avuto l'asilo materno per esimersi da gastighi, averebbero depofti quei vizj,percui poscia divennero infelici . Troverai parimente documenti facili, e profittevoli, de quali potrà ogniuno feryirsi sccodo le diverse loro inclinazioni per educarli. E perch'è il compimento della buona educazione l'istradarli a ciò, che doveranno applicarsi, quindi è, che si tratta ancora del modo, col quale si doveranno provedere i figliuoli secondo gl'impieghi, de  que  quali si conosceranno meritevoli ; e dandosi il caso per lorosventura, che i genitori morissero, trovandosi elli di tenera età, si propone ciò, che pare conveneyole a farsi in simili calamitose cótingenze:e' per non lasciare poi in abbandono i poveri, che non ponnoricevere tutti quegli ajuti da Macstri conforme possono avere i figliuoli de'bene Itanti, fiè pensato anche ad essi per dare un ripulimento più universale contro vizj,essendo tal semenza in tutte le condizioni degli uomini perniciofiffima per la Republica.  Quattro sono gli interlocutori ideali della presente opera : Sempronio giovane molto accorto, il quale brama d'istruirsi; Mecenate , e Publio prudenti direttori, ed il Medico provetto , per dilucidare alcune cose appartenenti alla Medicina. Mi fono servito di Publio ammogliato per la sperienza grande,  chc  che si trova colui, il quale per molti an ni è vivuto in tale stato: di Mecenate sciolto da tal legame, periscoprire quel di più,chenon può eslere noto, a chi hà moglie,rimirando le cose più sincere chi si trova in disparte, enon ha abbagliato la vista dalle proprie passioni.  Inoltre raccontando Publio cioca chè costumavası fare in tempi meno rilassati, farà maggiormente conoscere la differenza de'correnti, & additerà ancora il modo, che si potrebbe tenere per emendarli,quando questi discordafsero molto da quelli . Nè potrà dolersi alcuno di quanto io con tutta sincerità procuro di darti a notizia; essendoche conforme il Medico non può trovare il rimedio opportuno al male se non forma l'idea giusta, con esaminare esattamente la natura, cagione, e gli effetti di esso, così ancora nel ritrovare isimedj ai vizj, che sono mali dell'animo  b 2 caca  [ocr errors] è necessario sapere precisamente la natura, le cagioni, e li cattivi effetti di esli ; oltre di che, non parlando io in particolare di alcuno, ma solamente in  generale diciò, che è detestabile, non si potrà dolere di me se non chi da se medefimo conoscerà d'essere macchiato di tali difetti,come a tale proposito disse S. Ambrogio ne'suoi serm.pag.102. Ego non de omnibus loquor Etc. ego neminem nomino : conscientia fua unumquemque conveniat.  Averei potuto ancor darui la feconda parte; ma per maturare meglio alcune cose contenute in essa ci è d'uopo di maggior tempo, c per iftabilirle ancor con provo più convincenti; ti baa Iti per ora un picciolo abbozzo di ella affinchè poffi da questo comprendere il progresso da me tenuto per compire una educazione più generale . Quattro sono i punti Medici prinche convenga nel tempo, che sono già  cipali, che si tratteranno nella Decali  de terza, in ordine alla buona educazione; il primo fiè quello , che deesi fare per vantaggio di essa, prima di concepire figliuoli: Il secondo, cioc  [ocr errors] in  ito lif  [merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small] per cola  [ocr errors] concetti, e dimorano nell'utero materno; il terzo che far si debba, dati che sono alla luce, e finattanto, che dura la loro pucrizia: Il quarto finalmente, ciocche convenga allorchè sono in età, nella quale dee in effi manifestarsi l'uso di ragione , indugiando questo.  Nel primo si farà vedere assai difficile il potersi avere figliuoli di buona indole, e docili , se tra marito, e moglie regneranno continue discordie; se faranno l'uno, o l'altra di essi dediti all'ubriachezza, ed alla crapula; con dimostrare loro donde ne provengala cagione; oltre le sperienze dimostrative di ciò.  b 3  Nc  [blocks in formation] [ocr errors] Nel secondo, che non debba una deviata madre tenere la medesima vita, che faceva , prima di concepire; con mostrarle ancora gl' incomodi che può ricevere ella medesima, ed il feto, che porta riell'utero, per tal cagione, e quanto possa venire danneggiata la buona educazione da questo.  Nel terzo si farà conoscere , dati alla luce, di qual latte debbano nutrirsi, e qual regola in cffi debba tenersi, allorche saranno slattati, per deprime. re quel principio , che si scorgesse avvanzato in loro a danni della buona educazione; e qual cuftodia abbia d'aversi di esli , affinche non divengano di cattiva complessione, la quale sarebbe molto pregiudiziale alla buona educazione,  E finalmente nel quarto , vedendosi questi ne' buoni documenti morali non fare progressi, fi esamina sela  sero avere pofsanza tale da deprimere, o innalzare alcuni principj in esli, o foverchiamente assottigliati, o più del dovere sopiti; mediante i quali ne nascesse ostacolo alla mente nell'apprendere, e ritenere i documenti necessari, e questo sedebba farli con ajuti più efficaci mostrandoci anche Orazio, che Incultæ pacantur vomere sylve.  Nella quarta Decade poi troverai dieci ragionamenti sopra i vizj, e le virtù, con esaminarsi ancora ifrutti di ambidue ; e servendo questa come di una appendice all'opera, goderà il vantaggio di efsere trattata con ragioni, e documenti filosofici, medici , morali, e naturali, secondocheayerà d'voро  di essi ; & intanto si sono queste materie poste nel fine , per non dilungare troppo i ragionamenti, potendo ciò renderli tediosi; ed essendo per altro  neceffario il farc: ben comprendere a tutti quanto di buond, o cattivo nasca dalla buona, o cattiva educazione; doveva questo non trattarsi solamente di passaggio, conforme si era già fatto nelle antecedenti conferenze; ma farfene bensì particolari ragionamenti a parte per dimostrarlo con più di chiarezza, potendone da ciò risultare un infinito bene; conciosiacosache fàconoscere chiaramente il nostro Ippocrate nella risposta, che diede agli Adderiti, essere feliciquei Popolizi quali ben sapeano, che la loro sicurezza non consisteva nelle alte torri,cd in altre materiali fortificazioni;mà bensì nella bontà de Citradini,e ne'loro prudenti consigli:spiegandosi ivi : Beati profectò funt populi , qui sciunt bonos viros suaesse munimenta, nonturres,neque muros, fed fapientum. vi. rorum sapientia confilia ; É venendo interrogato Socrate nel convivio de'sette  fa  fapienti di Platone, qual fosse la più ben munita Città, egli rispose : Que bonos viros habet . Quale la più felice : In qua præfe&ti focietate conjunguntur: E finalmente qual fosse la migliore di tutte, egli disse: In qua plurima virtuti premia proposita sunt . Nè può di ciò dubitarsene, insegnandoci l'oracolo della Divina Sapienza al 6. Multitudo fapientum fanitas orbis.  Spero finalmente, che saranno ricevute queste mie fatiche con animo benigno da quei, che sono amanti delle virtù, e se faranno vilipesc da chi ha già fatto l'abito di āteporre i vizja queste,verranno da essi più costo a loro mal grado onorate; riputandole di pregionó dissimile a quelle cose solite da essi a pofporsi; mi basterà, che fiano grate a chi possiede il buon costume, ed utili a chi brama di acquistarlo, perchè gid sono divenuto capace , che nel mondo erunt vitia conec homines; con questa diferenza solamente del più, o del meno,nè io pretendo di vantaggio. Vivi costante nel bene operare per continuare ad essere felice, e far conoscere agl’infelici viziofi colla tua tranquillità di animo meglio le loro mi  serie.  Si videbitur Reverendissimo Patri Sacri Palacii Apoftolici Magiftro.  N. Barcbarius Episc. Bojanen. Vicefg:  APPROVAZIONI.  Etta, è considerata del si  gnor Dottore Domenico Gagliardi , intitolata l’Educazione de figliuoli morale ; o medica ; per commissione dei Padre Reverendiffimo Gregorio Sel. Seri Maestro del Sagro Palazzo Apoftolico; non ci hò trovarà cosa vervna , chic fia contraria alla Fede, o clic offenda i buoni costumi . Con verità bensi poffo; c debbo attestare; che una tale opera per mio sentimento è degna di uscire in luce, perchè oltre l'effere or: nata di scelta crudizione, e di soda dottrina ; può essere molto fruttuosa ; ed al publico, ed al privato, spiegandosi ia essa con dotta; e giudiziola chiarcze  [ocr errors] za la maniera di ben educare la prole, affare di somma importanza , come è ben noto a chi non hà cicco l'intendimento, ed offuscata la ragione. Cosi ne giudico ; c francamente mi persuado, che altrimente non ne giudicherà chiunque col leggerla dalla forza del vero G conoscerà obbligato ad approvare con giusta lode il zelo ben commendabile, e con eso l'erudito , e saggio faperc del chiarissimo autore, che per la publica utilità non hà ricusato di addosCarG acl colmo delle sue Mediche applicazioni una cale fatica, che ben lo palesa non meno versato negli studi più propri della sua professione, che negli altri, per cui sono degnamente accreditati i più celebri per fama di erudizione.  Io Fra Tomaffo Maria Minorelli de'Pre  dicatori Maestro di Sagra Teologia, « Bibliotecario Cafanastense  Per  P  Er commissione del P.RñoGregorio  Selleri Macstro del Sagro Palaze zo Apostolico avendo letra , e confiderata l'opera dell'Eccellentiffimo Signor Doctor Domenico Gagliardi , intitolata L'Educazione de figliuoli morale,e Medica, non avendo trovato nella medesima mala fimc repugnanti alla nostra Santa Fede, ed alla bontà de costumi, nè discordanti da i buoni fondamenti della nostra Professione di Medicina la considero degna di publicarli con la Stampa questo dì 20. Gennaro 1722.  Michelangelo Paoli  IMPRIMATUR.  Fr. Gregorius Selleri Ordinis Prædica  corum Sac.Palat. Apoft. Magift.  Delle Conferenze,  PSopra l'elezione della Moglie , e sue condizioni più essenziali.   Sopra l’età più propria, epro.  porzionata di accasarsi ; e quale sia svantaggio maggiore, farlo prima del tempo convenevole, 9 nella vecchiezza :  Dove la mostra,in che cose faa  esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj; e quali jvantaggi nascano dalle disuguaglianze in queAte.  Sopra gli antichi costumi, pras  ticati appreffo alcuni Popoli per la generazione ; ę se sia più vantaggioso lo scoprire scambievolmente i propri  , corporali difetti , prima di sposarsi, o l'occultarli. Nella quale si mostra , in che modo si maritino le belle , le ricche , ę le deformi  quantingue povere.  Nella quale si esaminano piut  distintamente i pregiudizi, che risultano dai matrimonj fatti senza l'intervento della Pruden74.Sopra i difetti , e le virtu delle donne.   Come si debba regolare l'uomo colla moglie scelta di ottime qualità.  Come si debbano regolare i saggi  mariti con le mogli imprudenti , e viziose .  Sopra i ripiegbi prudenziali ,  che debbonsi prendere in diverse occorrenze dalle  mogli saggie , incontrandosi in viziosi, ed indiscrefi mariti,   Sopra l'educazione Morale de'figliuoli, Nella quale si mokra, che co  Ta sia edncazione , cui appartengo piid di ogni altro; e sefia necessario luogo particolare, ove debba farsi .   Intorno a quello , che debbas  farsi da Genitori per educar bene i figliuoli .  Intorno all'uffizio, e qualita dell’Ajo, e dei Maestri .   Sopra l'educazione delle Pin gliuole,   Sopra l'etd opportuna d' apa  prendersi le scienze, ed il modo più facile per accer  tarsi delle particolari inclinazioni de'figliuoli .  Sopra gl' impieghi , che do  vranno darsi da saggi Padri a figliuoli ben’educati, e dotti.  Come debbano i Padri rego  larsi nel provedere i figliuoli ingnoranti , e viziosi.   Sopra il modo di ben collacare le figliuole.   Sopra l'educazione de Pupil  li : e come debba ciascuna portarsi verso i suoi Genitorį defonti,   Sopra l'educazione de'figliuoli  poveri, e donde venga questo danneggiata . 539  [ocr errors]  Sempronio , ( Mecenate .    [ocr errors] Sem.  Engo talmente af frettato da mici cogiunti a prender moglie, che non mi lasciano vivere, sti  molandomi giornalmente di farlo; a segno che, per non poterli più sentire, sono in necessità di compiacer loro : solamente due core mi ritardano; e fono l'educazione de figliuoli, che possono nascere,e la cura, la quale fi dec avere di esli, efsendo in ciò inesperto ; per altro mi trovo già pronto a consolarli : istruitemi, Mecenate, in queste, potendo voi fare due beneficj in un tempo;cioè, d'istruire me, econsolar' efli, che tanto bramaDo le mie nozze. :  А  Mer.  Mec. Mà questa moglie,ci è già scelta approposito per voi ?  Sem. Ci sono tante giovani oggidi belle , galanti , e ricche, che essendo anche io giovane,e commodo di beni di fortuna la posso scegliere a mio genio, e fodisfazione in brevissiino tempo.  Mec. Però non sò se tutte queste belle , galanti, e ricche, faranno per cala voftra,leggendo in Ateneo che: demens eft , qui oculis uxorem accipit : come fece appunto Monimo  il quale , avendo sposata una Giovane , senza ricercare prima i suoi costumi, divenne infelicillimo marito; c dolendosi della sua {ventura con Olimpia madre di Alessandro, lo riprese della sua trascuragginc, usata nello sceglierla.  Sem. E che ! la dovrò prendere forse deforme , scoriese, e povera ?  Mec. Neanco questa farebbe al caso voftro.  Sem. E chi dunquc doverò prendere?  Mec. Una's clic lia donna di propo,   fito,  Sem,  [ocr errors][ocr errors] Sem. E quelle, che sono belle , egalanti, sono donne ancora di propofito.  Mec. Mà non tutte buone per voi.  Sem. Quali saranno quelle, che voi Itimate buone per me?  Mec. Quelle appunto, che sapranno softenere con senno, e con prudenza la metà del peso della casa, e dell'educazione de figliuoli; onde quando voi la tropaste di queste qualità avercre risparmiato la metà del penfiere dell'educazione, e cura de figliuoli; e queste sono appunto quelle Itimate appropolito da Plauto, in Stiche, ove dice: UI per  orbem cum ambulent Omnibus , os obturens , ne quis meritò  maledicat fibi. Essendo queste ornate di tutte quello desiderabili prerogative, descritte daw Seneca in O&avia. Probitus , fidesque conjugis , mores, pue  dor placeant inarito. Sem. Io credea , foffe fufficiente, che ja moglie sapeffe far figliuoli, c chou ogr’una di queste fosse a propofito.Mec. Per farli, lo credo ancheio, ma non già per educarli bene, e per adempire quanto dee' una vera madre di famiglia; essendo che per far questo liricerca, che sia dotata di senno e di prudenza' : vi avvedete voi ora del vostro errore, e che come si suol dire, ponevate il carro avanti i buovi, con istruirvi nell'educazione de' figliuoli , senza sapere ciò, che ci vuole per iscegliersi una buona moglie: e se v'incontrasto in una imprudente, garrula, e contenziosa, à che vi gioverebe il sapere educar bene i figliuoli, se quanto di buono voi operaste, ella sarebbe capace distruggere colla sua imprudenza, e garrulità ?, allor sì che fareste caduto in quella fyentura descritta dal Poeta Saririco :  Semper habet lites, alternaque jure  gia lectus In quo nupta jacet, minime dormia  tur in illo . O.pure vi abbatteste in una, che fosse di quella natura superba, descritta dal me. desimo, la quale dicesfc; Нос  [ocr errors] voluntas ;  Imperat ergo viro. In questi casi educate bene i figliuoli se potere .  Sem. La bramerei savia, e prudente, ma vorrei, che foffe anche gentile, e galante ; perche le donne di fattezze grossolane non mi sono mai andate a genio.  Mec. Se questa sarà sana , e prudente non ci hò cosa incontrario, ma se poi colla sua gentile, e delicata complesfione ci fosse unira qualche indisposizione di animo, e di corpo, il che suole alle volte accadere, non vi consiglierei a farlo. Sem. E perche ?  Mec. Vi porreste in tal caso a pericolo di fare una cattiva razza; eredicandog da figliuoli non meno il bene , che il inale di effe ; ed hò sentito da Medici, che più dalle Madri, che da i Padri questo si ritragga, per il nutrimento dato loro quei nove mesi, che li portano nel ventre nè fi può fperare,  che  [ocr errors] A 3  che dal seme velenoso del nappello nasca un giglio, o una rosa: non sarebbe poco, quando meno velenosa germogliasse quella pianta , che dee ello produrre : e poi voi, il quale vi dilettate de cavalli, dovreste sapere per isperienza, che quelli nati da cattiva razza, riescono i meno generosi; e perciò dovete anche riflettere, che il limile poffa seguire negli uomini, come lo descrisse Orazio.  Fortes creant ur fortibus , du bonis :  Et in juvencis, eft in equis patrum  Virtus : nec imbellem feroces   Progenerant aquile columbam . Sem. In maggior confusione di prima ora mi trovo, sentendo da voi , lian neceffario ancora di scegliere una donna savia, e prudente per moglie; onde, per liberarmi da tanti guai, seguiterò le vostre orme, e viverò libero da questo legame anche io, e dicano ciocche vogliono i miei parenti.  Mec. Non fatedi grazia, Sempronio, questo sproposito,  Sem.  [ocr errors][ocr errors] Sem. E voi perche l'avere fatto ?  Mec. Non aveva allora la sperienzas d'adesso ; nè mi abbatiei in consigliere sincero; e sappiate , che mi sono pentito più volte, e particolarmente avanzaadomi negl’anni, di averlo fatto.  Sem. E per quali motivi?  Mec. Perche non anderei tanto lambiccandomi il cervello in cerca del mio erede (briga dolorosa dell'età avanzata) se avesli figliuoli.  Sem. Essendo voi tuttavia robusto, farefte anche in tempo di farli.  Mec. E che vi dispiace forse la mina robustezza, che me la vorreste far  perdere? non sono più in tempo di farli; hò procurato finora di non esser ridicolo, & ora più del passato son tenuto di farlo, e voi mici varrefte far diventare per cantare di me forse ciocchè disse il Taffo di Vincilao :  Vincilao, che sì grave , e faggio innante  Canuto pargoleggia, e vecchio amants : Queste risoluzioni, Sempronio , deona fare in gioventù , per poter vedere i suoi  figliuoli bencincaminaci prima di mori. re, essendo che a me potrebbe succedere ciò che dice Plauto:  Poft mediam ætatem, qui ducit uxorem,  Si eam fenex prægnantē   fortuitò feceris , Quid dubita's quin fiet parasū nomen  puero . Poftumus?  Sem. Dunque saranno ridicoli tani vecchi, che si accasano,e con giovanette anche belle?  Mec. Io non debbo entrare nei freci altrui, debbo bensi pentire 2 cali miei, ora che ho il pieno uso di raggione, acquistato cò gli anni; ma questi sono discorsi fuori del nostro proposito, dovendo voi risolvervi a prender moglie , per non avervi a pentire poi ancor voi di non averla pigliata ; e per ciò dovere farvi ora istruire in quello, ch'è necessario per fare un ottima elezione.  Sem. E da chi?  Mec. Da colui, che la seppe far ottima , e perciò gode vita felice , e tranquilla.Sem. Ma io non vorrei, Mecenate mio, palesare alero , che à voi il mio interno; perche sapete pure qual vento spiri oggidì, che si van cercando id fecti alcrui per mantenere allegre le nostre notturne assemblee, laonde di scoprendo le mic debolezze ad un'altro, sarebbe cosa facilissima si divulgoffero fra molci.  Mec. Viverenino in tempi infelicissim mi, re in Citcà si vasta la secretezza re. gnasse in me solamente,  Sem. Mà non potreste voi solo istruire mi in cucto , essendo vomo di molta fperienza nelle cose del mondo.  Mec. In teorica potrei darvi molti avvertimenti, ma in cose pratiche nors posso consigliarvi ; perche essendo io sciolto da limil legune, no ho avuta occasione di approfittarmi in tal faccenda.  Sem. Oh quanto mira meglio colui, il quale stà in disparte, i difetti dongeschi di quello facciano i mariti! e come giudice spassionato , quanto li distingue anche meglio! Mec. Voi sapete quanto vi amo, u  per:  perciò non lascierei cosa alcuna, che non facessi per consolarvi; mà conos . cendo io, che meglio potreste essere iftruito in tutto coll'intervento di chi averà navigato felicemente molti anni per questo gran mare , perche vi amo, dico questo ; potendo egli molte cose aver conosciute in atto pratico,alle qualinon possono giungere le mie teoriche.  Sem. Se lo giudicare necessario bisognerà farlo : ma chi sarà ral'consigliere?  Mec.Ci sarebbero Publio Roscio,che per lo spazio di quaranta tre anni, e vivuto in pace con sua moglie. Massimo trentanove anni parimente, senza contendere,e Silvio Paterno trentadue;ora sceglietovi, chi volere di questi.  Sem. Oh bene avete trovati i parenti più prossimi à Noè, che sono in questa Città ! quai consigli mi potranno dare questi vecchi decrepiti, che non firicordano del seguito nel dì avanti; e poi a tempi loro non usandofi le galanti maniere constumate oggidì, a che mi fervirebbono i loro ancichi consigli , non  pra.  praticabili a tempi nostri?  Mec. Tutte queste eccezioni, che da. te loro sono in vantaggio vostro; per, che, se non si ricorderanno quello , che udiranno da voi, niuno risaprà i fatti voftri , e se, senza tante galanti maniere di oggidì, fi feppero far amare dalle loro consorti, insegnando a voi i modi, da loro tenuti, ci guadagnerere molto in saperli, e se non siete ancora informato della capacità de’vecchi, apprenderes la da Ovidio,  Jura fenes norint , dow quid liceata  que , nefasque, Falque fit inquirant, legumque exa.  mina servent. E da Cicerone , il quale, de Senectute, così parla del Vecchio: Non facit en que juvenes, at verò multa majora, meliora facit ; non enim viribus , aut ves locitate corporis res magne gerantur , fed confilio , authoritate , fententia , quia bus non modo non arbari , fed etiam auga. ri senectus folet. Laonde faggiamento l'Ecclef. al 25. dico ;- Corona fenun muba ta peritia :  Sem  Sem. Sceglietene dunque uno di quefti a vostro genio, e quello, che conoscerete più approposito per il bisogno mio.  Mec. Publio sarebbe più al caso, per. che quantunque egli meno si ricordi delle cose presenti, conforme sono tutti i più vecchi, ha felicissima memoria nel ricordarsi delle passate:e poi avendo numerola famiglia, e così bene accostuinata , saprà anche istruiryı nella educazione di essa.  Sem. Attenderò dunque con anfierà i consigli di Publio; ma faprà istruirini incio, che riguarda la cura, che si dec avere per conservare la prole con buona falute  Mec. L'esperienza, avuta in molte cõgiunture ad esso accaduce lo averà facilmente renduto capace, a darvi qualche buon consiglio in questo ancora; ma non già con tanta esattezza cõforme farebbe chi foffe profeffore di Medicina.  Sem. Sarebbe dunque bene u’interveniffe uno di questi; c difcegliere tra periti il migliore  Merg.  Mec. Il vostro Dottore è pratichiffimo, avendo avuti molti figliuoli, è anche ingenuo , e sò che vi ama di cuore, onde migliore di ello non saprei sccglierlo.  Sem. Così è: or ditemi, come doverò contenermi nelle nostre conferenze?  Mec. Domanderete quando si presenterà l'occasione tutto quello, bramate di sapere; e non vi vergognate di fare anche quesiti di poco rilievo ; perche non facendoli, rimarrete con perplessità in molte cose.  Sem. Come si farà per informare Publio,che al Dott. parlerò io modelimo'  Mec. Sara inia cura d'informarlo di tutto, e già che siamo di primavera potremo portarci al mio giardinetto, contiguo alle mura della Citrà, ove come disse il Petrarca:  Non palazzi , non teatro , e loggia ,  Ma in lor vece un abete , un faggio, un     pino,  Fra l'erba verde , el bel monte vicino ,  Levan di terra al ci el nostro intelletto , E faremo ivi due volte la settimana le nostre conferenze.  Sem. Mà non sarebbe meglio, per approfittarmi prestamente , il farle tre volte ?  Mec. Vicompiacerò anche in questo, purche le occupazioni degl’aleri lo permettano ; ma voi, Seinpronio, averete già dato luogo nel vostro cuore a qualche oggetto, perche bramate sapere con sollecitudine se quefto ci abbia da rimanere,viconsiglierei però quádo ciò fosse, a spogliarvene prima, per applicare tutto il pensiero a quella, che converra à yoi, & alla vostra casa , che vientri  per meglio stabilircela ,  Sem. Non sono determinato ancora, quantunque abbia posto l'occhio in più parti, onde posso facilmente spogliarmene affatto, e starò con anfietà attendendo l'avviso del giorno, in cui si darà principio alle nostre conferenze.  DECADE PRIMA  CONFERENZA PRIMA  Sopra l'elezione della Moglie, e fue  condizioni più ellenziali. Mecenate , Publio, Sempronio ,  e Medico.  Mec.  O notificato à Publio ciocchè voi bramate da esso, il quale vi copatisce a maggior segno;  posciache egli ancora si trovò in un fimile laberinto,allor che dovea prender Moglie, comc jeri appunto mi disse, e da lui medesimo sentirere ora con vostra confolazione.  Pub. Quantunque anch'io venifli Atimolato da mici Genitori ad accasarmi andavo nulladimeno téporeggiado d'effettuarlo;perche apprendeva fosse schia  vitudine grande la vita cognugale, ma la ritrovai, per verità, assai diversa das quello, che io mi avea figurato ; & efsendo stato sempre mio costume, anche da giovane di regolarmi col consiglio d'uomini favii , c provetti, mi portai da un di questi mio amico, che non aveva alcun interesse in cal affare, per consigliarmi seco , fe dovessi risola vermi a prender moglie, il quale uditas ch'ebbe tale proposta, cortesemente mi disse: figliuol mio è tempo ormai , che vi risolviate di farlo ; perche avendo voi già l’età di venticinque anni poiere esser capace d'indrizare una donna per la buona strada , quantunque aveste sbagliato in isceglierla nelle cose meno essenziali, e sappiate, che l'uomo savio bene spesso fa divenire la moglie non dissimigliante da lui , siccome l'imprudente donna precipita l'uomo poco avveduto : figuratevi alla prima di dover navigare per un vasto oceano dover essere voi il nocchiere, che guida la nave : sappiatevi ben regolare  nelle  [ocr errors] e di  [merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] nelle tempeste, per non sommergervi ; prendetela sana, ben accostumata, e di buon parentado, non vi lasciate abbagliare dalla bellezza, dote, e nobiltà; e risolvetevi ; perche quanto più differirete, altrettanto inaggiore sarà il morivo di pentirvi della tardanza: raccommandatevi al Signor Iddio, essendo che: A Domino autem propriè uxor bona , come disie Salomone; procuratela giovane, nè tardate di vantaggio.  Sem. Quanto mi consolo , che vi siete ancor voi trovato in fimile laberinto; e son sicuro, che perciò compatirete le mie debolezze.  Pub. Vi comparisco a maggior segno figliuol mio , fatevi però animo ; perche quantunque paja la vita conjugale alla prima di un gravissimo peso, quando però questo viene portato concordemento d'ambedue, riesce molto leggiero, an. zi foare'; e tal fortuna l'hò sperimenta. --ta io medelimo.  Sem. Vi abbatteste à caso in sì buona compagnia, o pur faceste preventivos  [merged small][ocr errors][ocr errors] diligenze per isceglierla 2  Pub. Le feci certamente esatciflimus per non operare da balordo ; perche se per provederci de' cavalli, cani, anzi di vili giumenti si fanno efatte diligenze', acciocchè siano sani , edi buona rizzi; quattro maggiormente sono neceffario queste nello provedersi di moglie, come puntualmente si trova registrato in Tcognide, Canes quidem, a afinos querimus ,  • Cyrne, dequos Generofos, cu hec quisque vult ex  bona progenie Sibi parare ; uxorem aurcm ducere  malam Ex mala progenie non curat 1. Vir bonus ; modo fibi pecunias multas  1offerat. * Sem. E qual modo teneste in farle? - Pub. Avendo posto l'occhio ad una Gentildonga modesta,non diriguale alla mia condizione, & in età nubile, miraccomunaadai di cuorc al Medico , che fa. Noriva la mia casa , acciocchè avessesavesle ben Dell'Elezione della Mog. 19 procurato di accertarsi della sua salute , avvertito à non ingannarsi, per non ave. re a fare ancor esso la penitenza del suo fallo; posciache se fosse stata mal sana, dovendola curare, briga maggiore gli averebbe apportata; senza speranza di premio straordinario ; per esserne egli Itaro la cagione, che fosse entrata in inia casa; ciò però dilli per ischerzo. m  Sem. E detto Medico, come lo potcs va scoprire, se non l'avesse avuta ini cura ?  Pub. Penetrò tanto, che mi bastò ,  Sum. Com'egli fece ;   Pub. Avendo confidenza col suo Speziale, segretamente cercò nel di lui libro maltro, se vi era descritto alcune medicamento, servito per effe lei, e non trovandovi cosa di rilievo, mi disse : ftiamo bene di salute, perche none, si è mai purgata .  Sem. E leu fosse fervita di qualches altro Speziale? Pub. Questo non si costumava di fare  in quei tempi tanto allo Speziale, quanto al Medico. Una volta, ch'essi erano ftati ammessi, fino alla morte continuavano, ed'eravamo per ciò ben serviti; imperciocchè con molto amore effi s'in. tereflavano ne i nostri vantaggi,conforme comprenderete da quanto soggiungerò. Non si appagò già l'affezzionato Medico di questa fola diligenza usata', mà volle far di vantaggio, e fu d'abboccarsi col Dottore, che medicava in quella casa,introducendo seco discorso sopra la poca salute, che godevano alcune giovani, ch'egli curava, attribuendone la cagione di ciò al poco esercizio, ch'esse facevano ; e di poi passò à domandargli, di quali rimedij egli si prevaleva per conservare in salute quella , che doveva appunto essere la mia futura fpofa, la quale in appareaza mokravas essere più sana dell'altre; cui replicò, ch'avendo ella sortito un ottimo temperaméto, no aveva d'uopo dell'opera lua, & in segno di ciò nel mal de vajuoli da ella sofferto appena cgli vi fu chiamato  nel  oel fine', tanto la natura le fu propizia , che senza alcuno ajuto medico fece il fuo corso felicemente; e con questa seconda diligenza mi accertò della buona salure, ch'ella godeva.  Sem. Questo favore toccherà à voi, Dottore, di farmelo...  Med. Non mi ponete di grazia in Gmile intrigo ; perche non essendo io si avveduto, non vorrei errare nello scoprire gli altrui difetti : e poi se îi desse il caso, che io avelli curato quella giovane, l'onor mio n'anderebbe di mezo , discoprendovi la verità delle cose con, fidateini.  Sem. Della vostra avvedutezza punto non dubito: e poi porrò la mira a qualcuna, che non fia medicata da voi; onde non mi contriftate col recufare di f.2vorirmi ; perche altrimenti sarete voi cagione, che io non prenda moglie, noa potendomi fidare meglio di alcun altro in questo, se non di voi.  Med. Per servirvi la vedrò, considererò il suo temperamento, e fisonomia;  B 3  mà  mà tante altre diligenze, praticate per Publio, non vi prometto di firle; perche ora non si costuinano più molte cose, che si facevano allora.  Sem. L'usanze buone non si debbono dismerrere mai, io mi dichiaro con voi, non per ischerzo, come diffe Publio , mà con tutto il fenno: che se non sarà fana , toccherà à voi di curarla senza fperanza di ricompensa , succedendomi per colpa vostra tale sventura'.  Mega Vorrci, Sempronio, che mi mostraste qual privilegio voi avere più del Dottore di dismettere l'usanze buone; essendo ch'è pur usanza buona riconoscere col dovuto guiderdone il Medico, il che voi volete disinertere', obbligandolo di più ad osservare quello, che fa  per voi.  Sem. Lo dicevo per animarlo, 20ciocchè lo facesse con più fervore: non già tutte le cose, che si dicono si fanno.  Mec. Questo però non è già premio , che animi, mà bensì minaccia , che avvilisce più costo ; olore di che non è già  ben  ܪ  ben fatto di proporre con tanta franchezza ciò, che non si vuole praticare,  Sem. Non parliaino più di ciò; palliamo al costume ; questo in che dee cons Giftere, avendomi voi significato, non essere necessario, che la moglie lia garbata, e galante?  Mec. Cerra cofa è, che il buon costume della donna, non dee coolisterer in questo, mà bensì in aver cura delle casa, in saperla ben reggere, e gover: nare di cui parlando ne? ;suoi Proverbij Salomone diffe : Confickeravit. Jemitas domus fue , panem otiofa non comedia Ed il Nazianzeno nei suoi documenti che da alle vergini, così dice Neque domibus cxternis olideas , neque  menfis. Ed altrove contro le donne più del doc yere ornate, così parla .  Mos eft mulieribus [res pretiofa] domi  manere  [ocr errors] Plurimum, & divinis alloqui sermonibus Telaque , fufoque ( hoc enim munus eft mulierum)Ancillis opera distribuereservos vitare ,   Labiis vincula ferre, oculis,atq;genis:   Neq; pedē exirà vestibula Sepè babere; E Menandro comico greco così dice , Intus manere mulierem oportet  oportet :: Bonam, egredientes autem foras nullius  pretii sunt . Sem. Come scopriste, Publio , che fosse di questo costume la vostra Conforte?  Pub. Avevo in quel tempo un servitore molto affezionato, & insieme accorto, diedi ad effo segretamente l'incombenza, che lo aveffe scoperio ; e fi pora tò egli così bene, che in brieve fui informHo ditutio.  Sem.' E come fece?  Pub. Conduffe, ove questi sogliono ricrearsi, un certo fuo conoscente, il quale da molto tempo serviva in quella casa, e dopo d'essersi insinuato avvedutamente appresso di lui,introdusse discor. so, come è lor costume, sopra le stravaganze de padroni, & interrogato, che l'ebbc de cractamenti, che riceveva dal  fuo  suo, passò alla giovane, di cui ne diffe un infinito bene, con individuargli alcune particolarità, le quali denotavano forfe savia, c prudente .  Sem. Questi come poteva essere apa pieno informato delle qualità della gior vane, non trattando in quei tempi lei padrone con servitori?  Pub. I servitori in ogni cempo sono ftati curiofillimi di scoprire i fatti de'padroni, & anco i più segreti', come ava vertì Giovenalc.  Scire volunt fecreta domis, atque inda timeri. E siccome sempre vi è stata qualche affezionata corrispondenza tra essi, e le donne di servigio, onde per questa via, ciocche effi nonodono, ne offervano, lo penetrano : nè è stato mai possibile, che le donne di servigio ili fiano astenute dal'non palesare i difetti del: le padrone , almeno a questi loro favo riti, per mostrare con elli confidenza.  Sem. Vi bastò quefta sola notizia ?  Pub. Procurai in oltre rincontrarl24 da più parti prima di crederla ; pofçiag  che  che udito efferii da quella casa partita disguitata una donna , fecidiella  prenderne inf rmazione, la quale contesto le medelime cose,che dette aveva il servitore; ed essendo uniforine à questo notizie il publico conceito, che di essa fi aveva nel vicinato, mi appagai del suo buon costuine ie non feci altre dili. genze intorno à questo. ni  Sem Manon sarebbe stato ineglio vi foste informato da qualche Uomo das bene?  Pub. Non lo stimai neceffario , avendo rincontrato da più parti il medesimo: e poi per dirvela giusta , chi è buonio non è curioso d'investigare gli altrui difecii; ed anco sapendoli si guarda molto bene dal publicarli..."  Sem. Il vostro Ulisse, Mecenate, sa, rebbe approposito per iscoprire gli altrui difetti in  Mec.. Ma non in questo affare, perche egli cicala troppo: si ricerca in tale affare chi sia destro, e serio , che compri, c non venda.  Sem.  Sem. Palesatemi ora , Publio, qual modo usaste nell'informarvi della prosapia della vostra Conforte ?  Pub. Vi era in quel tempo un certo sfaccendato investigatore de' fatti altrui, il quale andava curiosamente cercando le memorie delle antiche famiglie negli Archivi ; cui feci parlare dau un'amico, è che mostraffe desiderio, tanto delle notizie della mia famiglia, quanto dell'alcra, con fargli promertere un convencvole riconoscimento per le sue fatiche'; e per verità in brieve tempo d'ambidue pose in chiaro quanto circa ad un secolo a poteva tro. vare, e seorgendo verificarsi ciocchés aveva detto della mia, prestai fedes à quanto aveva ritrovato dellal, tra; e vedendo, che fiftava quasi del pari tanto nel bene, quanto nel male's non ini curai fare diligenze di vantag. gio'intorno a questo ancora potendomi bastare.  Sem. Dunque quantunque sapeste, che in quella viera qualche eccezione,  non  [ocr errors] [merged small][ocr errors] non ne faceste caso?  Pub. Mà se vi era questa nella mias ancora, come potevo farne caso, do. vendoci ne' Matrimonj servare uguaglianza.  Mec. Credete forse, Sempronio, che tutti noi descendiamo da Cerari, e che per non interrotta serie di molti secoli le nostre famiglie siano state sempre illuftri? Se li potesse ora ritrovare la de. scendenza vera degli Arsaci; e Tolomei, oh quanti di questi si troverebbero esercitare arti vili, e forse core peggiori ancora . lo per tal motivo no mi fon punto curato di far ricercare dell'albero della mia casa , se non l' ulcimo secolo ; e tanto maggiormente, che un mio amico, il quale si mostrò più curioso di me, bramandolo di due , dopo di avere speso di molto in ricercare i fatti de'suoi antenati; vi trovò alcune cose, che forse nulla li piacquero, o fece tralasciare l'opera:solamente queIto guadagno vi fece, che non milançava più la sua nobiltà , come prima.Som. Di avere però l'albero della sua casa lo stimo neceffario, affinche i  posteri seguirino i loro illustri maggiori.  Mec. Lo credo anch'io , mà però non conviene farne publica mostra , se uon cui averà trà suoi ascendenti chi abbia goduta la Sovranità, mediances la quale degnamenre merita la preminenza sopra tutte le altre una sì illustre famiglia. Potrei riferirvi à questo proposito ciò, che fece un saggio Prencipe, cui fu presentato l'albero de'suoi antenati; lo rinirò egli ben bene, & essendoli avveduto , che l'adulazione vi avca innestare alcune cose ideali, lo fè piantare profundamente in una fund Villa, atfinche da quello germogliaffed l'albero de'suoi descendenci più glorioso, essendoche lo fc piantare ivi ad onta dell'adulazione. Med. Licredo anche utili detti albe. ri per prova della salute goduta dagli asccadenti ; posciache se il Padre mori ottuagenario , il nonno parimente in età decrepita , conforme anco l'atavo, ed  il tritayo, sarebbe questa una provas grande della perfetta falure in quella famiglia; e tanto più se questa si proyaffe ancora per parto delle donne; dove che se fossero morti giovani, e vi foffero regnati tra eli mali creditarj, farebbe far un cattivo negozio, d'incftare a piante si cattive la propria.  Sem. Riuscirà ora cosa difficile à potersi sapere i difetti del casato, col quale dov.erò apparentare, per non esserci più quegli avveduti indagatori dei difetti altrui.  Mec. Non dubitate, perche non ci è questa penuria ; sono stati, e saranno sempre nel Mondo niolti, a quali premono più i farti altrui , che i proprj, ricavandune da ciò notabile guadagno ; basterà essere loro grati, perche di quc sto vivono , per altro ne troverete molti: e poi ci sono ora tanti manoscritti, e libri anche stampati, i quali trattano delle nostre famiglie, che vi si renderà più facile di quello, che credete, à Caperlo giusto ; Sc però non averanno,  tore  scritto con passione, clivare; il che si difeerne facilmente, non potendosi mai celare questi canto , che non si scuoprano.  Sem. In questo supplicherò voia favoriemi, avendone già pratica di molte ; Ini mette solamente pensiere il mor do di scoprire ciò, che accennò il Dor  concernente all'età , che fieno viyuti, & alla loro falute, ed in questo ancora vi prego , Dottore , che mi ajutiate.  Med. Questa non è incombenza di Medico, dovendo egli cercare i vivi per 'risanarli , se sono infermi ; ma ai morti qual bene potrà apportare, ricercandoli? Sem. Apporterete à me il bene, le non lo farcte a defonti, con trovarmi moglic , che descenda da famiglia sana, ed in conseguenza ancora a miei descendenti.  Mec. Il Dottore ha da fare, non gli date questa briga ; vi voglio inícgnare io il modo per uscoprirlo; posciache,  fc  [ocr errors][ocr errors] se la famiglia, colla quale voi volete app arentare, sarà illustre, e di antica pro fapia, ci saranno tante lapidi sepotcrali,ove son descritti i fatti degli ascendenti , ed ivi troverete anche gli anni, che questi vissero; se poi saranno famiglie moderne, l'invidia farà palese più di quello, che bramerete sapere di cfle , ritrovandosi ricche.  Sem. Passiamo ora all'età più propria d'accasarsi. Mec. Voi,Sempronio, vorreste essere in un sol congresso istruito di tutto; riferrete di grazia, che Publio è vecchio, ed il Dottore ha le sue occupazioni ; non ci abuliamo della loro sofferenza.; e poi non è già vostro vantaggio di far lunghe conferenze, perche meno a apprendono li troppi documenti, di quello si faccia udendone pochi per volta; differiamolo dunque alla seguente Conferenza. Conferenze sopra l’età più propria, e proporzionata di accasarsı ; e quale fia svantaggio maggiore, farlo prima del tempo conyenevole, ò nella vecchiezza.  [ocr errors][ocr errors] Sempronio, Publio, Mecenate,  e Medico.  [ocr errors][ocr errors] Sem.  01, Publio , che avete avuto fortuna nel vostro accasamento, ditemi di grazia: in qual'età  cravate,quádo prédeste moglie?  Pub. Appena io avca terminato l'anno. vigelimo quinto. Sem. E la vostra sposa qual’età avea?  Pub. Era allora appunto entrata nel vigefimo. Sem. Perche non la prendeste prima?Pub. Perche non mi pareva di avere acquistato ancora turto quel conosciméto necessario per far passaggio a detto stato. Oltre di che trovando scritto questo Sacramento per ultimo, ftimai bene d'effectuarlo dopo l'età stabilita da conferirsi il Sacerdozio, per non errare.  Sem. Ma prendono pur tanti moglie prima di questa età?  Pub. Da ciò forse deriva , che molti fi lagnano ancora di essersi accafati ; ed è cola facile, che per non sapersi in quell'età iinmarura regolare con giudizio, e prudenza , incontrino più disastri, che consolazioni,  Sem. Dunque avendo i vecchi più fperienza, senno, e prudenza de giovani converrebbe aspettarsi a farlo fino all' età fenile.  Pub. Per altri motivi però, apportati da Euripide , non si dee aspettar tanto, dicendo egli:  Et nunc juvenes adhortor omnes,  Ne in senecture nuptias celebrantes [ocr errors] Vix liberos procreént;nec enim voluptas eft, Sedres inimica mulieri fenex vir, Ed altrove, Amarus juveni uxori fenex maritus. Sem. Sono però accaduti à rempi noftri cafi felici ne’vecchi sposati con le  giovani, ed hanno avuto prole. 3 Pub. Questi matrimonj bisogna , che  riuscissero assai infelici anticamente;podi sciacche di Omero racconta Erodoto į nella di lui vita, che sdegnatoli egli con  tro alcune donne,che sacrificavano à Co.  rcre in un trivio, imprecase loro questo o gran male.  Audi flavi Ceres precor, hoc mihi perfi  ce votum:  Hanc numquam juveni matronam junge I  marito, Sed tremulo fit nupta feni , cui vertice  cani Fundantur crines, E non avendo saputo augurare loro infortunio peggiore di questo;qual felicisà dunque potranno essi godere? Potrà  [ocr errors][ocr errors] effere tal volta, che le donne di oggidi fieno divenute più savie di quello fossero allora; o pur,non trovando alcune di esse mariti giovani fi contentino di quelli, che possono avere , senza contristarsene punto; se pure non è qualche caso singolare questo da voi riferito, il quale non è sufficiente à formare Aato.  Sem. Bramerei in primo luogo sapere da voi , se debba essere uguale l'età dell' uomo à quella della donna, per servare in tutte le cose perfecta uguaglianza?  Pub. Appunto per cagione di proporzionata uguaglianza , non debbono essere ambidue di consimile erà, perche deesi, come ben'avvertì Euripide regolar questa dalla durazione della fccondità , non dagli anni, dicendo egli. Malum eft juvenem uxorem adolescenti  conjungere. Diuturnior autem eft marium vigor, Fæmineum verò corpus citiùs puberta. sc deftituitur .  Sem.  [ocr errors][ocr errors] Sem. Quefta differenza di età in che doverà consistere, e quanti anni doverà avere più l'uomo della donna?  Pub. Sopra questo particolare ini persuado, che non si possa dare certa, c determinata regola;contutto ciò potrà dire il Dottore, quello ch'egli ne senta. Med. Aristotele pone la fecondità dell'uomo fino all'età di 70. anni, e quella della donna sino à 50.jma perche ora forse sono le complessioni deceriorate, e perciò non si osserva, se non di rado giugnere à questo termine, voglio  in ciò regolarmi con quello , che piu } frequentemente suole accadere,il quale  appunto è; rispetto all'uomo incirca al 60.anno; & alla donna intorno al 40. talmente che nello spazio di 20. anni,  confifterebbe detta fecondità di più o nell'uomo che nella donna.Ciò ftabilito,  ogni qual volta nou trapali in detrá - proporzione il triplo l'età dell'uomo  sempre farà in uguaglianza g rispetto al sempo di poter generare; purche non  C 3  VCI  yenga variata da qualche indisposizione morbofa. Sem. Sicche dunque un uomo di 40. anni farebbe- nell'uguaglianza, prendendo una giovane, che ne avesse venti?  Med. Così è: uscirebbe bensì da calc proporzione, se la prendesse di 14.anni; poiche trovandoli la donna nell'età di anni 34.avendone il marito 60. sarebbe già divenuto sterile sei anni prime di effa.  Sem. E se la donna fi accalaffe in età maggiore di quella del marito , che ne potrebbe seguire da ciò? Pub. Le riuscirebbe certamente pii facile di fare à suo modo; imperciocche non prendendosi quella soggezione del marito , che suole apportare di più l'anzianità, disporrebbe, tụtto à fuo piacere; ed Iddio guardi,che la diffcrenza degli anni foffe tale, che il marito le potess’essere figliuolo, allorsi, che lo vor. rebbe tenere, e regolare da subordinato in tutto à se medesima : e poi è da riflet. tersi, che difficilmente inducendoli ladonna, se nő è molto stimolata  dal senso, à congiungersi in macrimonio con ginvani di tanta disparità; onde in questo caso soffrirebbe il povero marito per molti capi penc considerabili: solamente  la gelosia, che ne potrebbe ella avere gli i recherebbe tormento grando; olere di  chc, comc vuole Leonide, sarebbe senza prole, e senza moglie, posciacche egli  dice: Conjuge nec frueris, nec   frueris fobole . Sem. Io , che non voglio tanti guai, la bramo più giovane di mie; mà diremi, Dottore, qual'è l'età competente della donna,per cffer moglic?  Med.La giovane può prendere marito allor'appunto, ch'è atca à concepire , effédo divenuta già dóna;c può succedere questo alle volte nell'età di 12. anni, altresì di 13., 0.14.3 e più tardi ancora ; onde in detço tempo porrebbe divenire sposa.  Mes. Sarebbero però quelle di 12., 0 13.anni spose immature; e non só  quanto potessero riuscire buone mogli; poi  che  [ocr errors][ocr errors] C 4  che lasciando la conliderazione di do. versi queste scegliere uno stato nel quale conviene perseverare fino alla morreu, cd in conseguenza averebbero bisogno di più maturo senno per fare detto passo: e senza riflettere a tanti disaggi, che ponno incontrare nei primi parri; doinando, come si sapranno bene regolare col marito, e nell'educare i figliuoli? Med. Hò considerato anch'io queste difficoltà; mà dall'altro canto è da riAettersi ancora, che prendendoli così giovanette ; si possono ind rizare, come li vuole; ed abbiano l'esempio nelle piante, le quali allorche sono tenere, con facilità grande le poisiamo piegare a nostro compiacimento ; mà non già questo accade allorche sono indurate VIRGILIO (si veda) parlando di domar la gioventù, dice, che nell'età più tenera con più facilità succeda. viamque infifte domandi, Dum faciles animi juvenum, dum mobilis ætas. Mec. Io mi maraviglio, che. voi co  [ocr errors] me  [ocr errors] me Medico non vi opponiate 'a maritag: gi di età si tenera, potendo meglio di chi non è vecfato in medicina conoscere il danno, che possa apportare alle cenere giovani similc mutazione di stato Med. Non vi maravigliare di questo, perche noi circgoliamo nel modo di vivcre colle consuetudini de? paefi', insegnandoci il nostro Ippocrate, che: dandum fit aliquid regioni, & confuetudini; e non per questo, che qualche.caso liano seguito funesto, debbong esse variure, essendoche cziandio consimili cali fe, guono nelle più adulce, pericolando queste ancora ne parti.  Mec: Lasciamo le consuetudini dan parte, e dicemi di grazia, se inariterelte una vostra figliuola in età si tenera?  Med. Ci penserei alquanto, & anderei procrastinando il trattato, fin tanto che li assodasse un poco più negli anni; c tanto maggiormente, se non fosse ben complessa; poiche non vorrei, che nel cominciare si prestamente à far figliuo. li, quello, che dovesse andare in suo  [ocr errors] crc  [ocr errors] crescimento, G.deviasle altrove..'  Sem. Si differiranno facilmente quefti maritaggi, per non ispropriarsi della dote, e voi alori Medici, che fiete renuti alquanto interessati, forse per ciò differirete di effettuarli. Med. Non fiamo però sì ftolidi, che non riflettiamo, che la dilazione non paga debito, e che questo fodisfacendosi fpedicamente ci libera da cravagli di doverlo pagare. Sem. Qual'età voi realmente credere più propria da prendersi marito?  Med. Se la giovane goderà prospera falute, mi persuado , che intorno al vigelimo anno lia la più convenevole ; le poi foffe gracile, si potrebbe anche in. dugiare qualche anno di più, per meglio ftabilirsi; purche non paffalse il vigefimo quinto; ftantccche facendoli talri. soluzione di accasarsi, per godere prole sufficiente alla conservazione della fami. glia , ciè d'uopo di figliuolanza, che fopraviva, e ci fiano ancora de'maschi , e ciò nello spazio di 20. anni di fecons  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] dità si può commodamente ottenere.  Semi Talmente che, chi bramasse di avere più numerola figliuolanza,gli coverrebbe prendere una giovane di 15. anni?  Med. Per istabilire bene la sua casa, non fi dee solamente procurare il nuinero defigliuoli, mà ancora la robustezza, e vitalità de'medefini; e questi,co. me vuole Aristocile nella sua politica, nascendo da padri giovanetri, sono di poco vigors, almeno i primogeniti, i quali fogliono per lo più accafarsi. Quindi è, che TACITO (si veda), ove parle de'costumi de'Germani, dice; che tras essi le vergini fi maricavano già adulte, cche perciò passasse ne'figliuoli la robustezza dei genitori. Sem. E l'età dell'uomo più congrua di accasarsi, quale sarà ?  Med. Quella appunto, che si contiene erà lo spazio di 25., 30 anni; quando ciò da altro impedimento non venga ritardato.  Mes, Lo credo anch'io, che da molte cagioni potrà essere ritardato: im. percioche, se averà egli impieghi,i quali richiedono applicazione grande, e non si troverà sufficientemente proveduto di beni di fortuna, per sostentare la famiglia; fe non goderà salute competente; se in casa averà molte sorelle, e madre in particolare, che fosse donna risentita, in questi casi doverà indugiare a farlo, fin tanto almeno, che si troverà in istato più opportuno, non essendo convenevole porli sotto ad un giogo di questa forta con simili impedimenti svantaggiosi alla quiere conjugale.  Semi Vorrei sapere, quali danni risulterebbono, s’io tardasli a prender moglie fino alli anni 35.  Mec. Se voi tarderete tanto, temo, * che non la prenderete più, e per ducor motivi: primièramente perche trà tana to facilmente' vi potreste deyiare, cd abbattendovi in qualche donna scaltrita, saprà ben'ella distorvi da tal penfie ro con le sue arti; e guai a voi, le fi af fomigliaffe questa a quella donna impu  dica,descritta da Salomone al 7. dc' suoi Proverbj, la quale ; ornatu meretricio prçparata ad capiendas animas; e con quali artificj ! victimas pro faluse vovi, hodiè reddidi vota mea ; idcirco egreffas fum in occursum tuum, defiderans te vin dere , e reperi ; intexui funibus lectulum meum , ftravi tapetibus pietis ex Ægypto, aspersi cubile meum mirra, a aloe br. E poi trovandovi in quell'età, farà facile, che comincierete a rifertere sù l'incertezza di poter'invecchiare, e facilmente direte ; come anderebbe allora la niiafamiglia séza’l mio stradaméto;qual pensiero , se non vi distogliesse affitto, vi renderebbe almeno irrisoluto nell'effettuarlo; onde farc à mio modo, risolvetevi, e non procrastinate di vantaggio: perche altrimenti vi seguirà cioco ch'è accaduto à me medeliino, che mi fono invecchiato senza successione. E sapere, che diranno di voi le donne, elsendovi avanzato negli anni? Questi è vecchio, che ne vagliamo fare? E perciò converrà allora, volendola prendere, accommodarvi a chi troverete, con le condizioni che da ella vi saranno date; dove che adesso farà a vostro modo quella , che vorrete prendere.  Sem. Questo certamente sarebbe svantaggio grande per me; laonde non bisognerà perderci teinpo. Pub. E tanto più sollecitamente vi risolverete,sentendo li pregiudizj grandi, ricevuti da cui tarda moltó a pren. dere moglie,i quali sono anche maggioridi quelli, che possono accadere à chi lo fà prima del tempo. Sem. Quali sono, Dottore, questi Matrimonj fatti prima, ò più tardi del dovuto tempo?  Med. Li preventivi sono; se un giovanetto fi accasaffe in età di 15.9 16. anni; e li tardivison quelli, che si fanno, allorche tal’uno è divenuto già veça chio, Sem. Quali danni apporterebbe ad un giovane lo accafarli di 15. anni?  Med. Questi accompagnandosi con, una giovanetta coetanea , non saprebbe  [ocr errors] regolare le sue operazioni; c s'egli in quello primo fervore fregolato pregiudicaffe allo proprio individuo, quanti svansaggi ne riporterebbe? E qual'indi. rizzi sarebbe capace di dare a suoi figliuoli, avendo egli bisogno di chi lo dirigeffe? E stando tuttavia in crescimeto, defraudandofi questo per il diyiamento della miglior parte del suo sanguc iinpiegata nella troppo sollecitas generazione, come potrebbe convertirli in suo beneficio ? Oltre di che noll possono fperarsi frutti perferti da simili piante, le quali non sono arrivate an. cora alla loro perfezione,  Pub. Aristotile nel 7. della sua Politica fà sopra di questo un'ottima riflerfione ; cioè, che fimili figliuoli, che pajono quasi coetanei a Padri, poco rispetto portano loro, querclandofi sovente sopra il governo della casa contro di efli.  Med. Ci sono però alcuni cafi, che debbonsi eccettuare dall'accénata regola , e tra questi sono quelli unichi ,  cd  [ocr errors] ed antichi rampolli di qualche illustre, e ricca famiglia, che per non vederlas estinta , fi procura in età tenera di accafarli. Siccome ancora, se si vedesse un giovanetto ben complesso, che comincialle a deviarhi, non avendo chi lo tenesse a freno;onde per non vederlo precipitare , converrebbe accasarlo , senza indugiare di vantaggio ; ed in questi casi li doverà prendere un'altra inisura , competendo loro piu tosto una saggias giovane, che avesse qualche anno di più di loro, affinch'essa regolaffe alcune operazioni concernenti alla salute , potendo la moglie saggia molto adoperarfi in fimili affari. Sem. I poveri vecchi allorche foffero robufti, perche non potrebbero divenire fposi anch'elli?  Med. Perche, conforme dice Euripide.  Sed, aut feneétus Veneri valere jubet;  Aut Venus senibus molefta eft. Onde per tal cagione si accelerarebbero la inorte, çssendo anche potenti, e ritrovandosi inabili a questo, si contristerebbero per molte cagioni:primiera-  mente per essersi accinti ad un'impresa,  nella quale non riescono abili perlochę  verrebbero anche derisi,e beffeggiati da  giovani, e per non vedersi corrisposti  dalle loro conforti con quelle maniere  cortofi, ch'elli vorrebbero, e final  mente per essere privi della bramatas.  prole, come descrive VIRGILIO (si veda): Nec dulces natos, Veneris nec prçmian  noris.  E vi parc,che questi poffano vivere con-  tenti? Con ragione dunque Blepirone  appresso Aristota ne diceva:   -Heu, mihi infeliciis qui senex. cxiftens duxi uxorem.  E Menandro esprimendo le fvcnturc de?.  vecchi amanti, così fayella:    Nurde miferius poteft daramante   Seine, Hifi alius fenex amans;  Nam , qui frui cupis rebus , à quibus   Propten tempus, quomedò ille non mi Jerefte), 06.01.10   D  Mere  [ocr errors][ocr errors] arasiit  Mec. Ia questo li credo infelici anch? io, leggendo in Catullo:  Er fenis amplexus culta puella fugit. Ed in Arenco ciocche disse Teognide, ch'è appunto.  Sero Viro juvenis uxor magna calamiras. Cymba fine anchora, effractisq; Tudensibus.  Pub. Udite ciocche dice Plauto di questi: Tum capire cano amas fenex nequif  fime? Si unquàm vidiftis pictum amantem,  bem illic eft. Ed OVIDIO (si veda), ch'era informatiffimo de' genj delle donne di quei tempi, così ebbe a dire: Que bello eft habilis , Veneri quoque  convenir , stas ; Turpe fenex miles, turpe fenilis amor.  Quos petiere Duces annos in milise aforit  Hos petir in focio bella puella viro. Laonde, qnando a vecchi venitfe in fantasia di preader moglie, a configlino  con  2 con ORAZIO (si veda), il qualc dice:  Intermiff - Venus diu Rursùs bella moves:parce precor precor, : Non fum qualis eram.  Sem. Riceveranno questi certamente, prendendo moglie , svantaggi affaimag. giori di quelli, che incontrano i giovanerti?  Med. Senza fallo; posciacche questi, crescendo loro con gli anni il senno, u la robustezza, vanno incontro al tempo  migliore ; dove quelli sempre più u precipitano nel più miserabile: or re  dere voi, Sempronio, che danni apporta il diffrire tanto lo accasamento  Mec. Ho conosciuto però un vecchio, il qual, essendo caduto nelle reti di Venere, piangeva dirottamente la sua sventura; e volendolo io confolare, persuadendomi, che li lagnasse dell'errore commesso; cgli mi rispose : oh che fallo hò commiffo io a non prendere moglic,  quando era giovane! poiche fe valoroü so mi son portato nell'età inaridica della un vecchiezza , quanto più farei stato nel ,  [ocr errors] 2  la verde giovenile? Gli replicai però: guai à voi, se in quel tempo foste stato così dedico à fimilc piacere; posciacche vi averebbe farro inyecchiare prima del ecinpo; dicendoli dell’ainor lafcivo. Ef juvenis juvenes, qui facit ille fenes. E per meglio illuminarlo gli apportai l'iscrizione sepolcrale di Menelao, ch'è questas Inter opus medium lafcivå mørte for  lutus; Hic fitus eft , dom init jam Menelaus  bumum; Qui blande. Veneri visa facraverat Haud aliter vitam ponere juffus eraf.  Sem. Or ditemi: questa uguaglianza come dec essere nelle altre cose? Pub. L'esamineremo in appresso. [ocr errors] [ocr errors][merged small] CONFERENZA   [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dove si mostra,in che cose sia esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj; quali svantaggi nascano dalle disuguaglianze in queste. Sempronio; Publio , Mecenate's Medico. M  [ocr errors] Sem.  I persuado, Publio, che non essendo seguite trà voi, clas voftra conforte, al. tercazioni,e discors  die, averece goduta la sorte di una perfectisfima uguaglianza in tutte le cose.  Pub. In tutte è impossibile poterlos ottenere ; bafta solamente , che difuguaglianza non sia nelle più esenziali, nelle quali certamente fui fortunato,ef. fendo di verificato in me il Proverbio di Salomone: Qui inuenit mulierem bonam, invenis bonum : du auriet jucunditatem à Domino  Sem. E queste quali sono?  Pub. La prima è il genio buono uniforme in ambidue: e questo non potrete credere, quanto mai trà noi foffe reciproco; poicche, quanto io volea,senza repugnanza alcuna cra grato anche ad effa ; ed in quello poteva immaginarini, che fosse stato di sua sodisfazione, ci concorreva anche la mia, à segno, che delle nostre volontà, sen'era formata una sola ; onde di noi con ragione si poteva dire, ciò ch'è registrato nell'Ecclesiastico al 25.,ch'è grato à Dio, ed à gli uomini:  Vir, & mulier benè fibi confentientes .  Sem. Sicche dunque se vi potevate immaginare, che avesse deliderato un, bell'abito, ò una nobile Stufiglia allas inoda, voi l'avereste compiaciuta prontamente Pub. Non desideravano le mogli queAte cose in quei tempi, ne'quali non  costu.  [ocr errors] costumavano; bramavano bensì di avej re provisioni abbondanti di lini, cana  pc, e cottoni per farne lavorare copio  se biancherie ; di vedere fatte le provi. i sioni à tempo debito , di quanto bisogna per servizio di casa cutto l'anno; di avere otrimi maestri per istruire bene i figliuoli; e servitù fedele, e benc accoltumata.  Sem. O tempi felici: non poteva io essere nato allora! Pub. Ed io vorrei trovarmi giovane in questi coll'uso di ragionc, cd esperienza, che godo:  Sem. E la seconda quale sarà? Pub. Che questo genio uniforme fi ftabilisca sopra le virtù cristiane, e morali in primo luogo; c di poi in tutto le altre cose utili per lo stabilimento della casa,cd in queste è stata veramente seinpre singolare; imperciocche vedendo, che bramavo di sodisfare all'. obbligo, che corre ad ogni benestante, di sovvenire i poveri, essa ancora facea le sue parti con mia somma consolazio  D4  ne;  ne; e nel rimanente vedendomi artento agli affari domestici, s'ingegnava per quanto poteva, di sollevarmi in molte cose; talmentecche hò sperimentato in me ciò, che diffe. Appollonide:  Certè inter homines Non aurum , non regnum, non divitia. .. rum luxus Voluptates tam eximias prebent, Quam buni marici, & uxoris pia Volunt as jufta, & legitimè affecta. Sem. Lo credo anch'io[facendo voi cosi]che potevare godere una perpetua felicità.  Pub. E voi ancora la potrete godere, se farete il medesimo.  Sem. I tempi calamitofi , ne'quali siamo , non lo  permettono. Pub. Se dipenderà da tempi, converrà avere pazienza ; perche farà irremcdiabile; mà se dipédeffe poi da voi,senza fallo potrete porvi rimedio: or'vediamo,da chi dipenda. I tépi calamitofi dāneggiano co carestie, pestilézcguerre, terremuoti,c tempeste ; c queste non  effens  20  [ocr errors] effendoci ora crà noi, come possono corbare il regolamento della propria casa? Onde vedere, che dipende da noi', non da tempi ; dunque à torto vi lagnate de'tempi ; essendo voi , non cfli l'origine della vostra infelicità; e se poressero questi parlare , direbbero in loro dif colpa: voi ci calunniare à torto, per ricoprire i vostri mancamenti; perche vi piace tale modo di vivere, e vi dilet.  ta, quanrunque ne moftriate un'appa. rente rammarico. Sem. Si pratica oggidi fare diversa. mcate d' allora i conviene accomodarli ai più: bisogna averci pazienza. Puh. Questo è un pretesto peggiore i dell'antecedente; perche voi conoscere,  che fate male; ed avere la cognizione, che non facendolo fareste felice; porche dunquc lo fate , dipendendo da voi il farlo, ò non farlo? Ohcecità ! volere piuttosto effere imitatore di chi voi conofcete; che faccia male, che di quellig che operano bene; e poi, se voi dite che ci vuole pazićza,perche vi lagnate? Som.  [ocr errors][ocr errors] Sem. Operavano allora cutti in questa forma?  Pub. Io non andava cercando, se vi era caluno , il quale diversamçare operaffe ; perche volendo prendere l'esempio da chi lo faceva ; questi solamente rimiravo, per imitarlo.  Mec. Sempronio mio, non vi avanzate più oltre in questo, perche Publio. vi convincerà di vantaggio; e vi farà anche conoscere, che i vecchi non sono storditi, conforme alcuni credono; efsendo che al parere di Plutarco;la mente in vecchiaja ringiovenisce.  Sem. Vi è altro trà le cose neceffarie. da fervarli uguaglianza? Pub. Nella ftatura ancora ci vuoly, se non totale uguaglianza, almeno proporzione ; posciacche, se sarà la spora pigmea, ed il marito gigante , se ne avyodrà ella ne'parti, ed in alere segrete occasioni ancora ; laonde à questo proposito parla OVIDIO (si veda): Quam male inæquales veniunt ad aran tra juvenci,Tam premitur magno conjuge nuptas  minor. : Sem. Sarebbe dunque bene prendernc prima le misure di ambidue per formarne una giusta pariglia.  Pub. Non è ciò necessario, nè conve. niente ; perche coll'occhio ancora fi può discernere la notabile disuguaglia, za. Debbo ancora avertirvi , che li rim  cerca la proporzione de'beni di fortuna; ? perche se vi apparentaste con gence mi  lerabile, alla vostra casa coccherebbe il mantenerla: altrimenti non vi sarà pace con vostra moglic; perche la vora rà soccorrere di nalcolto, sc non potrà farlo palesemente.  Sem. E la Nobiltà dee entrare ancora essa trà le cose necessarie da ugu2 gliarli? Pub. Questa uguaglianza non è ftia mata essenziale, secondo il sentimcnto i di Platone, registrato nel tive del suo Regno; ovcper teffere la tela della buo. na discendenza , cgli procura di moa strare, non ricercarli cosa più effenzia,  le  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] ke ne'maritaggi, che d’innestare le virtù  ; per esempio, al temperamento forte unire il moderato : onde potendo questa unione formarsi con inferiori di condizione ancora ; non si ricercheranno nè ricchezze, nè poffanza, nè altre credute dal mondo vantaggiofe condizioni, per tesserla a suo dovere; come appunto lo fà contesfare à Socrates; perche egli considera talc affare in ordine al bene univerfale, non particolare di ciascuno ; persuadendosi, che congiungendoli in tale forma, fi potesfc porre il mondo in migliore consonanza. Ed in conferma di questo, cade in acconcio la bella concione , fatta dawa Camulejo Tribuno della plebe l'anno 310. ab Urbe condita, la quale viene riferita da LIVIO (si veda); e dimostra questa con vive ragioni tutti quei vantaggi, che possono apportare i maritaggi scambie. voli trà nobili, c plebei alla Republica. Io però mi persuado , che più decoroso fia, secondo l'apparenza del Mondo, fceglierla non plebca.  Mec.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. Voi dice benc , Publio ; malo colla nobiltà fosse unito il mal costume scegliere te forte piuttosto una Meffalina, che una ben'educara, c prudente plebea per vostra consorte?  Pub. Questo poi nò ; perche in tale caso mi perfuado minor caccia, porerne ricevere, sposando una plebea , la quale col suo buon costume,.c fenno, in brieve tempo fi farebbe conoscere non dissomigliante à quelle nate nobili; doveche la nobile mal’educata, e viziola, degenerarebbe in plebea fenza fallo. Mer. Vedete dunque, che la sola nobiltà non dee attendersi, mentre voi medesimo la posponere al buon coftu. Sem. Vi sono esempj di nobili savj, che abbiano sposate giovani ignobili?  Pub, Molcillimi. Vifu Teodofio lin. peratore , il quale antepose la figliuola di un povero Filofofo à cutte le più nobili, riconoscendola meritevole di tale grandezza , per la fua buona educazioac. Ed Abramo che desiderò, volen  do  [ocr errors] 1  70  me.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] do prendere moglie? Uditelo das. Ambrogio: Difce quid in uxore queratur : "Non aurum , non argentam quafivis Abraham, non poffiones , fedt gratiam bons indolis : lib.i. de Abr. Sem. Nella bellezza, ò deformità fi dovrà cercare proporzione?  Pub. Qualche forta sarà bene di procurarla ; perche , fe diforme sarà il inarito , c bella la moglie, dirà ogni rivale, ammirato di questo; con Virgilio : Mopfo Nisa datur, quid non fperemus  amantes! ! Oltre di che in un continuo tormento di gelosia fi ponc, chi la prende éon fimile disuguaglianza; e tanto maggiormente , dicendo Giovenale :  Rara eft concordia forma, Atque pudicitia. 21 che viene anche confermato dal Petrarca in tal guifa :  Due gran nemiche erano insieme ago gionte:  Bellezza, ed'oneftade Oltre di che poi  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Fastus ineft pulcbris, fequitur superbiaus  formam.  Sem. Nelle ricchezze fi dee cercare od uguaglianza?  Pub: Quella appunto , che fu detta i dell'ecà, cioè, che sempre fiano ad una  certa proporzione inferiori quelle della cala, con cui volete apparentarvi, perche, come disse ben Marziale:  Inferior Matrona fuo fit, Prifce marito, 4 Non aliter fiunt femina,virque pares. Sem. Sc uno volcffe prendere moglic in lontani paesi, e di diversi linguaggi, indurrebbe questo disuguaglianza alcuna?  Pub. Forse che si, quando non s'incontrasse donna di gran fenno; perche il costume, e modo di vivere differenti, prima, che si accomodino a quelli, che troveranno , possono fare nafcere molti diffapori ; se pure potranno mai uniformarli; come ne dubitano Emilio Probo: Non cadem omnibus funt honefta atque turpia, fed omnia majorum inftitusis, judicant ; nemaque nibil rectum puosat, nifi quod patriæ moribus convenit. Ed Ovidio così canto: Nefcio que nasale folum dulcedine cun  stos Ducit, immemores non finit effe fui. Beo'è vero però, che in quei luoghi, fe Veducazione delle giovani fosse mi  gliore di quella del vostro paese, forse che potrebbe questa accrescere vantaggio a voi. Sem. Se il marito farà dotto, indur. rà disuguagliáza l'effere la moglie ignorante  Pub. Anzi più tolo disuguaglianzas apporterebbc , fe fosse dotta, ed erudi-$perche come vuole Giovenale; Non habeat matrona, tibi qua junctae recumbit Dicendi genus, aut curtum fermones  rotatum. Torqueat enthimema, nec biftorias soins ? omnes, Sed quædam ex libris, non intelli.  Ed udite, come dice l'Ecclesiastico di  ques  [merged small][ocr errors] queste al 28. Lingua tertia mulieres vin ratas ejecit, o privavit illas laboribus fuis; Qui respicit illam non babebis rea quiem, nec habebit amicum in quo requieJoar. Mec: Posso a questo proposito riferire ciò, che è accaduto a tempi noftri. Vi tù un dotto Jurisconsulto, che aveva una sua figliuola, e volle addottrinarla nelle materie legali,cd avendo acquistato detta giovane molta perizia in esso le convennc,morto il padre, prédere, inarito, e si trova la povera giovane talniente confusa nelle faccende domestiche, che si pentiva grādemente di avere applicato allo studio, dicendo: che mi serve ora di sapere le leggi, non avendo įmparato quello, che mi conviene fapele per governare la casa? Sem. Già fu parlato della uguaglian. za, o proporzione , ch'essere dee tra l'uomo , e la donna intorno all'età; ina se portasse la necessità , che un attempato unico della sua famiglia dovesse prédere moglic, pornon lasciarla cftinguc:  E  [ocr errors] re  re, ditemi, Dottore, quale sarà l'età, se non proporzionata , almeno più fe. conda della donna, con cui dovesse con. giungersi Med. Quella, nella quale più facilmente li concepisce, ch'è tra i venti, e li venticinque anni.  Sem. Orsù Mecenate risolviamoci ambidue a prendere moglie, potendo ogn' uno di noi provedersela della medesima ctà, e non permettere , che la vostra famiglia si illustre fi cftingua in voi. Mec. Crede essermi già bastantemente spiegato nella prima conferenza, ma voi non avete capito le mic raggioni, tornando la seconda volta a configliarmi 'l medesimo, con mostrare premura maggiore per la mia descendenza, che per me; onde vi torno a dire, che nella mia età non è più convencvole lo aceafarli; dicendo Euripide: Verùm fonecta jubet valere Cypridem, Et ipfa rursus senibus infensa est venus. Quindi è, che Sofocle interrogato allorch'era già vecchio s'egli esercitava  [ocr errors] a più gli atti venerei: Iddio me ne guardi  diffe, che io mi sono guardato un pezzo fa da coresti, come da una impetuofa, e violenta tirannide, Valerio Mallimo lo riferisce.  Sem. Io ne domando scusa, dichiza randomi non averlo detto a questo fine, Delidero ora faperc i pregiudizj; EI che apportano ne' matrimonj le disus guaglianze; ed in primo luogo; fe faranno di genio differenti tra loro. Pub. Dice Salomone: Melius eft habitars in terra deferia, quam cum mulieu rerixoja, litigiofa; onde vi potrete i figurare di vedere la casa piena di con  fufione, ove regnano genj differenti; pofciache ciocche vorrà il marito, ve  nendo ad essere disapprovato dalla moglie, onon fi effettuerà, o per la meno I in qualche parte verrà variato, e que  Ito medelimo darà occafionc à discordie perpetue tra effi , fe il marito non averà la prudenza di Giove, cui  Giunone si opponeva sempre come vuoo le Omero, Dum moliuntur,dum comitur annus est.  Sem. Ed il rimedio per questo, quaEin le farebbe?  Pub. Lo diremo a suo tempo. Sem. Ho conosciuto marici alti due  palmi più delle mogli, e il doppio più i grossi, ne da questa disuguaglianza ho veduto seguirne inale alcuno.  Med. Ed io ; che fon più vecchio di voi, ho medicato più d'una di questo nel tempo, che stavano per partorire, ridotte a termine di morte, per non poter dare alla luce i loro figliuoli, se non dopo alcuni giorni , e coll'ajuto del  Chirurgo, e di queste, alcune sono pei rite. Succederà a quelle di avere parto  felice che nella gravidanza avendo fi avuta inappetenza grande, il feto si sarà  poco nudrito; e perciò rimanendo picciolo, questi non averà ftentato ran  to nel uscir fuori; o pure la cassa del o corpo della madre, con quanto è neces  sario, per rendere meno difficile il parto , sarà stato in queste proporzionato al bisogno. Ma preventivamente alcu  [ocr errors] ne di queste cose non costumandoli ri. conoscere tra noi , conforme appresso alcuni popoli li faceva, e perciò, per esimerki da tal pericolo, conviene riAeterle prima del maritaggio, toccan. do questo a'padri di famiglia.  sem. Sc un bel giovane prendeffe per moglie una donna deformc , che male potrebbe ciò apportare?  Pub. Niuno, quando però foffe egli fodisfatto, e la donna fosse prudente, e non l'avesse presa per cagione di grofsa dote; perche si farà quest'invaghito delle sue rare qualità, ed averà egli facilmente appreso da Salomone ne' suoi Proverbj, che: Fallax gratia, e vana eft pulcritudo: mulier timens dominum ipfa laudabitur. Sem. E se il motivo di prenderla foffe Itata la dote  Mec. Seguendo per lo più simili deliderij in giovani, i quali penuriano di beni di fortuna, la pace tra essi dyrerebbe lintanto, che la dote foffe in picdi: mà appena consumata questa, allo.  ra  1  [ocr errors] racomincierebbero reciproche doglian. ef ze; quelle del marito sarebbero, diri.  trovarsi vicina la moglie deforme, e della donna di non vedere più la sua dote, Caduceo di pace tra di loro. Sem. Dandosi però vincolata , ciò non potrebbe seguire. Mec-Non si può ottenere questo in limili disuguaglianze ; perche vogliono tali sposi libero il danaro, per vincolarsi cili colla deformità della moglie, finche dura la doce. Sem. Non so capire perche s'abbiad d'apparcntare con casc men facoliose ; perche questo apporterà. svantaggio nella dote. Pub. Ma però quiere maggiore, ove entrerà limile sposa; perche quella giovane, la qual’esce da una casa, ove con gran laurezza viveva, difficilmente potrà acomodarli alla vostra, ove 1101 i potrete con quel fasto trattarla; onde  da ciò ne nasceranno amarezze continuc; o pure (arece forzato, volendola consolare, ad impoverirvi prestamente.  E4  Sen.  of  [ocr errors] Sem. Il prendere una moglie nata in paesi lontani potrebbe forse recare gran vantaggio ; perche non avendo parenti vicini, sarebbe più ossequiosa al marito, nè lo disgusterebbe, e ciò farebbe felicità grande.  Pub. E voi credete, che 'l Padre fia sì sciocco, che non penserà ancora di raccomandarla à chi lia d'autorità , acciocchè le assista in caso di bisogno? c quando avesse cgli difetrato in questo, credere voi, che chi parte dal suo pae. sc, sia così insensata di non sapere col suo ingegno trovare chi la protegga in un suo urgente bisogno? Qual patrocinio cal volta sarà molto più autorevole; ed efficace di quello, potesse ricevere da suoi congiunti: non v'invaghite di straniere, se non in caso, che mancare sero donne del paese, ove voi dimorate.  Mec. Sono andato più volte rifectendo, che non sarebbe forse svantaggio lo sceglierla , non dico da paesi remoti, ma da città convicine, e mi ha mosso  que  in questo pensiero Giovenale, con dire  Malo Venofinam , quam te Cornelia  [ocr errors][merged small] Grascorum , fi cum magnis virtutibus be  affers Grande supercilium, & numeras in dos be  te sriumphos ; id Perche queste riescono più docili, eve  nendo in città più nobile, gradisco no ?: quanto si fa loro, più delle proprie cita tadine, e fogliono ancora eslerc meno dedite al luflo,  Pub. Vi sono le sue difficultà in queste i .  ancora . Imperciocche Carone, con e tutto che fosse uomo sì faggio, quanti di guai ebbe con la sua moglie Acrorias I Paola, quantunquc povera, e nata in ¿ un villaggio ? fu questa superba, vio2 lenta , e debole di mente. Laonde a tal  propofito S. Girolamo lib. 1. in Joviniznum diffe; Nequis putet si pauperem dy  xerit fatis fe concordie providili &c. E bij maggiormēte ora che il lusso ha polto il  piede da per tutto; ne crediare che vorranno vestirc con minore pompa delle  E 2  Fu [ocr errors] Junonem autem non adeo accuso, neque  irafcor, Semper enim mihi consueta eft impedire  quidquid intelligo, Sem. Ma quale rimedio ci sarebbe in questo caso per fuggire le discordie? Pub. Conoscendo' voi il costume di vostra moglie, che sia di contradirvi, come espresse Terenzio,  Novi ingenium mulierum  Nolunt ubi velis, ubi nolis Cupiunt ultro. In questo caso ordinate tutto l'opposto di ciò, che bramare, per esser ubbidito. Sem. E se avesse poco fervore nellas pictà, e trascurassc alquanto gli affari domestici, scorgendo quancunque suo marito attcntiffimo a tutto?  Pub. Sarebbe segno, che avesse altre cole, credute da essa di premuras maggiore di queste , che le andasse. ro per la mente; perche non si trascurano affari si rilevanti, se non da quel. le, di cui disse Terenzio; ciccadine, se non s'incontrerà in savie, c prudenti. Sem. Mi piacerebbe di avere una moglie, la quale mi sollevasse con qualche storietta ; perche dunque il fatirico dice: Nec historias feiat omnes?  Pub. Perche, con sapere le donne molte storie, essendo cosa facile il poterG abusare di qualcuna di esse, niun vantaggio vi apporterebbe; e sappiate che ci sono libri molto lascivi, i quali non comple in conto alcuno, che da esse si leggano, confessando tal verità Ovidio medesimo quantunque fosse impudico, con dire: Eloquar invitus, teneros no tange  poetas, Summoveo dores impius ipfe meas. Callimacum fugito non eft inimicus e  mori, Er cum Callimaco tu quoque Coe noces . Carmina quis potuit tutò legifeTibulli ? Veltua, cujus Opus , Cintia fola fuit ? Quis potuit lecto durus difcedere Gallo? Er mea, nefcio quid, carmina tale fo  E  [ocr errors] [ocr errors] E poi due cose non si possono fare: die vertirsi nel leggere, e reggere la casas;  e dovendo a voi premere la secondands ( conviene ch'essa abbandoni la prima ; ¢  sappiate, che Giovenale dice a questo proposito  Quis ferat uxorem,cui conftent omania?  Mer. Plutarco però dice, che sarebbe di profitto al marito d'istruire la moglie nella geometria, ed in alire cores o dottrinali, ed onoratissime ; perches ď allora si spoglierebbe affatto delle leg.  gierezze, e vanirà de pensieri, e si aAterrebbe dal danzarc, Pub. Che la moglie s'istruisca nei buoni documenti morali, e di pietà da mariti è cosa ucile, e lodevole; maw, che s'impieghi ad apprendere la geomei tria , quando fi trovare inadre di più fi:  gliuoli, non so come le potesse riuscire  avendoli d'intorno , per lo strepito ch' delli fanno; se poi fi allontanaffe da elli,  ecco che l'educazione loro anderebbe a male. Sarebbe ciò solamente tollera. bile in una donna itcrile, avendo servis  tà  tù sì buona, della quale si potesse ad chiusi occhi fidare, per divertirsi con tale scienza, c passare la noja che le recherebbe il trovarsi senza figliuoli; per altro se abbiamo d'aspettare, che las geometria tolga la yanità donnesca, regnerà questo difetto per sempre nelle donne : e poi la mia moglie, che nulla sa di geometria, odia la vanità, ed i balli; dunque possono fuggire detti vizi quelle ancora, che non sono geometre.  Sem. Vorrei sapere distintamente, che cosa fia questo matrimonio; perche dovendomi accasare bramo di esserne informato, per non operare alla cieca in così rilevante materia? Mec. L'udirete da me nella venturas conferenza. CON  [merged small][ocr errors][ocr errors] Sopra gli antichi costumi , praticati   apprello alcuni Popoli per la generazione; e se sia più vantaggioso lo scoprire scambievolmente i proprj corporali difetti ,  prima di sposarsi, o l'occultarli. Mecenate, Sempronio; Publio  e Medico.  i Mec.  On mi ftéderò molto nel riferirvilan. tichissima libertà de? Greci, nè tampoco l'incestuoli  modi de' Persiani, praticati ne gli atti conjugali, per non contaminare le vostre orecchie; mentre i primi a guisa di bestie moltiplicavano, conoscendo i figliuoli solamen  te  te le loro madri, comme scrisse Tzetzes Iftorico Gracorum priùs mulieres per Greciam, Non quemadmodum nunc, conjungebantur legitimis viris,  Sed inftar jumentorum mifcebantur omnibus volentibus;  Erant igitur unius naturæ tunc filii, Sobas agnofcentes matres, non patres, Ed i secondi non avevano orrore di esse. re figliuoli, c mariti, come riferisce Catullo, Nafcatur magus ex Gelli, matrique  nefando Conjugio, con discat Persicum aruspi  cium,  Nam Magus ex matre, donato gigne tur oportet i  Si vera eft Perfarum impia religio.   Sem. Ma il Cielo lasciava impunici fi effecrandi delitti  Mec. Non già; perche, come si ricaya dal fudecco Tzetze furono mediante il diluvio puniti, dicendo egli in appreffo.a  Poft illud , quod in Ogygis tempore inci.  dit diluvium ,  Cecrops acceffit ad Aibenas Gracia,  Has Ashenas cū vocaffet ex Soi Ægypti,  Cum multis aliis rebus commoda vis Gracia; Tùm lege conftituit mulieribus nuptias 5  legitimas, 1M Ex quibus filii cognoverunt duos pa  rentes. Anzi  per farvi conolcere, che la natura stessa abborrisce l'incestuosi connubj, vi posso apportare molci csempj de bruti, tra quali, non solamente il camelo lo ha in orrore, uno de' quali ammazzò il suo cuftode , che lo ingannò a coprire la madre, appena avvedutofene, coine riferiscono Aristocile , ed Eliano; ma PLINIO (si veda) ancora racconta, che nellad campagna di Rieti vna cavalla avvedu  tasi di questo, immediatamente si prei cipitasse, e Varrone fcriffe, che un ca  vallo per la medesima cagione faceffe tale impeto contro il suo armétiero, che l'uccidcffe:e dell'elefante raccora il me  deliof  desimo avvenimento Lirense. Sem. Ma come faceano a riconoscersi i figliuoli da' Padri,avendoli cosi confufamente generaci; Pub. Appreffo alcuni Popoli, allorche i figliuoli aveano compito il quinto anno, quei, che più li assomigliavano a gl’incerti padri, erano tenuti da essi  per loro figliuoli; come racconta Stob. Ser. 42.  Sem. Quanto è stato peggiore il mondo in quei tempi di quello fia oggidi !  Mec. Se voi sapeste il rimanente, ftu. pirere anche di vantaggio.  Sem. Eche, vi sono state altre scelleratezze ancora? Mac. Contentatevi di non udire altro per ora ; e lasciate simili notizie , per quando farete più proveito : passiamo aderlo a' tempi incno infelici. Ristabilito, che fu il matrimonio, s'introduffe da alcuni popoli il contratto della vendita delle loro figliuole, cioè da' Greci, Traci; Aliri, Arabi, Indiani, ed al, tri, come da Tiraquello nelle sue leggi  COS  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] conjugali si racconta, e Sofocle intro-  o duce le donne, che cosi favellano fopra dició: Ubi verò ad pubertatem hilares pervenimus Pellimur foras, atque divendimur  Procul à Diis patriis, a parentibus, Alia quidem peregrinis, alia barbaris. De' quali parlando Pomponio Mela riferisce, che: proba , formof&que in pretio erant. Sem. In quei tempi saranno stati con: ienti i padri, nascendo loro figliuole , e non già mesti, conforme ora sono, che debbono dotarle, mercecch'essi allora ne ricevevano utile grande; oltre I di che saranno state anche molto più cu  stodire queste mogli a caro prezzo com prate di quello si faccia ora, ch'effe b con grosse doti comprano noi; poiche  offervo, che se un cavallo ci costa molK to, abbiamo somma premura di esso.  Mec. L'interessati padri può effere, di che lo faceffero, ma non già i buoni, che le amavano, e perciò riflettevano,  F  [ocr errors] ancora, che se non portavano dote le loro figliuole, non acquistavano, ovc foffero entrate, dominio alcuno. Ele mogli fi ftimano c rispettano ancor adeffo da giusti, e saggi mariti , per questa modelima cagione; e poi quelle, che portano grosse doci fanno ben farli portare rispetto anche da’mariri non favj , dicendo Giovenale : Intolerabiliùs nibil eft, quam fæmina  dives. Dicendo ancora Cleobulo appreffo Stobeo: Si babebis uxorem ditiorem , aut nobiliorem, dominos habebis , non affines. In oltre si costumava da altre nazioni ancora comprarsi dalle mogli i mariti; conforme fi ricava da Virgilio; Teque fibi generū Thethis emas omnibus  undis. E Boetio, nel lib.z. de Commenti alla topica di Cicerone, così parla.  Tribus modis uxor habebatur, usu,farre, & coemptione; fed confarreatio folis Ponsificibas conveniebat; quæ autem in mamum per coemprionem conveperat , hæc  [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] mater familias vocabatur &c.;  Sem. Si è costumato in alcun tempo, che non fa corsa tra contracnci dote ale cuna ne’inaricaggi? Mec. Nelle leggi di Solone, Licurgo, e di Platone fu stabilito questo ; ben è vero però, che la sperienza has fatto conoscere, che fuccedevano più di rado i matrimonj , per non effervi il suo fuflidio dotale ; essendocche  pochi vi erano', che volessero soccomettersi al grave pero di essi, senza il follievo della dote; onde vedendoli dan ciò risultare notabile danno alla Republica, LA PRUDENZA ROMANA ftabilì con leggi le doti,da consegnarsi alle figliuole , per sostentare non solamente li peli del matrimonio, ma per allettare maggiormente ancora, mediante effe, gl uomini a prender moglie, come disse il Satirico, Veniunt à dote sagitsa. Pub. Erano certamente troppo pregiudiziali fimili leggi, dalle quali lcfcludevano le dori; c perciò Aristotilo discordò dall'opinione del suo Macftro Platonc provando ne' suoi Problemi, che fia cosa obbrobriosa prendere moglie indotata; e che sia anche gran pazzia di colui , che lo facefle , dovendo egli riflettere al peso, che se gli accresce: onde sopra di ciò interrogato Anafsandro, cgli 'rispose; che sarebbe divenuto servo certamente colui il quale bisognoso prendeva moglie indotata; perche in vece di se solo, dovea alimentare più persone. Quindi è, che con somma prudenza fu risoluto nel Concilio Arelatcose; che non si dovesse fare matrimonio alcuno senza dotc, como riferisce Fontanella.  Sem. E' stato costumato da nazione alcuna il prendere più d'una moglie nel medesimo tempo? Mec. Anzi tuttavia dagl'infedeli fi pratica ; ben è vero però, che tra eli le mogli sono trattate , come schiave, tenendosi racchiuse, e guai a voi, Sempronio, se vi fosse permesso più di unas moglie , allora vedreste in che travagli maggiori vi porrebbero le donne , che  go  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] godono la libertà, ond'è stato fantisfimo il provedimento, che unica fia la conforte. Sem. E da chi ebbe origine, questo matrimonio in fimile forma? Pub. Dal grande Iddio; posciacche, crcato Adamo, formò Eva, e glicla died'egli medesimo per conforte; onde ad iinitazione di questo gran matrimonio dce ogni fedele contentarsi di una's fola compagna, e di rispettarla ancora, conforme fece il primo marito, il quza le allorche la ricevette per sua sposas, così disse : Hoc nunc os ex ossibus meis, caro de carne mea , hæc vocabitur virago, quoniam de viro fumpta eft : quamobrem relinquer homo patrem fuum, a matrem,  adbarebit uxori suæ, derunt duo in carne una; e da ciò comprendere, quale ftima li debba fare della propria moglie.  Sem. Ma tornando alle doti, queste da principio in che quantità furono ftabilire ? Mer, Non fu allora ciò determinaco,  ben  [merged small][merged small][ocr errors] F 3  ben è vero però, che in appresso, essendo divenute ecceffive, furono stabilite in una certa quantità, secondo le condizioni delle persone; e particolarmçate nei domini, ben regolati. Sem. E questo viene offervato?  Mec. Qualche volta, ma non sempre; fentendosi assegnate a caluni in fommas più considerabile degl'altri,quantunque fiano della medesima condizione  Pub. Mi piacerebbe lo stabilimento fiffo, secondo lo fato delle persone, ma da che proviene questa inosservanza?  Mec. Dal lusso accresciuto, il quale effendosi anch'esso posto tra le spese necessarie per il sostentamento matrimoniale, viene anche considerato per tale da chi dee accasarsi ; e perciò dice, tanta dote io voglio, per pocer fare quello, che si costuma dagl'altri. Pub. Qnando io preli moglie, e per qualche cempo in appreffo , & contentava ogn’uno di ricevere competente dore; perche questo lusso di oggidi non non vi era.  More  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. A tempo ancora, che vivevas Gnco Scipione, le doti parimente erano molto proporzionate al vivere di allora , ascendendo la più pingue, quale ebbe Magulia, che fu chiamata las dotata, a cinquecento mila affi, come riferisce Valerio Maffimo. Sem. Non erano dunque si tenui les doti ascendendo a tanta somma.  Mec. Avvertite Sempronio, che gli affi non erano già scudi; ma solamente ogo’uno di essi arrivava appena al valore di quattro de' noftri quattrini di rame; onde turci icinquecento mila afli formavano la somma di circa quattro milas fcudi de' noftri; e poi le più frequenti erano di dieci mila asli, come ebbe Tacia figliuola di Cesone , il quale non era ignobile, e cal somma appena ascendeva a scudi ottanta,  Sem. Ma da che proveniva, che corressero doti si tenui in quei tempi ?  Mec. Non da altro, che dal non efservi lusso, Sem. Ma perche non si pone dal Principe  [ocr errors][merged small] F4  cipe sopra di ciò LA PRAMMATICA?  Pub. Perche aon ci è bisogno in queIto della sua autorità.  Sem. Come non ci è bisogno? Pub. Ditemi, Sempronio, se voi poteste senza l'autorica del Principe far cosa, che fosse anche di sua fodisfazione, vi sarebbe bisogno della sua autorità per farla? Sem. Non ci sarebbe certamente di uopo di essa. Pub. Or ditemi, s'è in voftra libertà, nel farvi un'abito, spenderci 50. ò pur 100. scudi, ed in una carrozzas 500.Ò 1000. in questo vi astringerà forfc il Principe alla spesa maggiore?  Sem. Certamente, che no;  Pub. Perche dunque non lo fate confiftendo in qưesto la PRAMMATICA?  Sem. Perche gl'altri non costumano di farlo. Pub. Or dunque domandate a questi, che pongano efl'LA PRAMMATICA,  non al Principe, il quale non comanda, che fi ecceda gel lufto, Mec. A questo proposito essendo ftato supplicato TIBERIO (si veda), a porre moderazione all'eccellivo lusso, che correvad in quel tempo, egli negò apertamente di farlo, dicendo come riferisce Tacito: Pauperes neceffitas, divites fatietas, Nos pudor in melius muter; onde da ciò comprendete , che noi siamo i padroni di prendere quelle misure, che più ci aggradano nei nostri trattamenti; & udite da TACITO (si veda) medesimo, come mai lo espresse al vivo nel secondo de' suoi Annali: Cur ergò olim parfimonia pollebat? Quia sibi quisque moderabatur : non ritrovandoli Gneo Fabrizio, e Quinto Emilio, che un tondino, ed una saliera di argento, per servirsene nei sagriticj; per altro tenevano da se lontano ogni luflo, conforme fecero ancora i Publicoli, i Curj, i Scauri, & altri valoroG uomini, i di cui pensieri non si aggi. rayano già intorno alle ricchezze, ma bensi agli onorevoli Consolati alle me. ravigliose Dittature, ed ai Trionfi, per çimagcre immortali nella pofterità: cos  me  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] me riferisce Valerio Malimo :  Sem. Hò capito a bastanza, e conofco, che il mancamento viene da noi. Notificatemi ora, Dottore , quali sono questi difetti corporali delle donne, i quali voi meglio degli altri conoscerere: Med. Non posso servirvi in ciò, ele sendo che quanto sò di occulco, non, debbo palesarlo. Mec. Il Dottore è compatibile in questo, perche s'entrasse egli in disgrazia delle donne, potrebbe dire di aver finito di fare il Medico; imperciocche, comincierebbero queste a dire, che tutti di suoi infermi muojono, e perciò sias sfortunatissimo nel medicare, e di vantaggio sia un vecchio stordito, che non sappia ove si abbia la testa; e sapere purc, che queste muovono gl'animi colla loro eloquenza più di Demostene; onde lo porrebbero in una totale defiftimazione, non facendoli scrupulo alcuno di far ciò quanrunque fosse di pregiudizin grande a professori, il dicui merito effe non sanno conoscere, per vedersi  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] da effe anteporfi gl'adulatori a questi. Med. Non è questo il motivo, che mi ritarda il palesarli, ma bensì, l'avere io qualche segreto di cal’una, che si trova con qualche imperfezione, onde non vorrei , che mi credesse manca. core di fede , figurandofi, parlaffi di lei: per altro, non mi ritarderebbe già di farlo quello, che voi avete accennato; perche, se dicessero mal di me, diverrei Medico fortunato, essendo che non medicando, non mi potrebbe morire alcuno, e per questo riposo ancora goderebbe la mia mente tranquillità maggio  [ocr errors][ocr errors] re.  Mec. Queste sono belle rifleffioni, ma però ad ogn'uno piace l'effere adopera  to, e questo senza protezione difficile mente si conseguisce.  Med. Piacerebbe a me ancora quan. do ciò non distruggeffe il mio individuo; e cercherei ancor io queste pro- tezioni, quando accrescessero dotčrina;  ma non potendo le stelle cramandare i quci benigai inguda, ch'effe non hanno  onde  onde per tal cagione mi persuado, che queste ancora non potranno addottrinare. Voi conoscere il mio naturale ; di grazia non diciamo altro.  Sem. Se non diremo altro, non termineremo la nostra conferenza, ed io rimarrò senza essere istruito. Mer. Vi consolerò io , ch'essendo già vecchio, niū fastidio mi prédo delle doglianze feminili, non curandofi esse più trattare meco. Vi persuaderete forse, Sepronio, che tali difetti personali occulti sieno cose grandi , essendo, che il Dottore ricusò palesarveli? questi non sono altro, per quanto mi vado immaginando, che un poco digobba, la quale viene ben uguagliata da buftini ripieni nella parte mancante . Sono qualche palmo di giunta ne'calcagni, per potere coparire al par delle altre ; qualche piaghetta,ò fistola occulta,o ferore di naso, ò di bocca ; ò pure altro impedimento, mediante il quale si rendono infeconde: Ma non crediate già, che tutte le donge abbiano fimili imperfezioni, effendo  [ocr errors] do solamente alcune poche queste così  imperfette. Pub. E' certamente curioso quel caso  riferito a tal proposito da San Vincenzo  Ferrerio nei suoi fermoni. Aveva un  giovane sposato una donna, la quale  gli parea di giusta ftatura, rimase poi  cgli quando la vide porsi a letto manca-  ta in un momento per metà. Dubito da  principio, che gli fosse stata cambiata,  mà miratala bene in viso, si avvide effe.  re la medesima , onde stimò bene dirle,  cosa avesse fatto dell'altra metà della  sua persona ; l'accorta non fece altro,  che mostrargli le sue pianelle, ò trampani per la loro grandezza, che appun-  to allora si era cavati, i quali non erano  inferiori all'altezza della base di una colonga. Sem. Fra tutte l'accennate imperfec zioni, niuna mi darebbe maggior faItidio del fecore del nalo, ò della bocca; perche io, che sono dilicato, non potrete credere , che avversione ciò mi recherebbe; onde di questo , prima difpofarla, voglio ben'accertarmi in vicinanza tale, che possa scoprirlo io medefimo. Pub. E che ? forse temete, udendolo per relazione altrui, d'incontrare las bontà di quelle donne, che redarguite, perche non avessero palesato il fetore della bocca de loro mariti, effe rispofero ; che credevano , che tutti gl'uomini odorassero in quella forma? D.Hier. in Jovin. Sem. Come si potrebbe fare per  isco. prire quefti difetti corporali occulti?  Mec. Doverebbero palesarsi reciprocamente alla prima, altrimenti, essen. do il matrimonio un contratto, vi farebbe inganno, ciò non facendosi: E fe nei contratti delle compre de' schiavi, ò cavalli, quando la frode fi scuopre, esli si possono riscindere, così mi persuado, che sia in questo, cadendo-yil'inganno in cose essenziali alla fecondità; oltre poi, quando non si poteffc riscindere , quante occasioni daranno di perpetui disturbi tra di effi fimili diferti.  Sem,  [ocr errors][ocr errors] 3  Sem. Şi è dato mai il caso, che siang palesati questi prima delle nozze?  Mec. Molti esempj ci sono, e tra gli alori, quello di Crate Filosofo Teba. no, cui portando grand'amore Hipparchia, la quale aveva non inferior genio col FILOSOFO, che colla sua doctrina , onde richiedendolo per marito, che, fece egli ? si scoprì il dorso, cmostrolle la sua gibbosità; e di poi posto in terra il maorello, bastone, e tasca , che 2veva, le disse: Signora, queste sono tutte le mie supellectili, la mia defor mirà già l'avete veduta, onde considerate seriamente ciò, che fare per non.  avervene a pentire. La saggia donnarei plicogli, che aveva già sufficientemen  te proveduto ogni bisognevole, e confiderata ogn'altra cosa, e perciò credeva, che più bello di lui, e più ricco non fosse nato al mondo; onde che l'avesse pure condotta dove voleva, come sua moglie . Ed il simile fece ancora nel discoprire la sua gibbofità il Padre di Sergio Galba a Livia Occellina Daman mol per mo  molto ricca, è bella, per non ingannarla.  Sem. Bisogna, che queste non credersero deformità svantaggiosa la gobbas de’loro mariti , perche hò osservato i figliuoli di cocefti molto diritti , e belli; mà vorrei sentir riferire qualche caso di donna, che avesse scoperto all'uomo i suoi difetti.  Pub. Vi fu una giovane bellissima amata teneramente da un Gentiluomo, il quale avédola farta chiedere glie , fi scusò ella di non poterlo compiacere, onde da simile ripulsa s'accese di desiderio maggiore, per averlas; mà che fece la savia giovane, vedendo , ch'egli non defifteva ? gli fe intendere, che lei medesima gli averebbe palefata la cagione, per la quale ritardava di condescendere alle sue brame, e c011"certato il luogo, ed abboccatisi insienie gli scoprì il suo petto, e felli vedere un canchero , ch'aveva in una zinna, dicendogli,Signore, questa carne, ch'è incominciata ad incadavcrirli voi amato  [ocr errors][ocr errors] ta  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] canto! Rinase egli confuso nel rimira, re tale spettacolo, il quale frenò in gran parte quell'ardente amore, che le portava's desistendo in avvenire di farla più importunare.  Sem. lo credea , che le donne non fossero facili a scoprire i loro difetti, sarauno però rari questi esempi:  Mec. Il simile credo anch'io, e da ciò facilmente oasceranno molte contese cra mariti, e mogli , d'onde provengono i divorzj, e fe li palesaffero alla prima scambievolmente i loro difetti, forfe che non seguirebbero; posciache essendune ainbidue consapevoli, non li pom trebbero allora dolere, se non di loro medefimi. Sem. Perche non si potrebbero fare ri. conoscere ambidue prima del matrimos nio per meglio accertarsene?  M26. Questo ripiego fu disapprovato, quantunque lo aveffe proposto Platone; onde che fi dirà apportandolo you?' Evi pare, che l'oneltà lo debba permettere? Appena le leggi Romane antiche tolle.  G  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] 98 Conf. 4. Dec. prima il rarono una tale ricognizione nell'uomo, proibendola efprenainente nelle donne: e re Platone aveffe osservato cioccheri feriscono Plinio, e Solino, che i cadaveri delle donne galleggiano sù l'ondes con il ventre all'ingiù, e degli uomini all'opposto, cercamente, che averebbe appreso dalla natura il documento di doverte, trattare con maggior onestà, vedendoli naduralmente risplendere un non fo che di modestia in eile, anche dopo morte. 1. Pub. A questo propofito lessi in Plufarco, con mią grande ammirazione, ciocch'egli racconta di quelle Vergini Milelie, le quali , divenute pazze a cagione d'influenza peftifera,che ivi vagava, erano forzate dal loro delirio a morire appiccare, e questi spectacoli giornalmente fi trimiravano nella Città di Mileto ; fenza che le preghiere, e le dagrimé de' genitori potessero impedirli; solamente il contiglio di un Savio porè rimuoverlig. e fu di procurare con decreto del Senato, che tutte quelle,che si sospendessero in avvenire , forfero esposte nude in nezo alla piazza a vita di ogniiuno:Indusfe nella fancatia di cucina te le giovani tale spavento, ufc4to sopra di ciò l'editto, che manco affatto Porrido fpettacoto, aftenendoli age'unas in avvenire di farlo ; perche concerioz per cola assai peggiore perfere veduta ignuda , benche morta, che vestica ap. piccata .  Med. Due altri fatti poffo riferire anch'io di donne savie: Polisena fu unas di queste, di cui così ne parla Euripi de, At illa jam moriens tamen  Multum providit , ut honeftè caderet .  Celaretque', que celare oculos virorum   oportet i Ed Ovidio ancora, nelle sue Metamorfosi, così dice della medesima , Tunc quoque cura fuis partes velare, pudendas Cum caderet, castique decus fervare;  pudoris ; E l'altra fu Olimpia madre di Alessan  dro il Grande, che trovandoli proffiina alla morte, con i propri capelli, e vefti ricopriva ciocche l'onestà non permetteva - Acimirasle scoperto .  Sem. E chc G farà delle belle, delle ricche, e delle brutte, e povere ancora , come troveranno queste marito?  Mes, L'udirete in appreso.  [ocr errors][ocr errors][merged small] [ocr errors][merged small] [ocr errors] Nella quale si mostra, in che modo si maritino le belle, le ricche, e le deformi quantunque   povere.  Mecenast , Sempronio, Publio,  & Medico.  Mec.  A lunga sperienzando  che hò del mondo, grá cose mi ha fatto conoscere intorno a matrimonjoli qua,  li per essere contracti, come fu detto, hò scoperto in effi ancora i suoi scnsali , conforme fono negli alori trafichi. In quei fatti a doves re de quali già parlammo hò offervato sempre mezana la Prudenza, la le non già di approveccia di alcuna fensaria per se medesima, come sogliono qua,  praticare gli altri sensali dc' matrimo. nj.  Sem. Quali sono questi altri?  Meci Amore, l' Ambizione, e las Bugia.  Sem. Che fofle Amore sensale Ò, 'mezano de' natrimonj' lo sapevo anch? io; ma questi alori mi giungono nuovi; e come mai l'Ambizionc potià trattare i matrimoni?  Mec. Vi sarà una giovane brutta ral. volca , e povera , c perciò Amore l'averà abbandonata'; ma perche si trove rà umfratello, che si potrebbe avanzare nelle armi, ò nelle letrere, che farà l'Ambizione? li metterà a trattare il di lei matrimonio, e con motivi si efficaci darà ad intendere , che da quel mari. taggio, ne risulteranno vantaggi tali a prò di quel giovane, cui la propong, che lo porranno in grandezze, edonorificenze molto considerabili in breves tempo. Sem. Ma non li avvede, ch'ella è de forme  Mero  Mec. In questo l'Ambizione s'inge. gnerà di non fargliela comparire tanto brocca con mostrarli, che ci sono tante più deformi di effe, le quali pure hanno trovato marito; e di poi gli caricherà tanto le specie dell'apparence bene futuro, che arriverà ancora, quantunque. fyfle brutiifiina a fargliela comparire vaga a segno, che lo farà divenire diella amante. Sem. Ma questi sarà impazzito, se non diftinguerà ciocche a leoli esteriori si fa palese.  Mec. Credere forse voi,che solamen. ce Amore faccia impazzire gli Orlandi? l'Ambizione ancora è capace di farlo; e questa appunto è la sensaria, ch'ella brama: cioè di vedere fuori de'suoi sen. rimenti anche gli uomini savj, e talvol? ta quelli ancora , che si stimavano capaci di dare ottimi consigli ad altri. Sem, Ed Ainore, che fensaria ritraer da? suoi maritaggi?  Mes. Non altra ; che di vederli in brieve tra di loro disgustati, essenda,che come si luol dire per proverbio; chi per amore si prende, per rabbia li lascia. Sem. Ela Prudenza, che ne ritrae di sensaria? Mec. Di vederli con perfecta pace tra elli, di sentirli dire con Ausonio trai di loro : Uxor vivamus , quod viximus', dove  teneamus, Nomina, qua primo fumpfimus in than)lamo:  Nec ferat ulla dies, ut commutemur in  Ævo,  Quin juvenis tibi fim, tuque puellas   mibi. Sem. Questa per verità è un'ottima fenfaria, che volentieri si può pagare da curti,e con fomino diletro.Ma palliamo ora all’Avarizia ; com’enera questa nei matrimoni, vedendosi introdottas oggidi tanta pompa , e splendidezza in elli, che pajono più costo trattari', u regolati dalla prodigalirà sua nemica. Mec. Cosi non ci cotraffe: vedrete una giovane non solamenté bructa, ma  [ocr errors][merged small] anche mal sana , ricca però affai: e chi mai [poserebbe questa , con cucce le sue ricchezze, se l'Avarizia non trattasse il suo parenrado ?  Sem. E come mai ella opera ?  Mer. Si porrà d'intorno ad un bel giovane, ma povero, e gl'infinuerà, che quel partito potrebbe farlo divenia re molto riccbi e gli riempirà la testad fcema, che si ritrova, di molte, ei molte migliaja di scudi; dicendogli , che potrà allora godere, e stare allegramente; e susurrandogli qualche altra cosecca di più alle orecchie, lo farà fare in tutto, e per tutto a suo modo; fenza che gli amici lo possano più rimuovere con tutta la rectorica di Cicerone, e l'energia di Demostene.  Sem. Questi ancora mi sembra un paz-s zo. Ben è vero però, ch'è caso raro, effendoci fatto divenire dall'Avarizia i posciache i suoi seguaci non buttando il loro non sono tenuti pazzi; conformea potrà contestare il Dottore', che conos sce, che cosa fja pazzia,  Mede  [ocr errors] Med. Cilono però diverse specie di questo male; laonde se non sono di quefta fpecie di di:Sipare il loro gli Avari sa-, ranno di qualche altra; mentre alcuni di essi, per non ispropriarli del danaro , divengono tiranni di se medefimi i ed inoltre, quanti Avari vi sono stati, che per leggiere cagioni hanno dato la morce a se incdelimi , e quetti di riputere: voi forse savj? e tornando al caso proposto, à me pare, che per  avarizia coftui spreghi il meglio, che si ritrovas, ch'è appunto il fiore delli suoi anni, spofando una donna mal fana, e brutta Sem, Che sensaria mai può guadagnare l'Avarizia in far questo? Mer Ella spera di potere acquistare tanti seguaci di più, quanti poveri arricchisce per questa via, essendoche quando erano poveri, non potevano: cflere Avari, perche non avevano mo-> do da cumulare i dove che arricchiti poffono averlo. Sem. Mà come potrà avanzare? dicendogli, che faute, che avesse il pa.  ren  rentado, averebbe goduto, e sarebbe ftato allegramente , e questo non si può tare da quelli , che vogliono cumula  Meo. Voi non capice il parlar equivoco dell'Avarizia ; ella non già intende il godere , e stare allegramente dispendiofo , ma bensì quello di cumulare , creduto da efla , e suoi seguaci piacere, e contento maggiore di tutti gli alori"; è ben vero però, che in questi cali rimane ella fovente delusa ; posciache i giovani dislipano tanto in tali occalioni, che bene spesso si pente l’A. varizia di esservisi ingerita.  Semi Com'entra la Bugia ne'matri. monj?  Mec. In quanti se ne fanno, senza le direzioni della Prudenza essa vuole-ingerirsi, e per un verso; d per Palero ci vuole avere in questi la sua parte. 7  Sem. Si dice però communemente, che la Bugia abbia le gambe corte, onde fi fcoprirà, e non potrà perciò fare breccia. diri  Mele 1  Mec. Non è così perche non opera già sola. Se Amore per esempio trarre. rà un parentado, essa pronta vi accorre, e si affatica tanto per fare apparire quel. la giovane , per cui si tratta , savia, prudente, e di abilirà: ò quel giovane di costumi angelici, e di abilità sommas; quando per verità farà tutto l'opposto.  Sem. Mà quelto in brieve si può scoprire.  Mec. Prenderà ben ella il contratempo, e quando vedrà che i genj, mediante Amore, saranno cominciari as collegarsit, allora, ciocche ella dirà , sadà creduto per vero; nè fi pafferà più oltre per iscoprirlo, quantunque fosse falfifsimo: lo fomina in tali occasioni la Bagia si affatica tanto; che arrivò as dire un Filoloto, che s'ella non si ri-, mescolaffe à questo segno si troverebbe per certo il mondo.più spopolaco notabilinente  Sem. E come ? e perche ?  Mec. Popolandoli il mondo, median-> te i matrimonj, quando questa non aju.taffe à farli, oh quanti di meno ne le guirebbero! Onde per mancanza di effe molto fcemerebbe ; talmente ch'essad lo mantiene cosi popolato .  Sem. Non credo però; che abbia tanta parte in essi, quanta voi dite. ) Mec. Ed io credo di vantaggio ancora; imperciocche dicemi: nel mondo, quali sono più numerosi, i buoni, ò i carrivi?  Sem. Questo calcolo non so chi l'abbia fatto : ti dice bene da pertutto, che gran parte in esso vi sia di cattivi. Men E credete voi, Sempronio, che questi trovassero moglie, se la Bugiai non ricoprisse i loro vizja:  Sem. Io credo di nò;  Mec. Dunque non facendosi tutti questi, che danno considerabile apporterebbero alla popolazione del mond? Sem. Ditemi, che fensaria ella riceve?  Mec. Non altra, che di trionfare allorche li scuoprono gl'inganni da efsa orditi; e li prende sommo piacere del  lc  de discordie, e dissensioni, nate da ciò tra in arirari.  Sem. Oh che razza di gusti deprava  Mic. Quéli appunto sono i piaceri, che li prendono i vizj, non confiitendo in altro, che nel vedere precipitato chiunque dura loro fede, e perciò non iè bene di prevalerli, Sempronio, della opera loro in conto alcuno. Semi Mirpersuado, che la Prudenza non tratterà fimili mariraggi, onde pochi faranno quelli, nel quali effa s'in. trometterà : per efeinpio, se sarà bella da giovane, lascierà trattare il suo  pa. rentado ad Ainore, ed effa fi discolto. rà.  Mec. Non è così ; perche la Prudenza non è già tanto indiscreta, che odj la bellezza, c fe vedrà, che colla beh - lezza ci fia unica anche l'onestà, ed il  buon costume, li tratterà , e concladerà infieme; ma quando poi fi ávvedesse, che colla bellezza, questi non ci fossero, allora ne lafcierà la libertà ad Amore , che le marici a suo piacere :  Sem. Mà ci sono elempj di queste belle accasate dalla Prudenza?  Pub. Tanti appunto, quante donne helle hanno mantenuta la fede illibata) ai loro mariti; e di queste Plutarco ne riferisce molte, parlando delle donne illuftri į confessando ancora l'Ariosto nel canto non esservene stata mai pea nuria di esse, con dire:  E di fedeli , e caste , e faggie , e forti  Stare ne fon, ne pur in Grecia, e ithead   [ocr errors] Roms,  Ma in ogni parte, ove fra gl'Indi, gl’Orti  Dell'Esperidi il Sol spiega la chioma;  Delle quai sono i pregi, e glonor mortis  Sì ch'appena di mille una finoma,  E questo perche avuto hanno a'lor tempi   I Scrittori bugiardi, invidi , ed empji. lSem. E nci maritaggi con ricche doti s'ingerisce mai la Prudenza , effendo disuguali di condizione ?  Mes. In questi ancora , quando ritrova, che amili ricchezze fono venu  te  te per vic oneste; descritre così da Sene's ca de Vila beat a cap.2 3. Nulli detractas, nec alieno fanguine cruentas , fine cujufquam injuria parias , fine fordidis quæstibus, quarum tam honeftus fit exitus,quàm introitus, quibus nemo ingemifcat , nifi malignus. E non scorgendo di mal cofume chi le poflede, li conclude ancora; perche come mostró Platone į non induce disuguaglianza disdicevole las fola disparita di condizione.  Sem. Quale farebbe questa disugua. glianza disdicevole?  Mec. Sarebbe appunto, se un nobile, per cagione della gran dote, volefse sposare l'unica figliuola map educa. ta di un vile, e sordido arcista; l qual matrimonio non solamente darebbe da dire a molti, ma ancora per lungo tempo sarebbe privo di potere conversare con uguali, chi prendesse una fimile Spofa,  Sem. Vi fuschi di Te in fimile congiuntura, che de mormorazioni solamente per qualche tempo duravano, mà  chc  che le grosse dori rimanevano per sem., pre; io però non sono di genio si vile.  Méc. Credo, che voi manterrete il decoro di Gentiluomo,má replico bensis a colui, che punto non lo consideras :: che i figliuoli ancora riinangono per : seinpre di somiglianti inclinazioni, e co. ituini; essendoli osservato in molii, che hanno voluto canto digradare dalla lo-> ro condizionc, con prendere per moglie giovani mal nate , e di poco buon co-> itume', 'credirarsi da loro descendenti » gonj vili, c plebej; cosa alai più dannoia, e pregiudiziale, di quello sieno le mediocri picchezze nelle famiglie ile luftris onůc perciò il poeta Satirico conrra di questi disle, Scilicet expectas, us tradat mater boSo do neftosigilom  Aut alios mores, quam quos babet? E quell'altro anche canto  Infequitur leviter filia matris iter... Olere diche certi matrimonj fatti con tanta disparità di condizione, se non, averà prudenza la moglie , riescono ang che infaufti a mariti; come provò Fulvio, il quale avendo sposato una Ichigvå, fu dalla medeliina tradico, denunziando ove egli era nascosto, csendo tra i proscritti in tempo del Triumvirato. Sem. Vorrei anche sapere, fela Prudenza tratti marrimonj didonne brurce, e ditettofe. Mec. Questi ancora maneggia, quando ci trova il suo conto; cioè a dire che quella da voi creduta deformità non pregiudichi a fare figliuoli, nè alla pace doinestica.  Sem. Io mi perfuado, che la brut. tezza poffa ritardare 'ambidue ; perciocche, come si potrà amare una donna deforme e non amandoti questa, come li potranno avere figliuoli, ed esserci la pace domestica di  Mec. Dovete sapere , Sempronio ; che due bellezze sono nelle donnc ; una delle quali è di fola apparenza, e perciò viene detta eftcriore, e l'altra inter, Da, la quale risicde nell'animo: la pri.  [ocr errors] ma si rende inanifesta ad og i uno, che Ja rimira; la seconda poi, quanto più si nasconde tanto maggiormente risplende'; quale di queste due voi bramerefte, Sempronio, che avesse il primo luogol nella vostra sposa ?  Sem. Quella , che porelli vedere, we godere insieme.  Meci Questa sarebbe lefterna , che per breve tempo la potreste vedere, er godere ; essendocche prettamente fier nisce, venendo da' Poeti assomigliatas alla rosas Collige virgo rofas dum fos novus, o  nova pube's, Er memor efto, ruum fic properare  tuum. Ed altri: Rofa viget breve tempus, fi autem pra terierit    Quærens invenies.non rofas, fed fpinas.  E Seneca dinle Anceps.forma bonum mortalibus ,  Exigui donum breve temporis,  U velox celeri peide laberis: H 2  8. Ed  [ocr errors][ocr errors] Ed il Petrarca ancora così ne parla  Questo noftro caducong fragil bene,  Cb'è vento ed ombra , ed ha nome   beliade. L'altra bensì, effendo radicata nell'ani. ino, non languisce in alcun tempo; anzi che in certe contingenze fa vedere quanto opera in conservare la pace domeftica. Vi potrei a questo proposito addurre molti csempj; ma quello riferito da Enea Silvio della moglie di un celebre Medico Sanesc fa al nostro propofito. Questa era molto deforme , nulladimeno, per le fue rare viciù, l'amaya suo marito svisceratamente, chiamandola la sua buona Ladiç; ed appunto d'onde possa ciò nascere lo spiega LUCREZIO (si veda), dicendo: Nee divinitùs interdum,  Venerisque sagittis, Deteriore, fit ut a forma muliercula ametur; Nam facis ipfa fuis interdum  fæminar factis Morigerisque modis, cu mundo corpore  cultu  Ur fucile insuefcat fecum vir degere  vitam. Sem. Ma effendoci l'efteriore, perche non potrebbero ancor'acquistare 1.1 bellezza interna coll'industria de’lo"ro mariti? Moc. Onanto siete buono, Sempronio, che vi volete affaricare in merte, re "il giudizio, ove non sia ; e non sapite, che fin'ora non è bastato l'animo ad alcuno di porcelo: bisogna pregare Iddio, che non vi abbarciate in caluna, che penurj di effo; perche altrimenti è tuito tempo perduto quello, che s'impiega per farlo entrare, ove non sia.  Pub. Sempronio procurare di grazia di stare cautelato; perche questa bellezza esteriore, che voi tanto bramare, fi uniforma alle volte a quella dei tempi degl'Egizj, ch'erano belli di fuori, e e brunti al di dentro : oltre di che apprendere questo utiliffimo documento da S. Girolamo : non facilè cuftodisor, quod omnes amant, O in quo totius popu. li vosa fufpirant; e canto maggiormente,  [ocr errors] H 3  .te, che il Nazianzeno la chiama : temporis, & morbi ludibrium : Santamente, dunque l’Ecclesiastico dice: Ne respicias in muliere speciem, nec concupiscas mulierem in fpecie.  Scm. Coinc fa la Prudenza a conosce. re, che questo giudizio vi lia, ove law bellezza non regna?  Mec. Lo comprende ben ella allorche rimira una giovane modesta , circospetra nel parlare, non curiosa, ftabile, attenta, ed applicata a fare ciocche dee; onde la reputa perciò giudiziosa; mà le poi la scorge incostante, disapplicata, curiosa', garrula , c vana , que. Ito le basta per crederla imprudente, c non fi prende penfiere alcuno di essa.  Sem. Ho udico raccontare più volte, che alcune giovani pri na di maritarsi fieno ftatc tenute per giudiziose, e prudenti, ma che poi fattefi (pose sieno diveoute l'opposto di quello, che dianzi erano reputate , per avere sciolta labri. glia a tutti quei vizj, che tenevano ce.Mec. Bisognerebbe con esattezzas esaminare, per colpa di cuilia ciò provénuto, se di effe, o de i loro mariti; u se fi rincontraffe , che avessero in ciò peccato i mariti, sarebbero esse degne di compaffione, dovendo come subordinate regolarli secondo quello, che a medelimi vedranno operare; potendo ancor esse scusarfi, come fecero le don. ne Ebrce allorche furono riprese, perche fagrificavano nell'Egitto, le quali dillero: Numquid fine noftris viris fecimus? fer:.  Sem. Come Opera la Prudenza per concludere fimili matrimoni?  Mec. Primieramcnte con fare riflettere al giovane, che brama di accasar  fi, quale sia il fine principale del matrimonio, cioè per ottenere figliuoli, o che questo non fi orriene mediante los bellezza, ma bensì per la sanirà del corpo;: onde che non debba quell'anceporsi a questa ; ficcome ancora cons fare confiderare i danni, che potrebbe qucla bellezza ofteriore apportare  [ocr errors][ocr errors] mariti, li quali provò appunto Uria per la bellezza di Bersabea ; ed Abramo uomo saggio per isfugirli, che cosa facelle, avendo Sara per moglie, donna. belliffima , allorche dovea andare in E. gitto, e fu , Gen. Novi quod pulchra fis mulier, & quod cum viderint te Ægyptii di&turi funt : uxor illius eft, interfcient me, o te refervabunt : dic ergò obfecro te, quod foror mea fis &c.: Eche quando simili infortunj, non accadersero per cale cagione, potrebbero per altro succedere dicendo Leucippo:che la bellezza sia una saetta, la quale ferisce con maggiore velocità di quellow, che viene scoccata dall'arco : e Ciro che debbali più temere questa, del fuoco, il quale non offende in qualche distan. za conforme fa la bellezza; insegnando l’Ecclefiaftico al 9. Propter Speciem mulieris multi perierunt , & ex bac concipifcentia quafi ignis exardefcit : oltre di che gli farà ben capire, che non solamente,egli viventesquefta polsa danneggiarlo , ma cziandio clinto che sarà , c  CON  [ocr errors] con qaciti motivi lo ani nerà a scize glierti per inoglie più costo la laggine, che la bella.  Sem. Mà come dalla moglie belles potrà strapazzarli il maritu defanto? Mec. Lo comprenderete dal seguente avvenimento riferito da Petronio Are bitro. Dimorava in Efeso una Matrona, non meno bella, che stimata da tutti di fomma pudicizia; ed essendole morto il inarito, non solamente dirottitfunamente lo pianse, mà, accompagnatolo al sepolcro, delibero volere ivi termic nare la sua vita con esso; nè fu porabile, che i parenci, anzi il Magistrato stesso la potessero rimuovere daral penfiero. Già sofferri. avea cinque giorni di rigorosa astinenza, quando un sol. dato, il quale cuftodiva alcuni cadaveri de ladri, ch'erano stari, giustiziati vicino a quel sepolcro, si avvide di notte, che usciva un cerro lume da unas contigva casetta , ed udiva insieme ivi piangerl; vi accorse , cd animalo vi entro, e calato che fu dove si piangeva,  ap  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Conf. Dec. prima appena vedute due donne'appreffo ad un cadavero, sen tornò in dietro a prendere la sua poca cena, e ritornato che fu, cominciò a consolarle con offerire loro quel poco di ristoro, che feco portato avea. La più addolorata , la qual'era la sudetra Matrona non mostrò punto di gradire le cortesi esibizioni del feldato, anziche più costo'raddoppiava ischiamazzi con svellersi i capelli, e percuoterfi maggiormente il perto : non si perdette egli di animo per questo , ma fi accosto all'altra, ch'era la fervente, offerendole cortesemente il vino, che avea ; ed ella non fi moftro canto ritro. fa; posciache'riftoroffi con quello, e guftò ancora il cibo'; ed indi si pose ad efpugnare la pertinacia della sua padrona, e tanto le leppe dire, che alla fine la vinse, eristoroffi anch'ella. Vedendo il soldato, efferli renduta in questo, passò più oltre', e coll'ajuto della fervente gli riusci di prenderla per moglie, non dispiacendo alla vedova l'aspetto del fudecco giovane ; ¢ ciò fu concluso  frete  [ocr errors][ocr errors] frettolosainente . Dimorarono tre gior-  ni in decto sepolcro i sposi, uscendo appena di noite tempo il soldato a provedere ciocche faceva d'uopo per alimca-  tarsi tutti. In questo montre da' parenti degli appiccati fu portato via uno di  quei cadaveri , ed avvedutofene il sole  dato lo palesò alla sua fpofa tutto contristato ; dicend le, che non era coaveniente di aspettare la sentenza del giu-  dice , essendo egli incorso nella   pena  di vita , per la sua trascurata custodia ; on. de che gli avesse pure preparato il luo. go per fepelirlo allieme coll'altro suo inarito, essendo egli già disposto a darli la morte . Ciò udico, la compaffionevole donna rispose: non sia mai, che io abbia da vedere due de' mici carifli.  mi mariti, defonti nel medesimo tempo; desidero più costo appiccare il inorto, che di perinettcre, che il vivo perisca:  deh prediamo questo cadavero,e collo? chiamolo, ove manca quello del ladro.  Ubbidi prontamente il soldaco ; e nel  di seguente cucco il popolo f maravi. Conf. s. Doc. prim. gliò, coine inai quel njorto, così teneramente pianio, fosse stato posto sopra un paribolo:  Sem. Talmente che saranno tutte finzioni quei gran pianti, e schiamazzi, che fanno le donne vedendo morti i mariti?  Mec. Per lo più cosi credo anch'io ; perche, non avendo queste la prudenzas virile, con faciliià grande fi pongono as piangere, ma noui tono già così gli uo. mini.  Pub. Voi mostrato di non avere letto Filostrato in Sofijt.: il quale raccontas ciò, che fece Erode il Sofista nella morte di sua moglie, ch'è questo appunto. Non si contentò egli di averla pianta dirottilmamente, stando anche sopra terra, ma volle continuare a farlo tutto il rimanente di sua vita : e come se le inura della sua casa pocessero essere as parte del suo dolore, le fè tutte vestire di bruno, e la sua casa fu dall'alto al barlo così bene dipinta a color nero, chu rendca gränd'orrorc: inoltre volle, che  tutti quei, ch'erano al suo servigio fof. sero mori, o per natura, o per arte: cgli stesso si fè cignere co’carboni il vol. to, per portare ancora in fronte la di. visi del suo dolore. Tutti i suoi mobili anche i piatii, e bacili', ne' quali li lavava crano neri . Passò del tempo in questa bizaria, senza volere udire alcu. no di quei, che volcano persuaderlo a cambiare risoluzione. Lucio, che gliera amico, gli aveva più volte parlato di questa materia, mà senza frutto; allas tine una sola parola di scherzo lo guada. gnò. Le sue serventi lavavano un giorno alla fontana certe rape; le vide Lucio , e domandò , fe quelle doveano servire per la tavola del loro padrone, il che affermarono; se ciò è cosi disse Lucio ; riferitegli da mia parte, ch'egli fa un gran torto alla sua moglie, e che non dee mangiare rape bianche in casas vestita tutta di nero ; onde che si era infinitamente maravigliato , com' egli non riparasse a cosi grave disordine, dovendo il suo bere, cd il suo mangia.  [merged small][ocr errors][ocr errors][merged small] TC  re essere vestiti come lui di gramagliw; ed a queste parole cominciò ad aprire gli occhi, per vedere, e riconoscere le sue stravaganze, e questi era pur Filosofo non già donni! Sem. Iftruitemi di grazia meglio sopra i matrimoni, fatti senza l'intervento della Prudenza, per non cadervi. Mec. Nella: ventura conferenza vi consoleremo.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] 100, avendola me  CONFERENZA Nella quale si esaminano più distintamente i pregiudizj', che risultano dai matrimonj farci fenza in l'intervento della Prudenza.  Sempronio, Publio , Mecenate   © Medico OL  Uanto mai mi ha contriftato la storia riferita della cru. dele donna di Efe. fo  glio considerata . Pub. Non bisogna sgomentarsi, Sempronio , per fi lieve cagione ; perche. primicramenre chi fa , le veridico lia tutto ciò , che in esta si racconta parendoini molto inverisimile , che li di lci parentis cd amici l'avessero del cute  [ocr errors] to  cata, avendo, oltre i natali,  Giulio s Conf. Dec. prima  qualche concerto maggiore, per lo sviscerato amore mostrato verso suo marito; oltre di che, chi potrà mai credere, che una donna, i dopo efsere stata cinque giorni, con tanta attinenza, poreise pensare , non che effettuare ciò , che fi lppone facesse : e poi, quando' realmente fosse ciò foguito , vi posso riferire moltissini esempj dimogli fedeliflime, le quali o per vero dolore sono morte, quando videro i loro consorti estipfi, è dettero chiari atteftati del loro fincero, e costante amore. Laodamia fù una di queste, la quale mori di cordoglio sopra il çadavere di Protesilao fuo marito, ucciso da Etrore. Ed Artemisia a che segno amò le ceneri di Mausolo suo marito , che fin volle, stemprate tolle sue lagrimc, dar loro ricetto nel suo corpo ingojandole a poco a poco! 'E finalinente, per non diftendermi di vantaggio nel riferirne inolte altre: Peponilla moglie dime riferisce Xitilino, sotto l'Impero di Vespasiano, aon visse nove anni con suo marito dentro un sepolcro, ove diede la vita a due figliuoli? e questa lo tenne lontano dal supplicio, per quanto le fu permesso, non già ve lo mandò? Sem. Tutto va bene; ma però, che una donna, dopo tante lagrime sparse per suo marito, l'abbia esta condannato al patibolo, mi pare grave, e detestabilc facro; posciache, se non amava quel cadavero, à che fine bagnarlo di tante lagrime? e se poi l'era ficaro, come mai ebbe tanto cuore di fare un' atto si crudele contro di esso, feuzan averle data occasione alcuna?  Mec. Quell'iniqua fantesca fu la cagione di tanta fceleratezza; impercioc" che la povera padrona, dopo cinque  giorni di dolorofa inedia sofferta, non trovando dalla morte pietà alcuna in voler porre fine ai suoi cordogli, e vedendosi imporcunara dalle preghiere di essa s’induffe à prendere quel poco diria ftoro', offertole non già da pareoti, che  I  l'ave  [ocr errors][ocr errors] l'avevano abbandonata, mà bensì da un cftranco, che fu la ruina della sua réputazione, perche chi d'altrui preode, se Iteffa vende.  Sem. Mà come! nc anco dentro il repolcro è sicura la pudicizia, ed allas prcfenza del marito defonto!  Mec. Diceva il Re Filippo, che non era inespugnabile quella fortezza, ove fusse potuto entrare un mulo carico di oro; e voi credere sicura una donna bella, guardata da una sola fancesca in luogo remoto? quando trovandofi già languida è affalita da un soldato armato, giovane bello , ed avvenente, ristorandola col cibo, adulandola, e lusingandola insieme con dolci parole. A queIto proposito cade in acconcio il proverbio di Salomone. Mulierem fortem quis inveniet? E tanto inaggiormente, quando il marito giace estinto, e perciò nè può correggerla, nè punirla. Sem. Queste ragioni non mi appaga. no punto, onde per non avere a cadere in fimili infortunj , bramerei che voi  con  [ocr errors][ocr errors] con la vostra solita ingenuità mi scopriIte molti altri pregiudizj, che potrebbero nafcere , non avendo la Prudenza parte uc'maritaggi ; e perche avete voi conversato molto in yostra gioventù, vi sarere incontrato facilmente in, più contrasti nati tra i mariti , e mogli.  Mer. Gli hò uditi certamente fpefso riferire, e letti ancora; e quantunque non li abbia provati, per essere vivuto libero, con tutto ciò sono appicno informato di molciffimi avvenimenti in fimili materie.  1 Sem. Or dunque, in quelli fatti per opera d'Amore, senza intervento della Prudenza , che vi avere offervato di inale ?  Meo. Ne hò veduci tanti di questi principiare bene, ma poi cambiare in un tratto la bella apparenza, ed allas fine rerminare infelicemente ancora.  Sem. Come cominciali bene, e poi mutarfi? fe:  Chi ben comincia , bà la metà dell'opra?  Mec. E pur così è seguito ; impera   cioc  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] I 2  ciocche alla prima, in quel fervor di afferro, la sposa era tenuta in pianta di mano; ma appena intiepidito questo de qualche lieve cagione mutava faccia il tutto, e quel grand'amore in breve pafsava in noja, ed alla fine questa si avanzava al dispregio. Quindi è che l’Ap. piense disse: 174 Ef modus , dulci, nimis immodera  ta voluptas Tædia finitimo limite semper babet : Cerne nouas fabulos rident florente colore  Piet a, velut primo vere coruso at bumus, Cerne diu tamen bas, hebetataque lumina fleetas,  Et tibi conspectus nausea mollis erit.   Pub. Voi, Sempronio, avete lascia. to il meglio, cioè,  Non si comincia ben se non dal Cielo. E credete, che facendosi il matrimonio per opera d'Amore senza l'intervento della Prudenza, sia esso cominciato dal Cielo? Sem. E perche no, avendol per fine  la  la conservazione della propria specie? Pub. Il fine è fanto, ma il da voi proposto mezo, per conseguirlo , non è buono;non dovēdosi ricorrere ad Amore per farci conseguire una buona moglie, ma bensì a Dio, conforme c'insegna Salomone : Uxor prudens à Domino ·  Sem. Per quali motivi si avanzano di poi al dispregio? Mec. Per molti ; lasciando in disparte l'interesse della dote (molto tenue per l'ordinario nelle donne belle) promessa, e per lo più non pagata; che suole frea quentemente turbare la pace domeftica: Il primo de' quali è il dominio, che vuole acquistare la donna bella sopra il marito; imperciocche come vuole Mcnandro :  Superba res eft pulchra mulier: E pretenderà per giustizia di poterlo efiggere mediante il favore , che gli hà fatto di prenderlo, essendofi veduta vagheggiare da tanti altri, che la bramavano per inoglie. Il secondo sarà la gelolia, che apporterà tra loro una continua guerra. Sem. Come la gelosia, essendosi pre . fi per amore?  Mer. Amore medesimo , che li uni, per prendersi di elli diletto, s'ingegnerà di suscitarla; e per promoverla, ba. sta, che faccia concepire ad un di effi un minimo sospetto di essere passato in altri quell'affetto , ch'egli godeva intiero; non essendo altro la gelosia al parer di CICERONE (si veda), che : Ægritudo, 6x quod alter quoque poriatur co , quod ipse concupicris, e come questa operi uditelo dal Taffo  N'arde il marito, e dell'amore al fuoco Ben della gelosia s'agguaglia il gelo,  E va in guifo avanzando a poco , a poco  Nel tormentato petro il folle zelo, Che da ogni uomo l'afronde in chiuso loco;  Vorria celarlo a tutti occhi del Cielo. Sem. Mà questa Publio potrebbe anche nalcere, quantunque la Prudenzas avesse avuto parte in detto matrimonio, Pub. Difficilmente, essendo che aves  reb  [ocr errors] rebbe ella saputo scegliere una donna saggia , che avesse colte fiınili ombre, quando fossero nate nella mente del marito, senz'occasione alcuna , e che non fosse ella stata capace di suscitarvele. Sem. E come potrebbe far questo una donna?  Pub.Con fuggire ogni eccesso di vanità; insegnando S. Crisostomo nell’onilia 21. al popolo: Ornatus Zelotypia fuSpicionem ingerere folet; cd in appresso, che ; modeftia ornatus omnem improbar fufpicionem expellis, omni autem vinculo formius conjugium conciliat. Sem. Vi sono casi seguiti di donne, ch'abbiano usata tanta prudenza?  Pub. Certamenre , che ve ne sono molti antichi, e moderni ancora: tra gli antichi , la moglie di Focione, di Trajano , & Alpolia moglie di Ciro, e di Arcasserse, e tra moderni. Madama di Chantal, come scrive il Padre Cordier uclla sua famiglia Santa, fu unan di quefte; posciache ella non G vede.rs giammai meglio vestita, che quando  [ocr errors] doveva trattenersi col marito; se doveva egli andar fuori, e fare qualche viaggio, non orna mai il suo  corpo,  che quando cia di ritorno : le fu detto un giorno, troyandofi lontano da molto teippo il Barone suo marito: Madamas ogn'un crederà, ch'abbiate vendute le vostre velti, ed i vostri ornamenti, voi non li fate più comparire, come se dubitafte, che da alcuno dovessero esservi rubati: non mi parlare di questo rispose ella , pofciache gli occhi , a' quali devono piacerc,sono cento leghelungi di quà. Riferisce anche il medesimo, che la Ducheffa di Gandia Vice-Regina di Catalogna avesse una somma modederazione nel yeftiré, non curandosi di portare abiti di fera, nè con oro. Una delle sue confidenti prese parimente un giorno ardire di così favellarle: Madama di altro non discorre per tuttas questa città , che della riforina de' vostri abiti, pare', che sempre voi diveniate di minor condizione di quella, fiecc Aata; più vi fi accrescono beni di  for  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][merged small] fortuna, meno ve ne service ; cui rispose:2 ine non dà il cuore di portare nè seta, nè oro, quando il mio marito vas sempre ricoperto di un'aspro cilizio, ed in questo anche riflettere, quanto operi il buon'esempio del marito, per frenare la vanità donnesca.  Sem. E quelli, che tratta l'Ambizione senza l'intervento della Prudenzas, che fine fortiscono?  Mec. Pellimo, stante che, non verificandosi punto quanto s'era da essa promeso, li riinane con moglie deforme, ed indotata; e di vantaggio ancora, è con molti figliuoli sulle spalle; ed alle volte ancora privi di elli', senza speranza di poterli ottenere, per la poca falua te di fimile consorte.  Sem. Se vi avesse avuto mano la Prudenza, come si potevano fuggire queste disgrazie?  Pub. Avcrebbe con maggiori cautele questa consigliato, cfaininando atcentamente, che fondamento potevano avere le milácate speranze; ç rinvenute  le  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] le acree, ed insuffiftenti, averebbe dilsuaso più costo, di effettuarlo; ò per la meno nella dubietà di cffe averebbe assicurato meglio le buone qualità dellas donna, affinche'andando le speranze a male, fosse piinasto questo di certo: di aver una donna prudente in casa,la quale quantunquc povera, come vuole Salomone. Sapien's mulier edifcat domum fuam. Ne averebbe già permesso a Tiberio, che avesse sposato Giulia, las quale oltre il disprezzarlo, come non uguale a lei; ci faceva lecito di vivere a luo piacere; conforme riferisce Tacito nel primo de' suoi Anoali. Ne tampoco Silio averebbe sposaro Meffalina, vivente Claudio, se la Prudenza vi forse intervenuta:nè già di Claudio Mellalina sarebbe stata conforte. Sem. E li matrimonj fatti dalla solas Avarizia, che danni possono apportarc? Mec. Maggiori di quello, che vi potrete mai perfuadere; posciache in tali casi non li sposa già la giovane, mà bensi la dote i mercè che : veniunt à dote;di fagitta ; onde considerare voi, come ella ella sarà trattata dal marito, e che amoal  re le porterà; quando l'affetto non è inndi dirizzato alla moglie, ma bensì tutto  alinero interesse; ed avvedutali effa di E essere posposta ad una cosa inanimatas,  che dirà, e farà mai, troyandosi ricBt ca? Sem. Bisognerà ben, che soffrá , I ftia focto l'ubbidienza del marito 1 Mec. Voi fempronio non avere letto  Anafsandro, e perciò parlare in cal # guisa , il qual dice,  Si quis pauper pecuniofam uxorem 1 Duxerit, non uxorem, fed dominam  habeti  [ocr errors] Cujus eft famulus, de feruus; E credete forse, che quancunque pajano fortunati coloro, che prendono grof. u se dori, realinente siano sempre? Oh  quanto sono infelici ! come conobbs o anche Menandro con dire:  Quisquis uxorem unicam heredem cupit  adfcifcere Divitem ,is vel irasis pænamluit Diis,  Vel inf. lix effe vult s-sub nomine fortunati. Sem. Gran cose si dicono da questi poeti, che fono favole; lo vedo, che le grosse doti arricchiscono le cafe.  Meca Li poesi son chiamati Vates da’ Latini, qual voce significa anche indo. vino, ed in questo ho osservato, che per lo più l'hanno indovinato; oltre di che tra efli vi sono stati Filosofi celebri. Io non nego, che qualch’uno prendendo groffe doti Gi sia potuto arricchire; essendosi però incontrato con moglie saggia; mà quanti li fono finiti di fpiantare per questa medesima cagiore, elsendosi abbattuti in mogli imprudenti? Sem. E come ciò può accadere, prendendofi quantità grande di danaro in fimili matrimoni?  Mec. Per questo medelimo segue;po. fciache addolorato diceva Demenao. Argentum accepi; dote imperium ven  didi. Laonde, comandando esse , sono capaci di darli fondo, con difsiparlo in bre  ale  fon ve tempo; ed eccovi appunto il guadagno, che si ricava da effe.  Sem. Questo però seguirà , quando di incontreranno mariti, che non sapranno farG ubbidire.  Mec. Porrà accadere agl'altri ancora dicendo Giovenale;  Intolerabilius nihil eft, quam fæmina EI  dives, i Ed andare a cozzar con queste ? andate  le a riprendere; ed affinche Gate meglio informato ; udite ciocche dice a questo & propofito Artemone,  fazio, ut fcias Quid periculi fir dotata mulieri convi  cium dicere. Si potranno con facilità maggiore reg. gere bensì quelle, che non averanno portata dote, come si ricava da un detto greco: Sponfa indotata non habet libertatem,  fiuè audaciam loquendi. Sem. Questo ardıre lo potranno avere forse le belle.  Mec. Lo hanno le brutte ancora re  [ocr errors][ocr errors] fa  [ocr errors] saranno ricche, e superbe , come vien riferito da Gellio , Me miferum, qui Corbulam duxi , &  talenta decem Nanam , mulierculam, cubitalem, cujus  Superbia adeò intolerabilis eft! Sem. Ed in che cosa potrà gettare il fuo la moglie, dovendo essere soggetta al marito?  Mec. Chi è ricca, come abbiam detto, non vuole stare soggetta ad esso; onde vorrà spendere a luo modo: se vedrà, che una sua uguale condurrà tre servitori, ella per la sua grossa dore, pretenderà condurne sei, bramerà anche gli abiti di inaggior valuta; Carrozze più nobili, e suntuose s e vorrà effe. refrattara in tutte le cose con magnificenza superiore alle altre; e se il marito non si troverà commodo di farlo, elibirà cfla medesima la sua dore, per fupplire a quanto bisogna; e durando molto que, fta vita , anderà in malora la dore , con tutto il capitale del inarito. Or vedete, che fortuna s'incontra nel prendersi  grof.  [ocr errors][ocr errors] is grosse doti, e che svantaggi ne riceveranno da questa anche i loro figliuoli. Sem. In questo io vorrei mostrare spirito, e farla fare a mio modo. Pub. Vi voglio riferire un caso a quefto proposito assai curioso; Una certas giovane, che si trovava ricca dote, la prima sera , che cenò col suo marito , non volle gustare cosa alcuna, e ftando in tavola molto contristata, le fù domandato ; da che ciò provenisse , e qual occasione la rendeffe così meftas,' ella rispose; come volete, che io man.  gi, se non vi è l'uomo nero, che ini ser1 va in tavola ; e non hò piatti d'argen  , proporzionati alla dote, che hò portata : il marito le rispose, che nel giorno seguente averebbe fatto trovare più d’un uomo nero, i quali l'avercbbero servita , come desiderava : fec'egli comparire nel tempo del delinare due mori ben neri, acciocche la servislero, s'icfierà per tal cagione la giovane a segno, che si levò di tavola , e nacquero da ciò infiniti disturbi tra di elli,onde vedete voi, Sempronio, che vantaggi risultano dall'essere risentito in fiinili contingenze: bisogna pregar Iddio, che la moglie ricca, sia ricca anche di senno, aliriinenti la casa andrà in malora , quantunque avesse portato il doppio di dote. Sem. Hò udito sempre dire, che las metà della dore non si possa alienare, e che li fidecommiffi rimangono sempre in piedi; come dunque potranno seguire l'accennati dilapidamenti? Mec. Il lusso però oggidì hà usurpato il privilegio di poter alienare ogni reliduo dotale, e di svincolare ancora ogni più stretto fidecoaimiffo Sem. Mà in che modo? Mec. Si fingono pericoli di case, che stanno per cuinare, e per tal cagione di toglie ogni più stretto vincolo, posto sopra i capitali: mà passiamo ad altro, perche questa è materia molto lagrimevole.  Sem. Talmente che a derro vostro re alla moglie ricadesse quaich'eredità;  con  [ocr errors][ocr errors] converrebbe rinunziarla, per non incorIf rere in fimili fventure ?  Mec. Muta faccia il cafo ; perche la moglie, ch'è vivuta qualche anno col marito, trovandosi molti figliuoli, ed a vendo già passato quei primi fervori del. le nozze , ne' quali si spende molto, non averà genio più a dissipare, ed effendosi assodata nel governo della casa, se  pur farà qualche sfarso di più , sarà con i moderazionc , e proporzionato al suo Itato,  Sem. Or io ho capito, come si abbia da scegliere la moglie, che sia di tutto proposito; cioè nè povera, nè riccas, e che abbia più cervello, che bellezza,  acciocche non si abbia da dire di essaie : quello mi fu raccontato una volta, che  dicefle la scimmia , effendo entrata nella bottega di un arteficet, che lavorava modelli di cera, ove prendendo nelle inani una bella cesta, dopo di averla ac  carezzata, e baciata, mettendo den| tro di essa la mano, c trovatala vota  gridò: Oh che bella gefta, mà de manca il cervello !  K  Pube  [ocr errors] Pub. Or sì, che voi la capite per il suo verso; e scegliendola di questa forta allora sì, che farere forçunato, e potrete dire di avere presa una grandislima dote, conforme è succeduto a me: evi voglio raccontare ciocche ini seguì nel tempo , che io era sposo : mi fù domandato da un mio, amico, che dote io avca ricevuto, e trovandomi sodisfatto delle buone qualità della mia compagna , gli rispofi ; che credeva di aver ricevuto cento mila scudi ; rimase egli ammirato , sapendo, che io non eras folito di milantare le mie cole, nè fimile dote fi costumava allora, folamente mi replicò: in che corpi li avete ricevuti? cui soggiunfi, in contanti dieci mida, ed in giudizio il rimanente ; egli di pose a ridere; cd io non ho avuta sin ora occasione alcuna di contristarmi di ciò.  Sem. Desidererci ora sapere, che altri miali, poffa apportare la Bugia, concludendo etsa il matrimonio?  Mec. Se lo-traria di passaggio, non suolo apportare danni molto conlidera  1  i bili; mà se poi s'interna nelle cose cffenziali, guai a chi si fida di essa; pofciache se ricoprirà i mancamenci d'una donna impudica a segno, che quel povero uomo, che la vuole sposare, la creda una casta Penelope; effettuandolo diverrà infelice; e se vorrà fare com  parire le ricchezze dello sposo affai e maggiori, s'ingegnerà ben ella di pro:  curarlo, e con infolite maniere : che non ha fatto a giorni nostri in fimile afa fare! e arrivata fino a fingere le note dell'avere, nelle quali vi erano regiftra  ti molti crediti fruttiferi, senza il no* i me de? debitori; con pretesto, che si  celano questi, perche , essendo fiignori di qualità, non volevano essere  nominati; e nebanchi ancora non è arrivata a fare apparire grosli depositi in  faccia di Tizio, i quali erano mere imei prestanze, che nel dì susseguente tor  navano a credito di Sempronio suo vefo posseditore?  Sem. Bisognerà dunque vivere molto caurclaro'nci trattati de matrimonj,per  K 2  non  [ocr errors] non essere dalla Bugia tradito sin  Mer. Udite di più : se una poverad giovane sarà ingannata da esla's facendole apparire il suo futuro sporo ricco; che tenga carrozza; si trovi las cafa ben fornita di preziose suppellettili, a segno che le faccia credere che quel partito sia una gran fortuna; cadendo. vi in effettuarlo, in un tratto si avvede. rà, che il cutto fù mera apparenza; pois che appena consumato il matrimonio, sparisce il palazzo incantato di Armida, e li cavalli, o carrozza tornano al fuo padrone; e per vivere conviene dar di mano alla sua dore, trovandosi il mari10 fpiantato. Vi voglio raccontare una storiella, nella quale scoprirete l'astuzia usata da uno di questi miserabili,che con inganni giunse a sposare una ricca giovane. Se ne stava egli nel giorno fta. bilito per le nozze penlierofo , e mesto, a segno che la Suocera si mofle a domandargli cosa egli aveva; cui replicò, che certamente non aveva cosa alcuna ; fco. perte, che furono di poi le fue miseric,G dolse leco la medesima, ch'era statas da esso ingannata ; replicò il ribaldo: fignora lei si ricorderà benissimo, che's  io le diffi nel tal giorno, domandando i mi cosa io aveva, che niente le replicai?  che occasione dunque ella ha da dolerlei dime , se le palesai la verità, con dirle', che nulla avea.  Sem. Accadono questi cali?  Mer. Cosi non accadeffero, anzi ve ne sono de'peggiori ancora.  Sem. E quali sono?  Mec. Volendo la Bugia accasare un giovane deviato, che farà? comincie. rà a lodare il suo buon costume, la sua  modeftia, a fegno, che lo farà compa0  rire in iftato d'innocenza cadendo las  povera fpofa a credere questo, tuttaa  allegra acconsentirà, non solamente al  matrimonio, mà sicuramente ancoras  converserà seco; non dico altro, che  in breve diverrà un cadavero, median-  tc i quel malo;-col-quale l'averà mal  concia. Şom. Sono vesiquefi cali, Dottore?   Med  K 3  Med. Accadono, e non di rado;quando però liamo avvisati in tempo, diamo loro il suo rimedio ; ma allorche il malfattore vuol fare da Medico., la finisce di stroppiare con quei secreti, che talvolta averà egli in se medelimo provati , i quali applicati in una compleffione gentile, essendo rimedji mercuriali, potranno in vece di giovamento apportarle danno notabile.  Pub. Questi pregiudizj tempo fà non seguivano; imperciocche, se allora cal uno cadeva in fimili mali, îi faceva prima curare , e risanato, ch'era perfertamente prendeva moglie.  Sem. Talmente, che questa Bugia ne matrimoni cagiona danni molto confiderabili, ond'io procurerò di tenerlas lontaga allorche tratterò il mio accalamento.  Mec, Bisognerà, che stiáre però molto avvertito; posciachc comparirà travestiça; e sotto specie dį verità per ins gannarvi. Sem, Io fona un bell'umorcänon cres  derò  1121  N  derò allora all'istefa verità, per non di ingannarmi, giacche la Bugia fi vestu dei suo manto.  Mec. Alla verità conviene prestarlo d  fede in ogni tempo, mà però vi è il modo da discernerla, quando cssa sia pura , ò simulata.  Sem. E come?  Mec. Quando voi vedrete ingrandire le cose assai più di quello , che fieno ve. risimili, ivi ftà nascosta la menzogna, e datele la tara di due terzi meno di quello vengono rappresentate, che così di poco sbaglierete. E se vedrete poi in  alcune altre ufarsi artificj, c diligenzu u maggiori, di quello, che convenga,  per farvele credere, e voi togliete tre terze parti a ciò, che fi dice, e credete solamente quello , che rimane, che così l'indovinerere.  Sem. Dovendo io prendere moglie poco fastidio mi prendo dei difetti de  gli uomini , vorrei bensì sapere quei i  delle donne, da' quali doverò guardarini.  K 4  Mer.  [ocr errors] Mec. Nella ventura Conferenza farete istruito in questi.  Pub. Bisognerà fargli conoscere ancora le virtù di esse, affinche fappia difcernere quali siano le buono.  [ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] CONFERENZA VII.  Sopra i difetti, e le Virtù  delle donne.  Sempronio , Medico , Mecenate  e Publio ,  M  Sem.  I persuado Dottore, che niuno meglio di voi conoscerà les imperfezioni delle donne , effendo voi  meglio di ogni altro informato de' naturali, e tempera menci loro.  Med. Secondo il parere di Democri. to, le povere donne soffrono , per cam gione dell'utero, seicento mali di più degli uomini ; come si legge nella lettem ra da esso scritta ad Ippocrate', over Sexcentum arumnarum mulieri auctorSem. Io non voglio sapere da voi li mali dell'utero, ma bensì quelli dell'animo, non quelli, che sono ad effe di moleftia, ma quei che possono altrui ancora nuocere, conforme sono i loro vizj.  Med. Di questi ogni uno, che per qualche tempo le abbia trattate , ne può effere bastantemente informato . lotor110 poi al temperamento delle donne, vi poffo ben dire, che una volta fu promossa questa gran disputa ; qual foffe più caloroso, l'uomo , ò la donna, e dipoi essersi molto dibattute le ragioni dell'una, e dell'altra parte, fu detto, che quando la donna non fia di temperamento più caldo di quello dell'uomo , non si possa mettere in dubio che non sia più callida di esso ; cioè a dire più astuta  Pub. L'aluzia però, quando non è maliziosa, c fraudolenta, non entra tra i difetti deteftabili; dicendo Teren. zio in Andria i  Aftutum fallere difficile eft.  [ocr errors] [ocr errors] 201  [ocr errors][ocr errors] Onde questa può ftimarsi avvedutezžas,  Jodata dall'Ecclesiastico al 19. Aft ut us  agnoscit fapientiam. Mec. Nelle donne però farà sempre  detestabile, non essendo quefte fcarse   di malizia, e d'inganni, al parerc di Se1  neca in Hippolyto : 1  Sed dux malorum foemina , d fcelerum artifex,  E di Plauto in milite: Quid pejus muliere ; atque audacius? Quid? Nibil. Ed ARIOSTO così ebbe a dire di effe  Non siate però tumide, efastofe  + Donne per dir,che l'uom fia vostro figlio," Che dalle spine nascono le roje,  E d'una ferid'erba nafce il giglio. Importune', Superbe , e dispettose  Prive di amor; di fede , e di consiglio;  Temerarie , crudeli, inique, ingrate, Per peftilenza eterna al mondo nate.   Pub. Piano di grazia , Mecenaco; cliente perche parlando in tal guifa', correcc  pericolo di essere lacerato dalle donne  come fucceffe ad Orfeo, di cui parlaw  Platone dell’ACCADEMIA ne' suoi simposj. CONVITO. Per tal unas, che sia stata cattiva tra effe , con questo vostro modo di parlare cosi generale, pregiudicate a tante illustri femmine degne di eterna memoria, anzi che as vostra madre medefma, e con essa a voi ancora. Leggere,l e opere di Pisana, è di Marinelli, che troverete ivi, quanti più iniqui, escellerari uomini vi sono stati, che donne; onde ci comple stare cheri; e tanto maggiormente, che le donne cattive, fono appunto come le vipere, le quali, sc non vengono compresse, o con altri modi irritate, non mordono già , nè avvelenano; ina gli uomini perverfi, non sono già così, assomigliandoli al lupo quel detto greco: homo homini lupus: da cui non giova punto l'allontanarsi; perche ello va cercando di danneggiare. E parliamo con tutta sincerità; avete voi veduto mai alcuna donna andare di. predando i. paffaggieri per terra, ò per mare, conforme, fanno gli uomini E giacche avere apportato l'ARIOSTO con  [ocr errors] 1  [ocr errors][ocr errors] tro di esse, perche non riferite ancoras el ciò, che dice a loro favore? che apporDe tai nella conferenza quinta, ch'è appunto:  E di fedeli , e caste, Saggie, e forti  State ne fon ne pur in Grecia, e in ROMA; ti Ma in ogni parte , ove fra gl'Indi, 6  "gl’orti Dell'Esperide il fol spiega la chioma, Delle quai sono i pregi, e gi’onor morti,  Si ch’appena di mille una fi noma,  E questo, perche avulo hanno a lor sempi   Iscrittori bugiardi, invidi , empj. E finalmente doverebbe bastare ciocche dicono Socrate, e Platone di esse per  frenare la lingua di chi ne dice male, 1  cioè, che sono capaci molce di effe d? amministrare la republica ancora.  Mec. Bisognerà dunque credere, che le donne non abbiano difetti, per non  pregiudicare a qualcuna, che tra esse fia ed Itata buona?  Pub. Io non pretendo difendere les cattive , ma fulamente cancellare lo buone del numero di queste, nè voglio  fcu  1  scusare i vizj, chc insidiano le donne ; ma se le Virtù non isdegnano di accompagnarsi con effe, come posso tenerle çelate in pregiudizio di cante? e precisamente di quelle di cui l'Ecclesiastico. ne fa gloriosi encomj,chiamandole : Lucerna splendens ; columna aurea super bafes argenteas ; fundamenta æterna: Laonde , Mecenate, non dobbiamo in conto alcuno dir male delle donne; poffiamo bensì censurare quei difetti, che le perseguirano; perche facendo in tal guisa non fi potranno dolere di noi le buone , le quali non danno a' vizj ricerto; no tampoco, se taluna cadeffe a darglielo, farà contro di noi risentimen. 10 alcuno, per non dichiararsi da se medelima viziosa : e regolandoci con que. Ita norma faremo conoscere, che non odiamo le donne, ma bensì quei vizj, che da loro medefimc debbonli odiaren come loro capitali nemici.  Sem. Iftruitemi dunque, Mecenate, sopra questi vizj, scorgendovi molto informato di effeMec Di alcuni ne fono informato; ma cutti tutti io non li so: perche mi fido' guro che siano tanti appunto, quanti so. i no i caratteri Cineli: vi posso riferire li  più principali , che doverebbe fapere ogni marito, per potersi ben regolares scorgendoli nelle mogli. Il primo di  questi è la Vanità, la quale ha un gran i seguito di altri vizj, a se fubordinati,  mà cominciamo ora da questa, che die ď poi parleremo degli altri.  Sem. Che cosa è precisamente, ed in che consiste questa vanità? :)  Mec. Credo, che fia un vižio, tanto in esse, quanto negli uomini effeminati, diretto a procurare ftima maggiore, che competa loro in genere di bellezza. Sem. Spiegatevi di vantaggio affinche possa comprendere meglio quanto avete detto.  Mec. Ciocche dilli mi pare chiaro, con tutto ciò mi spiego più diffusamente, e dico: che se una donna, ò-un uomo effeminaco deformi procureranno  pre  all  prevalersi di superfui abbellimenti a fine di comparire belli, pretendendo das ciò ricevere stima maggiore nel concetto delle persone intorno alla loro bel. lezza. Questi saranno vani.  Sem. Dunque le belle non saranno vane, non avendo d'uopo di fienili abbellimenti.  Mec. Ponno cadere queste ancoras in detto vizio ; quando paresse loro di non essere tanto belle, che abbiano a rapire il cuore di tutti, e perciò effe credessero colla vanità di potere diveairvi a quel segno.  Sem. Come fono numerose le donne di questo genio?  Mer. Poche sono quelle, che non lo abbiano ; la moglie di Publio è tras quefte, che odiano la vanità.  Sem. E che! la vostra moglie, Publio, non si ornava, come le altre , quando è giovane ?:  Pub. Si ornava in quella forma, che io desiderava, a fine di compiacermi, non già per fare pompa di fa con altri. Sem.  [ocr errors][ocr errors] 1 1 Sem. Come vi contenevate per firla di perseverare in cotal guisa? posciache a  alcune per breve tempo incominciano a farlo, mà dipoi vedendo le altre , che  fi adornano, b-lasciano trasportare dal i mal costume anch'efle Pub. Avevå ella fomma venerazione alle fentenze de' Santi Padri, ed affinche meglio le comprendeffc, l'erano da me spiegate : onde adducendole sopra ciò quella bella sentenza di S. Cipriano, che dice: Non eft pudica, qua affeet at animum altorius movere, etiam Jalva corporis caftitate ; fi afteneva ella perciò dal vestire con pompa, dovendo uscire di cafa,  Sem. Se faceffero tutte cosi, andrebbe la maggior parte assai positivamente  vestira ; imperciocche li mariti per non u ispendere, non direbbero già loro, che  fi ornassero, e studierebbero giorno ,' notte fentenze contro la vanità. Mes. Che male ciò apporterebbe loro 2 Sem, Non altro, che si farebbe di ef  fe oggidì poca ftima; essendo che, chi non fa la lụa comparsa, come le altre, non è punto contiderata. Mec. E te taluna la faceffe con inde. bitarti, chi sarebbe di queste due più considerata , la yana, ò la modefta? Sem. Certamente quella, che più di ornaffe, perche niuna và cercando, come questa comparsa si faccia , effepdo molto noto quel detto : Unaè bibe'as, quaris nomo, Sedopor.  tet babere. Mec. Si cercano, come anche voi diceste, più i fatti altrui oggidi, che i proprj; onde per questo motivo yi ammetto, che sarebbe più considerata la ya-na, che la modefta; e poi quando quefti non si cercassero, non credo già, che i mercanti vogliano donare il loro; onde dipoi,che averanno aspettato un pezzo, forzati a domandare giudicialmente il loro nelle publiche udienze vi pare, che possa stare celato? ell'essere conf. derata in questo modo, vi pare, che posla apportare decoro, ò vituperio?  Pub,  [ocr errors][ocr errors] d  Pub. Senza queste vostre rifellioni, di forma cattivo concetto delle vane solamente a rimirarle, şi era ornata Thamar c deposti avea gli abiti yedoyili  più modefti, e Giuda quando la vide i in quella forma, che concerto ne fè di  effa? Suspicatus eft efe meretricem: Genef. vedere dunque yoi, Sempronio, come sono considerare le vane da parenti anche più congiunri? Sem. Dicemi, che altro pregiudizio apporti questa yanicà? Mec.Quando esce fuori de’suoi limiti, hà due altri vizj, che per l'ordinario noll'abbandonano, e sono la prodi. galità, e l'impudicizia  Sem. Sono queste certamente due peflime compagne, le quali possono apportare gran male, infidiando alla roba, ed all'onore; mà è seguitata da alţri vizj?  Mer. E più correggiata la yanità das cu efli, di quello sia un Generale di esser  cito da 'suoi Officiali, posciacche 120 fuperbia, l'invidia, il dispreggio, l'ineganno, con molti altri di questa perversa natura, a vicende la servono, onde chi è vana, è anche superba , invidiosa , dispreggiatrice, e fraudolenta, tramando sempre inganni, e frodi.  Pub. In conferina di questo, diffe S. Crisostomo. In Gen.fim Homilia. A corporis cultu innumera frunt mala , arrogantia, que intus nafcitur, defpectus proximi, faftus spirisus, animą corruptio, voluptatum illicitarum fomes &c.  Sem. Questa vanità fino a che segno potrebbe tollerarsi nelle donne?  Mec. Sarebbe certamente indifcreto quel marito, che non tollerasse alla moglie giovane una mediocre vanità, quantunquc da questa fi poffa facilinente fare passaggio alla grande ; dee bensi per tema di ciò egli ftare vigilante, affinche non trascenda questa i suoi limiti, li quali le vengono prefissi dall'onesto: e lidee questa tollerare ancora, affinche s'inducano alcune più facilmente a pren. dere marito. Pub. Sant'Agostino riprese rigorofa  men  [ocr errors] [ocr errors] mente Eudicia per voler andare troppo ncgletta nel vestire, e le fè incendere, che averebbe dimostrata umiltà maggiore con ubbidire a suo inarito , che a vestirsi di panno vile, per lo spirito di contradizione , esclamando il Santo :  quid absurdius, quam mulierem de bumi. I li vifte  fuperbire ? Sem. Come li conoscerà, che questa trascenda i limiti prefilli dall'onesto a Mer. Allorche una donna vorrà ricoprirsi di gioje, e di oro, e quello è peg.  gio, senza riflettere se le sue entrate lia-  no sufficienti a poter fare tante spele,  venendone di ciò ripresa da Ovidio poe-  ta lascivo, dicendo: Quis pudor eft cenfus corpore ferre Juos?  Ed altrove. Gemmisque auroque teguntur  Omnia , pars minima eft ipfa puellae fui.  E Properzio dice anche di più. Matrona incedit cenfus induta nepatum   Pub.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] L 3  Pub. Seneca nella Benef. dice ancora : Video uniones non fingulos fingulis auribus comparatos; jam verò exerci14 aures oneri ferendo funt ; junguntur interje, & infuper alii binis fupponuntur Non faris muliebris injania viros fubjegerat , nifi bina ar terna patrimonia auribus fingulis pependisent. Ma meglio di ogni alero S. Ambrogio : De Nabut. Ifrael. cap.s. lo fa capire . Dele&tantur compedibus mulieres dummodo auro ligentur non putant onera effes fi pretiofa funt: non pusant vincula efi, fi in iis shefauri corufcant : delectant de vulnera, ut aurum auribus inferatur, do margarita depen. deant c. E finalmente conchiude . Non parc unt dispendio, dum indulgent cupidisati. Laonde fantamenre dice l'Ecclefiafte; Averre faciem tuam à muliere compta.  Sem. Må se sarà nobile, non potrà fare di meno, quantunque le sue rendi. te foffero tenui, di non ornarsi pomposamente, vedendolo praticare da chi è mcno дobile di ella.  Mece  [ocr errors] Mes. Ditemi per cortesia, forle che questa sua nobiltà, senza danaro, potrå fodisfare il costo di tante pompe?  Sem. Mi perfuado che nòsmå pare una certa cosa, il comparire meno delle alo tre, alla quale, chi è nobile non si può accomodare. Mec. Anzi queste , per  fár comparire maggiormente la loro nobiltà, non doverebbero soggettarsi a cose vandag per far conoscere inlieme, ch'essa rin fplenda assai più dell'oro, e delle gioje. Sencite, ciò che diffe a tale proposito la saggia moglie di Focione ; come riferisce Plutarco nella di lui vita. Şi trovava un giorno questa illuftre Dama ins conversazione di altre donne, ornate tutte pomposamentes vi fu chi le disse: perche non era venuta essa ancor adornata come le altre, cui rispose: che le bastava per ornamento la virtù di suo marico, al che non seppe che replicare la più curiosa, e vana delle altre.  Pub. A questo proposito dice Aristocile, che il buon ornamento nelle don  ne', non debba già consistere nella pompa, mà bensì nella modeftia, e nel modo onesto, e decente di vivere ; il quale fu da Aspasia praticato, come riferisce Eliano , quantunque ella avesse avuto per  mariti due gran Monarchi; cioè Ciro, & Artafferse, ciò non ostante fi feppe ella così bene guardarc dalla soverchia curiosità, e pompa, che recò am mirazione a tutto l'universo. Elodando PLINIO (si veda) la moglie di Trajano, non seppe apportare fatto più glorioso di queIto a suo favore: che di efferli, come donna mantenuta sempre lontana dallas vanità superflua. Sem. E se l'entrare fossero sufficienti, potrebbe dirsi vana una, che trascendeffe i sudet i limiti?  Mec. Se la vanità non fosse unira col. la prodigalità, forse che in questa, se non trascendeffe molto, sarebbe rollera bile, ma il vizio della prodigalità non le permetterà moderazione alcuna; posciache: Prodiga non sentit pereuntem fæminas fenfum. E poi credete voi, che'l fine, per cui fi orna a quel segno, fia sempre onesto? non lo credetre già Seleuco, quel gran Legislatore de'Locri, il quale fè quefta legge; che non fosse permesso ad altre donne di ornarsi pomposamente, se non a quelle che volevano amoreggiare, e fare anche di peggio; e sappiare , che, fù questo un gran rimedio contro la vanità; posciache divenne quel Dominio per qualche tempo modeftiilimo, spor gliandosi le donne delle loro fupes Aves pompe. Quindi è, che da saggio padre operò Lisandro, come riferisce Plutara co, con rimandare a Dionilio tiranno le preziose vefti, che aveva mandate in dono alle sue figliuole, con tutti gli altri ornamenti; con fargli incendere; che averebbero più tosto tali ornamenti viruperato le sue figliuole, in vece di or. narle.  Sem. E le ricchissime, che non soggiacciono al pericolo d'impoverire,perche non poffono fare tutto quello sfara fo, che bramano?  1  [ocr errors] tutte  Mec. Non tutto quello, che si può, è convencvole a farli. Giovanna di Navarra consorte di Filippo il Bello, trovandosi in Burges, mortificò molte Dame, che andarono a visitarla con abiti sontuofiffimi, dicendo loro. Credeas effere in questa città io solamente la Reging, mà ne trovo mille.  Pub Chi brama servirsi bene delle proprie ricchezze, non dee impiegarle per  fodisfare le sue voglie, ed in cose superflue; dee ancora pensare and quelle, che sono maggiormente necef• farie, che ornano l'anima, come insegna S. Cipriano dicendo : locupletem te effe dicis e utere divitiis , fed ad bonds are tes; divitem te fentiant pauperes &c.  Sem. Se taluna fosse deforme , potrebbe ornarli più dell'onesto per comparëre bella e  Mec. Faccia pure quanto può la deforme, che fempre scoprirà di vantage gio la sua deformità; e guai a quelles, povere damigelle, che vi harno a conbattere, perche rimirandofi allo fpero  [ocr errors]  chio, deteriorare più costo con quelli   abbellimenti, che li pongono, si per-  suadono, che per difetto di effe ciò deo   tivi', non sapendo bere addattarli, ed  a questo proposito cosi parla Giove-  nale,     Quid Pfecas admifit , quænam eft culpa puella  Si tibi difplicuit nasus tuus? Sem. Consideriamo i sarti quanti rimproveri riceveranno di vantaggio  Mer. Vi fù uno di questi gli anni scorfi, che avendo portari alcuni abiti ad una ricca, e deforme, ed allorche se li provava , diffe, che non erano ben fata ti; perche non le stavano bene al viso ; quel povero uoino vi ebbe un pezzo fof. ferenza, må alla fine le disse: Signora io gli ho fatti a misura della sua vita , alla quale vanno benissimo, non già del suo viso; onde questa non è colpa mia , mà deila natura, se non stanno bene  ad effo.  Sem. E le brutte, è belle, che siano adoperando i bellectiglo fanno per vanitá a  Moc. Mec. Questo certamente è molto dubioso; posciache, se lo fanno per essere stimate più belle, s'ingannano, mentre ogni uno, che le rimira, le tienes per copie mal dipinto, non già per ori . ginali, e voi sapete ; quanto lieno più  timati gli originali delle copie, quantunque pajano ben colorite; e poi quel mal odore, che tramandano quegli unguenti posti sul viso, come le possono rendere amabili? ed udite Plauto, come ne parla, Vei fefe sudor cum unguentis fociavit  illico, Ibidem olent, quafi cum una multa jura  confundit coquus, Quid oleas , nefcias ; nifi id unum male  olere intelligas. E Giovenale così dice: Interea fæda aspectu , ridendaque's  multo Pane tumet facies, aut pinguia popeana Spirat, hinc miferi vifcantur Labra  marici. Ed in appresso; Tal  Tot medicaminibus, coctaque filiginis Offas  Accipit , & madido, facies dicetur anni   ulcus? E guai a queste se intervenissero al giuo, .co, che inventò Frine, riferito da E rasmo lib. 6. Apophtegn.pofciache si troverebbero confufe, e mortificate. Ef sendo ella in conversazione di donne; tra quali ben si avvide effervene non poche bellettate , introdusse il giuoco del1e penitenze, uscendo a forie chile doveffe comandare; e toccando a lci, ordinò, che fosse portato un gran carino pieno d’acqua, e che ciascuna dovesse ja varsi il viso, come ella faceà ; 'non poterono le altre scufarfi, effendoli'impegnate ad ubbidirç, e ne seguì da ciò tal metamorfofi,che li domandava il nome ad alcune non riconoscendosi più per quelle , ch'erano prima.  Pub. Bisognerebbe , che leggeffero S.Ambrogio : Examer. per illuminarsi, ove dice: Deles picturam' mulier, f vultum tuum materiali candore,oblinius, fi acquifito rubore perfundas : ila la pi&tur a via, non decoris eft ; illa pi. Eura fraudis , non fimplicitatis eft ; illance pictura temporalis eft, aut pluvia, aut Judure fergiiur : illa pi&tura fallit, de ripit, ut neque illi place as , cui placere de  laderas , qui:nielligit non tuum, fed alicnum effe, quod placeas, & tuo displiceas auctori , qui vidiet opus fuum efl deletun; ed apporia inoltre, lib.i. de Virginibus, un dilema affai calzante a questo propofito, dicendo, fepulchra es, quid abscomderis? fi deformis, cur te formosam effe mentiris? neç tud conscientia, nec alieni gratiam erroris habitura?  Şem. Lo faranno çalvolta le bruite per ricoprire ļa ļoro deformità.  Mes. Quanto s' ingannano queste; posciache in vece di ricoprirla più costo in tal guisa la rendono palese a tutti; cfsendo che non potendo mai fare in modo, che non si conosca ciocche di più del naturale si sono poste sul viso, das Joro medesime si discuoprono per defore mi, çon pregiudizio anche delle bells,  Şe  [ocr errors] [ocr errors] se ciò facessero; perche saranno queste ancora credute di ayere difetti tali, che abbiano d'uopo di essere ricoperti; E se poi la deformità proveniffe dall'improporzione delle parti, che non è male da biącca, come la potranno rimcdiare? posciache converrebbe in tal calo inventare il modo da profilare mcglio il naso, ristringere la bocca, e di slargare la fronte, ed a questo non potendo ațrivar esse senza maggiormente deformarli, perche dunque li pongono a garreggiare col Divino Artefice, che così le formò per fini a lui ben ooti?  Sem. Hò udito però, che quelle, che cadono in fimile errore, sia impoffibile, che possano più aftenersi dal non farlo, e queste in che modo le coayincereste Publio?  Pub. Sono certamente infelici quelle donne, che non piacciono a se medefime, come disse S. Cipriano , de Bon. Pud. femper eft mifera, que non fibi places qualis eft. Onde queste difficilmense potranno convincerli; con tutto ciò,  quan:  Tollens ergo  quando' mai godessero un momento di mente tranquilla , domanderci loro, se amano più la bellezza dell'anima, è quella del corpo, e dicendomi, come è più verifimile , ch'amino più quella dell'anima , apporterei loro ciocche dicc S. An:brogio: in Examer 6. cap. 8.  ergo membra Ch ifti faciam membra meretricis? Abfit, quod fi quis adulteret opus Dei; grave crimen admittit , grave eft enim crimen , ut pures, ut melius te bomo , quam Deus pingat . Grave eft , ut dicat de te Deus, non cognofco 16lores meos , non agnofco imaginem meam, non agnofco vultum, quem ipse" formavi, Rejicio ergò quod meum non eft , illum quare, qui te pinxit , cum illo habeto confortium , ab illo fume gratiam, cui mercodem dedifti. Quid refpondebis ? ed udite ancora quanto lo detefta S. Cipriano de Habit wirg. Manus Deo inferunt quando illud, quod ille formavit, reformare,  transfigurare contendunt , nefcientes quod opus Dei eft omne quod nafcitur:Diaboli, quodeumque mutatur ac, tu te exi,  Jimas impunè Laturum tam improbare meritatis audaciam Dei artificis offenfama Ut enim impudica circa bomines, du inn cefta fucis lenocinantibus non fis ,' corruptis, violatisque, qua Dei funt péjor adultera derineris dc.  Sem. Quelle, che fi bellettano, mi persuado certamente, che non averanno uditi gliaccennati sentimenti di queisti Santi; perche in verità, sc riflettes sero attentamente a ciò , che questi di cono, fi alterrebbero dal farlo; mà vor: rei sapere in oltre da voi, Dottore, se pollano queste lordure, che si pongor Ho le donne sul viso, essere di nocumento alla loro salute?  Med. Sono senza dubio molto dannosi; perciocche se il tingerfi solamenrei capelli ha apportato a molte la mor- to, come riferisce Gal. de comp.medic. fec. locos , cap.3. de tinet.capil. oye dice: Non folum enim in periculo verfatas fape frio -fæminas ; fed mortúas ex perfrigeratione capitis per hujufmodi pharmaca induéta , Ed Aczio parimeate afferisce di averne vedute morire alcune per tale cagione apoplettiche, e tabide; quanto più facilmente potranno es. fere danneggiate da cosmetici , ne' quali entra il solimato? E posso io asserirvi di avere veduta più di una di queste divenute , ò asmatiche, ò apopletriche, à paralitiche, ò idropiche in érà proverra; senza poi quel danno, che suode recare in gioventù a tutte , ne' loro denti ; e gignive; nè preftino fede a coforo, che fabricano belletti, quantun. que dicano di averli fatti fenza folimato, poiche le gabbano.  Sem. Si che dunque aon gioveranno ne per l'anima, ne per il corpo? Mas come si doveranno regolare i poveri mariti , fe queste fi oftinaffero in voleres tutte le cose alla moda 2  Mer. Io non farei altro, che spiegare loro i seguenti vèrsi di Properzio ar. vocato di effe : Quid juvat arnato procedere vitta ca  pillo  Et tenues Cos vete movere finns? Aut quid orontea crines perfunderes mirra?  Teque peregrinis vendere muneribus? Naturęque decus mercato perdere cultu?  Nec finere in propriis membra nitere   bonis estir's Ed altroye: Nunc etiam infectos demens imitance  Britannos Ludis, o caterno gincta colore caput, E soggiunge :  Ut natura dedit, fic omnis recta figura,  Turpis Romano Belgicus ore colar E Plauto ancora, che pone in derisione queste  tante variazioni di mode : dicendo in Epidico  Quid ifta ? Quo quotannis nomina in In veniuntur noua Tunicam rallama tunicam spilam Linteulum, Cæcisium, Indosiatam, Palegiatam. Calšbulan,   aut Crocotulam. er. Pub. Allai meglio facente, Mecenate, a fare intendere loro ciò che dice San Cipriano dihi de babitu Kirginum ; ovewi  .  Ceterùm fi tu te fumptuofiùs cumas, per publicum notabiliter incedas , oculos in se juventutis illícias', fufpiria adolefcentum poft te trabas , concupifcendi libidinem nuFrias, peccandi fomitem yuccendas, ut fi ipfa non pereas, alios tamen perdas, velut gladium te, du venenum videntibus se prabeas * excufari non potes , quafi mente cafta fis, do pudica s redarguit te cultus improbus id impudicus ornatus , conforme lo fa conoscere Aufonio in Delia, od ei Delia, nos miramur ,'eft mirabile,  quod tam Diffimiles eftis ruque , fororque túa ; ?> Hæc habitu casta, cum non fit caffats  videtur, Tu preter cubium nil meretricis habes. Cum caffi nores sibi fint , buic cultus  honeftus, Te tamen, cultus damnat, caftus  cam.  Sem. Parfando ora all'ira , queltas noir mi pare, che abbia tanto dominio i nelle donne, quanto negli uomini, aven  do  [ocr errors] do veduto adirati più questi, che quelle alcune volte, che mi sono abbattuto seco in Gimili contingenze. x  Mec. Non doverebbero certamente le donne adirarfi ; pofciache divengono allora talmente deformi , che più non si riconoscono , .quanto mai li erasfigurano; onde avendo effe in orrore la deformità, doverebbero anche odia. re la cagione di essa ; Ma yoi , Sempro, nio, le averete facilmente trovate in bonaccia, non già in tempo di furore ; e perciò dite, che vi pajono gli uomini più colerici di esse; fe però vi foste abbattuto nel vedere adirata Ja moglie di quel povero, Grammatico riferito lepidamente da Ausonios diversamente para lcreste ; mentre di essa cosi dice: Anma', virumque docens, atque arma  virumque peritus. Non duxi uxorem , fed magis arma do  1 Namque dies fotos y Botafque ex ordine  ! noctes. Liribus oppugnat a, meques meumque  Ata  [ocr errors] M 3  giam !  Atque , ut perpetuis dotata à Marre  duellis risin Arma in me follit , nec datur ulla  quies: Jamque repugnanti dedam me, wide  nique victum Jurget ob hoc folùm, jurgia quod fuOltre di che Salomone, che non 'mentisce, dice ancora: non eft ira fuprà iram mulieris.  Sem. Non saranno però ofinate les donne, che averanno i marici più rifenciti di effe , e non tanto buoni, come era il sudetto Grammatico? 0:0,  Mec. L'oftinazione alle volte liavanza tanto in effe , che le rende incorre. gibili, come comprendercte ancora dal feguente avvenimento riferito dal Poga gi. Vi fu una di queste» che dopo ave. rc ricevuto moltisms bastonate da fuo marito, non potendola far ritrattare dall'ingiuria, che gli facea, chiamaadolo pidocchiofo,la calò anche nel poz .30, fin tanto che poteva parlare sem..  pre  [ocr errors] pre fu percinace nel medesimo disprego gio ; finalınente, avendo anche la te. ita fommersa nell'acqua, colle unghie de deti grosli soprappoftę gli faceva cenno di quello , che averebbe colla voce pronunziato, se avesse potuto Oltre di che il vizio della vendetta facilmente di collega con esse, dicendo: Giovenale: Vindicta Nemo magis gaudet, quam femina. Sem. Le finzioni, e le menzogne and che segno s'internano acll'animo dona, nesco? Mec. Nelle donne scaltrite più affai, che nelle milense: Ben è vero però, che se s'incontreranno in mariti accorti, apporteranno loro gran danno le proprio finzioni, e menzogne; come appunto seguì alla moglie di Teodofio à allas quale avendo egli donato un pomo di eccessiva grandezza, volle ella gratifi care con esso uno de principali Signori della corte, il quale due giorni dopo mandollo in dono all'Imperatore; quantunque mostrasse apparentemente di gradirlo n'ebbe per ò egli intern rammarico;perloche essendo cornato dipoi dall’Imperatrice, domandandole, se riteneva più quel bel pomo; gli rispose, che lo aveva mangiato, ed avendola pregata, che avesse fatta matura riflessione a quanto diceva, ella ostina. tamente confermava il suo derto; allora l'Imperatore per convincerla lo fè portare in sua presenza, ele disse: Voi Giete una finta donna ; ne mostrò in av. venire feco più confidenza.  Sem. Hò uditi con molto mio rammarico i difetri donnefchi; consolatemi ora voi, Publio, con riferirmi le Virtù delle donne, ed in ispecie qvelle, che ponno apportare profitto alli mariti. & Pub. La Prudenza, e l'Amore Gince. ro sono le principali virtù, che debbono risplendere nelle mogli. Sem. Ma di queste Virtù sono capaci Je donne? Pub. Non può dubitarf di ciòyinenero  le le ftorie non solamente profane, ma faa cre ancora lo confermano, e presentemente vediamo anche risplenderé mole cisime di effe con fimili virtù.  Sem. Perche duaque fi dice tanto ma le delle donne  Pub. La cagione di ciò la trovo in Euripide, il quale dice: Miferrimum eft muliebre genus , femel  Nam , quæ peccant etiam immeritis Dedecorifque funt mulieribus, communicant vituperium, Mala non malis, Ma questo, e un abuso grande, ed in. giusto posciache contro di noi altri uomini non si costumà addollarsi a' buon il vituperio de' cattivi, e qual ragione dunque vuole, che ciò militi contro di effe ? Ovidio però le difende da tale in. giusta maledicenza con dire:  Parcite paucarum diffundere crimen ist  Spectesur meritis quaque paella fuis.   Sem. Voglio credere che donnes prudenti vi siano ffate ayendo udita  rasa  omnes:  raccontare molci saggi farci delle Porzie, Cornelie , Paoline, e  Paoline, e di altre; Mà di queste , che con amore sincero abbianoamato i loro mariti vorrei udirne riferire qualche altro csempio per meglio accertarmene. Pub. Vi posso fodistare in questo picnamente, e principiando dal grande, e fincero amore', che mostrarono a loro mariti carcerarile donne Spartane;men. tre queste andando a visitarli li ferono vestirc de iloro abici, ed effc rimasero carcerate: pafferò poi a riferirvi, ciocche fè Cabadis Reina di Persia, la quale parimente liberò suo marito carcerato con vestirâ ella de' suoi abiti, e rima. nere priva della sua libertà , c vita ancora · Riferisce parimente il Tarcagnota un fatto molto riguardevole a tales proposito. Avendo ottenuto per capi. tolazione di uscire solamente le donne dalla città di Vespergia cariche di quello, che più loro piaceva, abbandonando queste oro, e supellectili preziose, she avevano, trasportarono sulle spal.  le  [ocr errors][ocr errors] le i loro più congiunti. Ed udite finalmencé un esempio singolare dell'amorce sincero di una saggia Regina, riferito dal Padre Cordier Roberto Re della gran Bertagna si trovava ferito con una laetta velenata , fu giudicato da’Medici per unico riinedio il farla succhiare da cui avesse voluto esporre la propria vita, per salvare quella del Re; la Regina sua moglie fi mostrò prontislima di farlo, ma non voleva in conto alcuno il Re permetterle, che si esponesse a tal pericolo. Chę fè l'amorosa moglic ! aspetto, che fosse addormentato, ed allora appunto, sciolta la ferita , succhiolla intrepidamente, e con tanto felice successo, che rifano il Re, senza riportarne nocumento alcuno l'amorosa Consorte.  Sem. Persevereranno queste prudenti, ed amorose consorti semipre nella. medesima forma? Pub. Se faranno i mariti prudenti in faperle bene diriggere, lo fåranto, come udirete nella seguente ConfeTenzi. CONFERENZA Come si debba regolare l'uomo colla moglie scelta di ottime qualità.  Sempronio, Publio, Mecenase ,  e Medico  M  Som.  perfuado, chief sendo la giovane di ottimi costumi,non civoglia grandparte nel regolarla, po  sciacche da se mca delima sapra ben governarsi.  Pub. Non è già così , Sempronio ; quantunque sia buona, ci vuole anche attenzione in reggerla , affinche non divenga cattiva , perche conforme fi dice, che prendendo marito, muci sta10, può anche cambiare costume; im, [ocr errors] L2perciocche il corso è di molti anni, é fi dee navigare in un mare, nel quale s'incontrano de'scogli, e continuando la metafora, descrittami da quel vecchio, che la donna sia la nave; questa quan. tunque non abbia difetto alcuno, da se fola, e senza chi la indirizzi, a fola di: screzione de' venti , che sono i suoi pen• ficri, non può giugnere al defiato porto della felicità , onde conviene, che l'uomo faccia da nocchiere, e non dor ma; quantunque fia bonaccia. Sem. Infegnatemi, dunque come do. vrò regolarmi, per non errare? Pub. Potrò riferirvila direzione del la quale io fteffo mi sono servito, eve: drete, fe questa vi aggrada. Sem. Avendola voi posta in esecuzio. nc felicemente, poffo fperarne anch'io profitto.  Pub. Ebbi alla prima quest'avverte11za di non addomesticarmi seco in ecceso fo, ma solamente, quanto bastava per -farle conoscere, ch'io l'ama, c perciò la rispetta, ferviva, ed oporava s  mà  mà çon tenere sempre un tale qual den, coroso fuftegno. Procurava in oltre, ché non iscopriffe il mio debole, c per fare prova del suo afferto, di quando in quando, mi facea da essa scorgere penberolo, ed alle volte ancora alquanto mesto: non li assicurava ella di ricerca. fc la cagione di ciòs solameore dopo qualche giorno, faccosi animo, mi diss fe: Signore, yorrei vedervi allegro, comc debbono essere i spost ; fe poffo io sollevarvi in cosa alcuna, eccomi pronta': comandatemi, ed indirizzatemi che non ricoferò di obbedirvi. Mi senti a tale corcese offerta immediatamente giubilare il cuore, e le rispoli con faccia ilare : Signora viringrazio delle obliganti esibizioni, che voi mi fate, u vi afficuro , che me nc prcvalerò, avendomi molto sollevato con questo voftro corcese parlare : E guitai immediatamente di quella confolazione registrata nell'Ecclesiastico al 26. Gratia mulieris -Sedula delectabit virum fuum, copaiba ljus impinguabit. Sem.  6  [ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse entrata in sospetto , che voi non l'aveste amata? Pub. Questo non poteva crederlo perche, come diffi, la rispetta, cd onora con particolare artenzione; cd essendo ella prudente, ben fi avvedeva, che della sua persona era sodisfattiffimo;  sospetta bensì, come mi riferi dipoi, il che da altre cagioni ciò veniffc; u  con bel modo tanto fè, che alla fine un i giorno, dapoi avere presa meco confia  denza maggiore, interrogandomi sopra ciò, seppe da me la cagione de' mici turbati penfiori; cioè: che questi dcrivavano dal timore, che io aveva di non cffere ancor baltantemente capace di cducare bene i figliuoli, e di non sapere mantenere fino alla morte il reciproco affetto coniugale a quel segno, che fi dovea. Sem. Che rispofe ella? Pub. Con volto ilare mi replicò, che a questo dovea anch'effa contribuire la sua parte , ic perciò ca ayefli pur deposto la metà di detti pensieri, ch'erano tuoi.  Sem.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se vi aveffe risposto; penfiamo ora a darci bel tempo : figliuoli non po abbiamo quando quefti nasceranno Gi farà, come li potrà, non ci contriftiamo ora di quello, che non è presente.  Pub. Non fi parlava così in quei rempi, ne' quali il divertimento non erao anche divenuto affare creduto rilevan. te, ed essenziale, che richiede sfe giornata intera ; era bensì creduco effenziale il provedere quanto faceva d'uopo, ed il prevedere ciocche poteva fuccca dere. Sem. Vi manrenne la parola data di sollevarvi , quando sopravenne il bisagno  Pub. Fè anche di vantaggio, pofcix che fcoperto ch'ebbi il suo buon animo, un giorno così le parlai: Signora mia, voglio, che camminiamo di buon conia certo in reggere la casa ; abbiamo tansto assegnamiento, che può bastare as Amantenerci nel nostro stato decorosamente ; pofliamo tenere tre fervitori, due per lei, ed uno per mc , una ser  [ocr errors] vente, ed una matrona, ed avere la  noftra carrozza, che serve ad ambiduc; of dividiamo ora l'incumbenza: voi pen+ ferere alla tavola, alle biancherie, ed  io al rimanente; dell'esazioni voglio  ne fiare anche voi consapevole per vom  ftro governo ; ficcome ancora dell'esito, per caminare di buon concerto tra  noi nello spendere: debiti non voglio  ne facciamo, nè avanzi considerabili  fino a tanto, che abbiamo l'assegnamento fiffo , c non amministriamo tutte le  rendite; e basterà, che solamente poniamo da parte ogni anno qualche cosa,  per fupplire alle stagioni fterili, alle ritardate rescoffioni, ed alle spese straordinarie, per non ritrovarci allora bilognosi di danaro: All'educazione de'figliuoli penseremo concordemente, allorche Iddio li manderà. Sem. Ed essa accettò queste brighe? Pub. Anziche mi ringraziò; mostrandofi contentissima, per averla pofta a parte del governo. Sem. E se aveffc risposto; io non vo- glio ingerirmi in questo affare ; pensateci voi, col maestro di casa; perche non voglio prendermi questo tedio?  Pub. Sarebbe stata troppo ardıca simile risposta in quei tempi, ne quali crano molto rispettati dalle mogli i mariti , contentandoli vivere subordinate ad effi, e non succedca già come dice l'Ecclefiaftico. Mulier si primatum babeat, contruria eft viro fuo; perche qucfta maggioranza non la godevano. Sem. Mà come riusciva in quelle cose , che le toccavano di fare?  Pub. A maraviglia bene; posciache aveva la matrona, ch'era donna savia, e consigliandosi con essa lei, divenne in breve tempo espertisfima in tutte quelle cose, che le appartenevano.  Sem. Chi potrà trovare oggidi quefta matrona non costumandosi più tal servigio? e poi quando anche si trovassc, diventerei ridicolo, se prendesi, per servire mia moglie, la matrona.  Pub. Perche ridicolo? forse che fa. rebbe cosa mal fatta?  Som.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. Non dico mal facta , mà effendo in disufo , farebbe segnato a dito, chi l'introduceffe.  Pub. Mà da chi? forse da' savj, u prudenti?  Sem. Non credo da questi ; mà bensi da tutti quelli, che non costumano te. nerla.  Pub. Or io di questi non mi prendcrei soggezione alcuna; mi dispiacereb. be bensì , che i savj biasimassero le mie operazioni; imperciocche possono farvi altro dispetto costoro,che non son savj, che di non conversare con esso voi? E che perdita da ciò riceverefte? ogni qual volta questo provenga, non per cagione di cosa malfatta, mà più tosto decorosa, ed onesta, che sono vantag. giose per voi ; nel qual caso efli li renderebbero meritevoli della censura de' savj. Io vi poffo ingenuamente confessare, che se non fosse stata in cafa mia la matrona, che avesse indirizato da pria. cipio la mia consorte, non averci già goduta quella tranquillità di animo fpe  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] rimentata fino al presente; posciacche questa matrona essendo nata civilmente, e così ancora trattata da me, dando alla mia conforte buoni conligli, la istruiva ottimamente, e perciò non vi è stata occasione alcuna di discordie tra noi; il che non sarebbe già seguito, se fi fosse configliata con qualche donnas ordinaria, e giovane, da cui facilmente pellimi consigli averebbe ricavati. Sem. Questa matrona itava al fervia gio attuale? Pub. Quantunque fosse falariata, era però distinta dall'altra donna, che mi serviva, e faceva molce cofe spontaneamente di più di quelle, che le toccavano, per l'amore, che portava alla casa, ove sperava terminare i suoi giorni; non costumandofi licenziare queste , fe non per cagioni assai gravi, le quali raro volte accadevano ; e quando la Signora partoriva , essendo pratichisimas; non li può esprimere , che aflistenza le presta in tutto quello, lc occorre; ed in tempo di malattie cra singolare;  2  re; oltre di che nell'educare bene i figliuoli, e le femine in ispecie, cra mol. to eccellente, sapendosi far amare, a rispettare insieme: or vedere voi quali danni ha apportato privarsi di effe. Sem. Mà perche è stato dismesso si buon fervigio ?  Pub. Io precisamente non lo sò, può essere, che sia noto a Mecenate.  Moc. Io ho udito riferire più voltes che queste volessero fare troppo lezelaati, e perciò fi fia verificato in esse la favola di Efopo, ove parla del trattata di accordo fatto tra il lupo, e la pecor ra,contro la soverchia custodia de' cani; e per verità, vi erano alcune, di esse, che facevano la guardia alle figliuolo più di quello , che facciano i cani alle pecore; -mà questo non era motivo fufficiente per dismettere un servigio cotanto utile al decoro, ed onestà dellas casa, conosciuto ciò, anche da Tibullo quantunque molto lascivo, mentre egli consigliò: At tu casto precor maneas, fanétique pue  Aft  [ocr errors] dorisa N3 Affideat cuftos fedula femper anus. Sem. Come regalavate, Publio, fperso la vostra sposa? Pub. Oltre le mancie solite del Natale, e del giorno mio natalizio, che consistevano in dodici piastre per.volta, e quando si riscotevano grosse somme, fempre qualche moneta di oro le davas, perche mi è piaciuto , ch'ella 'manegiafle danari. Sem. E che ne faceva. Pub. Quando arriva a cumulare la somma di cinquanta scudi , creava un cenfo, e la metà del frutcabo di effo dispensava a poveri, c fi verificava in lei ciò, che dice Salomone delle donne savie: Manum fuam aperuit sinopi , & palmias suas extendit ad pauperem , dell'altra si serviva per vestirdi:. ;1 Sem. E le fpilte non se l'era riservate ne' capicoli matrimoniali? LifPubi Questo non costumava allora non facendofi tanto consumo di effe,come 'oggidì, che liveste alla moda. Sem. Eche a non fi vertiva alla moda in quel temposPub. Si vestiva all'usanza propria det [ paese, quale era di non cangiare sì di  sovente, quella, che correva.  Sem. Non è questa la vera moda, mà bensì quella, che oggi si porta da paeli stranieri, ed indi a pochi meli, venen, done un'altra, la prima non si usa più , perche le ultiine sono quelle , che dilectano, ed appagano gli occhi .  Pub.E degli abiti di vecchia moda anche in buono essere che fe ne fa?  Sem. Si esitano a quel prezzo, che fi trova, e con discapito grandissimo,  Pub. Come costa questo vestire all? ultima moda, perche io, che vivo all antica, non ne sono in formato? Sem. Costa assai per verità, essendo che bisogna pagare sempre di più del suo valore quel drappo di nuova moda; mà ad alcuni ciò non da fastidio, perche i mercanti sono cosi cortesi', che lo danno in credenza. ti ''p  Pub. Questa , per parlarvi con tutta fincerità, mi pare la vera moda diandare in malora; perche estendo sì cari, Conf. Dec. prima ed il mercante volendo alla fine essere pagato, che si farà allora, non essendovi danaro per sodisfarlo? Mec. Si mucerà paese, e per verità quando questa nuova moda non era tanto in uso non si vedevano già i galant' uomini, divenuti per essa miserabili, nè mutare paese, essendo per loro poco sicuro quello, ove vestirono a tutta moda. Sem. Con chi coversava la vostra fposa? Pub. Con i suoi parenti più proflimi , li quali in giorni festivi, in occasione di male, ò di altri bisogni venivano as visitarci, ed altresì noi con effi loro facevamo.  Sem. Ma non recavano noja fimili conversazioni  Pub. Anzi erano di sollievo grandislimo; essendoche i capi di casa fi ritiravano in disparte a difcorrere fopra gť iatereffi domestici; consigliandosi tras loro, per meglio regolarti, nel far colcivare la campagna, ne irinvestimenti  da  da farsi, e nel governo economico della casa: le donne poi colli ragazzi, ftavano divertendosi tra loro. Sem. Ed in che?  Pub. Nel domandare, che profitto facevano i figliuoli, che belli premj avevano avuti da loro maestri, e come fi portavano le figliuole ne'loro lavori, i quali bene spesso portavano seco queste, per farli vedere ; e ciò serviva per  eccitar emulazione tra elli a portarli meglio in avvenire, lodandosi, e premiandos ancora chi s'era portato benc.  Sem. In detto tempo a costumavad giocare? Pub. Questo non fi fa, eccettuato, che in tempo di carnevalc.  Sem. Si giocava alle ombre in detto tempo? Pub. Questo si costumava; posciache ove si giocava, non vi era Sole. Sem. Voglio intendere colle carte di fpade, bastoni, coppe, e danari.  Pub. Queste ne pur si conoscevano in quel tempo da esse, e se l'avessero co  no  [ocr errors] nosciute, non averebbero giocato con carre tantó-misteriose, le quali fanno vedere , che le spade, i bastoni, e le coppe , malamente adoperate consumano tutto il danaro. Sim. Ele conedie li udivano allora? Pub. Queste erano frequentare', ò'da curiofi forestieri, è da paesani ožiofi per  alcro le donne se n'altenevano; e se non era più, che qualche rappresentazione facra, fatta di giorno, avevano rossore di comparirvi. Sem. Eli passeggi si costumavano ins quel tempo? Pub. Passeggiavano ancora, mà per essercitare iutto il corpo a beneficio della salute , non già come si fa oggidi, per 'indolirli folamente la schiena , a cagione di tanti inchini, che Gi fanno, fenza muovere un paffo.  Sem. Lecafe, come erano bene a dobbate  Pub. Asai meglio', che non sono adesso, rimirandovisi appcfi nelle pareti di effe akuni quadri di carte', ches  er  [ocr errors][ocr errors] ga in  erano le piante delle tenute, che si possedevano,dalle quali & ricavava groffi ffimo frutto, ed allora non vi era tanto luffo; poiche loro, ch'oggidì s'impie in apparenze superflue d'indorature, e nelle vanità alla moda, fi ipendeva in quei tempi assai meglio in compre diterreni, e di alcre cose fructifere. Ne si commettevano già furti di piatti, fottocoppe , bacili, candelieri, ed altri vali di argento ; perche questi allora. erano. assai meglio custoditi ; effendo pochi elli, che gli aveano, e perciò di rado ancora venivano adoperati. Sem. Sapete Mecenate, che mi crovo confuso a cagione di questo racconto fatró da Publio, riflettendo a ciò, che sarebbe più utile , mà non lo potrò seguitare, per il diverso costume introdotto oggidi; e dichiarandomi volere vivcre così, non troverò moglie; dall' altro canto a seguitare il modo, che si tiene, sono arrivato a comprendere , che è molto dannoso per cutti i verfi. Dunque che dovrò fare? Mec. Di non isbigottirvi punto per qucsto. Scegliete voi il modo, che credece migliore, e dichiaratevi pure apertamence , che questo volete seguitare e troverete ciò non oftante moglie, u forse senza d'uopo di ricercare tanto al minuto il costume; posciache quelles giovane,che si contenterà di essere tratcata in questa guisa , sarà certamente fac via, e bene accostumata.  Sem. Mà se le altre non la vorranno trattare per non seguitare ciocche effe fanno, come si troverà? Mec. Che pregiudizio risulterà a voi & ad effa da questo, che farebbe la voftra fortuna? anzi voi medelimo lo do. vreste procurare, affinche non la deviaf. sero dai suoi doveri.  Sem. Or io così farò, e dica ogn'uno ciocche vuole ; perche hò uditi molti mariti sospirare frequentemente; da che provenisse questo, non lo só precisamente, sò bene, che senza cordoglio non ti sospira . Or ditemi , che altro doverò fare per mantenerla costante nel  fuo  [ocr errors] suo buon costume?  Pub. Nun altro, che di non darle al. cun mal'esempio, e di tenerla continuamente occupata in devozioni; affari do. mestici; e nell'educazione de' figliuoli; perche la vita oziosa è pessima, dicenda l'Ecclefiaftico: Mitte illum in operationem, ne vacet; multam enim malitiam docuit otiofitas. Sem. Come mi dovrò contenere intorno alla devozione?  Pub. Le darete in questo voi huono esempio, conforme richiede l'obligo voltro ; imperciocche tanto io , quanto la mia conforte cravamo favoriti dal medesimo direttore spirituale , c trequentavamo sovvente le nostre devozioni; la sera poi colli figliuoli, e servitù fi recitavano alcune preci, e li leggevano anco libri fruttuosi per l'anima, ed in oltre da noi si sovvenivano bene spelso i poveri, e da ciò ne hò ricavato quel bene, che si trova registrato nell'Ecclefiaftico: Mulieris bona beatus Vir, numerus enim annorum illius duplex.  Sem. In che altri affari domestici la tenevate occupata? Pub. Effendomi avveduto, ch'aveya desiderio di copiosa biancheria , ordinavo, che fossero proveduti nelle fiere canape, lini, e cottone, é vedendole si rallegrava molto, e li faceva filare, e reffere a suo modo; e ciò per verità la teneva impiegata qualche ora del giorno , ingegnandosi ancor essa di filare , ò d'inaspare; e facendosi le bucate in casa, rinnacciava a maraviglia, quanto ne aveva bisogno, affieme colla matrona ; ed io rimirandola cosi diligente ne godevo fommamente, vedendo verificarsi in essa quella condizione ancora di donna saggia, descritta da Salomone: Quafivir lanam, d linum, operara eft confilio manuum suarum. Sem. La conducevate in Villa? Pub. In certe belle giornate lo praticavo; anzi che le faceva vedere le nostre tenute, e tutti quegli stabili, che la casa godeva in campagna, con istuirla ancora, sopra quello che si poteva  fars  [ocr errors] fare di van aggio, per renderli più frutriferi; sopra di che ne ricercavo ancora il suo parere, da poi che la vidi ben, informata di tutto  Sem. E qual bisogno avevate di configlio donnescovoi, che fiece sì esperto in tali affari?  Pub. Il prendere consiglio giova agli inesperti, e non pregiudica mai a i pratici; e poi sapere voi il mio fine qual’ era:che, se Iddio mi avesse chiamato a se prima di essa fosse riinasta informata. di tutte le cose: e sappiate, che le povere vedove sono gabbate da loro miniftri, quando non si trovano informace degl'interessi domestici; il che non legue già allorche fanno ciò, che debbas farsi. Ne crediate già , che sia cosa im, propria alle donne d'essere informate della campagna, ponendo tra le condizioni di saggia donna Salomone anche questa: Consideravit agrum, a emis eum: De fructu manuum fuarum planiavit vineam. Sem. Nell'educazione de' figliuoli,  che  [ocr errors] che diligenze usavate  Pub. Eravamo tanto io, quanto essas attentiffimi a tutte le loro operazioni, per poterli di ogni minimo difetto correggere da principio; eflendo che le piante velenose fi svellano alla primas con facilità grande dalla terra,mà allorche sono ben radicate v'è d'uopo di maggiore facica. E riflettendo che tanto si fà, e quanta industria si pones per ridurre docile un cavallo da maneggio, mi pare che questa sia più necessaria d'impiegarla a pro de' figliuoli, da quali vantaggi maggiori si ritraggono senza fallo, che da cavalli. Sem. Come viriusciva facile il correggerli? Pub. Per verità facilisimo, perche erano docili; e questo beneficio l'hò riconosciuto dal buon naturale della madre, il qual passò anche ne'figliuoli; scorgendoli bene spesso all'opposto i vizj de genitori paffare ne' figliuoli  ancora. Sem. Quale induftria usavate nel di. riggerli ?un canto viera l'altarino con tutti li suoi  Pub. La prima fu d'istruirli nella pietà cristiana, e d'insinuarla bene ne'lo. si ro cuori ; primieramente col buono  esempio, e poi colle parole; ed era vely ramente di consolazione grande il vede  re quei figliuolini attenti, e divoti nel fare orazioni ; e di poi, per meglio afficurarmi delle loro naturali inclinazioni, aveva fatto preparare per divertirli varie cose in una stanza spartata , ove in  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] arneli; sin altro l'armariuccio con certe armi di legno tinte, che sembravano di ferro ; vi erano ancora in altra parte din versi giocarelli puerili, ed altrove qual che libretto in una picciola scanzia ; c nelle ore di recreazione li conducevo ivi, affinche si divertisfero. Quei ch'erano portati dal genio all'Ecclefiaftico, correvano alla prima all'altarino, el ornavano in quella forma į che l'ayeano veduto in chiesa; e ciò serviva per renderli maggiormente attenti alla devozione: altri poi secondo le loro incli  O  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] na.  nazioni si divertiyano, coi libri, è colle armi,e di rado alcuni di efli li spas,   favano co i giocarelli; e stava attentiflimo osservando quelli, che perseveravano nel medesimo genio; perche conforme averete ancora voi osservato, non   è fempre uniforme l'inclinazione de’ragazzi, e mi sono finalmente accertato,  che quelli, ove il genio li porta,  sono stabiliti in esso divenuti adulti, coltivavperò sempre le loro inclinazioni,  vedendole disposte al buono. Mec. Gli Archieli foleano condurre i loro figliuoli ad una fiera, per comprendere i loro genj, e quei, che vedeano desiderosi di provederli de' libri, li mandano all'Accademia, quei poi, che aveano compiacimento a rimirare le armi, li deftinavano   per la   guerra. Sem. E le figliuole, che facevano? Pub. In altra ftanza fi syariavano,afliftite ò dalla Madre, ò dalla Matrona,ove erano coscinetti, per commodo das cucire ; ferri da fare calzette, piccio.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dell'Elezione della Mog. arr le conocchie, ecommode per filare ; e diverse pupazzine vestite, ò da spose, ò da monache ; ed ivi ancora chi affifteva loro', fcorgeva Vinclinazio ni, ch'avevano", rimirando a’quali di queste cose le porta il genio; ed in fatti quella, che si fè monaca, non si divertiva in altro, che in ispogliare, e rivestire la sua pupazzetta in abito da monaca, e l'altra, che prendette marito , sempre giocolava colla sua pupazzetta vestira da sposa. Sem. Felice coppia! non saprei anch' io abbattermi in simile compagnia. Pub. La troverete anche voi cercandola, perche non è già estinta nel mondo la razza di quelle di cui parlò l'Ecclesiastico. Mulier fortis obleEtat virum fuum, de annos vitæ illius in pace implebit. Sem. Sì bene, mà se per mia sventura m'incontrafí in una, che non fosse così buona; che doverò fare in sal caso? Meca, L'esaminereino nella venturas  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] conferenza, nella quale meglio anche apprenderete il modo, che dovrete tenere in, fare perseverare la buona, costante nel suo lodevole costume avendola scelta per vostra conforte, CON, the  te  CONFERENZA [ocr errors] Come si debbano regolare i faggi    mariti con le mogli imprudenti, e viziofe. Publio , Mecenate , Sempronio ,  & Medico  Pub.  O, ch' hò navigato lungo tempo per questo vasto Oceano degli ammogliati, posso servire di  fida scorta a voi,che doyete entrarvi. Le maffime principali, che dovrete tenere sono queste : primieramente di operare più col buono esempio, che con semplici parole, confessando Platone, ed Aristocile che maggiore profitto fi ricavava da ciò, che si vedeva fare a Socrate, che da' suoi morali documenci. Quindi è, che'Plutarco ne' suoi ammaestramenti matrimoniali ebbe a dire: che non preten. da il marito di far divenire la moglie buona economa , s'egli coll'esempio non le mostrerà efferlo anch'effo: onde non recherà maraviglia, ciocche diffos Ovidio. Dum fuit Artrides una contentus ,  illa, Caffà fuit, vitio eft improba fuftaus viri. Mec. L'esempio però di Socrate appresso la sua moglie Santippe nulla giovava,  Pub. Sapete perche ? Si abbatte il una donna talmente pazza, che dovea più tosto essere legata colle catene, che ammonita con esempi, e parole: mà di questo ne parleremo a suo tempo. Or proseguendo il mio discorso; in secondo luogo deesi togliere ogn'occasione, che possa farle cambiare di buona in cattiva, perciocche quantunque ottima da principio, per trascuraggine del marito può divenire peffima, ed in che  mo  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] modo uditelo da Euripide. Sed nunquam nunquam [ neque enim,  femel dicam  Oportet prudentes, quibus eft uxor,  Ad uxorem in domibus accedere finere  Mulieres, ipfæ enim præceptores funt malorum.  E che più ! Levina donna da principio  caftiffima per   la libertà, che le diede suo marito di andare vagando per il mondo , quanto , quanto si mutaffe  mutasse , sentitelo da questo Épigramma. Cafta , nec antiquis cedens Levina Sabinis,  Et quamvis tetrico triftior ipsa viro,  Dum modo Lucrino , modò fe permitrit Averno,  Et dum Bajanis fæpè fovetur aquis,  Incidit in flammam, juvenemque fequuta, relicto Conjuge, Penelopes venit, abiit Helena.  E d'onde ciò avvenne, se non dalla libertà, che le diede il marito ? Nè Mef-  salina averebbe già commessa quella sì  enorme scelleragine di sposarli con Silio [ocr errors][ocr errors][ocr errors] publicamente, e nel palazzo imperia, le , fe Claudio Imperatore l'avesse condotta seco ad Oftia; del qualc attentato parlandone Tacito arrivò a dire : laborabit annalium fides; c credete forse , che se Ottone non avesse lodata a quel segno la bellezza di Poppea Sabina sua moglie alla presenza di Nerone, glie l'averebbe tolta? non già; ma il pazzo arrivando a dire, nel levarsi dalla menfa dell'Imperatore, che se ne andavas lieto a trovare sua moglic stupore di bellezza, a lui solo concedura, e desiderata da tanti, e volete chc Nerone, udendolo non s'invaghisse di essa ?  Sem. Averanno forse da tenerli chiu. se le mogli per far verificare, ciocche disse il Satirico ? Pone feram choibe, fed quis custodiet  ipfos Custodesē cauta eft, & ab ipfis inci  pit uxor. Pub. Io non intendo dire questo, mà folamente di trattarle, come diffe Tacito del popolo Romano , che: nec tam,  tam  [ocr errors][ocr errors] fam feruitutem pati poteft, nec totam libertatem , cioè colla misura di mezo, discreta, e giudiziola e finalmente conviene compatire molte leggiere debolezze di effe con non farne calo, di quelle particolarmente, ove non si scorge malizia, e cattivo fine; ¢ quando mai vi fosse d'uopo di rimedio, non dee questo darsele in publico, nè con istrepito contenzioso, e riflettere a ciò, che dice Plutarco; che Venere fù collocata dagli antichi vicino a Mercurio, affinche con arte, ed avvedurezza, e non con violenza in tali faccende li procedesse ; e lasciando il profano da parte, vediamo che rispetto avesse a sua moglie il nostro primo padre Adaino : dipoi di avere detto, ch'era una porzione di se medesimo; cioè: cara de carne mea; soggiunse quamobrem relinquer bomo patrem fuum , & matrem, &adbarebit ukuri sud, do crunt duo in carne una Gen. Sem. Questo però mi reca gran tercore, perche se Adamo trattò così bere  sua:  sua mnoglie, ed erano nel Paradiso terrestre ; ne- ella poteva essere stata crea . ta da mano più perfetta, contuttociò ingannò suo marito a segno , che tutti noi ce ne risentiamo, che farà dunque una figliuola di essa in questo mondo?  Pub. Fu fedotta però dal serpente, allorche Adamo dormiva, onde apprendetene dà ciò questo documento: di non dormire, quando vi sia il serpente, che tenti sedurre voftra moglie.  Sem. Mà qual serpente ci sarebbe, se io sposarsi una giovane, che da zitellas aveffe dato sempre saggio di somma mo. deftia ; ed appena entrata in casa mias, cominciasse a dire; voglio un'altro abito alla nuova moda: queste gioje non; sono legate all'usanza; voglio lo scarabattolo, come hanno le altre mie  pari; qual ferpente la tenterebbe in questo caso, per farla parlare in tal guisa?  Pub. Sarebbero due non che un fojo, li serpenti; cioè l'eccessiva vanità, e l'ambizione proprie ò insinuate,e quefti converrebbe scacciarli,er.  [ocr errors] Sem. Ed in che modo? Pub. Voi averece già scelta la giova. CH  ne nata da? savj, e discreti parenti, and mutt  quali avrete facilmente manifeftato l'animo voftro , in che forma la vorretes trattare; accordandomi ciò, mi pare, cosa quasi impossibile, che una giovane  ben'educara possa alla prima avanzarsi Q  a domandare imperiosamente ciocche be brama; se pure non sarà stata mal con  figliata; da qualch’una poco prudente, i  onde per ovviare questo, converrà, che alla prima stiate attento di non farlas trattare, se non con quelle, che voiconoscerere savie, e prudenti, delle quali potrete essere sicuro, che non sarà configliata a questo; ò pure se voi medelimo nolle darete mal'esempio; conforme a questo proposito avvertiscePlutarco, ne? suoi precetti matrimoniali, oye dice; vir corporis ftudiofus, uxorem reddit la  sciviori cultui deditam ; voluptuofus amas, toriam, et libidinosam; boni, honestique  amator, modeftam, & honeftam: E sog. giugae di vantaggio; nè putes à super,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] mo,  fuis , profusifque fumptibus uxorem temperaturam; fi te ad hæc omnia minimè contemnentem confpiciat', quin potiùs auratis poculis , pietifqae cubiculis, mulorum, & equorum phaleris gaudentem videat; non enim fieri poteft, ut à mulieribus luxus removeatur, quo viri circumfluunt. Sem. Mà come farà praticabile il pri  se terrà visite publichce ove ogn' una farà a gara di comparire con maggior pompa dell'alere?  Pub. Se conoscerete, ch'ella abbias la prudenza della moglie di Focione, di cui già parlammo, permetteteglielo pure liberamente; perche farà della natura di quella , di cui parla l’Ecclefiaftico al cap. 26. Mulier fenfata, tacita non eft immutatio eruditæ animæ : mà per al. fro, se non farà di tal senno vi porrete ad evidente cimento di essere forzato a tractarla meglio delle altre , e con pompa maggiore, per esfere sposa novella.  Sem. Ma queste non si potranno fuggire; imperciocche lo potrebbero incon  fra:  [ocr errors] trare inimicizie, ricusa adofi ; ò per la a meno li darebbe moito da dire à tuttaa la città.  Pub. Se non si potranno fugire, e voi  permettetele.  [ocr errors] Sem. Mà facendolo poi bisognerà , che seguiti ciocche praticano le altre.  Pub. Non è da porsi in dubio.  Sem. Consigliacemi dụnque, che dovrò fare.  Pub. Non mi dà l'animo. Sem. E perche?  Pub. Perche scorgo più volonterolo voi di queste visite, di quello che sarà la voftra sposa, compiacendovi forse, che si vedano le vostre grandezze, e sono molti del vostro genio', che mostrano in apparenza dispiacimento di tal cosa, che internamente con ardenza la bra. mano; e fanno come diffe Tacito di Ti. berio: Specie recufantis vebementiffime cupiebat. Sem. Mà è possibile, che non ci siad mezo termine per isfuggire queste prime vifte, senza che rimanga alcuno disgutaco? Pub.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] Pub. Si potrebbe questo trovare,ogni qualvolta però non abbiate voi compia. çimento di averle. di Sem. E questo quale sarebbe?  Pub. Di condurre la vostra sposa fuofi della città in distanza tale, che non rioscisse facile alle altre di venirla a visitare.  Sem. E chi sà, se la sposa fi contentasse di questo?  Pub. Non vi contenterete voi; perciocche una giovane bene accostumatas farà ciocche vorrete : toccate voi ora colle mani, che i mariti sono per lo più arrefici delle loro ruine, e non le povere mogli.  Sem. Mà andando fuori, e poi tornando, faremo nei medefimi termini di prima, rispetto à queste visite :  Pub. Così credo anch'io ; pofciache vorrete fodisfare allora al desiderio,che avere di riceverle; mà udite di grazias, ciò che ne potrebbe nascere di buono da questa vostra lontananza dalla città: Che intanto voi col vostro giudizio po  tre  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] trefte istradarla in modo, che non sarà  poi facile, che diça , qucsto voglio, po: sciache le potrete far ben conoscere i  precipizi, che nascono dall'ecceffivo  lusso, ed i danni, che apporta l'ambi,  zione;ed averefte inoltre in quelto mentre, che dimorerete in villa , tempo op:  portuno d'istruirla ancora nella buona economia, la quale è l'unico antidoto  contro la prodiga vanità. Sem. Insegnatemi dunque, che dovrò  fare fin tanto che staremo in villa? Pub. Contratto, che averete trà voi quel santo amore conjugale, le farete comprendere, che guadagno abbia recato alla vostra casa l'efferyi portaticolà, e che per farle conoscere , che voi non l'avete fatto già per avarizia , ma per esimervi bensì dalle confuloni, u disturbi, che nascono da tante visite, e rivisite, che si costumano, donare ad effa la metà di detta somma avanzatas; affinche ne faccia una soccita di animali, ò la rinvesta a suo piacere, c commodo, e procurerete , che facendosi detta foccita, non abbia questa disgrazia alcuna per più anni, con foggiacere voi as quei discapiti, che l'inclemenza delle Stagioni potrebbero apportarle, e vedrete in atto pratico y qual amore effa. porrà all'economia. Le prime impresfioni sono quelle , le quali radicateli negli animi foftri tanto del bene', quanto del male, difficilmente fi cancellano più, mentre che,  Quo fuerit imbut a recens feruabir odo  rem  Tefta diu. Sem. Questo mi piace affaislimo; perche mi concilierà l'amore di essa, edonerò senza fare discapito alcuno ; mentre ciocche dono, rimane in cafa; mi farebbe discaro bensì, quando andaffe in börfá de mercanti: Mà se in progrefso di tempo desiderasse qualche abito , come mi dovrò regolare? Pub. Dovrete invigilare di provederla preventivamente di ciocche è necefsario al decente ornato, secondo il voItro grado ; affinche non sia forzatas  [ocr errors] chiedervi cosa alcuna. Sem. Mà se ciò non ostante lo facesse, hò da negarglielo?  Pub. Se voi la scorgerete attaccatas, al danaro non glielo negate , questo si, che in vece di spendere voi, date la moneta ad ella, acciocche la spenda a suo modo,  Mec. A questo proposito posso riferire un caso accaduto. Venne voglia ad una donna civile di farsi una certa scuffia alla moda; il di lei marito, ch' era accorto , non glie la negò; ben è vero,  che le diede il danaro nuovo di zecca per farsela ; ella cominciò à con, tare, e ricontare dette monete, li le parvero assai belle, e perciò non  s’induceva à spenderle; le domanda į egli pallato qualche tempo, se fi cras  ancora fatça la scuffia; cui rispose, che non aveva potuto trovare cosa appropo.  fito; le replica: fatela quando vi piaci ce, perche il danaro è vostro, e se lo Ha volere impiegare in altro, fate voi; mà ella non lo spese già per goderselo.  P  Sem :  [ocr errors] le qua  [ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse liberale ; che non fa. ceffe conto del danaro ?  Meo. In questo caso pariinente non mostrare renitenza in sodisfarla ; dite bensì, che commetterete fuori, e farété venire merletti più belli, e più alla moda di quei, che sono in città; perche intanto, ò le passerà la voglia di farsela, ò si murerà la moda , come si vede giornalmente accadere, e potrebbe anche darli il caso, che un giorno fi rendeffe capace di ciocche disse Crate, FILOSOFO: che ornamentum eft, quod orhaf:ornat autem quod mulierem boneftiorem reddit. Quindi è, che secondo quel detto greco:  Mulieri ornamentum mores, e non  [ocr errors] durum  Sem. E se le venisse tentazione di porfi qualche manteca nel viso, per comparire più vaga?  Pub.Ciò non dovrete tolerarlo in conto alcuno riso.it  Sem. Che averò da fare? sgridarlas .forse, e mortificarla inleme  Pub.  [ocr errors] fa  Pub. Questo poi nd; pofciache me. no verrece seco alle brutte, meglio semnot pre farà per voi, ed affinche possiate di in ciò regolarvi con prudenza, vi rifeac rirò per convincerle dolcemente, cioc  che dice Zenofonte nell'economico, ch' è questo: Die mihi uxor, nonne hisce legibus matrimonium inivimus, ut quod effet utrique faculsatum, invicem communica. remus? annuit illa . Jam ait , fi poftquam tu tuam portionem bonæ fidei contulifes, ego pro veris gammis fiétitias , prò auro puro, adulterinum darem, prò torquibus aureis vitrum auri bracteis oblitum prò monilibus folidis , ligna 'auro, argen to, incruftamentis obducta, num boni confuleres, aut judicares, me plus tibi contuliffe ; fi talibus technis tibi imponerem, quam fi quod baberem', uti eft in medium conferrem? quod illa excipiens , cave , inquit, ne mibi talis fis , neque enim te ex animo amare pollem; quo audiio ille fic perrexit : atqui nos in hoc potisimum convenimus, ut alter alteri corporum Noftrorum copiam faceremas, quod  P. 2  [ocr errors][ocr errors] h  cum  Pub. Nira maltrattato ?  cum uxor annuiset. Sum ne, inquit , tj bi gratior, aut carior futurus, fi corpins boc, uti eft, nullo medicamento vitiatum Communicem, an fi os,oculofque minio infestos tibi ofculandum preberem? At ego in. quit uxor; minimum nunquam attigerim, neque fucatos oculos gratius, quam tuos afpexerim . Et mihi , ait ille , puta mentem eamdem effe: nec tam mentito (quem tu cerufit, fib:oque inducis) colore delectari, quam tuo nativa. Quo tam commado sermone caftigata mulier abjecit omnia tectoria, formaque medicamenta. Onde di questo convincentissimo ragionamento vi potrete anche voi prevalere per ridurla a suoi doveri, senza contendere seco, Sem. E se diveniffe fastidiosa, iraconda, e garrula, che dovrò fare?  Pub. Tutto l'opposto di quello, che farà lei, imperciocche altrimenti sarà la. casa vostra un continuo inferno.  Sem. Come si potrà praticare questo  Pub. Non vi potrà fare mai peggio di uxor.  unda,  quello, che faceva Santippe a Socrate,  e pure la sopportava, come viene dea  scritto da Bigo poeta:  Ferendum eft  Socratis exemplo quodcumque peregerit  Xantippen, fiquidem convitia multas moventem, Cum blando argueret, fædatus defuper  Nil nifi deterso, poft tanta tonitrua,   dixit Vertice, se pluviam non ignorante se  quutang Sem. Bisognerebb’essere però Socrate per sopportare tanta ingiuria. Pub. Cominciando ad operare da Socrate potreste anche voi divenire simile ad esso ; posciache interrogato per qual cagion'cgli sopportava tanti strapazzi ricevuti dalla sua insolente moglie, risponde: Cum illam domi talem perpetior , infuefco, dw exerceor ,'ut ceterorum quoque foras patulantiam, et injuriam facia liùs feram; laonde con sopportare l'in  giu  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] P 3  [ocr errors] giurie della vostra moglie, diverreste Socrate anche voi.  Sem. Mà se fosse altera , ambiziosa di commandare, e non volesse fare ciocche dal marito le veniffe ordinato  Pub. Socrate sopportava questo ancora. Sem. Mà voi, Mecenate, che non fieţe Socrare, che fareste?  Mec. Vi posso riferire ciocche fecero alcuni in fimili casi, e con profitto . Vi fu una certa vedova, cui erano morti trè mariti, a cagione dei gran disgusti dati loro da essa ; non trovava questas più alcuno, che la volesse prendere per moglie, un giovane alla fine, sapendo ch'era divenuta inolto ricca la volle sposare; mà cosa fè questi? ordinò, che fosse trovato il cavallo più indomito, che fosse nella città, con ordinare al fuo cocchiero, che nella mattina feguente alle sue nozze lo avesse fatto andare furiosamente per il cortile del suo palazzo, e che avesse di poi eseguito puntualmente ciocche da esso gli fareb,  be  1  be stato comandato; in quella macci  na il cavallo fè furie grandi; venne cuole riosità alla sposa di vedere da che pro  cedesse quel gran rumore, che udivano in  si affacciò alla feneftra, e nel medesimo tempo ancora vi accorse lo sposo, il quale domandò al cocchiero , la cagione di ciò, cui rispose: Signore, è unas beftia, che non si può domare, e perciò ogni giorno farà il medesimo; allora egli comandò, che fosse trucidato, conforme crudelmente seguì; la povera sposa rimase attonita da sì risoluto comando, c voltatosi lo sposo verso di effa, le dice: Signora mia, quando le bestie non G poffono domare è necessario di venire à queste risoluzioni : das dovero, che mutò ella modo di vivere, e di leone divenne agnella. Vi fù parimente una moglie assai disobediente, alla quale avendo ordinato il marito, che non fosse uscita di casa ogni giorno, e tornata di  notte,  mà vedendo , che colle buone non ricavava profitto alcupo; udite un giorno quello le fece nel  [ocr errors] P 4  tor  tornare a casa : teneva'pronte le forfici, e le recise i capelli, dipoi le disse : oh adesso andare fuori di casa quando volete, che farete una bella comparsa: sapete  voi, che se ne aftenne, ed in avvenire fu più obediente a suo marito.  Sem. Vedete voi, Publio', che con mostrarsi risentito, si possono anco togliere i difetti donneschi?  Pub. Questi sono casi rariffimi, che felicemente riescano: I più frequenti però fanno vedere il contrario. Nacque una volta competenza tra il Sole e l'Aquilone, a chi di loro fosse riuscito più agevole, a togliere da dosso il mantello ad un viandante : si adoperò con tuttas la sua violenza il secondo, mà, ftringendoselo alla vita chi lo portava , non fu mai possibile farglielo lasciare : cominciò dipoi il Sole, senza usare violenza, a percuoterlo coi suoi continuati raggi ; refiftè egli per qualche spazio di tempo; mà alla fine & spogliò non solamente del mantello, ma del giuppone ancora; e da questa ápologo.com,  pren:  [ocr errors] i prenderete se riesca più utile la violenob za , ò la piacevolezza continuata per ri  muovere i difetti donneschi: ed OVIDIO (si veda)  che le conosce bene, così canta. Define, crede mibi, visin irritare vetado  Obfequio vinces aprius ipfe tuo. Sem. E se fosse ostinata in non volere cedere mai, mai , allorsì , crederei, che fosse d'uopo prevalera di quel rime  dio contenuto in questi due versi: Rendon più frutta donne, afini, e noci  A cbi ver loro ha le mani più atroci.  Pub. E da cui apprendeste, Sempronio, modo sì ingiusto, e villano das trattar le mogli? forse che dall'indiscreto Ercolano Sanese? il quale, conforme racconta il Dolce nel secondo del. le istituzioni delle donne, avendo comprati certi tordi , mentre li stava mangiando con sua moglie, le diffe ; se aveva mai veduti tordi più grassi di quelli ; vi replicò la moglie; ch'erano merli, mà, volendole far capire il marito, ch'erano tordi, non fu mai possibile, crsendofi oftinata nella sua falsa credenza;alla fine, dopo le contese, l'Ercolano fi avanzò a percuoterla col bastone, il quale non tolse già la sua pertinacias; posciache in capo all'anno disse al marito, che in quella medesima sera era Itata così malamente trattata per quei maledetti merli, ch'egli diceva essere tordi; e convennegli fare l'anniversario ancora , con batterla nuovamente, come accadè in molti anni seguenti. Or vedere, che profitto apportano le battiture alle donne pertinaci? Poteva l' Ercolano crederli anche per storni; perche ciò non diminuiva loro già il sapore: mà, se fosse egli stato sotto la censura di Catone, non averebbe certamente commesso fimili attentati; imperciocch'egli voleva, che i mariti, che percuotevano le mogli, foffero puniti col medesimo gastigo, che si dava a coloro,che rubavano nei tempi dei loro Dei, come riferisce Plutarco. ES. Crisosto. mo nella umilia epift. D. Pau. li ad Corinthios, così dice: Neque verberandam uxorem dico, abfit: ultima  nam  [ocr errors] 201  [ocr errors][ocr errors] namque ignominia eft non ejus qui verberatur , fed qui verberat &c. e dipoi,  vos viros illud admoneo , nullum fit tam  magnum peccatum, quod ad verberan-  dum uxorem vos compellat , per lo che  meritamente canta Guazzo: Offende il Cielo se il santo amor discioglie  Quel che con empia man baste la moglie.   Sem. E se si credesse impudica, li ha da fare da Socrate in permetterglielo ?  Pub. Questo poi nò : fi dee bene fare da Socrate in non ingannarsi nel crederla cale, quando non fosse ; perche alle volte la gelosia fà travedere le ombre per corpi; e fa credere, anche le menzogne rapportate da uomini sceleraci per cose vere; ed udite a tale proposito questo prodigioso fatto. Si trova al servigio di S.Elisabetta Regina di Portogallo un paggio di ottimi costumi, u perciò da effa amato, di cui si prevale  va per suo elemofiniero ; fu questi ca* lunniosamente imputato appreffo al Re  di soverchia confidenza verso la sua pa.  drona, ed anche reciproca di essa verso .  di  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] di lui; fu data credenza alla calunnia ; onde il Re adirato fè ordinare ad un  fornaciaro, che avesse gettato dentro l'ardente fornace il primo paggio, che nel di seguente gli mandava; comandò dunque all’innocente , che si portafíe colà; mà perche udà sonare la campana di una chiesa, mentre era in viaggio, la sua devozione lo spinse ad andare verso quella parte ove si trattenne in ascoltare più messe qualche spazio di tempo; mà, perche il Reviveva impaziente di udire il successo, ftimò bene inviarvi l'altro paggio calunniatore, il quale, essendo arrivato il primo , conseguì il meritato gastigo, ch'era preparato per l'innocente : ed arrivato poi il secondo portò al Re l'avvifo, di essere ftato ubbidito; e risaputali poscia las cagionedal Re, perche fosse egli indugiato tanto, ben si avvide della sua innocenza, e della giustizia di Dio. Viene riferito dal P. Crodier.  Sem. Mà corne potrò conoscere d'a. vere occafione di dubitarne con fondamento?  Pub  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Se voi per esempio non ufafte a ad  Jei tutta quella fedeltà dovuta , ò pure  se per cafî faceste conversare gioventù in più vistosa di voi, e con tutta libertà;  allorsì forse forse, che, se non fosse più, che la carta Penelope, ne potreste alquanto dubbitare.  Sem. Ed in questo caso, che dovrei fare per correggerla , e gaftigarla ancora bisognando?,  Pub. Bisogna , ch'esaminiamo prima chi foffe il reo principale in questo caso, se voi, ò essa?  Sem. Sarà essa lei , perche io voglio, che sia pudica. Pub. Voi volere, chefia, e fate ogni possibile, che non lia.  Sem. E come?  Pub. Con darle primieramente mali esmpio col vostro cattivo modo di operare; e poi con darle commodo di fare ciocche ella vuole. Credetemi, Semipronio, che le donne,se non hanno il  cattivo esempio dato loro di mariti, ad ditficilmente s'inducono a far male,  Scn  3  d  Sentite ciocche dice a tale proposito  Euripide, Stulla quidem fumus mulieres, non nego,  Cum autem infit hoc animis , peccat maritus Faftidiens connubia , imitari vult Mulier viruń, co aliui parare ama  fium. Ed operandosi in questa guisa, tutto questo procede per colpa de' mariti, e sentitene ora il parere de' Santi Padri, | Agostino così dice , de adult. conjug. Periniquum effe videsur, ut pudicitiam vir ab uxore exigat, cum ipse non exhibeat , ed inoltre dice , ui quales volumus uxores noftras invenire , ipfe nos inveniant , du fi intactam quærimus, intatti fimus ; c Lactanzio, de vero cul. Exemplo continentiæ docenda uxor, ut fe caftè gerat , iniquum eft enim, út id exigas, quod ipse præftare non poffis; e poco in appresso, uxorem ejus qui circa corrumpendas alienas uxores occupatur , exemplo ivcitatam, aut imitari se putare,aut vindicare; e l'uomo di Dio Giob  così parla, fi deceptum eft cor meum fue 2 per  per muliere, a fi ad oftium amici mei infi  diatus fum , fcortum alterius fit uxor mea, od fuper illam incurventur alii , e notare  quella parola alii, che denota, che non sarà un solo.  Sem. Ma se per colpa mia non venisse, ed ella fosse sì pazza , che volcsse trau dirini, che dovrò fare? Pub. Questo sarebbe caso rarissimo, s poiche avendola scelta di famiglia onorata; non facendole mancare cosa alcu. na, e non dandole veruna occalione di tradirvi, sarebbe una grandiflima ini. quità , fe lo faceffe ; in questo caso dunt. que da principio dovere stare vigilantes alla di lei custodia con fare molte caure diligenze. Sem. E da che me ne potrò avvedere?  Pub. In primo luogo dal suo affetto til vero, che s'intiepidirà verso di voi, ef  sendo che questo non può portarlo a dụe gel medesimo tempo  Sam.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse finta, come potrò di. stinguere il vero dal fimulato affetto ?  Mec. Con un poco di tempo ve ne av. vedreste beniffino, con dirle, che volete fare un lungo viaggio con essa lei, e cominciando a porre all'ordine ciocche fa di bisogno, per farvi conoscere risoluto ; può essere, che da principio diffimuli, onde se vedrete, che in progresso di tempo ella li contristi, almeno in assenza vostra , credere pure,  che qualche cattivo pensiere le va per las mente, essendo quaGi impollibile , che chi hà simili attacchi, non si rammari. chi allorche dee allontanarsi; e tanto maggiormente, quando non abbia avu. ta in altri tempi repugnanza alcuna di viaggiare.  Sem. Io che dovranno confiftere l'accennate diligenze ?  Pub. Principalmente in vedere, che fidata servicù voi avete in casa ; posciache, se farà al vostro servizio qualcuno bizarro, che faccia spese disorbitanti, di questi non vi fidate punto, che non  ten  [ocr errors] di tenga mano, perche d'onde gli vengoo? no l'entrate da spendere tanto, non ba  stando la sola paga per far queste ? licenziatelo dunque alla prima, e se il ma  le da ciò procedeffe, tal volta potrebbe in questo solamente bastare.In oltre sareb-'.  be anche ben fatto, sospettando voi dela la di lei fedeltà, d'intraprendere qualche viaggio ad onefto titolo di devozio  ne; con andare a visitare qualche Santi  tuario; ed in tale occasione le userere, delle cortesic più del ordinario, per riscaldare quell'affetto, che si era inties pidito verso di voi; e fatela girare un gran pezzo, che così le ritornerà il rens no, che aveva incominciato a perdere; e voi sapete, Dottore, quanto bene può apportare il viaggiare in questi casi.  Med. Certo è, che allontanandoci da quell'oggetto, che turba l'animo postro, può quefto più facilmcórc cálmarfi , conforme lo conobbe anche Proper: zio dicendo: Unum erit auxilium mutatis Cinthia terris  Quan 1  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Quantùm oculis, animo tàm procul ibis.  Amor. Ma per addurvi autoricà più propria vi apporterò ciò , che ne dice Cornclio Celso : Mutare debere regiones , fi mens redis , annua peregrinatione effe jaDandos. Sem. Hò da farne alla prima risenti. mento, cominciando a sospeccarne con fondamento  Pub. Questa è materia molto gelofa ; onde con prudenza grande doverà cratcarli, e con molta circospezione. Mec. Così credo anch'io, rifetten. do a ciò, che dice Ausonio: Toxica zelotipo dedit uxor maca ma  wire. Sem. Mà se il caso si avanzasse tant' oltre, che mi accertalli di tale misfatto?  Pub. Due rimedi ci sarebbero, un  o legalc, cl'altro suggerito dalla somma prudenza , o fancità,  Sem. Lasciamo il legale; l' altro qualid? Pub, Marc'Antonio FILOSOFO impera  [ocr errors] bi tore prudentissimo diffimula, come racconta Giulio Capitolino; il gran torto 1 fattogli da Faustina sua moglie, dicenddo di esso: tantùmque abfuiffe , ut de cas  ejufque adulteris fupplicium ex lege fumeret, ut illos fibi non ignotos (gran virtù  in chi tutto poteva ) pra ceteris ad ve#rios honores, & magistratus promoveret s  du in iis Tertullum, quem cum ea prandena sem aliquandò deprebenderat. E S.Paolo Eremita, come vien riferito da Socr. in fripart. Historia. Avendo ritrovato la sua moglie adultera, che fec' egli. Nil aliud , quam tacitè subrifis, jureque jurando affirmavit , fe nunquam cum ca concubiturum , ad adulterum au  tem; tibi, inquit , tam babeto, & cuma 1 difto adberemum abiit.  Mec. Rimali sorpreso da maraviglia, Dottore, quando lesti nel lib. de cap. util. ex adverfis, come mai il vostro Carda  no autore di esso ;' uomo sì celebre, vi abbia posto gli utili , che ne' possa riportare il marito dalla moglie adultera; pour essendoche quanto da fimile misfattorisulta , è tutto danno, e' vituperio.  Med. Non parla ivi il detto autore dell'utile onesto, e decorofo , mà bensi di quello, che si ricava (per servirmi della frase di Tacito) Ex induftria facinorofa ; ed avendo egli intrapreso l'affunto di ricavare da tutte le avverGità quell'utile, che ponno dare, da questo non si poteva ritrarne altro che un vàntaggio viziolo e detestabile chiamandolo egli medesimo:surpe auxilium.  Sem. E se li moftcafie gelola di me?  Pub. Sarebbe segno, che molto vi amasse, nel qual caso, facendole cono. fcere, che sono vani quei sospetti, che concepisce di voi, che vivete, comes debbono i buoni mariti, farebbe colas facile, che deponeffe tal gelosia. Sem. Ma se non vivefli offervantiflimo, ed andafli in qualche luogo un poco fospetto, solamente per divertirmi , mà fenza fare inale alcuno 1  Pub. Evoi tralasciate di andarvi,che così cesserà ancora.la gelosia; altrimensi quel vostro divercimento xi.cofterà  са  [ocr errors][ocr errors] caro , togliendovi la pace domesticas; e rifertere di grazia allo spaventofo fuccesso seguito nell'isola di Lenno; ove, le donne per gefolia z ch’ebbero, che i loro marici fi foffero invaghiti di alcune belle schiave, congiurarono contro di essi talmente, che divennero ftudiofamente tutte vedove in una notte: oltre di che, udite ciò, che dice l’Ecclefiaftico al 26. Dolor: cordis , do luctus mulier zelotipa : :  Sem. Mà se pretendeffe poi,che io so. disfaccffi al debito matrimoniale di vantaggio , che fosse convenevole, cho dovcrò fare?  Pub. Avendola voi scelta di buoni coo stumi, non avere da temere questo ; se pures non ile darete occasione di farlo!  Sem. E quale sarebbe questa ? Pub. Potrebb’essere il gran confumo di cioccolata , e pistachiara, di rosolà, e vini generosi, e di altre cose, che  accendeffero il sangue , che si faceffe in casa vostra ; orde basterebbe, che lo  toglie te via; imperciocche,  [ocr errors] Sine Cerere , Bacco friget Venus.  Sem. E se questo rimedio non baItasse?  Pub. Allor conviene ricorrere alla prudenza , con farle ben capire, che quello sarebbe il modo da farla divenire prettamente vedova; e che per non farle provare una così infelice fyenturas, dovete opporvi alle sue eccedenci brame. Mer. Ad un certo marito, che si tro. váva spesso in fimili angustie, gligiovò molto il fare l'astrologo, posciache non mostrava già di opporli a quanto deside, rava la moglie, ma bensì le diceva , ch' cra d'uopo trovare prima nell'Effemeri. di, se in quel punto G farebbe generato figliuolo sano; ed alle volte le dava ad intendere, che sarebbe nato cieco, altresi zoppo, onde in questo modo operava tanco, che li basta per indurre a fare a suo modo la credula moglie.  Sem. E se non volesse applicare a farai domestici, come mi doycrò conteacre ?  Pub.  7  [ocr errors][ocr errors] #1 Pub. Bisognerà , che voi claminiace boy  bene d'onde ciò provengà ; pofciache,  se nascesse per cagione di qualche indis1  posizione di testa sopravenutale il non ad potere applicare i converrebbe, che  voila comparifte, cd in tal caso potrcbI be fupplire la matróna a quanto ad ella  spettava, 18  Sem. Si che dunque non potrò fare di meno di non provedermi di questa matrona , potendonc avere bisogno grande di essa?  Pub. Questo non è da porta in dubbio, fe bramercte, che la direzione della vostra casa vada bene, e non vorrete voi medefimo fare da donna, Sem. E se non provcnifle dall'accennata cagiones  Pub. Doverete anche informarvi, se ciò procedeffe, perche qualcuno voftro favorito le volefle fare da sopraftante, il che non sarebbe conveniente, ed in tal calo to doverefte ammonire a defi. ftate, quando nollo vogliate rimuovere, ed allora vedretc, cho e Ha sarà appli  ciui 1 [ocr errors] cata, ò pure , se si divertisse ia altre cose per dare sodisfazione a voi, ael qual caso non potrebbe applicare alli facci domestici: per esempio, se vi veniffe voglia, che imparasse, a sonare, a cantare, e ballare, ò pure qualche linguage gio straniero, certamente, che non potrebbe ella applicare con attenzione a tante cose ; onde mutando voi fimile pensiero la vedrete tornare attentissima alle cose domeftiche,  Sem. Mà se non vi fosse alcuna delle fudette cagioni, mà che per il suo catcivo nacurale volesse inquietarmi con operare da pazza, che doverò fare?  Pub. S. Crisostomo insegna in questi casi gell’amilia 26. epist. 1. D. Pauli ad Corinthios, che cosa si debba fare: cioè quello, appunto, che pratica un buono agricoltore nel coltivare il sao campo, il quale, fe lo conosce sterile, procura di ajutarlo con industria, per farlo divenire fecondo; e non per questo, sem mentato che abbia ivi il grano, nafcendovi dell'erbs.catcive, si duglefe. co, perche le abbia prodotte ; mà beni sì con sofferenza grande le carpisce a po  co a poco, senza danneggiare punto  quel seme di frumento, che ivi vede - germogliato. Or perche non si ha dad  praticare il medesimo colla moglie? fors' ella è meno meritevole del campo di ricevere simili ajuti ? è forse il seme umano inferiore a quello del frumento? ed udice ciò, che dice il fudeko Santo: quotiescumque aliquid molefti domi contigerit, fi quid uxor peccaverit , confolare, cu noli marorem augere Licèt enim omnia proiicias, nibil, moleftius continger, quàm non, babere benevoham domi uxorem; licèt quodcumque dixeris peccafuni, nuha lum magis dolendum , quam cum uxorlu Jeditionem habere. Quod fi inuicemones ra ferenda funt , multo magis uxoris, fi pauper fi, noli exprobrare fistulta, noli ei infultare ; fed efto modeftior. Etes nim tuum membrum et Garo una fa&i cfis. Sed falta eft cbrid auracundai Igitus dolendum eft , nox irafcendum ut e poi soggiunge. Quod fi vorberaveris  [ocr errors][ocr errors] exafperabit morbum; afperisas enim mare fuetudine , , non alia afperitate disolui  Sem. E sc le veniffe voglia di vedere tutte le comedie , andare a' festini , c di frequentare tutti gli altri divertimenti, che doverò fare  Pub. Arendola alla prima assuefatta diversamente, come potrà venirle tale volonca ? E quando in particolare averà più figliuoli, ò pure farà anche gravida: non li potrebbe dare altro caso, che le faceftc mutare costume voi mcdefimo, divenendo curioso , c vagabondo : mantenetevi costaoce nel ben operare i ch'ella ancora persevererà nelles medefima forma; ed usatele ancora in quei tempi qualche amorevolezza di vantaggio, per tenerla contenta.  Mer. Questo lo credo anch'io ben fatto, avendo conosciuto un certò marito , cui era discaro, che la sua moglie, c figliuole fossero andate alle comedies & ad altre publiche feste, mà che cosas egli faceva ? in cambio di questo, leroy  [ocr errors] o galava in quei tempi frequencemente,  dando loro l'equivalente a quello, che  averebbe potuto spendere in fimili died vertimcoti; e quantunque ad effe dispia  cesse per allora di non andarvi, nulladi. meno vedendo quelle insolite cortelier,  si consolavano, e terminato poi ch'eras # quel tempo, diceva la madre alle fi  gliuole: nulla averemmo guadagnato di buono , se fossimo state alle comedie, dove che da non averle vedute, ne ab. biamo ricavato molto; e poi per verità erano una volta proibice alle donne certe feste notturne, come da LIVIO (si veda) si rica che in compendio, e questo: Viri per noctem fæminis, dousenere etati turpiter miscebantur . Qua nc comperts, fuere S.C. fublata, din mulros animadverfum fuit. E Svetonio lo conferma nella vita ancora di Octaviano Augusto  Sem. Ditemi finalmente, se uno avefin se pensiere di sposare una vedova, come du fi doverebbe regolare in diriggerla?  Pim. Se questa averà avuto un mari  [ocr errors] Ate condizioni unite è cosa difficilissima  ,co saggio, sarà facile parimente, che un altro faggio marito la poffa regolare, mà elsendo stata assuefatta di fare a sno - inodo, non si potrà mai piegare a far diversamente : posciache una pianta assodata con cattiva piega, non si può più addirizare. Io non consiglierei a prendere queste per moglie,se non chi(quando fosse tuttavia in età di farlo) si trovarfe molti figliuoli, e non avesse tempo d'invigilare attorno ad effi; e che fosse pienamente accertato, che la detta vedova avesse dato faggio di somma prudenza in casa del defonco marito; e che in oltre non avesse figliuoli proprj, nè fosse più in iftato di farli, e li trovaffe prospera falute; mà chi abbia tutte que  di trovarla dall'altro canto non essendoci queste, si prepari-pure a soffrire molti travagli, chi vorrà applicare a fimili matrimonj , poiche queste fogliono effere troppo scaltrite. Sem. Vado riflettendo, che molti di Q uesti buoni consigli non saranno prati  [ocr errors] [ocr errors] [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cabili nei nostri tempi, onde se I ddio non ci provede , non sò come potremo più softenerci in avvenire. Pub. Perche non sono praticabili forse che non dipende ciò da voi?  Sem. Dipende da me , mà è dura cosa di essere il primo riformatore degli abusi.  Pub. Non si fanno già queste riforme colla corda al collo, come disponevano le leggi di Ligurgo; c poi non sareste già il primo voi , essendoci i Curj oggidi ancora, ma questi non si rimirano già per non averli da in mirare; onde questo sarebbe appunto quello , che vi doverebbe animare a farlo: posciachei non volendovi gli altri seguitare, non riferterebbero con attenzione a quello, che voi operafte.  Sem. E nella ventura Conferenza sopra clie fi tratterà? Pub. Bisognerebbe confolave quelle povere mogli-faggie, che G abbattono in mariti viziofi, ed insegnare loro coinc debbanfi contenere in simile sveninca.CONFERENZA Sopra i ripieghi prudenziali, che debbonsi prendere in diverse occorrenze dalle mogli saggic, incontrandosi in viziosi, ed indiscreti  mariti.  Sempronio, Publio, Mecenate,  € Medico. Semi mag Iferitemi, Publio,  quali sono i vizj,de'  mariti cattivi. Pub. Questi sono molti, e forse non minori  di quelli delle mogli pellime : iinperciocche , fe farà egli trascurato, da tal difetto ne verrà il precipizio di tutta la casa: se prodigo peggio che peggio : se avaro, farà mancare ancora quello, che sarà necefsario: fe fcapestrato, guai a quella povera moglie, che dovrà combattere  fe  [ocr errors] [ocr errors] seco: se giocatore , fi porrà a pericolo in una sola notte di perdere quan, to egli possiede : se lascivo, non li con. tenterà dell'onesto: fe affatto impotente, poco amore per lo più suole avere verso la moglie : sc goloso fuori dimo. do, oltre di soggiacere a continue infermità, è oppresso anche da dobbiti. Or vedere in che miserie Gi troveranno le saggie donnc in mano di costoro? E se per disgrazia fi abbattessero ancosa in taluno debole di senno, che avesse appresso di se qualche servitore fcal. trito, il quale lo dominaffe, c lo facesse fare a suo modo, oh quanti disaggi se converebbe soffrire !  Sem. Come dunque li doverà regolare una donna saggia , ed attenta col 04rito trascurato ? Pub. Con ama rlo teneramente, quancunque fi avveg ga della sua trascurag. gine.  Sem. E come lo potrà fare? Pub. La prudenza le infinuerà di far. lo, per vedere , fe per questa via lo po  acres  [ocr errors][ocr errors] réffe indurre ad essere applicato,, perciocche, fe per sua sventura facefle il contrario, e cominciasse a sgridarlo , certamente ch'egli si mostrerebbe assai più trascurato ; e credete pure per  co. fa certa, che colle buone più profitto ne ricaverà, che irritandolo.  Sem. E se vedeffe , che ciò non ostanu Te', continuasse ad cssere trascurato , doyrå ella perfeverare in questo grand'amore? Pub. Senza fallo ; anzi che, invece di scemarlo; più costo, glie lo dee accrescere; poscia sche, se non sarà più , 'che'affatto iosensato, fi avvedrà alla fine, che lo ama di puro caore ; ed accertatoli di questo, come potrà fare di meno di non amarla anch'effo ? Platone, allorche gli fu riferito, che Zenocrate Two scolare enipiamente parlaffe di esso, * *ffpofe : non essere credibile : ut quem tantoperè amaret , ab eo invicem non di  ligeretur; ed intal proposito dice Sene• Ed Lpift.g. Ego tibi monftrabo amatorium Dane medicamente fine berba , fine ullius  0  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] er veneficæ carmine; fi vis amari, amau. :l Ed udite anche ciò, che dice S. Ago  stino : Nulla est major ad amorem in vitai tio , quam prævenire amando. Sem. E che le gioverà questo reciproco amore , quando le cose domestiche andranno di male in peggio? Pub. Assai più di quello , che voi credete; imperciocche quando sarà ac. certata di questo reciproco amore, ed informata insieme dei disordini domestici, in certe congiunture, che le donne fanno prendere, lo saprà con dolci  maniere ben'effa illuminare. f Sem. Ed illuminato , che fosse, se  non sarà capace di operare di vantaggio, a che gli potrà servire? Pub. A molte cose ; imperciocche prenderà ben' ella un'alera simile congiuntura, e ne otterrà ciò, che saprà bramare; che farà appunto il maneggio dispotico della casa: e vi pare, che questo amore abbia operato poco a far. le spuntare tanto dominio? Sem. E se glie lo negasse? R  Pube  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Non è possibile, che ciò faccia, se pon farà più che inumano. Sem. E se fosse?  Pub. Allora converrebbe prendersi altre vie, senza però scemare punto del suo cordiale affetto. Sem. Queste quali sarebbero ?  Pub. Essendo egli trascurato sarebbe cosa facile, che potesse la saggia donna trovare qualche buon canale fecreto,da far penetrare a chi comanda lo stato, nel qual li trova quella infelice casa. Sem. Basterà poi questo , per farlo divenire applicato?  Pub. Oh quanto opera tale istanzas fatta da faggia, e pudica moglie! si udirå all'improviso dichiarato unEconomo al trascurato marito, e si verificherà in Jui il proverbio di Salomone: Qui ftultus eft ferviat fapienti ; ò pure quell’al  feruus fapiens dominabitur stultis filiis : e recherà ammirazione, che non potrà penetrare, donde fia provenuta tale istanza, non potendosi egli mai persuadere, che l'abbia procurata la sofferentiffima moglie. Ed ecco rimediato    a tutto senza strepito, e concesa alcuna;  non dovendosi a queste esporre le fag-  gie donne; conformc lo dimostra il sacrificio, che costumava presso i gentili  farsi 2 Giunone Dea delle nozze, cui  non ardevano già le vittime, alle quali  non era stato prima levato il fiele, eget-  taro via , per denotare, che non debbano mai marito, e moglie adirarsi insieme. Sem. Qualche volta però è riuscito  alla moglie, che ha mostrato perto , di  ottenere ciocche voleva da suo marito.   Pub. Sì bene dal marito prudente,mà non già dall'imprudente , e vizioso . Santipre non averebbe già fatto fare a fuo modo , fe invece di Socrate foffe stato marito suo l'Ercolano, di cui parlammo ; e ragionando noi ora de' mariti viziosi, e mogli saggie, nulla gioverebbe a queste,il  mostrare petto;anzi facendolo doverebbero cancellarsi dal numero delle prudenti. mi Se fosse prodigo, come ella si  [ocr errors] dovrà contenere ?  Pub. Oltre di amarlo, come si è detto di sopra, dovrà guardarsi dal riprenderlo soverchiamente, e con modi aspri per non irritarlo maggiormente; insegnando Plutarco, che l'austerità della donna dee, come quella del vino , renderá giovevole, e grata , non già amara, e dispettosa, conforme quella del. l'aloe.  Sem. S'indurrà facilmente la moglie, per goder ella ancora de' suoi fcialacqui, a non riprenderlo. Pub. Non è così ; perciocche la donna faggia patisce fuori di modo, nel vedere dilapidarsi la casa; anzi che procurerà di non goderli per quanto può, u fi conterrà nel vestire pulita si, ma senza alcuna vanità; mostrando Plutarco, che l'unico mezo per acquistarli la grazia del marito, fia la vita esemplare, lontana da cutte le vanità superflue: cu quando il marito, la volefie forzare a far diversamente, sarà capace di scusarfi con un santo pretesto di divozione,  dal  [ocr errors][ocr errors] dal quale venga moffa a vestirsi di unj abito votivo, cd accompagnerà ancor'a questo astinenze, ed orazioni, per ottenere da Dio la grazia , che il marito fi ravvegga.  Sem. E le ciò non ostante, egli continuafle nella medelima forma , non sarebbe pur ineglio, che godesse ancor essa, potendo in tal guisa dar gusto as suo marito?  Pub. Non lo farà essendo prudente; perciocche considererà , ch' essendo due a dilapidare, più prestamente si darebbe fondo a tutto; mentre due deAtrieri, che concordemente corrono al precipizio, poco indugiano a cadervi; dove che, quando uno di essi è refio, lo può ritardare di vantaggio.  Sem. Sin ora però non iscorgo riparo alcuno. Pub. E credere voi, che il marito , vedendola così ben composta, e così esemplare nella modestia, a lungo andare non s'illumini? Quello esempio, çh'egli avrà continuamente avanti gli  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] occhi, sarà di tanta efficacia, che finalmente lo farà rayvedere: ed udite ciò, che dice Euripide a cale proposito: Domiperdam etiam virum probibet  UXOR  Bona, ci conjuncta , fervat domum. Mà meglio ancora apprenderete tal verità da S. Crisostomo in Joan. Homil. Nil potentius muliere bona ad inftruendum, & informandum virum, quodcumque voluerit: neque tam lenitèr amicos, neque, magistros , neque Principes patietur, ut conjugem admonentem , atque consulentem. Habet enim voluptatem. quamdam admonitio uxoria, cum plurimùm amet, cui consulit. Multos poffums afferre viros asperos, immises per uxores mites redditos, & manfuetos; ipfa enim mensa, lector. E conclude:fi prudens erit, & diligens, omnes vincot.  Sem. Tutto questo bene si potrà ottenere, allorche avrà dilapidato ogni cosa; ed à che le potrà giovare l'effersi tanto affaticata, allorche averà ricevu., to il colpo facade? Pub.  [ocr errors] Pub. Non è così, Sempronio; perche se indugiass’egli molto à ravvedersi, non già trascureranno i propri parenti ò pure  colui, che aveffe con autorità suprema a porgervi riparo, mossi dalla gran sofferenza della saggia donna. Sem. Ma non sarebbe rimedio più speditivo, che intentasse la donna il giudizio contro di esso, per farlo dichiarare dilapidatore?  Pub. Questo non farà mai chi è saggia; perche considererà molto bene, che dopo un simile paffo non vi sarebbe più pace tra loro : e poi diciamola giusta, per via di liti, se facesse il marito comparire, che in vece di effere dilapidatore, fosse più costo economo, che cosa se li potrebbe fare? sapete pure, che i raggiri non mancano.  Sem. Quale sarebbe dunque il rimedio per ovviare fimil male , quando colle buone non si potesse ottenere? Pub. Di porre un'altra testa capace à governare bene la casa, in vece di quella, che governava male, qual sarebbeappunto un'altro Economo, per fare verificare ciò, che dispone l'Ecclesiaste: Servo fenfato liberi serviant.  Sem. Io bisogna, che parli, come la intendo: ho veduto alcuni Economi in breve tempo arricchirsi con queste ainministrazioni; onde non vorrei, che simili economati servissero di apparenza; mà che poi in sostanza le cose continuaffero nella medesima forina ad andar male; con questa differenza solamente; che quello, che si deteriora, non apparisca, passando nascostamente in borsa dell'Economo; il che mi perfuado, che possa esser'errore peggiore del primo ; mentre facendolo il padrone confumerebbe il suo; mà l'Economo fi  apo proprierebbe quello degli altri. Pub. E di quelli , che hanno amministrato con ucile considerabile dell' economato, ne avete veduto alcuno?  Sem. Di questi ancora.  Pub. E de' prodighi , chi avete osservato, che non abbia dissipato tutto il  fuo? Serg  Sem. A lungo andare niuno. meh Pube Or dunque complirà alla Republica, che vi sia detto economato; e 1 particolarmente, se la moglie sarà pruI dente, e non vorrà anch'essa approvece ciarsi di qualche cosa; nel qual caso i non potrà già l'Economo fare dispotica  mente a suo piacere, avendo ch’invigi  li attentamente alle sue operazioni : 0 i poi se questi si arricchiscano, ponno far  lo con altri impieghi onoratamente, essendo uomini di somma abilità.  Sem. Mà non sarebbe meglio, che separasse la sua dote, e riconoscesse il fuo? Pub. Queste voci di mio, e tuo non sonavano bene alle orecchie di Platone; e le detesta Plutarco in bocca delle mogli, volendo che tanto il bene, quanto il inale sia comune tra efli: ed io credo, che questa reciproca comunanzas fia molco vantaggiosa per il marito; pera che se la moglie crederà per sue ancora tutte l'entrate della casa, non ispenderà con tanta facilità queste in cose sus  per:  [ocr errors] perAue , essendo le donne di natura tenacissiine nello spropiarsi del proprio.  Sem. E se foffe Avaro a quel segno, che per ingordigia di cumulare moltoro facesse mancare il bisognevole alla moglie, ed a' suoi figliuoli?  Pub. Questo non dovrebbe farsi, e da persone civili maggiormente, essendo padri di famiglia ; tanto per non dire a’figliuoli mal'esempio , quanto perche dee l'uomo civile lasciare a posteri gloriosa memoria di se medesimo; questa non si acquista già mediante l'oro viziosamente radunato; perche non sarà più suo dopo morte, passando all' erede, per lo più prodigo, il dominio di effo, il quale scialacquandolo ravviverà bensì l'ignominiosa memoria dell'Avaro, che lo cumulò; dicendo ogn'uno allorche lo vedrà spendere malamente in bagordi , crapole, e luffi: vedere dove và l'oro dell'Avaro? onde à che gli sarà servito l'effere stato tiranno di se medesimo nel cumularlo, e che bei vantaggi ne avrà riportato? Quindi è, che  non  0.  non senza inistero fà da un'ombra del suo inferno domandare ALIGHIERI (si veda) all'Avaro. Dicci, che 'l sai, di che sapor è loro 3 Mec. Se l'avesse doinandato à Crasso, averebbe risposto francamente, ch'era molto amaro amaro, come dice il Petrarca.  E vidi Ciro più di sangue avaro ,  Che Crafo d'oro, e l'un, e l'altro n'ebbe  Tunto alla fin, che a ciascun parves   amaro. Mec. Fu data una bella risposta à colui, che trovandosi presente al sontuoGislimo funerale fatto dal figliuolo generoso al Padre zvaro, domandò ad un suo amico : che averebbe detto il defonto se fosse risuscitato, ed avefle veduti tanti lumi di cera ardere nel medesimo tempo, quando egli vivente, in casa sua, non pocea Coffrire , che più di una lucer, na di olio ardeffe ; cui rispose : nullas certamente, posciache tuito s'impic-. gherebbe in estinguere prestamente col suo fiato quei lumi, affinche non li logoralsero di vantaggio; ayerebbe bensi  [ocr errors][ocr errors] mu  mutato con sollecitudine il testamento; perche tal generoso erede non gli sareb. be piaciuto.  Sem. Vorrei sapere, che dovrà fare la povera moglie, e come lo potrà amare, trovandosi priva del bisognevole?  Pub. Ciò non oftante conviene, che lo ami, lo serva, e gli faccia tutte le maggiori finezze poslībili, con mostrarne anche piacere de' suoi sordidi avanzi, fintanto che sarà divenuta padrona del suo cuore per regolarlo à suo modo. Sem. E questo appunto egli defidererà; mà in tanto la meschina patirà doppiamente, facendolo di contragenio. Pub. Abbia un poco più di sofferenza; perche guadagnato, che avrà l'animo di esso, farà allora ciocche vuole, essendoci moltissimi esempj di Avari fatti divenire anche prodighi dalle mogli; onde quanto sarà più facile a renderli persuali, di dover fare le loro convenienze:  Mec. Si racconta dal Sabellico un ingegnosa maniera, della quale si servi ladem faggia moglie di un Signore molto avatro. Questi per ammassare quantità im  mensa di oro, che si produceva dalle di miniere, scoperte nel suo dominio, tei nea impiegati à tal opera tutti i conta  dini, che coltivavano la tèrra ; e perciò n'era nata grandissima carestia, per la quale correva pericolo di essere tagliato in pezzi l'autore di essa, se las iaggia moglie colla sua prudenza non lo aveffe illuminato. Questa dipoi di csferfi ben internata nel suo affetto fè dan molti artefici formare coll'oro tante vivande, quante n'erano necessarie in un sontuosislimo banchetto, e perfezionare segretamente che furono , invitò fuo marito à definare nel suo appartamento, e portatovig rimase egli ammirara allas  prima, nel vedere quel sontuoso imbardimento di vivande, tutte di oro, e fi persuade, che ciò fosse itato fatto per ; una.vaga prima comparsa ; mà rimirane. do in appresso, che non compariva a'.tro, che oro in varie forme di vivaride lavorato , le disse ; Signora; e quan  do  do verranno le vivande da potersi mangiare ? Replicogli la moglie, che trovandosi tutti li contadini applicati alle miniere , non si attendeva più à coltivare la terra ; onde bisognava accomodarsi à mangiare oro, perche de' soliti comestibili già si penuriavad affatto ; fi avvide egli del suo errore , e fe dismettere tal lavoro per attendere à quello, ch'era più neceffario, e dopo piamente utile per la conservazione del suo individuo. Sem. Essendo il marito scapestrato , che cosa dovrà fare l'infelice moglie?  Pub. Arinarsi di' una santa sofferenza con amarlo più, che sia possibile. Sem. Maltrattando però anch' ellas con fatti, econ parole; non sò, come potrà continuare ad amarlo, e fopportarlo. Pub. Non potendosi cimentare seco la saggia moglie, non potrà farne di meno; perche altrimentine anderebbe sempre  di sotto ; come accenna OVIDIO (si veda) nei Fasti. Quid faciet? pugnet? Vincetur fæmina  pugnans. E parlando altrove d'Ipemnestra, le fe dire : Che deggio io far del ferro? in che con  viene Coll’armi una donzella 2 io più conformi Ho le braccia, le man, la forza, ib  cuore  All'ago, all'apo , alla conocchia, al  fufo, Che all'armi crude, e bellicosi ferri . Laonde sempre meglio farà à soffrire, 1 andandolo bensì illuminando a poco ad  poco con dolci modi, mediante i quali le fiere stesse depongono la loro crudel. tà; e s'egli non averà un cuore più cru  do di quello delleone , non incrudelirà - certamente contro di essa, raccontando  Plinio di questo animale : ubi sævis, in  viros, plus, quam in fæminas fremeres 1 veluti natura eum docuerit mulieres mi  tius, quam viros elle tractandas. E for tuttavia perseverasse à rampognarla, si  serva di quell'avvertimento, che diero  no  [ocr errors] no i capitani di Ciro ai suoi soldati : che venendo i loro inimici alla zuffa gridan. do , con silenzio gli avessero accolti ; mà se tacendo, andassero efli ad inveftirli gridando; dal che ne cavo Plutarco layvertimento, che debbano tacere le donne, allorche vedono i mariti adiraci; quando sono mesti bensì debbano animarli, e dar loro sollievo con affettuose, ed efficaci parole.  Sem. Voglio credere, che la moglie manierosa lo possa addolcire à fine, che seco non contrasti; mà fuori di casa come lo potrà trattenere, che non prenda impegni di duelli, ò di riffe?  Pub. Quello , che seguirà fuori di casa, essa non potrà cercamente impedirlo, essendoche non dee andargli appreffo; lo domerà bensì in questo caso qualcun'altro, perche vexatio dat intellecium ; onde maltrattandolo qualcuno, ò effo altri, in ambidue i modi  potrebbe mettere giudizio; poiche, feri. ceverà, oh quanti mutano vita dopo di avere fofferta qualche disgrazia confide.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] derabile , e se offenderà altri, il gasti. go ancora, che gli sovrasterà lo potrebu be far ravvederc .  Mer. Hò conosciuto molti di questi , che hanno perseverato qualche tempo nelle loro stravaganze, e poi si sono domati, e particolarmente quei, che hanno sofferte considerabili sventure.  Pub. Alcuni di questi ancora si ravveggono allor , che divengono padri di numerosa famiglia, crescendo loro il pensiero di provederla , e particolarmente avendo molte figliuole ; onde non dee mai la saggia donna disguItarsi con fimili mariti; dee bensì raccomandarli al Signore , che li faccia ravvedere , ed abbandonando le vanità mondanc, attendere al governo dellas sua casa più diligentemente, che sia poflibile.  Sem. Essendo giocatore, come dovrà regolarsi con esso lui ? converrà che lo seguiti anch'essa per darli sodisfazione? Pub. Per andare in rovina prestamente, cosi potrebbe fare. Sem. Forse che nò; perche tal volta perdendo uno, vincerebbe l'altra, e maggiormente, che sogliono le donne vincere sempre ; onde potrebbero andare le cose compensate, e senza veruno discapito. Pub. E se perdessero ambidue, bella compensazione , che seguirebbe! Le donne possono vincere con licurezza solamente quando si contentino di fares perdite maggiori,terminato il giuoco, è prima di principiarlo; per altro sono anch'esse soggette alle perdite.  Mec. E curiofo,ciò che accadette una volta in mia presenza : giocava un mio amico con una donna alquanto atrempata, ed avendo egli carte superiori, io gli disli, che non le avesse scoperte, e fi foffe fatto vincere, giocando con una donna. Questi mi rispose, che non las teneva più per donna altrimenti, avendo passico li quaranta anni, mà bensì per uomo.  Sem. Or ditemi, che cosa debbas fare?  Pub.  [ocr errors][ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Amare, e sopportare il marito, ed i suoi difetti.  Sem. Questa è la solita canzona; mà intanto in una notte potrebbe giocarsi tutto il suo; ed allora che le averebbe  giovato l'amare, ed il sopportare? I.  Pub. Dite voi dunque ciò, che dovesse fare per darvi più opportuno riparo .  Sem. Diricorrere, farqi sentire con iftrepito, per impedire, che non potefse più giocare.  Pub. Oh bene ! É non sapete voi, che nitimur in vetitum ; onde questo sarebbe à appunto il motivo di fargliene venire  maggior desiderio di prima ; e se avesse dismesso per lo passato il giuoco à meza notte, di farglielo durare in avvenire sino à giorno, per fare dispetto all'imprudente moglie.  Sem. Mà che dovrà fare questa infei lice donna?  Pub. Non altro, che sofferire , ed amare, più che mai, ed udite ciò, che dise S. Ambrogio Sec. Offic. Quid tam  ino. [ocr errors][ocr errors] S 2  S  [ocr errors][ocr errors] inolitum , atque impreffum affe Etibus humanis, quam, ut eum amare inducas in animum, à quo te amari velis?  Sem. Penurierà la casa del necessario, non si pagherà la servitù, i debiti cresceranno, le tenure deterioreranno, anderà tutto da male in peggio, e questo sarà appunto il frutto del soffrire , ed amare.  Pub. Forse , che lo schiamazzo della moglie, quantunque giugnesse à quel fegno descritto da Virgilio: Fæmineum clamorem ad. cæli fidera's  tollunt. potrebbe dare riparo à tanti mali? certo che no, mentre, come dicemmo, diverrebbero maggiori. A tal pro- en pofito cade in acconcio la risposta , che diede il Re Filippo à coloro, che lo fti- dic molavano à muovere guerra ai Greci, i quali beneficati da esso sparlavano della sua real persona, che fu quefta : Quanto peggio farebbero , se fossimo nemici la loro?  Sem. Però se io fosfi ne. suoi piedi,  [ocr errors] non  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] non potrei essere così amoroso di un marito, che procura di mandare la casa in malora.  Pub. E che fareste dunque di vantaggio? 50  Sem. Sei iniei parenti non mi volesseed  ro dare ricetto in casa loro, me ne sta  rei in un appartamento separato, e pro. 1  curerei di non trattarlo più; perche, come si suol dire: occhio non vede, cuor non duole.  Pub. Sarebbe questa certamente una gran pazzia conosciuta anche da Euiripide per tale; mentre egli fa dire ad  Giunone; non esserci altro rimedio più  opportuno , di questo, per riconciliare  gli animi, che il conversare insieme ,  dicendo:  Ho disegnato a lunghi lor contrasti  Ho giammai di por fine con un modo   Segreto, e nuovo a lor, unırli insieme. i Onde qual vantaggio riporterebbe dallo  ftare lontana dal marito, e di abbandonare affatto il letto nuzziale, fe non di eternare le discordie? e se non sapete,  che  [ocr errors] S 3  che cosa guadagna la donna , con fare la disgustata, udirelo da Salomone: Qui confundit domum fuam poffidebit ventos ; onde fi ritroverà alla fine colle mani piene di vento, e questo sarebbe appunto tutto il guadagno, che averebbe fatto.  Mec. Io, che in mia gioventù sono fato amico di qualche giocatore , il qual faceva grosse perdite , in occalione, che taluno di effi mi riferiva le sue sventure, non potevo contenermi di non domandare, se la sua moglie n'era consapevole, e mi dicea, non avere potuto farne diineno di non palesargliele, allora, che dovendo fodisfare la grossa perdita già fatta , gli era convenuto più volte chiedere le gioje, per impegnarle, non trovandosi pronto il danaro; cui replicavo : che schiamazzi averà fatto ella trovandosi doppiamente disgustata; e rimaneva ammirato nell'udire, che qualcuna di effe con prontezza grande glie le dava; e di vantaggio mi riferiva, che non vi era già pericolo, che la trovasse colcata, quando cornava quancunque avesse tardato molto; anzi, che con faccia molto allegra li dava la buona sera, allorche lo vedeva comparire; e mirallegravo seco dellas buona sorte, che godeva nelle sue sventure, essendosi abbattuto in una sì prudente moglie; ne mi poteva contenere, avendo seco confidenza, di non riprenderlo in tale occasione con dirgli: c voi siete sì crudo, che non avete comparfione di farla ogni sera tanto parire: troppo fo, mi dicea egli; perche se non pensasli ad essa talvolta, che mi trovo sotto nel giuoco,chi sà quando lo avessi terminato, e che perdita maggiore avessi fatto; allicurandomi inoltre che di tanti incomodi, che le aveva recati, ne averebbe avuta viva rimembranzada à suo tempo, per farla godere, se soprayiyeva ad esso, pensando di lasciarlas erede, non avendo figliuoli; conforme appunto è seguito ; onde la sua sofferen· za ,  fu alla fine rimunerata . Sem. Ed in quei giocatori, che avevano le mogli risentite, vi siete mai abbattuto?  Mec.  [ocr errors] S4  Mec. In questi ancora, e domandan. do loro, che dicevano le mogli allorche sapevano le loro grosse perdite, vi fu tra questi chi in tal guisa mi rispose: il maggiore tormento, che io abbia allorche fo qualche groffa perdita è di vedere inviperita mia moglie, cui chiedendo le gioje, per impegnarle, me le hà sempre negate ; mà io l'hò mortificata con vendere altre cose, ch'erano di sua somma fodisfazione ; affinche conoscesse, che io era il padrone.  Pub. Vedere dunque, Sempronio , quanto sia meglio soffrire in questi casi, che fare risentimento; e voi Mecenate, di grazia cessate di dir male più delle donne, avendo confeffato, che vene sono delle prudenti ancora .  Mec. Sono però queste di fimile natura rariffime, non contentandosi per lo più le mogli di farli impegnare le gioje, e particolarmente à sodisfare per le perdite fatte nel giuoco.  Sem. Come debbonsi le mogli regolare, quando scorgogo i mariti diviati a  Pub  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] mente,  Pub. In niuna altra occasione si conosi  sce meglio la donna saggia , quanto in fi questa; imperciocche le tocca sul più 1 vivo; onde doverà adoperarvi cutta la  prudenza poffibile per divertirlo. Sine tanto, che il fatto sarà secreto, non dee darsene per intesa; e se taluna lv rapportasse , che viene tradita da fuo marito , dee ella replicarle con risentimento: ch'egli l'ama , e crede ferma  che per questa cagione non le possa fare un simile torto, dee però servirsi dell'avviso, per rincontrare dalle mutazioni , che scorgesse in lui, tanto nell'affetto, quanto nella stima verso di lei, se debba prestarle fede.  Sem. Doverà dunque lasciar correre trascuratamente, senza darci riparo , male fi considerabile, una donna in particolare, che non gli da occasione alcuna di farle simile torto?  Pub. Ho udito dire da' Medici, che ci siano alcuni rimedi, che sono peggiori del male, al quale si applicano ; onde non vorrei, che questo fosse uno  di quelli; palesatemi dunque voi qual credereste in questo caso essere il suo rimedio più valido , quando non vi piacciano i più beoigni. Sem. Di fuggirsene immediatamente in casa de' suoi genitori, con animo di non tornare più da suo marito. Pub. Questo appunto sarebbe uno di quei peffimi rimedi, posciacche dandofegli campo libero in avvenire di fare, ciò, che vuole, accrescerebbe non folamente il male antico, mà ne produrrebbe, anche degli altri, che sono las totale discordia conjugale, ed il divul. garsi da pertutto ciò, che non è bene, venga publicato. Sem. Che cosa dunque ella dovrà fa, per non morire accorata , dimorando in casa del marito ?  Pub. Conyerrebbe , in questo caso principalmente, ch'ella ben apprendesse quel consiglio dato da Platone as Zenocrate, qual fù: che sacrificate alle grazie , per essere più avvenente, che per lo passato; e così con dolci maniere  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] re  [ocr errors][ocr errors] re potrebbe facilmente conciliarsi il suo affetto ; dicendo Salomone che: Mulier gratiofa invenit gloriam. E quali debbano essere queste dolci maniere ; non occorre, che mi diffonda per istruirne le donne, cfsendone di effe maestre: diro solamente, che se la palma, ch'è un albero insensato arriva, come vuole Plinio, à piegarsi, allorche stà vicino alla sua palma femina , volete , che il marito ancora non si renda alle piacevoli maniere di una saggia moglie? È interogata Livia Drufilla da una Dama, perche faceva fare ad Augusto marito suo ciò, ch'ella volea; così rispores : perche fo volentieri quello, che io conosco essere di Cesare in piacere, e non ricerco i fatti suoi, come racconta Dione. Sem. E se faceffe praticare per casas una sua qualche donna Atraniera, come la potrà tollerare? Pub. Anzi la dee, per non irritare maggiormente l'animo di suo marito, e farle corresie ancora, mostrando di non essere consapevole di cosa alcuna ; conforme appunto fè Terzia Emilia moglie del maggiore Affricano, la quale, non solament’egli vivente, diffimulò di fapere,  che suo marito amaya una fuas schiava, mà dopo la morte di esso las fè libera, e la diede per moglie ad un suo liberto ; come racconta Valerio Massimo. Ed Omero riferisce di vantaggio, che la moglie di Antenore aveffe egual cura di un figliuolo fpurio di esso, di quello , che avea de proprj, per non disgustarfi suo marito. Plutarco ancora racconta nel libro delle donne illuftri, che Stratonica si prendesse il pensiero di educare bene i figliuoli di Dejotaro suo marito, quantunque  forsero nati da Elettra sua serya : oltre poi quello, che dice la facra Genefi di Sara, ė di Rebech ab 16. & 30.  Sem. Questo però non lo porrà mai fare una moglie di spirito ; non potendo questa soffrire un simile torto .  Pub. Quefte, che hò riferite , avevano spirito, cprudenza; ne mi persua  [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][ocr errors] deco,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] derò, che possiate darvi à credere, che - Olimpia madre di Alessandro il Grande lie  non avesse spirito, e pure questa, venendole rapportato, che Filippo suo marito era talmente invaghito di una giovine di Teslaglia, che si credea communemente, foffe ammaliato; volle conon scerla, ed appena veduta, che l'ebbe le disse : Tecum enim philtra babes, quanto mai le parve bella ! e non fu questa picciola finezza il dire ad una sua rivale, che rapiva il cuore di tuti.  Mec. Io so, che alcuna di queste per aver ricevute.cortesie obbliganti dalle saggie mogli, sono fervite di mezane, per riconciliare l'affetto era effe,e i loro mariti : altre poi, che hanno ricevuto strapazzi,sono state cagione di odj mag. giori tra essi; onde seinpre hà giovato alle mogli saggic, di non inafprire maggiormente la piaga con irritarla. Pub. Un'ottimo ammaestraméto vien dato à queste da Plutarco, ed è di non allontanarsi mai dal marito, perche facenda altrimenti, la rivale diverrà af  for  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] soluta padrona, non solamente del letto mà ancora della casa tutta,  Sem. Mà durerà sempre questo disordine?  Pub. Non durerà, perche la prudente moglie saprà vincere col tempo las violenza dell'altra, come ben cspreffe Ofeo Poeta: Capitur ergo ab infirmis celer, Aquilamque brevi testudo vincit. E la testuggine appunto, essendo Gimbolo della donna onefta, non recherà maraviglia, se questa ancora frenerà il volo dell'aquila, con aspettare però l'occafione opportuna, la quale potrebbe essere, allorche li fa dimora in villas, ove l'amica non fosse presente; ed il maggiore argomento che potesse addurre per allontanarlo dall'amore impudico, sarebbe appunto di fargli conoscere colle buone, il cattivo esempio, che ne prendono i figliuoli; con insinuargli ancora,per giuoco,quel detto di una pudica donna, tratta å forza dal Re Filippo: deh lasciami andare, gli disse, per  [merged small][ocr errors][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors] na,  Il che tutte le donne , portata via la lucer  sono simili ; mà se poi imitasse quella prudenre Gentildonna Sicilianad  di cui fa menzione Lodovico Vives, nella Christiana fæmina, quanto mai u lo renderebbe à se affezionato? Questas  andava osservando ciò , che facevano i servitori, che fosse al padrone marito suo più grato, e quello ella facea di sua mano studiosamente; se bene talora con estrema fatica fua, quello poi, ch'era di meno travaglio, fatica, e noja, comandaya à servitori. Sem. Mà quando non fosse deviato altrove il marito, che cosa porrà fare la i donna savia , à fine, che non ecceda con i essa lei in pregiudizio della propria falute?  Pub. La saggia donna non dovrà mostrarsi renitente à fodisfare le brame di E fuo marito ; ben è vero però, che dee'as 1  poco a poco, andargli dolceinente infio nuando il danno, che potrebbe appor  tare l'immoderata frequenza degli arti conjugali, potendogli questi abbrevia  Per que.  re anco la vita con danni notabili della  sua famiglia ; e starà ben ella circospetta nell'ordinare vivande, calorose per  la mensa, ed ancora nel tenerlo lontano dallo frequente uso del cioccolato,  erosolì. Crescere res poset nimiùm damnofa   libido. Come vuole Ovidio . Sem. Prometteste, Dottore, di mostrarmi sino à che segno poffa giugnere l'uomo in pagare il debito matrimoniale senza discapito della propria salute.  Med. Epicuro, Democrito , Averroe, ed altri Filosofi ancora credettero, che sempre sia molto dannoso l'uso venerco: Altri poi lo credono solamente, allora, ch'eccede i limiti dell'onesto.  Sem. Or io non voglio andare cercando malanni ; per battere al sicuro mi contento starmene senza prendere moglie ; perche la propria salute mi dee premere molto più della moglie.  Med. Ditemi di grazia , Sempronio, senza andare in collera: Voi che avete fpiriti generosi, fe venisse un esercitoDell'Elezione della Mog. 289 per distruggere la vostra patria, per salvare la propria vita, abbandonereste la difesa di essa é o pure vi porreste ad evidente pericolo di morte per difenderla?  Sem. Sarei un gran codardo, quando l'abbandonaffi; dovendo per sua difesa porre à pericolo la vita con tutte le mie sostanze  Meda E per conservare la vostra specie, la quale può difenderla ne' suoi bisogni, perche ricusate di farlo? non ponendo già ad evidente pericolo, nè vita, nè roba , contenendovi dentro i limiti della moderazione, esponendovi in tal caso solamente à pericolo di soffrire qualche moderato, e breve disaggio: e se voftro Padre fosse stato di questo sentimento  come farefte voi  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] naro ?  Sem. Converrà dunque farlo ; mind u questa moderazione nell'uso venereo, in che doverà confiftere?  Med. Primieramente in fuggirlo più, che sarà possibile la state: dicendo Cel. co 10, aftate in fptum, fi fieri poteft, abftinen.,  dum; e nell'autunno dice: neque autumno utilis venus eft; nel rimanente poi dell'anno non abufandovene sarà sempre meglio per voi, Sem. Mà da che potrò comprendere tale abuso?  Med. Dalla stanchezza, che riceverete dopo di esso, perseverando questa, per qualche tempo, nella forina , che descriffe OVIDIO (si veda) di averla osservata in un amante Vidi ego cum foribus laljus prodiret amator Invalidum referens ; emeritumques  latus, Sem. E cadendo io in questo, che rimedio averò da praticare?  Med. Aftenervene per qualche tempo, dicendo VIRGILIO (si veda) nella Georgica;  Nulla magis vires industria firmat Quam Venerem, cæci fimulos aver  tere Amoris, E di questo niuno meglio, che voi ne potrà essere giudice s purche sia la voItra mente libera, e non preoccupatas  dall  [ocr errors] [ocr errors] dall' estro libidinoso.  Şem. E per fuggire questo, qual ri# medio sarebbe opportuno ?  Med, Il vitto moderato, e la moglie - favia sono i veri antidoti per indurre moderazione nelli cimenti di venere. Pub. Vedere dunque , Sempronio, quanto possa giovare una saggia donnas nel fare prolungar la vita à suo marito ? prendetelo dunque à buon fine, quan  do la vostra moglie vi frenaffe in que1 fto, facendolo per noftro bene. Met. Or io non vorrei starmene raffi, dato alle donne sopra di ciò; perche affai di rado fi riceverebbe da effe tale beneficenza;vorrei più tosto prendere l'efeinpio dai bruti, i quali, toltone quei tempi prefisli loro dalla natura, non si ac.  costano più alle femine, nè tampoco ef: se appetiscono i maschi; ed udite come  lo conobbe bene Democrito riferito, Dottore, dal vostro Ippocrate nellas u lectera scritta à Damageto; Anniversa  riorum temporum ordo, brutis quidem danimantibus coitus finem adfert, homo  T2  verò  [ocr errors] [ocr errors] verò infano libidinis stimulo continenter agitatur. Sem. Dandosi il caso, che il marito fosse impotente, ne viverà contristatas la povera moglie di questo?  Pub. Prescindendo dal rammarico, che averà, trovandosi priva di figliuoli, credetemi , ch'essendo prudente, non fi prendera di ciò fastidio alcuno;perche considererà ben'ella, che quel momentaneo diletto è compensato da molti altri tormenti, che îi soffrono, non solamente nelle cattive gravidanze, e laboriofi parti , mà quello, ch'è di travaglio maggiore, nell'educar beoe i figliuoli , de' quali taluno alle volte riesce scapestrato laonde se rifletterà à ciò che dice l’Ecclefiaftico. Utile eft mori fine filiis quam impios habere, aidarà pace essendo priva di elli.  Sem. Io conoseo alcune di queste sterili, che non fanno alcro, che sospirare; eso che volentieri introdurrebbero il giudizio del divorzio. Pub. Ed io conosco più di una  di  que  [ocr errors] 2  fte,  fte, che si trovano nella medefima nave, le quali stanno contentiflime, e pensano perseverare col suo marito fino allas morte, quantunque sia impotente. E forse credono quelle , che il tentare questo divorzio sia qualche delizioso divertimento ? Sappiano, che converrà loro esporsi à prove, e recognizioni , che danno molto da cicalare per tutta la citrà. Ed inoltre, facendo ciò, mostreranno ancora di essere libidinose,deliderando avere più validi mariti.  Sem. Mà coine ci potrà essere pace i tra simili conjugi?  Pub. Se la moglie sarà prudente, non i ci sarà discordia alcuna; perche vedenÛ dofi il marito così impotente, procurerà per altre vie divertirla, se non  fürà del tutto disamorato.  Sem. Mi persuado , che poco averà · da dolerâi la moglie del marito goloso,  quando però faccia anche ad essa gufta10 re qualche delicata viyanda?  Pub. Non è così; perche la donnas prudente di questo fi rammarica al parodi tutti gli altri difetti, essendo che fis mile vizio persevera per lo più fino allas morte ; onde con facilità grande può far impoverire; conforme si legge nell' Ecclesiastico al 21. Qui diligit epulas in egeftate erit, qui amat vinum, Q pin. guia non ditabitur. Oltre poi imali, che suole apportare alla salute.  Sem. Mà comc ci potrà dare rimedio ?  Pub. Conosco anch'io, che farà cola difficile il poterlo affatto rimuovere, mà la prudenza, e l'ingegno donnesco potranno darvi bensì qualche riparo , con guadagnarsi l'affetto del suo marito, il quale acquistato, se le réderà à poco à poco facile à titolo di sanità, d'introdura, re qualche moderazione ia effo : avvertali però, che la servitù rimanga in qual. À che parte compensata di quegli avanzi della mensa , de' quali soleva partici; parne, altrimenti questa per tal cagione sarà capace suscitare discordie traefo sa, e suo marito, con inventare infinite menzogne,  Sem. 11  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Sem, Ed abbattendosi con mariti di la mente debole, come hanno da fare per di rimuovere dalla loro grazia certi servis I tori favoriti, che li dominano?  Pub. La donna, che colla sua pru. denza può giugnere à rimuovere dal cuore di suo marito caluna, che lo porfedeya indebitamente, con quanta facilità maggiore potrà allontanare questi,quando voglia abusarli della dilui grazia ; ed in ciò non occorre istruirla di vantaggio, essendone espertissimas; basterà solamente accennarle , che faccia passaggio delle cose leggiere, e nelle gravi norf operi con violenza grande, per non porlo in impegno di sostenerlo ; mà venendo l'occasione opportuna in qualche fuo trascorso rilevante, gli faccia conoscere, ch'ella non opera per passione, ma bensì per suoi vantaggi.  Sem. E se aveffe anche la Suocera cartiva, la quale consigliaffe suo figliuolo à Itrapazzarla , che cosa doverà fare?  Pub. Di sopportarla , amarla, erispettarla , come costuma fare con fuo  [ocr errors] [ocr errors] marito; perche non nascono già per altra cagione le discordie tra suocera, u nuora, che dalla gelosia , che hanno le madri, che i figliuoli amino più le mogli ch'esse, da cui ricevettero l'efsere  Sem. Mà se ciò non ostante continuarse à fare il medesimo, non sarebbe me. glio di metterla in discredito appresso il figliuolo, à fine che non le desse più credenza?  Pub. Questo non dee fare la donna saggia'; dee bensì riflettere à ciò, che, fi costumava nella città di Lepidi in Affrica per meglio imparare à soffrire. Racconta Plutarco, che ivi era costu  che nel giorno seguente alle nozze la sposa mandasse à domandare alla suocera una pentola, la quale le venivad negara ; e questo si facev'à fine che, non G sdegnafre, le in avvenire le avesse negato alcuna cosa. Sem. Converrebbe ora discorrere fopra le stravaganze grandi, che nascono tra i marişi çattivi, cle mogli peffime,  [ocr errors][ocr errors] me,  [ocr errors][merged small] Pub,  [ocr errors] Pub. Non è certamente neceffario parlarne ; posciacche, à chi darebbes l'aniino di consigliare costoro, che sono incapaci di ragione ? Bisogna, che tra loro si aggiustino, e fogliono per lo'. più essere concordi', perche niuno di loro può rinfacciare all'altro i difetti, elsendone ambidue colmi. Il danno è bensì de' poveri figliuoli , che non si educano bene, tanto per l'esempio cattivo, che danno loro, quanto per la direzione, della quale eli penuriano : ben è vero però, che quando questi li avanzano alle discordie', non effendoci mezo capace à poterli più riconciliare tra loro, solamente l'autorità del prencipe può impedire le rovine maggiori che possono nascere per i dilapidamenti delle loro sostanze, 'à fine și non vedea ce mendichi i loro discendenti.  Sem. Sarebbe però un vantaggio grande, che tutti i mariti catrivi prendesse. ro mogli (imili ad essi ; perche alloran per i buoni rimarrebbero le buone solamente.  Pub.  Pub. Succede frequentemente così , essendo questi portati dal loro genio ad amare simili ad essi, secondo il proverbia : aqualis æqualem delectat, ý semper à fimili fimile amatur. Il che viene confermato dal Nazianzeno, dicendo:  Pulli quidem pullis amici , coruique  corvis ,  [ocr errors] Et furnis sturni , puro autem pretiofus.  eft purus: Meglio però di tutti l'insegna l’Ecclesiaste: Diligit fimile fibi , dow omnis homo fimilem fibi, omnis caro ad fimilem fibi conjungitur, omnis homo fimili sui sociabitur. Onde se accaderà, che una catciva giovane prenda un buon marito non sarà già di sua volontà, mà verrà bensì sforzata da' parenti à farlo, e das quefto nc nascerà quello appunto, che, dice l'Ecclefiaftico. Mulieris ira , o irreverentia , & confufio magna: on- ; de guai à chi toccherà limile infortunio. Sem. Mà che potrebbe fare chi li trovafle in simili miserie?Pub. Di prevalersi di quest' ottimo consiglio, riferito.da Gel. in Sat.Menip. Vitium uxoris's aut tollendum , aut ferens dum ; perche : Qui tollit vitium, uxorem commodiorem præftat , qui ferte se fe meliorem facit.  Sem. E cui riuscì il potere far questo in core rilevanti ?  Pub. Tra gli altri à Socrate; come ris ferisce Plutar.de Choib. ira: il quale avendo seco à defináre Euridemo, quando nel meglio si alzò in piedi Sancippe, e dopo di avere caricato di villanie socrate roversciò la tavola in terra; onde Euridemo si alzò in piedi addolorato per partirli; cui Socrate disse con gran Aemma: non accadè poco innanzi in casa tua, che una gallina yolando fece l' isteffo ? e pure niuno vi fu , che li contriftaffe disinile avvenimento; perche dunque voi ora lo fate 2  Sem. Non si è parlato Gin'ora, come fì abbiano da regolare le povere donne per iscegliersi un buon marito Pub. Nom dçe la donna sceglierli as  suo  suo compiacimento il marito; mà bensì riceverlo da' suoi più congiunti, e di questo ne parleremo nell'educazione de' figliuoli, mostrando le diligenze, che doveranno farg da' padri å fine di provederle bene.  Sem. Spererei di sapere scegliere las moglie, ora che ini trovo in ciò istruito; mà sposata che l'avefli mi troverei intricato nell'educare i figliuoli, quando Iddio me li concedeffe, non avendo ancor appreso à bastanza il modo das regolarmi per bene diriggerli. Pub. Nella seguente Decade tratteremo di questo.  [ocr errors][merged small] Sopra l'educazione morale de' figliuoli CONFERENZA nella quale si mostra, che cosa sia educazione, cui appartenga più di ogni  altro; e se sia necessario luogo particolare,ove debba farsi. Sempronio, Publio , Mecenate  e Medico.  [ocr errors] Sem.  N che consiste l'educazione? Pub.  Nello svellere da gli animi de' tcneri figliuoli tutti quei  vizi, che spontaneamente germogliano in elli, e nell inestarvi in loro vece i preziosi gerini delle virtù ; effepdoche, come ben'er  preffe VIRGILIO nella Georgica parlando degl'innesti ; Pomaque degenerant , fuccos oblita priores,  sem. Come! in noi spontaneamente nascono i vizj!  Pub. Non è da dubitarnę mentre nascono molti vizj con noi medesimi insę. gnandoci il Profeta : Ecce enim in iniqui, tatibus conceptus fum; du in peccatis concepit me mater mea; verità conosciutas, anche da' gentili ; posciacche Orazio così scriffe: Nam vitiis nemo finè nafcitur. Optimus  Qui minimis ur getur . E Democrito, che ; totus homo ab ipfo are fu'morbus eft ; ed inoltre, che secondo l'età in noi germogliano i vizi propri di effe, i quali se non saranno a tempo dçbito estirpaţi, quei della puerizia fivedranno adulti nelle altre età; ma vie peggio ancora, che vedo verificarsi ciò che diffe Orazio nell'Odę 6. lib.3. cioè i Ætas parentum pejor avis tulit  Nos nequiores, mox daturos Pro ille eft,  Sopra l'educ. de figliuoli. 303 Progeniem vitiofiorem , E da ciò comprenderece à che segno debba essere ora l'educazione più esatta di prima.  Mec. Ed io che soglio conversare spesso co' miei amici ho veduto più di una volta, in occasione, che questi as. pertavano qualche visita di soggezione, verificarli ciò, che dice Giovenale nella satira,  Hofpite ventura ceffabit nemo tuorum ;  Verre pavimentum, nitidas oftende columnas,  Arida cum tota defcendat aranea tela,  Hic lavet argentum, vasa aspera fergeat alter,  Vox domini fremit inftantis, virgam.  que tenensis.  Ergo mifer trepidas ne stercore fæda cao  ning Atria difpliceans oculos veniensis amici, Ne perfufa luto fit porticus, tamen  uno  Semodio foobis , her emendat fervulusE quel ch'è peggio ancora , che vedo verificarli appresso alcuni ciò, che se  gue: Illud non agitas, ne sanctam filius omni. Afpiciat fine labe domum, vitioqae carentem,  Sem. Vi concorre altro alla cattivas  Educazione, che la trascuraggine ulata in non eftirpare à tempo debito gli ac GE cennati difetti  Pub. Potrebbero anche renderla peg el gior e i cattivi esempj dati a' figliuoli, luz dicendo Giovenale nell'accennata satira.  Sic natura jubet velociùs, du citiùs nos  Corumpunt vitiorum exempla domeftica magnis  Cum   subeant animos auctoribus . Quali cattivi esempi potrebbero a’proprj accrescere gli altrui difetti .  Sem. Mà come possono essere capaci in di cattivi esempi i teneri fanciulli non distinguendo questi ancora il bene dal male?  Pub. Pub. Dice Plutarco nell'educazione de' figliuoli, che s'imprimono gli ammaestramenti in elli conforme appunta fanno nella cerà molle i sugelli, e che perciò il divino Platone saggiamente avertisce le balie à non raccontare loro  favole di ogni sorta , mà solamente u quelle, che ponno essere giovevoli al  buon costume;confermandoci ciò S.Ba,  filio, il quale, scrivendo à quei dellas  città di Neocesarea, confessò loro di  ellere debitore di una buona parte della  sua divozione alla nutrice, la quale, non  perdendo mai alcun sermone di GREGORIO (si veda), li serviva di molti belli derti uditi  da esso in tutte le congiuntùre, che se  le presentavano per imprimnerglieli benc  nel cuore ancora tenero; laonde saggiamente diffe Focilide: Mentre fanciullo lei, virtute impara,  Ma oltre il malesempio, pregiudicano  anche ad elli molto le carrive insinua.  zioni,   Sem. Ma questi mali esempi non sa. ranno dati già loro dai genitori, quants  [ocr errors] 3  ci  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cunque fossero viziosi; perche vediamo i ciechi desiderare i figliuoli bene illuminati, ed i zoppi, che questi liano liberi, e spediti al moto: ne tampoco infinueranno loro cose cattive.  Pub. Così appunto dovrebb’essere, e pure ciò non liegue; posciache alcuni hanno voluto insinuare à i loro figliuoJini l'invecchiati difetti da' quali esli erano contaminaci. Vi furono due di questi, di cui fa menzione ENEA (VIRGILIO (si veda)) Enea Silvio libr. 1. comment.; che dediti all'ubriachezza procuravano , appena slactati ch'erano i loro figliuoli, di affuefarli al vino facendone gustare loro de' più generofi, che si trovassero; ed uno fti, persuadendosi , che non averle il suo figliuolo bastantemente bevuto vino di giorno, volle di notte, in tempo chc dormiva,farglielo ingojare con un cannellino; mà perche sonnacchioso corceva la bocca ingiuriò aspramente las moglie ; dicendole, che non era suo fi. gliuolo legittimo, per non affomigliarsi ad esso, cui tanto piaceva il vino. E vi  [ocr errors] ed uno di que  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] re  [ocr errors] recherà orrore il sentire di vantaggio bu quello, che riferisce S. GREGORIO (si veda) di un li esecrando bestemmiatore il quale ingi  nuava ad un suo figliuolino di cinque anni di ritrovare bestemmie anche infoJite, e riferisce ancora il gastigo, che da Dio ricevette per sì detestabile dclitro,  Mec. Mà senz' and are cercando gli antichi esempi ; non ci è stato à giorni noftri un Padre, che premiava de' suoi figliuoli quello, che cimentandoli co  i suoi fratelli, rimaneya vittorioso nel d  fare à pugni? cosa tanto crudele , che non fi racconta già praticata da gladiatori ROMANI tra fratelli,  Sem. Le Madri però non saranno state così perverse nel mal'educarli,  Pub. Queste ancora sono state colpevoli di ciò; scrivendosi di Draomirad: Principessa molto vana, che per colpa  fua diveniffe Boleslao parricida, e fratricida ; dove che il fratello Vinceslao  educato da Ludimilla sua ava molto fagi gia, e pia divenne un Sanco, come nela  la sua vita si riferisce; e da ciò comprendere quanco di profitto apporti la buona educazione. Mec. Questo non è da porfi in dubio, scorgendoli anche ne bruti profittevole; mentre racconta Plutarco, che Licurgo per fare conoscere tal verità a? Spartani fè comparire due cani , uno de quali era avvezzato per la caccia, e l'altro, dedito in tutto alla sua naturale inclinazione, non attendeva ad altro, che à leccare pentole di cucina, e nel mede: simo tempo à vista loro fè portare anche una lepre, ed un carino di broda : nel vedere il primo fuggire la lepre li pose a seguirla ; e l'altro se ne andò verso il catino; soggiungendo egli a’Spartani: così faranno appunto i vostri figliuoli ancora , se saranno, ò nò istruiti. Quindi è che avendo Tolomeo Re di Egitto domandato ad un Savio quale foffe las negligenza maggiore, che regnava tra gli uomini, egli prontamente rispore : ch'era la trascuragginc nell'educare i figliuoli, mercecche da questa infinitimali ne potevano nascere. Sem. Mà à chi dev'essere più à cuore questa educazione?  Pub. A coloro, cui dev'essa maggiormente premere, che sono i genitori, e questi debbono con industriose, e diligenti manière spogliarli d'ogni difetto, e d'andare ne i loro teneri cuori  giornalmente istillando il prezioso liy quore delle virtù, senza desistere mai;  essendoche, come avvertì Plutarco questa voce costume , pronunziata in lingua Greca, significa anche continuo esercizio, onde da ciò si può comprendere che non ci vuole trascuraggine nell'educare i figliuoli. Riferisce ORAZIO, le diligenze in ciò usate da suo padre; verso di lui lib. 1. Sat. 6. che furono. Sed puerum est ausus Romam portare  docendum; Ipfe mihi cuftos incorruptiffimus omnes Circum doctores aderat , quid mulia?  pudicum, Qui primus virtutis bonos , fervavit ab omni  Non folùm facto verùm opprobrio quo  que furpi. Santamente dunque ordina Salomone ne' suoi proverbj : erudi filium tuum , do refrigerabit te, & dabit delicias anime tudo  Sem. Mà le saranno i Padri talmente occupati, che non abbiano tempo das poterlo fare?  Pub. Se averanno occupazioni più riLevanti di questa, saranno compatiti, caso che nò, sono tenuti di farlo, e non facendolo meritano la riprensione del vecchio Crate,qual disse;contro costoro: Dove andate meschini, d voi, che nel cercare di farvi ricchi movete ogni pietra; e nondimeno de' voftri figliuoli, a' quali lieto per lasciare le vostre facoltà, vi prendere poco pensiero ; al che sog. giugne Plutarco, che questi operano in quella maniera, come se alcuno governaffe bene le sue scarpe, e de i piedi non fi curaffe punto. Or ditemi di grazias qual potrà essere l'occupazione più riguardevole di questa ?  Sem.  [ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Sem. I publici affari, per esempio, oltre il decoro personale, i quali ricercano somma attenzione, e si può dalli buona amininistrazione di questi ricavarne molta gloria, e molto lustro, vantaggiosi ai figliuoli ancora,  onde  perciò non potranno distrarsi per educarli bene.  Pub. E questo lustro, e gloria se si  estingueffe nc'figliuoli mal educati qual i acquisto averebbero fatto i Padri? Gli  Ateniesi nelle feste di Cerere faceano un misterioso giuoco, ed era, che comparivano avanti l'alcare quei destinati ad effo à prendere ivi un luine acceso, qual dovea porgersi ad un'altro, che in una decerininaca distanza lo stava aspettando, per consegnarlo ancor esso ad altri, che in egual lontananza lo atrendevano: se il detto lume si foss' estinto prima di giugnere all'ultima mera, era in libertà di ogni uno beffeggiare colui in inani di cui si estinguěya. E Platone fu di se. timento nelle sue leggi, che: gignentes, alentes liberos vitam tanquam  1  lampada alii aliis tradunt. Or figuratevi ancor voi, che questo splendore, che voi dite debba passare ne' posteri; come rimarrebbe colui , che per la sua malas educazione lo estingueffe? in che ludibrj egli li troverebbe venendo da tutti, beffeggiato? e sapendosi, che vi ebbe colp’anche la poca applicazione del padre in educarli, dirà facilmente qualcuno : quanto era meglio un poco meno di luftro, mà più durevole nella sua descendenza.  Mec. Da questo dunque procederà, che alcuni figliuoli di uomini illustri sono di costumi tanto diversi da efli , che pajono più tosto nati dal disonore, averanno quelli facilmente difefcato nell' educarli.  Pub. Plutarco ne adduce ancora un alıra cagione credendo egli che i fi. gliuoli degli uomini illustri divengano facilmente superbi, ed arroganci; e lo comprova coll'esempio di Diofanto figliuolo di Temistocle, il quale solevas, dire ne cerchi, che tutto ciò, che li fos  se se piaciuto sarebbe anco al popolo d'A. tene piaciuto; perche quello , che voleva egli voleva la inadre; e quello che la madre Temistocie, e quello che Temistocle anco tutti gli Ateniefi.  Sem. Credo però, che più comparibili polfano essere le Madri se diferteranno in deira educazione, essendoche alcune di esse hanno impiegato turte le ore del giorno in adornarli, in ricevere, ò fare visite, in passeggi , ò conversazioni; talmente che pochissimo tempo potrebbe rimanere loro di badare a' figliuoli,quando non foffero diftrarte anche nel giuoco.  Pub. Già sono capace, che premono oggidi ad alcune più i divertimenti, che i propri figliuoli. E vi pare, Sempronio, che debbanli queste scusare? Non averanno certameote occasione alcuna di lagnarli , se faranno questi cartivas riuscita; perch'esse vi hanno difettato non solamente colla trascuraggine, w cziandio col mal esempio dato loro ies S. Girolamo scrivendo a Leta non diffgià, che foss'esfa scufabile, dando a'figliuoli mal esempio, mentre così parla: Nihil in te, & in patre suo videat , quod fi fecerit peccer.  Sem. Non si potrebbe supplire coiu Maestri, & Aij alla propria trascurag  gine?  Pub. Si potrebbe in caso di necessità; mà però è assai differente l'industria,che adoperano i propri genitori da quellas, che sia l'altrui, ed eflendo questa à proporzione dell'amore , quanto maggiore sarà quella de' propri genitori, che più di ogni altro li ainano? Si suol dire ingeniofus amor , e questo appunto è quello, che li ricerca nella buona edu. cazione .  Sem. Se dunque li può supplire, saranno scufabili quei genitori, che sostituiscono in loro vece chi lo faccia. Pub. Non per questo però debbonli affatto allontanare da efsa, senza averci qualche sopraintendenza particolare, e non usando questa non si potranno mai scusare,  Mer.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Meg. Siete Publio troppo rigoroso, e questo credo , che proceda , perche voi foste l'educatore de' vostri figliuoli; mà non sono ora più quei tempi felici , ne' quali si pensava di lasciarli più rosto ben educati, che ricchi; non sarà poco, che abbiano ora i figliuoli un Ajo di ti. tolo , che non li lasci almeno precipi. tare in tutti i vizj ; onde da alcuni, che sono arrivati a conoscerlo a è trovato quel santo ripiego di porli nei seminarj, assai giovanetti, e prima che la malizia fi avanzasle in elli.  Pub. Or io non mi sono curato di porre i miei figliuoli in questi seminarj; perche ho voluto fare a modo del Profeta, il qual dice: Filii tui ficut novelle oliva. tum in circuitu menja tuk. Sono questi seminarj fantissimi, istituci ostimi per ap: prendere il rimore di Dio, mà oh quanto fà di più quel Padre amoroso , ed actento, quella Madre faggia, e divora, in educarli in tutto , avendoli appreffo di loro ! e questo ben lo conobbe Orazio ringraziando suo padre della buo  V  è  C.  na sua educazione in tal guisa .  Laus illi debetur,à me gratia major; perche: obiiciet nemo fordes mihi. Mac. Voi aveste però la fortc,, che vi furono i vostri figliuoli, tanquam novelle olivarum; perche, se riflettiamo alli rami di elli, sono simbolo di pace , e tali appunto sono li vostri ellendo dotati di ottimo naturale ; fe al frur. to, è vero  ch'essendo immaturo , inolto amaro, ma questo con industria diviene anche dolce, ed il fimile è seguito in elli, essendo giovani; se poi final. mente al sugo, che da' suoi frutti maturi si esprime, ch'è l'olio, questo non fà alcun movimento, solendosi dire per proverbio : è cheta come l'olio , e contimnili à questo sono anche i vostri figliuoli, contro de' quali aon si è senci. to alcun richiamo fin'ora, e spero, che trovandosi già avanzati negli anni , cresceranno sempre più in bontà: mà se in vece di novella olivarum Iddio ve li avelse dati, come piante di mirto, questi non iftavano bene in circuitu menja tud.  Sem.  [merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small][merged small][ocr errors] [ocr errors] Semi E per qual cagione, producendo il mirto un fiore gratissimo ?  Mer. Sì bene, mà però senza alcun frutto, ed è pianta dedicata à Venere, e tra esli facilmente si annidano i serpenti, e se fossero ftati di limile cattiva natura i vostri figliuoli, Publio, come vi fareste contenuto con efli loro?  Pub. Gli averei ben domati io; perche più fieri de'Leoni non potevano già essere, e pur questi coll'arre divengono mansueti, e vi assicuro, che non averei fatto da cerusico pietoso; avendo appreso da Salomone il rimedio qual'è; nos li subtrabere' à puero disciplinam ; fi enim percufferis eum virgâ, non morietur. Més. Sapete pur, che Dione, con forme racconta Plutarco nella sua vita, per il soverchio rigore usato , e fatto ufare, nell'educare il suo figliuolo, fu cagione, che per disperazione cgli si precipitasse da una finestra: il rigore paierno non è sempre moderato , per cagione, che il più delle volte questo parsa dal soverchio amore, al foverchio  deg no; e poi i Padri vorrebbero in un tracto estinguere tutti i difetti de’loro figliuoli, e questi han d'uopo di tempo preparatorio non meno, che le valide medicine, come fa il Dottore.  Med, Questo è veriflimo, perche dandoli un violento rimedio, senza prepa, sare prima gli umori, danno maggiore potrebbe apportare ; quindi è che il noItro Ippocrate c'insegnò: Corpora cum quis purgare volucrit oportet Auida facere ,  Pub. Però se Neocle non avesse usato tanto rigore , con arrivar sino à privare della sua eredità il figliuolo, certamente, che la Grecia non avrebbe avu.  PC to il gran Temistocle, il quale ritrovan. doli in tali angustic ricavò dalla necefficà la virtù, essendo che bene spesso : veWatio dat intellectum.  GULE Mec. Questo esempio appunto fa conofcere, che sotto padri tanto rigorofi non possono educarli bene i figliuoli ; fpc posciache avendolo diseredato lo mandò ancora fuori di casa, e perciò averàalırove trovato chi lo cducasse con più discretezza; e poi questo fu un bene per accidente, il quale assai di rado rie. sce con tanta felicità, rimirandosi dall' altra parte infiniti, che discacciati da' propri genitori , datisi in preda maggiormente de vizj, terminarono infelicemente la loro vita negli spedali, ò disperati, di trovare modo da vivere, presero il soldo militare, per foftentarli in quel breve tempo, che vissero.  Pub. Or io sono di questo parere, che debbano i propri genitori educare i loro figliuoli; perche, se saranno buoni, e docili, riuscirà facile l'educarli; re poi perversi, ed ostinati niuno credo, che potrà usare diligenza, ed attenzione maggiore di cfli: saprete pure quel che seguì tra lo scolare, ed il maestro, fingendo il primo di studiare diceva sotto voce : tu credi, che io studj, e non istudio, al quale sotto voce anche risspoodeva il secondo: e cu credi, che jo mi curi di questo che nulla mi preme. Mec. Voi dite orcimamche, perche  fete capace di farlo, e fiete anche pru.  dente, mà come pretendete esiggere  tutto questo da un Padre imprudente, e  vizioso, il quale non rifletterà punto à  quel saggio documento di Giovenale  registrato nella Satira 14. il quale è:Maxima debetur puero reverentia, so quid  Turpe paras, nec tu pueri contempferis   annos,  Sed peccaturo obfiftat tibi filius infuns,  Nam fi quid dignum cenforis feceris ira,  Quandoque fimilem tibi; te non corpore  Bantung  Nec vuleu dederit, murum quoque filius, & cum  Omnia deterius tua per veftigia peccer. Pub. Allorsì, che converrebbe trovare chi foffe capace di farlo, per la ragione, che Giovenale medefimo apporta successivamente nella Satira da voi  citata: Unde tibi frontem, libertatémque parensis  Cum facias pejora fenex? Wacuumque cerebro   Jampridem capul huc venioja cucurbito  quçrat. Mà però, che l'educatore insieme coll' educando dimorassero in propria casa.  Mec. E se in casa propria, oltre il mal esempio, la laurezza del vivere ritardassero i loro progressi?  Pub. Confesso,che in questo caso converrebbe mandarli fuori, ed in paesi anche remoti; acciocche il mal esempio, e la trascuraggine grande de' genitori, colà non giungeffero.Mà è possibile, che questi, a' quali non dev'esser cosa di maggior premura di questa, possano as proprio compiacinento dare mal efempio a' figliuoli? e poi se non sono prudenti, perche s'inducono à divenire Padri ? Certa cosa c,che i figliuoli mal ducati non apporteranno loro altro, che confulione, dicendo l’Ecclesiastico al 22. Confusio pat.is eft de filio in disciplinato.  Mer. Il mondo oggi corre cosi, mol. ti sono. Padri di nome, e solamente perche li hanno generati , onde perciò con  vie.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] X  viene ricorrere ad altri Padri savj, u prudenti , che gl' istruiscano, e fuori del proprio nido , essendo ora gran parte de' genitori divenuti imitatori de' corvi, è dello struzzolo, che gli abandonano, non già delle aquile, che con tanta attenzione istruiscono i loro polli.  Pub. Polliamo dunque conchiudere , che se i genitori saranno capaci, e diligenti nell'educare i loro figliuoli, niu. no meglio, di efli potrebbe farlo; e fe nella casa paterna si vivesse, come conviene non sarebbe d'uopo cercare altro luogo per educarli,potendosi con profit. to istruire in effa.  Sem. Che doverà fare il buono educatore, sia Padre, è estraneo, per isvellere da efsi i difetti?  Moc. Questo lo vedremo nella seguente conferenza. CON  [merged small][ocr errors] Intorno à quello, che debba farsi da'Genitori   per  educar bene i figliuoli.  Mecenate, Sempronio , Publio,  e Medico Mес. L peso maggiore, che abbiano i Padri , mi persuado che sia l'educazione dei figliuoli s  perche si tratta di navigare sempre contro acqua, dovendo opporsi bene spesso alle loro cattive inclinazioni, e superarle à forza d'ingegno; e si trovano alle volte torrenti si rapidi, che si rende assai difficilc poterli alla prima superare.  Sem. Non mi fono risoluto fin ora di prender moglie; perche hò consideratoanch'io le molte difficoltà, che s'incontrano in questi tempi à ben’educare i fi. gliuoli, ne' quali vedo, che appenas slattati che sono, pretendono di fares à lor modo, senza avere alcun riguardo à quanto viene ordinato loro da'genitori.  Mec. Non vi sgomentate per questo ; Sempronio mio, essendoci il suo rimedio , quando chi sopraintende há prudenza, e la prendere, come li suol dire, la lepre col carro. Vi dirò io sci avvertimenti generali, che vi potranno molto giovare, allorche sarete Padre di famiglia ; nel particolare poi sarete meglio istruito da Publio. Ed il primo farà; che tanto voiquanto la vostra con. forte diare loro buono esempio. Sem. Ed in quali cose? Mer. In tutte; perche se voi sarete in continue discordie con vostra moglie, come potrete correggerli, quando mai foffero discordanti tra fratelli? se vorrete, che non disordinino nel nutrirsi, come lo potranno fare vedendovi cra  po  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][merged small] polare giornalmente se li bramerece divori, come potranno essere, se non mostrerete voi coll'esempio, ciò, che volete , ch'essi facciano 3 E scoprendovi tutti dediti agli spasli, e piaceri, come pretenderece,che siano applicari allo studio, divagandosi ancor elli collaa mente nel pensare di fare il simile quanto prima , per imitarvi? non fate 10 una parola, che quel difetto, che volete da effi (vellere lo rimirino in voi medeliini, dovendo voi imitare Agricola, quando fi portò al governo dell'Inghilterra , allorche si trovava molto rilassata, il quale prima da se medelimo cominciò à dare il buono esempio. Sem. Ed il secondo qual sarà ?  Mec. Di trattarli ugualmente tutti, senza mostrare parzialità benche minima verso alcuno.  Sem. Che male potrebbe apportare questa parzialità paterna. Mes. Infinito ; percioche usandola voi, non solamente darette occasione di odio tra fratelli, ed ecco, che invece  [merged small][ocr errors] che il pre ce di svellere da esli i vizj gli accrescere. ste di vantaggio, mà ancora, che il diletto sarebbe meno attento degli altri ad approfittarsi de' vostri buoni docu. menti, persuadendosi egli, che' compacirete i suoi difetti, per l'amore, che loro mostrate, e gli altri,dal mal esempio di questo, che profitco farebbero? Igenitori debbono: imitare il Sole, e la Luna , che risplendono ugualmente as benefizio di cutri: e sappiate che la parzialità, che usò David per Ammone fu la sua ruina ; impercioche questa lo fè divenire incestuoso, e quell'amore troppo tenero, che fè trascurare tal mi. sfatto,incitò Abfalone à divenire fratri. cida; mancamenti tutti derivati dalla connivenza paterna. Sem. Il terzo qual sarà? Mec. D'accomodare l'animo vostro alla dolcezza, ed al rigore secondo le occasioni, che vi si presenteranno. Sem. E queste quali saranno? Mec. Se voi li vedrete attenti, e che & approfittino dei buoni documenti che  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] avete dati loro, in quel tempo sarà opportuna la dolcezza; mà se poi vedrete, che trascurino, e diferčino, dovrete servirvi del rigore per correggerli.  Sem. In tutti i loro trascorsi mi dove. rò contenere ugualmente severo? Mec. Ci sono alcuni difetti, de' quali non si dee far caso, essendo prudenza alle volte non darsene per inceso; altri sì, benche minimi in apparenza, non debbonsi lasciare impuniti : per esempio una tal inavvertenza, nata più tosto da disapplicazione, che da disubbidienza è compatibile; mà non già una benche picciola bugia , ò una finzione maliziosa anche minna, dovendosi quefte con risentimento svellere affatto dow principio; perche se prendono piedes non li svellono più; ed in correggerli di queste non dovete usare il rigore alla prima, mà bensì colle buone far loro confeffare la verità, e conoscere il mancamento, e dipoi con risentimento ainmonirli, facendo loro capire , per quan. to sarà poflibile, la deformità grande  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] di tali vizj, con non perderli sopra quefti più di mira; concioliacosache come insegna l’Ecclesiastico al 20. Mores hominum mendacium fine bonore: du confufro illorum cum ipfis fine intermifione.  Sem. Il quarto quale sarà ?  Mec. Di essere tanto voi, quanto las Madre sempre concordi in ammonirli; perche se un di voi li coreggerà, e l'altra li vorrà scusaro, non solamente non fi approfitteranno della correzione, mà prenderanno animo di far peggio, trovando chi li difenda ; ed in questo errore fogliono cadere frequenteinente le Madri con danno evidente della buona educazione; come par che l'accenni Salomone ne' suoi proverbj al 29. Puer qui dimittitur voluntati sur confundit miirem suam : ond'effe , per non cadere in questo, debbono imitare quelle faggio miatrone del testamento vecchio tra le quali che non fece Sara per l'educa. zione d'Isac, Rebecca di Giacob, od Anna di Samuele; siccome ancora Sansa Monaca, S. Celinia, che fecero ofetime educazioni de' figliuoli, dilendo-   ne da queste nati un S. Agostino, un  S. Remigio: tra le quali merita anche   di essere annoverata la pia, e zelance  Madre di S. Andrea Corfini, che non  desistè giammai d'industriarsi Gintanto,  che non lo vide di lupo cambiato in  agnello.   Sem. Riferitemi ora il quinto. Mec. Dovete parimente tener celato l'amore, che portate loro, ne tampoco con quotidiani gaftighi far loro credere, che Giete disamorato affatto verso di essi ; perche il soverchio amore li farà prendere troppa confidenza con voi ; ficcome alli continui gastighi facendovi il callo,non li prezzeran più. Quella correzione risentita, fatta à suo tempo, cou parole, che li pungano, serve as molei di stimolo maggiore ad operare bene, più di quello che facessero le sferzate. La scimmia, allorche si moftras madre sviscerata de suoi parti,con troppo ftringerseli al lato li uccide, e questo segue per lo soverchio amore, che  por  [ocr errors] porta loro, non già per isdegno. Il destriero più generoso colle continue sferzate divien reftio. Ordinariamente de Madri sogliono peccare di troppo affetto, ficcome i Padri di soverchio rigore; e da ciò ne viene , che più amorosi li portano i figliuoli verso le Madri, che verso i Padri, de'quali hanno bensì maggior timore.  Sem. Ed il sesto finalmente?  Mec. Di non farli trattare in assenza vostra con persone, che possano distrug. gere quanto di buono avere in esli inlinuato; posciache debbono anche credere, che cutti abbiano da operare in quella forma, che voi prescrivere, che elli vivano; e se per disavventura udiranno da qualche malvagio consigliero maslime contrarie alle vostre, quanto male apporterebbero queste infinuandosi in quelle tenere menti, e non atte ancora à ben discernere qual sia il veleno, e quale l'antidoto. Ne vi starò sopra di ciò à riferir esempj, perche di Umili miserie ne accadono giornalmentes  [ocr errors] E  te, come voi ben sapere ; vi addurrà solamente ciò che si osserva in un certo  animale (come riferisce il Salier Hs: - Juppon:) che dimora in una montagna  del regno di Gotto nel Giappone, il quale è in grandezza, e figura fimile al  lupo; viene però ricoperto da un pelo  morbidiffimo al par della seta, e la sua  carne è delicatissima al gusto; entra questo animale bene spesso nel mare; mas se per sua sventura s'inoltra molio in effo, diviene pesce, ricoprendosi di squame, de' quali essendone stato presentato uno al Re di Gotto, che per metà era divenuto squamoso, e nel rimanente conservava il suo morbidissimo pelo, fè ciò conoscere tal verità. Or se il conversare co pesci può far divenire un'animal si morbido anch'effo squamoso,che farà l'innocente giovanetto conversando cou cattivi? Che apprenderà di buono da quel lacche vizioso? da quel cocchiere scapestrato, è da altri viziosi? quando non facesse altro discapito, imparerà a correre, ò pure à guidare land  carrozza, oh che belle prerogative di un giovane nato per governare, e reggere qualche parte del Mondo! Quindi è che rettamente ordina l’Ecclefiaftico al 7. Difcede ab iniquo, & deficient man la abfte. E S. Agostino scrisse che : fitcilius eft fortem stare in martyrio, quam in pravå societate.  Sem. I Genitori, Publio, debbono ugualmente essere à  parte  dell'educazionc  Pub. Certamente, che sì; mà però in modo, che uniforine vada la dettaa educazione, e perciò debbono in tutto portarli concordeinenre: si possono bene tra loro dividere alcune incombenze; per esenipio la Madre, essendo assidua, e non vagabonda, averà maggior campo d'infinuare loro , ed anco di fare apprendere in primo luogo ciò che riguarda alli precetti Divini, dovendoli allan sofferenza donnesca questa lode, che, per non attediarsi punto in replicare le medesime cose infinite volte, riescono in ciò lingolari, cd in segucla d'iftruir. [ocr errors] li nel Galateo oon affetrato, e vano, ma bensì nel serio, ed in quello, che insegna ciò, che appartiene ad un gentiluomo cristiano, il quale non solamente è diretto alle cose mondane, mi alle divine ancora; e sopra tutto al rispecto, e venerazione, che si dee à Dio in ogni tempo, come dispone l’Ecclesiastico. Serva timorem illius, do in illo veterafce; perche soggiunge: Quis enim permanfit in mandatis ejus , & dereli&tus eft? aut quis invocavit eum, & difpexis ilum?  Sem. Ed il Padre quale incombenza doverà prenderli?  Pub. Essendo un poco grandicelli, e come li fuol dire già smammari, dee il buon Padre cominciare ad iftruirli in modo, che possano riuscire graci, ed utili alla Republica, come faggiamence viene avvertito da Giovenale : Gratum eft , quod patria civem , popu  loque dedifi Si facis,ut patria fit idoneus, utiliser E per fare questo dev'essere vigilaore',non solamente à rimuovere da elli certi primi difetti, che sogliono in quell'età manifeítarli, come sono la pertinacia , e disubbidienza , con certa vivacità di spirito contenziosa , e questo farlo più tosto con uno sguardo severo , e con minaccie, che con percosse in sì tenera età ; e qualche volca ancora il togliere loro parte della colazione è un gastigo molto profittevole; mà divenuti, che saranno alquanto più capaci dee istillar loro maslime nobili, cd onorate, e replicatamente, à fine, che se le imprimano bene nel cuore.  Pub. E queste quali sono ?  Pub. La prima, ch'è la più essenzia. le, sarà di amare sopra tutte le creature Dio, e di venerare tutci i Sanri, con fare loro comprendere, che tutto il bene, che abbiamo, viene da Dio, e che non amandolo, non lo potremo da esso conseguire, non potendo avere altro, che lui, che ci soccorra nei nostri maggiori travagli: dicendo appunto l’Ecclefiaftico. Timenti deum non occur.  rent  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] rent mala, fed insentatione Deus illums confervabit, et liberabit à malis,  Sem. E dopo questa ?  Pub. La seconda farà di amare il noftro prossimo come noi medesimi, e di non fare altrui ciò, che sarebbe discaro à noi stesi ; e far loro di vantaggio capire, che ognuno sarebbe miserabile in questo mondo, se non fosse soccorso dal compagno: e venendo l'occasione di comprare qualche cosa, andare infinuan. do loro in quel punto questa verità, che se quel povero uomo non avesse faticato per noi, se sarà farto per esempio, noi anderemmo nudi, ò vestiti al più di pampini, con mostrar loro ancora, che conviene sodisfarlo delle dovute mercedi, affinche possa vivere per averci à servire con puntualità un'altra volta: Capitando lavoratori di campagna farà bene che conprendano,che se quei miserabili non iftassero di giorno al sole, e di notte allo scoperto,non si mangierebbes quel bel pane, nè li berebbe quel buon vino, che ci portano in tavola, onde  [ocr errors][subsumed][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] degli altri che debbonsi con prontezza sodisfare, acciocche possano con amore attendere à coltivare la terra, che li produce mediante la loro industria; e non perdere alcuna delle occasioni , che capitano per meglio imprimere in quei teneri cuori l'amore verso il prossimo, clas puntualità in fodisfare quanto si dee a' poveri mercenarj. Sem. Offervo però quei, che sono più puntuali in sodisfare,peggio serviti  Pub. Non è così, Sempronio, può effere che vi sia taluno, che operi con questa ingratitudine, mà nell'universalc offervo, che chi ben tratta è ben tractato, e poi non ci dee già muovere à ben operare il proprio vantaggio; mà bensì, perche in coscienza liamo tenuti di sodisfarli puntualmente, ed udite che grave eccesso commette colui, che traIcura di farlo: Panis egentium, dice l' Ecclesiastico. vita pauperum eft : qui detrabit illum bomo fanguinis eft. Qui aufert in fudore panem, quafi qui occidis  pre  [ocr errors] proximum fuum . Qui effundit fanguinem, e qui fraudem facit mercenario, fratres. funt.  Mec. Queste massime sono certamen. te necessarie, affinche divenuti adulti non si facciano guadagnare dal mal esempio di alcuni , che costumano di fa. re ciocche non conviene; e sarebbe anche necessario nel medesimo tempo d’INSINUARE ne'loro animi la benevolenza neceffaria verso la servitù ; affinche la possano riscuotere reciproca dalla medefima ; perchè, conforme chiaramente fa conoscere Seneca nell' Epistola, è falso quel detto : Quot servi tot hoftes , dicendo egli: non habemus illos boftes, fed facimus; per non tratçarli in quellas guila: Quemadmodum tecum fuperiorem velles vivere. Onde io sono camminato sempre colle massime di questo grande Uomo nel inorale; che il servitore: 60lat magis dominum, quàm timeat, e për cagione di ciò assegna: quod Deo fatis eft, quod colitur, eu amatur; onde che più di questo noi non dobbiamo esiggere, Y  da  [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] da noftri servitori, e tanto più che non paseft amor cum timorë mifceri. Pub. Dice questo grand’uomo cercamente il vero ; perche se non farà reciproco l'amore tra il servidore, ed il Padrone, avendo continuamente questi. al.lato,continua sarà ancora l'occasione prossima di rammarico tra efl; e fatto che averà l'abito in questo, non potrà più aftenersi di non contriftarlo, per ogni lieve cagione. Sem. Dunque, Mecenate, al parere del vostro Seneca non si potranno licenziarei servitori, chcli porteranno male?  Mec. Non pretend' egli questo; ma folamente, che non fieno i Padroni in fervos fuperbiffimi, crudeliffimi , dow contumeliofiffimi ; come pocrete vedere nella citata Epiftola. Sem. Essendo però noi li Padroni, toccherà ad efli soffrire qualche noftra ftravaganza.  Pub. Dobbiamo anche noi riflettere, fino a che segno possano quest' esferes forferte da cali perchè se le nostre stravaganze fossero grandi, e continue, ci   renderemmo noi meritevoli di riprenfione: vietandoci l'Ecclefiaftico il farlo al  4. ove così dice: Noli effe ficut leo in doa  mo tua evertens domesticos tuos, & oppria  mens fubjeétos tuos . E c'insegna di van-'  taggio , come ci dobbiamo portare co")  fervitori senfati al settimo , dicendoci:  sonladas fervum in veritate operum, ne-  que mercenáriun danten animam fuam.  Servus sensatus fit sibi dilectus, quas ani:  ma sua ; ne defraudes illum libertate, nebo   que inopem derelinquas illum,  Sem. Ma se divenissero a noi importuni, contradicendo a quello, che noi bra.  miamo di fare, doveremo anche collea  rarli?   Pub. Se saranno fedeli, e parleranno per zelo a bneficio voftro, dovrete non solamente tollerarli, ma eziandio amar-, li più di prima; perche farà segno, che non vi adulano,facendo cosa ucile a voi, quantunque la considerino svantaggiosa a loro medefimi, con moftrarne voi dispiacere ; ed udite l'oracolo dell'Eccle  siasti  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Aico al 33. Si eft tibi seruus fidelis, fortis bi quafi anima tua: quasi fratrem , fic cum tracta , quoniam in janguine anima comparasti illum. sibaforis eum iniuftè, in fugam convertetur. É cosa averete acquistato con perdere per vostro capriccio un servitore tanto fedele? quando ne trovarete un' altro fimile ad eiro ? & abbiate da me questa certa notizia, che l'adulazione ne' servitori, si è avanzata a questo segno, per il dispiacere,che alcuni Padroni mostrano nell'udire la verità fincera : laonde esli, per non perdere la loro grazia, vengono forzati ad adularli , c tradirli insieme. Ma vorrei, che questi, che hanno a male di udire da fervitori la verità, facessero attenta riflessio. be a quello che dice Giob. che è questo: Si contempla fubire judicium cum Servo meo, e ancilla mea, cum discepia. rent adversus me : quid enim faciam cum Surrexerit  ' ad judicandum Deuse du cum quaferis quid respondebo illi ? Nunquid non in utero fecit me ; qui & illum operatus eft, & formavit me in vulva unus?  Semp.  Sem. Quando però saranno grandi li figluoli li scorderanno di questi utili avvertimenti.  Pub. Non sarà così quando il Padre, oltre il rammentarli frequentemente, li praticherà esso ancora, dal di cui buono csempio comprenderanno meglio, che debba farli così. Sem. Vorrei sapere , Publio, fe il Pa. dre possa condurre i suoi figliuoli a vedere le maschere? Pub. Anzi dee farlo, con que sta avvertenza però d'imprimere ne loro cuori , che quei,che con sembianti sì deformi, e spaventofi si trasmutano,sono paz. zi, e che quei sconci gefti, e parole oscene, chc dicono, sono tutticffetti della loro pazzia, con infinuare loro, che divenendo effi grádinon lo facciano per non essere anch'elli tenuti pazzi. Sole. vano i Spartani fare ubriacare i schiavi, c li facevano vedere a loro figliuoli, af. finchè prendessero orrore all’ubriacheza za da quelle pazzie, che da fimile get tc agitata dal vino fi commetreyades  rem  ied effendo riuscito a quelli profittevole; fperarei, che facesse il fimile anco a quefti, e tanto maggiormente non avendo il mal'esempio da i genitori, perchè se ne aftengono , cd essendo veriffimo quel detto : Quo fuerit imbuta recens fervabit ode  Tefta diu. Impreffe che faranno da principio ne' cuori de' fanciulli fimili verità, difficil. mente si cancelleranno più.  Sem. E crescendo negli anni, & avan. zandosi nella capacità, che averaano da fare i genitori?  Pub. Di prevenire tutti concorde mente i mali, ne'quali potessero cadere; insegnandoci l'Ecclesiastico. Antò languorem adhibe medicinam , per lo che doveranno porre un antemurale a vizj in questa forma: Già efli averanno cominciato ad aver l'uso di ragione, e potranno comprendere qual fia il male, & il beno, cominciando a conoscere gli effetti dell’uno, e dell'altro; onde venendo loro questi meglio spiegati comprende  ranranno con più facilità qual mostro orrendo sia l'uomo vizioso, e quanto preggiabile sia colui, che abborrisce i vizi, quanto odiati da cucci siano i primi, ed amati li secondi, prenderanno in questa forma ancor efi orrore al vizio; efe non averanno compagni più che cattivi, i quali vadino seducendoli, come potrà cflere, che non s'incamminino ancor'eff per  la buona via? ed una volta, che fi sono incamminati per essa colla grazia di Dio, e con l'occhio paterno vigilante sarà cosa difficile il discostarsi più das quefta. Sem. E delle massime di onore, e de puocigli cavallereschinon ne discorrere? Pub. E che credete voi , Sempronio, che le massime di Dio non siano anch'effe di onore, e cavalleresche? Impoffel fatevi bene di queste, che tutte le altre vengono di seguito ; non sapete voi, che la prima vircù: Eft vitium fugere, fapientia prima Stultitiâ caruifle. Datemi uno , che abbia in orrore il via zio, cche lo fugga, che io lo crederò perfetto in cutro.Sem. Io credeva, che queste matsime dovessero servire per i figliuoli, che s’indirizano alla vita religiofa,non per quel. li, che debbono vivere nel mondo, ove senza aver un poco d'inganno pare, che non a polla convivère;  Pub. Quanto ficte in errore ; perchè ugualmente sono necessarie le mailime di Dio per i Religiosi, che per i fecolari, dovendo tutti indirizarci per la via dell' ecernità ; nè crcdiate che godano quelli, che vivono,come voi dite al mondo, van. taggio alcuno di più di coloro, che ope. rano come si dee; anzi sono infelicillimi, & uditelo dall'oracolo dell'Ecclesiastico. V & duplici corde , d. labiis fceleftis, du manibus malefacientibus, peccatori terram ingredienti duabus viis. Va disolutis corde, qui non credunt Deo; & ideo non protegentur ab.co. Va his, qui perdideruns Justinentiam, & qui dereliquerunt vias rectas, diverterunt inue vias pravas. Et quid facieni cum infpicera esperit Dominus? Se dunque lo mafime del mondo faranno differenti da queste  abban,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] - abbandonatele puré , che non fanno per voi, perchè come vi troverete senza il -Patrocinio di Dio?  Sem. Dicemi, se in casa ci saranno,oltre i genitori, altri parenti, li doveran. no ancor questi ingerire nell' educazione  Pub. Questi ancora , ma però più con dare loro buon' csempio, che con pas role; posciache è cola inolto difficile, che tutti questi siano uniformi nelle buone direzioni di effa'; oode fe taluno di questi-inlinuasse tal cosa, la quale sembrasse differente a quella , che udi da'genitori, o ficonfonderebbe, o per lo meno non prestérebbe la dovuta crea denza a quanto verrà foro insinuato da suo Padre, è questo lo mostrerò col segucnce. esempio . Nel domare i pola Icdri [ che "polledrucci anco possono chiamarsi i figliuoli, avendo bisogno'ral volta ancor esli di effere domati ] fcfaranno diversi li cozzoni, non folamen te ci vorrà più tempo in renderli docili , ma ancora potranno correre pericolo di  pren.  [ocr errors][merged small] -prendere qualche vizio; perchè fentendo, oggi una mano più gravę, nel di seguente altra più legiera,e certe speronate differenti dalle altre, pon comprenderanno così bene quello, che doveranno fare; e cal, volca inasprendoli diverranno anche restj. Se questi parenti fossero tutti uniformi, e caminaffero colle medesime direzioni, potrebb'effere meno male, ma sempre meglio fa, che sia uno solo quel complesso, & armonia vaiforme de propri genitori savj, e prudenti, da'quali una sola volontà li forma.  Sem. Voi, Publio, che avete educa. toi vostri figliuoli da voi medesimo, in, segnatemi di quali documenti xifiere servito per iftruirli nelle þuo be creanze, cda cui gli apprendelte per potermene ancor'io prevalere a suo tempo. Pub. Per non crrare mi sono servito di quci, che non possono fallire, aven, doli ricavati dalla Sacra Scritsura.  Sem. E che parla quefta ancora delle buone creanze, che debbono insegnarli a'figliuoli?  Pub.  [ocr errors][ocr errors] Cena  Pub. Divinamente ne tratta l' Ecclefiaftico. ove dice: Utere, quafi himo frugi iis, que tibi apponuntur, ne cum manduces multum, odio babearis; cela prior  causa disciplina, el noli nimius effe, ne forsè offendas. Et fi in medio multorum fe.  disti prior illis, e exsendas manum fuam, nec prior pofcas bibere.  Sem. E del rispetto, che debbe avetfi a Maggiori, ne parla?  Pub. Di questo ancora al 32. dicen. do: Adolefcons loquere in quâ causå vix', fibis interrogatus fueris; babeat caput rée Sponfum fuum ; in multis efto quasi infciusi, audi taceus fimul' quçrens. In me dio Magnarum non presumas, & ubi sunt fenes non multùm loquaris : talmente che leggendo voi attentamente la Sacrae Scrittura, potrete divenire un'ottimo educatore de i vostri figliuoli.  Sem. Vorrei sapere ancora qual vizio giudicace peggiore di tutti gli altri, in un uomo civile, è facoltoso, sopra il quale fia d'uopo d'invigilarci più, che negli altri, per porerlo affatto svellere da figliuolis  [ocr errors] Pub. Io ho stimato sempre tutti i vizj per pesimi, non effendoci alcuno di effi tollerabile; quello però, che ho sempre proccurato di svellere con più attenzione da miei figliuoli, è stato l'avarizia; perchè ho sempre creduto, che, crescendo questa avesse superato tutti gli alcri, figurandomi l'avaro come una lacuna,che assorbisce in fe moltiffimi rivi, che debbono scorrerc ad inaffiare, e rendere fecondi molti campi; onde che, stagnando effi, possono apportare notabile danno a molti, c.quel ch'è peggio con danno notabile di chi li divia: ed udine, come a propofito l'efpreffe \'Eccicfiaftico al s.F4 & alia infirmitas peffima, quam vidi fub Jole : divitia conservala in malum Domini fui , pereunt enim in afflictione peffima, & in appresso miserabilis prorsùs infirmitas : quomodo venit,fic revertetur . Quid ergo prodeft ei , quod laborauit in ventum ? Cunétis dicbus vitæ fua comedit in tenebris , & in con ris multis, & in ærumna, aique friftitiâ ed il perche lo efpresc Orazio con dire Jemper Avarus eget. Sem. Ora io, che ho udito tanto, non sarà mai pericolo, che divenga avaro , sembrandomi la vita di questi infelicissima . E tornando all'educazione: se il Padre non fosse capace di educare, ela Madre fosse poco prudente, chi si dove. rà sostituire in loro vece?  Mec. Buoni Maestri, è se saranno ricchi , potranno provedersi anche dell' Ajo, di cui discorreremo nella ventura Conferenza.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA Intorno all'uffizio, e qualità dell'Ajo,  Ĉ dei Maestri:  [merged small][ocr errors] V  [ocr errors] Sem.  Ual'è l'uffizio dell'ajo? Pub. L'Ajo dee attendere precisamente al costume, ed   a ciò ch'è ordina. to ad effo. Sem. Ed al Maestro, che apparticoche di fire?  Pub. Oltre quello, che riguarda il costume, dee ancora insegnare loro le scienze, & tutto quello, che ha da premettersi per il conseguimento di elle. Semp. Ma non potrebb’essere anche Ajo Ajo il Maestro, giacche attende questi al costume ancora ?  Pub. Alcuni lo praticano ; altri poi più facoltosi provedono di Ajo, è dit Maestro i loro figliuoli , credendo il far ciò diligenza maggiore.  Semp. Ma realmente, chi di quefti fa meglio?  Pub. Se s'incontrasse un uomo versacissimo nell’una, e nell'altra profesione , mi perfuado: che questi foffe di profitto maggiore, ma per essere raris : fimi quefti,quindi è, che chi può li provede dell'uno, dell'altro.  Sem. Che condizioni dee avere l’Ajo?  Pub. Dovcado egl'istruire nel costume, lo doverà avere anche otti  mo in priino luogo, dovrà essere prus Idente, ed accorto, industrioso, e diri  piego prontojalliduo, crudito nelle ftoorie, non molto colerico, sostenuto, che di abbia ancora parti da faríi amare , fia  prarichissimo delle cose del Mondo , e se fosse versato in medicina, sarebbe anche ile requisito.  Sem.  [ocr errors] Sem, -Mà trovare tante parti in un uomo farà cosa molto difficile.  Pub. E perciòi rari fono quei , che facciano l'uffizio loro come si richiede; contenrandoli', alcuni Padri di averly nobile sì, mà nel riinanente , come si diffe; folamente di citolo, battando loro di avere l'ombra, e non tutto l'effenziale di efia, persuadendosi, che questa possa essere sufficiente.  Sem. E come, anderebbe Gmil'educa. zione?  Pub. Quafi nella medesima maniera , che se non ci foffe chi la dirigeffe , porendo fare l'educando a fuo modo .  Mac. lo so, che dovendosi provede re un Signore di qualità dell'Ajo, furongli proposti diverli ; trà quali vi era un nobile ,'mà poco erudito; un Poera infigne ; ed un eccellente Geografo, ed Aftrologo insieme ; niuno di questi volle al suo fervigio ; ricufando il primo, per il motivo, che di nobiltà il suo figliuolo nè aveva a sufficienza; al secondo oppose , che Aimava fi fosse potuto  trop.  U troppo divagare dal suo ufficio chi at  tendeva a comporre poemi, nè volle il che terzo, perchè dubitava che l'aveffe fated  to troppo girare colla mente, non che avendo altro , che discorrere seco, che  di cielo, e di terra: alla fine gli è proposto un buono Istorico, eccellente Fi.  losofo, e Matcematico , questi disse fà al mio bisogno: perchè gli mostrerà come fi dee yiyere cogli esempi altrui, l'insegnerà a tirare le linee recte , ed a prendere col compasso le misure giuste 3 ; e lo fermo al suo fervigio,  Sem. In qual'età li dee porre sotto la cuftodia dell'Ajo l'educando? Pub. Più prestamente, che si può.  Sem. Mà 'non sarebbe fpefa superdua questa , ponendosi in età, nella quale non è ancora capace di comprendere i buoni documenti?  Pub. Non li chiama mai spesa super, fua quella, che & fà per educare i propri figliuoli, essendo ucilisfimo rinvesti. ·mento,perciocchè, acquistato che averanno elli le virtù si troveranno un gran tesoro, e non soggetto alle vicende della fortuna; ed in quella età, quantunque non comprendano i buoni documenti, nulladimeno questi in qualche parte, cominciano ad imprimerli nella loro mente oltre; di che quanto gioverà, per conoscere le inclinazioni nacive l'averli ayuci in custodia da çenerį anni?  Meç. Si disse tempo fà di uno, che gettava il danaro avendo posto l’Ajo al figliuolo di età adulta, e divenuto già alquanto vizioso, perchè non averebbe allora potuto egli più emendarlo, aven. do prelo già possesso in esso i vizj.  Pub. Questo lo credo anch'io ; per. chè le piante tenere sono quelle, che si possono piegare a proprio compiacimento, dove che le già cominciare ad assodarfi vogliono crescere co’loro di. fepti , quantunque ci si adoperi ogni in. duftria per emendarli. Quindi è che l'Ecclefiaftico così ordina. Filii ribi sunt, Erudi jllos, & curva illos à pueritia illorum.  Sem.  nes  [ocr errors] Sem. Qual onorario si dee dare all' ile Ajo?  Pub. Non ci è danaro, portandosi be  che uguagli il beneficio, ch'egli apporta , onde deefi generosamente trattare,  Mec. V'era un’mio amico', che solea dire che se avesse trovato un educatore, a suo modo , per i suoi figliuoli, non solamente lo averebbe trattato assai bene, mà di vantaggio gli averebbe anche la. sciato nn grosso legato nel suo tcftamento, per maggiormente animarlo ad impiegare ogn'industria poffibile pro de fuoi figliuoli,  Pub. Costui mostrava conoscere cer. tamente l'utile maggiore de suoi figliuoli; perchè ben comprendeva, che rimanendo dopo la sua morte efli bene educati quancunque fossero alquanto meno ricchi di beni di forcuna , sarebbe questo stato compensato dall'utile assai più riguardevole, che risultaya loro dalle virtù acquistate, posciache al parere di CICERONE (si veda). Ora:pro Sexto: virtus in  [ocr errors] tempeftate fava quieta eft, lucer in tenebris, expulsa loco manet tamen, atque hş. ret in patria , Splenderque per fe semper, neque alienis unquam fordibus obfolefcit , quale sorte cerçamente non godono le richezze.  Sem. In qual modo si hanno da prevalere della loro industria, e prudenza nell'educarli?  Pub. Secondo l'età si debbono anche regolare. Nè teneri fanciulli con maniere foavi debbono insinuare loro quello, a che dicemmo essere tenuti i propri genitori, ę fucceffivamente fecondo vedranno i narurali così debbono opcrare  Som. Di quante fpecie possono essere questi naturali? Pub. E quì presente il Dottore, che meglio di me potrà fodisfarvi ; iftruite, lo di grazia in questo brevemente e con termini chiari da capirsi da ogn'uno:  Med. Secondo la diversità de temperamenti sono varj ancora i naturali; posciache questi da quelli in gran parta  des  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] derivano, ed effendo quattro le specie bi principali de temperameati a quattro  sorte ancora si potranno ridurre li naturali de figliuoli, cioè all'igneo, o biliofo, che dir vogliamo, al femmatico, al melanconico, o al soverchiamente allegro, detto fanguigno. Ci sono poi altre specie subalterne, che nascono dalle diverse mescolanze dei liquidi, che nella massa umorale predominano, de quali ora non ne parlo. Sem. Per meglio distinguerli dunque i  doverebbe l'Ajo essere Medico ancora. Med. Cimancherebbe questo d'averci anche da impazzire co'ragazzi, forse che non ci danno da fare a bastanza allora che sono infermi? Sem. Questi naturali sono sempre uniforme in tutte l'età?  Med. Sogliono variare fpeffe volte nelle mutazioni di esse, offervandoli ciò manifeftamente. Sem. E  per quali cagioni? Med. Perchè varia la massa de Avidi, secondo che ci avanziamo nell'età  acquis  [ocr errors][ocr errors] 2 3  acquistãdo energia maggiore alcuni fer, menti col crefcere gli anni, ficcome questa si può scemare ancora accostandoci alla vecchiaja. Sem. Come si dovrà regolare con chi è di naturale biliosoa,  Med. In quefti, per quanto si può, è sempre meglio servirsi della dolcezza; poscia che colle afprezze maggiormente si accendono, ed allora divengono pertinaci. Sem. E se di questa si abusaffero? Med. Allora la dolcezza dell' Ajo dee cambiarsi in rigore per far loro conofcere, che nel mele, e nel zuccaro ancora è nascosto l'amaro. Pub. Di questo già raggionammo baftantemente nella paffata conferenzas istruendone i Padri, onde non stiamo.a dilungarci di vantaggio  Med. Siami permesso di aggiungere, a quanto fù detto, una mia rifeflione, ed è quefta : che le severe correzioni riescono più utili fatte a sangue freddo, canto per profitto dell'educando quanto per vantaggio dell'Ajo , che può senza ira insinuargli le sue più mafurate ammonizioni , e restano anche maggiormente iinpresse ricevute di mattina a ventre vuoto, essendo la mente anche più limpida, dove che ricevute allorche si trovano già agitati dall'errore commesso, non sono cosìcapaci di comprenderle. Sem. Come si doverà contenere co' sanguigni. Med. Questi sono più facili de primi ad educarli  ; perchè sogliono essere difinvolti ;basterà tenerli frenati in certi eccelli, ne quali potrebbero cadere', di soverchia allegria, e curiosità, ed avvicinandosi all'età giovenile tenerli lontani da cose veneree.  Sem. Che potrà fare il povero Ajo allor che sono grandicelli, ed averanno quei stimoli, che fanno prevaricare anche i saggi?  Medi Il miglior antidoto , che fias contro li stimoli della lussuria c, di condurre qualche volta i giovani ne noftri  Spe.  [ocr errors][ocr errors][merged small] 24  spedali, ed in tempo, che si faccias qualche amputazione di parti genitali putrefatte, a cagione del morbo gallico: e cercamente induce loro tale spavento sì crudele spettacolo, che si sono alcuni di questi spogliati affatto di fimili pensieri, per l'orrore conceputo allorchè udirono, che da donne era ve. nuto quel tanto male, e che per esse conveniva soffirire sì atroce tormento di ferro, e di fuoco, e di vantaggio di non essere più uomo. Sem. Ec i malinconici come vanno trattati?  Med. Questi appunto sono quelli, che fanno fofpirare non solamente i poveri Aji, mà ancora noi quando essi sono malati; perchè hanno un naturale stravagantissimo, é maggiormente fe regierà in elli qualche porzione di umore chiamato atrabilare: bene è vero però, che nell'età tenera non hà tal'umore. quella energia, che si manifesta colcrefcere essi negli anni, e questi ò danno al byono, e divengono eroi, ò al pessimo,  elo.  [ocr errors] [ocr errors] e sono molto iniqui, e perversi; debmit bonsi dunque con grande industria  queili  fti trattare, e senza usar loro molta vioslenza, e più coll'affiduirà, e colli efemin pj fatti da lor medesimi leggere, o rifei riti di persone viventi da loro cono, of sciute, che con aspre sferzate;debbonsi  anche tenere divertiti, & applicaci a più cose, alle quali abbiano genio. Sem. Come divertiti, & applicati, parendo queste cose contrarie  Med. Divertiti, dico, con far loro prendere aria amena, conducendoliins  villa più frequentemente degli altri, & i applicati alle volte a cose diverse dallo studio, come farebbe il suono, il  quale se sarà di loro genio li può tenere lontani da que pensieri tetri, che occupa  no continuamente le loro menti; ma di o questo converrà discorrerne più diffusamente a suo tempo.  Pub. Egliflemmatici come van regolati? Med. Questi sono quelli, che se non faranno onore all'Ajo gli recano almeno  poo  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] pochi travagli; perchè fogliono essere pacifici, e tardi d'ingegno: Ben'è vero però, che nelle mutazioni dell'età sogliono alle volte sciogliersi, e divenire un poco più spiritosi, e fare ancora com  petente riuscita.  [ocr errors] Sem. Come suole essere, Publio, di profitto l’Ajo, facendo anche da Maeftro, nelle scienze ?  Pub. Se terrà lo stile praticato da Mae. Ari, riuscirà egregiamente come dicemmo; ma se vorrà poi insegnare colla medesima maniera le scienze, che insinua il buon costume,anderà tutto peffimamente.  Sem. E perchè  Pub. Lo stile tenuto dagli Aji in istruire nel buon costume è d' infingare tutto in voce, il quale nulla giova per fare loro apprendere con fondamento le frienze; perchè queste sarebbero superficialmente adattate , & à quella guifas appunto, che G soprapone loro ridotto in fogli al legno, il quale col tempo di. sperdendol rimane legno ciò, che mo.  Atraa  [ocr errors] tre ftrava di essere oro, dove che il Maes po stro, professore esperto, procura d'in=  finuarle nella mente colle sue regole, e collo scritto, affinche abbia pronto il comodo di ricordarli di quello , che si  fosse mai dimenticato. G Mec. Ora comprendo da che fia  pros ceduto, che viaggiando molti anni fono udj in una Città discorrere alcuni giovani co molto spirito in ogni scienza, i quali per essere di poca età mi recarono ammirazione ; ma avendo avuto curiosità alcuni anni dapoi di sapere se profitto maggiore avessero farto, mi fu risposto, che avevano più tosto deterio.  rato; bisogna dunque che il loro Ajo gli de aveffe istruiti a braccia , e non con fon10 damento.  Pub. Nerone, che fu istruito da Seneca in questa guisa, fece alla prima las sua bella comparsa, ma terminò poi u peffimamente. Sem. L'autorità dell' Ajo sin dove fi  Atende?    Pub. Tanto'oltre, quanto quella del Padre,dovendo essere amplifima, a fine che f. rendano ossequioli, & obedienti ad effo,  Mec. Le Madri però sono quelle, che procurano di ristrignerla,imponendo loro, che non li gastighino, nè li sgridino, ma che li compatiscano se non si approfittano de’loro documenti; e questo lo fanno per rimore, che non fiammalina, e bene spesso,per questo timore di male ideale , ne nasce il certo male della possima educazione loro ; perchè per non disgustarle gli Aji fanno a lor modo, comportando quanti difetti efG hanno: le saggie madri però lasciano che li gastighino ad arbitrio loro, eli correggano secondo il bisogno, conoscendo queste per isperienza, quello che per dottrina ancora conobbe Salomone al prover. 22.  ftultitia colligata eft in corde pueri, d virga disciplina fugabit Cam. Sem. Debbono usare distinzione alcu, na in questo, secondo l'erà ? Pub. Essendo l'Ajo prudente saprà rego:  ne  [ocr errors] golarsi anche in questo , & accomoderă i il gastigo secondo l'erà, econ quei mo.  di, che conoscerà effere all'educando più sensibili ; per esempio se lo scorgessc goloso, il fargli sottrarre qualche pietanza in tavola gli sarà di gran gastigo ; se giocoliero, togliendoli quell'ora di divertimento, lo toccherà lül vivo; e fe averà un certo roffore in sentirsi sgridare, questo sarà appunto l'opportuno suo gastigo; in somma il migliore sarà quel. lo, che si renderà più sensibile.  Sem. Può l’Ajo per qualche suo af. 1 fare allontanarsi da effo?  Pub. Per quanto meno farà possibilu dee farlo; perche non mancano scelerati adulatori, i quali, per guadagnarsi la grazia de padroni giovani,infinuano loro ciò , che può dilettarli , quantun. que lia pregiudiziale, e per ciò se mai doveffe allontanarsi da effo per qualche tempo, dee avere di chi possa fidarsi in sua assenza .  Sem.E qual sorta di divertimento deb, bono permettere loro?  [ocr errors] [ocr errors] Pub,  :: Pub. Tutti quelli, che non sono viziofi, e fono ad esli geniali, per esempio il giuoco delle boccie, della palla, del volanıę, ed altri, anche più laboriosi di questi, competenti alla loro età.  Sem. Nel tempo che sono direrti li fi. gliuoli dall’Ajo possono i Padri educarli ancor effi?  Pub. Se saranno capaci di uniformarfi alle buone direzioni dell'Ajo, pofranno qualche cosa contribuire ancor essi, L'incombenza loro però è di offeryare qual profitco facciano, e di sentirne anche il parere di più persone capaci sopra i loro buoni progrefli , esaminati che li averanno; per altro scorgendo, che yą. da tutto a lyo dovere non debbono con fondere i figliuoli con documenti diffc. reori, ne contristare l? Ajo con varjare il loro metodo; bafterà la loro vigilante  Lopraintendenza ; mà muta quando non vogliano come doverebbero, effimedelimi in tutto instruirli.  Sem. Bramerei ora sapere le condi. zioni che doyerà avere un ottimo Mae. Aro  Pub.  [ocr errors][merged small] [ocr errors] Pub. In primo luogo dev'essere di via ta esemplare, dotto, c prudeme, siccodel me è necessario ancora, che abbia buo  na comunicativa, per farsi ben capire,  fia sostenuto, diligente, e si sappia far 1 amare, e temere, e sia anche pratico  delle tristizie de figliuoli, per non farq gabbare da effi.  Sem. Trovandogi un uomo di tante buone qualità potrebbe anche servire I per maestro di casa, ed elascore nelme,  desimo tempo; perchè facendosi ben ca. pire, indurrebbe più facilmente i debi,  tori a pagare ciò, che debbono particos e larmente ora, che sono tanto renitenti di farlo,  Med. Questo e uno degli errori mal. fimis perch'essendo talunò ottimo per un impiego 2 con darglicne tanti fi fa in modo , che divenga trascurato in tutti; essendo grito quel detto; Pluribus intentus minor eft ad fingula fenfus. Or io coftumo questo s chi mi serve., faccia solamente l'ufficio suo; perchè considero, che non sia poco, che li riesca in una sola  cosa,  cosa, ed ho provato con isperienza, che se taluno procura ingerirsi in più, confondendole tutte , ne pur una ne farà bene.  Pub. Voi Sempronio vi figurate, che fia picciolo affare l'insegnare a figliuoli le dottrine , e ben picciolo il generarli, mà non già il farli divenire uomini eccellenti; perchè in un istante si generano, e con poca fatica, mà per bene addottrinarli non solamente vi è duopo di molti anni, mà ancora di attenta, ed induftriosa applicazione. Per abbozzare una statua ci vuole poco, mà per ridurla a somma perfezzione numero infinito di sealpellate di più ci vogliono; C riflettendo voi al valore della statuas abbozzata, ed a quello della ridotta a perfezione, ben comprenderete il van. tagio di più che ne ricaveranno i vostri figliuoli dal Maestro, che istruisce con profitto.  Sem. Io lo dicca a buon fine; perchè risparmiandosi qualcheservitore,mi riufciva più comodo di fargli un buono af4 fegnamento, acciochè viveffe contea. to.  Pub. Glie lo dovete fare senza accrom (cergli maggiori brighe, se bramare, to che la statua da voi abbozzata abbia iti ma , e valore grande,  Mec. Veramente in quei casi conviene deporre l'avarizia', ed ogni parkmonia ; e non fare come quel Padre sciocco riferito da Plutarco, che domandando ad Aristippo ; quanto paga. mento ricercava per ammaestrare il suo figliuolo, udendo domandare inillo dramme rispose ; questo è troppo ; perchè con mille dramme potrei comperarç  un servo; çoi saggiamente replicò: duna que averai due servi, tuo figliuolo, e  e quello, che comprerąi: facendogli conoscere, che se non era bene ammacftrato, sarebbe diyenuto un servo il fuo figliuolo ancora.  Sem, Quale farà l'incombenza del Macftro?  Pub. Gjà per quanto appartiene al co. fune seguirerà quello, che si è detto  CON  [ocr errors] Аа  1  con cominciare prima da Dio;' nel rimanente poi lasciate pensare ad esso, per; che avendolo scelto pratico, e dotto faprà secondo l'età, e capacità andarlo itruendo come fi dee: bensi voi di. chiaratevi apertamente com voftri fi, gliuoli alla sua presenza, che volete,che lo ftimino, ed obbediscano da Padre, con dargli ogni più ampla facoltà di coreggerli, e gaftigarli severamente in ralo di bisogno; perchè bramare di riconofcere per figliyoli solamente quei, che studieranno, e faranno passata nelle ccienze 1 Mec. Quanto fu mai eroico l'atto, che fece l'Imperatore Teodosio ; impercioche avendo scelto Arsenio per Maestro del fuo figlinolo, ed avendogli detto; Pofthac tu magis pater ejus quam ego, come riferisce il Baronio all’A.380-avvenne un giorno, che passando Teodo, 'fio per la camera, oye Arsenio faceva la repetizione a suo figliuolo, osserva, che il Maestro fe ne stava in piedi, e lo [colaro affifos ne bo potè coptcnere di  non  [ocr errors][ocr errors] non dimostrare ad Arsenio il suo dispia çimento; veramente gli disse ini avvcdo, che voi non sapere far bene il vo. ftro uffizio; tenete, tenere il grado di Maestro, e non di scolaro: Sagra Mac fta , replicò Arsenio, non sarebbe punto convenevole, che io mi ponelli a se. dere per dar la lezzione ad un Imperatore; ciò udito Teodofio tolfe la Coro, na di capo al suofigliuolo,c comando ad Arsenio, che fedesse; & ad Arcadio suo  figliuolo, che stasse in piedi colla testad á scoperta, fin tanto che il Maçstro gli parlaffe,  Sem. E se non faceffero tutto quello i profitto, che io defiderasli, che averò el da fare?  Pub, Vedere, Sempronio, parliamo chiaro, i Padri yorrebbero dopci in bre. yiflimo tempo  i loro figliuoli, onde in quefto non abbiate tanta fretta, lasciateci porre il sempo neceffario per impof  sessarsi bene; må se poi vi accorgette, nel che oon dare tempo al tempo non li apejet profitrassero, doveţe esaminare d'onds  A a 7  prox ,  [ocr errors] erro  [ocr errors] [ocr errors] provenga la cagione, e se saranno più Hgliuoli, vedendo , che taluno di edi li  di approfittaffe, e gli altri rimanessero indietro, la colpa non sarebbe del MaeItro, ma bensi dei figliuoli, e che non applicassero, o che non fossero di mente ancor capace di apprendere. * Sem. E se la cagione venisse dal Mae. Itro, che fosse disapplicato, contenzio, so, o troppo bestiale ?  Pub. E'voi trovarene un'altro į mas non date fede loro alla prima; perchè dopo , che averanno ricevuto il gastigo verranno a piangere da voi, el dole.  che il Maestro fia bestiale; ma non diranno già la cagione giusta; per çui li ha gastigati; ed in questo caso avvertite a non dar mai ragione a loro trovandosi presenti,anzicon volto afpro sgridageli, e dite loro che lo averanno meritato: informatevi però bene come è andato il fatto, per ritrovare la verità.  Sem. Ma venendo per colpa de figliuoli che averà da fare?  Pub,  ranno,  Pub. Se saranno disapplicati, vedete ancor voi di usarci diligenza, con promettere loro premi per animarli ad essere più attenti ; e fe poi venisse dall'incapacità in qualcuno, bisogna averci pazienza; e rimirate le dita delle vostre mani, che ancor’esse non sono uguali, e pur la mano turta insieme fa l'uffizio suo; così parimente sarà la figliolanza, quando venga secondo la sua capacità impiegata bene.  Sem. Dolendosi il Maestro di questo, e dichiarandosi di non poterci aver più pazienza?  Pub. Confolatelo, & animatelo ad averci ancor effo pazienza, conforme conviene, che P abbiate ancor voi  Mec. Si doleano con Antipatro i MaeAtri, che i suoi figliuoli non volevano per tante fatiche, e diligenze usate loro, approfittarsi punto dei loro documenti, e per consolarli egli dicevan che vi era un paese nel mondo, ove le parole si gelayano in tempo di verno appena uscite dalla bocca, a cagione digio  freddi ecceffivi, che le racchiudevano nell'aria, ma appena comparfa la primavera, fgelandoli queste allora si udivano. Non dubitate, diceva loro che verrà ancora in essi la primavera; ed alloras queste parole, che odon'ora da voi, fi Igeleranno ancor effe; continuate pura parfare, per, per uđitne all'ora di vantago Sem. Dovero comparire nel cempo, che si fa scuola?  Pub. Anche, frequentemente s per ve. dere che si fa, per aninarli insieme a portarfi bene, c tenerli in freno.  Sim. Stimate neceffario ohre di tea net loro il Maestro di mandarli alle fouo: le publiche?  Pub. Per godere di quei vantaggi, che apporta l'emuluzione può essere utile : debbonfi però avvertire due cofe; la prima, che vadano sempre accompagnati dal reperirore, perchè del fetvis rore in curto non vi dovete fidare, poa tendolo indurre fare a lor modo:Pal. tra poi che fixno vicini in feuola a come  pa  [ocr errors][ocr errors] mpagni bene accostumati, perchè ivi po.  trebbero divenire maliziosi trattando  con carrivi. eri  Mec. Bisogna ancora stare molto cau., telato nello scegliere questi reperitori, detçi comunemente Pedanti, perchè  vi è stato tra esfi cal’uno, che insegnaya of  a' figliuoli il fare la fabbatina, il giuoco delle carte, & altri vizj in vece delle virtù; e vi è stato chi di questi ancora così iniquo , che ha  procurato, che abbandonaffe il figliuolo la casa paterna , dopo d'ayer rubaro al Padre qualche fomma di danaro considerabile, e seco conducendolo fuori di stato , per ispre. garla. Onde se non si sappia che siano di ottimi costumi, non debbonli consesgnare ad effi i propri figliuoli, per non ricevere quella riprensione, che fece Diogenç Sinopio a quei di Megara, dicendo loro, come riferisce Eliano, che fi contentava di essere più rosto un ariete della lor mandria, che loro figliuolo, perchè a custodire quello impiegavano uomini fedelilimi, & ad iftruire questi  ripų  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] A a 4  riputavano abile chiunque fi folfe loro abbattuto dinanzi.  Sem. E le figliuole fi debbono regola. re nella medesima forma? :)  Pub. In alcune cose non vanno regolate così, conforme udirete nella seguente conferenza. CONFERENZA.  w  CON  [ocr errors][merged small][merged small][merged small] Semn.  He differenza cie  tra l'educazione dei С  figliuoli, e quella delle figliuole ?  Pub. Primieramente, che queste, non dovendosi incamminare per la via delles fcienze , non hanno d'uopo di tanti maeftri; e poi essendo diverli i loro vizj, e naturali inclinazioni, debbonsi quefticon differenti manicre correggere,  Sem. quali sono questi vizj delle figliuole, Pub. La vanità par che nasca con lo ro, quçfta opera, che moltissime di  effe  [ocr errors] cffe sino dalla nascital  par  che mostrino compiacimento in fegtir lodare la loro bellezza : ha poi la maggior parte di cffe, un certo difpreggio, il quale viene da alcuni creduto per vivacità di fpirito; altre poi fin d'allora moftransi vezzofe, e molto affabili; e vi sono ancora di quelle, le quali danno a divede. re appena nate la loro dispettosa rozzezza, contrafegni tutti non leggieri di ciò, che possa nell'età pid avanzata ope. rare la loro naturale inclinazione.  Sem. Di correggere tali difetti cui partiene principalmente. Pub. Alle madri, che con affiduità amorosa aflifton loro ; dovendo i Padri portarsi giornalmente fuori di casa per affari, che li tengono alle volte lungo tempo occupati; c quefte avendo bisogno di una affidua cuftodia da niuno meglio, che dalle Madrila poffono riccvc, re: debbono però i Padri per quaaco fa. rà perineslo lorosinvigilarci attenicamene te anch'effi. Sem. Che dovranno fare le Madri in quella tenera età, nella quale ne put capiscono ciò che loro si dice?  Pub. Poffono far tholco, con impea dire ancora, che non rimirino , ed odino ciò che non è convenevole; perchè quello, che mostrano inclinazione alla vanità; non bisogna cominciare ad ornarle vanamente, pe å far loro certi ýczzi disdicevoli, perchè s'imprimono quelle vanità, e quegli atti con facilità grande in si tenera età; quelle bensi che mostrano dispettosa rozzezza possono follorarli con fimili vezzi  per  inco minciare a poco y a poco a renderle più  [ocr errors][ocr errors] umane.  [ocr errors] Sem. E di poi cominciando a capire , che dovrà farsi?  Pub. Allora farà tempo d'incomina ciare a far loro apprendere , che la bela lezza della donna non confiste ja altro che nella bontà de'coftumi.  Sem. Oh capiranno beneche cosa dano costumi le picciole figliaole?  Pub. Non importa, perchè quantunque allora pon lo capiscano, nulladime  nos  [ocr errors][ocr errors] no ,  effe continuando ad udirlo a fuo tempo ben lo comprenderanno; basta che allora non si secondino le innate inclinazioni loro viziose.  Sem. Mà fe la Madre avesse compiacimento di essere stimata bella, c fpiritofa, e forse anche vana, come potrà istruire la sua figliuola diversamente da sè medesima, e che non abbia da compiacerli anch'essa di ciò?  Pub. Ora entriamo nei guai grandi, perchè se la Madre non diriggerà bene tal affire, l'educazione anderà pellina  menic.  Sem. In questo caso che dovrà farsi?  Pub. Quello appunto, che fù da me praticato, di provederli d'una buona matrona ; e se questa fù utile alla mia famiglia, essendovi la Madre capace, evigilance; quanto più sarà geceffaria in questo caso, che voi mi rappresentare? Sem. Lo credo anch'io; dunque essendo duopo provedersi della matrona, ditemi quai requisiti dovrà avere per far bene l'uffizio fuo ; perchè essendog  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] dismesso questo buon servigio, non si potranno trovare con facilità quelle , che siano esperte.  Pub. Non dev' essere giovane, nè vecchia, mà di età conlistence. Sem. Perchè non vecchia , pocendo quest' avere maggiore sperienza del mondo?  Pub. E vero , mà la vecchiaja ancora la può rendere più fastidiosa, e meno attenta : e poi se dovrà cuftodire le vostre figliuole, che hanno da nascere, chi sà se fosse allor viva; e vivendo farebbo decrepita , quale età non lega molto colla gioventù, e perciò non sarebbe ad effe accetta,dec ancora essere di buo. ni costumi, e pia,di parentato civile, ed onoraco, prudente, discreca, attenta, affezzionata, che sappia ben cucire di bianco, leggere, fcrivere mediocres mente, e che non sia curiosa di leggere: libri profani, e lascivi. p9  Sem. O che mal farebbe, se leggere ancora l'istorie profane, potcado fervire si di effe per meglio iftruirlo?  Pub. Le storie profane non tutge conferiscono alla buona educazione, el, fondovene alcune molto nocive ad essą come già dicemmo, onde chi sà, che prendendo diļetto in udirne riferire alGuna di queste, non prendessero amo, re anche l'educande a simile lectura  Sem. E se sapesse la lingua francese , o spagnuola, non sarebbe maggior van taggio , per insegnare loro quel parla. xe , che oggidi è tanto in uso. Pub. Che pretendete? forse di mari, farle in Francia, o in Ispagna?  Sem. Non lo dico per questo fine, mà veáendo qualche lignora di quei paeli, o trovandoli con alcuna , che la parlasse, sarebbe da esse capita, e por trebbero risponderle.  Pub, Voi vorreft'educare le vostre fi, gliuole per far pompa del loro spirito , e non vi accorgete, che quefta non è la sua strada; e qual nccefficà avete,cheessa converfino , e tratejno con gence ftraniera s volere forse, che apprendano į cofumi loro diffepsadi dai noftri?  Sem,  [ocr errors] [ocr errors] GB  [ocr errors][ocr errors] Sem. Non bramo quefto, mà hò sentito dire , che sia vantaggio grandes e l'avvezzarle disinvolte, e spiricosc, perchè più facilmente fi maritano queste,  Pab. Voi prendereste moglie di spiritofa, e disinvolta  Şem. Io non già, ora chc sò come debi ba sceglierli.  Pub. E perchè dunque volete incam, minare le vostre figlie per una via, che voi la ftimate non recta e non vi avve, dere , che in ţal guisa mostrarefte di amarle poco a  Sem. Il saper ricamare ancora mi per, suado, che la requisto necessario nella matrona:  i Pub. Per far che ? per educarle forse nella vanità e non sapete, che cosi fa comincia bel bello; posciache dalla sem ta fi paffa al’oro, e dall'oro alle perle  per formarne ricami di gran valore. Cor. 4, nelia madre dei Gracchi fe conoscere  a quella gentildonna Capuana, la quale 0  era alloggiata in sua cafa, allorchè moArolle i ricami ida effa farsi,per mio fvario.  bano essere i layori delle Madri, con farde yeder i suoi figliuoli, ed in qual forma da effa fi aducavano, che non era già nelle vanità, mà bensì nelle virtù .  Sem. Bramerei almeno , che sapesse insegnar loro un poco fuono, e di canto,  Pub. Questo poi sarebbe peggio, per: che l'educherebbe cantarine, & im. parandolo per vostro syario, non lo di fimparerebbero già, per non dilectare an, che gl'altri. Sem. Contenendom’io in questo vo. fro antico rigore mi farefte mutare il mondo.  Pub. Io non pretendo tanto : voi mi vichiedere del regolamento della vostra casa; c chcaforse pretendece che da queta debba prendere la norma tutto il mondo a facciano gli altri ciò che vogliono, mi basterebbe di ottenere, che voi, che ricercate il mio parere appren. deste ciò, che dovrete fare,  Sem. Io resto perfuafiffimo di quanto dite per benefizio mio, ma sifetto añ,  cora  [ocr errors][ocr errors] cora nel medefimo tempo a quello, che li il mondo dirà, operando diversamente  da quanto ora li costuma dalla maggior parte.  Pub. Qual parte del mondo stimate voi, che sia più saggia, la maggiore, o la minore? Sem. Ho udito sempre dire, che sia la minore,  Pub. Or dunque; perchè da voi medelimo volete porvi nel numero de i meno saggi? deh seguitate la più sana, e non vi prendere fastidio alcuno dell' altra, quantunque sia più numerosa:  prendete di grazia la mira verso quò eundi dum, non quò itur.  Sem. Rimango persuaso, e quanto m'insegnafte voglio risolutamente fare. Or ditemi per mia istruzione; scelto che averò questa matrona , della quale voglio provedermi prima di prendere moglie, che averò da fare io, e qual' incumbenza apparrerrà ad essa?  Pub. Voi, allor che le consegneretç la vostra figliolanza, le direte: che Bb  fia  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] lia cura sua d'istruirla principalmente nella pietà, e devozione, e che rimuova da essa tutti i difetti allorche li ye desse comparire, senza indugiarvi un momento; anzi che meglio farebbe an. cora, se preveniffc al bisogno con semi, narę anticipatamente ne’loro animili preziosa semenza delle virtù, e che per questo procuri di non perder la mai di vifta : e vedendo ch'ella li porti diligente nel suo uffizio usatele più gratitudine, affinche non habbia da parerle penosas quella vita tanto soggetta, che farà; e credetemi, che il premio è il maggiore incentivo a farci fare con amore quelle cose, che senza di esso ci parrebbono molto penose.  Mec. Questo è certiffimo, posciache chi mai li porterebbe il primo a scalare una muraglia, difesa da tanti nemici are mati, se non se {perasse da questo un premio grande ?  Sem. Fatto che avrò le mie parti, in che forma essa adempirà le sue ? Pub.. Nato che sarà alcuno de' vo  [merged small][ocr errors][ocr errors] ftri figliuoli, principierà il suo minister ro con invigilare, venendo lattato, dalla balia, a quanto sara necessario, con i fare anche da soprabbalia , nè permetteo ra già, come dicemmo, chc oda,quan  tunque non le comprenda ancora, cer, i te canzone amorose, nè pure, che fifli  i suoi occhi innocenti a'rimirare certi datti scomposti, & indecenti; perchè  quantunque non siano allora da esso conosciuti per quel che sono, nulla dime, no in progresso di tempo, conforme fi apprendono le parole, così ancora può  insinuarsi nell'animo qualche cintura noSeminaciva di tali difetti; e procurando, che D in vece di quelle oda, e rimiri cose  profittevoli, cd oneste, delle quali se ne i apprenderà alcuna particella, resterà  questa a benefizio dell'educazione, e i procurerà ancora nel tempo della lacta  zione colle buone sue maniere , di prin-  cipiare ad affezionarselo. Sem. Che dovrà fare dipoi? Pub. Già toccherà ad effa slattarlo, e si perderà il sonno più di una notte. Sem,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] liri  Sem. Sarà bene, acciocche non lo perdiamo anche noi, di tenerlo in qualche mezanino lontano dalle nostre stanze,  Mec. Per questa cagione sono andato io più volte in collera co i miei amici , avendo osservato lontani dal loro appartamento i figliuoli anche lattanti,per timore, come dicean'o , che non turbarsero il loro riposo, e diceva loro: pere dete pur tanto tempo, e vegliate tanto per il giuoco, e continue conversazioni, oh bene non potete vegliare un poco pe’vostri figliuoli? E se non lo volece perdere voi, cui tanto debbono premere, vi persuadete forse, che le donne mercenarie di servigio vorranno perdere il fonno? Dormiranno ben bene, e lasciefanno piangere chi vuole; ma da questo quanti mali ne saranno seguiti lo faprà meglio il Dottore.  Med. lo dalle offervazioni fatte sono arrivato a conoscere questa verità; che più fortunati siano nel mascere, e nel imorire i poveri, che i ricchi; perchè quelli dalle proprie Madri sono lattaţi, eand custoditi diligentemente con amore;docal ve che questi sono consegnati alla indi  screta servitù, e trattati assai diversadai mente in tutto ; e posso riferire a que  fto proposito di averne curati alcuni,che caduti dal letto, per trascuraggine delle balie, ebbero a perdervi la vita , ed altri, per il gran pianto fi allentarono , negando cal volta loro il latte le balie, allorche ne avevano bisogno; e per avere loro ripercosso secretamente il lat. time, quanti ne sono periti? Giccome ancora quanti ne sono morti af gati per averli tenuti negligentemente nel proprio letto? avvenimenti tutti, che afa sai più di rado G odono accaduti tra po  veri , quantunque questi siano assai i più numerosi, che i bene stanti. Della  morte dei ricchi non parlo, perchè ave. rete uoi medesimo osservato questi, be  ne spesso, per li soverchi, e conculcati: rimedj, dati loro, più facilmente, che  i poveri perire, & alle volte in mano de  Ciarlatani. Pub, Se voi dunque avercte amore   per  [ocr errors][ocr errors] Bb 3  per i vostri figliuoli non li terrete lontaa ni dalle vostre stanze in ogni tempo per. che tal vicinanza darà stimolo maggiore alla matrona di avere per loro più attenzione , & all'altre donne di fare me . glio il loro uffizio.  Sem. Riferitemi ora il modo, che doverà tenere in appresso per conoscere meglio s'ella, operi a suo dovere?  Pub. Già fu discorso, ma non sarà mai a bastanza, di quello, che dovrå farli intorno ad imbeverarli ben bene del fan. to cimor di Dio, e crediate pure per cofa certa, che questo è il fondamento principale della buona educazione; efsendo esso solamente capace di rimuovere tutti i vizj, non porendo questi far breccia ove si ricrova benradicato: è vero però, che questo feme santo noni basta piantarlo solamence, na decli col. rivare sempre con atrenzione, e fervore, acciocche non perisca, essendo che a poco a poco germoglia ne teneri par. goletti, ed in questo doverete aricor voi invigilarvi. In seguela poi dovrà,  appe  19  and appena che le figliuole faranno capa.  ci, tenerle impiegate ad apprendere qualche lavoro di quei necessarj a saperG dalle donne, che sono il cucire , far calzerte, cessere, e filare, e questi disporli secondo l'ctà, e capacità loro: nel medesimo tempo impareranno a leggere, e di poi a scrivere, e questa sarà l'incumbenza , che dovrà avere intorno al lavoro,  Sem. O ben le donne civili, e nobili averaono da teffere, e filare che han. no forse da procacciarsi il vitto con que. fti lavori  Mer. Intorno al filare non avete occasione di risentirvene, perchè è torna, ta l'usanza di farlo; non sò però se per bizzarria, o per profitto ; averere pur veduto, Sempronio, nelle case civili conocchie sì ben fatre , che fanno venire la voglia di adoperarle anche a noi al. tri uomini.  Sem. Queste le ho veduce certamente, ma però stare oziose, onde mi perfyadeva, che fossero state fatte per col  locarle dentro i loro scarabattoli nonri: mirandole punto adoperate. Mer. Nonaveranno filato in presenza vostra, perchè non avendo voi moglie non era tempo ancora, the imparaste a filare alla moda.  Pub. Le caste donzelle in questo s'im: piegavano anticamente, e tralasciando di riferire, che lo facessero Penelope, Lucrezia , & infinite Matrone Romane; Alffeandro Magno fi vestiva co gli abiti teffuti dalle fue Sorelle, come racconka Curzio; & Augusto non portò già altri abiti , che quelli, che dalla sua Moglie, Figliuola , e Nepoti erangli ftati fatti, come riferifce Svetonio: Onde se no li vergognavano queste di farlo, per qual motivo potranno aftenersene le tanto inferiori ad effe?  Sem. Ma fe non avessero genio di fardo , tanto più non vedendolo praticarea alle Madri? Pub. Questo genio può farfi venire con riferir loro qualche bell'esempio, & appunto de racconta uno il Surio nel di  fe  fecondo di Maggio, che se coinincies ranno a gustare le cose di Dio sarebbe assal a propogto: dice dunqu'egli, che andando S. Antonino Arcivescovo di Firenze, per una contrada di qite!la città vide un buon numero di Angeli, che  formavano come un corpo di guardias e sopra il tetto di una povera časa; li ven  , ne in pensiere di catrarvi, e di riconoscere l'occasionc y per cui meritava canto favore da Dio; non vi trovò, che und Madre con tre sue figliuole, le quali filavano per guadagnarsi un poco di pane, e stavano con gran modestia : vedendo il Santo il bisogno, che avevano, fc loa to una buona limosina :-Dopo qualche tempo ripassando per la medesima strada vide, che la stessa casa era ricoperta di piccioli folletti, armati di tutti quei stromenti, che fogliono portare li dediti alla libertà del mondo : entrò, evide le medesime, che passavano il tempo a ridere, scherzare', e motteggiare , e fare le belle: Riferito questo, si poa trebbe soggiungere loro, che se Iddiogradisce canto il non stare in ozio in quelle, che sono miferabili, quanto più lo gradirà in effe, che spontaneamente, e fenza bisogno alcuno lo fanno e credetemi, che non mancano modi per fare applicare le figliuole, effen. do queste più docili demaschi.  Sem. Oltre il lavoro, che averanno da fare di vantaggio ?  Pub. In tutte le cose deve esservi la buona ordinanza, la quale tutta dcpende dal sapersi ben compartire il tempo, onde queste essendo pratiche divideráno Je ore def giorno in questa guisa ; la pri. ma della mattina , dette che saranno le figliuole, e veftite di tutto punto, sarà impiegata al servigio di Dio con fare orazione, o sentire qualche cosa di quanto esso vuole da noi; ciò fatto dcefi ristorare colla colazione moderata il corpo, per poi passare quelle ore deftinate al lavoro; e terminate queste , conviene di fare alquanto esercitare il corpo in cose non violence, e permettendolo il tempo, in aria con affatto  [ocr errors] rac  [ocr errors].. 395 K tacchiusa. Avvicinandosi poscia l'oras  del definare converrà prendersi il nutrimento a proporzione dell'età, e poi dopo di questo è neceffario godere alquan. to di riposo, per potere alle ore destitiate tornare al solito lavoro.  Sem. Sino a qual'età possono i maschi ftare sotto la custodia della matrona?  Pub. Fin tanto appunto, che, cono. scendo le lettere dell'alfabeto, possono consegnarli al Maestro, per tenerli in quelle ore, che dovrà far egli scuola fotto la sua custodia; ben è vero peròs che non essendovi l’Ajo,possono ritornare, per quelle ore, destinate al diverti  mento, sotto la cuftodia della medelima $ matroni.  Semi. Nascendo tra fratelli, e sorelle qualche contrasto come doverå regolarli la marrona?  Pub. Sogliono i fanciulli vivaci essere molesti alle forelle, e da ciò ne nascono bene spesso trà loro reciproche aleercam zioni, mà se la matronal manterrå fotenuta a segno, che non pregdano les  [ocr errors][ocr errors] confidenza, avendone rimore di essa, difficilmente si avanzeranno a contendere tra loro, ma caso che la sua efficacia non bastasse,dee di ciò farne consapevole il Padre, o il Maestro, affinchè pensano a prendervi il più opportuno rimedio con tenerli separati. Sem. Crescendo le figliuole in età, e scoprendosi in esse qualche differto donnesco, come li dovrà regolare la matrona per estirparlo? Pub. Non aspetterà quefta , essendo prudente, che giungano fimili diffetti a manifestarsi ; perchè come dicemmo procurerà con preventivi ripari di ab. batterli prima che si manifestino.  Sem. Venendo le figliuole negli anni , ne' quali sogliono alcune cominciare a contristarsi, e fofpirare, che averà da fam rela matrona?  Pub. Le figliuole ben' educate difficilmente cadono in fimili debolezze; ma quando mai ciò seguisse in alcuna, alJora si conoscerà il senno, e la prudenza della matrona; posciachè si saprà inters!  [ocr errors] e nare nella sua confidenza per consigliarl  a far cose non disdicevoli alla sua condi* zione,ed a lasciarsi regolare dal suo amo.  roso Padre. 3 Sem. Ma non sarebbe meglio, quando si vedellero contristate, porle in monastero per compire l'educazione?  Pub. Se sarete sicuro , che colà possano vivere con più ritiratezza, che in casa vostra , ed abbiano migliori direttrici cui dia l'animo di calinare le loro passioni, potrebbe farsi; mà se poi vivessero con libertà maggiore, qual vantaggio ne ricaverebbero ?  Sem. Vivono colà tanto ritirate, che la porta di rado si apre; ne viene permefso l'ingresso libero ad alcuno. Pub. Qucfto non basta se gli occhi, c le orecchie staranno maggiormente aperte; perche per esse po lono entrare le cagioni de' sospiri: e poi voi, Sempronio,mostrate di non fidarvi della voftra matrona , la quale totalmente dipende da voi, enon diffidate punto di tanţe servenci de’monafterj, sopra le qua;  [ocr errors] di autorità niuna voi avere.  Sem. Sarà ben vigilante in questo chi averà cura dell'Educayde,  Pub. Voi y’ingánate$épronio, se crede, te, che l'altrui vigilanza superi quella de genitori attenti, e capaci : onde mi perJuado, che nella casa paterna queste ftiano meglio , che altrove,  Mec. Voi dite bene, Publio, che fiee te capace di custodirle come li dee, mà datemi un Padre, ed una Madre, che ad ogn'altro pensino, che all'educazione delle figliuole, e tanto maggiormente se non averanno una tale donna capace , e fedele a ben diriggerle, o saranno prive di Madre, la sola casa pater. na sarà sufficiente a custodirle?  Pub. Credo certamente di no.  Mec. Or dunque, che fi hà da fare in questo caso per non lasciarle a discrezione dell'infida servitù ? o bisognerà, chę qualche faggia parente la conduca in casa sua, o porle in monasterio, sotto Ja direzione di saggia Maestra, Pub. Non è questo il rimedio appro; od  [ocr errors][ocr errors] priato al loro male, che congste in una gran passione , la quale non si: può rimovere da esse senza cósolarle.Ne  certamente si cureranno già di ricevere i queste in casa loro le saggie parenti: e  ricevendole le imprudenti qual vantaggio ne potreste Iperare ? E ponendole in monaftcro sotto la cura di faggiaMaestra  qual bene potranno ricevere da essa ef$ sendo tra loro discordanti di genio ? fa  rebbe più capace tal una di queste di sedurre altre compagne,a far che si unifor  massero al suo genio , più tosto, che di u mutarlo; onde nè ad esse, nè al monastero oi tornerebbe conto , che vi entrassero, 1 Intorno poi al sudetto riincdio ne parleremo a suo luogo, e tempo,  Şem. E quelle figliuole, che non avea se ranno le accennate paflioni ponno eduei carsi ne monasteri?  Pub. Se i loro genitori sarın capaci, ed attenti, e viveranno all'antica, non fra farà d'uopo cercare altra casa, che las  paterna per educarle, come dicemmo parlando de figliuoli della Conferenzís  [ocr errors] 1, della presente decade ; mà se poi foffe il contrario,non sarebbe buona per esse, ¢ converrebbe anche fanciulle racchiuderle in monafterio, affinchè si discostas sero dalrimirare i mali efsempj domesti ci, specialmente quei, che potrebbero dalle Madri ricevere ,  Sem. Vorrei che mi diceste, Mecenate, in che possono difettare le Madri nella educazione dellc figliuole?  Mec, In due cose principali, che sono l'eccessivo amore che portan loro, e la libertà che vogliono mantenere per  fare ancor esse tutto a lor modo. L'amore non le permetterà di contriftarle, ne riprenderle, e la libertà, che vogliono godere, le disanimerà a procurare di farle vivere diversamente da quello ch'esse coftumano, e vi voglio riferire un caso seguito in mia presenza, Si trovavano in una conversazione alcune gentildonne in tempo di carnevale , le quali domandavano l'una l'altra quante volte avevano condotte, le loro figliuole alle commediese per verità non udj già che alcu  na  if ve le avesse condotte poche volte; vi fù f, bensì la più attempata dell'altre, che hin disse in tempo ch'ella era zitella rare tudi volte G costumava condurvele, e se non # era modeftiffima l'opera, che si recitava cui non potevano già udirla le zitelle; vi fù  chireplicò ancora che non si poteva oggidi far di meno di non condurle;perchè altrimenti fi contrifterebbero tanto, che non ci si potrebbe più vivere ; non dico altro,che vedo il mondo andare da male in peggio come predisse Orazio.  Sem. Oh consideriamo come anderà l'educazione delle cittadine , e dello à plebce !  Mec. Sappiate, che a queste fi è dato da qualche tempo in qua un'ottimo regolamento, essendosi aperte scuole publiche in ogni Rione, e mantenute  dalla generosità del nostro Prencipe , - ove vengono dirette da Maestre molto  esemplari numerose figliuole,molte delle quali si tratrengono ivi tutto il giorno; onde non solamente hanno occasione tutte di apprendere il fanto timor di Сс  Dio,  Dio, ed il buon costume, ma eziandio d'approfittarli in molti lavori dooneschi utili, e necessari per la casa , tenendoli in oltre lontane da quelle occasioni, che potrebbero in esse introdurre difetti; onde fpererei, che quando questo fanto istituto giuagesse ad eliere sufficienre anche  per le più miserabili, un'infinito bene, e più universale se ne porelle ricevere  Sem. Bramerei ora di sapere quale sia il tempo più opportuno d'apprendersi de fcienze?  Pub. Si parlerà di questo quando ci rivedremo,  [ocr errors][merged small] [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] 1  Sopra l' età opportuna d'apprendersi le scienze, cd il modo più façile per accertarsi delle par. ticolari inclinazioni  de' figliuoli,  Sempronio, Publio, Mecenate,  & Medico,  [ocr errors] Pub. A proporzione delle cose li può chiamare ànima del mondo; essendo che questa lo mäntic  ne, clo fà risplen. dete: sconcerto grande certamente formano quelle cose, che sono prive di efsa. Se per sua sventura veniffe genio ad uno, che avesse voçe rauca abituata di fare il Musico, non doverebbe certamen  Сс 2 quali deb  bago Z S Semo 11 [merged small][ocr errors] [ocr errors][merged small]  onde  to   H  fpo.   F 2   Dum  Sem,  A 2  Mec.. ÇON:  IOI  ani  te egli effettuarlo; perchè non troverebbe, quando anche giugnesse a saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque in tutte le cose prendere la sua proporzione giusta, con proccurare attentamente, in fare ciò, di non ingannarli.  Sem. L'erà dunque proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà?  Pub. Quantunque secondo il loro spirito, e capacità deel cio regolare. Nulladimeno prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia proporzionata. E tanto maggiormente, che DEBBONSI PRIMA APPLICARE AD IMPARARE LA LINGUA LATINA PER MEGLIO INTENDERLE. Sem. HO SENTITO DIRE DA QUALCUNO CHE LA LINGUA *LATINA* SI PUO IMPARARE COME SI APPRENDONO GL’ALTRI LINGUAGGI O DELLA MANIERA CHE S’IMPARA LA *LINGUA NATIVA* O DIPO COL SENTIR PARLARE ALTRI CHE LA POSSEDENO. Pub. Vedete , Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia.  tc  * t'e a mico di fare poche novità nell'edu  care, & istruire i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i cavalli  da essi ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida vecchia. Anzi che vi dico di vantaggio, che se vi abbaca  tefte per vostra disgrazia in Maestri, che $ volessero sperimentare modi nuovi per  addottrinarli, non vi prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli perduto ; tempo in mano di questi, converrebbe farli tornare da capo.  Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato Timor  teo, che pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti, adducendone op per cagione , che doppia facica glicon  veniva fare; cioè, che disimparasfero  essi ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte :  onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri nel caso, che non avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc 3  an.  [ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far dilimparare ciocche malamente apprefero.  Pub. E poi,che cosa averebbero a fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria; ina non capirebbero già quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel documento generale, non ben capito,in molte particolari contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle scienze.  Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età?  Pub. Dee benli avvertirsi di vantaggio in questi se convenga allora porli a fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore, quancunque abbia un campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per non vederlo divenire sterile, e poi chi  sà  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] si, che non sia un fiore senza frutto quello, che comparisce prima del suo  tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci đuti di minor ingegno si vedranno cari,  chi di frutti, questi non si rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum durabile.  Met. Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione in lode di un gran Personaggio, e recieztala alla  sua presenza con tanto spirito, che ne. i rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammira  to; il meno ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra efli , domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra ftaja  composta dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi ; e voltatosi egli a quel Personag  gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c capacità grande da giovanetti,  la quale perdono poi avanzati che sono o negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma voi  Sigaore, da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura ! Rimafer  quel Signore in vdir si propra, ed argu  Сс 4  ta ta risposta, la quale fe credere a tutti la composizione essere fata fua. Sem. Questi ingegni dunque, per quanto ho udito, averanno d'uopo più tosto di ritegno, che di stimolo.  Pub. Voi non dovere dubitare di ciò, vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove tra i precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà del freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli altri.  Sem. Come mi dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più ad una, che ad altre scienze?  Pub. Dovrece principalmente fare esplorare il loro genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro capacità, e disposizione naturale.  Sem. Come si potrà conoscere, che fia stabile questo genio? Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i figliuoli dalla più tenera età cominciano a mostrare le loro inclinate egli effettuarlo ; perchè non troverebbe, quando anche giugnesse a saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque in tutte le cose prendere la sua proporzione giu. sta, con proccurare attentamente, in fare ciò, di non ingannarli.  Sem. L'erà dunque proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà?  Pub. Quantunque secondo il loro spirito, e capacità deel cio regolare ; nulladimeno prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia proporzionata ; e tanto maggiormente, che debbonsi prima applicare ad imparare la lingua latina , per meglio intenderle.  Sem. Ho sentito dire da qualcuno, che la lingua latina li potrebbe imparare come Gi apprendono gli altri linguag. gi, o nella manicra, che s'impara la lingna nativa, o dipoi col sentir parlares altri che la possiedono.  Pub. Vedete , Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia.  tc  * t'e a mico di fare poche novità nell'edu  care, & istruire i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i cavalli  da essi ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida vecchia. Anzi che vi dico di vantaggio, che se vi abbaca  tefte per vostra disgrazia in Maestri, che $ volessero sperimentare modi nuovi per  addottrinarli, non vi prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli perduto; tempo in mano di questi, converrebbe farli tornare da capo.  Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato Timor  teo, che pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti, adducendone op per cagione , che doppia facica glicon  veniva fare ; cioè, che disimparasfero  essi ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte :  onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri nel caso, che non avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc 3  an.  [ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far dilimparare ciocche malamente apprefero.  Pub. E poi, che cosa averebbero a fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria ; ina non capirebbero già quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel documento generale,non ben capito,in molte particolari contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle scienze.  Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età ?  Pub. Dee benli avvertirsi di vantag. gio in questi se.convenga allora porli a fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore , quancunque abbia un campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per non vederlo divenire sterile, e poi chi  sà  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] si, che non sia un fiore senza frutto quello, che comparisce prima del suo  tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci đuti di minor ingegno si vedranno cari,  chi di frutti, questi non si rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum durabile.  Met. Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione in lode di un gran Personaggio, e recieztala alla  sua presenza con tanto spirito, che ne. i rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammirato; il meno ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra efli, domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra ftaja  composta dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi; e voltatosi egli a quel Personag  gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c capacità grande da giovanetti,  la quale perdono poi avanzati che sono o negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma voi  Sigaore, da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura ! Rimafer  quel Signore in vdir si propra, ed argu  Сс 4  ta  ta risposta, la quale fe credere a tutti la composizione essere fata fua,  sem. Questi ingegni dunque, per quanto ho udito, averanno d'uopo più tosto di ritegno, che di stimolo.  Pub. Voi non dovere dubitare di ciò, vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove tra i precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà del freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli altri.  Sem. Come mi dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più ad una, che ad altre scienze?  Pub. Dovrece principalmente fare esplorare il loro genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro capacità, e disposizione naturale. Sem. Come si potrà conoscere, che fia stabile questo genio ?  Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i figliuoli dalla più tenera età cominciano a mostrare le loro inclinapo  [ocr errors] ruti zioni, & in proseguimento di essa li vanno spiegando meglio, & alla fine avvici. nandosi al tempo di risolversi, la palesano espressamente, ed in questo caso è  veramente stabile, e fissa. Oh quanto die   si conobbe bene fin da suoi teneri anni  il genjo di Marco Catone : posciache  quanrunque venisse violentato con fiere  minaccie a fare cosa da esso creduta di-  sdicevole da Quinto Popedio Latino, si  mantennc sempre costante nel suo sentimento; il di cui animo intrepido G. avan-  zò, crescendo negli anni; posciache  condotto alquanto più grandicello, da  Sarpedone fuo pedante a casa di Silla  per visitarlo, e vedendo nel cortile di   decto palazzo la lista de' proscritti, eb.  be a dire: è possibile, che non vi sia chi  ammazzi un tiranno sì crudele comes  Silla? domandò egli al suo pedante un  coltello, dicendogli , che ad esso farebbe riuscito facile il poterlo uccidere;  perchè fi poneva a sedere accanto a lui  come riferisce Valerio Massimo, Sem. E se nell'ecà genera avessero mostra,  strato qualche inclinazione ad una scien. za, e poi dopo qualche anno li fossero invogliati di qualche altra, ed alla fine, venuto il tempo da determinarli, voJeffero apprenderne alera differente da queste, che doverà farsi?  Pub. Questi sono di genio istabile, e non li fiffano mai, onde a qualunque fcienza si applicheranno, non sarà mai di lor piena sodisfazione, ed in questo caso consigliatevi con chi ben conosce. rà il loro talento, come sono i Macítri, e da esli comprenderete in quale fcienza ciascun di loro potrà riuscire più atto, e fare in modo , che in quella fi applichi.  Sem. Ma fe moftraffero non avervi geni?  Pub. Questo si fa venire con far suggerire loro, che quella scienza, la qua. Je si crede proporzionata alla loro abilità, sia la più bella, la più nobile, la più utile, c la più dilettevole, che li accomoderanno senza indugio a volerla apprendere.  Sem.  [merged small][ocr errors][merged small] Sem. Sarebbe necessario, che m'in formaste ancora sopra la facilirà , che uno possa avere in apprendere più una scienza, che un'altra  Pub. Se voi scorgerece un figliuolo serio, e prudente, per quel che potrà portare la sua età, divota, e che inclis ni all'ecclesiastico, questi pare nato per istudiare Teologia, Se serio parimente, e prudente, volonteroso di studiare, s che tal volta nelle picciole altercazioni nare tra fratelli effo fi frapponga , e mostri voler giudicare , chi di loro abbia corto, o ragione , a questi fate pur  studiare Legge, che diverrà un'altro Bartolo. Se poi obiecterà, sarà riflessivo, tirerà frequenti conseguenze , questi averà cutti'li buoni requisiti per divenire un'eccellence filosofo . Se lo vedrere ingegnoso in adattare, e difporre i suoi giocarelli puerili, prendere misure di alcune cose, il suo genio lo porterà ad apprendere le Marcematiche ; conforme seguì in Protagora, ed in Biagio Pa. fcali:c fs lo mirerete sonrinyamente  ap  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] applicato a disegnare, o rimirar picture, la sua inclinazione naturale lo porterà a fare il Pittore : finalmente se lo vedrete afliduo nel tempo, che qualcuno sia malato in casa, e desideroso d'allistergli, c stare con attenzione ad ascoltare ciò, che dirà il Medico, il genio, e l'abilicà lo portano a studiare Medicina. Sem. Se sarà nobile però come potrà effere Medico, non costumandoli das pertutto che questi esercitino cale pro feffionc  Pub. Dunque sarebbe affai fortunato uno de’vostri figliuoli; se fosse Medico; perchè essendo singolare, che stimas grande averebbe egli, e che belli acquisti apporterebbe a casa vostra? Sem. E se tal uno morteggiaffe, che odoraffero questi alquanto di cattivo?  Pub. E voi fate, ciò che fè Vefpafiano a Tito, allorchè riseppe, che aveva ciò motreggiato, quando pofe la gabella fopra l'orina, cioè di fargli odorare i danari, che da detta imporzione furono esatti, e trovò il buon figliuolo,  che  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] il modo di medicar cavalli, alcuni nou  3 che non avevano alcun cattivo odore, Dita ed il (mile seguirebbe anche in questi.  Mec. Vorrei sapere da voi, Sempro>nio, se vi sia stato alcun nobile, che abbia imparato a medicare cavalli?  Sem. Che voi non lo fipete! essendo. !ci quel vostro amico, che non solamen  te lo sà fare, mà anco l'esercita , peel rò nobılmente.  Mec. Oh Dio buono,per medicare le bestie s’ha da impiegare senza alcun moc  teggiamento un nobile ! e per curare un -2.14 uoino tanto più nobile di esse hà d'ave. mai retinore di essere motteggiato! più no  bile dunque farà creduto da questi of l'esercizio del Manescalco, che quello  del Medico, giacchè quello è esercitato da nobili, e questo da essi viene abbor. rito?  Pub. Hanno dato alla luce libri,sopra bili, tra quali vi è Pasquale Caraccioli Cavaliero Napolitano, e Marino Gir, zoni Senatore Veneto; laonde potrebbero meglio impiegarsi i nobili nello  elpi scrivere di medicina, per imitarc Corne. lio Celso nobile Romano.  Med. Vi è stato anche a giorni nostri Roberto Boile nobile, e ricco Inglese , il quale non hà risparmiato, ne spefa , ne fatica per accrescere la filosofia fperimentale; e quanto di bene egli abbia fatto, le sue opere lo mostrano , avendolo queste renduto glorioso a’posteri.  Mec. In questo particolare bisogna, che io parli contro di noi medesimi : per ispregare le nostre ricchezze in lussi, lo facciamo prontamente; per impiegarle poi a beneficio della viriù, non ci sappiamo indurre, perchè pajono ad alcu. ni spregate, quantunque realmente non fiano. Mà torniamo al nostro assunto. Sem. Vorrei sapere dal Dottore, da che proceda la varietà dei genj. Med. Questo secondo il mio debole fentimento credo, che da temperamenti poffa in gran parte derivare, perchè colui, ch'è malinconico averà genio as cose serie, il bilioso ad altre più risoluto, il demmático gradirà la quiete, ed  1  [ocr errors][ocr errors] il sanguigno amerà la varietà delle cose,  e poi rifletto, che l'arie ancora, ove alcuni nascono, ponno contribuire molto  alla determinazione de genj, essendoche  vi sono alcuni luoghi,ove quasi tutti attendono ad un solo metiero, ed in un   tal clima li osservano genj affai differen,  ti dall'altro; ben è vero però, che alle  volte ancora le altrui fortune fanno venire il genio più ad una cofa , che ad  un'altra per esempio l'essere un semplice  Soldato divenuto Generale, ha fatto  venire il genio a più d'uno di seguitare  la guerra : l'avere lasciato un Medico  ricchezze considerabili, ha dato motivo a molti di applicare alla Medicina   ed il fimil è accaduto nell'altre professioni. Leggo però che nella Cina, cd  in alcuni altri dominj fuori dell'Europa  quefi genj sono già fissati , non essendo  permesso ad alcuno il fare differente me-  stiero da quello di suo Padre., e perciò   colà igenj sono stabili non potendoli   yariarere a suo modo. Sem. E se quedo genio, che taluna   do  [ocr errors] de'figliuoli hà, non corrispondeffe alla sua capacità, che doverà farsi?  Pub. Questo suole per lo più corrifpondere, quando nasca spontaneamente, e aon da impegno; perchè ci potrebb' essere taluno, che avendo genio il suo compagno di applicare, per esempio alla legge, e questa quantunque non geniale nulladimeno per non discoftarli da esso, volesse anch'egli ftudiarla, ed in questo caso, vedendo voi, che non avesse quell'abilità, che tale profes. fione richiede, potreste farlo allontanare dal detto suo amico per qualche tempo, senza che penetrasse il perchè, e così il genio , che nasce dall'impegno,fi muterà facilmente, quando non vi concorra anche il proprio.  Sem. Come mi potrò allicurare, che fia proporzionato il genio, e l'abilità alla scienza, la quale bramano di acquiItare?  Pub. Niuna cosa vel potrà far meglio conoscere, che lo profitio , che faranno ja quclle, perché è impossibile che  con  [ocr errors][ocr errors] di concorrendovi l' abilità, ed il genio,  questo non si faccia anche da principio,  ed accertato, che voi sarete di ciò vivea te pur quieto di mente, che ci è la sua of proporzione. Sem. E se non ci sarà detto profitto, G doveranno levare da questa per porli ad apprendere alcra scienza?  Pub. Conviene maturare bene fimile si risoluzione, per conoscere meglio don  de proceda il non farsi profitto, poten. do ciò nascere da due cagioni, cioè,o da fimulata inclinazione, o da inabilirà : se provenissc dalla prima potrete fare  da qualche loro confidente scoprire i qual fia la loro propria inclinazione, ;  dove il genio li porti, e prima di perdere maggior tempo ponereli in quellas ad essi geniale ; se poi nascerà dalla inabilità, ovunque li porrete, questa farà sempre impedimento al conseguimento di essa.  Sem. E se procedesse dall'essersipenriti, ritrovandola più difficile di quello, che se l'erano figurata ? Dd  Pub.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Pub. Questi cenereli per istabili, poltroni, che poco di buono ne potrete tiçayare; perchè ovunque gli applicherere , sempre faranno il medesimo, non avendo fermezza , ge sofferenza per la fatica, Sogliono però alle volte alcuoi di questi rimetçerli nella buona strada , quando ciò venisse da una certa pufillanimità di cuore , onde farà bene di ajugarli da principio con buoni repetitori, mediante i quali animandosi , prosegui. ffono poi con profitto ,  Sem. E se non ayeffe taluno genio a fofa alcuna, come mi doyero regolare  Pub. Vi potrete con questi regolare a yostro modo , ogni qual volca či liau Pabilità, e l'ingegno ; perchè sogliono alcuni per modestia in tutço , e per tut: to forromergersi al volere paternoję queIti riescono per lo più virtuofi , ogni qual voltą abbia l'ayerţenza di farli applicare a quella scienza, che Gia proporzionata al loro talento, come già di. femmo Sem. Stimate bene che nel tempo,i che applicano alle scienze si possano , pare per loro divertimento, far applicare al plin suonogal canto, o ad altri civili diverčia 0,1 mçnti? open Pub, Şe li yoletę far divertire day quells, fateli applicare anche a questi , A Colui, che applica, e li approfita in  cose ferie, non bisogna distrarlo con  çosę amene, perchè le prendeffe cal vol. i ha genio grande a queste come ande,  rebbero , Sempronio mio, le serie an  zi che, se ne moftrassero efli genio,dove. a fe da questo diftorli, con dire loro, che  approfittati, che saranno nelle scienze, yoi medelimo volere, che si divețiano o in quelle, ed in turti gli alțri civili orna  mengi . In un caso solamente fi potrebbe ciò permettere, cioè quando il figliuolo fosse di temperamento molto malin. conico, e çetro per solleyargli l'animo contriftato,  Sem. E se la foyerchia applicazione allo {tudio danneggiasse la salute, che converrà farsi, Dottore? Med. Primieramente procurerere, DI?  che  [ocr errors][ocr errors] illbuono per evitare i nocu.  che si moderi ciocche sarà eccessivo; perchè quello che non fi può apprendere ia un giorno, fi apprenderà nell'altro, e fe voi vedrete , che ciò non basti, levateli affatto dallo studio ; perchè è me. glio il figliuolo fano, quantunque fias ignorance, che dotto divenuto inabile a godere il frutto delle sue faciche: e non vi fate dare ad intendere da parabolani, che a forza di rimedi possa superarsi tal incomodo, perchè in tal caso averà due nemici, che lo perseguiteranno; cioè l'applicazione soverchia, ed il rimedio da taluno credulo, o malizio. menti di effa, quando lo specifico rimedio consiste nella totale rimozione dall'applicazione:  Sem. Approfftrati che saranno i figliuoli, che dovrà fare il buon Padre di famiglia per provederli bene? Pub. Ci penseremo trattanto, e la di. scorreremo in appreffo. CONFERENZA sopra gl' impieghi, che dovranno darsi da faggi Padri a' figliuoli  ben’educati ,, e dotti. Pub. o sviscerato ainore de Padri verso i figliuoli, li fa bene spesso cadere in molti eccelli, e partis  colarmente allorche questi nascono ; pofciache fino da quel punto di figurano alcuni di efi , e senza alcun fondamento, di far loro ottenere grandezze, & onori confiderabili, e per ciò allora dispongono d'indirizare il primo per l’Ecclesiastico, a fin che giunga a sublimi posti; di acca fare il fe  con  el  Dd 3  [ocr errors] condo, e fargli ottenere una groni lima dote : d'incamminare il terzo per un generalato di esercito: ed al quarto ; c quinto di dat per moglie figliuole ereditieres e ricche, acciocche poffano passare la quelle famiglic ad ereditarne archie il cognome. Se tali chimere, senza verun fondamento ideates riuscisfero, oh chie bella cosa che sarebbe! l'averebbero con quefti modi certamen. té accomodati tutti affai bene: mà benedetta sia quella volta, che pur una di queste si verifichi in tutto ; posciachè al destinato per l'ecclefiaftico viene genio di prender moglie; a quello per la moglie di farsi ccclefiaftico, o religioso; all'altro per condurre eserciti d'imparate a guidar bene un biroccio ; o muta i fei; ed agli altri destinati, pet rostegno di famiglie altrui, di rovidare, per quanto poisono s la propria , con giuochi , é bagordi ; a quali si darino in preda : e sapete ciò da che nasce dal non avere i Padri appreso bene da Salomone. quello che debbatio fare , qual'è? Cor.  bos  st bominis difponii viam fuam, fed Domini eft. n diriģere grefus fuos; onde per voler fare to tutto da se medesimi, perciò non poffo. ! nio avere buon fine i loro disegni . of Mec. Questo l'ho confiderato anche dio più volte, in occasione, che seativa I dire a Padti: questo l'ho già destinato i per la tal via ; e quello per quell'altra s # conforme ch'elli fossero stati arbitri del  la Providenza Divina, che regge turto, a difpofitoti assoluti delle inclinazioni  de figliuoli ; é volendo ammonire sopra di ciò talun di quefti , mitróncava il dia scorso con dire che già poneva da para te gli assegnamenti necessari, e che pensava ancora alle fpefe straordinarie ; per i quando avessero conseguito quelle caris  che; che bramavano di fare orretiere 2 figliuoli; ed era quelto trent'aniti primas che le potessero conseguirt , onde mi sembra vano le loro menti teatri di commedie, ove fiori personaggi paffeggiano. Sem. Non ci averanno dunque das penfare, i Padri allorche nascono i Ai gliuoli di far conseguire loro vantaggi? DI 4Pub. Non hanno allora da pensare a questo, mà bensì di proccurare, che divengano abili a conseguire quella buona sorte , che Iddio 'averà preparata a meri. tevoli: e perciò fantamente un saggio Padre aveva in una tela fatti dipingere i suoi figliuoli colla sola camicia, e con questa iscrizione.  Tocca a Dio lo stabilire  In che guifa han da vestire . Volendo significare , che a lui non toccava fare altro, se non ricoprirli colla camicia, affinchè non comparisfero affatto nudi ; nel riinanentę poi si uniformavi colla volontà di Dio, acciocche li avesse rivestiti a suo modo, e che questa prima copertura non consisteva in altro, che nella buona educazione , alla quale dovea cffo pensare; onde non prima , che fiano educati, ed istruiti questi nelle virtù,possono i Padri comprendere, che voglia Iddio disporre di eli.  Sem. Qual di questi il Signore Iddio averà disposto per acca farsi? E sem. Quello , che conoscerece più (e  frio, sano, e sensato, e che averà inclina. kizione a questo, perchè avere pur  udito bu qual capacità, e segno ci vuole per prenaf dere moglie?  Sem. Se il primo genito , al quale si suol dar moglie, non avesse tutte queste condizioni, e foffe volonteroso d'accasarsi, che si averà da fare?  Pub. Se gli mancaffe la sanità, o faviezza sarebbe segno, che Iddio non vo. lesse; e voi potreste sostituire ad esso chi fosse più capace..  Sem. É se ci fosse il maggiorasco, che ma potrò far io venendo egli chiamato as  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Farete dal canto vostro tutto quello , che potrete; perchè non manca. no, ripieghi in simili contigenze, per farlo rinunziare a questo, con serbarli un buon assegnamento; mà se poi non vi riufciffe converrà averci pazienza; perchà vostra non è la colpa , mà di chi lo chiamò a questo, che non pensò a tanto.  Sem. E per l'ecclesiastico, chi dielli a doverà incaminare,  Pub,  [ocr errors] Pub. Il più docilc, dotto, e divoto.  Sem. E se non avess' egli tal genio?   Pub. Sarebbe segno che Iddio non lo volesse per questa via, e voi sostituitene un altro ad effo, che l'abbia , quartunque foffe men dotto; o pute incominciatead istradarlo per questa via alla lon. tana, che può essere's che tal genio gli venga.  Sem. É quale sarebbe questa via  Pub. Quella della Avvocatura, se fará inclinato alle materie legali; mà non to fare Avvocato di dome, perchè cið (crvirebbe a nulla.  Sem. Come mi dovrà regolare in far questo?  Pub. D'incaminarlo per la medesima via, che calcarono quelli che sono riufciti eccellenti in tale professione; i quali ne'primi anni cominciarono a rivolta. fé protocolli negli offizj de Notari.  Sem. Mà una persona nobile non potrà far questo.  Püb. E percið non potranno forfe giugnere ancora alla perfezione di quellig che lo fecero:  More  [ocr errors][ocr errors] Med. Vannio pure alla guerra ventu. fieri moltissimi nobili con pericolo giornalmente di morte, e cominciano meri fanci di volontà; perchè dunques non possono fare ancor questo, nel quale non li incontra un fimile pericolo, ed il fine ancora, è retrissimo, onoratiffimos crfendo diretto all'atimigistrazione della giustizia?  sem. E dipoi che dovranno fare  Pubs Prendere pratica delle cause appreffo i migliori Curiali, ed esercitari in questa, passare a prenderla dagli Avvo. cati con iftare sotto la loro dettatvra, se forà bisogno: e finalmeiite im poffeffati, che saranno in detta pratica ascoltare attentamente per qualche tempo i Giudici de primi tribunali; ed allor si, che po. tranno porsi a fare gli Avvocati , tros Vandofi colmi di doctrina , e di sperienza.  Sem. Esercitato che averanno l'Avvocatura che faranno?  Pub. Avendo acquistata perizia maga giore in tal ministerio , c per averlo lom  de.  [ocr errors] deyolmente qualche tempo esercitato , potranno per giustizia , non già per grazia pretendere i migliori posti della Republica, e di grado in grado avanzandosi, potranno conseguire ciò, che bra. mano:  Sem. E’lsudetto genio come verrà ?  Pub. Chi averà amministrato con rettitudine la giustizia, sarà senza dubio rimunerato da Dio; se lo fè a Salomone per avere solamente mostrato desiderio di esser giusto, fupplicandolo di ciò, come fi legge al 3. dei Rè: Quia poftulafti ver. bum hoc , bu non petiffi tibi dies multos; nec divitias &c. ecce feci tibi fecundum Sermones tuos &c. fed, hæc que non poftulasti, dedi tibi : divitias fcilicet, do gloriam; ed udite ciocche dice per bocca d'Isaia al 51. Facite justitiam &c. ed ins appreffo: Beatus vir , qui facit hoc; e nel libro della sapienza al primo : diligite ju, ftitiam , qui judicatis terram ; come volete dunque che, a questi non dia las vocazione ancora di servirlo; cffendogli sì grata la sua servitù.Sem. Se taluno di eisi volesse farsi re, ligioso, che dovrò fare?  Pub. Non altro ch'esplorare se fia vera vocazione, o soggestiones perchè se farà vera vocazioneld, dioè, che lo chiama; onde a questa non dovete opporvi s perchè si sono veduti gastighi assai evidenti fulminati contro chi si è opposto al Divino Volcre, : Sem. Come mi porrò accertare di questa vera vocazione?  Pub. Dovete alla prima mostrare res nitenza in dargli permissione, che lo faca cia : conducerelo continuamente con esso voi, ed informarelo sinceramente di tutte le difficoltà, che potrebbe in. contrare nella vita religiosa; come anco delle astinenze, ad altre penitenze, che tra effi fi costumano, con doverfi privare della propria volontà, allorchè sarà religioso; e se si manterrà sempre saldo, é costante nel suo proposito, crem dete per certo, che farà vera vocazione.  Sem. Mà non sarebbe bene, che lo condücelli alle conversazioni, alle comig  me  medic, ed ai passeggi per divertirlo me, glio, caso che lo vedcili malinconico?  Pub. Questo poi non dovretç fare; perchè allor îi che perderebbe quanto di buono egli acquisto nell'educazione; e non facendoli poi Religioso vi farebbe fofpirare, per averlo voi con defii mo: di improprj sedotto , E non crediatę gia che facendosi Religioso, per vera vocazione,egli viverà infelice, anzi che sarà il più contento, e felice degli altri, per, che godono questi, quando non abbia. no ambizione, ed altri attacchi mog, dagi, sommą tranquillità d'animo,  Sem, Sicchè dunquc sarebbe bene, che facefî venirç a qualcun aloro ancosa la yolontà di farsi religioso, giacchè elli vivono così feļici, e particolarmense a quelli, che fossero incapaci di alcu, no impiego della Republica.  Pub. Ayversite, Sempronio, di non far questo, con modi suggestivi, per fini mondani; come sarebbero, per far di, venire gli altri fratelli,che sono al secolo più facologi mediapre l'augumento delo  la  la sua parte șinunziara, o perchè non saperç a che impiegarlo, mentre questo non piacerà a Dio, onde contentatevi di dare solamente a Dio quelli, ch'esso yuole, e non quelli che non fanno per voi, come sogliono pure troppo effettuar re alcuni, che sc hạnno raluno de figliuo, li difertosi, o di poco fennolo consacra no a Dio, essendo questo il sacrificio apo punto di Çaigo, che gli daya le vittiine più magre, e tanto maggiormențe chę essendo questi turti suoi operarj? come volere, che poslano fervirlo bene, se non avranno capacità sufficiențe di farlo?  Mec, Sarebbero dunque, come quelle vittime, che si offerivano agl'Idoli di Moloc, ed a quello di Sapurno dai Gentili, che morivano nelle loro braccia jufocate senza esser capaci di alçro, che di piançi. Sem. Se paluno & volçís'elimçre da qualunque impiego per starsene senza pensare a cosa alcuna,che averò da fare?  Pub. Coltui bramerebbe darG all'ozio, e non è volontà di Dio, che stia  l'uo  l' uomo ozioso leggendosi nella Geneli al 2. Pofuit eum in paradiso voluptatis, ut operaretur, e se in luogo di delizie non volle , che stesse ozioso l'uomo, come lo permetterà nel mondo? quando allorchè ye lo pose gli disse: In Judore vultus fui vefceris pane tuo, donec rever. teris in terram ; quale poi fa il danno, che apporta l'ozio uditelo dall'Ecclefiastico al 33. Multam malitiam docuit otio. fisas; e maggiormente questo può nuocere a chi hà beni di fortuna', perchè essendo l'ozio il padre di tutti i vizj, che ne seguirebbe da questo? Allorsi che la buona educazione gli gioverebbe poco; onde per ovviare a ciò potreste farli suggerire, se bramasse entrare in corte ove fi sta per lo più a sedere , gon si fatica, ne fi applica a cose di rilievo, discor, rendosi bensì delle novelle della città, e del mondo,e li fà una vita neghittosa,la quale farà facilmente confacevole al suo genio, e perciò, che la provasse un poco: caso poi, che ricusasse questa ancora, allora vedete a chc aveffe genio, e la.  [ocr errors][ocr errors] sciateglielo fare, perchè  sempre sarà meglio, che faccia qualche cosa', che stia coralmente in ozio ; e tra gl'impieghi onorevoli ci sono la pittura, nella quale alcuni malinconici i sono con genio esercitati: il lavoro alcorno: il dar las vernice indiana, ed altre cose simili, confacevoli a chi non voglia intraprendere affari di suggezione, ed udite ciocchè consigliava ancora San Girolamo Epist. ad Ruftic. Vel fifcellam texe junco, vel canistrum piecte viminibus; più costo che ftare ozioso.  Sem. E se tal uno di essi volesse applicare a far negozj di cambi, e ricambi, edsagl’affitci'de dazj, averò da permetterglielo?  Pub. Ci penserei prima d'accordarglielo; non solamente perchè nostro Signore Gesù Cristo levò S. Matteo da far simili esercizj, mà ancora, perchè questi impieghi, che mediante un fallimento, o altri accidenti del mondo ponno scomodare di molto, non sono negozj licuri, anzi azzardolidimi in chihà da perdere molto del suo ; che questo lo faccia chi poco può discapitare di proprio gl’è tollerabile. Sem. Avendo taluno genio alla caval. lerizza, e li dilettasse di mantenere più cavalli di quelli, che Geno necessarj, averò da collerarglielo?  Pub. Essendo tal genio diretto alle bestie, quando fi eccedesse nel numero, o nell'amore verso di effe, non sarebbe tollerabile:nel numero, perchè al parere del Petrarca: in Dial. de equo; Quot equorum mores totidem equitum pericula; e nell' amore, perchè gl'uomini quantūque grádi, che vi cadettero, furono di ciò biasi. mati; tra’quali Alessandro, Augusto, ed altri. Quindi è, che faggiamente dispone il Deutero. Rex non multiplicabit fin bi equos; or dunque come potrà ciò permcttersegli, essendo anche dispendioso?  Sem. Vado or riflettendo come G rę. goleranno quei figliuoli educati benc da Maestri,criusciti eccellenti nelle scienze, se non averanno i Padri attcari, e capaci di dar loro direzioni buone in  [ocr errors] j  tempo, che debbono prendere stato: © che faranno ancora quci nati da Padri poco nobili, e meno ricchi,effendo d'uopo riflettere a tante cose per accomodarli bene?  Pab, La gran providenza di Dio supa plisce a questo; effendoche : bong menfi fuccurrit Deus,Allorchè questi faranno divenuti capaci,cd abili, da loro medesimi comprenderanno qual ha il volere Divino, ed avanzandosi colla loro prudenza giugneranno felicemcate fin dove Iddio averà disposto, che arrivino.  Sem. Io sono rimasto sorpreso allo volte nel vedere cerți mal educati, e poco dotti, ed anco per vie indirctte, giu. gnere a gran posti; ed altri, alle volte quanrunque di vita esemplarc, meritevoli, e capaci, rimanere indietro,  Pub. Questo ancora è un arcano della Providenza Divina; posciachc essas I tollererà, che caļuno s'avanzi per queste ich vie; mà che? vedendosi questi nell'au, ge  delle loro fortunc cadere a terra, çi i fa credere, che senza il Divino ajuto  for  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] formino la statua di Nabucdonosor, 12 quale mediante un picciolo falsolino s' atterra, come appunto provò Sejano. I E quelli poi, che rimirate non avanzarsi, avendo merito, Iddio conosce, che quel posto,che voi credere, che compete. rebbe loro, e non lo conseguiscono, non fàrà per loro,effendoche, oc'incontrerebbero delle disgrazie, o pur sarebbe dannoso alla loro eterna salute, e di  quefta verità non dubiterere punto ; perchè alle volte: honores mutani mores, ondes chi sà, che in questi non seguisse cosi? se volete udire altre ragioni sopra di ciò leggete Seneca che tratta diffusamcnte di questo nel libro:quare bonis viris mala accidant cum fit Providentia.  Sem. E che dice di più di questo?  Pub. Tra le altre cose urili dice la Providenza Divina a coloro, che di ciò si prendono rammarico al cap. 6. Quid habetis quod de me queri pofitis vos, quibus recta placuerunt? Aliis bona falsa circum. dedi , animos inanes velut longo , falla. rique fomnio luff, Auro illos , argento ,  ebo  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ebore ornavi: intus boni nibil eft. Ifti quos profęlicibus aspicitis fi non quâ occurrunt, sed quâ latent videritis, miferi sunt, fordidi, turpes ad fimilitudinem parietum fuorum extrinfecus culti. Non eft ifta folida, sincera folicitas: crufta eft, quidem tenuis. It aque dum illis licet  ftare, co ad arbitrium suum oftendi, nitent , da imponunt cum aliquid incidit , quod difurbet; ac detegat, tunc apparet quantum alta, ac veræ feditatis alienus Splendor absconderit. Vobis dedi bona certa, manfura quanto magis versaveritis, & undique inspexeritis, meliora, majoraque permisi vobis, metuenda contemnere, cupienda fastidire. Non fulgetis extrinfecus: bona veftra introrsum obverfa sunt. Non egere feu  licitate fęlicitas veftra eft. Ferte fortiter, bc.  · Sem. Sin ora abbiamo discorso intorno al modo da provederli senza soccorrerli di proprio, vorrei, che ora m’ istruiste come mi doverò regolare con efli loro nel sovvenirli, vivendo io, e dopo la mia morte?  Pub,  [merged small][ocr errors] Ec 3  Pub. Questo è un prudente quesito, e dev'esaminarsi seriamente, dependendo da questo il mantenimento ancora della buona educazione acquistata ; posciache bene spesso conforme diffe Tacito: felicitate corrumpimur.  Sem. Come dunque mi dovrò regola. re coll'ammogliato? perchè non vorrei pensare al suo mantenimento, fentendo giornalmente molci dolersi de loro Padri, che non li provedono in tempo opporcuno di quanto fa loro bisogno; oltre di che sò ancora, che così pensa mio Padre trattarmi. Pub. Voi dovrete affegnargli unas convenevole, c fufficient entrata, che pofsa baftare per il suo mantenimento; con questa considerazione di vantaggio di accrescerla, secondo che anderà mul. riplicando la famiglia.  Sem. Mà non averà d'avere qualche cosa di vantaggio del bisognevole?  Pub. Qualche cosarella credo anch’io di fi, perchè accadono alle volte certe spefarelle impensace, alle quali nonfi farà dato il suo equivalente assegnamento; mà per altro non debbono i buoni Padri di famiglia essere molto generoli co'suoi figliuoli ammogliati. Sem. E per qual cagione? Pub. Perchè dagli affegnamenti soprabbondanti ne nascono il lusso, las crapola, e cento altri vizj.  Sem. Mà se farà ben’educato non caderà in questi trascorsi.  Pub. L'essere ben’educato opererà , che questi non si dolga del conveniente, e giusto assegnamento fattogli da suo Padre ; mà per altro fate, ch'egli si ritrovi denaroso, troverà ben più d'uno, che gli li porrà d'intorno per farglielo spendere in cose voluttuose, onde toglieregli affatto l'occasione di far questo, che vivererc voi più quieto , ed egli più fano  Sem. Si dovrà quest'ingerire nell'amministrazione dell'azienda?  Pub. Anzi sarà necessario, che lo facciate istruire in tutte le cose, dovendo egli, non solamente dopo la vostra mor  [merged small][merged small][ocr errors] te reggere la casa, mà eziandio se mai per disgrazia voi v'inabilitaste; o pure per la soverchia età volerte attendere alla quiere. Señ. Ed agl'altri figliuoli dovrà farsi assegnamento per farli vivere da se?  Pub. Questo nò: li doverece bensì voi provedere di quanto farà loro'bisogno, al più, che vi potreste stendere; sarebbe d'assegnare loro un tanto per vestirsi, con qualche cosarella di più, mà non già con prodiga mano; perchè l'abbondanza del danaro è la rovina dei giovani, anco ben educati, e credetemi, ch' io sò qualche cosa in questo particolare, e Mecenate ne sarà talvolta informato più di me.  Mec. Voi dire la verità, poichè se un figliuolo di famiglia maneggierà danaro, sarà corteggiato da più d'uno, e tentato da questi a prendersi divertimenti d'ogni genere, dove che se non averà, questi Teduttori faranno come le formiche, che non li accofano ove gon è grano; come dice Ovidio. Hora  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Horrea formicæ tendunt ad inania  nunquam Nullus ad amisas currit amicus opes. Sem. Guadagnando taluno di questi, dovrò continuare a fare con effo lui quello, che fo con gl' altri?  Pub. In questo caso voi potreste fargli da economo , affinchè non ispregasse, con rinvestire in faccia sua i suoi guadagni, per animarlo ad accrescerli; ed infieme, per eccitare gli altri fratelli ad imitarlo; e continuerete voi a mantenerlo, essendo la casa non bisognofa ; mà se non bastassero l'entrate al comune mantenimento, il figliuolo bene educato spontaneamente vi soccorerà col proprio guadagno; non potendol prevalere del consiglio di Solone, come riferisce Plutarco: che solamente i figliuoli, abbandonati da loro Padri, non fossero tenuti, allorche questi avessero avuto bisogno di esser soccorsi da figliuo, li, efli didarglielo.  Sem. E se uno de miei figliuoli foffo; destinato a qualche giverno, o 'alera  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ca. [ocr errors] carica dispendiosa, per servigio del Prencipe?  Pub. In questo caso,Sempronio, con. verrà,che voi facciate tutti li sforzi por. fibili in soccorrerlo, anche oltre il bisognevole:e per queste cótingenze debbo. no i buoni Padri avere cumulato danaro per prevalersene, e non bastando, pofsono anche fare debito; perchè questo si chiama rinvestimento, che a suo tempo, oltre il decoro, recherà anco utile alla casa.  Sem. Vediamo ora come dovrò lasciarli dopo la mia morte, ed in primo luogo come averò da contenermi coll' ammogliato; se lasciarlo padrone libero, o usufruttuario con fare la primoge, nitura?  Pub. Lasciandolo voi, che sia arrivaco in età affodata, e senza vizj, attento alla casa, e versato nel maneggio di effa, potreste anche fare di meno di legarlo con fidecommisso; con tutto ciò, perchè non potrete sapere i naturali de' figliuoli, che da esso nasceranno,  e se  [ocr errors] e se sarà in tempo, per qualche accidca: te di poterlo far esto, non sarebbe male d'istituirlo, con lasciare ad esso qualche porzione libera, per fargli conoscere, che non diffidate della sua bontà, ed at. tenzione in moltiplicare la roba.  Sem. Ed agl’altri, che dovrò lasciare  Pub. Un Ogorevole mantenimento per potere decentemente vivere fecon. do la loro condizione, ed a colui, che foffe capace di avanzarsi nelle cariche, qualche cosa libera per poterlenc prea valere ne'suoi urgenti bisogni , quando le averà ottenure ; må dite che farefta di vantaggio voi, Mecenate ?  Mes. Avendo veduto , che alcuni apa pena eftinti i genitori , quantunque fora to la loro dirczione foffero ftati mode  tariflimi in tutto, pull adimeno pelle o pompe funebri, clutto incominciarona di a slargarli in modo, che non mostravano o essere più quci di prima, cosi ben disci· plinati nella parhimonia; questo dico mi o farebbe, avendoqualche rimedio, acciocche non foffe in tutta libertà loro di manifestare quel ge nio ch'era quando vivevano i padri fie mulaco,a fine di precluder loro affatto la via di darsi all'eccessivo lusso.  Pub, Sapete pure quanto sia difficile il volere regolare le cose canto al minuto dopo morte? e quante disposizioni si fanno, che non fi osservano dagli eredi? or come potrete far mai, ch'elli allora fieno buoni economi di quello, che non è più vostro?  Mec. Tutto va bene, mà però certe cose possono farfi eseguire anche dopo morte, perchè li dispongono in vita, ed allor'appunto, che sono proprie; onde perchè non le potrei conseguire difponendo, che si dovesse ogn'anno rinvestire una parte dell'entrate, la quale io credelli soprabbondante al loro decente sostentamento?  Pab. E che pretenderefte farne di tal vincolato investimento?  Med. Vorrei che dovesse servire per dotare le figliuole ; e credetemi, che  que  [ocr errors] [ocr errors] queste doti d'oggidì, che sono divenute eccessive, sono la rovina delle care, onde quando queste non si dovessero linen. brare da' capitali mi persuado, che sarebbero esenti dal deteriorare per questa parte. Farei ancora assegnamento maggiore a Cadetti, di quello, che alcuni costumano di fare, e particolarmente a quei, che sono ben incaminati per la strada della letteratura, o militare, non servendo questo scarso, ed insufficiente assegnamento ad altro, che a fare maggiormente spregare a primogeniti, godendo più grosse rendite del loro bisogno con pregiudizio de progressi altrui, perchè in sostanza tutti debbonli, e gualmente considerare per figliuoli, e fenza demerito alcuno dell'amore paterno portandoli tutti seco rispettofi.  Sem. Voi Mecenat vorreste reftringere tanto i poveri Primogeniti, che poco rimarrebbe loro per vivere, perchè una parte dell'eredità paterna la vorreste porre a moltiplico, ed oltre di questo  pre  [ocr errors][ocr errors] pretendere ancora di accrefcere gli assegnamenti consueți de Cadetti; onde stencerebbero i poveri Primogeniti a vivere anchę mediocremente,  Mer, lo non hò preteso di appor. car ļoro danno alcuuo, ma bensi più fofto giovamento, liberandoli dallas penosa briga di dover pensare alle dori delle loro sorelle, e figliuoic, facendo trovare queste pronte in tempo, che ne potranno avere bisogno,  Şem, Sę tante deligenze si dovranno praticarç per li figliuoli ben educati, e dosti, che doverà farsi per quei , che non si farango approficcati nell'educa, zione, e nelle scienze  Pub. L'esaminaremo ia appreso,  SON  [ocr errors][merged small] Come debbano i Padri regolarsi nel  provedere i figliuoli ignoranti,  ç yiziosi, Publio, Sempronio, Mecenate, & Medico. [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] Pub.  Alomone non solamente notificò il giubilo grande,che godono i Padri allorche vedono i lo  ro figliuoli ben di. sciplinati , come al 23. dc suoi Proyerbj dice ; Exultat gaudio paser jufti : qui fapientem genuis lætabitur inco; Må eziandio espresse il rammarico, che ne hanno quei , che li vedono viziofi al decimo ferrimo ove dice; Ira patris filius ftultus,  dolor matris, qua genuit eum. Quindi  è, che  è, che l'Ecclesiastico al 16. conchiude: Utile eft mori fine filis , quàm impios habere. Sem. Questi cattivi, e viziosi forse non averanno avuto dircttori nei loro teneri anni, che gli abbiano ben'educari.  Pub. Ci sono di quei, che l'ebbero an. cora, e pure da essi niun giovamento ne riportarono  Sem. Come è possibile questo?  Pub. Dovete voi sapere, che quando il vizio è radicato nel cuore de figliuoli, e che di la si propaga al capo, ardua impresa fi renderà il poterlo svellere, perchè fi rende allora effo quali padrone della volontà?  Sem. Mà perchè questi non possono. coll'educazione estirparsi dal cuore, e dalla mente quando di effa fi foffero impoffesfati ancora è  Pub. Ardua impresa, come disi farà prenderla con vizj chiamati da Salomone nelle sue Parabole al 2 2. Stultitia colligata in corde pueri; e tanto maggior. io figliuoli, pensare allnde  mente quando chi n'è contaminato non coopererà ancor ello per rimuoverli?  Sem. E come potrà farac di meno, avendo avanti gli occhi canti buoni esempj, ed udendo saggi documenti, e ragioni convincentisfime!  Pub. Si trovano questi talmente accecati, e sordi, che non veggono, nè capiscono nè esempj, nè ragioni ; e queIto nasce ancora dal loro naturale, egenio perverso, che in vece di apprendere, e vedere con loro profitto li fà porre in deriGone quanto odono, e veggono, come saggiainente insegna Salomone al 15. de suoi Proverbj: Stultus irridet disciplinam patris fui, qui autem cuftodit increpationes astutior fiet.  Sem. Questi genj perversi donde nascono?  Pub. Dalla poca cognizione dell'onefto, e del vero bene, e da questa deriva, che credono ogni qualunque cosa, che appag! la loro volontà, per onesta, quautunque sia detestabile, ed avendo, fatto in tal falfa ccedenza l'abito, quc  FF  Ito  [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Ito palsa in naturalezza, e genio, per es. ser divenuta la loro fantasia quasi consimile a quei cristalli con artificio lavorati, che fanno comparire le cose proporzionate,e belle per i isconcie,e le íconcie per belle, e proporzionate .  Sem. Indicatemi ora qualcuno di que. Iti vizj tanto perversi.  Pub. Se voi scorgerete in un fanciullo certa crudeltà ferina, qual fù di colui, che con un ago cavava gli occhi a cerci uccelli : d'altri che feriva col coltello, o bastone il compagno, e scorgendo sgorgare sangue maggiormente s'infieriva: o pure una certa inclinazione a trafugare, e nascondere cose non comestibili , prese anco da qualche scrigno: l'essere pertinace, e perseverante nel non dire mai verità, e fare qualche danno per imputarlo altrui; overo quantunque corretto,e gastigato più volte il continuare tuttavia a non volere apprendere cose di Dio, con avere dispiacere di sentirne anche parlare ; imparando ben l'altre dannose al buon costume : non rispettare  [ocr errors] i i genitori , anzi beffeggiarli di più quanworld do sono da elli correcci; e tutti questi di  fetti crescendo esli negli anni vedendosi avanzati più rosto, che diminuiti, credete pure, che limili vizj sono già divenuti padroni del cuore, e della volon. tà.  Mec. Vi fù uno di questi, che in età di cinque anni ammazzò con coltello un  fuo compagno, e non essendo capace, i per  essere di sì tenera età, di gastigo, o proporzionato a tal'eccesso, commesso anche con crudeltà  per  li rinovati colpi, a che gli diede, fu fatto caftrare in pe  na da quel Prencipe dominance, dicendo egli, che non voleva razza di simili fiere nel suo dominio.  Sem. Mà hò udito riferire più volte, che pur si rendono máfuete le fiere ache o più crudeli; com'è poflibile dunque, che  questi, in qualche modo, dall'industrias umana non si possano domare? esaminiamo di grazia, se vi poress’essere qual  che rimedio, per rendere mansueci anco o questi, o pur datemi sopra cio, per mio  Ff 2  re  regolamento, qualche buon consiglio ; perchè , fe Iddio per gastigarmi mi desse un di quefti figliuoli, io sarci il più infelice uomo tra tutti i vivenci.  Pub. Lo credo, e perciò bisogna, che cominciare da or'a supplicarlo, che non vel dia , ed essendo egli sì misericordio. fo, potrete dopo reiterate preghiere an. che sperarlo; e voi, Dottore, avete alcun rimedio di quelli, che chiamare eradicativi per isvellere questi vizj?  Med. Se non foffero cotanto radicati spererei disì, mà farò qualche studio particolare , anche intorno a questi, per vedere se G trovasse alcuno specifico, almeno, che potesse minorar loro tant' orgoglio,  Pub. Se si trovaffe questo sarebbe gran vantaggio; perchè allora coll'educazione li potrebbe fare qualche cosa di più, se non in cutti, almeno in alcuni di esli , onde pensateci seriamente, e fare qualche sperienza tractanto, per riferire a suo tempo ciò, che averete ritrovato giovevole.  Sem.  [ocr errors] .  Elio Sem. Mà intanto insegnatemi almeno แบ่ง quello, che li potcffe fare di vantaggio 11  nell'educare questi, perchè poi, che averà ritrovato qualche rimedio il Dotcore, mi informerà di quello.  Pub. Se fi potesse discernere in tempo, che prende il latte quel figliuolo,in cui la crudeltà volesse fare progresi, la prima cosa che farei, sarebbe, di mutargli la nutrice, se fosse donna risentita, e tiera, ed in vece di questa gli farei dal Dottore scegliere un latte di balia pacifica , e femmatica; effendocche di ciò me ne porge morivo quello, che seguì all'imperatore COMMODO (si veda), il quale per essere stato nudrito da una donna rifen  tita, e barbata come un uomo, data gliela affinchè diveniffe generoso; mà in  vece di questo divenne un gladiatore,  per non dilergarfi di altro, che di sangue, j  e di caroificine, ed hà ben creduto talun che appunto detta balia fosse figliuola di gladiatore.  Med. Olrre lo sceglierla proposito, fi potrebbe anch'essa far nudrire di erbe,ed altri cibi di tenue sostanza, e toglierle ache affatto l'uso del vino, e slattato che fosse il fanciullo converrebbe non fargli gustare, ne vino, ne carne per alcuni anni; mà è cosa difficiliffima, per non, dire impossibile, a conoscer quisto ne? bambini.  Sem. A questi sarebbe bene, fin dalla tenera età cominciare ad usarglı gran rigore per vedere di domarlo?  Pub. Se si verificasse realmente che le vespe muojono nell'olio, e risuscitano nell'aceto, converrebbe, per estinguere vizj li perniciofi, valerli più costo del dolce lenitivo, che dell'afpro pungente; contuttociò per assicurarsi meglio con. viene regolarfi secondo gli effetti, che produrranno in loro i gastighi ; essendoche xlcuni fanciulli nella tenera era acora s'infieriscono allorchè fi veggono perciotere colla sferza, onde senza  pro ditco alcuno questi di batterebbero, come insegnò Salomone: ne suoi Proverbi. fi contuderis ftultum in pila quafi pofanas feriente de super pile, non aufes retur ab eoftultitia ejus Semo  erli che  Sem. Ponendosi questi per la buona via , con deporre gran parte della loro fierezza, si potrà sperare, che divengano buoni?  Pub. Dee sempre temersi, che possano ricadere nel medesimo eccesso, non potendosi ne anco alle bestię togliere af. fatto la fierezza nativa, quantunque mostrino essere divenute mansuete.  Mec. Riferirò a questo proposito ciò che seguì di un Leone : questo era divenuto apparentemente fi mansueto,chę girava per tutta la città senza recare molestia ad alcuno; mà abbattendosi un giorno in un macellaro , che portava sulle spalle un gran pezzo di carne , se gli avventò alla vita, lo ferìgravemente colle unghie,e se non era pronto a dargli la detta carne,l'averebbe anche sbranato. Così mostrò la sua fierezza , che teneva di anzi celata.  Sem. E quelli , che mostrano inclinazione al furto ?  Pub. Questi ancora, se Iddio non gli ajuta', termineranno malamente la  lor  [merged small][ocr errors] Ff 4  loro vita; effendo cosa assai difficile, per non dire impoffibile, il poter svellere af. fatto tal vizio ; perchè quanrunque alcuni non siano forzati dal bisogno, las cattiva loro inclinazione li porta a rubare, Sem. Si possono questi gastigare colle sferzate?  Pub. Così fi dee fare, perch'essendo vili di natura, enon superbi come i primi , dalle percoffe possono ricevere profitto, almeno in aftenersene per qual  che tempo.  Mec. Abbiamo l'esempio di colui , che condannato a morte per ladro, conducendosi al paribolo fè premurofiffima istanza di rivedere sua Madre, ed oricnura che l'ebbe, avicinoffi tanto ad essa, che coi denti le svelre un orecchia, dicendole: per colpa voftra io vado al paribolo, perchè, fe foffi ftato da voi ga. ftigato da piccolo, non vedreste tale spettacolo, ne tampoco io soffrirei queIta ignominiofa morte. Pub. E neceffario ancora condurli a  31  2  vedere far giustizia, e con tal occasione insegnare loro qual gastigo meritano quei, che rubano', e che in oltre sono semprc miserabili questi infelici, come ben conobbe Salomone al is, de' suoi proverbj:Alii rapiuni non fua, & femper in egeftate  funt, Mec. Un simile obbrobrioso speccacolo indusse una volta gran terrore ad uno quantunque ftolido mendico ; poscia che per essere stato giustiziaco un monctario falso, aveva una collana appesa al collo di dette monete falsificato da esso, e credendo il mendico, che per quelle monete foffe fatto morire , al. lorchè taluno gli esibiva una moneta di argento, la ricusava con allontanarli da eslo, contentandofi solamente di quelle di rame, che non le aveva vedute appese in quella collana di vituperio.  Sem. Mostrando poco rimor di Dio, e meno rispecto a genitori?  Mec. Questo appunto, essendo il vi. zio peggiore di catti, diviene incorrig. gibile per opera de'genitori.  [ocr errors][ocr errors] Sem. E per opera di chi fi potrebbe emendare? Mec. Polemone essendo giovane fu viziofiffimo a segno che si portò un giarno alla scuola di Zenocrate, non già per apprendere da esso alcun buon documento, mà bensì per disturbare più tosto quei, che aveano genio d'apprenderli; avvedutofi di ciò il saggio filosofo, cominciò a favellare sopra il vivere onesto, e li vantaggi, che da esso firiportavano, e con tali convincenti ragioni, che rimase sorpreso il vizioso giovane a segno, che abbandonò i suoi viziosi compagni per seguitare Zenocrate, da i di cui buoni documenti, u modo di vivere esemplare, si cambia da peffimo, ch'egli era, in ortimo, e da ciò ne deduco, che ancor voi non dovete indugiare un momento di più, essendo il figliuolo in età capace, di non mandarlo in qualche esemplare seminario , affinchè , co'i documenti, e colli buoni esempj apprenda , e miri ciocche fare gli convenga; e proccuracedi non farlo tornare più a casa vostra, se non averà mutato costume, e state ancor voi lontano da esso, mostrandovi dif. gustato del suo modo di vivere'; e sapranno ben quei buoni directori, ayvezzi a domare fimiliceryelli, allertarlo al bene, e con modi più spedienti correggerlo, e punirlo, affinchè li emen. di.  Pub. Debbono parimente i Padri ftare cautelati nel gastigare i viziosi loro figliuoli, divenuti grandicelli, perchè fi potrebbe dare il caso, che questi sentendosi percuotere, fi rivoltassero contro di essi, e li zn al trattassero ancora:  Sem. Se per disavventurà de poveri genicori rimanessero questi incorriggibi. li , che fi averà da fare per provederli? Pub, Udite come mai parla bene a in questo proposito l'ecclesiastico. Confufio Patris eft de filio indisciplinato: onde come potrà mai in simile confun fione régolarsi egli con prudenza! Certa cosa è, che per prender moglie questi  non sono buoni ; per Rcligios- neanco; .  de  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] de maneggi della Republica non sono capaci; talmente che non sapranno, che impiego potessero far loro ottenere.  Sem. Perchè non sarebbero buoni a prendere moglie ; pofciachè chi sà, che divenendo capi di casa non mettessero giudizio?  Pub. A voi darebbe l'animo di convivere insieme con costoro, se vi foffero compagni  Sem. A me difficilmente.  Pub. Or dunque, perchè volere porli a convivere con una giovane senza fpe. rienza? ed a che vica infelice fiespor. rebbe questa con marito si vizioso? E poi roi procurate fare il poffibile per togliere da effo i vizj, e non essendovi ciò riuscito , pretendere forse far razza de suoi difetti In quanto poi, che il prendere moglie li possa fare mutar coItume, non è credibile ; perchè, se Mulieres faciunt prevaricari fapientes, che faranno a vizioli di questa specie? Ne fi potrà persuadere alcuno, che questi tali non abbiano già provato le dissolu.,  sez:  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tezze di Vegere, perchè i vizj al parere di Seneca non vanno mai foli; e se quem ste non hanno moderato il loro orgoglio, che più potranno acquistar di buono conginngendosi in matrimonio Il dir poi, che si prenderanno il pensiero dei loro tigliuoli nell'educarli, questo è lontano dal vero ; perchè li vorranno bensì allevare limili adelli, e quando ciò non riuscisse loro palcsemence, mediante le diligenze usate in contrario dalle madri, faranno il possibile nasco, ftamente di conservare in effi, alincno in propri difetci, acciocche non li dica, che non liano loro degni figliuoli; come ap parisce dagli esempj dell'ubriaco, e de beftemmiatore riferici di sopra .  Sem. E qualcuno di questi perchè non si potrebbe indirizzare per la vian Ecclefiaftica  Pub. Peasate voi che questi abbias vera vocazione di caminare per queIta santa via.  Sem. Mà se G dichiaraffe, che a volesse indirizare per essa, e mi pregafle,  che  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] che gl'impetrafli qualche pingue beneficio, averò da ricusare il farlo 2  Pub. Certamente che sì, perchè quefi farà mosso dall'intereffe, cioè dal conseguire l'utile del pingue beneficio, non già dal servire a Dio, come far dovrebbe ; onde farà non diffimile a colui, che brama prendere moglie, non per il fine del santo Matrimonio, mà per l'intereffe della pingue dore, che si ritrova colei, che vuole sposare.  Mec. A proposito di groffa dote fece una donna accorta una bella burla al suo futuro sposo: Ella era per verità alquanto deforme, e perciò più d'uno dicca al giovane, che la voleva prendere, il qual era molto bello, che l'aveffe rimirata meglio prima di sposarla,cui rispondea, che li bastava di effettuare il matrimonio, per dare di mano alla grossa dore , che aveva; per altro, che di tal moglie punto non si curava i Fù ciò riferito alla giovane, la quale fe portare da una sua damigella, allorchè fi dovea spofare, una grolla borsa di danaro in Chiesa, ed  aspete  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] aspettò , che il parroco avesse domandato allo sposo se la voleva,il quale udito ciò disse, senza indugiarvi punto: disi; allora l'accorta donna si fe sporgere la preparata borsa , e tenendola nelle mani, allorchè fu ricercata anch'essa del suo consenso, nulla rispondeva ; ne fi sapeva che fine doveffe fare quella borsa; perchè il futuro sposo si speranzava, che dovesse servire per un publico donativo per  effo , ed i Chierici, che fosse la mancia per loro : alla fine stimolata più volte a rispondere ella disse; se questo fignore si è dichiarato volersi sposare collas mia dore, questa, mostrando la borsa,essendo parte di essa, mentre non risponde, è segno , che non lo vuole qual consenso dunque hò da dare io s'egli brama la mia doce, e non già me? e così confuso, e mortificato partì il giovane ; onde non vorrei , che facesse il beneficio ancora il Gmile, di ricusarlo, facendo con esso l'amore a cagione della sua dote.  Pub. E poi dovreste anche rifletreredi quanto scandalo sarebbe un ecclefiastico vizioso , dovendo cgli essere lo fpechio de'buoni costumi; ne fperace , che questi,che si muovono per fimile fine possano divenir buoni; ponno divenire benli peggiori impiegando il danaro sa. gro in cose viziose.  Sem. E se caluno di questi volesse applicarsi al governo della Republica, c chiedesse il mio ajuto,per poter e ottencre qualche posto per via di favori, e di regali; perchè non ho da compiacerlo?  Pub. Questo ne tampoco doverete fare, perchè se fosse d'uopo amministrar la ! giustizia, nó direbbe già egli quello, che dice GIULIO (si veda) CESARE: che per un Regno di poteva far torto alla giudizia, perchè lo farebbe per assai meno, effendo ano che  capace di farlo per sodisfare an folo de suoi viz); onde tanto voi, quanto chi vi avesse contribuito entrerette a parte di tutte l'ingiustizie, ed iniquità chia capace di commettere un vizioso.  Sem. Che dunque doverei fare , per non vivere da disperato , quando avelli alcuno di questi?  Pub.  [ocr errors] Pub. Mandarlo alla guerra per fargli provare come Gi vive, cd alle volte  qucIta è l'unica medicina di questi cali; perchè se fono fanguinarj possono faziarsi del sangue de nemici; se attendono alla rapina nc'saccheggiamenti possono sodisfare la loro ingordigia;se poco cimorati di Dio, e niente rispettoG a genitori, vedranno quanto temere Gi debba , e rispetrare un Capitano quantunque non gli abbia creati, o generaci; onde poirebbe essere, che il Signore Iddio gli toccaffe il cuore, e facesse comprende, re, che se tanto li fa per un uomo, quant. to di più fi doverà fare per Iddio, e per chi lo gencrò !e sappiate , che dalle lega gi di Mosè venivano questi condannati ad esser lapidati dal Popolo, come nel Deuteronomio. Si genuerit homo filium contumacem, da proteruum, qui non audiat Patris , aut Marris imperium, co coercitus obedire contempferit, appraben. dent cum, ducent ad seniores civitatis illius, & ad portam judicii , dicentque ad ços c. lapidibus eum obruet populus Civis  Gg  tatis  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] taris, ut auferatur malum de medio ucStric. onde in vece di vedere fimile spettacolo sarà pur meglio mandarli alla guerra, la quale faggiamente fu difi. nita: Infolefcentis generis humani tonfura.  Sem. E se ricufaffe di andare alla guerra?  Pub. E voi figuratevi, che vi sia già andato, e fatto prigione ; onde rinchiudetelo in qualche fortezza : non avendo però commessi ancora reati gravi , affinchè non siano puniti dalla giustizia con morte ignominiofa; conforme qualche volta è seguito; e tenerelo ivi fin tanto che camperere, che così farcte sicuro, che non commetterà gravi eccelsi, trovandosi guardato, e custodito , Non bisogna però, che prendiate cal risoluzione a sangue caldo, mà fateci matura riflessione: c regolatevi ancora col consiglio di qualche faggio , e buono amico,  Sem. Per dopo la mia morte comes avero da disporre le cose ?  Pub.  Pub. Con lasciare a cattivi figliuoli ma solamente tutto quello, che non potrei te cogliere loro, non per odio persona  le; mà de loro vizjicon questa condizio. ne però , ch'effendosi ravveduti, dopo un triennio di vita esemplare, poffino godere un tanto dei frutti della vostra eredità; e perseverando nel ben operare abbiano ancora d'avere qualche accrescimento maggiore ; qual perdano intieramente, ed immantinente, ricornando a menare vita scandalosa.  Sem. E se fingeranno di essere divenuti buoni a fine di poter godere quel i frutto maggiore?  Pub. Non sarà meglio, che facciano così, che operino sfacciaramente male? de l'interno Iddio solamente lo rimira; le  l'esterno appena è palese a gli uomini, i  quali di questo solamente pouno appagarsi; e poi vi è stato qualcuno ancora,  ch’hà incominciato a menar vita migliore, per conseguire qualche premio,  che poi si è ravveduto da dovero. Mec. Vi è l'esempio di quel Soldato,   che  [ocr errors][ocr errors] bu  COM  [ocr errors] [ocr errors] che si racconra essere stato convertito da S.Francesco Saverio : Questi era un pessimo uomo, ed iracondo a segno, che non averebbc sofferta una parola anche indifferente, che non l'avesse appresa detta per lui, e volesse anco vendicarsene . Le ainmonizioni, ed esortazioni faccegli dal Santo nulla giovavano; alla fine li disse mostrandogli una moneta di oro, se voleva guadagnarsela rispose francamente di sì : or sù dunque replicò il Santo venire meco, e giriamo d'incor. no l'esercito ; Io la porterò in mano, affinchè la miriate, e voi non avete a fare altro, che di sopportare con pazienza quello, che udirete dire contro di voi. Fù dato principio alla grande ope. ra,ed egli rimirando con occhi tifi l'oro, si rideva di quanto male udiva contro di sè, e cerininato felicemente il giro, guadagnò il premio. Allora il Santo tiratolo da parte gli disse: figliuolo mio per una si vile mercede voi avere potuto sopportar tanto, e per un Dio non poteie sofferire una minima particella diquesto? il Signore Iddio in quel punto $ gli toccò il cuore , e fi ravvide per sempre. Sem. Mà se poi i difetti de' figliuoli non fossero gravi a questo segno, e fos. sero di quelli, che pure non disdicano ganto, per essere divenuti ormai familiari, potrebbero con questi proporsi a sudetti ministeri, ed impieghi ?  Pub. Spiegatevi apercamente, quali voi intendere per questi vizj familiari?  Sem. Per esempio se caluno di esli avesse principiato da 14: 0 15. anni a dimorare la maggior parte della notte fuori di casa, e quancunque suo Padre l'avesse più volte ammonito, che non lo facesse , ed effo ciò non oftante continuafle; contraeffe debiti; e perchè è figliuolo di famiglia, non potendosi obbligare, facesse obbligazioni dette pagherà. con grandissimo difcapito, senza data, per  firmarla dopo la morte di suo Padre; ed altre cosarelle non tanto familiari; come dir male del profimo , di mancare alle volte alla parola data; ne  ga:  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] GS 3  [ocr errors] gare ciò, ch'egli averà avuto; e se riyscirà , di gabbare il compagao nel giuoco; con altri piccioli vizj di questa forte?  Pub. Cofarelle, piccoli vizj voi chiamate questi! E non riflettere,che quando il giovane li sarà abituato in questi ugua. glierà egli taluno de vizioli di primo rango: ad uno che sarà avvezzo  la  maggior parte della notte dimorare fuori di sua casa, e sarà giovane, voi volere impetrare beneficj Ecclesiastici, ed im. picghi gelosi della Republica ? Và forse a studiare in quelle ore, o a farsi la disciplina negli oratorj, quando i studj, e questi sono ferrari? e come vi persuadete, che possano adempire l'obbligo loro, effendo scarf di dottrina , e di buoni costumi, ed applicati a cose, in cui per la meno inutilmente si perde il tempo a e fatta che averete rifcllione agli altri loro vizj, che avete apportati ; consigliatevi colla vostra coscienza se lo potrete fare : mà esaminiamo di grazia donde ciò proceda, e se sia solamente colpa de figliuoli canto deviamento.  Sem.  [ocr errors][merged small] Sem. É' loro certamente; perchè hò sentito lagnarsene i Padri di questo, col. le lagrime su gli occhi.  Pub. Questo fu il pianto del coccodrillo, che piagneva il suo figliuolo allorchè lo aveva ucciso: come si sono portati questi Padri nell'educarli? Sem. Certa cosa è, che tante diligenze, quante ne hò udite nelle nostre conferenze,non le han faute.  Pub. Or dunque, se non gli hanno educati bene, a dolgano della loro trafcuraggine, perchè viziosi li vollero efli. Sem. Mà che averanno da fare ora? Pub. Questa penitenza appunto, che Iddio manda loro;di sopportare figliuo. li viziogi .  Sem. Ci sarà pure qualche rimedio?  Pub. Ciè certamente, ed è questo; di fare alli piccioli nepoti ciò,che non fece. ro a loro figliuoli, cioè di educarli bene; perchè altrimenti, non essendo capacii loro Padri di fare questo, i vizj non li fyelleranno mai dalle loro famiglie:  Sem. Voi diceste, che questo cocchi al Padre,  Pub,  [ocr errors][merged small][ocr errors] Gg 4  Pub. Sibene quando sia capace di farlo, e vi pare , che questi viziofi fiano abili ad educare i figliuoli a suo dovere? Il loro mal esempio come permetterà, ch'essi apprendano le virtùd Onde quantunque schiamazzino alle volte redendo i loro figliuoli viziosi,č incerco se lo facciano per zelo di amore, o per invidia , perchè non possono essi più con. tinuare fimile vita rilassata essendo vecchi.  Sem. Io hò cap to a bastanza , ed ora compreоdo la cagione; perchè nell'universale non si possono affatto estirpare i vizj, mà voglio approfittarmene per casa mia, per non avere anche io a fare il pianto del coccodrillo. Ma le povere figliuole come si doveranno provedere? essendo gran disgrazia loro, quando capitassero in mano di simili viziofi.  Pub. Esamineremo anche questo , nà non è ora tempo ; perchè richiede affare si rilevante lungo ragionamento. CON  [merged small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Pub. Onfesso ingenuamente che non séza rigione alcuni Pa. driffi contristano ál. lorchè nascono tan,  co loro figliuole; perchè il penfare a collocarle bene non è piccolo intrico, chiamandoli questo affare dall'Ecclefiaftico opera grande dicendovi: Trade filiam, & grandes opus feceris, o bomini fenfato da illam; posciache saranno state educate alcune di effc col timore di Dio, senza lusso ,c vagità, modeste comc fi dee, istruite inquanto è necessario per il buon regolamento di una casa; mà che servirà loro tutto questo , se capiteranno in mano di un marito imprudente , vizioso, ed indiscreto! e fimile appunto a quello, ch' ebbe quell'innocente Giustina, il di cui Epitatio sepolcrale è questo. Immitis ferro secuit mea colla mari.  [ocr errors] Dum propero nivei folvere vincla pedis  Durus, ante thorum, quo nupér   nupta coiur,  Quo cecidis noftrę virginitatis honos.  Nec culpâ meruisse necem bona Numina testor,  Sed jaceo fasi forte perimpia mei  Discise ab exemplo Juftine , difcite patres  Ne nubat fatuo filia veftra viro. Or vedete Sempronio, che gran facenda è questa !  Mec. La conobbe afrai bene Democr. appresso Stob. dicendo: Qui bonum generum nactus eft invenis plium, qui verò, malum, fimul & filiam perdidit: quindi è,  che  [ocr errors] che saggiamente fù conligliato da Temiffocle quel Padre, che desiderava das effo fapere , cui dovesse dar per moglie l'unica sua figliuola; se al dotto povero, o al ricco vizioso, replicò egli a mè aggrada più l'uomo, che ha bisogno di ricchezze, che le ricchezze , che hanno bisogno di uomo : come dice Val. Mas. Sem. Mà quando si sono fatte le diligenze necessarie, e fiè già rincontrato, che sia imprudére, e vizioso chi la vuole perché non si esclude fimile soggetto?  Pub. Se voi sapeste quante fraudolenti manifatture Gi fanno, per avere unas giovane savia per moglie, stupireste; anzi quante più d'imperfezzioni hanno i giovani, che vogliono accasarli seco, tanto maggiormente queste si adoperano, tanto si fa,che alla fine riesce fimile facenda.  Sem. Mà chi sono questi, che faranno tante manifatture , non essendo capace un fimil giovane di farle?  Pub. Se non sarà cgli, saranno ben’i suoi congiunti, i quali raffidati, che per  [ocr errors] [ocr errors] Il fingo della futura sposa cffo possa divenire saggio, tanti ponti di oro le faranno , che alla fine caderà a dire di sì.  Sem. Mà i genitori come lo permetteranno? Pub. Saranno ancora effi sforzati a chinare la cesta, quando colla linguas non poteffero arrivare a proferire quel doloroso sì.  Sem. Saranno dunque anche i suoi genitori poco prudentia  Pub. Oh bene : non fiete voi ancora a pieno informato dal mondo; mà ne ben Mecenate. Mec. Ne sono pur troppo, anzi fono arrivato a conoscere, perchè fi dica insa geniofus amor; avendo scoperto, che amore aguzza l'ingegno de fuoi fenfali, e rende anche artificiofa la lingua alla menzogna.  Sem. Mà che potrebbero fare questi, quando il Padre steffe faldo in non volergliela dare? Mes. L'ingegno agguzzato fi ferve dell'autoricà, e la dispone in modo, che  [ocr errors][ocr errors] niuno più degno di merito si affacci a chiederla, per rispetto di colui, col quale si tratta: e sapere pure, che in questi cali, per non fare inimicizie, non li vicne mai alla negativa scoperta , potendovi costringere ad addurre un ignominiofa cagione,per cui far non si vuole: Siprude bensì un mezzo, termine, quale è che la giovane pensa di farsi monaca; laonde in questo mentre dal sudetto pretendente fi fanno affacciare tutti li peggiori, ed i più scapestrati giovani, che siano nella Città a chicderla,e cutci inferiori di condizione ad ello; talmente che il Paedre , che la vorrebbe maritare, trovan  dofi annojato, alla fine li piega, per non che trovare soggetto migliore, che la fac. i cia domandare: e tanto più, che si tro  verà circondato da consiglieri già guadagnati da chi la pretende.  Sem. Sarà dunque peggiore , e più id svantaggiosa la condizione della donna nell'accasarsi , che dell'uomo.  Pub. Non ci è dubbio alcuno, perchè l'uomo non è ricercato, ne violentaco  per  [ocr errors] en  [ocr errors] per parte della donna, mà beasi effa da chi la brama.  Mec. Può essere,che quando voi prendeste moglie ciò non li coftumaffe ; mà ora posso dirvi di certo,  che questo li pratica, essendo seguito in persona mia, che ho avuto più d'una richiesta fe.voleva accasarmi colla tale, senza ricercarla.  Sem. Or io quantunque non fia versato sufficientemente nelle cose del mon. do, procurerei segretamente di trovare un giovane favio, quantunque meno ricco, e la darei a questi; perchè sposata , che fosse,hò sempre udito dire, che: multa facta tenent, così finirebbe ogni conresa.  Pub. In somma in questi casi, chi più sà, più s'inviluppa nelle difficoltà; onde alle volte riescono migliori certe risoluzioni fatte senza tante rifellioni; c voi Sempronio, non avete detto male; mà non saprete già scegliere questo giovane savio così all'infretta; converrà dunque che l'impariats, ed [ocr errors][ocr errors] Ff 3   Ес   Pub. [ocr errors] 1  [ocr errors] 1  Sem. Come si doverà dunque fare per conoscerlo?  Pub. Il Padre che ha figliuole da mai ritare dev'essere un Argo, per rimirare  nel medesimo tempo cento giovani, ed offervare i loro andanlegri.  Mec. Oggidì però non è necessario averne tanti ; perchè con soli due occhi moltissimi difetti li possono ritrovare ne giovani, ed in breve; quantunque non corrano quei calamitosi tempi, che accenna Giovenale alla satira 13. Humani generis mares sibi noffe volenti  Sufficit una domus , paucos confus  me dies, do Dicere te miferum poftquam illic vec  [ocr errors] neris,  [ocr errors] Pub. Fatemi piacere dunque voi, Mecenate,d'istruirlo in questo giacchè fiece più pratico di mè nel discernere i giova. nili mancamenei correnti; perchè a tempo mio la gioventù viveva diversamen. te, e perciò fi ftentava più in iscoprire i loro difetti. Mec. Lo faro, perchè non voglio, ri  CU:  [ocr errors] cusandolo, che vi confermiate nellas credenza di qnello, che di me sospettafte,che io fia nimico delle doone,poscia. chè io ammiro la virtù in alcune di esse, e perciò non vorrei, che questa mancafse affatto, abbattendosi in viziofi mariti: onde se voi, Sempronio,vedrere un giovane accompagnarfi, e conversare continuamente con taluno, conosciuto da voi per vizioso y tencte pur ancor esso per tale, senza fare altra diligenza; verificandoli quel proverbio:all'accoppiar ti veggio.  Sem. E se fi desse il caso, che questi non converfaffe con altri?  Mec. Questo è difficile oggidì, che fi conversa tanto; mà se caluno fuggisse le conversazioni,mirate bene la sua firo. nomia, e se la scorgerete tetra , e inalinconica tenerelo pure per uomo infociabile, e non senza i suoi difetti proprj; se poi foffe allegro, disinvolto, e non converfasse oggidi con altri, formatene buon concetto di esso; perchè lo farà a cagionc , che non troverà coma  pa  de pagni bene accoftunati uguali ad effo.  Sem. Vorrei qualche altra regola,per meglio potermene avvedere ; perchè se non conoscefli per viziofi quei, co’quali egli conversalle, potrei ingannarmi. Mes. Se voi vedrete un giovane stare in chicfa con poca divozione, e discorserc ivi co i compagni comc farebbe in piazza, questi farà poco timorato di Dio; se frequenrerà le feste, cd i passeggi, e rimirerà con grand'arrenzione le donne, in cui si abbaite, farà egli effemminato; se dispreggerà i suoi compagni, cvorrà avere sopra di essi una certa superiorità, farà superbo ; se li piacerà vestire con pompa, sarà vanos se poi oggi dirà una cosa, c domane ne farà una alıra, farà incostante; e finalmente se frequenterà i ridotti, ove si giuoca , gran genio egli avrà a questo vizio; in somma da se medesimo colle sue operazioni manifeftcrà i suoi difetti.  Sem. Starei fresco, se aventi d'accomodare una mia figliuola in questi tempi, dovendo fare tante diligenze; mi cor.  H  vers pa  [ocr errors] verrebbe prendere la fantcrna di Diogene, ed andare per la città dicendo: homi. nem quæro, e caminare più di un giorno per trovare, chi fosse in cucco; e per turto, senza alcun de'detti diferci.  Moc. Mà chi non vuole affogarla , dee anche servirsi del cannocchiale di BONAIUTI (si veda), che scuopre le macchie del sole.  Sem. Io mi persuado, che se i Padri, c le Madri riguardassero al minuto curti i differti , pochi troverebbero moglie. Mer. Sarebbe questo la fortuna de i giovani; perchè non trovandola allorsi che incomiacierebbero a spogliarfi do loro vizj, ed in breve diverrebbero bene accostumari, ed a tale proposito posso riferirvi ciò, ch'è seguito in una riguardevole città. Affinchè iCadetti andassero con più fervore, di quello faccano , alla guerra, cominciarono le donnc a non ammettere alle loro conversazioni coloro, che non avevano fatte almeno dues campagne in gucrra viva; conciofiacofache li reputavano vili, e codardi. Servi tale renitepza di Aimolo grande a tutta  la  Die la gioventù per andare alla guerra;  segnoche pochi furono quci, che non Si seguitassero i primi, che vi andarono: or se una fimile ripulsa molte canti ad  andare incontro alla morte; dovrebbe certament’essere di stimolo maggiore, per andare incontro alla vita migliore, quando questi non trovasfero inoglie.  Pub. Vedete voi, Semprouio, che sconcerti sono questi, di non potere con facilità come prima trovare mariti a proposito per le figliuole, c.questo da che na. sce, se non dalla cattiva educazione  della gioventù ? rifecrcte dunquc quano co debba premcre questo affare anco alla Repubblica,  Sem. Io lo scorgo molto bene; mà che fi dovrà fare ritrovandoci in queste an.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. Quello che dice quel FILOSOFO, che presc per moglie una donna allai picciola, allorchè fu interrogato, perchè l'avesse scelta così, egli rispose : perchè del male conveniva prenderne il minore: il fimile anche dirò io de'mariti difetto  Hhafi; di prendere quei che hanno vizj me. no considerabili , che fono appunto quelli che riescono men disdicevoli alla condizione del galantuomo. Sem. Maritandofi dunque con questi, che buona direzione doverà darfcle da genitori?  Mes. Debbono i genitori allorche le maricano non seguitare quel caccivo costume di alcuni , che le consigliano a farli rispectare, e ftare sostenute con tutti, di non farli sottomettere alla prima, perchè diverranno, così facendo, infelicissime, quantunque portassero groffa dote, mà le consiglino bensì nella forma, che fecero i genitori di Sara, allorchè la consegnarono per isposa al secondo Tobia con groffa dore; ed uditc ciocchè fecero Tob, 10. Apprebendentes parentes fo. liam suam ofculari funs eam, & dimiferunt ire monentes eam, bonorare foceros, diligere maricum, regere familiam, gubernare domum, da se ipsam inreprebensibilē exhibere.  Sem. E se un Padre avesse tre , o quattro figliuole, che si volessero mari  tare  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tare cuite, chc dovrà egli fare, non efrendo molio ricco?  Mec. Maricarle , con dar loro quella dote più congrua, che può. Sem. Mà li scomoderebbe troppo privandosi di sì considerabile somma di danaro, o quantità di roba, che con. veniffe dar loro maritandole turce.  Mec. E come potrebbe farac di me00?  Sem. Potrebbe farlo beniffimo con efortarlca fará Monache.  Mec. E se non Gi volessero fare?  Scm. Non mancano modi al Padre accorto, che ci facciago, o colle buones ocolle cattive.  Mec. Padre voi chiamare colui, che vuole sforzare la volontà delle figliuole? chiamatelo Padrigao, non accorto, màcrudele; perchè qual delitto hanno queste commesso da chiuderle in vitas. contro il loro genio?  Sem. Come chiuderle in vita, trattantandosi'di darle, e consagrarlo a Dio?  Mes, Non si chiama darle a Dio ,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] qualia  quando la loro volontà non ci concorra, nè consacrarle a lui, quando non ci sia il lor consenso : questo li chiamná porle a penare continuamente, non avendole iddio chiamare a questo stato: ( guai a quei Padri , che lo faranno, perchè del bene, facendone tanto poco, che non basterà loro , punto non ne parteciperanno: del male si che ne faranno partecipi di molto, essendo capaci di farlo, trovandoli in iftato di disperazione. E fappiate, che mi fù riferito un caso orribile di una di quelle, fatta Monaca per forza, la quale, quando ebbe eseguito quanto defideraya il Padre, lo chiamò alle grate del Monastero, cgli disse alle orccchie: fignor Padre or farcte conten. to, che mi avere levata di casa.in  que: fto mondo non ci rivederemo più; må bensi nell' altro ed in pellimo luogo, perchè ci danneremo ambiduc . E che vitupero è questo ; per far godere i maschi, li hanno da porre in disperazione Je feminine? Se voi non potere dar loro dieci mila sçudi di dorc, dategliene me  no,  [ocr errors] cina  no , ed acca sacele; quando volontaria. mente non siano inclinate alla vita reli  giosa. Non vi chiederanno già quel tal e giovane per i sposo, mà vi faranno dire  bensì, che la loro vocazione sarebbe di  accasarli . Starà dunque al Padre marii tarle a chi più gli aggrada ; mà so ben io da che ciò procede.  Sem. E da chc?  Mec. Dall'eccellive doti, che corrono, le quali oltre il dispendio,che apportano per le spese grandi, che si richiedono allorchè â prendono, angustiaao ancora quando hango a darli altrui nel maricarsi le figliuole.  Sem. Or io non voglio nell'anima. mia questo peccato; fe li vorranno maricare cutte, le lascierò mnaritare; mi diremi: che dote farebbe proporzionata, Publio?  Pab. Quella , che fi foleva comune. mente costumare prima , che foffero inse dal Prencipe , come già dicemmo; e  se  [ocr errors] Hh 4  feaveste da trattare co persone discrete, potreite anche di loro francamente, che non vi curate di tanti lussi, e perciò volece dare quella dote, che si costumava in quel tempo, che questi non vi erano: o fi contenteraano, e voi averete fatto doppio negozio, essendovi anche accertato di appareatare con gence discreta, e capace; se poi non lo vorranno fare , averete scoperto , che non sono a proposito per vostra figliuola, volendo clli vivere con pompa , e lusso eccellivo.  Sem. Questa dote li dovrà consegnare libera?  Pub. Questo poi nò; perchè potreb. be alienarli , c restare la voftra figliuola indotata,  Sem. E se non vorranno concludere il matrimonio fenza la dote libera?  Pub, E voi sconcluderelo affatto ; perchè è un pessimo segno, quando si pretenda questo, denotando che ci sia bisogno in quella casa di danari. Questo sì, che sposata che farà, consegnare allo fpolo quanto gli avste prometo; perechè non porrere immaginarvi mai, quan. ti difturbi aascono tra conjugi per quem fta benedetta dote promessa, e non pio gaca ; provando bene spesso le povero mogli, per tal cagione, molti mali trace tamenti.  Sem. E se non mi trovali il danaro pronio?  Pub. Prendcrelo più costo ad interesse, e perciò i saggi Padri di famiglia sogliono essere buoni econoini, con met. tere da parte ogni anno qualche fommi di danaro, per essere anche puntuali allorchè locano le loro figliuolc; e fanno coato allora di fare vantaggioso rinvs. Itimento. Som. Sarebbe dunqne bene, che s'iq. dutriassero i Padri di famiglia coi trafichi, e s'impiegaffero con fervore in fare confiderabili avanzi.  Pub. Di far qucfto non sono cenuri in costo alcuno; bilta ch'elli non fcia. lacquino le loro rendire, perchè li poslono anche fare avanzi congderabili in questo modo , ellendo che: Parfimonias eft magnum veftigab.  Sem.  [ocr errors][ocr errors] 1  [ocr errors] di ;  Sem. Almeno lo doverebbero fare, avendone molte da maritare.  Pub. Neanco; perchè il buon Padre re, ed avendole educate bene,molti concorreranno a prenderle, e con onesta doto,perchè porranno a cõro la buona educazione per qualche migliajo di scudi, essendo realmente essa l'equivalente;onde saggiamente diffe. Plauto in Aulu. Dummodo morata rectè veniat dotata eft fatis, ed Orazio nell'ode 24.li: 3.  Dos eft magna parentum  Virtus, metuens alterius oiri  Certo federe caftitas. Sem. Oggidi vogliono però dote, e non chiacchiare.  Pub. Sì quelli che s'innamorano della dote , o vogliono spendere più della loro pollibilità; quelli però, chcbramerango avere una moglie saggia, conlide. reranno in primo luogo le sue buone qualicà, e di queste faranno maggior ca. pitale, che della dore, la quale è mero bene di fortuna, dove che quelle, non  fo  [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] solamente non sono soggette alle sue incostanti vicende, mà sempre crescono  di valore , onde faggiamente Orazio eb-  be a dire nella r. Epistola.  Vilius argentum eft auro, virsusibus au- [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se il Signore mi delle', in 32stigo de mici peccati, una figliuola risentita, vana, pronta, loquace, contenziosa, che con tutta la buona educazione non si fosse potuta mutare,  volendo questa marito, che averò da fare?  Pub. Trovarle uno simile a Socrate, che fu li sofferente colla sua dispetrosa Sancippe ; cioè a dire un giovane sodo , prudente, non iracondo, mà soItenuto.  Mec. Vi fu però quel filosofo,il quale diede una sua figliuola simile a questa ad ug fuo nemico, e ricercato perchè avesse ciò fatto, rispose: per gastigarlo:  Sem. Doverò in quello caso contenermi nella moderata dore?  Pub. Per levarvi di casa una figliuo: la di questa forra, non dovete reftare per  dat  [ocr errors] . Deco feconda la doro, perche date allo sposo un grande osso da rodere, onde, è di dovere, che gli diate ancora un poco più di polpa, per consolarlo, cd a fine, che ci abbia ancora un poco più di soff:renza.  Sem. E se questa, la prima volta , che contrastasse con suo marito, tornaflc a casa mia ?  Pub. Voi immediatamente dovete rimandarla a casa sua, senza darle alcun ricetto, e sgridarla ancora; acciochè non fi avezzafle a farlo più in avvenire ; con dirle apertamente, che colà hà da mori. re, perche se il Padre comincierà a darle ricetto, è finira; ogni giorno seguirango'nuovi sconcerti, e perciò il Profeta saggiamente disse: Obliviscere domum Pa. tris tui.  Mec. Un saggio Padre in fimile avveniincnto fè questo: Si portò egli medelimo colla sposa dal genero, e gli disse. Per grazia vi chieggo, che per questa prima volta le perdoniate per amor mio, nà se mai succederà cosa fimilc in avvemire, datele pure quel gastigo, che vor.  гс  [ocr errors] rece; perchè io non intendo più inters porre nè pur una minima parola a suo favore ; anzi che non la reputerò più per mia tigliuola , trasgredendo i vostri, e miei comandi. Ella, che crede, che suo Padre fosse scco andato per isgridare fuo marito, perdè l'orgoglio a segno, che in avvenire muco modo di vivere.  Sem. Se avelli una figliuola brutta, c mal fina, e volelle marito, che avcrò da fare?  Pub. Primeramente vi dovrete informare col vostro Dottore,se possano i suoi difetti pregiudicarle nel pártorire, con porre a risico la sua vita; accertato che farete di questo , che non poffa seguire, maritätela pure nel miglior modo, che potretc, darele anche buona dote  per avere un uomo di propofito.  Mec. Vi fu molti anni sono una lice per cagione, ch'essendosi sposata senza il consenso de suoi Genitori una giovane, perchè il di lei Padre pretendevas darle la dote stacutaria, e lo sporo ne chiedeva di vantaggio ; essendo che oltre gli altri difetti , che aveva era statas sempre senza denti : giunse queftas istanza all'orecchie del Prencipe , il quale ordinò  che fossero alla rolitas dote accresciuti duc mila scudi di più , per uguagliarc i difetti, che aveva la sudetta sposa.  Sem. Mà se non si affacciaffe alcuno, che li voleffe, non si potrebbe stimolare a farsi Monaca?  Pub. Questo sarebbe peggiore facrificïo dell'altre, che volevare dare a Dio, essendo stata rifiutata da tutti gli uomini; e militando per questa ancora le medefine ragioni, non lo dovete fare ; se non farà chiamata da Dio a questo stato; onde la potrete tenere in casa vostra, e procurate, che ha servita più degli altri voltri figliuoli:non dovendo voi permetrcre che all'interne sue imperfezzioni, vi si aggiungano anco gli esterni (trapazzi.  Sem. E con quelle che averanno la vocazione di farsi Monache, come mi doverò contenere ?,  Pub.  [ocr errors] Pub. Primieramente di far esplorare beo bene la loro volontà, per accertarvi, le lia vera vocazione, c non disperazione ; perchè alcune in questa cadono alle yo!ce, e precisamente quando non possono avere quel marito, che bramano; e scoperto che ayerere, che siano chiamate da Dio, adocchiare tre, o quat. tro Monasterj de più osservanti, į di  diversi istituti, e fare ad effe leggere le i loro regoles acciocchè sappiano ciò, che doveranno fare; e dipoi dice loro, che  fi scelgano quell'istituto,che piace loro, e fatele pur monacare. Sem. Sarà bene di tenere loro una conversa  per  forvirle? Pub. Sc alcuna fosse stroppia, venendole permesfo,fatelo, per altro non inno. vate cosa di vantaggio di quello, che ivi fi suole praticare dalle altre ; questo sì che dovrete far loro il livello costumandosi, e consegnarlo, acciocchè lo faccia. no riscuotere a loro modo,affinchè nó abbiano da stare dopo la vostra mortc all' indiscretezza de fratelli, i quali foglio [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] no essere molto trascurati in soddisfarle, e trattatele in modo, che nő abbiano bi. sogno di soccorso altrui; perchè così viveranno staccatiffime dal secolo. Sem. E se qualcuna volesse imparare a cantare, efsendol già dichiarata di far. fi Monaca?  Pub. Non permetterei quefto ; perchè, se poi fi mutasse , ilche sarebbe cosa ficile cantando delle belle ariette, voi rimarrette colla cantarina in casa; ditele bensì che lo imparerà allorchè larà Monaca, perchè ivi averà delle altre compagne ancora, colle quali si potrà esercitare per meglio apprenderlor  Sem. E se volesse viaggiare un poco per il mondo , prima di chiudersi?  Pub. Questo neanco firebbe ben fitto; perchè col viaggiare si può vedere, e trattandosi,udire più d'una cosa, che potrebbero rimuoverla dal suo fervore, e. quando questo desiderio procedesse per cagione di divozione, conducerela in qualche luogo de più vicini, ove sia qual. chc divoro Santuario, per consolarla. Soma 1'1  Sem. Se bramasse vestirsi da sposa prima di monacarsi, e ricoprirli di gioje, hò da permetterlo?  Pub. Alifte por motivo di potersi fare l'antichissima consuetudines per altro doyendofi sposare col Signore, non mi pajono simili abiti da esso graditi, mà ben. † sì i più modefti: Una sola riflessione in & favor di ciò ci potrebbe essere, che si  portassero per dispreggio, facendo vedere allorchè li spoglia di esli per rivestira dei sacri, che li rinunziano tutte le pompe, e vanità mondane.  Sem. Rimanendo redove le figliuole, averò da riceverle più in casa inia?  Pub. Effendo uscire da casa vostra, ed essendosi già dimenticate, come vuole fil Profeta,di essa, non siete più tenuto di  riceverle :- e perciò fi foleva ancora nei Kriti degli átichi Romani praticare colle  Spose di muoverle nell'uscire dalla casa  paterna più volte in giro affinché si die : menticassero affatto di ritornavi più . Sem. Mà se rimaneffero vedovc affai giovani,e senza figliuoli,che averebbero da fare così solc li Pub.  [ocr errors] Pub. In questo caso, se volessero corparvi, mostrerebbe essere crudele quel Padre, che ricusaffe riceverle.  Sem. E volendoli queste rimaritare toccherà al Padre penfarci?  Pub. Lo ponno fare senza il di lui consenso; bene è vero però, che le fuggie figliuole fogliono col consiglio pacerno regolarsi in tutte le cose, ed in particolare in affare di tanta premura , conforme è questo.  Sem. E se avesse più figliuoli anche pargoletti potrebbe penfare il Padre prima di morire a qualche ripiego, affinchè fossero questi ben' educaci;perchè rimaritandoli la loro Madre poco penlicro Gi prenderebbe di effi il Patrigno nell'edu. carli.  Pub. A questo ci vuole un poco di tempo per rillerrerci bene, onde ne pare leremo nella seguente.i Sopra l'educazione de Pupilli: e come debba ciascuno portarsi verso i  suoi genitori defonti.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] Mec. A pena maggiore, che possa avere il Padre moribondo, essendo egli in sen. timenti, mi persuado che sia questa: di lasciare i figliuoli pargoletti, dubicando, che non solamente possano esserc danneggiati nella roba, mà ezian. dio nell'educazione; posciache rifletterà facilmente, che quando la Madro pallasso alle seconde nozze, poco penGaro li prenderebbe di elli il Patrigno, ela  pro  propria Madre molto certamente farebbe dividendo l'affecto per merà trà elli , cd i figliuoli gencrati col secondo marito. Laonde la loro educazione Iddio sà comc anderebbe.  Sem. Mà ti è pur bastantemente proveduto 'a tali sventure, con Tutori, e Curatori; come dunque potrebbe andar male l'educazione di effi, venendo cosi bene affiftiti?  Mec. Può essere, che a tempi antichi li Tutori fossero di giovamento a Pupil. li : oogidì però tra questi fanno nulla i mediocri; fanno bensì del gran male i cattivi, e gli occimi, che operino all'antica sono così pochi, che non sò se arriveranno al numero di quelli buoni , di cui parla Giovenale:  Boni quippe homines numero vix funt  totidem quof  Thebarum poriæ , vel divitis oftia Nili. Sem. Udii pur da voi , Publio, nella Conferenza decima della decade passa. ta;effere utili alla Republicà gli Economi; or come dunque i Tutori, essendo  an  [ocr errors][ocr errors] anch'elli Economi, possono apportarc e questo gran mile.  Pub. Tra l'Economo, ed il Tutore ci è differenza potabile; conciofacosache all'Economo non appartiene l'educazione de figliuoli; ed essendo egli splendidamente riconosciuro delle sue fatiche procura di servire con somma fedeltà, per accrescere, o mantenersi almeno il credito acquistato, a fine di essere ados, perato in altre fimili contingenze; essendo che per profeffione lo esercita; dove che il Tutore, dovendo anche invigilare alla educazione, vedendosi poco, O nulla riconosciuto delle sue maggiori fatiche, non è cosìgeloso della sua estimazione in cal ininisterio, per non cu. rara  punto di fimile briga inutile , fpecialmente chi non opererà per virtù, la qual'è da pochi seguirata, e maggiora mente se non si vede rimunerata secondo il sentimento di Giovenale, il quale dice:  Quis enim virtutem ample&titur ipfam  Prema fi tollis? Laon.  [ocr errors] 0  li 3  Laonde non recherà maraviglia se eras efli vi saranno de cattivi. Sem. E questi, che mali potrebbero apportare, Mecenate?  Mer. Primieramente di lasciar fare a figliuoli ciocche eff vogliono, e poi ponno prendere tanto amore alla roba de’Pupilli, che se vogliono, possono arri. vare ad appropriarsene buona parte di cffa.  Sem. Edin che modo ?  Mec. Faranno comparire debiti antichi, i quali furono gia pagati, ed accordandoli con detti finti creditori, fi divideranno per metà il furto, dando loro indietro l'antiche ricevure ; lascic. ranno vendere all'incanto i corpi più frucciferi , ed effi vi faranno offerire sot. to mano; & farà cal vendita, nella quale farà grossa senfaria a lor favore; faranno rinvestimenti con persone fallite , e non senza considerabilitimi approvesci loro; in somma, per non infpiegarmi di vantaggio, sarebbe assai meglio, che questi non ci fossero ; perchè almeno se spregasscro  i figliuoli anderebbe per sodisfare i capricci di chi n'è padrone. Sem. Costumeranno di far questo i più  bisognofi. Mec. I bisognosi lo faranno per biso . gno, ed i non bisognosi per arricchirsi di vantaggio.  Sem. Mà è possibile, che nel Mondo ci sia gente così iniqua che lo faccia?  Mec. Questa è questione di fatco; di. cendomi il mio Procuratore , che giornalmente accadono liti di rendiinenti de'conti in cause de Pupilli, e che si vedono prodotti certi libri di amministrazione così intricati, per ricoprire le magagne, che ben si scorge essere stati fatti così da gente molto maliziosa. Sem. Talinente che voi non lodate, che si diano a Pupilli questi Tutori? Mer. I cattivi certamente noa posso lodarli. Sem. E quali saranno i buoni? Mec. Quelli, che ricuseranno di accettar qucfte brighe Sem. I cattivi non sono a proposito, i buoni non vogliono accettarle; dunque bisognerà cadere a prédere per necelfità i mediocri, che non fanno nè bene nè male. Oh confideriain corne p')trà andar bene l'educazion de figliuli! Mec. E perciò doverebbe ogni b:100 Padre di famiglia aver un amico confidente di lom na integrità, è che fosse anche informato de fuoi interelli, e que. fti impegnarlo da molto tempo prima ad accettare, se li delle mai il caso, ch' egli morisfe in tempo, che i suoi figliuo. li avessero bisogno di guida, che voleffe fargli carità di tenerli, ed allevarli, come se foffero fuoi ; senza però discapito di borsa; ed è cosa facile, che prene desse allora l'impegno di farlo, perchè fi lusingherebbe, che ciò non fosse per seguire in breve.  Sem. Signor Mecenate mio, scusate. mi, se passo taor'olore; vedo oggidi il mondo così corrotto che dubiterei molto, che l'amico si ponesse anche in luogo di Padre con isposare la moglie del l'amico rimasta vedova. Mec.  [ocr errors] Mec. Questo non doverebbe farli da un buono amico,  Sem. Questo ancora è di fatto, conoscendone qualcuno , che lo hà bevislimo praticaco, e lo sò con tutto che io ab. bi. meno anni di voi.  M:c. Losò anch'io; mà questo diceva per vedere di fuggire il maggiôr male; or dunque bisogna conchiudere, che doppia disgrazia lia, quando i Padri muojono giovani,  Sem. In fimile intrico dunque o biso. gierà , che il Dotcore trovi rimedio, che in tal erà non si inuoja , o pure tro. Vire chi poffi fedelinente indirizire cali Pupilli: avete voi, Doctore, un simile rimedio?  Med. Rimedio per non morire non si è trovato fin'ora; ben è vero però, che a prolungare la vita con tenersi lon, tani da cerci spropositi massicci , che possono abbreviarla, a questo si può are rivare.  Sem. Ed in che modo  Med. Contenendosi con moderazione   nel  [ocr errors][ocr errors] nell'esercizio conjugale; perchè ci so. no taluni, che si pongono alla disperata in tale facenda, come se nel dì seguente la moglie dovesse essere loro rubata, senza avvederfi, che ruberà la morte elli alla moglie , continuando tal vita; oltre poi tanti altri disordini accompagnati a queste. Bisogna dunque, che viva re. golato chi ha figliuoli di tenera età , e non li fidi della gioventù ; perchè que. sta tradisce bene spesso, e che consideri il danno, che apporterebbe alla sua famiglia, con morire prima d'invecchiarli. Sem. Questo si può fare ; mà se non baftaffe ? perchè hò veduto morire anchci giovani non aminogliari, e ben regolati ancora; che doverebbe dunque farli per terminare la vita non tanto dolorosamente?  Pub. Hò udito riferire, che in alcune città vi lia una specie di magistrato, composto di persone di sperimentata integrità, le quali invigilano a questo ; onde introducendoli trà di noi potrebbe  con  consolar molto i Padri, cui seguiffc fimil e disgrazia duplicata, per lasciare i figliuo  li non atti ancora a poterli da se regola  [ocr errors] re. [ocr errors] Sem. Questo mi piacerebbe, e vi prometro, che procurerei ach'io di entrare in derto magistrato. Pub. Se vi avelli da porre io, due di difficoltà ci avrei; la prima , che fiere  troppo giovanezessendo cariche da con. ferirsi a persone di provetta e à, e l'al  tra perchè voi lo chiedete, essendo che A finili impieghi, doyendosi conferire a  solimericevoli, aleuoi di questi più toe $ fto li ricusano, che li domandino; ed è a cosa cerca, che colui, che brama un ins  cumbenza, non solamente senza lucro, mà di molto incomodo ancora, qualche fine vi hà per lo più vantaggioso per se.. medesimo, il quale potrebbe rendere infructuoso ogni vantaggio, che da ello, si speraffe .  Serth Che averebbero da fare quefti?  Pub. Primieramenre d'inventariare fedelmente tutto quello, che avesse la.  [ocr errors] sciato quel defonto, di eficare poi il superfluo, e non fruttifero, e rinvestire il ritratto in faccia de Pupilli , con fare le cose chiare, e senza procacciarli emolumento alcuno.  Sem. E che altro?  Pub. Di dare fefto immediatamente all'educazione; con porre nel migliore feminario i maschi, se saranno di erá ca. paci, e le femmine in un Monastero dei più csemplari.  Sem. Ele rendite chi le amministrerà? Pub. Un ministro salariato, che fia capace, o più secondo l'azienda che foffe, i quali rendessero esatto conto ad uno dei detti sopraintendenti dell'operato ogni settimana, per potersi poi, da più di elli congregati ogni mese, risolvere gli emergenti più difficili, che ac. cadeffero. Sem. E degli avanzi, che si farebbe?  Pub. Andarli rinvestendo , allorche foffero arrivati ad una certa somma, con tutte le dovute cautele acciocchè fosse. ro fatti a ragione veduta.Sem. Nello stabilirli poi divenuci adulti chi ci penserebbe?  Pub. Quci deputati medesimi, che sopra intendono all'amministrazione.  Sem. E se caluno di questi avesse figliuolo , o figliola, ed apparenrasse cilin eli: 0 pur faceffe quello che fu obiettaco a Tutori.  Pub. Vi sarebbero sopra di ciò, le suc regole, in quali casi li dovesse proibi. re, o ammettere tra esli l'apparentarli; perchè quando mai fossero eguali, che male farebbe l'appareatare con gente scelta, e capace a bene dirigere. Oltre di che con qual amore di vantaggio liarebbe amministrata quella roba ; ¢ qual educazione più vigilante riceverebbero questi in cal casoBafteşebbe, che non entraffero poveri in detra soprainten denza affinchè non seguissero casi disdif cevali, che daffero occalione di inormo, rare, ed essendo questi scelti nobili, c bencftanti, non li indurrebbero a far quelle cose, che furono obiercare a Tucori, c tanto più ch'essendo molti a for  pra  [ocr errors] sopraintendere difficilmente tra questi vi sarebbe chi potesse, anche volendo, defraudare iPupilli in cosa alcuna per la vigilanza degli altri.  Sem. E se in detta amministrazione seguisse qualche disgrazia, chi sarebbe teauto a risarcirla?  Pub. O questa seguirebbe casual. mente, senza colpa altrui, ed in questo caso non sarebbe a ciò tenuto alcuno , mà se poi ci fi scorgesse inalizia ; il delinquence farebbe obbligato a risarcirla.  Sem. A fare ottenere loro buoni impieghi, e provedecli di cariche proporzionate alle loro condizioni, e capacità, chi vi doverebbe pensare, fatti aduki ?  Pub. Il medesimo inagiftrato, atinchè con ragione di potessero chiamare quei, che lo compongono veri Padri della Patria, cgran sollevatori de Pupilli ; mà divenuti questi capaci sapranno da se medesimi farli strada per il conseguia mento di effe.  Sem. Sino a quale ctà doverebbero Rarc fotto tal depucazione?  Pub. 11  [ocr errors] Pub. Le femmine fino a canto,che fora ossero collocate; i maschi poi non sareb* be male in tempi si calamitosi, che vi  stessero fino a tanto, che fossero atti, è 1 capaci di sapersi regolare da se mcdefifoto mi nell'amninistrazione de loro beni.  Sem. E se caluno di questi rimaneffe d incapace di operare a dovere?  Pub. Affinchè non dilapidaffe il fuo, converrebbe tenerlo soggetto sin tanto, i che vi fosse chi porelle prendere partii colare direzzione di effi, come sarebbe di qualche fratello di giudizio, o altro pa• from rente ricco; pio , ed onorato.  Sem. Mà questi pareori, perchè non potrebbero anch'elli prendersi il pensie. iro di amministrare detta roba de Pupilli, alineno lin tanto, che foffe ftabilico fimile magiftrato?  Mec. I Parenti , Sempronio mio, talia dc quali però, sono peggiori degli altri,  perchè prendono maggior contidenzas colla roba de fuoi parenti è perciò facilmente se l'appropriano;onde di questi non vi prevalec, se non quando li scor  gere  gerete con lunga sperienza, che siano ve. ramente difinteresati,  Pub. dove sono andati quei parenti antichi , che avevano premura maggiore della roba de loro congiunti,che della propria : hò veduto io alcuni di que. Iti mettere fuori somme confiderabili di danaro per folicvarli nelle loro angustic, ed ancor fenza alcuna usura ; ve ne fu uno tra gli altri, che prese l'amministrazione di un luo cognato, il quale eras quali che fallito, e lo ripose in piedi, con liberarlo da tutti i debiti da esso fatti, che ascendevano a fomma molto considerabile. Sem. Ritornando alla grand'opera di cariià del sudetto Magistrato, mi perfuado, che in quei luoghi, ove li costu.  i Padri morranno senza avere da pensare all'indirizzo , che dover ango  avere i loro figliuoli divenuti Pupilli.  Pub. Occalione non hanno di ricercare altri inodi : posciache questo Magiftrato pensa non solamente a diriggere i Pupilli ricchi, ma anche quei che riman  goo  [ocr errors] gono con mediocre commodo. Sem. Oh luoghi fclici, ove la morte non reca tanto cordoglio, divenendo ivi l'amore, e l'autorità paterna a guisa di  fenice, che rinascono, ed alle volce più i profittevoli a figliuoli di quello, che fos  fero prima a cagione dei Padri trascura#ci, e nel costume , e nell'economia , e se  per questi ancora ci fosse qualche cenfoi se, quanto anderebbero meglio le cose?  Mer. Voi, Sempronio, che non avein te ancora piena sperienza del mondo  vorrelte aggiustarlo in un tratto; come fogliono fare alcuni zelanti giovani , allorch' entrano a governarne qualche particella di efto. Abbiare de me questo configlio, cavato da Licurgo, che nelle riforme bisogna camminare affai lenta. mente, e con molta circospezione , per non cadere in peggio.  Sem. Che doveranno fare i figliuoli per mostrarâ grati verso i loro genitori defonti?  Pub. Due cosc, la prima è di mante, gere nel mondo la meinoria onorovolsdielli, e l'altra, che maggiormente preme, di alleggerire le loro pene, che possono foffrire nell'altra vita.  Mec. La prima dagli Egizi li praticava con imball mare i corpi de' loro genitori, e questi conservavano anco gli atavi , i tritavi, con quel auiero maggiore degli ascendenti, de quali furono eredi, e con quanta stima, c vencrazione universale! che se ac loro sommi bifogni avessero avuto necessità di danari, impegnando una di queste mumie, ne trovavano quanti facevano loro bisogno ; perchè avevano il pensiere di riscuoterle in breve. Gli antichi Romani ancora fabricano tempj alle memorie de’loro Padri, o per lo meno ftatue per mano di eccellenti scultori. Sem. Come si doverà fare per mantenere viva la memoria de genitori?  Mec. Se sono stati illustri per le loro rare virtù, e maneggi, debbonsi anche imitare da figliuoli, per fare scorgere a chi non li conobbe, di essere le loro virtù passare in effi; insegnandoci l’Ecclelia. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ftico al 11. che in filiis agnofcitur vir.  Sem. E se avesse dato alla luce opero letterarie , doverà imitarlo in queste?  Mer. Certamente più in queste che pcll'edificare ville sontuose, posciache quelle di Cicerone, e di Seneca fono già da gran tempo distrutte, ma non già i loro libri, i quali continuano i loro anni sempre più gloriofi alla fama.  Pub. Fù interrogato un favio, se fosse più defiderabile l'acquistare un regno, o l'avere dato alla luce qualche operas dottrinale, utile a posteri; rispose egli che la seconda; perchè della prima non pofsiamo eslerne altro, che meri usufrutruarj, privandoci della proprietà di esso la morte, dove che della feconda ne Gamo perpetui poffeffori, accrescendo più tosto la morte il valore di essa, e perciò con ragione diffe Giovenale: sat.  Libera fi dantur populo fuffragia quis să  Perditus ut dubitet Senecam preferre Neroni. Sem. E se non avessero fatto cofa alcuna memorabile ? Kka   Mer.  [ocr errors] Mec. Debbono i figliuoli incominciare a farl’elli ; perchè diccndoli poi fatte dal figliuolo del rale, anco i genicori faranno partecipi della gloria di efsi. Sem. E se fosse stato un gran Capitano, ed il figliuolo non avesse quel coraggio, che si richicde in tal carica?  Mec. Procuri egli di uguagliare la fua gloria in cose concerncati alla pace; perchè si dira:il Padre fè prodezze grandi in guerra, e questi le ha fatte in affari di  pace.  Sem. Lasciando debiti più del suo capitale dovrà il figliuolo fodisfarli del fuo, quando avesse? Mec. Certamente che sì, per non farlo dichiarare fallito ; e di vantaggio le fors' egli ne paeli Elvetici, per non riceverne infamia; cottumandog colà gaftigare anche i defonci , che per malizia feceto più debiti del loro capitale.  Sem. E se avesse ricevuto fuo Padre qualche ignominioso gastigo?. Mec. Dove egli allontanarli dos  quel  qu I paesc, per non udirne dir male pui blicamente, non potendolo scusare;  per altro se fosse stato cattivo a quel segno, che non avesse merita co‘limiles  ignominia, doverà colle opere buone, e a gloriofe cancellare ogni memoria po.  co buona di esso; perch' essendo pro? prietà della luce scacciare le tenebre  così ancora delle buone operazioni pre  fenti è di cancellare la memoria delle 8  carrive passate.  Sem. E se lo avesse privato dell'eredi. tà parerna doverà farannullare il testa. mento, avendo ciò fatto senza cagione?  Mec. Sofferendo ciò farà credere, che  certamente lo faceffe fenza cagione, i poichè facendo altrimenti, se non l'ebbe  allorchè lo fè, la previde, per dichia. rarsi dopo la sua morte il figliuolo concrario alla sua volontà, e di ciò ne dierono un memorabil'esempio i figliuoli di Metello, i quali, quantunque esclisfi contro le leggi, non vollero,per riverenza dovuta ai Padre, far istanza alcuna in contrario.  Sem.  Kk 3  Sem. Se un Padre ainoroso de fuoi figliuoli, ed anche pio, volesse, allorchè stà vicino à morte, far distribuire qualche fomma confiderabile di danaro a poveri , ma perchè l'amore verso i figliuoli lo portasse a farne effi consapevoli, per vedere se fossero contenti di ciò, come dovranno contenerfi in fimi. le affare? Mec. Uniformarsi in tutto , e per tutto al volere paterno , c sappiate che Iddio non solameate gradirà tal atco, mà lo rimunererà ancora.  Pub. Un caso prodigioso si racconta a questo proposito nel Prato spirituale di un uomo dabene, e fomnmo elemosiniere', il quale, ritrovandosi vicino a morte, chiamò il fuo figliuolo, cui dopo avergli fatto vedere una gran somma di danaro disse:figliuolo,che gradirete più, che vilasci questo danaro, o pure, che vi deputi Gesù Cristo per vostro curatore rispose il figliuolo: averò più accaro il mio Gesù per curatore: ciò udito fece dispensare a poveri tutto queldanaro: cosa fè il giusto, e supremo Curatore? Si ritrova in Costantinopoli, ove egli dimorava , uno de'principali, ch'aveva una sola figliuola, la quale per essere ricchissima veniva da molti desiderata per moglie ; il gran Curatore dell'orfano ispirò alla Madre di essa, che infinuaffe a suo marito, qualmente la loro figliuola avesse più bisogno di un uomo faggio, che di ricchezze, e che maritandola a qualche Signore correva pericolo ch'ella fosse malamente trattata: Piaccque cal consiglio al marito, il qnale repplicolle : preghiamo dunque Sua Divina Maesta, che glielo dia a foo compiacimento, ed andare voi in  quefto punto alla Chiesa a supplicarla,e có. ducetemi quello, che immediatamente entrerà in Chiesa dopo di voi; qual fù appunto il pio, e generoso pupillo, dal suo grã curatore arricchito in un istáte.  Mec. Or vedere voi, Sempronio, ch' effetri buoni produce l'uniformarii colla pia volontà del Padre, e quanto si è detto del Padre doyerà aacora inrcn.  der,  [ocr errors][merged small][ocr errors] Kk 4  dersi della Madre, in tutto quello, che apparterrà a figliuoli. Sem. In che doverà con Gftere il bene che sono tenuti di fare i figliuoli, per l'anima dei loro genitori?  Mec. In sodisfare in primo luogo tutti i loro debiti, e legati pij, ed adempio re prontamente le loro disposizioni.  Sem. Må se non ci saranno danari pronti, si averanno d'alienare gli effetti? vi saranno pure i suoi tempi da sodisfarli con commodo?  Mer. Sapete che detti effetti , ne' quali ci è debito; non vanno considerati come propri, e per ciò, non entrando nell'eredità a favore dell'erede, che gli dee importare, che si vendano? fe poi li vuole appropriare a se, ci prenda danari sopra, se non gli hà, e fodisfaccia chi dee averc;; e se per cagione di detta dilazione quella povera anima penaffe intanto,  oh che bcll'amore moftrerebbe il figliuolo per suo padre, lasciandolo cor. mentare ! Il più chiaro contrafegno di affetto verso fuo Padre è questo, di ob  be  [ocr errors] Les bedirlo sollecitamente in fodisfare cioco che diipone li faccia seguita la sua morte  Pub. Or io sono di questo parere, che non si debba aspettare fino alla morte a  fodisfare i debiti contratti, c le opere o pie, che si vogliono fare, e maggior  meate mi sono confermato in questo leggendo, che vi fosse un certo uomo civile sì, mà assai povero, non avendo altro, che quattro Sparvieri avvezzati alla caccia, coi quali si alimentava; vc  nendo egli a morte chiamò tre suoi fi& gliuoli, ene lasciò uno per ciascuno, di  cendo loro, che il quarto lo vendeffero,  e ne facessero tanto bene per l'anima sua  morto che fosse. I detti figliuoli il di  venente, per vivere se ne andarono alla  caccia coi quattro uccelli, uno de quali  seguitando la preda non tornò più: cominciarono a contrastare tra loro di chi  fosse il perduto, ed ogn'uno giurava, che  quello, che era ritornato, ed aveves  sulle mani era il suo ; fi accordarono alla  fine, che il perduro era quello, che dove impiegarli in beneficio dell'anima  del  [ocr errors]!  [ocr errors][ocr errors] del loro comune Padre; il quale rimase privo di quel bene.  Sem. Oltre di questo doveranoo far altro?  Mec. Avere giornalmente una viva memoria di essi, col raccomandarli a Dio in tutte l'orazioni, che faranno, fervencemente; perchè non è picciolo il bene, che da cfli ricevettero, conGitendo in tutto il loro etlere, e ciò facendo oltre il sodisfare a propri doveri, daranno anche chiaro indizio deila loro buona cducazione. Sem. Vorrei sapere da voi , Publio, so la vedova possa essere capace di ben’ educare i propri figliuoli, parendomi che da principio ne dubitaffe Mecenate, con dire, che non farebbe poco a dividere il suo amore materno tra i primi figliuoli, e gli altri avuti col secondo marito,  Pub. Perchè nò ; quando ella perseyerasse costante nello stato vedovile, fosse dotata di senno, e prudenza, ftesse attenta, ed avesse petio da farsi ftimare, c rispettare da efl, e Mecenate parla  del  na delle vedove , che prendono altro marito, non di quelle di cui diffe OVIDIO (si veda),  [ocr errors] che.  bes  01  ol  Sustinent in viduâ triftia figna domo.  Sem. A trovare però oggidi chi sia il dotata di tante virtù sarà cosa molto difficile, dicendo di queste Giovenale. Rara avis in terris nigroque fimillima  cygno.  Pub. Si a voi, Sempronio, che forse of anderete solamente in cerca de diferti ili donncschi, mà non già a chi brama di  trovare le virtù, per approfittarsene, o gi ainmirarle; e non crediare già, che ogbe gidi le virtù sieno affatto efiliate dal d mondo, anzi sappiare, che quando paa re, che i vizj (i dilatino maggiormente, do allora è il tempo, ch'esse li affaticano in  trovare ricetto dai più lavj, per risplendere maggiormente: ed io vi poffo finceramente palesare, che ci sono presentemente alcune vedove, le quali vivono con tanta csemplarità , che ponno uguagliarsi alle antiche matrone, delle quali i Scrittori fecero tanti grandi elogj. Sem. Bisogna che queste vivano molto ritirare; c da ciò trascerà che, da me non son conosciute, laonde notificatemi chi sono, affinche possa anche io fodarle, ed onorarle, come meritano, ed apprendere insieme dalle loro operazioni qualche urile documento.  Pub. Mostrare certamente troppa cu. riosità , Sempronio, con volerle conoscore', e se avete deliderio di apprendere qualche documento dalle loro operazioni, questo lo potrete appagare con udire le relazioni dell'operato da esse, e tanto maggiormente, che queste non operano a fine di acquistare gloria, må bensì di bene istruire i loro tigliuoli, e perciò non fi curaro punto di essere lodate da alcuno, ed a voi è vietato anco il farlo dall'Ecclefiaftico dicendo: Ante mortem non laudes hominem quemquam.  Sem. Informatemi dunque del modo, che questo hanno tenatoy e tragono in educare i figliuoli? Pub. Quefte, Sempronio, sono quela  le  res  ope  mogli, che amarono di vero cuore i loro  mariti, e perciò appresero da Didone  ciò, che rifeșisce nel quarto dell'Eneidi VIRGILIO (si veda): Ille meos primus qui me fibi junxit ame- Abftulit ille, babe ai fecum, fervetque sepulchro.  laonde quantunque rimase vedove nel  più bel fiore degli anni, non vollero  giammai acconsentire a rimaricarsi; inà  bensì rimirando ne'figliuoli qualche par.  ic de’loro genitori collocarono in elli, per tal cagione cutto il loro materno affetto;  e non li potranno mai baftantemente   esprimere le deligenze da esse usare a pro dei loro vantaggi; posciache, ia cuftodire, ed accrcfcere le sostanze di  clli, che cosa non fanno mai? Sem. E come possono, essendo mancato il capo di casa, crescerle? Pub. E pure ciò non ostante, l'hò osfervato in più di una di effe, c quello, che mirende ammirazione, senza fordida economia, perchè mantengono illo  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] ro  to grado decoroso, senza scemarlo puoto: laonde sono meritevoli di quell'encomio, che fa CICERONE (si veda) a Craffo, ed a Scevoli, chiamando il primo moderatiffimo nello fpendere fra i fplendidi, e l'altro splendidiffimo tra i moderati; vi potrei anche dire di vantaggio, che avendole osservate e faccillime jipitatrici del bombice, il quale per formare la sua casa poge tutta la sua miglior softanza in essa, onde spero, che l'imiteranno anche dopo morte, con divenire farfalle per volarsene più speditanicnte al Cielo.  Sem. Hò udito esaggerare tanto cótro il luffo nelle passare conferenze ; como mai queste si fanno così bene regolare in tempi, ne quali ci troviamo.?  Pub. Vidifli parimente in quelle, se ben vi ricorderete, che non mancava presentemente ancora, chi viveffe net costume ancico, e che non si osservalle da tutti chi operava in tal forma; perchè pochi erano l'imitatori di efli, c da ciò nasce, che queste di regolano con  tanta aggiustacezza, perchè vivono a  quella usanza, e se li vagliono di qualby che cosa dello presente, lo fanno con  gran moderazione, e più per salvare una certa apparenza, a fine di non singolarizzarsi, che per vanità.  Sem. Mà nell'educarli di che norma si servono?  Pub. Di quell' appimnto, di cui già i parlammo , ina con grandiilima atten#zione; folamente di vantaggio hò osserte vato, che avendo quefte già bene im  bevuti i figliuoli del rispetto dovuto ad  effe ne'ceneri anni, divenuci poscia più ci adulti, deposto il rigore priiniero si so  no servite più costo della piacevolezza; coli ed in questo modo hanno continuato  ad elggere curta la venerazione ad else dovuta da figliuoli. Sem. E nel provederli d'impieghi comc li porrano? Pub. Volelle Iddio, che con tanto fervore operaffino noi alori Padri conforme esse fanno' in questo; effendoche  taluna li ha così ben accomodaci, che:  non  non si è renduta loro fenfibile la perdita fatta del Padre, trovandosi presen!emente in istato tale, che possono contentarsi. Sem. Oh fortunati figliuoli; se io fossi nei loro piedi, non mi dimenticherei gianımai di tanto beneficio ricevuto da effe.  Pub. Ed io pasferei più oltre, cioè a riflettere i disaggi, che averano sofferto, per fare conscguire questo bene, e quanto averanno cenuto occupata la mente co’pensieri, e quante vigilie averanno sofferte. Or ditemi, vi pare che qucftc, che operano in tal forma, si possano paragonare alle antiche Porzie, alle Cor. nelie, alle Avie , ed alle Pauline che cosa fecero quelle più di queste, che meritarono la corona di pudicizia, pero effere vivate nella stato vcdovile esem. plarissime e  Sem. Certamente che meritano qucm Ite ancora di esser coronate, e credecemi, Publio , che questo vostro racconto mi hà sommamente confolatozed animato ingeme a prendere moglie; perchè se io arrivafli á scegliermi una di queste, morrei certamente men contristato , avendo chi supplirebbe le mie veci nel ben educare i figliuoli. Mec. Abbiamo finora parlato della cducazione dei figliuoli de benestanti, e di quelli de' poveri non abbiamo fatta menzione alcuna.  Pub. Conyerrà certamente discorrere anche di questi, essendo cosa essenziale ondc lo porteremo alla ventura Conferenza.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA Sopra l'educazione de' figliuoli poveri, e donde venga queita  danneggiata. Publio, Mecenate, Sempronio,  i Medico.  Pub. He bella cosa farebbe, se nel monС do ognuno viveffe  conforme richiede l'obbligo cristiano:  di non fare altrui, ciò, che a se dispiace: oh bell’armonia, che nascerebbe da questo allorsì che ciascuno potrebbe vivere ad occhi chiuli, non trovandosi chi ingannasso il coinpagno ; c tanre sorte di supplicj , inventare per reprimere', c. gastigare la malizia degl'uomini rimarrebbero affas.  [ocr errors] to oziose; e li ministri di Giustizia a che | servirebbero, essendo ciascuno retrislimo  giudice di se medesimo? Oh felice, c mi fortunato vivere che sarebbe, essendo  ritornato il secol d'oro, nel quale come  lo descriffe OVIDIO (si veda) ne suoi fasti. Proque metu populum fine vi pudor ipfe regebar, Nullus erat justis reddere jura labor. E Giovenale nella fac. Cum furem nemo timerer  Caulibus, aut pomis, tu aperto vive.ret borte,  Mà quanrunque fiafi tanto affaticato  Platone per farlo ritornare , appena c  rimasto ogni suo pensiero riposto nel ga-   binetto delle sue Idee, senza recare vei runo profitto; onde si può conch iudere,  che questo probabilmente non tornerà  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] Sem. Mà non fi potrebbe almeno far ritornare quello di argento ? perchè a sopportare da gran tempo in qua il secolo di ferro, già divenuto rugginoso, fembra dura , ed insoffiribile cola.  L12  Sem.  [ocr errors] Pub. Questo è difficile; e non meno, che a far divenire un pezzo di ferro argento; intorno al cui lavoro tanti ci si affaticano indarno. Non sarebbe poco se a questo di ferro,che noi abbiano, il quale ben diceste, che sia divenuto rug. ginoso, se gli potesse dare una ripulitura, affinchè non comparisse tanto deforme, come presentemente par, che sia diveDuto Sem. Facciamolo dunque ; ma da che parte di esso si doverà principiare?  Pub. Da quella più tenera, come abbiamo fatto finora nei nobili, cioè dalla tenera gioventù, ove la lima può più facilmente attaccare : cominciate voi dunque a portarmi il lavoro, che io li. merò.  Sem. Qiello , che' mi premerebbe più d'ogni altra cosa, sarebbe che in. cominciassimo a ripulire un poco i servitori.  Pub. La ruggine in questi è troppo dura; come volete voi, che limi, efsendo di già quefti divenuti adulti; por  [ocr errors][ocr errors] tatemeli giovaneci, che io cominciero limarli. Sem. E come potranno questi allora discernerli? Offervandoli, che ne pur i loro figliuoli hanno genio a fare tal meftiero; ideandosi tanco i Padri, quanto effi, allorchè cominciano a conoscere i vantaggi della vita civile, di voler parfare ad effa,con avanzarli di condizione.  Pub. Dunque se non si sà precisamente chi voglia incaminarli per questa via, cominciamo da tutti i figliuoli poveri , che cosi comprenderemo quelli da incaminarsi in cursi li mestieri nel inedeliino tenipo.  Sem. Che doverà farfi in questi prima di ogni altra cosa?  Pub. Quello appunto, che già dicem. mc:infinuare bene nell'animo loro il fan.  to timor di Dio, base fondamentale di O tutte le virtù morali, e cristiane  Sem. E chi doverà far questo? th Pub. I loro genitori.  Sem. E se questi non ne avessero appreso tanto, che hastaffc loro? Pub. Ci sono i Parochi de'quali è incombenza,non solamente di proccurare, che fieno istruiti i figlioli, mà anche, i genitori medelimi,  Mec. Se ci fosse un fol pastore in una gran greggia di pecorelle, molte ne divorerebbero di più i lupi ; onde come potranno baltare questi, che sono pochi a tanci?  Pub. Ci sono i Maestri, che supplisco. no ancor ela.  Mec. Mà quelli che non hanno modo da tenerli?  Pub.Sogovi tante scuole per i poveri, che possono ben ivi apprendere ciocche appartiene a questo  Mec. Mà fe trascureranno di andarvi, ed intanto innoltrandosi i vizj come firi. medierà? Pub. Colgastigo, che servirà dierempio agli altri, che non ci cadano, ed a tal effetto ci è per questi la casa di correzione, ove sono severamente morti. ficati. Mec. Vorrei, che vedeflimo, Publio,  se  [ocr errors][ocr errors] fc ci fosse modo di non avere rovente bisogno di limili gastighi; perchè vado rifcttcndo, che molti pochi sono correcti da eso; e quantunque ci licno le forche alzate, tanto i delicti fi comincitono gel inedefimo tempo.  Pub. E che prerendete forse, che nel monda non feguano delicti?  Mec. Non pretendo tanto, mà solamente che sceinino questi più notubilincnte, ed in conseguenza ci sia meno duopo digastigo.  Pub. E come fareste per procurare che minor numero deili presenti ne leguillero?  Mec. Vorrei in diverse parti della cietà scegliere i più caritativi ; e pii artetici, che ci foffero in ogni profeflione, ed a questi consegnare , e raccomandare più di uno dei giovanetti, arrivati in età di poter cominciare ad apprendere i principi di quell'arte, alla quale 'mostraffero inclinazione, ed abilità.  Pub. E prima di detto tempo chi ne averebbe il pensiero di andarli istruendo nel beo operare?  Mr.  [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Mec. Ci sono pur tanti pii, cd esemplari operarj , zelantisfimi del buon costume, cui non recherebbe gran briga l'invigilare sopra di elî, con un ben regolato ripartimento, li quali per rimediare a'disordini maggiori, che incontrasfero doverebbero avere chi desse loro assistenza, e braccio autorevole; e credetemi, che dupplicato bene da ciò ne risulterebbe: cioè, che non anderebbono in quelle ore vagabondando per la città, e li approfitterebbero insieme di molti buon iavvertimenti, e cosi la gregge averebbe pastori a proporzione del fuo bisogno: e fapere pure, che quantunque tanto si operi da questi zelancisfimi nello svellere i vizi già adulti, nulladimeno per lo più poco, o niente di frutto da cfsi si ottiene , onde mi parrebbero fatiche con profitto maggiore queste impiegate, allorchè i vizi sono anco teneri, potendosi allora con più facilità sradicare; che quando sono già adulti,senza tralasciare però d'invigilare a fradicare anche questi assodati.  Pub.  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Pub. E chi manterrebbe detti figliuoli da quei artefici; acciocchè l'istruiffero fin tanto, che il loro lavoro meritalse premio? Mer. Sarebbe facile qui tra noi a trovarsi il modo, essendoci si numerose, e considerabili limosine di pane, da diftribuirli a poveri; nè si potrebbe dubicare in conto alcuno, che questi non folsero tali; onde sarebbero con giustizia , e profitto impiegare in essi ; nè potrebbero gli altri dolerli, perchè verrebbero anche distribuite colla discreta propora zione rispetto agli altri bisognosi invalidi; ne apporterebbero gran briga cinque, o sei ragazzi di questi, provedusi già di pane, avendoli in bottega; ecenendo loro gli occhi sopra, non potrebbero andare vagabondando in cerca de vizj conforme facevano.  Pub, E'pensiero questo da macurarsi meglio per discernere, che vantaggio conliderabile potesse apportare. Sem. E se avessero genio di studiare? Mec.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mer. Di questo ne discorreremo nel fine. Sem, Or ditemi dunque quali sono i vizj familiari a ragazzi poveri?  Mec. Possono essere innumerabili, se non sono sradicati alla prima da qual. cuno, e tanti appunto, quante sono l'erbe dannose , & inutili, che nascono in una siepe abbandonata da chi la coltivi. Posciache questi poffono essere primieramente affatto ignoranti dei misteri della Santa Fede; non hanno in bocca altre parole, che difonckte, appreses per istrada, e ral volia per essere figliuolini nè pur fapranno i loro ligniti. cati; fi afsucfaranno da teneri anni al rubare, e cominciando dalle core commefibili faran passaggio all'altre ancora; diverranno poi tanto impertin nenti, che daranno fastidio a tutti; bugiardi , fraudolenci, bestemmiatori, e malizioli a segno, che quabrunque fico no di dieci, e undici anni saranno già capaci in pratica di tutti i vizj concernenti alla luffuria. Puo. [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] De i buos  [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] prove, e do  po  [merged small][ocr errors][ocr errors] Sem. Ma è poflibile, Dottore, che in sì tenera età facciano questo?  Med. Io più d’uno di questi ho vedy. to venire zoppi all'ospedale per ca. gione di buboni gallici, che avevano acquistati con tali viziose  ritrovata la verità gli ho anche mol. to bene sgridati.  Sem. Da che diviene questa gran facilità di cadere in fimili vizj?  Med. Lo spiegò Socrate a Teodata bellissima meretrice, allorche li gloriava di superarlo nel saper sedurre più facilmente essa i suoi scolari,di quello avess' cgli potuto fare colla sua dottrina in rimuovere dal suo amore i suoi drudi, con risponderle, che lo credeva, nè punto fi maravigliava di ciò; perch'ella li tirava all'ingiù, & a seconda del precipizio con poca sua fatica dove ch'egli dovendoli tirar fuori da questo aveva d'uopo impiegarvi fatica maggiore; come riferisce Eliano,  Sem. Oh so, che crescendo questi vizj con gli apoi, quanci mali effetti eli  pros  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Conf. Dec. feconda produrranno! riempiranno per la meno le galee di genec facinorosa, se pur que. fti non anderanno sulle forche; onde conosco anch'io, ch'è troppo necessario darci riparo, altrimenti di questi viziosi ne toccheranno ad ogn'uno per servitori, o per arrifti: ma come fi potrebbe fare almeno, che non cre. scessero di vantaggio? Mes. Se non li trova il modo, che non vadano vagabondando per le piazze, e di cenerli lontani da quei, che fono un poco più adulti di essi, sempre correranno tali pericoli; e perciò lag. giamente ordinò Ligurgo, che i figliun. li fossero allevati per i villaggi, e gli Egizi non li faceano porre alla mensa per cibarsi, se prima noa avcano corso a piè nudi due, o cre leghe. Ed appresso i Parci, se i loro figliuoli non avevano colla frezza colpito, e fatto cadere il pane, che posto avevano in luogo eminente, non facevano gustar loro altro; conforme ancora facevano le donne dell'Isole Baleari, ma colla fionda, c  CO:  [ocr errors][ocr errors] così li tenevano occupati, affinchè non aveflcro campo di avanzarli ne'vizj. Ma trovandosi tra noi impicghi con direttori discreti, sarebbero questi affai più profitcevoli; potendoli eziandio formare scuole d'apprendere arti, dove fossero istruiti, e nella pierà, & in quel mestiero al quale applicassero di genio ; ma per opere sì magnifiche crè cose si ricercano, le quali sono ; l'autorità del Prencipe ; valido soccorso; & allistenza allidua di uomini pii, ezclanti del buon costume. Sem. Ma vi è pur S. Michele a Ripas grande ove si fa tutto queito; perchè dunque andate cercando altro? Mec. Abbiamo certamente tal Ospizio Apostolico utiliffimo, esantißimo, ove col timor di Dio G avvezzano, e si approfittano ancora in diverse arci, era sendo usciti di là molti , ch'erano prima senza indirizzo, e modo da softcocarli, divenuti capaci d'alimentare se medesimi, e le loro famiglie; ma questo folo non è sufficiente per educare tutri i  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] nigliuoli poveri, che sono nella Città; nè è poffibile moltiplicarne canti altri confimili ad effo, che foffero fufficienti; onde bisognerebbe trovare un modo praticabile , acciocche fossero istruiti nella medesima forma, ma senza ag. gravio di spesa equivalente alla proporzione di quella.  Pub. Tutto si potrebbe fare, ma però se non si toglieffe prima quello, che dasse loro mal' esempio, gioverebbe a nulla.  Meo. Questo è veriffimo; perchè entrando caluno al servizio, quantunque fosse semplice, e di buon costume,' fe cominciarse a comandargli il suo padione certe cose, che non li possono dire in pubblico, effendo indecenti, como potrebbe far di ineno obbedendolo as non divenire ancor esso diviato? effen. do che: a bove majori discit arre minor , Se quantunque foffe sobrio, e vedeff: continuamente banchettare, & a vesse tutto il commodo da disordinare anch' effo, come non diverrà gologfimo? E  par  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] last particolarmente se si abbatteffc in chi, come dice Giovenale,  Radere tubera terra  Boletum condire, codem in jure na,   tantes  Mergere facedulas didicit Sco ap  Et cana monstrante gula. Se si accorgerà poi, che manchi di parola, imparerà anch'esso a farlo dicen. do: se lo fa il mio Padrone, ben lo posso far arch'io, perchè farà forse oggi  di civiltà prar carlo. Voi dunque, Semi pronio, vidolete attorto dei servirori;  doleceri bensì dei padroni, che gli accoltumano viziosi. Sem. Ma io   per  la Dio grazia non fò di questo, e pure mi sono capitati molci cattivi fervitori.  Pub. Saranno stati prima corrotti da altri padroni se non gli avete corrorti voi, e perciò imparare a non mutarli tanto spesso, potendovi abbattere ins peggiori, i quali non sarebbero più correggibili: Barbatos licet admoveas, mille inde magiftros. Mec. Non solamente i servitori si approfittano del mal'esempio de' padroni, ma tutti gli artisti, e mercanti ancora, dandosi da caluno di esli a questi, invece del danaro, che avanzano, certe mercaozie, le quali non trovano ad clitare, e le pongono a prezzi altissimi, e da ciò essi imparano ad alterare i conti, ed in che forma!  Sem. Ma ci sono pure i periti, che li rivedono, e tarano? Mec. Si bene, ma però elli l'informano, e fanno ben loro capire, che hanno ricevuto, a ragione di contanti, assai di meno di quello pretendevano di aver dato loro, a cagione dei prezzi alterati delle robe ricevute. Sem. Sicche faranno un bel guada. gno questi , che daranno roba in vece di danaro; e ditemi, Dottore, se ciò si pratica collo Speziale ancora?  Med. Taluno per quanto ho udito lo fa.  Sem. Consideriamo, che buone medicine daranno loro questi, che sono così malamente pagari.  Med.  Med. Li poveretti troppo fi sforzano die a servirli bene; ma certa cosa è, che vo  gliono starci in capitale almeno, c peri ciò non daraano già loro i migliori ri1 nedj. Pub. I mercanti Moscoviti, prima che it fosse data loro la libertà di uscire dal El Regno, avevano una bella maniera di  contrattare, la quale era di chiedere soSelamente il giusto prezzo delle loro mer  canzic, e guai a colui, che l'avesse altea si raco; posciache sarebbe caduto in pene sd gravissime.  Mec. Sicoftumerebbe tra noi ancora, 1 se correffe puntualmente il danaro; må  dovendosi tener morto questo più anni, e poi pagarfi Iddio sà come, bisogna pur, ch'ella pensino al modo, che debbo.  no tenere per guadagnarci ; diano dunSe qne i primi ad edi buon csempio, che fa  raono imitati.  Sem. E per fare, che i servitori non divengano viziosi, olcre il non dar loro  mal'esempio, che si potrebbe fare di e vantaggio?  Mer. [ocr errors] Mm  Mec. Bisogn' anche procurare, che non abbiano occasione di addocrinarli in certe cose, che mal'interpretate da efli, da buone che sono potrebbero divenire pesime; e vi riferirò a tale proposito un esempio. Si abbatte un giorno un mio amico, che seco aveva due fervi. tori, ad udire un certo discorso morale, fatto da un buon religioso, mà molto semplice, sopra il furto, e venuto al par. ticolare, a che fomma questo doveste giugnere per essere peccaminofo , avvedutosi egli, ch'erano attentissimi i suoi fervitori in udirlo, chiese incontinente licenza,con iscusa di dover fare certo ur. gentislimo negozio in quel punto; mà come egli, ini riferì il negozio era, che non udifícro questi , che li potesse con ficura coscienza rubare una anche minima cosa, perchè, come diceva, costoro l'averebbero reiterato tante volte in un giorno, che in breve mi farei impoverito.  Pub. Mi persuado ancora, che non convenga dar loro il comodo di approvecciarsi malamente, con fidarsi alla sjeca di cili, dando loro gran maneggio;  per  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] perchè la comodità appunto fà l'uomo ladro. Mec. Vi era uno di questi, il quale prendeva cutto all'ingrosso, e con vantaggio grande, e dipoi lorivendeva a minuto, ed a prezzo rigoroso al suo padrone, e vi faceva giornalmente guada. gno considerabile, scusandosi in far ciò, ch'era  per  sua industria, perchè non gli aveva ordinato di far questo il suo padrone. Onde ingannavasi costui in credere di non aver obligata, ad effo tutta la sua industria, come difatto avea.  Sem. Sarebbe dunque riuscito van taggioso per loro se avessero studiato, ed appreso le buone dottrine.  Mic. Se avessero fatto questo non si porrebbero a servire, come dice uno di questi al suo padrone, allorchè lo sgrida, ch'era un ignorante, cui replicó: signore se fossi dotto non servirei , mà bensì averei chi mi servisle.  Sem; Ne hò però ayuti di quei, che sono stati alla scuola, e sapevano anco ra un poco di latino. Ner. [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Mm 2  Mec. Mà che serviva loro questo? Sem. A nulla; mà però se non mori. vano i loro Padri si sarebbero tirati aranti nello studio, e forse sarebbono riusciti uomini dotti. Mer. Vorrei, ch'esaminaflimo ora qual fosse meglio: chei figliuoli dei poveri s'incaminassero per la strada delle lettere , o pure fi ponessero da principio ad apprendere le arti,  Sem. E che pretendereste forse voi impedire, che ogn’uno non s'incamini a suo bellagio per la via, che giudica per se più vantaggiosa? Capece pure, che vi sono stati molti plebci , che sono riusciti in esso come accennò ORAZIO (si veda)  fat.  Multos fape viros nullis majoribus oj  tos,  Ei vixise probos , magnis du honoribus  auctos. Mec. Questi non saranno stati però miserabili, perchè dice ancora Giove Haud facilè emergunt quorum virtutibus ebfas. Res angufta domi. e poi se taluno di questi, inà molto  di rado, è riuscito, oh quanti sono andati  a inale! onde vorrei, che vedeffimo quali  di questi fieno quelli, che possono essere capaci di compire questa carriera, ed a  quali non getti conto. Perchè il sen.  tiere delle scienze, é assai lungo, ed  crto, ed ha difficile ancora il suo ingresso; come bene lo descrive Silio Italico  dicendo. Ardua faxofo perducit semita clive,  Aspera principio, nec enim mihi fallera,  mos est, profequitur labor ad nitendum intrare volenti. Onde chi non potesse caminarvi fino al fine, che farcbbe trovandosi nel mezo di esso? non vorrà tornare indiccro per vergogna, nè potrà ivi foftentarli., per essergli mancata la provisione neceffaria; onde non sa a che partito appigliarsi; dove che la via delle arti, efiendo assai più piana, e più breve, ed ancomeno dispendiosa, li renderà più facile, e  [ocr errors] Mm 3  van.  vantaggiosa a questi di poterla cerminare. Sem. Sicchè dunque farà meglio, e più vantaggioso per loro d’incaminarsi per il sentiero delle arti, giacchè questo si renderà più facile a poveri di compirlo.  Mec. Così credo anch'io, perchè almeno giugneranno a guadagnarli il pa. ne più spedicamente, e con minor pericolo di rimanere inesperti.  Sem. Come pensate voi di fare questa scelta, di chi sia capace d’incaminarsi per essa, e chi per l'altra più piano delle arti.  Mec. Se per esempio ci fossero figliuo. li di mediocre talento de poveri artisti, o di vedove, che appena colla loro fati. ca arrivano ad alimentarli parcamente, questi sarebbero perduti, volendoli incaminare per la trada delle scienze, e maggiormente, se saranno i loro genitori avanzati negli anni ; perchè morendo questi, chi li softenterà trovandoạ nella carriera a qualcuno di quei, che sono nel  principio del camino può essere, che;  torni indietro, econ ripugaanza grande si ponga ad apprendere qualche arre,  quelli, che saranno però più inoltraci , vergognandosi di farlo, come si trove. ranno i meschini, non avendo chi più li sostenri? talmente che per procac. ciarli il vitto saranno costretti di fare ogni viltà, purchè salvino l’apparenza del proseguimento di tale impiego, ch' esli si avevano figuraco di voler esercitare; laonde poftisi in doslo una toghetta, ed un perucchino, ne quali consiste il loro capitale, tutti lindi si porranno , essendo ignoranti, a far da guasta mestiere: e vi pare che questi possano apportare utile alla republica, stroppiando cause, se prenderanno la via legale? e quello ch'è peggio, che se per quella della medicina s'incamineranno quanti ne animazeranno impunemente? Olere poi il discredito, che ne riceverebbono professioni (i nobili, per cagione di essi.  Sem. Mà perchè se ne prevalgono di questi?  Mec.  [ocr errors] Mm 4  Mec. Perchè la maggior parte, chc litigano sono ignoranti; e simili a questi ancora sono quelli, che si trovano malati; onde come potranno discerneru questi a che segno giunga la di loro abilità? ctanto più, che quantunque penuriando di dottrina i guasta mestieri, non si trovano già scarû di malizia, per dare ad intendere lucciole per lanterne quando vi sia duopo, essendo questi gran; mensognieri. Sem. Quali voi crederefte, Mecenate, che potessero incaminarli per la via del le scienze con sicurezza maggiore? Meo. Quelli solamenre a quali il Padre morendo in questo mentre , poresse lasciare 'ranto, che fosse sufficience a poter terminare i loro studj, cche fossero di buono ingegno; perchè se non saranno cali gertato averebbero quel danaro, e rimanendo mendichi, ed ignoranti, questi ancora fi porrebbero a fare molce viltà, e perciò l'Ecclesiast. csclama. Propter inopiam multi deliquerunt; de'quali così ebbe anco a dire ORAZIO. Ma  Magnum pauperies opprobrium jubet. Quiduis ad facere et pari, Virtutisque viam deferit arduam. Sem. A chi toccherebbe di farne la prova del loro ingeg:10 , e capacità?  Mec. Niuno meglio de' loro maestri, che li avessero cominciati ad istruire sarebbe più a proposito; mà taluni di questi alle voltc consigliano i poveri Padri con poca carità a fare proseguire loro l’opera mal’incominciara.  Pub. Sapere, Mecenate, che non è disprezabile pensiero questo da voi apportato, e rifletto ora anch'io, che il voler porre con tanta facilità i poveri all'acquisto delle scienze possa essere una delle cagioni, che ritardano più tosto la buona educazione, e mi inaraviglio che non si dia già dato opportuno riparo a questo inconveniente,  Mec. Sicte pur pratico del mondo, e non riflettere , che non tutto arriva all' orecchie di chi vi può dare rimedio, perchè se vi giugnessero tutte le cose, quanti buoni regolamenti si prendereb  [ocr errors][merged small] Res  nale fac. 3:bero dalla vigilanza di effo.  Pub. Che imparassero i figliuoli de’ poveri, a leggere, scrivere, e l'abaco lo stimerei necessario ; mà che questi poi si applicassero alli studi delle scienze, non avendo nè capacità necessaria, nè modo da foftentarli, ora che voi ave. te mostrato tanti inconvenienti lo stimo dannoso anch'io. Sem. Come fecero Publio, quei celebri filosofi antichi, i quali erano affatto privi de’beni di fortuna, a divenire così dotti; efsendomi stato raccontato di Diogene, che  appena  avesse una botte per  difendersi dall'inclemenze dell'aria : e di Socrate, chę altre di calcare sem, pre la terra co’piedi nudi, appena venisse ricoperto da un sordido mantello. Pub. Affinchè meglio comprendiate la verità di quanto diffi, dovete sapere, che considera AQUINO la povertà in due maniere; ove parla: Contra genti. Jes; cioè: aut ex coactâ neceffitate, aut ex propriâ voluntate. Questi filosofi da voi mentovati erano poveri; perchè non  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] si curavano punto de'beni della fortuna,  e riputandoli dannosi non istudiavano  di cumulare richezze, quantunque das  queste 'venissero adescati . Mentre, che  non fa Alessandro il grande per rimuovere dalla sua bramata povertà  Diogene, quantunque in darno? Quan,. to non fi adoperò Archelao per fare divenire ricco Socrate ? mà egli per liberarsi dalla di lui generosa importunità li fè intendere , che in Atene a vile prezzo si vendevano le farine, e che colà le acto que nulla costavano; e perciò questa voin lontaria povertà, non folamente non li contristava, mà serviva loro più tosto  di ajuto per la filosofia; come riferisce 1 Stobeo, fer., che confeffalse, l'isteiro  Diogene. Anzi Epicuro passò più oltre,  come si ricava da Seneca nell'epift. persuadendosi egli, che la volontaria poi vertà , la quale si uniforma alle leggi di  natura , non debba riputarsi povertà, į inà più tosto ricchezza superiore a tutte 3 le altre, di qual sentimento, oltre molti  altri filosofi, è ancora Democrito; men  [ocr errors][ocr errors] tre  tre venendo egli interrogato, come ri. ferisce Scobeo, qual fosse il vero modo da divenire molto ricco, rispose: con divenire povero di desiderio. Sem. Potrebbero dunque i nostri poveri figurandoli volontaria la loro forzata povertà, divenire Filosofi ancor efli. Pub. Non è più quel tempo antico, nel quale i poveri si contentavano audrirli di solo pane, ed acqua, o di sole erbe, come riferisce Eliano, che faceffe Diogene; onde questa povertà volontaria, senza un special dono di Dio si renderà impollibile a conseguirsi.  Sem. Vorei sapere, perchè questa povertà forzata abbia da ritardare l'acquisto delle scienze, c la volontaria più tosto da promoverlo?  Pub. Perchè la forzata contrifta fortemente l'animo, apprendendo chi la sof. fre di essere infeliciffimo, dove che la volontaria, riputandoli per feliçità da cui si gode, lo rende sommamente cranquillo: Laonde chi mai coll'animo con,  [ocr errors] tristato potrà applicare a cose tanto serie, conforme sono le scienze? le quali richiedono attenta meditazione da cui brama d'approfittarsene. Quindi è, che Aristotile nel primo della sua Etica ebbe con ragione a dire: Impoffibile eft indigentem operari bona; e più chiaramente nel secondo della politica. Impossibile eft inte digentem ftudio vacare; c non potendosi i poveri di spontanea volontà chiamare in digentes,non milita contro di esli l'autorità di Aristotile; perchè questi hanno ciocche, fà d'vopo al loro necessario sostentamento, ed è ciò sufficiente per effi , avendolo fatto conoscere Socrate, riferito da Stobeo al serm. allorchè diffe: Si res 'mea mibi non fufficiunt, du ego ipfis fufficio, as fic etiam ipfa mibi; al opposto i poveri, che non hanno povero il loro desiderio ancora, non li appagano punto di ciò, chè si trovano, braman. do sempre di vantaggio, sembrando loro quanto hanno per esli insufficiente, c per tale cagione vivono perperuamente contristati. Or ditemi, Sempronio, se  [ocr errors][ocr errors] avere da dire altro intorno al morale?  Sem. Non altro certamente intorno a questo, e credo di avere udito tanto, che se me ne approfitterò saprò scegliere la noglie approposito, ed allevare nel buon costume anche i miei figliuoli, che nasceranno. Mi rimane solamente di sentire dal dottore, quali vantaggi potrebbe apportare all'educazione la filosofia, e specialmente in quei figliuoli, che ricalcitrano nello approfittarfi de buoni documenti morali. FIL. Di questo ne tratteremo domani. – “I have a train to catch.” Grice: “I like Gagliardi. In honest Italian prose, he manages to write a treatise for the week: the first day (or giornata) and so forth. It is an empirical ethical treatise along Aristotelian lines of the type I classify as ‘is’ rather than ‘ought’. Recall that the fundamental question I pose for pragmatics is why maxims ought to be followed rather than being, as they are, mainly and ceteris paribus followed! My answer to that is in three stages, and the first ‘answer, dull and empirical’ is that the maxims ARE, as a matter of EMPIRICAL fact, followed. This far Gagliardi goes – and succeeds!” – Grice: “He wrote extensively, knowing British parents, how a father must take care of his son, or at least find him a good tutor!” Domenico Gagliardi. Gagliardi. Keywords: “a dull (if at a certain level adequate) answer to the fundamental question about the conversational categoric imperative”; moralia, etica, mos, ethos – Grice on morality – morals – educazione – “We learn not to tell lies from our parents” Hardie, Ethica Nichomachaea, la formazione del carattere.  “Empirical fact we’ve learned since childhood and it would be difficult to diverge from the practice” – “This is a dull empirical.” --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gagliardi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.  

 

Grice e Gaio: la ragione conversazionale e l’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Accademy. Although he appears to have enjoyed a significant reputation, next to nothing is known about him. Porfirio mentions commentaries on Plato by G. that may have been edited by his pupil Albino. Gaio.

 

Grice e Galba: la ragione conversazionale e il principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Mussonio: deportato da Nerone, pardonato da Galba – Deportato da Vespasiano, pardonato da Tito.

 

Grice e Galeno: la ragione conversazionale e la scuola d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Brought to Rome by Antonino.

 

Grice e Galetti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Filosofo. Emporium.

 

Grice e Galimberti: la ragione conversazionale, l’implicatura converszionale, e l’imaginario sessuale – filosofia monzese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza). Filosofo monzese. Filosofo Lombardo. Filosofo Italiano.  Monza, Lombardia. Grice: “I like Galimberti: he has philosophised on amore, amicus, amicizia – all topics of my interest – while I am into vyse, he is into the seven capital vyses! He also has spoken about speech: the ‘parole nomade,’ and the ‘equivoci’ of the ‘anima.’ – In general his philosophy is about nihilism and the idea of man in the age of ‘techne’ (ars).” Il suo maggior contributo riguarda lo studio del inconscio e il simbolo (contractio), inteso come la base primeva e più autentica dell’uomo – ‘logica simbolica’. Nasce a Monza, la mamma maestra di elementari e il padre deceduto. Le necessità della famiglia l’obbligano a lavorare. Frequenta le scuole superiori in seminario. Terminati gli studi liceali classici, si iscrive  al corso di laurea in Filosofia a Milano. Si laurea quindi con Emanuele Severino con lode, con “La logica di Jaspers”. Fra i suoi maestri, anche Bontadini. Studia fenomenologia del corpo con Borgna a Novara. Insegna a Monza e Venezia. Studia con Trevi.“E se "filo-sofo" non volesse dire "amante del sagio" ma "saagio dell'amore", così come "teo-logo" vuol dire dotto *su* Dio e non ‘parola di Dio’, o come "metro-logo" vuol dire scienzato delle misure e non misura della scienza?” “Perché per la forma greca ‘filo-sofo’ questa *inversione* della morfologia nella implicatura? Perché il filosofo greco si struttura come un logico che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nell’academia, dove, tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo quesso che lo face un ‘sagio,” e che non ha nessun impatto sull'esistenza e sul modo di condurla. E per questo cheda Socrate, che indica come la sua condotta "l'esercizio di morte", ad Heidegger, che tanto insiste sull' “essere-per-la-morte”, il filosofo si e innamorato più del saper morire che del saper vivere. Al centro della sua riflessione sta il corpori degli uomini, che, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica, si sentono un "mezzo" nell'"universo dei mezzi", riuscendogli sempre più difficile trovare e dare un senso alla sua vita, alla sua esistenza. Si deve trovare un senso al radicale disagio, alla tragicità del suo esistere, anche attraverso il recupero dell'ideale antico greco-romano, evitando mitologie.  Il suo maggior contributo consiste nel porre la dimensione del simbolo (coniactum – the idea is that you throw two things together so that the recipient may compare them, one becomes the ‘symbol’ – coniactum – of the other – cf. Grice on Peirce on symbol) alla base primordiale della ragione conversazionale, che ha inteso ordinare il simbolo (mito, no logos) – dunque l’ambilavenza delle cose ma non l’equivalenza generale di significati. Il simbolo (coniactum) è il sustratto pre-razionale. Rappresenta un caos originario che ragione tenta di arginare. Siamo razionali (apolineo) per difenderci dal simbolo dionisiaco. Il concetto fondamentale del simbolo non è l’equi-valenza generale, ma l’ambi-valenza. Riprende Freud e Jung, fondendone con Nietzsche, Severino e Heidegger. Importante è stato il costante riferimento a Husserl e Jaspers. Il filosofo cerca la “comprensione” (verstaendnis – cf.. Grice on ‘understand’ – ‘understanding,’ literally, slang for a leg) e non la spiegazione (verklaerung) del comportamento umano. La psicologia filosofica o rationale (l’anima di Aristotele) non può operare una trasposizione tout-court dei metodi e dei modelli concettuali delle scienze naturali perché, così facendo, l'uomo verrebbe ridotto a mero evento naturale, fisico, come ha luogo, per esempio, in psichiatria.  Contrario, poi, al dualismo di Cartesio, Galimberti ha anche fatto riferimento al metodo fenomenologico e al funzionalismo per consentire altresì, alla psicologia filosofica o rationale, la comprensione e la descrizione fenomenologica di quelle strette relazioni che intercedono fra nostri corpori assieme al significato che queste relazioni comportano. E e tutto ciò lo porterà ad abolire, di conseguenza, ogni distinzione concettuale fra ”salute“ e ”malattia.” Insiste sull'inconsistenza della contrapposizione tutta occidentale fra scienza e fede – fiducia -- individuando come questa seconda – la fiducia, cf. English ‘trust,’ truth’ -- sia in realtà l'elemento fondativo dell'intera coscienza occidentale, all'interno anche della scienza e della tecnica. Scienza e fede non dovrebbero mai confliggere, è importante che nessuna delle due invada il campo dell'altra. Tematizza innanzitutto il passo della Genesi in cui Adamo è definito "dominatore della Terra, sui pesci dei mari e sugli uccelli del cielo", collocando l'uomo in una posizione privilegiata rispetto agli animali e la Natura in sé e legittimandolo a operare su di essi per alimentare la propria esistenza. In quanto il progresso è l'affermazione di questo primato umano, la tecnica (Greco techne, Latino, ars) è indubbiamente l'ipostasi che sigilla costantemente quest'affermazione sull'indifferenza naturale. La coscienza della techne (Latin ‘ars’) tecnica è formulata come una risposta alle fatiche naturali, si appellerebbe, dunque, a una condizione strutturale di eminenza consegnata da Dio e propugnata dalla persistenza di un animale sui generis.  Riconosce la cristianità come il carattere di una scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il presente dell'espiazione, il futuro della redenzione e salvezza. Questo semplice modello triadico ha una ricorrenza quasi ossessiva nelle forme occidentali, fra le quali la medicina (malattia, diagnosi, cura), psicoanalisi (disturbo, terapia, guarigione), scienza (ignoranza, sperimentazione, scoperta). La triade è il "coefficiente a-storico" necessario a profilare la possibilità di un progresso, che si esercita eminentemente nello scenario tecnico. Qui, l'uomo che soccombe alle fatiche naturali della sopravvivenza, del parto e del lavoro (così come minacciato nella Bibbia) ha modo di riscattare la propria difficoltà attraverso mezzi che ne purificano endemicamente l'opera, al costo di un esaurimento delle risorse naturali. Ma, in fondo, la loro esistenza è preposta a questo.  Non si definisce né "credente" (in senso cattolico) né "non-credente", ma "greco-romano", nel senso di colui che vuole recuperare la visione del mondo della civiltà greco-romana, in modo nietzschiano e heideggeriano (si veda anche Il detto di Anassimandro, un noto saggio di Heidegger sul pensiero greco arcaico), fondendola però con la pur antitetica visione cristiana: la morte e la vita vanno pertanto prese sul serio, e non minimizzate pensando a un'altra vita ultraterrena. La ragione è importante perché, come nel detto "Conosci te stesso", fornisce all'uomo il senso del proprio limite.  Approfondisce molto la tematica del concetto di tempo e del suo rapporto con l'uomo. La sua indagine evidenzia come nell'età degli antichi – eta greco-romana, eta classica -- non si pensasse al tempo come lineare ed escatologico, tanto meno vi era associata l'idea di progresso. Essi concepivano l'essere come kyklos (tempo ciclico, l’eterno ritorno di Nietzsche), come un ciclo in cui ogni evento è destinato a ripetersi. Nella filosofia greco-romana antica era impensabile che l'uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i propri fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel ciclo infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la forza propulsiva (in greco energheia, actus) porta all'attuazione dell’ergon, l'opera, ciò che è compiuto.   Il ciclo si manifesta dunque con l'esplicitarsi dell'implicito.Il seme diventerà frutto solo alla fine del ciclo di crescita e maturazione stagionale, e il frutto coinciderà con il fine del seme, con il dispiegarsi completo dell'energia e delle potenzialità implicitamente contenute in esso. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso: di conseguenza divengono fondamentali la memoria dei cicli passati e quindi la parola dei vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria e dell'esperienza passata. Tuttavia, l'uomo è da sempre tentato di conciliare il tempo ciclico della natura con il tempo umano, che è un tempo “scopico” (dal greco skopein, che indica un guardare mirato). Con questa operazione l'uomo vuole reintrodurre scopi umani nel tempo naturale, naturalmente privo di scopi. Emerge qui dunque la necessità propriamente umana di progettarsi, cioè di gettarsi-fuori di sé verso un obiettivo, cercando di dotare di senso la propria esistenza. Questa tendenza tuttavia, può armonizzarsi con il “kyklos” solo se l'uomo vive con la consapevolezza tragica di non poter oltrepassare i limiti posti dalla natura, primo tra tutti la sua mortalità. In caso contrario, egli si macchierà di hybris (superbia), la tracotanza, l'unico vero peccato riconosciuto dalla saggezza greco-romana.In termini esemplificativi, il cacciatore esercita il suo guardare mirato nel bosco (skopos) e solo in questo tempo progettuale e nella compresenza di mezzi e fini, il suo arco diventa strumento e la lepre l'obiettivo. Si tratta di un tempo lineare che si muove tra due estremi: i mezzi e i fini (la ragione come phronesis or prudentia).V'è tuttavia un elemento che si inserisce tra questi termini, impossibile da controllare, ovvero il kairos, il tempo opportuno, che è anche imprevedibilità, e che può determinare o meno l'incontro tra mezzi e fini. Non è dunque nelle possibilità dell'uomo il tessere il proprio destino. Egli deve saper cogliere il kairos, la circostanza favorevole, e in essa espandere sé stesso.  Questo equilibrio tra tempo naturale, umano e del kairos è stato sconvolto dall'uomo nell'età della tecnica: obiettivo di quest'ultima è infatti quello di ridurre fino ad annullare la distanza tra mezzi e scopi (in cui si inseriva il kairos, l'imprevedibile) per realizzare così un controllo e un dominio assoluti sul mondo, che da cosmo a cui accordarsi è divenuto natura da dominare, e per portare a compimento una tirannia completa del tempo umano. Con l'età della tecnica abbiamo scatenato il Prometeo che gli dèi avevano incatenato, determinando il trionfo del potere della techne sulla necessità (in greco ananke) della natura, fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è più strumento nelle mani dell'uomo ma è l'uomo a trovarsi nella condizione di mero ingranaggio, funzionario inconsapevole dell'apparato tecnico.  Riflettendo sulle modalità in cui l'uomo abita il mondo, approfondisce il concetto di ‘corpori.’ Studiando genealogicamente il concetto di corpo dal periodo romano antico – quale e la etimologia di corpo? Quella di Platone e terribile: soma sema --  mette in contrasto le diverse modalità in cui esso è stato osservato. I corpori – corpus romano, pl. corpora – corpore -- sono visto come organismi da sanare per la scienza, come forza lavoro da impiegare per l'economia (body-abled man), come carne da redimere per la religione, come inconscio (id) da liberare per la psicoanalisi, come supporto di segni (semiotica corporale – la semiotica dei corpi) -- da trasmettere per la sociologia – un segno e un medio fisico – l’immagine e percipita per un corpo – un corpo mittente – un corpo che recive il messagio – semiotica fisica. L'uomo e capace di cappire significatum ambi-valente (uno senso Fregeiano e una implicatura – “He is a fine friend +> He is a scoundrel). Questo significatum ambivalente e fluttuante e quello che il corpo ha da sempre assunto. Questa ambivalenza del segno fra corpo 1 e corpo 2 nasce dal suo sottrarsi all'uni-vocità (or aequi-vocita – or aequi-segno) di una teoria psicologica categorizzante, concedendosi invece una “con-fusione” de un codex di senso fregiano e un codex di implicatura, con i quali i corpori sono costituito. Per salvarsi di un panico creato da questa ambivalenza (significatum fregeano, significatum griceianum), si sigue il principio d'identità, collocando i corpori di volta in volta sotto un equi-valente generico che gli garantisse uni-vocità o aequi-vocita (quando l’implicatura e cancellata). Cogliendo lo sfondo in cui i corpori si mostrano, si evidenzia la legge fondamentale che lo governa, ovvero lo “scambio” (o ‘con-versazione’) simbolica – il simbolo e il significatum griceiano -- in cui tutto è re-versibile e non vi è demarcazione tra significati – questo che Grice chiama la ‘indeterminazione disgiontiva infinita: il corpo significa che p1 o p2 o p3 o … L'ambivalenza del segno è una legge inclusiva per cui ciò che è, è sì sé stesso (principio d’identita), ma anche altro da sé (principio della negazione – diaphoron).  In questo modo i corpori conservano la sua oscillazione simbolica tra vita e morte: oscillazione che non posse eliminarsi tracciando una violenta disgiunzione tra vita e morte, tra ciò che è (l’ente, il ‘being’ di Grice) e ciò che non è (vide Grice, “Negazione e privazione).Proposito conclusive è quello non tanto di emancipare o liberare i corpori dalla restrizione impostagli dal senso apolineo fregeiano (che non avrebbe altro effetto che confermare i limiti in cui i due corpori sono reclusi), bensì quello di restituire i corpori alla sua originaria innocenza.  Si è sempre schierato su posizioni fortemente anticapitaliste, esprimendosi e professandosi inequivocabilmente comunista. è stato ufficialmente richiamato da Venezia a volersi attenere alle corrette regole di citazione degli scritti di altri autori. Questo per aver riportato alcuni brani di altri autori senza citarli in. Tutto ha avuto inizio quando in seguito a un articolo de Il Giornale è emerso che aveva copiato "una decina di brani" di Sissa per un saggio. Ha ammesso di aver violato il diritto d'autore riservandosi di riparare al danno. Ciò non ha comunque soddisfatto Sissa perché “quello non chiedere scusa, piuttosto un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi. Con il passare del tempo sono emersi altri precedenti analoghi. Infatti anche per il saggio su Heidegger, copia Zingari. I due arrivarono a un accordo che prevedeva l'ammissione da parte di G. dell'indebita appropriazione intellettuale nelle successive edizioni del libro e da parte di Zingari l'impegno "a non tornare più sulla questione". Oltre a Sissa e Zingari sono stati copiati testi di Cresti, Natoli e Bradatan. Per difendersi, dice che "in ogni ri-elaborazione però, c'è uno scatto di novità".  L'inchiesta giornalistica de Il Giornale ha accertato che due dei saggi, presentati al concorso a Venezia erano stati copiati da altri autori. La commissione giudicante composta all'epoca non si accorse del fatto. Il rettore ha detto che "non ho, ora come ora, estremi per sollecitare il ministero, deve essere un professore del raggruppamento a farlo. Di mio posso dire che in ambito umanistico si producono troppi testi e che questo è uno dei fattori che causano l'impossibilità di fare controlli accurati. Nello specifico, secondo me dovrebbe essere G., nel suo interesse, a chiedere la convocazione di un giurì o comunque a rispondere e a specificare le sue posizioni.”Nel giugno  la rivista L'indice dei libri del mese ha pubblicato nel proprio sito un lungo articolo su altri copia-incolla. In particolare il saggio sul mito è stato indicato come costituito al 75% da un "riciclaggio" di suoi scritti precedenti, per il restante 25%, una ristesura di intere frasi e paragrafi, presi da altri autori, quasi identici agli originali. Le accuse mosse a G.i sono poi diventate un saggio, “La mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, ), in Bucci, elenca i nomi dei pensatori da cui avrebbe tratto parti di testi senza citare la fonte. Vattimo ha dichiarato al Corriere della Sera: «si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle. Il sapere umanistico è retorico. Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nella filosofia è tutto un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da sé stesso».Altre opere: ROMA SERMO ROMANVM -- Milano, Mursia). Agire (Milano, Apogeo);  Amore. Assisi, Cittadella Editrice,.Tra il dire e il fare. – dire e una forma di fare --  Il viandante della filosofia, con Marco Alloni, Roma, Aliberti,.Parole d'ordine, Milano, Apogeo,.  Amore. Milano, AlboVersorio. Amante, amato, amico --” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,.  “Il bello” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,. Eros e follia, Mariapia Greco, Lecce, Milella Editore. Fenomenologia del corpo, Milano, Feltrinelli – cf. Grice on ‘body’ – in “Personal Identity” “I fell from the stairs” -- Dall'inconscio al simbolo, Milano, Feltrinelli, 2“Equivoci” (Milano, Feltrinelli); Parole nomadi, Milano, Feltrinelli; I vizi capitali e i nuovi vizi, Milano, Feltrinelli. Amore, Milano, Feltrinelli. Treccani. G., nato a Monza, è stato professore incaricato di  Antropologia Culturale e professore associato di Filosofia della Storia. Professore ordinario all'università Ca' Foscari di Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia. Titolo opera: Le cose dell'amore. Il libro è di: saggistica, cioè appartiene al genere letterario dei saggi. Sommario: Riassunto per capitoli: “Amore e trascendenza”: La metafora di Dio è sempre stata collegata alla  metafora dell'amore, nel senso che senza la presenza della trascendenza, cioè che è al di là dei limiti di ogni conoscenza possibile e quindi superiore alla ragione umana, l'amore perde la sua forza e la sua capacità di leggere il mondo. Rimane un enigma dove l'amore vede in Dio la sua trascendenza, e Dio vede nell'amore la sua natura,e questo intreccio non presenta sentimentalismi ma solo il nesso tra amore e trascendenza. I “Amore e sacralità”: La sacralità è dovuta dal desiderio dell'uomo di  immortalità e quindi dal desiderio di conservare la sopravvivenza dell'individuo e della totalità dell'essere. Oltre al sacrificio, un altro modo di sperimentare la morte della propria individualità è l'orgasmo, l'apice della vita sessuale, durante il quale l'Io e il Tu  si dissolvono, e ciò è reso possibile dalla fiducia reciproca.  “Amore e sessualità”: Il sesso non è qualcosa di cui l'Io dispone, ma è qualcosa che dispone l'Io,  aprendolo così alla crisi. Nella sessualità, la meta non è il godimento dell'Io, ma il suo perdersi negli abissi dell'anima, i quali si pensa siano rimasti disabitati, e che invece possono riapparire durante quel rinnovamento della vita a cui l'Io cede ogni volta che ha un rapporto sessuale e quindi nesso con l'altra parte di sé. “Amore e perversione”: La perversione è sempre stata giudicata negativamente, perché concepita  come sinonimo di devianza, degrado, ribrezzo e ripugnanza. Il perverso non cerca la trasgressione, ma la sua aspirazione è di raggiungere uno stato dove è soppressa ogni nozione di organizzazione, struttura, separazione e dl'universo di differenze da cui prende avvio ogni principio d'ordine. Il godimento del perverso non deriva dalla sessualità, ma dalla sessualità portata a quel limite oltre il quale c'è l'incontro con la  morte. “Amore e solitudine”: La mitologia greca aveva divinizzato la  masturbazione, perché era espressione di autosufficienza e indipendenza dagli altri. Ma questo atto venne condannato, nell'età dei Lumi, dalla scienza medica e dall'economia: la prima sosteneva che essa provocava malattie, mentre la seconda affermava che era uno spreco. Osservando invece il fenomeno della masturbazione da un'ottica diversa da queste due discipline, questo "vizio dell'adolescente" non appare come un qualcosa da combattere, ma un qualcosa su cui fare leva per integrare gradualmente la sessualità.  "Amore e denaro": La prostituzione è uno scambio di sesso e denaro che caratterizza il regime sessuale della nostra società, e che viene alimentato da un desiderio di rapido miglioramento delle proprie condizioni economiche. Infatti, di fronte al denaro tutto diventa merce: quando un uomo paga una donna, non le riconosce alcuna interiorità sua propria, arrivando a considerarla più come un "genere" che come "individuo".  "Amore e desiderio": L'amore è un'illusione di stabilità emotiva. Questo sentimento necessita novità, mistero e pericolo, ma deve saper combattere il tempo, la quotidianità e la familiarità. infatti, la ricerca della  sicurezza e della stabilità porta l'amore al suo degrado, perché così facendo essa non prevede l'avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la passione. "Amore e idealizzazione": La percezione della realtà è una costruzione attiva, dove l'immaginazione, la fantasia, il desiderio, di cui l'idealizzazione amorosa è una figura, intervengono a trasfigurare i dati della realtà. Da ciò si deduce che l'oggettività è un'ideale impossibile, e infatti la convinzione di conoscere l'altro in modo oggettivo è una delle tante illusioni create dalla passione per evitare la delusione.  "Amore e seduzione": Nella vita quotidiana, la trasparenza riesce ad allargare l'orizzonte e lo scenario dischiuso dall'immaginazione. Infatti il desiderio si trova in ogni fessura della realtà che lascia trasparire un'ulteriore senso: quello dell'irreale e de-reale. Il corpo dell'altro diviene così uno specchio che riflette il nostro desiderio, e questo corpo non deve essere mai nudo, perché la seduzione si esprime attraverso le vesti, gli accessori, i gesti, la musica.  "Amore e pudore": L'amore prevede che ad amare e ad essere amato sia il nostro Io, una delle due soggettività presenti in ogni individuo e che, contro la sessualità generica, impone la  barriera del pudore. Essa però non limita la sessualità ma la individua, sottraendola a quella genericità in cui si celebra il piacere senza riconoscere l'individualità. E' importante sottolineare che il pudore non è un sentimento esclusivamente sessuale, ma ha anche una valenza sociale che si pone alla difesa dell'individuo contro la pubblicizzazione del privato.  "Amore e gelosia": Nella nostra società, dove la sussistenza dipende sempre meno dalla solidità dei vincoli familiari, la gelosia è  vista come un sentimento arretrato che ostacola la libertà e la sincerità dei singoli. Essa, cha affonda le sue radici nell'infanzia non per la progressiva rinuncia da parte del  bambino al possesso esclusivo del padre o della madre, ma perché durante questo periodo chiunque ha provato sentimenti come la solitudine e la paura di essere abbandonati, altera la percezione, l'attenzione, la memoria, il pensiero e il comportamento. Per avere controllo su questo potente stato d'animo, bisogna separare progressivamente l'amore dalla ossessività, cioè civilizzarla. "Amore e tradimento": Il tradimento risiede nella fiducia originaria, dove non c'è traccia neppure del sospetto, perché non sorgono ne l'interrogazione ne il dubbio. Ma la scoperta di quest'ultimo segna la nascita della coscienza, e questo atto è indicato dal tradimento. Sono presenti diverse reazioni al tradimento: la vendetta, che non emancipa l'anima ma la irrigidisce; la negazione, in cui l'individuo che ha subito una delusione tenta di negare il valore dell'altro; il cinismo, che fa credere che l'amore sia sempre una delusione; il tradimento di sé, che porta a tradire sé stessi e le proprie esperienze emotive; la scelta paranoide, un atteggiamento legato più alla sfera del potere che a quella dell'amore.  "Amore e odio": L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, e la sopravvivenza di questo sentimento amoroso non dipende tanto dalla capacità di evitare l'aggressività, che è il riflesso dello stato di pericolo in cui si trova la persona che ama, quanto dalla capacità di viverla e oltrepassarla. In amore, l'individuo può accettare la dipendenza verso la persona amata, oppure per riscattarla trasforma la passione amorosa in passione aggressiva, carica di odio, dove il messaggio finale è che non si può fare a meno di questa persona.  "Amore e passione": A differenza dell'amore, la passione non segue le regole, ignora il governo di sé, non conosce il limite e non dipende da progetti. Per questo è possibile dire che l'amore è cristiano, mentre la passione è pagana. La passione cerca rassicurazione, ma nello stesso tempo vuole essere smentita, rifiutata e delusa, perché attribuisce all'affetto, alla domesticità, all'amare e all'essere amato poca importanza. Questo perché la passione conosce il destino e non lo scambio, in quanto l'altro è considerato solo come materia per la sua creazione, ovvero la fantasia, la quale si alimenta del dubbio e dell'incertezza. "Amore e immedesimazione": L'alienazione nell'altro per amore di sé approda o nell'assimilazione con la persona amata, che porta alla perdita della propria identità, o nel possesso della persona amata, con la tendenza ad escluderla dal mondo. Gl’amanti chiamano amore questa reciproca immedesimazione, e questa rinuncia di sé e della propria libertà non esprime solo un rapporto di dipendenza, ma una vera e propria condizione di alienazione. Il mantenimento in amore della propria autonomia non solo evita l'identificazione con la persona amata, ma consente il recupero di se stesso.  "Amore e possesso": La passione, quando non approda nell'immedesimazione con la persona amata, si indirizza verso il possesso, che riduce le relazioni della persona amata, e in cui l'amante non ama propriamente l'altro, ma solo il potere che esercita sull'altro. Dunque, chi ama per possesso non si accontenta del possesso del corpo e del godimento sessuale che ne deriva, ma pretende che la persona amata lasci per lui tutto il suo mondo, e che lo ami non solo per la sua evidente identità, ma per le sue qualità nascoste. Solo a questo punto il suo desiderio di possesso è soddisfatto ma, con la sua soddisfazione, anche la sua passione si estingue, perché non era amore per l'altro, ma era perverso amore di sé. "Amore e matrimonio": La nostra società è caratterizzata dall'individualismo, in cui l'individuo  vive in base alla sua personale idea di felicità, senza più subire l'influenza delle norme tradizionali. Attualmente, l'amore è slegato da ogni riferimento sociale, giuridico e religioso, e si sta diffondendo la figura de "l'uomo della passione", che attende dall'amore qualche rivelazione su se stesso o sulla vita in generale. Da una parte quindi l'amore-passione, che rappresenta l'evasione dal mondo per raggiungere in sogno la felicità assoluta, dall'altra l'amoreazione che fonda il matrimonio, che non evade dal mondo ma assume in esso il proprio impegno. "Amore e linguaggio": L'amore utilizza le parole per dare espressione a ciò che la logica non sa cogliere. Infatti, i paradossi del linguaggio dell'amore cercano di infrangerla, perché la logica include la normalità e la quotidianità, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso, l'insolito, e non può farlo se rispetta le regole della ragionevolezza. Questo eccesso concede all'amore nuove libertà di cui ha bisogno, perché essa nasce quando è totalizzante, e infatti il linguaggio dell'eccesso pretende la totalità, dove odio e amore possono confluire e passare l'uno nell'altro. "Amore e follia": L'amore è quasi sempre stato considerato come un qualcosa posseduto dall'Io. Freud smentisce ciò sostenendo che non esiste una ragione onnipotente che guida la volontà che governa le ragioni, in quanto la psiche umana non è razionale. Fu Platone il primo ad interessarsi alle regole della ragione e agli abissi della follia. Egli con il termine follia indica un'esperienza dell'anima che sfugge a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarla e disporla in successione. B) Tesi dell'autore:  L'amore non può esistere senza un raggio di trascendenza. C'è una profonda affinità tra il sacrificio e l'atto d'amore. L'amore non rinnega il sesso e l'erotica. L'amore deve sapere accettare anche la perversione.  La masturbazione è segno di solitudine. Con la prostituzione ciò che si  vuole comprare non è il sesso ma il potere su un altro essere umano. E' importante saper conciliare il bisogno di sicurezza (l'amore) e il desiderio di avventura (la passione). L'idealizzazione amorosa influenza la nostra percezione della realtà.  La vera seduzione è possibile solo quando il corpo non si riduce a quel significato univoco che è il sesso.  Il pudore è quel sentimento che difende l'individuo dall'angoscia di perdersi nella genericità animale. La gelosia è il rovescio della passione, dell'intimità e della dedizione che caratterizzano l'amore.  Il tradimento è il lato oscuro dell'amore, che però è ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende possibile.  L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, perché esso è la risposta a quella minaccia che è l'amore. A differenza dell'amore, la passione non conosce limite e regole.  L'amore non prevede la rinuncia di sé.  L'amore come passione è il desiderio di potenza assoluta su di una persona. Il matrimonio non è supportato da alcuna buona ragione, perché nelle cose dell'amore la ragione non ha gran voce in capitolo. L'amore si affida al linguaggio per esprimere l'intreccio della nostra anima.  L'amore è un cedimento dell'Io per liberare in parte la follia che lo abita. C) Impressioni riportate nella lettura: A mio parere, il libro "Le cose dell'amore" è stato molto coinvolgente per i temi trattati: l'autore, grazie alla sua esperienza di vita e alla sua abilità di scrivere che non è da sottovalutare in uno scrittore, riesce a descrivere tutte le sfumature dell'amore senza cadere nella banalità e nella monotonia, tendendo sempre accesa nel lettore la voglia di proseguire la lettura. Ciò è favorito anche dal fatto che molti dei temi affrontati si riscontrano nella vita quotidiana di ognuno di noi, cioè ci riguardano da vicino perché fanno parte della società in cui viviamo: l'amore legato al denaro, e quindi al fenomeno della prostituzione, che è un problema diffuso in Italia; l'amore legato al pudore, un aspetto necessario per vivere in comunità, che quindi ha una valenza sociale; l'amore legato alla gelosia, la quale è vista come un sentimento che, in una società in cui sta avvenendo l'emancipazione dell'individuo, ostacola la libertà e la sincerità dei singoli; l'amore slegato dal matrimonio, in quanto nella nostra società si sta diffondendo l'individualismo. Difficoltà incontrate nella lettura: Durante la lettura del libro "Le cose dell'amore", ho riscontrato delle difficoltà nella comprensione di alcune frasi o parole. In qualsiasi lettura è fondamentale capire e interiorizzare tutto ciò che sta scorrendo sotto i nostri occhi, e porsi delle domande per essere certi di aver appreso tutto in maniera corretta. Se si tralascia anche un solo particolare perché non lo si riesce a comprendere fino in fondo, andando avanti nella lettura si svilupperanno sempre più problemi di condiscendenza. In questo libro ho riscontrato più di una frase, o semplicemente delle parole, che hanno sollevato delle difficoltà nella comprensione dei concetti-chiave. Ad esempio, prima di continuare lalettura mi sono dovuta soffermare su parole di cui non conoscevo il significato e che ostacolavano la mia interpretazione di questo testo, alcune delle quali sono: ambivalenza, assedio, avvedutezza, dissoluzione, ineffabilità, millanteria, parossismo, prevaricazione. In particolare, ho dovuto cercare informazioni relative al significato di due parole, trascendenza e alienazione, perché entrambe sono temi importanti affrontati. Era dunque necessario approfondire il concetto contenuto in queste due espressioni per raggiungere l'obiettivo di questa lettura: accrescere le nostre conoscenze. Inoltre ho avuto modo di riflettere in modo più attento e accurato sul termine "immedesimazione", che era già stato per me oggetto di studio in alcune discipline, ma non era mai stato così legato alla quotidianità, così vicino al nostro ambiente di vita. In conclusione, questo libro mi ha dato l'opportunità di ampliare il mio sapere, e soprattutto mi ha dato l'occasione di approfondire il concetto di alcune parole, elencate precedentemente, prima a me estranee. Scheda del libro  Introduzione: L’uomo, troppo spesso, tende a definire l’amore legandolo a significati  che, in realtà,  non gli appartengono completamente. G., attraverso un’attenta analisi, s’introduce all’interno del sentimento più incomprensibile ed equivocato di tutti i tempi. Egli non definisce l’amore, ma associa a questo i tanti falsi sinonimi che  gli vengono attribuiti, cercando di dimostrare che i termini non sono equivalenti ma  solo in relazione. Graficamente, dunque, l’amore e i falsi sinonimi potrebbero essere rappresentati da due insiemi, con un’ampia parte compenetrata, ma non sovrapposti. Il  risultato  evidente risulta essere un passaggio dalla amore è… ad una più ricca ed attenta osservazione di amore e… definizione abituale di Amore e... L’amore viene  analizzato in tutte i suoi aspetti, dalla trascendenza, sacralità alla perversione, seduzione, denaro,  dal pudore al tradimento, dall’immedesimazione, possesso al  matrimonio, dal linguaggio alla follia. Il sentimento più oscuro sembra nascere da un incantesimo della fantasia che fa idealizzare in un essere la persona amata e cessare con il tempo che, favorendo la realtà, finisce col produrre una disillusione delle aspettative, trasformando la passione, l'idealizzazione, iniziale in un affetto privo di partecipazione e trasporto. Le conseguenze, talvolta, possono essere anche molto gravi tanto da tramutare la passione in una patologia e sostituire ai poeti d'amore degli psicologi. La vicenda divina è legata anche all'atto sessuale in cui l'uomo trasgredisce, eccede, cadendo sotto il peso della passione che non rappresenta solo uno smarrimento del desiderio e di se stesso ma anche un vero e proprio patire. "il desiderio, per quel che ancora le parole significano, rimanda alle stelle: de-sidera" (Le cose dell'amore, 1) Come scrive l'autore, l'amore e la trascendenza vanno di pari passo e dal momento che il significato della parola desiderio rimanda alle stelle, quando esso con il tempo si estingue, non c'è più elevazione dell'anima che è in grado, trascendendosi, di lasciarsi superare. L'amore e la trascendenza, dunque, sono legati non da un rapporto reciproco, ma dal sentimento che viene sviluppato per le cose che non è possibile possedere. Il saggio risulta essere molto interessante nelle tematiche e negli accostamenti tra gli argomenti e permette, attraverso l'uso di un linguaggio comune di poter essere compreso da diversi tipi di lettore, trattando ,infatti, un tema senza età e senza la necessità di particolari conoscenze umane o scientifiche permette a tutti di immedesimarsi, interrogarsi ed interagire conil testo ed è proprio questa compenetrazione del lettore che crea una polisemia di significati e sempre diverse chiavi di lettura sia da altre persone sia dal tempo che muta le circostanze della vita. L'autore riesce a non abbandonarsi mai in trattati banali o superficiali finendo in discorsi pesanti ed inconsistenti ma inserisce diverse tonalità che mantengono viva la curiosità e la voglia di proseguire la lettura. La contemporaneità in cui vive gli permette di rapportare al testo l'esperienza personale, permettendo che venga identificata o differenziata da quella altrui. Le tematiche attuali, lo stile concreto e il narratore in cui è possibile identificarsi mostrano, dunque, l'ottima riuscita del libro. "Amore non è solo  vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta." (Le cose dell'amore). conseguenza si tende ad innamorarsi solo delle persone che la fantasia porta a sognare ed idealizzare e a cadere in depressione o nel deprezzamento di se stessi se il sentimento non è ricambiato, poiché, senza l'immaginazione, che influenza la percezione ed esalta la realtà il desiderio di sicurezza potrebbe far cessare sul nascere l'amore per la paura di non essere corrisposti. L'amore, tuttavia, nelle sue molteplici identificazioni ha anche un lato oscuro, riconosciuto nel tradimento. Esso rappresenta sia il dolore per fine della fiducia, che l'inizio dello sviluppo della coscienza, infatti, solo chi si concede senza avere la sicurezza di non essere tradito può provare il vero amore. La coscienza può, emancipandosi, portare al perdono e decidere di passare oltre oppure può svilupparsi in vendetta, cinismo, svalutazione o malattia, e dal momento che questa è la strada più percorsa generalmente è bene che non si realizzi come pratica insincera ma come reciproco riconoscimento, dove chi ha tradito non cerca scuse e chi ha subito prende atto ed eventualmente accetta il cambiamento poiché tradire qualcuno, qualsiasi sia il rapporto che lega, è già una possessione che inizia il processo di arresto della propria crescita. L'amore e l'odio, invece, coesistono perfettamente, poiché solo chi ama davvero sa odiare e solo chi odia veramente è, in realtà, in grado di amare. Essi rivelando che, per vivere bene, non si può fare a meno d'altre persone, sono i soli, unici e veri sentimenti. "Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con l'altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi stessi" l'amore e le caratteristiche che gli vengono associate mettono in relazione l'uomo con la parte folle del proprio essere da cui si era discostato nel tempo. " Ora che vi ho detto tutto sull'amore, non crediate che io ne sappia più di voi: il ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me. L'unica differenza è che lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede ancora a ciò che lo tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di esperienza, cerchiamo di affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre illusioni. Eppure con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?" (M. Chebel "Il libro delle seduzioni") Galimberti conclude la sua opera con questa breve citazione, in essa è racchiuso, infatti, tutto il significato dell'amore. Un sentimento inspiegabile che non è possibile conoscere né completamente né in modo uguale o simile ad altre persone, una sensazione che gratifica i bambini, poiché nella loro innocenza la vivono senza tormenti e ansietà pur conoscendola come gli adulti. AMORE È... "l'amore è un fiore delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andarlo a cogliere sull'orlo di un abisso spaventoso" (le cose dell'amore, 116 Ivi, 120) L'amore è il più importante tra tutti i sentimenti, dal momento che è possibile associarlo a tutti gli altri. Esso è difficile da trovare e spesso viene confuso con altri molto simili ma mai uguali. Solo chi ha il coraggio di lottare, di sfidare, di mettersi in gioco, di rischiare può ottenere il vero sentimento ricercato o in ogni caso non vivere nell'illusione, riconoscendo i falsi sentimenti che cercano continuamente di insidiare un posto che non appartiene a loro. La fatica di condurre il "gioco" attraverso la strada se pur più reale, più complicata porta ad una felicità certa e vera che permette di non patire grandi sofferenze ma solo piccole illusioni riconoscendo che il male apparente non è in realtà vero male così come ciò che si definisce generalmente come bene non sempre è il vero bene.  Nella Introduzione al suo celebre libro del 1983 Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si esprimeva:  È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica.  Ma pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe. Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici, scavando il fondo su cui si impianta il radicamento.  Questa operazione che rimuove la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è data, quindi la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine storica.  Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e precisamente in quel momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee per essere riassunta in quell'unità ideale, la psyche, che da Platone in poi, per tutto l'Occidente, sarà il luogo del riconoscimento dell'unità del soggetto, della sua identità. Ma questo luogo di identificazione contiene già il principio della separazioneperché, come coscienza di sé, la psyche incomincia a pensare per sé, e quindi a separarsi dalla propria corporeità. La prima operazione metafisica è stata un'operazione psicologica.  Nata con un significato semplicemente classificatorio per designare quei libri aristotelici che erano collocati dopo (µ?ta) i libri di fisica (t? f?s???), la «metafisica» ha guadagnato ben presto e coerentemente un significato topico che designa un al di là della natura, quindi una scienza dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi perché, contro il loro divenire e mutare,  rappresenta l'immutabile e l'eterno. L'idea platonica è il modello di questa separazione e contrapposizione, e la psyche, essendo «amica delle idee, incomincerà a considerare il corpo come suo carcere e sua tomba.  Una volta che la verità è posta come idea, l'opposizione tra ideale e sensibile , tra anima e corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso, tra bene e male. Valori logici e valori morali nascono da questa contrapposizione che la metafisica ha creato e la scienza moderna ha mantenuto, rivelando così la sua profonda radice metafisica se è vero, come dice Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nelle antitesi dei valori».  A questo punto per la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo della sua origine storica, significa pensarsi contro questa antitesi di valori che non la realtà, ma lo sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato se stessa, ha instaurato. È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come residuato di quell'idealismo che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente come suo lungo errore.  Da questo errore la filosofia si è emancipata con Nietzsche che ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là inventato per meglio calunniare l'al di qua», ma non la psicologia, che così rimane la più occidentale delle scienze e quindi la più metafisica, se per metafisica intendiamo il pensiero  della separazione, il puro d?a ß???e??, da cui nascono quelle antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate dal discorso psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e follia.  Fattasi carico della logica della separazione inaugurata dalla disgiunzione platonica tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere coerente a se stessa, non può parlare del corpo se non impropriamente, se non per un'infedeltà al suo statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda l'idea di corpo che come scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui questa idea si riduce dopo che lo psichico è stato separato e autonomizzato, non è luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia potrà parlare propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo statuto della separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la psicologia è nata,  ha fondato se stessa come scienza, e ancora si conserva. Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non nel senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per ribadire un'altra separazione, quella tra conscio e inconscio, dove nell'inconscio si ritrova il rovescio dell'iperuranio platonico, il 'vero' significato di ciò che si manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha separato l'anima dal corpo inaugurando la 'psico-logia'. Abolire la barra significa mettere assieme, s?µ-ß???e??. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la psicologia come storicamente s'è  pensata in Occidente, la sradica dalle sue radici storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e così la costringe a pensarsi contro se stessa.  Questo pensiero che è contro, perché pensa fino in fondo, fino alle radici, incontra la corporeità che, nel suo sorgere immotivato e nel suo ambivalente apparire, dice di essere questo, ma anche quello. L'ambivalenza così dischiusa non è ambiguità, ma è quell'apertura di senso a partire dalla quale anche la ragione può fissare l'opposizione dei suoi significati ,e quindi quell'antitesi dei valori in cui si articola la sua logica disgiuntiva quando divide il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla materia, l'anima dal corpo.  Queste opposizioni sopprimono l'ambivalenza (?µf?) con cui la realtà corporea originariamente appare nel suo duplice aspetto, come un Giano bifronte, per instaurare quella bivalenza (bis) dove il positivo e il negativo si rispecchiano producendo quella realtà immaginaria da cui traggono origine tutte le «speculazioni». Diciamo immaginaria perché la realtà non può mai di per sé essere negativa se non per effetto di una valutazione. Ma se il negativo è da interpretare semplicemente come il «valutato negativamente», allora la negatività attiene essenzialmente al giudizio di valore. Proponendosi come questo, ma anche quello, il corpo, come significato fluttuante, che si concede a tutti i giudizi di valore, ma anche si sottrae, con la sua ambivalenza li fa tutti oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio geologico nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di irradiazione simbolica nella comunità primitiva, il corpo, infatti, è diventato in Occidente «il negativo di ogni valore» che il gioco dialettico delle opposizioni è andato accumulando. Dalla «follia» del corpo di Platone alla «maledizione della carne» nella religione biblica, dalla «lacerazione» cartesiana della sua unità alla sua «anatomia» ad opera della scienza, il corpo vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a «forza-lavoro» nell'economia dove più evidente è l'accumulo del valore nel segno dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del corpo sul registro dell'ambivalenza.  Qui «sfida» non significa che il corpo si oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a una pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione che, se da un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza identità, dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, colui che dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A, perché questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura metafisica del sapere psicologico l'ha confinato.  Questo recupero è possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo, questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco conosce la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può sottrarre alla necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e fermarlo per sempre.  Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è una riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha individuato nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno, una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso ultimo del corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere psicologico s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della rappresentazione psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la sovrabbondanza dei segni produce.  Se ciò non accade, se la psicologia non si pensa contro la rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca in cui ha preso avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non giungerà mai alla comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà costretta ad errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua fondazione epistemica, della sua nascita come scienza.  Si tratta di un errore che non investe solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale quando, sottraendosi alla polisemia della realtà corporea, si afferma come asserzione incontrovertibile su di essa. In questo passaggio dalla verità come ambivalenza alla verità come decisione del vero sul falso, il sapere razionale dimentica di essere una procedura interpretativa tra le molte possibili per porsi come assoluto principio, dimentica di essere un inganno necessario per dirimere l'enigma dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno perverso.  Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura polisemica rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere, all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie, che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario, abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o l'ambivalenza del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente dissolvimento del loro valore accumulato.  Per sfuggire a questa alternativa, che è inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il terreno su cui il sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole riappropriazione non è una regressione, non è l'abbandono del solido terreno del sapere, al contrario, è la ricostruzione genealogica del suo significato.  Riproporre l'ambivalenza del corpo non significa quindi rifiutare il sapere razionale, né tanto meno accettarne la resa, ma significa andare alle radici di questo sapere e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di più che un tentativo per far fronte all'ambivalenza della realtà corporea che, così riscoperta, è ciò che dà ragionedelle molteplici ragioni.  Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche. Si tratta di un senso che sta prima di ogni significato, e che nessun significato promosso dalla decisione scientifica può abolire, perché è prima di ogni inizio e continua oltre ogni conclusione.  Ne consegue che alla metafisica dell'equivalenza produttrice di quei significati con cui in Occidente si sono fatti circolare i corpi secondo quel preciso registro di iscrizioni che di volta in volta li de-terminavano, e sulle cui determinazioni sino nati i vari campi del sapere, il corpo sostituisce il gioco dell'ambivalenza, ossia di quell'apertura di senso che, venendo prima della decisione dei significati, li può mettere tutti in gioco col corredo delle loro iscrizioni in quell'operazione simbolica in cui il sapere perde la sua presa, perché la delimitazione dei campi in cui da sempre si è esercitato si è simbolicamente con-fusa.  Questa è la sfida del corpo, una sfida che è già iniziata se c'è da dar credito a quella «crisi delle scienze europee» denunciata da Husserl. Niente di più benefico. Sono i primi effetti di quella violenza simbolica rispetto a cui quella razionalistica è in ritardo di una generazione, perché ancora crede in una controparte, e quindi non sa che ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere.  Ma quando la realtà immaginaria, prodotta dalle opposizioni polari in cui si articola ogni sapere razionale, non riesce più a farsi passare per realtà vera, in quel gioco di specchi che si frantumano a contatto con la polisemia della realtà corporea, allora si è più vicini all'ambivalenza, non per una contrapposizione dialettica o per un'opposizione organizzata, ma perché là dove tutte le maschere sono cadute, compresa quella della bivalenza codificata, ogni termine che ruota su se stesso si s-termina. Questo è l'esito simbolico che attende l'ordine strutturale di ogni sapere. E già se ne vedono le tracce. Seguendole, il corpo consegna ogni ontologia e ogni deontologia alla geo-grafia, alla grafia della terra, la più dicente, la più descrittiva, quella che non accorda privilegi metafisici, perché non conosce la mono-tonia del discorso, ma l'ambi-valena della cosa.     Fra tutte le numerose pubblicazioni di G., questa è, forse, quella che maggiormente gli ha dato visibilità e lo ha designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser della filosofia italiana contemporanea.  È anche un'opera caratteristica, perché in essa G., curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste illustrate, si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e cerca di scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino in fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità.  Il punto da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone, percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della psyche, divenuta l'elemento fondamentale della sua identità.  Ma il corpo, per G., è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene a precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli non si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli - evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto vaga del questo e quello), grazie alla quale la ragione ha la possibilità di fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo.  Tale antitesi dei valori è, per G., la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo il concetto da Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e della schizofrenia del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce panoramica per mostrare - con accenti severiniani - che esso è stato un lungo, deplorevole errore, in quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo. E il dualismo, si capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là, dal quale poter meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più razionali, perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di sulfureo (d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del Diavolo, «colui» che separa).  Questo, dunque, è un punto centrale della argomentazione di G.: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo; dunque, tutto il pensiero dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e dalla metafisica, è un pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze.  La ricetta per uscire da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare, la logica unitiva, bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e anche quelle, allo stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può essere interpretata, volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la psicoanalisi è una scienza metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché reintroduce, attraverso la contrapposizione di conscio e inconscio, la lacerazione platonica e cristiana tra anima e corpo, tra spirito e materia; e fornisce una immagine distorta dell'uomo.  È a partire da questo punto che il ragionamento di G. si fa propriamente filosofico, oltrepassando il campo ristretto della psicologia.  Invece di accettare l'ambivalenza del corpo, la logica disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e della psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo si rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché interpretazioni? Perché, per G., non esistono il positivo e il negativo, bensì la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e situazioni che potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti punti di vista.  Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante, dove le cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo) che esse siano. Come in  un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e PIRANDELLO (si veda), noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un giudizio di valore.  Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di pensiero irrazionalistica, G. sostiene che ogni ragione si serve di una logica disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere. Così, la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda).  Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in realtà, «immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà (immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei valori».  G. non affronta esplicitamente la questione, ma sembra intuire la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che, quando il pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza, che è tutt'altro) delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini alla loro realtà. O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione «realtà»; glorifica l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto auto-evidente; gli basta impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente, non riesca a farsi passare per la «realtà vera».  Ma questa «realtà vera», in ultima analisi, esiste o non esiste? G. non risponde, l'abbiamo già detto; si limita ad osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si attardano nel pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno di essere in ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora in una controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere».  Vi sono echi minacciosi in questa affermazione (il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove precipitano i non rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po' patetici (l'ultimo soldato giapponese che continua a combattere nella giungla per una guerra che è vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una razza che si è estinta.  Si tratta di una posizione quanto mai radicale, poiché equivale alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso».   Ma il vero e il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono le verità di principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque non esistono saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi sono sempre strumentali, parziali, relativi.  È incredibile: siamo in piena sofistica, che Socrate aveva già brillantemente confutato circa ventitré  secoli fa; ma G. ci presenta le sue conclusioni come se fossero qualcosa di staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un continuatore radicale dell'opera di Nietzsche. Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare - afferma G. con la massima disinvoltura -non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si tratta di un senso che sta prima di ogni significato»; ma, di novo, non ci spiega in che modo egli arguisca l'esistenza di questo «senso originario», dato che tutti i sensi che noi diamo alle cose forzano la loro vera essenza. Arrivati a questo punto, possiamo fare alcune osservazioni conclusive. Punto primo: che il pensiero idealistico sia stato tutto un lungo errore, forse bisognava sforzarsi di dimostrarlo e non darlo per scontato al principio di un libro interamente dedicato alla discussione degli effetti negativi di un tale errore. Punto secondo: che non esista alcun criterio di verità, è posizione filosoficamente rozza e semplicistica. Altro è affermare che la verità è difficilmente accessibile, altro è affermare che ogni verità è una forma di violenza che i saperi cercano di imporre per fondare se stessi. LA FILOSOFIA è frutto di sottili distinzioni, di una particolare sensibilità per le sfumature; ma qui, sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente a colpi di martello (e non è un complimento).  Punto terzo: che il corpo sia il luogo privilegiato in cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente, aiutandoci a liberarci dalle pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è - ancora una volta - posto ma non discusso, e tanto meno dimostrato.  Eppure è fin troppo facile osservare che, se l'introduzione della psyche ha relegato il corpo al ruolo di negativo, l'esaltazione del corpo che fa G. sembra ribaltare la prospettiva, senza modificarla «alle radici» (come egli sostiene di voler fare). Ossia, a questo punto è la psyche che rischia di diventare il negativo o, quanto meno, il luogo dell'errore, dell'illusione, della disgiunzione. Ma sarebbe perfettamente  inutile muovere una simile obiezione a G.: egli vi risponderebbe, come ha fatto in più occasioni, che la psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa, perché tutto è corpo.  La sua intera filosofia non è che una assolutizzazione della corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva a sostenere, senza batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani, avvenuta nel IV secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo G. e la morale, Arianna.  Ma davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare l'antitesi dei valori e restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?) ambivalente, dove le cose sono finalmente se stesse e non quello che noi giudichiamo che esse siano? Ora, è verissimo che la vita, nel suo livello immediato e quotidiano, procede per giudizi di valore che sono spesso affrettati, imprecisi, immotivati e, soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia, non discende che il rimedio consista nel proclamare la relatività di tutti i valori e l’inesistenza di ogni criterio di verità. Questo sarebbe quel che si dice curare il mal di testa con le decapitazioni.  Esistono altri livelli di esistenza - non solo di tipo razionale, su questo siamo d'accordo con G. -, ai quali è possibile accedere, e nei quali si può intravedere, pur senza possederlo interamente, un criterio di verità capace di sottrarre le cose al gioco degli specchi della loro incessante mutevolezza.  Se non credessimo a questo, dovremmo non solo sospendere ogni giudizio di valore, ma rinunciare a ogni possibilità di avvicinarci al vero, al bello e al buono; in altre parole, dovremmo ritirare un rigo su ogni possibilità di fare non solo psicologia, ma anche filosofia. Queste, e non altre, sono le conclusioni coerenti del ragionamento di G.: per cui, ad essere rigoroso, egli dovrebbe dichiarare non la riforma della psicologia, ma la sua soppressione radicale; e, quanto alla filosofia, la sua estinzione irreversibile. Come è possibile continuare a ragionare in termini filosofici, se dobbiamo prendere atto che non esistono controparti, ma solo ambivalenze che è possibile tirare ora in qua e ora in là, secondo il nostro umore del momento?  Si badi: quello che propone G. non è un pensiero complementare, come lo è - ad esempio - il taoismo, il quale, giustamente, ci ricorda che non esiste luce senza buio, caldo senza freddo, gioia senza dolore. No, si tratta qui di un relativismo puro e semplice: io dico che questa cosa è calda, tu dice che è fredda; forse lo dirò anch'io, domani, se me ne verrà la voglia; per intanto, abbiamo ragione tutti e due. Io ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che entrambe sono vere, o che entrambe possono esserlo, o che entrambe lo sono state o lo saranno.  Il relativismo  è una cattiva filosofia, anzi è l'impossibilità di fare filosofia.  Eppure, questi sono gli applauditissimi maitres-à-penser della cultura odierna.Umberto Galimberti. Galimberti. Keywords: il sessuale, l’immaginario sessuale, sesso, Why did the Romans need to distinguish between ‘amatus’ and ‘amicus’? -- amore, follia, jung, simbolo, sole-fallo, simbolo, simboli di jung, I corpi d’amore, I corpi d’amore sessuale – immaginario sessuale, immaginario collettivo sessuale, cose dell’amore, platone, il convito, I corpi, I gesti – I gesti dei corpi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galimberti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Galli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Carru). Filosofo italiano. Celestino Galli. Interesting philosopher. Not to be confused with Galli.

 

Grice e Galli:  la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’amore – scuola di Montecarotto – filosofia anconese – filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecarotto). Filosofo italiano. Montecarotto, Ancona, Marche. Compiute gli studi classici con assoluta regolarità, si iscrive alla Facoltà di Filosofia a Roma, dove ha come maestri, tra gli altri, Varisco e Barzellotti. Da Varisco apprende il rigore del metodo negli studi filosofici. Da Barzelotti aprende la passione per le ricerche storiche e le vaste esplorazioni letterarie. Si laurea sotto Barzellotti con il massimo dei voti dopo aver discusso “Kant e SERBATI” (Lapi, Citta di Castello); Insegna a Senigallia, Bologna, e Firenze. In “I principii della scuola, con particolare riguardo alla scuola elementare” (Il Risveglio Scolastico, Milano). Insegna a Cagliari e Torino. Figura centrale della filosofia italiana, G. esordisce con una ricerca sullo sviluppo della filosofia kantiana e quella di SERBATI; temi che non solo non si stanca mai di ampliare ma affina in ulteriori indagini. Esegue vaste indagini sulla storia della filosofia. Socrate, Platone, Aristotele, Cartesio, BRUNO (si veda), Leibniz, e Renouvier.  «L'uno e i molti” (Chiantore, Torino) certifica la teoria. Gli procura l'interesse di larga parte del mondo filosofico italiano per le conclusioni sui rapporti tra il sentimento e la reflessivita. Ampie le discussioni, e talora vivacissime, su autori contemporanei, dai quali esige rigore, chiarezza e intransigenza speculativa. Organo di polemiche e di interventi nella vita della cultura italiana contemporanea è «Il Saggiatore», da lui fondata, Privo di ambizioni mondane, sempre affabile, ama la compagnia delle persone colte e la conversazione delle anime semplici, destinate al bene e alla verità. Confida soprattutto nella scuola, veicolo ideale per dare alle generazioni nuove volontà, serietà, cultura adeguata ai tempi. Una scuola che studia, senza divagare e che sappia attingere costantemente alle fonti del sapere, ama ripetere. Grazie al suo ininterrotto lavoro di studioso, il mondo accademico italiano ha beneficiato di un numero impressionante di sue pubblicazioni, fatto di saggi, manuali per le scuole, opuscoli e articoli per riviste specializzate. Si dedica all'arte e alla religione, completando, in questa maniera, il panorama delle sue indagini. La Scuola media statale di Montecarotto ha aggiunto all'intestazione il nome di "G.".  Altre saggi: La filosofia teoretica dei manuali, Oderisi, Gubbio, Dialettica dello spirito” (I., Oderisi, Gubbio); “Lineamenti di filosofia, Azzoguidi, Bologna; La dimostrazione dell'esistenza del mondo esterno e il valore pratico delle qualità sensibili secondo Cartesio, Oderisi, Gubbio); Renouvier. II. La legge del numero, D. Alighieri, Milano, Le prove dell'esistenza di Dio in Cartesio (Valdes, Cagliari);:La dottrina cartesiana del metodo, D. Alighieri, Milano); “La filosofia di Leibniz: Facoltà di Magistero, Torino, Statuto, Torino); “Studi cartesiani, Chiantore, Torino); “Cartesio, Chiantore, Torino, “Dall'essere alla coscienza, Chiantore, Torino); “L’idealismo” (Gheroni, Torino); “PComenio, Gheroni, Torino); “La Filosofia greca: I sofisti, Socrate, Platone. Torino. Facoltà di Magistero. heroni, Torino, Leibniz, Milani, Padova); “Carlini ed altri studi; da Talete al "Menone" di Platone; il problema di Cartesio, per la fondazione di un vero e concreto immanentismo, Gheroni, Torino, Corso di storia della Filosofia: Aristotele, Gheroni, Torino, Da Talete al menone di Platone, Gheroni, Torino, Tre studi di filosofia: pensiero ed esperienza, sulla persona, su Dio e sull'immortalità, Gheroni, Torino Socrate ed alcuni dialoghi platonici: Apologia, Convito, Lachete, Eutifrone, Liside, Jone, Giappichelli, Torino, Linee fondamentali d'una filosofia dello spirito, Bottega d'Erasmo, Torino, L'idea di materia e di scienza fisica da Talete a Galileo, Giappichelli, Torino, L'uomo nell'assoluto, Giappichelli, Torino, La vita e il pensiero di Giordano Bruno, Marzorati, Milano Sguardo sulla filosofia di Aristotele, Pergamena, Milano, Platone, Pergamena, Milano; Di carattere pedagogico Filosofia (Oderisi, Gubbio). Idealismo, spiritualismo ed esistenzialità nella metafisica in Galli; Cartesio, in Italia. Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 51, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Persée. Portail de revues en sciences humaines et sociales, su persee.fr. There is another Galli, who also did philosophical studies – but his brother was more famous, the author of Tabula philologica.  Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì , alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? (4) FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora.(8) SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia?(9) SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea. 2  Platone Fedro  FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13) quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.(14) Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro che 3  Platone Fedro  amano: molte sono le cose che li affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16) FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi nella maniera migliore. 4  Platone Fedro  FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5  Platone Fedro  cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23) Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6  Platone Fedro  sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».(27) Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? 7  Platone Fedro  SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì , Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica.(31) Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8  Platone Fedro  la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è così , ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9  Platone Fedro  non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea. L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e 10  Platone Fedro  beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione e 11  Platone Fedro  l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12  Platone Fedro  si oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13  Platone Fedro  FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono. 14  Platone Fedro  SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì . 15  Platone Fedro  SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no? 16  Platone Fedro  SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17  Platone Fedro  SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande, commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18  Platone Fedro  scorso affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così , Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa. 19  Platone Fedro  FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? 20  Platone Fedro  SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e 21  Platone Fedro  solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22  Platone Fedro  ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! 23  Platone Fedro  NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca. 3) Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. 5) Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7) Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. 9) Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te stesso» era appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281. 17) Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19) Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. 21) Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e "róme" ('forza'). Il ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. 25) L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso. 24  Platone Fedro  29) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a "oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a "oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34) L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. 35) Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'), probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade libro 1, versi 403-404; libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede, bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota 36. 41) L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. 43) Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile. Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593 a.C.), una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485 a.C., fu il promotore della prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. 47) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. 25  Platone Fedro  48) Omero, Iliade libro 2, verso 361. 49) Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica. 53) Allusione ironica a Zenone di Elea (quinto secolo a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. 58) Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. 59) Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. 60) Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8 Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione, che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. 66) «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di Adone» erano recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338 a.C.) fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano 21 orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani. 70) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza. Platone Il Convito APOLLODORO Credo proprio di essere bene informato di quello che mi chiedete. Infatti, l'altro giorno, me ne stavo venendo in città, da casa mia, dal Falero, quando uno che conoscevo, vedendomi di spalle, mi chiamò da lontano e, con tono scherzoso, mi fa: «Apollodoro il falerese, m'aspetti un momento?» lo mi fermo e l'aspetto e quello: «Ti stavo cercando ansiosamente, Apollodoro, perché volevo sapere qualcosa di preciso sui discorsi che fecero Agatone, Socrate, Alcibiade e tutti gli altri, al banchetto, discorsi d'amore, a quanto pare; me ne ha accennato un tizio che ne aveva sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo, ma mi disse che ne eri al corrente anche tu. Lui, in realtà, non ne sapeva molto. Raccontami tutto tu, quindi, perché nessuno meglio di te, può ripetermeli, i discorsi del tuo amico. Ma, prima di tutto, c'eri o non c'eri a quella riunione?» «Si vede proprio che questo tizio ti ha male informato se credi che quella riunione di cui stai parlando è avvenuta poco tempo fa e che io, quindi, vi abbia potuto partecipare.» «Credevo di sì.» «E come hai fatto a pensarlo, Glaucone? Non sai che da parecchi anni, ormai, Agatone non s'è più visto qui e che, d'altra parte, non ne son passati ancora tre da quando io me la faccio con Socrate, che gli sto sempre dietro, per conoscere quello che dice e quello che fa? Prima d'allora gironzolavo qua e là e mi pensavo di far chissà che cosa, mentre ero l'essere più miserabile che c'era sulla faccia della terra, come te, adesso, che credi ci siano altre cose da fare meglio della filosofia.» «C'è poco da prendere in giro. Dimmi, piuttosto, quand'è che c'è stata questa riunione.» «Eravamo ancora ragazzi e fu quando Agatone s'ebbe il premio per la sua prima tragedia, precisamente il giorno dopo i sacrifici che lui e quelli del coro vollero fare per festeggiare la vittoria.» «Allora ne è passato del tempo! Ma a te chi te n'ha parlato. Proprio Socrate?» «Magari. Fu, invece, la stessa persona che ne parlò a Fenice, un certo Aristodemo, del distretto di Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. Era presente alla riunione perché era un patito di Socrate, più di tutti, a quel tempo. Ad ogni modo, di quanto mi riferì costui volli chiederne anche a Socrate che mi confermò quanto l'altro m'aveva raccontato.» «E, allora, perché non me lo racconti anche a me? Questa strada che porta in città è proprio fatta apposta per conversare.» Strada facendo, così, ci mettemmo a parlare di questo ed ecco perché, come vi ho detto in principio, sono al corrente della cosa. Se devo, quindi, raccontarla anche a voi, eccomi pronto, anche perché, quando si tratta di filosofia, sia che ne parli io o che ne senta parlare, provo sempre un immenso piacere, a prescindere dal vantaggio che penso di ricavarne. Quando, invece, sento certi discorsi, i vostri specialmente, discorsi di gente ricca, di persone d'affari, che barba, ma anche che pena, amici miei, che vi credete di far chissà cosa e poi non fate il resto di nulla. Può essere che voi, da parte vostra, mi crediate un povero diavolo e supponiate che, in effetti, io lo sia, ma di voi, io non lo suppongo soltanto, ne sono convinto. AMICO Sei sempre lo stesso tu, Apollodoro, sempre che dici male di tutti e di te stesso; io credo che per te, tranne Socrate, tutti gli altri siano soltanto dei disgraziati, tutti quanti, a cominciare da te. Perché poi ti chiamino «il Tranquillo», questo proprio non riesco a capirlo, con tutti i tuoi discorsi sempre così aspri verso gli altri e te stesso, tranne, appunto, che per Socrate. APOLLODORO Ah, sì? Io, dunque, bellezza, dato che penso così di voi e di me, sarei un pazzo e un esagitato? AMICO Ma ora lasciamo perdere questo, Apollodoro, piantiamola di litigare, e, come t'abbiamo pregato, raccontaci quali furono questi discorsi. APOLLODORO E va bene, presso a poco furono questi... ma, aspettate, sarà meglio che incominci dal principio, come me li ha riferiti Aristodemo. Egli mi riferì di aver incontrato Socrate tutto bello lisciato, con un paio di sandali ai piedi (cosa stranissima) e di avergli chiesto dove stesse andando tutto così bello. E Socrate: «A pranzo da Agatone; ieri, infatti, alla premiazione per la sua vittoria, riuscii a svignarmela perché tutta quella folla mi dava fastidio, ma gli promisi che, oggi, sarei andato da lui. Ecco perché mi son fatto bello: lui è un bello e, sai com'è. Ma perché non vieni anche tu, che fa, anche se non sei stato invitato?» Ed io, così mi riferì Aristodemo: «Va bene, come vuoi.» «E allora andiamo,» fece, «e cambieremo il proverbio dicendo che ‹a, pranzo, dal buon Agatone, van senza invito le brave persone›. Del resto, Omero, non solo l'ha modificato, questo proverbio, ma l'ha addirittura capovolto: infatti, mentre ci ha sempre descritto Agamennone come un guerriero in gamba e Menelao, invece, come uno smidollato, ecco che ti fa presentare quest'ultimo, senza essere invitato, a pranzo da Agamennone, che aveva allora allora fatto un sacrificio e si stava mettendo a tavola, lui, un mediocre, alla mensa di un valoroso.» E Aristodemo: «Ma Socrate, corro anch'io, allora, questo rischio, non come dici tu ma nel senso che scrive Omero, di andare, cioè, io, uomo da nulla, senza essere invitato, a pranzo da un sapiente. Vedi tu, che mi ci porti, come devi metterla per giustificarti, perché io non dirò che son venuto da me, ma che sei stato tu ad invitarmi.» «Ma sì, andiamo, ci penseremo per la strada a quello che dobbiamo dire.» Si dicevano questo, mi raccontava Aristodemo, quando si posero in cammino. Ma, lungo la strada, Socrate si fece pensieroso, meditando chissà su che cosa, e restandosene indietro e quando lui si fermava per aspettarlo, gli diceva di andare pure avanti. Quando Aristodemo giunse alla casa di Agatone, trovò la porta aperta e qui, mi disse, gli capitò un fatto curioso: un servo gli corse subito incontro e lo condusse dove i convitati erano già tutti seduti, in procinto di mettersi a pranzo. Appena Agatone lo vide: «Oh, Aristodemo,» fece, «arrivi proprio al momento giusto, per mangiare un boccone con noi; se è per qualche altro motivo che sei venuto, lascialo per dopo. Ieri ti ho cercato, proprio per invitarti, ma non sono riuscito a trovarti. E Socrate? Come mai non è con te?» «Io mi volto indietro,» continuò a raccontarmi, «e, infatti, non lo vedo più. Dissi, allora, che ero con lui e che, appunto da lui ero stato invitato a quel pranzo.» «Hai fatto benissimo, ma dov'è che s'è cacciato?» «Un attimo fa era dietro di me; sarei proprio curioso di sapere anch'io dove può essere andato.» «Suvvia, ragazzo, non ti sbrighi?» fece Agatone, «va a vedere dov'è Socrate e tu, Aristodemo, siediti là, vicino a Eressimaco. Continuò a raccontare così, che mentre un servo gli dava da lavarsi per mettersi a tavola, un altro venne a dire che quel bel tipo di Socrate se ne era andato nell'atrio della casa vicina e se ne stava lì tutto immobile: «L'ho chiamato,» riferì, «ma lui non vuol venire.» «Ma che sciocchezze stai dicendo?» gridò Agatone. «Torna a chiamarlo, insisti.» «Allora, intervenni io,» mi raccontò sempre Aristodemo, «pregandolo di lasciarlo tranquillo perché era una sua abitudine quella di isolarsi tutt'a un tratto, e di restarsene immobile dovunque si fosse trovato: ‹Vedrete che verrà, ne sono certo, ma ora non lo disturbate, lasciatelo tranquillo›.» «Ah, va bene, va bene, se lo dici tu,» commentò Agatone. «Però voi, ragazzi, ora portateci da mangiare. Voi mi mettete in tavola sempre quello che vi passa pel capo, se non vi si sta addosso, ed io non me ne son mai presa troppo la briga; ma oggi, fate conto come se foste stati voi ad invitare queste persone e me e quindi, trattateci bene e fatevi onore.» Così mi raccontò che si misero tutti a mangiare e che Socrate, intanto, non si faceva vivo. Spesso Agatone insisteva. perché lo mandassero a chiamare, ma lui lo sconsigliava. Finalmente Socrate fece la sua comparsa e non s'era mica fatto aspettare poi tanto tempo, come di solito faceva: cioè quando il pranzo era circa a metà. E Agatone che stava seduto in fondo: «Qua, qua,» esclamò, «Socrate vieniti a sedere vicino a me, così, gomito a gomito, con un sapiente, io potrò godere della grande scoperta che hai fatto davanti ai portoni; è chiaro che qualcosa l'hai dovuta pur sempre scoprire, altrimenti mica ti saresti mosso, tu.» E Socrate, sedendosi: «Sarebbe una bella cosa, Agatone, se la sapienza potesse scorrere da chi ne ha di più a chi ne ha di meno, soltanto che ci si mettesse uno vicino all'altro, come l'acqua che attraverso un filtro passa dal bicchiere pieno a quello vuoto. Se anche per la sapienza è così io sarò onoratissimo di starmene al tuo fianco; sono convinto che sarò colmato da parte tua di tanta e bella sapienza, perché, vedi, la mia, seppure ne ho, è ben misera, assai discutibile, vaga come un sogno, mentre la tua, invece, così luminosa, così ricca di possibilità, tanto che, proprio ieri, nonostante la tua giovane età, s'è rivelata e ha brillato in tutto il suo fulgore davanti a più di trentamila greci.» «Sei un mascalzone tu, Socrate,» fece Agatone, «ma fra poco ce la vedremo, io e te, in fatto di sapienza e giudice sarà Dioniso. Intanto, per ora, pensa a mangiare. E così, continuò a raccontarmi Aristodemo, Socrate si sedette e quando ebbe finito di mangiare, insieme agli altri, fece le libagioni, poi cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti dovuti e poi si misero a bere. A un tratto, mi riferì Aristodemo, Pausania se ne uscì in queste parole: «Ehi, amici, non possiamo andarci più piano? Francamente devo dirvi che mi sento male dopo la gran bevuta di ieri e che devo pigliare un po' di respiro; e così, penso anche per molti di voi: ieri c'eravate un po' tutti. Guardate, dunque, com'è che ci possiam moderare un po'.» E Aristofane: «Pausania ha ragione. Non scherziamoci troppo col vino; io mi sento ancora come una spugna zuppa, per ieri.» E allora intervenne Eressimaco, il figlio di Acumeno: «Ottima idea. Su, coraggio, voglio sentirne qualche altro; e a te, Agatone, come va col vino?» «Macché, anch'io niente bene.» «Benissimo,» s'infervorò Eressimaco; «è proprio una fortuna per me, per Aristodemo, per Fedro e per tutti quanti gli altri se voi, che in fatto di bere ce la mettete tutta, oggi non vi sentiate in forma: di fronte a voi, infatti, siamo dei pivellini. Per Socrate è un altro discorso: lui se la cava benissimo sempre; sia che oggi si beva o meno, lui è sempre a posto. Ma, dato che, mi pare, qui, oggi, nessuno ha troppa voglia di bere, io credo che se vi parlassi dell'ubriachezza e del male che fa, la cosa non vi sarebbe sgradita; come medico, è chiaro, devo dirvi che ubriacarsi fa male e che io non vorrei mai bere più di un tanto e darei lo stesso consiglio agli altri, specie quando il giorno prima s'è alzato un po' troppo il gomito.» «Sicuro,» intervenne Fedro, quello di Mirrinunte; «sai che ti ascolto sempre, specie quando parli da medico; e farebbero bene ad ascoltarti anche questi altri, se hanno un po' di giudizio.» E così si trovarono tutti d'accordo di evitare una sbornia, per quella volta e bere ciascuno per quel che gli andava. E poiché, ora,» riprese Eressimaco, «siamo d'accordo che ognuno potrà bere solo quello che vuole senza che nessuno stia lì ad obbligarlo, io propongo di mandare a spasso la suonatrice di flauto, che è entrata ora (che se ne vada a suonare per conto suo o, dentro, dalle donne) e noi, invece, di restare un po' qui, oggi, a chiacchierare insieme; potrei anche dirvi di cosa, se volete.» Tutti, allora, almeno così riferì Aristodemo, approvarono e lo esortarono a proporre l'argomento. E così, Eressimaco, incominciò: «Inizio come la Melanippe di Euripide, non sono mie le parole che sto per dirvi, infatti sono di Fedro. È Fedro che ogni volta, tutto sdegnato, mi dice: ‹Non è una indecenza, Eressimaco, che i poeti si mettano a comporre inni e canti a tutti gli dei e che per Amore, invece, per un dio di quella specie, per un dio così grande, non ce ne sia uno, tra tanti, che abbia scritto un solo verso di lode? Se pigliamo i sofisti di fama, quello stesso grand'uomo di Prodico, per esempio, ti scrivono in prosa di Ercole o di altri; e questo sarebbe niente se non mi fosse capitato tra le mani il libro di un gran cervellone nel quale, costui, non faceva niente po' po' di meno che l'elogio sperticato del sale e della sua utilità: di questi elogi ne puoi trovare dovunque, in abbondanza. E pensare che si spreca tanta fatica per simili argomenti e, poi, per Amore non s'è ancora trovato nessuno, almeno fino ad oggi, che s'è sentito di celebrarlo degnamente: ecco come si tratta un dio simile.› Secondo me Fedro ha proprio ragione. Quindi, è mio desiderio fargli questo regalo e mostrarmi compiacente e, nello stesso tempo, profittando dell'occasione, niente di meglio, a mio avviso, per tutti noi, di rendere onore a questo dio. Se siete d'accordo anche voi potremmo passare il tempo così: ognuno di noi, cioè, io penso, per esempio partendo da destra, dovrebbe fare un discorso in lode di Amore, si capisce meglio che può; e che cominci proprio Fedro che è il primo della fila e che, d'altro canto, è stato lui proprio a darci l'idea per un simile argomento.» «Nessuno sarà contrario, Eressimaco,» intervenne Socrate, «a cominciare da me che affermo di essere un esperto soltanto in cose d'amore, né Agatone, né Pausania, figuriamoci poi Aristofane che tra Bacco e Venere, ci passa la vita, e nemmeno questi altri a quanto vedo. C'è un fatto però, che noi che siamo seduti quaggiù, per ultimi, veniamo a trovarci in svantaggio; comunque, se i primi diranno quel che devono dire e lo diranno bene, a noi basterà. E, allora, buona fortuna, Fedro, comincia a fare le lodi di Amore.» Al che tutti quanti approvarono e fecero eco alle parole di Socrate. Ora, quello che ciascuno disse, Aristodemo non lo ricordava bene e, dal canto mio, io stesso, ora, non ricordo più, tutto quello che lui mi riferì, tranne le cose più importanti e, perciò, vi potrò ripetere solo quei discorsi che mi parvero più degni di ricordo. E, così, il primo a parlare, mi raccontò, fu Fedro che incominciò presso a poco col dire che Amore è un dio possente, meraviglioso, tanto fra gli uomini che fra gli dei per molte e tante ragioni ma, soprattutto, per quel che riguarda la sua nascita: «Egli ha il vanto,» continuò Fedro, «di essere, fra tutti, il dio più antico e, prova di questo è il fatto che non ha genitori e mai nessuno ne ha parlato, prosatore o poeta che fosse. Esiodo ci dice che ci fu dapprima il Caos: la Terra dall'ampio petto, sicura sede e poi per tutti sempre e, poi, Amore Insomma, secondo questo poeta, dopo il Caos ci furono queste due divinità: Terra e Amore. E Parmenide così narra la genesi: Primo di tutti gli dei creò Amore Con Esiodo concorda Acusilao. Quindi, da più fonti, si conviene che Amore è antichissimo. E, così com'è il più antico, è fonte, per noi, di grandissimi beni. Io, infatti, non so se vi sia un bene maggiore che avere, fin da giovani una persona virtuosa da amare o anche viceversa, che ci ami. E, in effetti, niente come Amore può dare all'uomo quei principi che valgono per vivere rettamente tutta la vita, non la nascita, non gli onori, non la ricchezza, niente di questo. Ma a quali principi voglio alludere?, mi chiedo: alla vergogna per le brutte azioni e al desiderio di buone, senza dei quali né stati né individui possono mai realizzare qualcosa di grande e di bello. E, inoltre, io dico che un uomo innamorato, sorpreso a commettere una brutta azione o a subirla, se la sua viltà non gli consente di difendersi, non proverà mai tanto dolore se lo vede il padre o l'amico o chiunque altro, quanto se lo vedesse la persona amata, E lo stesso è per quest'ultima, che se fa qualcosa di male si vergogna soprattutto se è vista da chi la ama. Oh, se ci potesse essere una città o un esercito composto tutto di innamorati, non vi sarebbe modo migliore di reggerlo e di vedere uomini rifuggire dal male e rivaleggiare tra loro nelle belle azioni; in guerra, poi, messi uno al fianco dell'altro, anche se in pochi, si può dire che vincerebbero il mondo intero. Perché l'uomo innamorato sarebbe disposto ad abbandonare il suo reparto, a gettare le armi sotto gli occhi di tutti, ma non dinanzi alla persona amata, piuttosto preferirebbe centomila volte morire; e, d'altronde, abbandonare la persona cara, non prestarle il suo aiuto se è in pericolo, non c'è nessun uomo tanto vile cui Amore non riesca ad infondere il necessario coraggio, come se fosse posseduto da un dio e renderlo uguale a chi è coraggioso di natura. Insomma, lo stesso soffio divino che, a quanto dice Omero, un dio infonde in taluni eroi, Amore, come un suo dono, suscita in quelli che amano.E poi, solo quelli che amano sono pronti a morire per gli altri e non solo gli uomini ma anche le donne. Vedi Alcesti, per esempio, la figlia di Pelia che per noi greci è la più bella prova di ciò che dico, la quale fu la sola a voler morire al posto del suo sposo che aveva pure un padre e una madre; costei fu tanto più sublime, nel suo cuore di donna, acceso, appunto dall'amore, da far apparire i parenti di lui quasi degli estranei al loro stesso figliolo, legati a lui soltanto dal nome. E questo gesto fu giudicato così bello non solo dagli uomini ma anche dagli dei, che questi, pur concedendo solo a pochi, tra i tanti che compiono belle imprese, il privilegio di vedersi restituita alla luce la loro anima, consentirono a questa fanciulla il ritorno alla terra, commossi del suo gesto; questo dimostra che gli dei apprezzano moltissimo lo zelo e la virtù che nascono dall'amore. Orfeo, invece, il figlio di Eagro, te lo rimandarono fuori dall'inferno senza che avesse ottenuto nulla, mostrandogli solo la falsa immagine della sua donna, per la quale egli era sceso nell'Ade e non gliela restituirono, considerandolo un debole (suonatore di cetra com'era) perché non aveva avuto il coraggio di morire per amore, come Alcesti, ma, vivo, era riuscito a penetrare nell'Ade e con l'astuzia. Ecco perché gli inflissero questa punizione e lo fecero morire per mano di donne. Non così Achille che onorarono invece e mandarono alle isole dei beati perché per quanto egli fosse già stato avvertito dalla madre che se avesse ucciso Ettore sarebbe morto mentre se l'avesse risparmiato sarebbe ritornato in patria e lì avrebbe finito vecchio i suoi giorni, preferì scendere in campo per Patroclo, per l'amico che amava e vendicarlo e morire per lui, non solo, ma per lui morto; per questo gli dei profondamente ammirati gli resero onori grandissimi, come quello che aveva tenuto così alto nel suo cuore l'amico amato. Eschilo dice un'inesattezza quando afferma che era Achille l'amante di Patroclo, lui che non solo era più bello di Patroclo ma di tutti gli altri eroi, imberbe ancora e quindi molto più giovane di lui come dice Omero. La verità, però, è che gli dei pur onorando assai questo sentimento d'amore, volgono più la loro ammirazione, le loro lodi a colui che ricambia l'amore di chi lo ama, piuttosto che a quest'ultimo. Colui che ama è cosa più divina di chi si lascia amare, perché un dio lo possiede; per questo gli dei onorarono maggiormente Achille che non Alcesti e gli dischiusero le isole dei beati. Per concludere io affermo che Amore è il più antico degli dei, il più degno di onori, quello che più può infondere agli uomini virtù e felicità, sia mentre vivono che dopo la loro morte.» Questo, presso a poco, a quanto mi riferì Aristodemo, fu il discorso di Fedro. Dopo di lui parlarono altri, però non ricordava molto. E così passò a riferirmi il discorso di Pausania che prese a dire: «Non mi pare che tu abbia ben impostato il tuo discorso, Fedro, così come hai troppo semplicisticamente fatto le lodi di Amore. Se, infatti, Amore fosse uno solo, la cosa sarebbe potuta anche passare; ma il fatto è che non è uno soltanto e quindi è più giusto precisare prima qual è che bisogna lodare. Ed è a questo errore che io cercherò di rimediare, in primo luogo dicendo quale Amore convenga lodare e poi facendone in modo degno l'elogio. Tutti riconoscono che non si può concepire Venere senza Amore. Se di Venere ce ne fosse una sola, lo stesso dovrebbe dirsi di Amore, ma poiché due sono le Veneri, due saranno anche gli Amori. Non sono forse due le dee? Una, la più antica, che non ebbe madre, la figlia del Cielo, che appunto chiamiamo Celeste, l'altra, più giovane, figlia di Giove e di Dione, che chiamiamo Pandemia. Ne consegue che l'Amore che convive con quest'ultima, giustamente vien chiamato Pandemio, l'altro, Celeste. Gli dei, in verità, bisogna onorarli tutti, ma ora, di questi due, occorre pur dire quali sono gli attributi. Intanto, ogni azione ha questo di caratteristico: che per se stessa non è mai bella o brutta. Per esempio: quello che noi ora stiamo facendo, cioè bere, cantare, discutere, in se stesso, non è che sia bello, ma lo diventa dal modo con cui questa azione viene compiuta: onestamente e rettamente, è bella, altrimenti, la stessa azione è cattiva. Lo stesso è quando si ama: non ogni Amore è bello o degno di lode, ma solo quello che spinge a nobilmente amare.«Orbene, l'Amore che convive con la Venere Pandemia, è ovvio che sarà anch'egli Pandemio, cioè volgare e si comporta un po' alla carlona; questo tipo d'Amore vien prediletto dai mediocri che non fan differenza a giacersi con donne o giovincelli di cui amano, oltretutto, più il corpo che l'animo, anzi preferiscono gli esseri sciocchi, tutti presi come sono dall'atto carnale, senza un briciolo di buon gusto, e accade così che finiscono per comportarsi come capita, bene o male che sia. Questo perché un simile Amore deriva dalla Venere più giovane che, nascendo, s'ebbe i caratteri della femmina e, insieme, quelli del maschio. L'altro Amore, invece, deriva dalla Venere Celeste che anzitutto non partecipa della natura femminile ma solo di quella maschile (e questo è l'amore per i giovinetti) e, in secondo luogo è più antica e immune da ogni forma di libidine. Così, quelli che sono infiammati da questo Amore, volgono le loro predilezioni al sesso maschile presi come sono da ciò che, per natura, è più vigoroso e dotato di più aperto intelletto. E in questa passione per i giovani è facile riconoscere quelli che sono nobilmente infiammati da questo Amore; costoro, infatti, non si legano ai giovani se non quando questi hanno già una loro maturità intellettuale e vedono spuntare la prima barba. Io penso, infatti, che chi per amarli attende che essi giungano a questa età, lo fa per poter convivere poi tutta la vita con loro in una dolce intimità e non per ingannarli, per approfittare della loro ingenuità e sbeffarli, piantandoli poi in asso per correre dietro a un altro. Anzi ci vorrebbe proprio una legge che vietasse di aver relazioni amorose con i minorenni, per evitare che si sciupi tempo e fatica per un esito incerto; con i ragazzi, infatti, non si sa mai come vada a finire, se faranno una buona riuscita o meno, sia per quel che riguarda le doti fisiche che per quelle morali. I galantuomini se la pongono da sé questa legge, ma per i dongiovanni da quattro soldi, sarebbe proprio necessario far qualcosa in proposito, così come abbiamo impedito, meglio che s'è potuto, che avessero rapporti intimi con donne di condizione libera. Sono questi che han fatto degenerare la cosa a tal punto che ora c'è gente che afferma che è brutto corrispondere chi ci ama; e lo dice proprio perché ha davanti agli occhi l'esempio di questi tipi, privi affatto di buon gusto e di un minimo di pudore, giacché nessuna cosa, se è fatta nei dovuti limiti e secondo onestà, può giustamente tirarsi dietro un qualche biasimo. Negli altri Stati, intanto, le leggi sull'amore non sonio di difficile interpretazione, regolate da principi assai semplici, così come concettosi e ingarbugliati sono da noi. Nell'Elide, per esempio o a Sparta o anche in Beozia, dove la gente non è abituata a far bei discorsi, viene, molto semplicemente, riconosciuto che è bello corrispondere chi ama e nessuno, giovane o vecchio che sia, si sognerebbe di dire che è cosa brutta; questo, a mio avviso, perché non vogliono pigliarsi troppo la briga di persuadere i giovani, inesperti come sono nell'arte del dire. Nella Ionia, invece, e in molte altre parti dove predominano popolazioni non greche, la cosa è ritenuta vergognosa; presso i popoli stranieri, del resto, proprio per i loro regimi tirannici, anche l'amore che uno può portare alla sapienza o alla ginnastica, è cosa disonesta. Infatti, io penso che ai governanti non convenga che sorgano tra i sudditi nobili e forti proponimenti o salde amicizie o identità di vedute, tutte cose, queste, che è proprio l'amore, di solito, a far nascere. E questo l'hanno imparato anche qui da noi i nostri tiranni, come l'amore di Aristogitone e l'intrepida amicizia di Armodio, abbiano distrutto il loro potere. Pertanto, là dove si ritiene che è cosa disonesta corrispondere chi ama, ciò è dipeso dalla mediocrità dei legislatori, dall'arroganza dei governanti e dalla viltà dei sudditi; laddove, invece, la cosa è ritenuta senz'altro bella, in linea assoluta, è stato per la pigrizia di chi ha fatto la legge. Quindi, da noi, vige una consuetudine più bella che altrove ma, come dicevo prima, non è facile, però, interpretarla. «Si pensi, infatti, che da noi si reputa più bello amare alla luce del sole che di nascosto, amare, poi, soprattutto, chi è virtuoso e nobile anche se è più brutto degli altri e che si dà un incoraggiamento straordinario a chi ama, non ritenendo affatto che la sua sia un'azione vergognosa, anzi è motivo di orgoglio riuscire nel proprio intento ed è quasi un disonore, invece, fallire nella conquista e che la legge accorda all'amante, per le sue imprese amorose, la libertà di fare cose addirittura straordinarie e di riceverne lode, cosa che se uno facesse con altre intenzioni e per altri fini, si tirerebbe addosso il biasimo di tutti. Se uno, infatti, volendo farsi dare del denaro da qualcuno o desiderando ottenere un pubblico impiego o qualche carica, si mettesse a fare quel che gli amanti fanno per i loro fanciulli, suppliche, scongiuri, per ottenere quello che bramano, i giuramenti che fanno, tutte le notti che passano fuori davanti all'uscio del loro amore, tutti i servizi a cui si piegano, quelli più infimi, cui nessuno schiavo s'adatterebbe, costui si vedrebbe ostacolato in questo suo modo di fare, non solo dagli amici ma anche dai suoi avversari che gli rimprovererebbero queste smancerie e questo servilismo, richiamandolo al dovere e vergognandosi per lui; se tutto questo uno, invece, lo fa per amore, acquista addirittura pregio e la nostra legge glielo consente, senza che su di lui ricada biasimo alcuno, come se, in effetti, compisse una cosa bellissima. Ma quello che è ancora più straordinario è che, a quanto dicono i più, solo a chi ama è concesso, quando giura e poi non mantiene il giuramento, di ottenere il perdono degli dei perché, a quanto si dice, in amore non c'è giuramento che valga. È per questo che sia gli dei che gli uomini hanno concesso, a chi ama, un'assoluta libertà, come ci provano le nostre leggi. Tutto questo autorizzerebbe a credere che in questa nostra patria, amare e corrispondere chi ama è ritenuta cosa bellissima. Eppure quando i genitori ti mettono alle calcagna dei loro figlioli un pedagogo, col preciso incarico di tenerli lontani dai loro corteggiatori, quando i compagni e i coetanei fanno quasi succedere uno scandalo se si accorgono di qualcosa del genere, mentre i più anziani lasciano che dicano e non intervengono a queste esagerate reazioni, a guardar bene tutto questo sembrerebbe proprio che qui da noi l'amore sia considerato cosa del tutto disonesta. Il fatto è, a mio avviso, che la cosa sta invece così: non c'è nulla di assoluto, come accennai prima, e niente è bello o brutto per se stesso, ma diventa l'uno o l'altro a seconda che sia fatto bene o male. Così, l'amore diventa cosa spregevole se, senza alcun buon gusto, uno si concede a un essere spregevole, è cosa bella, invece, quando lo si fa onestamente con persona onesta. Ed amante del tutto indegno, volgare, è colui che ama più il corpo che l'animo, perché costui, infatti, non è costante, preso com'è da cosa che non dura. Quando, infatti, sfiorisce la bellezza del corpo, di quel fiore che amava, egli ‹fugge lontano, scompare› e addio promesse e belle parole. Chi, invece, ama qualcuno per la bellezza del suo animo, gli resta fedele per tutta la vita, perché s'è congiunto a cosa che dura. Perciò le nostre leggi si prefiggono di ben individuare tutti costoro per accordare, agli uni, ogni favore e mettere al bando gli altri e per questo si esortano gli amanti a insistere nelle loro profferte e gli amati a schermirsi, cercando così, per questa specie di gara, di stabilire a quale delle due categorie appartengano gli uni e gli altri. Per questo motivo è ritenuta gran brutta cosa, prima di tutto, lasciarsi sedurre, così, in quattro e quattr'otto, senza dar tempo al tempo, che, in fondo, si sa, per tante cose è un gran maestro; in secondo luogo, lasciarsi incantare dal denaro o dalle prospettive di cariche politiche, sia che il giovane per qualche violenza subita si intimorisca e si metta in condizione di non reagire, sia che, prospettandogli la possibilità di far denaro o di avere successo in politica, egli non vi rinunci sdegnosamente: infatti, nessuna di queste cose è sicura e durevole, oltre al fatto, poi, che da esse non potrà mai nascere una lunga amicizia. Quindi, secondo la nostra legge, non c'è che una strada perché l'amato possa onestamente corrispondere e compiacere l'amante, ed è questa: come non è affatto vergognoso e umiliante, per chi ama, sottoporsi per il suo amore, a ogni sorta di schiavitù, così c'è una sola servitù volontaria, non indecorosa o infamante: quella che ha per oggetto la virtù. «Ed è norma ancora, da noi, che se uno si mette al servizio di un altro ritenendo che ciò possa contribuire a renderlo migliore nel campo del sapere o in qualche altra virtù, questa sottomissione volontaria non è vergognosa, né servile. Occorre, pertanto, che queste due norme, quella sull'amore dei giovinetti e quella sul desiderio di acquistar sapienza o qualsiasi altra virtù, si fondano insieme se si vuole che sia veramente una cosa bella che il giovane conceda le sue grazie a un amante. Infatti quando l'amante e la persona amata s'incontrano, ciascuno, ligio a una sua precisa condotta, cioè l'uno disposto a servire il giovane che gli ha concesso i suoi favori e a servirlo onestamente, l'altro, con la stessa onestà, a seguire la volontà di chi lo rende sapiente e migliore e quando il primo sia veramente capace di dare senno e virtù e l'altro veramente desideroso di educarsi e d'acquistar, in ogni modo, sapienza, quando questo avviene, quando queste due direttrici convergono a un unico fine, oh, allora, si è cosa bella che la persona amata conceda i suoi favori a chi l'ama, altrimenti niente da fare. In questo caso essere ingannati non è nemmeno mortificante; in tutti gli altri casi, ingannati che si sia o meno, c'è da arrossir di vergogna. Se un giovane, infatti, in un miraggio di ricchezza, si è lasciato sedurre per denaro e poi resta ingannato perché s'accorge che il suo seduttore è povero, questo giovane, compie un'azione molto spregevole, perché s'è rivelato quel che egli era: un uomo capace di darsi a chiunque per sete di denaro e questo non è bello. E per un ragionamento analogo, se lo stesso giovane, invece, si fosse concesso a persona virtuosa, riconoscendo che sarebbe divenuto migliore proprio in virtù di quella corrispondenza e poi fosse stato ingannato perché il suo amante s'è rivelato persona del tutto mediocre, priva di qualsiasi virtù, ebbene questa delusione è motivo di compatimento; infatti, egli ha dimostrato di esser pronto a dar tutto se stesso a chiunque, ma per la virtù e pur di diventar migliore, e questo, certo, è tra tutte, cosa bellissima. In conclusione, il concedersi per ottenere, in cambio, virtù, è bello. Questo è l'Amore della dea celeste, celeste egli stesso, degno in tutto di venerazione da parte dello stato come dei singoli individui, che spinge gli amanti e le persone amate, ciascuno per quel che gli compete, a preoccuparsi soltanto d'essere virtuosi. Quanto agli altri amori, provengono tutti dalla Venere Pandemia, volgare. Questo è quanto ho improvvisato, Fedro, così su due piedi, a proposito di Amore.» Dopo la pausa di Pausania (guarda un po' che giochetti di parole ti sto a fare, che m'insegnano i dotti), a quanto ebbe a riferirmi Aristodemo, toccava ad Aristofane, senonché, vuoi per la pienezza di stomaco, vuoi per qualche altra causa, costui aveva il singhiozzo e, quindi, era nell'impossibilità di parlare. Si rivolse, allora a Eressimaco, il medico, che gli era seduto accanto: «Cerca di liberarmi da questo singhiozzo, Eressimaco,» gli disse, «o, almeno, prendi tu la parola, finoa quando non si sarà calmato.» «Cercherò di venirti incontro in un modo e nell'altro; parlerò io al tuo posto e poi interverrai tu quando ti sarà passato; intanto cerca di trattenere il respiro per qualche minuto e vedrai che il singhiozzo se ne andrà, oppure bevi un sorso d'acqua, fai dei gargarismi e, se persiste, prendi qualcosa che ti solletichi il naso e cerca di starnutire e vedrai che, con un paio di starnuti, per quanto ostinato, ti passerà.» «Sì, ma tu sbrigati a parlare,» insistette Aristofane, «intanto io cercherò di fare come tu dici.» E così Eressimaco incominciò: «A mio avviso, mi par necessario che cerchi di concludere il discorso che Pausania ha iniziato così bene ma che poi non ha portato a termine. Che Amore sia duplice, ci sembra distinzione esatta; ma che esso non alberga solo negli uomini attratti dalle belle creature, ma in tutti gli altri esseri, a loro volta presi per altre forme, negli animali, per esempio, nelle piante e comunque in tutte le creature viventi, io credo di averlo dedotto dalla medicina, la nostra arte e, altresì, come Amore sia grande e meraviglioso iddio, presente ovunque in ogni cosa umana e divina. Comincerò, quindi, a trattar l'argomento da un punto di vista medico, anche in omaggio a questa arte. La natura dei corpi è tale che essi hanno in sé questo duplice Amore; infatti, per il corpo, malattia e salute sono, come tutti sanno, due condizioni diverse e contrarie e, come tali, perciò, non appetiscono e non desiderano mai le stesse cose. In poche parole, altro è il desiderio che prova la parte sana, altro quello che sente la parte malata. E come Pausania diceva poco fa che è bello concedersi a un amante virtuoso e vergognoso è, invece, darsi a un dissoluto, lo stesso è anche per i corpi per cui è cosa bella, anzi doverosa, favorire lo sviluppo delle parti sane di ciascun organismo (e, in fondo, proprio questo è il compito del medico) ed è male, invece, farlo per le parti malate per le quali occorre agire con intransigenza, se si è veramente capaci nell'arte medica. Infatti, la medicina, per dirla in breve, è la scienza che studia le tendenze affettive dell'organismo nel suo riempirsi e svuotarsi e chi sa distinguere in queste tendenze, le buone dalle cattive, costui è un gran medico; chi, poi, queste tendenze le sappia anche modificare o suscitarne una al posto dell'altra o stimolarne qualcuna laddove non ve ne siano e invece dovrebbero esservi o, addirittura, cancellare quelle che vi sono, costui, allora, sarà proprio un maestro eccellente. Bisogna, infatti, che le parti di un organismo che sono tra loro incompatibili si riconcilino e trovino una loro reciproca armonia. E gli elementi più incompatibili sono quelli contrari, freddo e caldo, amaro e dolce, secco e umido e così via; e poiché ad aver saputo conciliare ed armonizzare tutti questi contrari è stato nostro padre Asclepio, egli, come dicono questi poeti e come anch'io sono convinto, è il fondatore di questa nostra scienza. Tutta la medicina, dunque, come vi sto dicendo, è governata da questo dio, come del resto la ginnastica e l'agricoltura. Quanto alla musica, poi, basta un minimo di riflessione perché tutti comprendano che essa si comporta alla stessa stregua delle altre arti, come anche Eraclito, del resto, forse vuol dire, sebbene non si esprima in termini molto chiari: ‹L'unità in sé discorde,› dice, ‹con se stessa s'accorda, come l'armonia dell'arco e della lira.› Ora, è assurdo pensare che l'armonia sia mancanza di accordi o che nasca da elementi ancora discordanti tra loro. Egli, forse, voleva dire che essa nasce da elementi prima discordanti, l'acuto e il grave, per esempio, che si son poi accordati per virtù della musica; infatti, non è certo possibile che l'armonia risulti da suoni tuttora discordi tra loro quali l'acuto e il grave. In verità, l'armonia è consonanza e la consonanza è accordo; non è possibile, ora, che vi sia accordo da cose discordi finché restino tali, come impossibile è che vi sia armonia quando gli elementi discordanti non abbiano trovato il loro accordo; così come anche il ritmo, del resto, che risulta dal veloce e dal lento prima discordi tra loro ma poi armonizzati insieme. E l'accordo fra tutti gli elementi, come per quelli di prima era dato dalla medicina, così per questi è dato dalla musica che produce, quindi, tra loro, reciproca armonia e corrispondenza. La musica, quindi, per quanto riguarda il ritmo e l'armonia, è scienza d'amore. Non è difficile, poi, individuare nella stessa costituzione del ritmo e dell'armonia questa sua peculiarità, in quanto in essa non vi sono le due specie d'amore. Quando però si compongono ritmi e armonie per la gente (ed è questa, propriamente, ciò che si chiama composizione musicale) o si eseguono fedelmente melodie e partiture altrui (e questo è virtuosismo), allora sì che viene il difficile e occorre un bravo artista. E qui si torna al discorso di prima, cioè che bisogna compiacere alle persone per bene o a quelle che ancora non lo sono ma vogliono diventarlo e conservarsi il loro amore che è poi quello bello, quello celeste, l'amore di Afrodite Urania; quello di Polimnia, invece, è l'amore pandemio, volgare, cui bisogna concedersi con prudenza e che dobbiamo, a nostra volta, con prudenza concedere per goderne senza tuttavia farne abuso. Del resto, anche nella nostra scienza è molto importante sapersi ben destreggiare con i desideri per la buona cucina in modo da saperla gustare senza poi ammalarsi. E così nella musica, nella medicina e in tutto il resto, sia nelle cose umane come in quelle divine, occorre tener presenti, per quanto possibile, l'uno e l'altro amore, dovunque contenuti entrambi. «E anche le stagioni dell'anno, nella loro successione, son colme di questi due amori e quando gli elementi contrari di cui parlavo prima, il caldo e il freddo, il secco e l'umido, cadono sotto l'influenza dell'amore benigno che li armonizza e li compone sapientemente, allora le stagioni recano abbondanza e salute agli uomini, agli animali e alle piante e non portano alcun danno. Quando, invece, ha il sopravvento l'altro amore, con tutta la sua violenza, ecco, allora, rovine e distruzione ovunque, ecco la causa di pestilenze e di molti altri simili morbi per gli animali e le piante; e, infatti, il gelo, la grandine, la rubigine derivano dalla violenza e dal disordine con cui si manifestano queste tendenze d'amore. La scienza che, attraverso il moto degli astri e il succedersi delle stagioni indaga questi fenomeni, si chiama astronomia. Inoltre, tutti i sacrifici e i riti a cui presiede l'arte profetica, nel loro insieme (sono essi a mantenere un rapporto tra gli uomini e le divinità) non hanno altro scopo che di custodire e salvaguardare l'Amore; ogni scelleratezza, infatti, nasce perché non si dimostra buona disposizione nei riguardi dell'amor benigno, né, in quel che si fa, lo si tiene nella dovuta stima e lo si onora. Cose, invece, che si concedono tutte all'altro amore, sia per quel che riguarda i rapporti con i propri genitori, vivi o morti che siano, sia quelli con gli dei. A queste cose, appunto, l'arte profetica è destinata, per cui deve sorvegliare gli amori e apprestarne i rimedi; e la divinazione è all'origine dell'amicizia tra gli dei e gli uomini in quanto, delle tendenze umane, conosce quelle che si volgono alla giustizia e alla pietà. Dunque, tanto grande e vasta, anzi, universale è la forza d'Amore, ma quello che si volge al bene con saggezza e giustizia sia nei nostri rapporti umani che in quelli degli dei tra loro, ha forza ancora maggiore e ci dà la felicità e ci fa vivere nella concordia e nell'amicizia con tutti e con chi è migliore di noi, cioè con gli dei. Forse anch'io ho tralasciato molte cose, mio malgrado, in questo elogio d'Amore; se l'ho fatto, è compito tuo Aristofane rimediarvi; se, invece, vuoi onorare il dio in altro modo, fallo pure, dato che il singhiozzo t'è passato.» E così, mi riferì Aristodemo, cominciò a parlare Aristofane che disse: «Veramente è passato ma solo con lo starnuto, tanto che io mi meraviglio come il corpo umano, così ben fatto, abbia proprio bisogno di tanto rumore e solleticamenti, come lo starnuto. Sta di fatto, però, che il singhiozzo è cessato appena ho starnutito.» «Ma, mio caro Aristofane,» ribatté Eressimaco, «sta un po' attento a quel che fai; ti metti a far dello spirito proprio ora che devi parlare e così mi costringi a stare sul chi va là per ogni tua parola, nel caso ti saltasse in mente di dirle grosse, e sì che potresti parlar tranquillamente.» «Hai ragione, Eressimaco,» ammise Aristofane, ridendo, «fingi come se non avessi detto nulla. Ma non stare sul chi va là mentre parlo perché io ho proprio paura, non tanto perché, forse, con quello che sto per dire, farò ridere, il che potrebbe essere anche piacevole e coerente con la mia musa, ma perché mi farò invece deridere.» «Sì, sì, va bene, Aristofane, tu prima lanci il sasso e poi nascondi la mano; mettici attenzione, invece, e parla come se dovessi dar conto di quello che dici; da parte mia, intanto, vedrò di lasciarti tranquillo.»    Per dir la verità, Eressimaco,» cominciò Aristofane, «io avrei in mente di fare un discorso diverso da quello tuo e di Pausania. Io credo, infatti, che di tutta questa potenza dell'Amore, gli uomini non se ne siano accorti per niente, altrimenti gli avrebbero innalzato templi grandiosi, altari, gli farebbero sacrifici magnifici e, invece, nulla di tutto questo mentre sarebbe la prima cosa da fare. Nessuno come lui, tra tutti quanti gli dei, è amico degli uomini, viene in loro aiuto, cerca di curarne i mali, la cui guarigione, forse, sarebbe la più grande felicità del genere umano. Quindi, io cercherò di svelarvi la sua potenza e voi, a vostra volta, la rivelerete agli altri. Per prima cosa, dovete rendervi conto cosa sia la natura umana e quali siano state le sue vicende; per il passato, infatti, essa non era quella che è oggi. Nel principio, tre erano i sessi dell'uomo, non due, il maschio e la femmina, come ora: ce n'era un terzo che aveva in sé i caratteri degli altri due, ma che oggi è scomparso e del quale resta soltanto il nome: l'ermafrodito. Esso, infatti, era un essere a sé stante che, nell'aspetto esteriore e nel nome, aveva dell'uno e dell'altro, cioè, del maschio e della femmina; oggi, ripeto, non resta che il nome che, per di più, ha un significato infamante. Inoltre, la figura di questo essere umano era arrotondata, dorso e fianchi formavano come un cerchio; aveva quattro mani e quattro erano pure le gambe; aveva anche due facce, piantate su un collo anch'esso rotondo, completamente uguali e attaccate, in senso opposto, a un unico cranio; aveva quattro orecchie, doppi gli organi genitali e, da tutto questo, possiamo immaginarci il resto. Camminavano in posizione eretta, come noi, volendo potevano spostarsi in qualunque direzione e, quando correvano, facevano un po' come i nostri saltimbanchi che gettano in aria le gambe e capriolettano su se stessi: e poiché gli arti erano otto, appoggiandosi su di essi, procedevano, a ruota, velocemente. I sessi erano tre, perché quello maschile aveva avuto origine dal sole, quello femminile dalla terra e l'altro, con i caratteri d'ambedue, dalla luna, dato che quest'ultima partecipa del sole e della terra insieme: perciò avevano quell'aspetto e si spostavano rotolando, perché somigliavano a quei loro progenitori. Avevano una resistenza e una forza prodigiosa, nonché un'arroganza senza limiti, tanto che si misero in urto con gli dei e quel che dice Omero di Efialte e di Oto, che tentarono di scalare il cielo, va riferito a costoro.    «E così Giove e gli altri dei si consigliarono sul da farsi ma non seppero risolversi: non era il caso di ucciderli, infatti, come i Giganti, e di estinguerne la specie a colpi di fulmine (il che sarebbe stato come far sparire onori e sacrifici agli dei da parte degli uomini) e del resto non era possibile continuare a sopportare oltre la loro tracotanza. A furia di pensare, Giove, finalmente, ha un'idea: ‹Ho trovato il sistema,› esclamò, ‹perché gli uomini sopravvivano ma, nello stesso tempo, divengano più deboli e la smettano con la loro prepotenza. Ecco che li taglierò, ciascuno, in due,› continuò, ‹così diventeranno più deboli, e, dato che aumenteranno di numero potranno esserci anche più utili. Cammineranno su due gambe e, se non si metteranno tranquilli e faranno ancora i prepotenti, li taglierò ancora e cosi impareranno a camminare su una gamba sola, come nel gioco degli otri.› Detto fatto, si mise a tagliare gli uomini in due come si tagliano le sorbe quando si mettono a seccare, o come si divide un uovo col crine. E via via che tagliava, poi, raccomandava ad Apollo che a ciascuno gli rivoltasse il viso e la metà del collo dalla parte del taglio in modo che l'uomo, vedendosi sempre la sua spaccatura, diventasse più mansueto; Apollo, infine, provvedeva a chiudere le altre parti. Girava la faccia e, tirando la pelle, tutta verso quel punto che noi ora chiamiamo ventre, come chi fa per chiudere coi lacci una borsa, faceva una specie di groppo, che legava proprio in mezzo alla pancia, quello che noi chiamiamo ombelico. Spianava, poi, le molte rughe e modellava il petto usando un arnese un po' simile a quello che adoperano i sellai per spianare, sulla forma, le grinze del cuoio: ne lasciava, però, qualcuna, nei paraggi del ventre e intorno all'ombelico, in ricordo dell'antico castigo. Fu così che gli uomini furono divisi in due, ma ecco che ciascuna metà desiderava ricongiungersi all'altra; si abbracciavano, restavano fortemente avvinti e, nel desiderio di ricongiungersi nuovamente, si lasciavano morire di fame e di accidia, non volendo far più nulla, divise com'erano, l'una dall'altra. Quando, poi, una delle due metà, moriva, quella rimasta in vita, se ne cercava un'altra e le si avvinghiava, sia che le capitasse una metà di sesso femminile (che oggi noi chiamiamo propriamente donna) che una di sesso maschile; e così, morivano. Allora Giove, impietosito, ricorse a un nuovo espediente: spostò il loro sesso sul davanti; prima, infatti, l'avevano dalla parte esterna e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma alla terra, come le cicale. Dunque, trasferì questi organi sul davanti e, così facendo, rese possibile la procreazione attraverso l'unione del maschio nella femmina; lo scopo era quello di far generare e di perpetuare la specie grazie a un simile accoppiamento tra maschio e femmina; se, invece, l'unione fosse stata fra maschi, dopo un po' sarebbe venuta sazietà da questo connubio e così, una volta separatisi, sarebbero potuti ritornare al lavoro e alle altre cure della vita. Da tempi remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore che li riconduce alle origini e che di due esseri cerca di farne uno solo risanando, così, l'umana natura.    «Quindi, ciascuno di noi è come la metà di un unico contrassegno, dal momento che fu tagliato in due, come le sogliole, e va continuamente in cerca dell'altra metà. Ora, tutti quegli uomini che son derivati dalla divisione di quel doppio essere, cioè, dall'ermafrodito, come l'abbiamo appunto chiamato, sentono tutti l'attrazione per le donne e da lì provengono anche la maggior parte degli adulteri; così pure hanno la stessa origine le donne che vogliono il maschio e le adultere. Invece, le donne che son derivate dalla divisione di un essere di sesso femminile, sono frigide nei riguardi dell'uomo e sentono, piuttosto, attrazione per le altre donne e da qui sono nate le lesbiche. Quegli uomini, infine, che son nati dalla divisione di un essere maschile, van dietro ai maschi e, finché son ragazzi, per il fatto che son parti di maschio, amano gli uomini e godono di giacersi stretti abbracciati con loro. Questi sono i ragazzi, i giovinetti più in gamba, dotati di un'indole virile; c'è della gente che dice che costoro sono degli svergognati, ma sbaglia: non per impudenza, infatti, fanno questo ma perché sono arditi, valorosi e virili e, come tali, cercano il loro simile. E questa è la prova migliore: in età matura, soltanto costoro diventano dei veri uomini e partecipano alla vita politica. Da adulti, poi, sono loro ad amare i fanciulli e se non fosse perché la consuetudine un po' ve li costringe, se dipendesse dalla loro natura, certo non penserebbero affatto a sposarsi e ad avere dei figli, anzi sarebbero contentissimi di vivere così da scapoli. Insomma, da qui nascono quelli che amano gli uomini o si lasciano da essi amare, preferendo sempre chi ha la loro stessa natura. E quando uno incontra quella che fu la sua metà, non solo chi si sente attratto verso i fanciulli, ma anche ogni altro, sente allora nascere in sé quel sentimento di amicizia, di intimità, di amore per cui non sa più vivere separato dall'altro, nemmeno un istante, tanto per dire. E questi che passano insieme la loro vita non ti saprebbero nemmeno più dire quello che vogliono per loro; e io penso che nessuno crederà che sia soltanto l'attrazione fisica a tenerli così appassionatamente uniti; è certo che l'anima loro cerca qualcos'altro, che non sa definire ma che vagamente intuisce. Se, per esempio, mentre stanno dolcemente insieme, comparisse Efesto, con gli strumenti del suo potere e chiedesse loro: ‹Cosa vorreste, uomini, l'uno dall'altro?› e vedendoli incerti chiedesse ancora: ‹Non desiderate, forse, diventare una cosa sola in modo che non possiate mai separarvi, né di giorno né di notte? Se è questo che volete, io vi unirò, vi fonderò in una stessa natura così che da due voi diventiate uno e la vostra vita la viviate come un essere solo e quando morrete, anche laggiù, nell'Ade, possiate essere uno solo invece di due, uniti da un'unica morte. Vedete un po', allora, se è questo che desiderate, se è questo che vi basta ottenere.› Dunque. se udissero queste parole, siamo convinti che nessuno dei due rifiuterebbe, nessuno mostrerebbe di voler altro, anzi, ognuno penserebbe di aver finalmente udito le parole che da tanto tempo sognava di ascoltare, diventare cioè di due una sola cosa, unirsi, confondersi nella creatura amata. E la ragione di tutto questo è che tale era la nostra antica natura e che noi eravamo uniti; e lo struggimento per quella perduta unità, il desiderio di riottenerla, si chiama amore. Ripeto, noi, prima eravamo un essere solo ma poi, per i nostri falli, da dio siamo stati divisi, un po' come gli Arcadi lo    sono stati dagli Spartani. E c'è da temere che se non saremo obbedienti verso gli dei, verremo ancora tagliati e vagheremo un po' simili a quelle figure in bassorilievo, segate in due lungo la linea del naso, che si vedono sulle steli, ridotti come dadi a metà. Occorre, perciò, che ogni uomo consigli gli altri ad essere pii verso gli dei, sia per evitare questo male, sia per ottenere quel bene al quale Amore ci volge e ci guida. Nessuno sia ostile ad Amore (chi lo è, è inviso agli dei); perché se gli saremo amici, se ci riconcilieremo con questo dio, noi riusciremo a trovare e a congiungerci con la nostra anima gemella, cosa che oggi capita a pochi. E non insinui Eressimaco, canzonandomi per questo che sto dicendo, che io voglio alludere a Pausania e ad Agatone (molto probabilmente essi sono tra questi pochi e hanno entrambi natura virile). Ad ogni modo io dico, in generale, di tutti, uomini e donne, che la razza umana sarà felice nella misura in cui ciascuno realizzerà il suo amore e troverà la sua creatura amata, ritornando così all'antica condizione. Se questo è il bene più grande, ne consegue che, nelle presenti condizioni, la cosa migliore è quella che più gli si avvicina: incontrare l'amante che meglio ci sappia corrispondere. Se, dunque, vogliamo levar lodi al dio che ci può dar tutto questo, è ad Amore che dobbiamo inneggiare il quale, per ora, favorisce il nostro incontro con chi ci è affine e, un domani, ci darà le più grandi speranze che, se noi ci mostreremo riverenti verso gli dei, ci restituirà l'antica natura e, risanandoci, ci renderà felici e beati. Questo, o Eressimaco,» concluse, «il mio discorso su Amore, diverso dal tuo, a quanto vedi. Come ti ho pregato, non starmelo a canzonare, dato che dobbiamo ancora sentire quel che diranno gli altri, anzi gli ultimi due, perché non sono rimasti che Agatone e Socrate.»    «E va bene, t'accontento,» rispose Eressimaco, «anche perché il tuo discorso m'è proprio piaciuto; anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone son ferratissimi in fatto d'amore, avrei proprio paura, con tutto quel che s'è detto, che rimanessero a corto d'argomenti. Ma, nonostante questo, invece, mi sento sicuro.» E Socrate, intervenendo: «Eh, già, Eressimaco, perché tu hai già detto la tua e bene anche; ma se ti trovassi qui, al mio posto o meglio nella posizione in cui mi troverò quando Agatone avrà finito anche lui di fare il suo bel discorso, saprei immaginare la tua paura, e quanta anche, come ce l'ho io adesso.» «Non m'incanti, Socrate,» fece, di rimando, Agatone, «tu vuoi proprio confondermi facendomi credere che queste persone son tutte qui ad aspettare chissà cosa dal mio discorso.» «E io, allora, sono uno smemorato, Agatone,» replicò Socrate, «se credessi che ora tu hai paura di noi che siam qui in pochi. Ho visto il tuo coraggio, la tua sicurezza quando sei salito sul podio con gli altri attori e hai abbracciato con uno sguardo tutto il teatro pieno zeppo, poco prima di rappresentare la tua opera.» «Ma che c'entra, questo, Socrate?» ribatté Agatone. «Non mi crederai mica tanto infatuato per una rappresentazione teatrale, da non capire che per uno che abbia un po' di buon senso, poche persone intelligenti fan più paura di una folla di sciocchi?» «Non sarebbe bello da parte mia, Agatone,» insisté Socrate, «se ti pensassi capace di un pensiero volgare. So benissimo che se ti venissi a trovare fra persone che tu ritenessi sapienti, ne saresti preoccupato più che se fossi in mezzo a un mucchio di gente; il fatto è che noi non siamo tali e, del resto, c'eravamo anche noi, lì, non più che folla tra la folla. Se tu, invece, ti incontrassi veramente con dei sapienti, ti vergogneresti davanti a loro, se ti accorgessi di far qualche brutta figura, non credi?» «Certo, dici bene,» ammise. «E se tu la brutta figura la facessi davanti alla folla, non ti vergogneresti?» A questo punto intervenne Fedro e: «Mio caro Agatone,» disse, «se stai lì a rispondere a Socrate, te le saluto le cose che stavamo dicendo, ma tanto a lui non gliene importa niente, basta che abbia qualcuno con cui discutere, specie poi se è un bel ragazzo. Con questo non è che io non ascolti volentieri una discussione di Socrate, ma certo che ora mi sta più a cuore l'elogio di Amore e avere, da ciascuno di voi, il rispettivo discorso. Pagate al dio il vostro debito e poi discuterete come vi pare.» «Dici proprio bene, Fedro,» esclamò Agatone; «niente mi impedisce di parlare; con Socrate non mancheranno certo le occasioni per discutere.»    «Io desidero prima dirvi com'è che intendo impostare il mio discorso, dopo entrerò nel vivo della questione. A me pare che tutti quelli che hanno parlato finora non abbiano celebrato il dio ma soltanto posto l'accento su quanto gli uomini siano felici per quei beni di cui, appunto, quel dio è la causa; nessuno ha detto chi sia propriamente costui che ci offre tutti questi beni. Orbene, l'unico metodo giusto per far qualsiasi elogio, di qualunque cosa, è quello di illustrare prima chi sia, in effetti, quello di cui si parla e poi di quali beni sia la causa. Ecco perché noi dobbiamo prima lodare Amore per quel che egli è, poi per i doni che ci reca. Intanto io affermo che tra tutti i beatissimi dei (se m'è lecito dirlo e non è peccato) Amore è il più beato perché è il più bello e il più buono. Il più bello soprattutto perché è il più giovane degli dei, Fedro. Egli stesso ce ne dà la prova migliore fuggendo dinanzi alla vecchiaia che, tutti sanno, è veloce e ci casca addosso più presto di quel che dovrebbe. Naturalmente Amore la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Giovane com'è, invece, sta sempre con i giovani e ha ragione l'antico detto che il simile s'accompagna sempre al suo simile. Ed io, pur consentendo con Fedro in molte cose, non condivido il fatto che Amore sia più antico di Crono e di Giapeto. Ripeto, invece, che è il più giovane di tutti gli dei, eternamente giovane e tutti quei vecchi fatti tra gli dei che raccontano Esiodo e Parmenide, accaddero per opera di Necessità, non di Amore, ammesso pure che quei due abbiano detto il vero. Non ci sarebbero state, infatti, mutilazioni, catene e tutte quelle altre violenze se Amore fosse stato in mezzo a loro, ma solo amicizia e concordia come è ora, da quando egli regna sugli dei. Dunque egli è giovane e non solo, è gentile. Il fatto è che gli manca un poeta, un poeta come Omero che ne esalti la delicata bellezza. Di Ate, per esempio, Omero dice non solo che è una dea ma che, appunto, è delicata (almeno i suoi piedi sono tali), quando scrive: morbidi sono i suoi piedi che non accosta alla terra ma ella procede sfiorando le teste degli uomini. E mi pare che egli ci abbia dato una bella prova della sua delicatezza col dirci che non cammina sul duro ma sul morbido. Serviamoci, anche noi, per Amore, dello stesso indizio a conferma che è delicato; egli, infatti, non cammina per terra e nemmeno sulle teste degli uomini che, poi, tanto morbide non sono, ma tra le più tenere delle cose che esistono egli procede e dimora: egli, infatti, ha posto la sua sede nel cuore e nell'animo degli uomini e degli dei;  non però in tutte le anime indistintamente. Se, infatti, ne trova una rozza, fila via, se gentile invece, vi resta. Dato, quindi, che egli è sempre a contatto, e non solo con i piedi ma anche con tutto se stesso, con le più tenere tra le tenerissime cose, necessariamente deve essere delicatissimo. Il più giovane, dunque, e il più delicato; ma oltre a questo è duttile. Non potrebbe piegarsi in tutte le direzioni e entrare di soppiatto nelle anime e così uscirne se fosse rigido; la leggiadria, per consenso comune, è la prova evidente delle fattezze armoniche e flessuose che Amore possiede. Infatti, fra l'amore e la bruttezza c'è sempre reciproca guerra. La bellezza del suo incarnato ci dice che egli indugia tra i fiori, poiché Amore non resta dove non v'è cosa in fiore o che sia avvizzita, sia essa corpo o anima o altro, ma dove tutto è fiorito e olezzante, là si posa e dimora. «Sulla bellezza del dio può anche bastare, per quanto ce ne sarebbe ancora da dire. Ma ora parliamo delle sue virtù. La cosa che prima di tutto bisogna notare è che Amore non fa torti a nessuno, né a uomini né a dei e nemmeno ne riceve. Egli non subisce violenza (ammesso che subisca qualcosa), perché essa non lo tocca, né con prepotenza fa quel che fa, ma ognuno serve Amore spontaneamente in ogni cosa; e quando c'è accordo reciproco tra due volontà, ‹le Leggi che sono le regine degli Stati›, dicono che è giusto. Oltre che la giustizia, Amore possiede in sommo grado anche la temperanza. Tutti son d'accordo nell'affermare che la temperanza consiste nel dominio delle passioni e dei piaceri. Ma non c'è nessun piacere più intenso dell'Amore e quindi se tutti gli altri sono meno intensi, sono inferiori a lui che, perciò, trionfa e ha il dominio sulle passioni e sui piaceri e, come tale, è in sommo grado, temperante. Per quanto riguarda la forza, ad Amore ‹neanche Marte può stargli a fronte›. Non è, infatti, Marte che conquista Amore, ma Amore che seduce Marte, amore di Venere a quanto si dice; e chi possiede è più forte di chi si lascia possedere: quindi, vincendo chi è più forte degli altri, egli è il più forte di tutti. Della giustizia, quindi, della temperanza e della fortezza del dio, s'è già detto; resta ora da dire della sua sapienza: per quanto è possibile, bisogna cercare di non tralasciare nulla. Intanto, per prima cosa per rendere onore alla nostra arte, come Eressimaco ha fatto per la sua, dirò che questo dio è poeta cosi sapiente da far diventare tali anche gli altri; in effetti, ognuno diventa poeta se è toccato da Amore, anche se non ha mai avuto prima a che fare con le Muse. Da qui possiamo trarre la conferma che Amore, in generale, è buon poeta in ogni genere di produzione artistica. Infatti, ciò che uno non ha e non conosce, non può certo darlo, né insegnarlo a nessuno. E, infatti, chi è che vorrà contestare che la creazione di tutti gli esseri viventi non avvenga per la sapienza d'Amore che genera e fa crescere tutte le creature? E, inoltre, nell'attività artistica non sappiamo forse che chi ha per maestro questo dio diviene famoso e illustre, chi invece non è toccato da Amore resta oscuro? L'abilità nel tiro dell'arco, la sapienza nella medicina, l'arte profetica, Apollo le ha scoperte sotto l'impulso del desiderio e dell'amore, così che anch'egli può dirsi discepolo di questo dio, come le Muse per le loro arti, Efesto per l'arte di forgiare metalli, Minerva per quella del tessere e Giove, infine, per quella di governare sugli dei e sugli uomini. Fu cosi che tutte le questioni tra gli dei si appianarono, da quando Amore comparve in mezzo a loro, si capisce, Amore della bellezza, perché delle cose brutte non c'è amore; mentre, come ho detto, prima d'allora, molte e orribili cose, a quanto si dice, accadevano tra gli dei, perché regnava Necessità. Ma dopo che nacque questo dio, si amarono le cose belle e ne venne per gli dei e per gli uomini abbondanza di beni. Così, Fedro, mi sembra proprio che Amore, bellissimo e buonissimo com'è, rechi anche agli altri bellezza e bontà. Quasi quasi mi vien da dire in versi quello che fa, per esempio così: pace agli uomini reca, calma sul mare tregua ai venti e, nel dolore, il sonno. Egli ci libera dal timore di essere estranei a noi stessi, ci dà un senso di calda intimità, ci invita a partecipare a riunioni come questa, a feste, a danze, a sacrifici di cui diventa un po' l'auspice, assicura la benevolenza, allontana ogni rancore, largo in favori, incapace di malvagità, benigno, buono, esempio ai saggi, ammirato dagli dei, invidiato dagli infelici, posseduto dai fortunati, padre della Delizia, dell'Eleganza, del Fasto, della Grazia, del Desiderio, della Bramosia, sollecito verso i buoni, incurante dei malvagi, nelle fatiche, nelle paure, nelle passioni, nelle conversazioni, è guida, guerriero, compagno di lotta, salvezza provvidenziale, ornamento di tutti gli dei e di tutti gli uomini, duce meraviglioso e perfetto che ognuno deve seguire e celebrare con inni degni di lui, partecipando al suo canto col quale egli ammalia il cuore degli uomini e degli dei. Questo, Fedro, il mio discorso in omaggio al dio, svolto un po' celiando, un po' con ben dosata gravità, secondo le mie capacità.»    Quando Agatone ebbe finito di parlare, raccontò Aristodemo, ci fu uno scroscio di applausi da parte di tutti i presenti che riconobbero come il discorso del giovane fosse stato degno di lui e del dio. E, allora, Socrate volgendosi ad Eressimaco: «E così, figlio di Acumeno, ti sembra ancora fuori posto il mio timore di prima o non ho forse previsto giusto, poco fa, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato benissimo e che io mi sarei trovato in un bell'imbarazzo?» «Per il primo punto,» rispose Eressimaco, «ti do anche ragione, cioè quando dici di aver previsto che Agatone avrebbe parlato bene, ma che tu, poi, ti trovi nell'imbarazzo questo proprio non lo credo.» «Ma come faccio a non esserlo, mio caro, e come me chiunque altro dovesse parlare dopo un discorso così bello e così interessante? Certo in qualche parte non è stato stupendo come nel resto, ma verso la fine chi non sarebbe rimasto sbalordito di fronte a tanta bellezza di vocaboli e di espressioni? Quasi quasi, pensando che non sarei mai stato capace di dire qualcosa che solo si avvicinasse a tanta bellezza, stavo per fuggirmene dalla vergogna. Perché il suo discorso m'ha fatto venire in mente Gorgia, tanto da farmi sentire nella stessa situazione di cui parla Omero, temevo proprio, cioè, che alla fine Agatone con il suo discorso, gettasse sul mio la testa di Gorgia, di quel formidabile oratore, togliendomi l'uso della favella e facendomi diventare di pietra. E ho capito, allora, di essere stato proprio un ingenuo quando ho accettato di celebrare, insieme a voi, Amore, dicendo che ero un, esperto su questo argomento, mentre invece, e me ne accorgo adesso, non sapevo un bel niente, persino come si fa un elogio qualunque. Da quell'ingenuo che sono credevo che nel fare l'elogio di chicchessia o di qualcosa si dovesse dire la verità e che questa era la cosa fondamentale; poi pensavo che bisognasse scegliere, tra le cose vere, le più belle e disporle nel modo migliore; ed ero tutto contento del fatto mio, sicurissimo che avrei fatto un figurone dato che conoscevo esattamente il modo di imbastire un elogio. E, invece, a quanto pare, non è così che si fa un bell'elogio: bisogna al contrario fare le lodi più sperticate e più belle, corrispondano o meno al vero: si vede che eravamo d'accordo di lodare Amore, così, per burla, non di farne l'elogio seriamente. Ed è per questo, credo, che voi tirate in ballo ogni sorta di argomenti e li affibbiate ad Amore e affermate che egli è questo e quello ed è la causa di un sacco di cose in modo che appaia bellissimo e perfettissimo ma, è chiaro, a chi non lo conosce, non a quelli che ne sanno qualcosa. Sfido io che, così, il bel panegirico è presto fatto. Ma io non conoscevo un simile sistema di far gli elogi e proprio per questo fui d'accordo con voi di pronunciarne uno anche io, seguendo il mio turno: la lingua lo promise, non il cervello. E, allora, statevi bene, perché io un elogio con questo sistema non ve lo faccio, è più forte di me. La verità, invece, se volete, eccomi qua, pronto a dirvela, a modo mio, senza far gare con nessuno perché non ho proprio voglia di farmi ridere dietro. Vedi tu, quindi, Fedro se è proprio necessario un discorso di questo genere e sentire come veramente stanno le cose, a proposito dell'Amore, con quei termini e con quello stile poi che lì per lì mi passeranno per la mente.» Ma Fedro e gli altri, mi riferì Aristodemo, lo invitarono a parlare come volesse. «E va bene, Fedro, però lasciami prima fare una piccola domanda ad Agatone, perché voglio mettermi un po'd'accordo con lui e poi parlerò.» «Ma figurati,» commentò Fedro, «fa pure.» E allora Socrate cominciò presso a poco così: «Dunque, mio caro Agatone, m'è parso proprio buono l'inizio del tuo discorso quando hai detto che prima di tutto bisogna esporre quale sia la natura d'Amore e poi passare alle sue opere; un esordio che mi è proprio piaciuto. Ma ora, dato che hai così magnificamente parlato su tutto quel che riguarda la natura d'Amore, dimmi una cosa: Amore, è amore di qualche cosa o amore di nulla? Bada che non ti chiedo se amore per una madre o per un padre (sarebbe ridicolo chiedere se Amore sia amore verso la madre o il padre), ma come se ti chiedessi a proposito del padre: il padre è padre di qualcuno o no? tu, certo, mi risponderesti, se volessi darmi una risposta appropriata, che il padre deve essere necessariamente padre di un figlio o di una figlia, non ti pare? Ah, certamente,» ammise Agatone. «E la stessa cosa è per una madre?» Era d'accordo anche in questo. «E rispondimi ancora,» proseguì Socrate, «a una piccola cosa per capire meglio dove voglio arrivare: se ti chiedessi: e allora, un fratello, come tale, è fratello di qualcuno?» «Sicuro che lo è.» «Fratello di un fratello o di una sorella?» «D'accordo.» «Prova a dire la stessa cosa a proposito di Amore: Amore è amore di qualcosa o amore di nulla?» «Certo amore di qualcosa.» «Ebbene,» riprese Socrate, «questo tientelo per te bene a mente e dimmi, invece: Amore desidera o meno ciò di cui è amore?» «Certo,» rispose. «E quel che egli desidera e ama, l'ama e lo desidera perché lo possiede o proprio perché, invece, gli manca?» «Probabilmente perché non lo possiede,» rispose. «Sta attento,» insisté Socrate, «che non si tratta di probabilità, ma è necessariamente logico che si desidera quello che non si possiede; quando si ha una cosa, invece, non la si desidera affatto. Di qui non si scappa ed io ne sono assolutamente convinto, tu no, invece?» «Ah, anch'io lo sono,» fece. «Ben detto. Ed effettivamente uno che lo è già potrebbe desiderare di essere grande? E essere forte uno che è già tale?» «Dopo quel che s'è convenuto, è impossibile.» «Effettivamente, non può essere privo di queste qualità chi le ha già.» «È chiaro.» «Eppure,» osservò Socrate, «se uno che è forte, volesse esser forte o se è veloce, volesse essere veloce o, ancora, se è sano, volesse esser sano, dato che qualcuno potrebbe pensare, di fronte a un esempio simile o a casi del genere, che vi siano persone che pur possedendo tutte queste qualità, tuttavia le desiderano sempre (ti sto dicendo questo per non lasciarci trarre in inganno); ebbene, Agatone, se ci pensi, costoro che al momento posseggono queste qualità, è inevitabile che le abbiano, lo vogliano o meno, e se le posseggono già, come possono desiderarle? Ma se uno dicesse: ‹lo che son sano voglio essere sano o, pur essendo già ricco, voglio essere ricco e desidero questo che già posseggo,› gli potremmo rispondere: ‹Tu, caro mio, che hai già ricchezze, salute, forza, vuoi continuarle ad avere anche per l'avvenire, giacché, per il momento, tu voglia o non voglia, già le possiedi; pensa un po' se, quando dici che desideri le cose che hai, tu non voglia dire, invece, semplicemente, che desideri di possedere anche per l'avvenire quello che oggi già possiedi.› Credi che non sarebbe d'accordo?» E Aristodemo mi riferì che Agatone lo ammise. Socrate allora proseguì: «E desiderare che per l'avvenire ci siano preservate le cose che noi già possediamo oggi, non vuol forse dire amare quel che ancora non si possiede o di cui tuttora non si dispone?» «Certo,» ammise. «E quindi, se Tizio o Caio desiderano qualcosa, sarà sempre ciò di cui ancora non dispongono, che ancora non hanno o quelli che essi stessi non sono o di cui si sentono privi; non è tutto qui il loro desiderio e il loro amore?» «Senza dubbio,» fece. «Bene, ricapitoliamo, allora, quanto s'è convenuto. Amore, prima di tutto è amore di qualcosa e, in secondo luogo, di ciò di cui si è privi?» «Sì, sempre.» «E adesso ricordati quello che hai detto poco fa, che cioè l'Amore tende a qualcosa. Se credi cercherò io di ricordartelo: se non sbaglio, tu hai detto, su per giù, che le questioni tra gli dei s'aggiustarono grazie all'Amore del bello e che per le cose brutte non c'è amore; non è questo che hai detto?» «Sì, questo,» ammise Agatone. «E l'hai detto molto opportunamente, mio caro,» riprese Socrate; «e se le cose stanno così, Amore, che altro è se non amore del bello e non del brutto?» «D'accordo.» «Ma non abbiam detto che si ama ciò di cui si è privi, ciò che non si ha?» «Sì,» fece. «Dunque, l'Amore, non ha la bellezza, ne è privo.» «Per forza.» «E allora? Chi è privo di bellezza, chi non ne ha, tu lo chiami bello?» «Affatto.» «Se le cose stanno così, tu sei sempre del parere che Amore sia bello?» «Temo proprio, Socrate, di non capir più niente di quel che ho detto,» esclamò Agatone. «Eppure hai parlato bene, Agatone,» incalzò Socrate. «Ma dimmi un'altra cosetta: quello che è buono, secondo te, non è anche bello?» «Per me sì.» «Se, dunque, Amore non ha la bellezza e se quello che è bello è anche buono, egli sarà anche privo di bontà.» «Io non sono in grado di contraddirti, Socrate e quindi sia pure come tu dici.» «È la verità, Agatone carissimo, e tu non puoi contestarla; Socrate, invece, sì, lo puoi contraddire e la cosa non è per niente difficile.» «Ma sì, via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò, piuttosto, quello che sull'Amore, mi disse un giorno una donna di Mantinea, Diotima, molto dotta sull'argomento e su un'infinità di altre questioni. Figuratevi che una volta, con i sacrifici che fece fare agli ateniesi, prima della peste, riuscì a ritardare l'epidemia di dieci anni. Fu lei a erudirmi nelle questioni d'amore e quindi, partendo dalle conclusioni che Agatone ed io abbiamo tratto, cercherò di ripetervi, come posso, a parole mie, il discorso che ella mi fece. Ebbene, proprio come tu dicevi, Agatone, bisogna definire prima chi sia Amore, quale la sua natura e poi le sue opere. Ora io penso che la cosa più facile per me, sia quella di seguire lo stesso metodo che usò quella straniera quando discusse con me. Anch'io, infatti, le dicevo un po' le stesse cose che ora mi ha ripetuto Agatone, cioè che Amore è un grande dio, che è amore di cose belle ed ella cominciò a confutarmi con gli stessi argomenti, precisamente, che io ho usati ora con costui, cioè che Amore non è né bello (per usare le mie parole) né buono. Ed io: «Ma com'è che dici questo, Diotima? Allora Amore è brutto e malvagio?» «Ma che? Ora ti metti pure a bestemmiare?» fece lei. «Credi forse che ciò che non è bello debba necessariamente essere brutto?» «Sicuro, io sì.» «E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante? Ma non ti accorgi che c'è sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza? E quale? Avere un'opinione giusta, ecco, ma senza poterne dare una spiegazione; non sai,» fece «che questo non è sapere (e come può esserlo se non se ne sa dare una spiegazione?), ma non è nemmeno ignoranza (e come, infatti, potrebbe se coglie nel vero?). Insomma, la retta opinione è qualcosa di simile, una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza.» «È vero quello che dici,» ammisi io. E quindi non insistere a credere che ciò che non è bello debba essere, a tutti i costi, brutto e ciò che non è buono, debba esser malvagio. E così anche a proposito di Amore, visto che anche tu sei d'accordo che non è buono né bello, non pensare che debba essere malvagio e brutto,» concluse, «ma qualcosa tra questi due estremi.» «Eppure,» obbiettai io, son tutti d'accordo che è un dio potente. Tutti chi?» ribatté lei, «quelli che non sanno o anche quelli che sanno? Tutti quanti. Ma come fanno, Socrate, a dirlo un gran dio,» fece lei, ridendo, «se affermano che non è nemmeno un dio?» «E chi sono questi? Uno, intanto, sei tu, l'altra sono io. Ma come fai a dir questo?» «Semplice. E tu, infatti, rispondimi: non affermi che gli dei son tutti beati e belli? avresti il coraggio di dire che qualcuno non è bello o non è beato?» «Santo cielo, io no,» risposi. «E beati, secondo te, non sono quelli che hanno bontà e bellezza?» «Sicuro.» «Ma non hai convenuto che Amore desidera le cose buone e belle, proprio perché ne è privo?» «Già, certo.» «E, allora, come può essere un dio chi non ha né bellezza né bontà?» «Ah, no, assolutamente.» «Vedi, dunque,» concluse, «che anche tu affermi che Amore non è un dio. Ma, allora,» chiesi, «chi sarebbe Amore? Un essere mortale?» «Ma niente affatto Ma allora? Come nel caso precedente, qualcosa di mezzo, tra, il mortale e l'immortale. E cioè, Diotima? Un demone possente, Socrate, che come tutti i demoni, sta tra il divino e l'umano.» «E qual è il suo potere?» chiesi. «Quello di interpretare e di recare agli dei le preghiere e i sacrifici degli uomini e, agli uomini, i comandamenti e i premi degli dei per i sacrifici compiuti; nel suo ruolo di intermediario, egli colma l'enorme distanza tra gli uni e gli altri, così l'universo risulta in se stesso collegato. Da lui procede tutta l'arte della divinazione, tutta la scienza sacerdotale, per quel che riguarda i sacrifici e le iniziazioni e poi gli incantesimi, ogni sorta di profezie e la magia. Dio non scende a contatto con l'uomo ma è attraverso i demoni che egli parla e ha rapporto con gli uomini, sia quando sono svegli, sia durante il sonno; e chi è sapiente in queste cose è un ispirato chi invece s'intende d'altro, esercita, per esempio, una diversa arte o un mestiere qualsiasi, non è che un manovale. Molti sono i demoni e di ogni specie. Amore ne è uno.» «E suo padre e sua madre,» chiesi, chi sono? È, una cosa lunga,» fece, «ma te la racconterò ugualmente. Quando nacque Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto e, tra gli altri, c'era anche Poro, il figlio di Metide. Avevano già finito di pranzare, quando giunse Penia, per elemosinare, dato che sontuoso era stato, il banchetto e se ne rimase sull'uscio. In quel mentre Poro, gonfio di nettare (il vino infatti non era ancora conosciuto), se ne uscì nel giardino di Giove e, mezzo ubriaco com'era, s'addormentò. Allora, Penia, sempre afflitta dalle sue angustie, pensò se non le fosse possibile avere un figlio da Poro e così gli si stese al fianco e restò incinta di Amore. Per questo Amore è compagno e ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita ed è, nello stesso tempo, amante del bello perché bella è Afrodite. D'altro canto, per il fatto che Amore è figlio di Poro e di Penia, si trova in questa condizione. Anzitutto è sempre povero e tutt'altro che delicato e bello, come i più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo, vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt'uno con la miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita dedito a filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista. Inoltre né immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù della natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così che Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e ignoranza. Ecco come: nessun dio s'occupa di filosofia, né ambisce a diventar sapiente (ché già lo è), né, del resto, chi è sapiente, si dedica alla filosofia; d'altra parte, nemmeno gli ignoranti si dedicano alla filosofia, né ambiscono a diventar sapienti; e questo è il brutto dell'ignoranza, che chi non è né bello, né buono, né saggio, crede, invece, di esserlo abbondantemente; naturalmente chi non si accorge di esser privo di qualcosa, non desidera quello di cui non sente il bisogno.» «Ma, allora,» feci io, «chi sono, Diotima, quelli che si dedicano alla filosofia, se non sono né i sapienti, né gli ignoranti?» «Ma è    chiaro,» mi rispose, «anche un bambino lo capirebbe che son quelli che stanno in una posizione intermedia, tra, i primi e i secondi e, tra questi, c'è anche Amore. La sapienza, infatti, è tra le cose più belle e Amore ama le belle cose e, quindi, necessariamente, è anche filosofo e, come tale, sta fra il sapiente e l'ignorante. E la sua origine è un po' la causa di tutto questo: suo padre è sapiente e pieno di estro, ma sua madre, invece, non lo è affatto, è ignorante. Tale, Socrate, è la natura di questo demone. Come poi tu immaginavi che fosse, non c'è da meravigliarsi; per quel che ho potuto capire dalle tue parole, credevi che Amore fosse colui che si ama, non colui che ama. Ecco perché, io penso, ti sembrava così bello. Infatti, chi è amato è veramente bello, seducente, perfetto, degno di ogni felicità; colui che ama, invece, ha un altro aspetto, quale io ti ho descritto. Ed io: «E sia, straniera, tu parli bene, ma se tale è Amore, che utilità arreca agli uomini? È questo che ora cercherò di chiarirti, Socrate. Tale, dunque, è Amore e così è nato: Amore del bello, come tu dici. Se qualcuno, ora, domandasse: ‹In che senso, Socrate e Diotima, l'Amore è amore del bello› o più precisamente, ‹chi ama le cose belle, ama, ma ama che cosa? Che diventino sue, risposi. Ma questa tua risposta, mi precisò, esige che si ponga un'altra domanda, di questo genere, per esempio: Che cosa gliene viene a chi possiede le cose belle? Io risposi che, a una domanda simile, non sapevo sul momento che dire. «E immaginiamo, allora, incalzò, che uno al posto del bello mettesse il bene e che chiedesse: ‹Via, Socrate, chi ama il bene, ama, ma ama che cosa? Che diventi suo,» risposi. E che cosa gliene viene a chi possiede il bene?» «A questo,» dissi, «mi è più facile rispondere: sarà felice. E, infatti, concluse, è proprio per il possesso del bene che le persone felici sono tali e non è proprio il caso di star lì a chiedersi perché uno vuole essere felice. Mi pare che la domanda abbia già avuto la sua risposta definitiva. È vero quello che dici, ammisi. E allora, questo desiderio e questo amore, credi siano un po' comuni a tutti gli uomini e che tutti desiderano sempre possedere il bene o pensi diversamente?» «Sì, io credo proprio che siano comuni a tutti, feci. E, allora, Socrate,» continuò, «come mai non diciamo che tutti quanti gli uomini amano dato che tutti desiderano sempre le stesse cose, ma diciamo, invece, che solo alcuni amano ed altri no?» «Anch'io me ne meraviglio, ammisi. «E non devi stupirtene,» riprese, «siamo noi, infatti, che prendiamo, dell'amore, soltanto un aspetto e a questo solo diamo il nome generico di ‹amore›, mentre per il resto usiamo altri appellativi. Cioè, chiesi. «Ecco, tu sai che la poesia è creazione ed ha un significato quanto mai vasto; tutto ciò, infatti per cui qualcosa passa dal non essere all'essere, è poesia e, quindi, ogni attività creativa è poesia e tutti i creatori sono poeti. È vero. Ma intanto,» continuò lei, «sai che non tutti sono chiamati poeti, ma con altri nomi; di tutte le attività creative, solo alcune e precisamente quelle che si occupano della musica e della metrica, noi chiamiamo poesia; solo questa è poesia e poeti, solo quelli che si dedicano a questo particolare aspetto della poesia. È vero,» ammisi. E così è anche per l'amore. In genere ogni desiderio di bene e di felicità è, per ognuno, ‹possente e ingannevole amore›, ma mentre quelli che cercano di realizzarlo per altre vie, come per esempio attraverso i guadagni o l'educazione fisica o la filosofia, noi non diciamo che amano né che sono amanti, gli altri, invece, quelli che seguono e preferiscono un particolare tipo d'amore, ne prendono anche il nome generico: amore, amare, amanti.» «Sembra proprio che tu abbia ragione,» confermai. Eppure va in giro un certo discorso secondo il quale gli amanti sono quelli che cercano la loro metà. La mia opinione, invece, è che non esiste amore né per la metà, né per l'intero, a meno che, mio caro, non si tratti di un bene; perché gli uomini si lascerebbero tagliare volentieri e mani e piedi se li credessero dannosi per loro, perché io credo che nessuno ami le cose proprie a meno che ciò che ci appartiene non sia il bene e ciò che ci è estraneo, invece, il male; infatti, gli uomini non amano altro che il bene. Non pare anche a te? Per Giove, a me sì, ammisi. E, dunque, possiamo senz'altro affermare che gli uomini amano il bene? Sì, confermai. Ebbene, non bisogna aggiungere che essi, questo bene, desiderano anche possederlo?» «Sicuro.» «E non solo possederlo per un momento, ma per sempre?» «Sicuro, anche questo bisogna aggiungere,» feci. «Per concludere, l'amore è possesso perenne del bene. È verissimo quello che dici, feci. Ora, se questo è l'amore,» proseguì, «quando è che la sollecitudine e lo sforzo di quelli che, in ogni modo e in ogni azione, lo perseguono, può chiamarsi, appunto, amore? Quand'è, insomma, che questo succede? Sai rispondere? Se lo sapessi, Diotima, non sarei così pieno di meraviglia per la tua sapienza, né sarei venuto da te per imparar tutto questo. E, allora, te lo dirò io: quando si concepisce nel bello, sia da parte del corpo che da parte dello spirito.» «Bisognerebbe essere indovini,» azzardai io, «per capire quello che dici ed io, proprio non lo sono.» «Mi spiegherò più chiaramente,» fece. «Tutti gli uomini, Socrate, hanno in loro, nel corpo come nell'anima, un seme fecondo e quando giungono a una certa età, come per un bisogno naturale, desiderano produrre qualcosa; concepire nel brutto, però, non è possibile, nel bello, invece, sì. Così l'unione dell'uomo con la donna è procreazione ed è veramente quest'atto una cosa divina, questo concepire e generare è veramente ciò che di immortale ha la creatura che pure ha vita mortale. Ma tutto ciò non può avvenire nella disarmonia; e disarmonia, rispetto a tutto ciò che è divino, è il brutto, come il bello è armonia. Quindi la bellezza fa da Parca e da Ilitia al miracolo della vita. Per questo, quando chi ha dentro di sé un seme fecondo, si avvicina al bello, diventa sereno, atteggia a letizia l'animo suo e allora crea, produce; quando, invece, s'accosta al brutto, allora, s'incupisce, si chiude in se stesso tutto afflitto, si ritrae, si ravvolge e non genera ma resta col suo seme fecondo e ne soffre. Di qui, nella creatura feconda e già ricca, sorge un intenso desiderio per tutto ciò che è bello perché il bello soltanto libera chi lo possiede da atroci doglie. Infatti, Socrate, conclude, Amore non è amore del bello, come tu credi. Ma, allora, cos'è? produrre e creare nel bello. E sia, ammisi. Sicuro, conferma lei. E perché questo generare? Perché generare è quanto di sempre rinascente e immortale vi possa essere in una creatura mortale. E l'immortalità è naturale che si desideri come il bene, almeno da quel che abbiamo convenuto se è vero che amore è possesso perenne del bene; ne consegue, inoltre, da tutto questo discorso che l'amore è amore di immortalità. Queste cose ella mi insegnava, quando indugiava a parlarmi di questioni d'amore e, un giorno, mi chiese: «Quale pensi, Socrate, sia la causa di tutto questo amore, questo desiderio? Non vedi in che terribile stato son tutti gl’animali, sia quelli che camminano sulla terra che quelli che volano nel cielo, quando son presi dal desiderio di generare, malati tutti d'amore, prima per il desiderio d'accoppiarsi tra loro, poi per la cura e per l'allevamento dei loro nati, e son pronti a combattere per essi, perfino i più deboli contro i più forti e a dare la vita oppure a lasciarsi morire di fame per nutrirli e a far qualunque altra cosa. Gli uomini, si può dire, che facciano tutto questo perché dotati di ragione ma, negli animali, donde proviene questa disposizione all'amore? Sai dirmelo?» E io ancora ad ammettere di non saperlo. «E credi,» continuò ella, «allora di diventare un esperto nelle questioni d'amore se non sai nemmeno questo?» «Ma proprio per questo, Diotima, come t'ho già detto, io son qui, perché so che ho bisogno di maestri. Dimmela tu, dunque, la causa di queste cose e di tutto ciò che riguarda l'amore.» «Orbene, se tu sei convinto che l'amore, per natura, tende a ciò su cui più volte s'è discusso, non devi meravigliarti; anche ora vale il discorso di prima che cioè la natura mortale tende, sempre, per quanto le sia concesso, di essere immortale. E le è possibile in un modo soltanto, attraverso la procreazione, per cui essa lascia sempre un essere nuovo al posto del vecchio, il che succede anche nella vita di ogni creatura, quando si dice che resta sempre la stessa; si dice, per esempio, che uno è sempre la stessa persona, da quando è bambino fino a che è vecchio; in effetti, si dirà che è sempre lo stesso individuo, benché in lui molte cose si mutino; ma si rinnova continuamente, perdendo sempre qualcosa, nei capelli, nelle sue ossa, nel suo sangue, insomma in tutto il suo corpo. E non solo nel corpo, ma anche nell'animo: sentimenti, abitudini, modo di pensare, desideri, piaceri, dolori, timori, ognuna di queste cose non resta sempre la stessa in un individuo, ma si rinnova e poi muore. Ma quel che è ancora più straordinario è che anche le nostre cognizioni non solo nascono e periscono e quindi noi non siamo sempre gli stessi nemmeno per quel che riguarda il nostro sapere, ma ciascuna, presa in se stessa, segue, anch'essa sempre la stessa sorte. Infatti quel che si dice esercitarsi nello studio presuppone che qualche cognizione possa sfuggire; dimenticare, infatti, vuol dir perdita di cognizioni, l'esercizio nello studio, invece, suscita un nuovo ricordo al posto di quel che s'è perduto e salva il sapere in modo che esso appaia sempre eguale. Del resto è in questo modo che si perpetua tutto ciò che è mortale, non col rimanere sempre e immutabilmente se stesso, come ciò che è divino, ma lasciando - ciò che invecchia e vien meno - qualcosa di nuovo al suo posto in tutto simile ad esso. Ecco, Socrate, conclude, in che modo tutto ciò che è mortale, sia esso corpo od altro, ha la possibilità di partecipare dell'immortalità; diversamente non c'è altro mezzo. Non stupirti, quindi, se ogni creatura, per legge naturale, cura e protegge il suo seme, perché in tutti, questo zelo e questo amore nascono dal desiderio dell'immortalità.»    Ed io sentendola parlare così, tutto stupito, le chiesi: Ma sapientissima Diotima, sono proprio vere queste cose?» Ed ella con un fare tipicamente cattedratico: Persuaditi pure, Socrate, che è proprio così; basta che tu faccia caso al desiderio di onori che hanno gli uomini; se tu non riflettessi a quel che ho detto, ti meraviglieresti della loro follia, considerando quanto grande è il loro desiderio di diventar famosi e acquistar gloria immortale per l'eternità e come per questo siano disposti a correre tutti i rischi, più che per i loro figli e sperperare ricchezze, sopportare fatiche, sacrificare perfino la loro vita. Credi proprio che Alcesti sarebbe morta per Admeto o Achille per Patroclo o il vostro Codro per conservare il regno ai figli, se essi non avessero creduto che sarebbe rimasta immortale la loro memoria, quale oggi noi la serbiamo? Assolutamente,» disse. «Invece, credo che ognuno faccia di tutto per ottenere merito imperituro le fama gloriosa (e questo quanto più si è migliori) affascinato com'è dall'immortalità. E così quelli che han fecondo il corpo si volgono essenzialmente alle donne e il loro modo d'amore si risolve nel generare figli e così procurarsi secondo loro, immortalità, memoria e felicità per tutto il tempo a venire. Quelli, invece, che han feconda l'anima (e ve ne sono fecondi spiritualmente più di quanto non lo siano nel corpo), di una fecondità, beninteso che si addice all'anima, ma quale? la saggezza e ogni altra specie di virtù,» diceva, «di cui tutti i poeti sono gli artefici, insieme a quegli artigiani che hanno il nome di inventori; la più alta e più bella forma di saggezza è quella relativa all'ordinamento dello Stato e di ogni organismo sociale, quella che prende il nome di prudenza e di giustizia. Dunque, quando uno di quelli, quasi esseri divini, fin da giovane, ha l'animo fecondo di tali cose e quando, giunto all'età giusta, desidera creare e produrre, io credo che anche lui vada alla ricerca del bello in cui generare; perché nel brutto non lo farà mai. Quindi, fecondo com'è, sentirà maggiore attrazione per le belle sembianze che per le brutte, figuriamoci poi se, in più, incontra un'anima bella e gentile; quando si rallegra di questo felice connubio, accanto a una simile creatura egli sentirà tutto un fervore di ammaestramenti sulla virtù e sul come un uomo per bene debba comportarsi, iniziando, così, la sua opera di educatore. Infatti, penso che a contatto con una bella creatura, convivendole accanto, egli esprima e dia alla luce ciò che da tempo custodiva dentro e, o che le stia vicino o che le stia lontano, sempre la porta alla memoria e nutre, insieme con lei, ciò che è nato dalla loro unione; e tra loro nasce un'intimità, un legame molto più profondo di quello che lega i genitori ai figli, un affetto più intenso dato che hanno in comune figlioli più belli e immortali. Ognuno preferirebbe figli simili piuttosto che creature umane e guardando a Omero o a Esiodo o agli altri grandi poeti non può non provare invidia pensando quale progenie, immortale essa stessa, essi hanno lasciato, che ha loro assicurato memoria e gloria eterna o, se tu vuoi, diceva, figli come quelli che Licurgo lascia a Sparta, a salvezza di Sparta o meglio ancora di tutta la Grecia; così presso di voi è onorato Solone per avervi dato le leggi e così altrove, altri grandi uomini, sia in    Grecia che nei paesi stranieri, che hanno compiuto molte e belle opere, realizzando ogni sorta di virtù. Per questi loro fieli sono già stati tributati ad essi molti onori, il che mai nessuno s'ebbe per quelli di carne e di ossa. Ebbene, Socrate, io penso,» continuò, «che anche tu potresti essere iniziato alle cose d'Amore, ma fin qui; a un grado più alto, a quello contemplativo, cui si giunge appunto passando attraverso questi stadi, sempre che si proceda sulla via giusta, non credo tu sia adatto. Tuttavia te ne parlerò egualmente e farò del mio meglio,» disse; «tu cerca, intanto, di seguirmi come puoi. Dunque,» incominciò a dire, «è necessario, prima di tutto che chi vuol tendere a questo fine, debba, fin da giovane, avvicinarsi alla bellezza fisica e, sin dall'inizio, se chi lo guida lo dirige bene, amare una sola persona e ad essa rivolgere i migliori discorsi; successivamente dovrà pur rendersi conto che la bellezza che alberga nel corpo di una persona, è sorella di quella che può esservi in ogni altra e che quindi se bisogna ricercare quella bellezza che è insita nelle forme visibili, sarebbe sciocco pensare che essa non sia identica e uguale per tutti i corpi; convinto di questo deve, allora, sentire trasporto per tutti quelli che hanno belle sembianze e frenare un po' la sua passione nei riguardi di una sola persona, riconoscendo come ciò sia meschino e mediocre. Ma, infine, deve ben comprendere che la bellezza spirituale ha pregi assai maggiori di quella fisica, di modo che se dovesse incontrare una creatura dall'anima bella ma dal corpo non florido, se ne contenti egualmente ed ugualmente se ne innamori e le mostri sollecitudine e sia l'autore di discorsi tali che rendano migliori i giovani, per cogliere poi, da qui, la bellezza che è nelle azioni e nelle istituzioni umane e comprendere come essa sia, ovunque, sempre se stessa e persuadersi come la bellezza fisica sia ben piccola cosa. Dopo le attività umane, si rivolga alla scienza per conoscerne la bellezza e ammirarne l'ampio dominio sul quale ormai ella si spande: così non sarà più come uno schiavo, preso d'amore per un sol giovinetto o per un solo uomo o per una sola attività, non sarà più succube inetto e meschino ma, rivolto allo sterminato oceano della bellezza e contemplandolo, potrà dar vita a molti e bei discorsi, a splendidi pensieri concepiti nell'amore infinito per la sapienza finché egli stesso, rinvigorito e arricchito, non riuscirà a scorgere che una scienza unica che ha per oggetto la stessa bellezza. Ma cerca, ora,» continuò, «più che puoi, di farmi attenzione. Chi è stato, via via, guidato fin qui nelle questioni d'amore attraverso la contemplazione delle cose belle, quando sarà giunto al termine di questa iniziazione, scorgerà, Socrate, a un tratto, una meravigliosa bellezza, quella stessa che era un po' la ragione di ogni sua precedente fatica, una bellezza, anzitutto, eterna, che non ha origine né fine, che non cresce né si consuma e, inoltre, che non è per un verso bella e per un altro brutta o che a volte sì e a volte no, né bella da un punto di vista e brutta da un altro, né bella qui e brutta là, come se lo fosse per alcuni e per altri no, né, questa bellezza, gli apparirà con un volto o con due mani, né come qualcosa che possa riferirsi ad alcunché di corporeo e nemmeno come discorso o come dottrina, né come quella che possa esistere in qualche altra cosa, in altri esseri viventi, per esempio, o nella terra o nell'aria o altrove, ma quale essa è, in sé e per sé, sempre uniforme e mentre tutte le altre cose belle che di quella partecipano, nascono e periscono, essa non ha alterazione di sorta, in più o in meno, non subisce mutamento. E così, quando sollevandosi dalle cose terrene, in virtù anche dell'amore che si porta ai giovinetti, uno comincia a scorgere questa bellezza, allora potrà dire di essere vicino alla meta. Infatti questo è il retto cammino per procedere da soli o insieme a una guida verso le questioni d'amore, cominciare, cioè, dalle cose belle di quaggiù e, avendo come fine ultimo questa bellezza, innalzarsi continuamente, come su una scala, da uno a due, da due fino a tutti i bei corpi e da questi alle belle occupazioni e poi alle belle scienze, finché non si giunga a quella scienza che di null'altro è scienza che della stessa bellezza e finché non si conosca, giungendo, così, alla meta, il Bello in sé. Questo, caro Socrate,» diceva la straniera di Mantinea, è il momento della vita che più di ogni altro, per un uomo, val la pena di vivere: quando giunge alla contemplazione della Bellezza in sé. Se una volta sola tu riuscirai a vederla, oh, ti sembrerà assai più preziosa dell'oro o di una veste o degli stessi bei fanciulli e giovinetti che ora guardi non senza un palpito e per i quali, tu e molti altri, se fosse possibile, rimarreste anche senza mangiare e senza bere, pur di poterveli sempre contemplare e stare in loro compagnia. Cosa succederebbe allora, continua a dire, se uno riuscisse a vedere la bellezza in sé, in tutta la sua adamantina purezza e non già quella offuscata dalla carne, dai colori, da tutte le altre vanità terrene, se gli riuscisse, insomma, di scoprire la Bellezza in sé, divina e uniforme? Credi forse che sarebbe miserabile la vita di quest'uomo che fissasse quel punto, lassù e lo contemplasse come va contemplato, congiunto con esso? Ed è soltanto in quel punto,» continuava, «contemplando la bellezza con quella facoltà che la rende visibile, che egli potrà dar vita non a parvenze di virtù, dato che non è a una falsa immagine di bellezza che egli si è accostato, ma a una virtù vera, per il fatto che egli è nella verità; non pensi, del resto, che avendo dato vita alla virtù vera e avendola continuamente alimentata, costui potrà diventare caro agli dei ed essere anch'egli immortale, se mai altro uomo lo è stato? Queste cose, Fedro e anche tutti voi, Diotima mi ha detto ed io ne sono rimasto persuaso e come tale, quindi, cerco ora di persuadere gli altri che per il conseguimento di tanto bene, non è facile che l'uomo trovi chi possa meglio soccorrerlo dell'Amore. Per questo io affermo che ogni uomo deve onorare Amore, come io stesso faccio esercitandomi nelle sue discipline ed esorto gli altri a fare altrettanto ed ora e sempre esalto la potenza e la forza d'Amore, nel modo che ne sono capace. Ed ora, Fedro, questo discorso giudicalo, se credi, come un elogio d'Amore, altrimenti definiscilo pure come meglio ti piace.»    Quando Socrate ebbe concluso, continuò a riferirmi Aristodemo, e mentre tutti ne elogiavano il discorso, Aristofane stava per intervenire, perché Socrate aveva a un certo punto, fatto un'allusione sul suo conto a proposito di una certa teoria. Ma ecco che, a un tratto, si sentì picchiare alla porta dell'atrio e, poi, un gran vociare, come di gente allegra e la voce di una suonatrice di flauto. «E, allora, ragazzi, non correte a vedere?» esclamò Agatone ai servi; «se è gente di casa, fatela pure entrare, altrimenti dite che abbiam già finito di bere e stiamo riposando.» Dopo un po' si udi nell'atrio la voce di Alcibiade, ubriaco fradicio, che urlava a squarciagola chiedendo dove fosse Agatone e che lo conducessero da lui. Egli, infatti, comparve sulla soglia, sostenuto dalla suonatrice di flauto e da alcuni della compagnia e s'avanzò verso i convitati, incoronato da una folta ghirlanda di edera e di viole e con la testa piena di nastri. Salve, amici, esclama, «lo volete con voi, a bere, un uomo già completamente ubriaco? Oppure possiamo soltanto mettere questa corona in testa ad Agatone, dato che siamo venuti per questo e poi filarcela subito? Ieri non mi è stato possibile venire e così eccomi qua ora, con questi nastri in testa, per passarli su quella di uno che, senza offesa per nessuno, è il più sapiente e il più bello di tutti. Ma voi ridete perché sono ubriaco? E ridete pure, tanto lo so; ma, piuttosto, ditemi, posso o non posso entrare? Berrete con me, o no?» Tutti allora si misero ad applaudirlo e gli dissero di entrare e di prender posto in mezzo a loro. Anche Agatone lo invita ed egli si fa avanti sorretto dai suoi amici e, togliendosi dal capo i nastri, fa le mosse di incoronarlo senza accorgersi che Socrate era proprio lì, sotto i suoi occhi, al punto che, quando egli si pose a sedere in mezzo a loro, questi dovette scostarsi per fargli posto. Non appena si fu accomodato, cominciò ad abbracciare Agatone e a cingerlo di ghirlande. Ragazzi, veniva, intanto, dicendo Agatone, slacciate i sandali ad Alcibiade, ché si metta comodo e sia terzo tra noi due.» Benissimo, approva Alcibiade, «ma chi è questo terzo?» e così dicendo si volse e vide Socrate; a quella vista fece un balzo: Santi numi, esclama, ma chi è questo? Proprio Socrate? Ti sei messo qui per giocarmi ancora qualche tiro e mi compari davanti, al tuo solito, quando meno me l'aspetto. Che sei venuto a fare? E perché ti sei messo qui e non vicino ad Aristofane o a qualche altro che voglia fare lo spiritoso? Ma tanto hai fatto che ti sei piazzato vicino al più bello.» E Socrate: «Vedi un po' di difendermi tu, Agatone, perché l'affetto di quest'uomo mi sta dando non pochi fastidi. Da quando, infatti, mi sono legato a lui, non posso più guardare una persona di bello aspetto, né stare un po' a conversare con nessuno perché, geloso e invidioso com'è, mi salta su e me ne dice un sacco e poco ci manca che non mi metta le mani addosso. Sta attento, quindi, che anche ora non me ne faccia una delle sue e cerca di mettere un po' di pace tra noi e difendimi, se egli vuol farmi ancora qualche sfuriata, perché comincio proprio ad aver paura delle sue manie e del suo temperamento eccessivo.» «Niente affatto,» gridò Alcibiade, «fra te e me, nessuna pace e di quello che hai detto faremo i conti dopo. Ora tu, Agatone,» riprese, «dammi un po' di questi nastri, ché incoroni anche lui, questa testa meravigliosa, in modo che non s'abbia poi a lagnare che ho cinto te di ghirlande e lui niente, lui che nel parlare vince tutti e sempre, non una volta sola, come te, ieri.»    E così dicendo prese dei nastri e incoronò Socrate, mettendosi, poi, comodo.  E allora signori, esclama quando si fu messo a suo agio, «mi sa che qui volete fare gli astemi; non ve lo posso permettere; bisogna, invece, bere, così eravamo d'accordo. Fino a quando non avremo preso l'avvio, i brindisi li dirigo io. Avanti, Agatone, fa portare una bella coppa, di quelle grandi, anzi, anzi, non ce n'è bisogno; invece, ragazzo, dà qui quel vaso per tener il vino in fresco.» Ne aveva, infatti, intravisto uno che conteneva più di otto quartini abbondanti. Dopo esserselo riempito, se lo scolò per primo; poi disse di riempirlo per Socrate, soggiungendo: Amici belli, con Socrate, però, non c'è niente da fare: più gli se ne versa e più ne beve e non c'è caso che si ubriachi. Infatti, appena il servo versò, Socrate prese a bere. Ma Eressimaco, intervenendo. Ma così che facciamo, Alcibiade? Vogliamo proprio starcene coi bicchieri in mano, senza dire una parola, senza cantare un po', vogliamo proprio darci sotto come tanti assetati? Salve, mio caro Eressimaco, esclama allora Alcibiade, «ottimo figlio di ottimo e assennatissimo padre.» «Salute anche a te,» rispose Eressimaco, «e, allora, che facciamo?» «Ai tuoi ordini, siamo qui per obbedirti: poiché un medico regge da solo il confronto con molti. Perciò, comanda quello che vuoi.» «Stammi a sentire, allora,» fece Eressimaco; «prima che tu venissi si era stabilito che ognuno di noi, partendo da destra, facesse un discorso in lode di Amore, come meglio ne fosse capace. Noi abbiamo già tutti quanti parlato, tu, invece, no e dato che hai bevuto, è giusto che ora tocchi a te; dopo, potrai proporre a Socrate quello che vorrai e lui, a sua volta, passerà l'invito al compagno che è alla sua destra e così gli altri.» «Oh, un'ottima idea la tua, Eressimaco,» fece Alcibiade, «solo che non puoi mettere a confronto il discorso di un ubriaco con quello di gente che s'è mantenuta sobria; e poi, mio caro, tu ci credi a quello che Socrate ha detto un momento fa? Non lo sai che è invece, tutto il contrario? Questo qui, se io mi metto in sua presenza a fare le lodi di qualcuno, uomo o dio che sia, solo per il fatto che non si tratta di lui, mica me le risparmia le legnate.» «Ma la vuoi piantare? fa Socrate. «Per mille tempeste,» rimbeccò Alcibiade, «è inutile che protesti; in tua presenza io non posso lodare nessun altro.» «E allora, fa così,» intervenne Eressimaco; «se vuoi, loda Socrate. Come dici? fa Alcibiade. Vuoi proprio, Eressimaco, che io me la pigli con questo tipo e mi vendichi davanti a voi? Ma che ti salta in testa,» intervenne Socrate, «di prendermi in giro con la scusa dell'elogio? Ma che intenzioni hai?» «Dirò la verità e tu vedi se ti garba.» «Allora, sicuro, la verità te la concedo, anzi voglio che tu la dica.» «Eccomi subito a te,» fece Alcibiade, «e tu, intanto fa una cosa: se io non dico il vero, interrompimi se vuoi e dì pure che sto mentendo, per quanto io, di bugie, non ho intenzioni di dirne. Se, poi, nel riferire i fatti, io non andrò per ordine, non meravigliarti, perché non è certo facile, nello stato in cui sono, fare l'elenco ordinato e completo di tutte le tue stranezze. Ebbene, signori, io, Socrate comincerò a lodarlo così, per immagini. Lui, crederà che io voglia continuar nello scherzo e invece, le immagini mi serviranno per precisare la verità, non per scherzare. Comincio col dire, infatti, che egli somiglia a quei sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, che hanno in mano zampogne e flauti, fatti in modo che, aprendosi a metà, mostrano, all'interno, immagini di divinità; e soggiungo anche che somiglia al satiro Marsia. Eh, sì, Socrate, ci somigli proprio, almeno nell'aspetto, tu stesso non puoi negarlo; e sta a sentire come poi ci somigli anche nel resto. Non sei forse petulante, e ti posso portare i testimoni se non vuoi ammetterlo. E non sei un suonatore di flauto? E come assai più portentoso di Marsia. Lui aveva bisogno dello strumento per incantare gli uomini a forza di fiato e così, anche oggi, deve fare lo stesso chi vuol suonare le sue melodie; (quelle che suonava Olimpo, infatti, erano di Marsia, che gliele aveva insegnate). Insomma le sue melodie, sia che le suoni un flautista di vaglia o una suonatrice di mezza tacca, sono le sole a commuoverci, a farci quasi sentire il desiderio di dio, divine come sono e di iniziarci ai suoi misteri. Tu soltanto in questo gli sei diverso, che senza strumento, con le sole parole, ottieni lo stesso risultato. Infatti noi, quando ascoltiamo qualcuno che parla, fosse pure il più bravo oratore di questo mondo, di quello che dice, non ce ne importa niente, per così dire, proprio niente di niente; quando invece ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che riferisce i tuoi discorsi, fosse pure un buono a nulla, quanti ne siano, uomini, donne o giovani, restiamo tutti sbalorditi e affascinati. Quanto a me, signori, se non temessi di passare completamente per ubriaco, vi direi, dietro giuramento, quello che ho provato e provo ancora quando questo qui comincia a parlare. Quando lo sto a sentire, il cuore mi si mette a battere forte, peggio di quello dei Coribanti, alle sue parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti gli altri, ma tutti, quanti ne sono, che provano la stessa impressione. Quando invece sentivo parlare Pericle o altri bravi oratori, mi rendevo conto che anch'essi parlavano bene, eppure non provavo niente di simile, non mi sentivo l'anima in tumulto, né turbata al pensiero di essere una ben povera cosa. Ma per costui, invece, per questo Marsia qui, quante volte mi son sentito come se non mi fosse più possibile vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che tutto questo non sia vero? Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi di ascoltarlo, non riuscirei a resistere e proverei le stesse emozioni. Egli, inevitabilmente, mi farebbe persuaso delle mie molte deficienze e che, perciò, invece, di badare un po' a me stesso, m'intrigo dei fatti degli Ateniesi. E così, mio malgrado, io mi tappo le orecchie, come se fossi in mezzo alle sirene e scappo via perché non voglio mica invecchiare vicino a lui. Soltanto davanti a quest'uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di vergognarmi. Davanti a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore popolare; così lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so benissimo che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con un uomo simile, non so proprio come fare. E così, questi sono gli effetti che io e tanti altri proviamo per le melodie che questo satiro sa tirar fuori dal suo flauto. Ma state ancora a sentire come egli somiglia anche nel resto a quelli cui l'ho paragonato, e quale straordinario potere egli ha. Mettetevelo bene in testa, costui nessuno lo conosce: ma ve lo farò conoscere io, dato che mi ci trovo. Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre a innamorarsi dei bei giovanotti, a corteggiarli, a perdere addirittura la testa; mica poi che capisca qualcosa, non sa proprio niente, almeno dall'apparenza. E questo non significa essere un sileno? Altro che: lo stesso aspetto esterno di una di quelle statuette di sileni; ma dentro, se lo aprite, ve la immaginate, commensali miei, la saggezza che ha? E poi, dovete sapere che a lui, non gliene importa niente se uno è bello, anzi lo tiene in così poco conto, che non ne avete l'idea; e se uno è ricco e ha tutto quello che, secondo la gente fa beato un uomo, egli dice che tutto questo non vale un bel niente, anzi che noi stessi siamo addirittura delle nullità, questo ve l'assicuro io. E per giunta passa la vita, poi, a fare il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco di tutti. Se poi fa sul serio, però e si lascia veder dentro, non so se l'avete mai viste le bellezze che ha. Io però le ho viste, una volta, e mi son sembrate così divine, così preziose, stupende e straordinarie, che mi sentii soggiogato e pronto a fare tutto ciò che Socrate avesse voluto. Credendo che egli s'interessasse alla mia bellezza, pensai che era proprio un'occasione e una bella fortuna la mia se, cedendogli i miei favori, avessi potuto apprendere da lui tutte le cose che sapeva: io infatti andavo tutto superbo della mia bellezza. Con queste intenzioni, allora, io che prima non ero solito restarmene da solo con lui, senza la compagnia di un servo, un bel giorno congedai il mio schiavo e rimasi solo con lui. Bisogna che ve la dica tutta la verità e voi fate attenzione e se dico bugie, Socrate, smentiscimi pure. E così me ne rimasi solo soletto con lui ed io credevo che egli avrebbe subito attaccato con quei discorsi che di solito un innamorato fa al suo ragazzino, quando si trovano a tu per tu ed ero tutto contento. Invece, niente da fare ma, come al solito, parlò con me e giunta la sera, se ne andò. Vedendo questo, lo invitai, allora, a far ginnastica insieme a me, cominciai a esercitarmi con lui e speravo di concludere qualcosa. Anche lui, in verità, faceva i suoi bravi esercizi con me e lottavamo insieme, spesso senza che nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo devo dire? Non ne cavai un bel niente. E quindi, visto che in questo modo non combinavo nulla, pensai che con un uomo simile bisognasse adoperare le maniere forti, altro che lasciar perdere, dato poi che mi ci ero messo, e vedere un po' come andava a finire la faccenda. E così lo invita a cena, addirittura come fa uno spasimante quando vuol far cascare la persona amata. Macché, mica accettò subito; tuttavia, dopo qualche tempo, si convinse. La prima volta che venne, però, volle andarsene subito, appena mangiato; quella volta io mi vergognai un po' e lo lasciai andare. La volta appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che finimmo di mangiare, gli impiantai una discussione che si protrasse fino a tarda notte e così, quando fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai s'era fatto tardi e quindi lo convinsi a fermarsi. Così egli si mise a riposare in un letto accanto al mio, lì dove aveva cenato: nella sala, nessun altro avrebbe dormito tranne noi due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi potrei continuare a parlare di fronte a tutti ma, a questo    punto, io non vi darei più nulla se, anzitutto, nel vino, come dice il detto (aggiungeteci pure i bambini o meno) non vi fosse la verità e poi perché mi sembrerebbe proprio una cosa ingiusta, dal momento che sto facendo l'elogio di Socrate, passare sotto silenzio il suo nobilissimo comportamento. Oltre a questo, ancora, io mi sento come uno che è stato morso da una vipera che, a quel che si dice, non vuol raccontarlo a nessuno, tranne a quelli che sono stati anch'essi morsi, ai soli, cioè, che potrebbero comprendere e compatire i suoi gesti e tutte le frasi che si dicono sotto l'influsso del dolore. Ed io che sono stato punto dal morso più doloroso e nella parte che più duole al cuore o all'anima o come vuoi chiamarla, trafitto e punto dai ragionamenti filosofici che penetrano più profondamente del dente di una vipera specie quando afferrano l'anima di un giovane non mediocre e lo spingono a fare e a dire qualunque cosa... io che mi vedo dinanzi un Fedro, un Agatone, un Eressimaco, un Pausania, un Aristodemo, un Aristofane (e bisogna anche nominarlo Socrate?) e tanti altri, tutta gente un po' patita e fuori di sé per la filosofia. Eh, sì, per questo, ora, voi tutti, mi starete a sentire. E mi compatirete per quello che è accaduto allora e per quanto sto per dirvi ora. E voi, famigli e quanti ne siete, rozzi o villani, tappatevi con grossissime porte le orecchie. Dunque, signori, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, pensai che non era più il caso di star lì a gingillarsi ma di esprimergli chiaramente le mie intenzioni. «Dormi, Socrate?» perciò gli chiesi scuotendolo. «Nient'affatto,» mi rispose. «Sai cos'ho pensato? Cosa? Che tu mi sembri l'unico amante degno di me, però mi pare che tu esiti a dichiararti. Però, sai, io ho deciso; credo proprio che sia da sciocchi non esserti compiacente in questo, come in tutto il resto, se tu ne avessi bisogno, dei miei amici per esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi, niente mi sta più a cuore che diventare il più possibile migliore e nessuno, io penso, può far meglio di te al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di fronte alle persone intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non dinanzi alla gente ignorante se gli cedessi. E lui, dopo essere stato lì a sentirmi, col suo solito fare un po' ironico. Mio caro Alcibiade, risponde, può darsi proprio il caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto quello che tu dici e se c'è in me una specie di potere che ti possa far diventare migliore. Se è così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza, di gran lunga superiore alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far comunella con me, di metterci le mani addosso e barattar bellezza con bellezza e così concludere, alle mie spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi, insomma, di pigliarti una bellezza vera in cambio della tua che è apparente e pensi proprio di scambiare oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più attenzione, ché tu non t'inganni nei miei riguardi, dato che io non sono proprio nulla. Il fatto è che l'occhio della mente comincia a veder chiaro quando s'affievolisce quello del corpo e per te, ce ne vuole del tempo. Ed io dopo averlo ascoltato: «Per quel che mi riguarda, le cose stanno cosi ed io non ho detto nulla di diverso da quello che penso. Tu, piuttosto, devi decidere quello che è meglio per te e per me. Così va bene, mi risponde. In seguito vedremo e faremo quello che ci sembrerà meglio per tutti e due a proposito di questa faccenda e anche per il resto. Quanto a me, dopo quello che aveva detto, e ora che avevo udito la sua risposta, come se gli avessi lanciato un dardo, pensavo d'averlo già bell'e trafitto. E così, senza dargli la possibilità di dire una parola di più, balzai su e gli gettai addosso il mio mantello (infatti eravamo d'inverno) ficcandomi, poi, sotto quello suo, logoro, e stringendolo nelle mie braccia (sì, proprio costui, questo essere veramente divino e meraviglioso) e tutta la notte gli stetti disteso vicino. Nemmeno questo, Socrate, puoi dire che non è vero. Ebbene, nonostante che io avessi osato tanto, si dimostrò superiore e mi disprezzò beffandosi della mia bellezza, schernendola; e si che io credevo di non essere mica poi tanto male, o giudici (sì, giudici dell'insolenza di Socrate); ebbene, sappiate, ve lo giuro su tutti gli dei e le dee, che io dopo aver passato la notte accanto a Socrate, mi alzai come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore. Dopo tutto questo, ve lo immaginate come ci rimasi. Da una parte l'idea di essere stato disprezzato, dall'altra la mia ammirazione per le sue qualità, per la sua saggezza, per la sua forza d'animo. Mi resi conto di aver proprio incontrato un uomo quale non avrei immaginato, per rettitudine e per fortezza. E così non riuscii né a pigliarmela con lui e, quindi, troncare ogni rapporto, né, d'altro canto, a trovare il modo di conquistarlo. Sapevo benissimo che col denaro non c'era niente da fare: è più invulnerabile d'Aiace di fronte alle frecce, ed ora anche l'unico modo con cui pensavo di poterlo conquistare, m'era fallito. Privo così d'argomenti, schiavo quasi di quest'uomo, come nessuno lo fu mai d'alcun altro, gli stavo sempre dietro. Tutto questo accadde prima della campagna di Potidea, durante la quale combattemmo insieme e fummo anche compagni di mensa. Ricordo che alle fatiche era più resistente non solo di me ma di tutti quanti gli altri; quando poi si restava bloccati, tagliati fuori, come capita spesso in guerra e così ci toccava patir la fame, la capacità di resistenza degli altri non era niente al confronto della sua; quando invece c'era abbondanza, lui era il solo a godersela veramente; e a bere, poi, vinceva tutti, non perché ci fosse portato, ma solo quando ve lo spingevano e quello che è straordinario è che mai nessuno ha visto Socrate ubriaco e di questo, io credo che ne avrete anche ora una prova. Quanto poi a sopportare i rigori dell'inverno (e lì il gelo non scherza), era addirittura straordinario. Ricordo che, una volta, durante una gelata terribile, mentre tutti se ne stavano chiusi dentro e se qualcuno usciva, s'infagottava fino all'inverosimile e si fasciava i piedi con panni di feltro e pelli di pecora, lui se ne andò in giro con quel suo solito mantelluccio che porta sempre, camminando sul ghiaccio, a piedi nudi, assai meglio di quelli che avevano le scarpe; e i soldati lo guardavano un po' in cagnesco credendo che, così, egli li volesse umiliare. E a questo proposito, bisogna proprio sentire ‹quello che ancora fece e sostenne quest'uomo animoso, laggiù, durante la spedizione. Tutto preso non so in quali pensieri, una volta se ne rimase in piedi, immobile a meditare, fin dal mattino presto e, poiché non riusciva a venirne a capo, non la smise, ma continuò a restarsene tutto assorto nelle sue riflessioni. Era già mezzogiorno e i soldati cominciarono a farci caso e a passarsi la voce, tutti stupiti che Socrate, pensando a chissà cosa, se ne stava lì dal mattino presto. In conclusione, col calar della sera, alcuni soldati della Ionia, dopo il rancio, portarono fuori, all'aperto, i loro pagliericci (s'era, infatti, in estate) per dormire al fresco ma anche per star lì un po' a vedere se quel tipo se ne fosse rimasto immobile tutta la notte. Ed egli lì se ne restò fino a che non si fece mattino e non spuntò il sole; dopo di che, fece al sole una preghiera e se ne andò. E in battaglia, poi, se volete sentire, perché anche questo bisogna riconoscergli. Quando ci fu quello scontro in cui i generali mi dettero una ricompensa al valore, nessun altro mi salvò tranne costui che non volle lasciarmi lì ferito ma riuscì a portarmi in salvo con le mie armi. Ed io, Socrate, in quell'occasione, insistetti perché la ricompensa la dessero a te (neanche in questo caso tu potrai riprendermi e dirmi che sto mentendo). E poiché i generali, considerando il mio rango, volevano dare a me la ricompensa, tu fosti più zelante di loro perché venisse a me attribuita invece che a te. E non è finita, signori miei, perché bisognava vederlo Socrate, quando il nostro esercito è rotto a Delio. In quell'occasione io ero col mio cavallo, lui a piedi, con tutte le sue armi. Tra lo scompiglio delle truppe in fuga, dunque, egli ripiegava insieme a Lachete. Io per caso sopraggiungo e, vedendoli, grido di farsi coraggio, assicurandoli che non li avrei abbandonati. In quella occasione meglio che a Potidea, potetti ammirare Socrate, anche perché, a cavallo come ero, avevo meno da temere. Prima di tutto dimostrava un controllo superiore a quello dello stesso Lachete; secondariamente parve anche a me quello che tu stesso, Aristofane, hai detto di lui che cioè anche là egli camminava come qui, tutto altero gettando occhiate di traverso, tenendo sempre sott'occhio amici e nemici, facendo capire a tutti, anche a distanza, che se qualcuno lo avesse attaccato, egli era il tipo che si sarebbe difeso strenuamente. E così procedeva sicuro insieme al compagno, perché è proprio vero che quelli che si comportano così in guerra, i nemici nemmeno li toccano, mentre incalzano chi si dà a gambe levate. E ancora per molte altre cose, tutte straordinarie, Socrate andrebbe lodato. Probabilmente, però, queste altre qualità si possono anche trovare in qualche altro; quello che invece è meraviglioso è il fatto che lui non è simile a nessun uomo del passato né del nostro tempo. Ad Achille, per esempio si potrebbe avvicinare, in un certo qual modo, Brasida e altri e per Pericle potrebbe trovarsi una certa somiglianza con Nestore o Antenore e non con questi soltanto e altri paragoni se ne potrebbero far sempre. Ma quanto a quest'uomo, per il suo modo di fare, per i suoi discorsi, è impossibile trovare uno che gli somigli, nemmeno lontanamente, né tra i viventi, né tra gli antichi, a patto che uno non lo volesse paragonare, appunto come dicevo, lui e i suoi discorsi, ai sileni e ai satiri, ma non certo a un uomo. Anzi, a proposito, i suoi discorsi (me ne ero dimenticato di precisarvelo prima) sono proprio come i sileni che si aprono. Infatti, se uno si mette a sentire i discorsi di Socrate, all'inizio, gli sembreranno addirittura ridicoli, come sono tutti inviluppati per il di fuori, da termini e da sentenze, una specie di pelle di satiro petulante; infatti, non fa altro che parlare di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori e sembra che dica sempre le stesse cose, tanto che se uno non se ne intende o è uno sciocco, gli riderebbe dietro. Ma se cerchi di aprirli, i suoi discorsi, e di guardarvi dentro, prima di tutto ti accorgerai che sono i soli, tra tutti, ad avere un loro senso profondo, poi che sono addirittura divini, ricchi di ogni virtù possibile e immaginabile, volti al sublime o meglio a ciò che deve tener presente chi voglia diventare un vero galantuomo. Questo è quanto ho da dirvi in lode di Socrate, amici miei. Quanto al biasimo io ve l'ho già mescolato, riferendovi le offese che mi ha fatto; del resto egli non s'è comportato così solo con me, ma ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone e con Eutidemo, il figlio di Diocle e con molti altri, tutta gente che egli ha ingannato fingendo, appunto, la parte dell'innamorato, con la conseguenza che furono, invece, costoro ad innamorarsi di lui. E questo lo dico anche per te, Agatone, ché non debba cascarci anche tu in modo che, fatto esperto dalle nostre disavventure, tu possa stare in guardia da costui e non debba imparare, da citrullo, a proprie spese, come dice il proverbio. Appena Alcibiade ebbe concluso, l'ilarità fu generale, proprio per quel suo modo franco di parlare, anche perché, così, aveva fatto capire di essere ancora innamorato di Socrate. «Mi sembra, invece, che tu, Alcibiade, non abbia proprio bevuto per niente,» esclamò a un certo punto Socrate, «altrimenti non l'avresti rigirata tanto abilmente, nascondendo il vero scopo del tuo discorso e alludendovi solo alla fine, come un di più, come se tutto il tuo parlare non fosse stato per seminar zizzania tra me e Agatone, fissato come sei che io debba amare solo te e nessun altro e che Agatone devi amarlo soltanto tu e gli altri niente. Ma non t'è andata bene e questa tua farsa a base di satiri e di sileni è apparsa evidente. Mio caro Agatone, costui non deve spuntarla e bada tu che, tra me e te, nessuno venga a mettere disaccordo.» E Agatone, di rimando: «Ah, sì, Socrate, forse hai proprio ragione. Ora capisco perché s'è venuto a piazzare tra me e te, proprio per dividerci. Ma sta fresco, anzi, eccomi qua che ti torno vicino.» Oh, benissimo, fa Socrate, mettiti qua, al mio fianco.» «Santo cielo,» esclamò Alcibiade, «quante me ne fa passare quest'uomo. Vuole sempre stravincere; ma, almeno, mio straordinario amico, lascia che Agatone resti tra noi due.» «Impossibile,» fece Socrate. «Infatti tu hai fatto, in questo momento, le mie lodi ed ora tocca a me farle a quello che mi sta a destra. Quindi, se Agatone se ne viene vicino a te, non può mica mettersi a fare il mio elogio prima che io non abbia fatto il suo, ti pare? Piantala, quindi, tesoro, e non essere geloso se elogerò questo giovane: io desidero molto tesserne le lodi.» «Iuh, iuh, Alcibiade,» si mise a fare Agatone, «non è proprio il caso che io me ne resti qui, anzi, mi alzo subito perché le lodi di Socrate io le voglio avere. Eh, già, commenta Alcibiade, la solita musica; quando c'è Socrate, niente da fare con i belli. Guarda un po' anche adesso, come ha saputo trovarsela facilmente la sua ragione, in modo che costui gli si strofini al fianco. E così Agatone si alza per mettersi vicino a Socrate, quando a un tratto, una numerosa brigata di buontemponi si fece sulla soglia e trovando la porta aperta perché qualcuno era uscito, irruppe dentro di filato verso di noi e ognuno si trovò comodamente il suo posto. Ne nacque un baccano dell'altro mondo e si perse ogni misura, tanto che ci demmo a bere a più non posso. Allora Eressimaco, Fedro e qualche altro se ne andarono, continuò a raccontarmi Aristodemo. Quanto a lui è vinto dal sonno e dormì profondamente anche perché le notti erano lunghe; si svegliò ch'era giorno e che i galli cantavano. Quando aprì gli occhi, vide che gli altri o dormivano ancora o se n'erano andati e che solo Agatone, Aristofane e Socrate erano svegli e bevevano da una grande coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate stava discorrendo con loro, ma Aristodemo disse che non ricordava quello che si dicevano dato che non li aveva seguiti fin dal principio e, poi, perché (almeno così disse) era tutto insonnolito, ma che, in conclusione, Socrate stava persuadendo i due amici ad ammettere che uno può comporre ugualmente sia commedie che tragedie e che chi, per vocazione, è poeta tragico, sarà anche poeta comico. Quelli, costretti ad ammetterlo, ma senza capir molto, sonnecchiavano. E ci disse che fu Aristofane ad addormentarsi per primo, poi, a giorno fatto, anche Agatone. Socrate, quando li vide addormentati, si alzò e se ne andò e lui, Aristodemo, com'era sua abitudine, lo seguì. Giunto al Liceo si lavò e, come al solito, trascorse il resto della giornata, poi verso sera se ne andò a casa a riposare. Educazione guerriera Il filosofo G., voce narrate dell'educazione fascista scriveva: "La possibilità, la necessità della lotta armata è immanente alla coscienza nazionale, è presente in ogni momento di questa. E non c'è dunque educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia ache educazione guerriera."Una delle caratteristiche fondamentale – e forse la piu nuova e significative – che la scuola italiana e andata gradatamente acquistando e che sta per trradursi in aao nella piena chiarezza e precision delle idee direttive e della organizzazione tecnica, e l’impronta guerriera. Nel dominio dell’educazione, in cui tutta la vita di un popolo si riflette e da cui insieme trae alimento e vigorose affermazione, si fa valere, cosi, quell’attuarsi categorico della coscienza nazionale, che e la missione del Fascismo nella storia d’Italia. La coscienza militare, lo spirito guerreiero, non e qualcosa di diverse della coscienza nazionale; bensi costituisce con questa un duplice aspetto della elevazione dell’individuo al disopra del bene proprio particolare, per attuare le ragioni ideali della vita: un duplice aspetto in quell concetto della vita come missione, onde l’individuo perisce nelle sue forme superficiale e caduche e si sostanzia de realta universal ed eterna. Al dispora della nazione non esiste, invero, non puo esistere una organizzazione che equamente diriga e governi l’atttivita dei singoli gruppi sociali-nazionale e instauri, attraverso la composizione dei contrasti, un armónico equilibrio. La possibilita, la necessita della lotta armata e immanente alla coscienza nazionale, e presente in ogni momento di questa; e la coscienza di essa e la preparazione dell’animo atto a combatterla sono; diremmo quasi, una seconda facia della coscienza nazionale. E non c’e dunque educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia anche educazione guerriera. Ma non basta. Il compito specific dell’educazione guerriera, la preparazione alla lotta armata, ha un suo proprio carattere – in connessione con la natura e le esigenze di tale lotta – per cui non e soltanto il riflesso o, direbbesi, l’ombra dell’educazione nazionale, ma da questa in certo modo si distacca e su essa reagisce, aumentandone e integrandone il valore; e aumentando e integrando, inoltre, il valore anche dell’educazione generale. La preparazione alla lotta armata e in vero preparazione: 1) alla rinunzia piu complete al proprio io particolare; poiche si tratta di ninunzia alla vita, il primo ed il massimo dei beni e da tutti presupposto; 2) alla rinunzia – sia pure momentanea e quale mezzo a una superior affermazione – anche alla propria personalita spirituale, mediante l’obbedienza pronta ed intera: poiche la lotta e azione e nulla v’ha di piu dannoso e folle che discutere quando e il momento d’agire. Fornisce quell’agilita e pronezza di movimenti e quella resistenza alle fatiche e forza muscolare, in cui la lotta armata ha uno dei suoi mezzi piu essenziali. Non solo; per il riscio che e inerente a molti esercizi ginnastici, anche si rifugga dale acrobazie – con le quali si sarebbe fuori dal dominio educativo – essa e buon addestramento dell’animo alla lotta. L’educazione guerriera ha un contenuto per ricchezza ed importanza infinitamente superior a quello dell’educazione fistica; ma include questa necessariamente dentro di se. Giovera in ultima accentare agli sports, in quanto non significhino virtuosismo, ossia abilita tecniche e capacita fisiche prese come fine a se stesse, ma si dispongano nel Quadro generale dell’educazione quale stimolo allo sviluppo dell’uomo. Essi in questo caso sono il naturale sbocco dell’educazione fisica, o meglio l’educazione fisica nella pienezza della sua attuazione; poiche accentuano il momento del rischio e del consequente necessario dominio di se. Ma non bisogna esagerare riguardo al valore degli sports in ordine all’educazione guerriera. Questa ha il suo fondamento in un mondo ideale che a quelli e compiutamente estraneo; e si riferisce ad una condizione di cose in cui ben altro sir ischia che non qualche slogatura ed ammaccatura, e in cui l’Eroe non attende il plauso, ma si vota sereno e deciso al sacrifizio che, anche, rimanga oscuro.” Gallo Galli. Galli. Keywords: il fedro, sull’amore, metafisica dell’amore, fisiologia dell’amore, dialoghi dell’amore, dialoghi sull’amore, sul bello, l’uno e i molti, unum et multa – the one and the many – Plato – Aristotle – Parmenides’s aporia – D. F. Pears, “Universals” in Flew, Rosmini, Bruno, ermetico, Galileo, Serbati, Carlini, idealismo, idealismo critico, dialettica dello spirito, Renouvier, educazione guerriera, Sparta, Platone, Siracusa, dorio, guerriero, sacrifizio.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gallio: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Giunio Gallio – An orator with a reputation for his knowledge of philosophy. He adopted Lucio Anneo Novato, the elder brother of Seneca.

 

Grice e Galluppi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Tropea). Filosofo tropese. Filoofo calabrese (padre siciliano). Filosofo Italiano. Tropea, Vibo Valentia, Calabria. “Gallupi is a great one; and much can be philosophised about his philosophy of the ‘parola come segno del pensiero’” – Grice: “On top, he was a Baron!” -- Eessential Italian philosopher. Figlio del barone Vincenzo e della nobildonna Lucrezia Galluppi, entrambi della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche famiglie patrizie di Tropea. Dopo lo studio della lingua latina, apprese filosofia sotto Ruffa. Trasferitosi a Santa Lucia del Mela, compì il corso elementare di filosofia e presso il Seminario vescovile della cittadina peloritana. Intraprese dunque lo studio a Napoli sotto Conforti. Sposa Barbara d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto maschi e sei femmine.  Trascorre le giornate di libertà nella residenza privata di famiglia, cioè Palazzo Galluppi, sulla Strada Provinziale a Caria, frazione di Drapia, alla biblioteca o al giardino. Pubblica a Napoli “Sull'analisi e la sintesi”. Durante i moti aderì alla causa liberale sostenendo la riforma costituzionale dello stato e protestando quindi contro l'intervento repressivo degl’austriaci. Si riavvicina alla monarchia. Insegna filosofia a Napoli. Membro dell'Accademia Sebezia e dell'Accademia Pontaniana di Napoli, degl’affatigati di Tropea (il ‘furioso’), di quella del Crotalo di Catanzaro e della Florimentana di Monteleone.  Il suo merito maggiore consiste nell'avere introdotto in Italia Kant. Le Lettere filosofiche sono definite il primo saggio in Italia di una storia della filosofia. A G. sono dedicati il convitto nazionale, il liceo di Catanzaro e il liceo di Tropea. A Tropea, la sua città natale, è attivo il centro studi Galluppiani, associazione culturale dedita alla ripubblicazione dell'opera omnia del filosofo e che di recente ha decretato l'ampliamento dei fini statutari, fino ad accogliere e curare altre interessanti iniziative di un certo spessore culturale.  Periodicamente, il centro organizza il congresso degli studi galluppiani, importante appuntamento di respiro nazionale, animato da studiosi e saggisti provenienti da tutta Italia. L'attuale presidente è Meligrana. Altre personalità di notevole importanza nella storia del centro studi galluppiani sono Pugliese e Cane, filosofo, appassionatissimo studioso dell'opera di Galluppi.  Una vera dedizione, la sua che non è mai venuta meno fino alla fine della sua vita. Organizzatore infaticabile di seminari, simposi e conferenze, ha cercato di far conoscere il pensiero del G., favorendo la pubblicazione dell'opera inedita "La filosofia della matematica" la cui edizione lo ha visto anche quale curatore. Su G. pubblica numerosi saggi ed articoli in quotidiani e riviste specializzate.  Altre opere: “Memoria apologetica” (Napoli, Vincenzo Mozzola-Vocola); “Grice, ovvero, Sull'analisi e la sintesi” (Napoli, Verriento); “La conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano, con un esame delle più importanti questioni dell'Ideologia, del Kantismo e della Filosofia trascendentale” (Napoli, Sangiacomo); “Filosofia” (Messina, Pappalardo); “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente a’principii della conoscenza umana da Cartesio insino a Kant inclusivamente” (Messina, Pappalardo); “Logica”; “Metafisica” (Firenze, Tipografia della Speranza); “La volontà” (Napoli, Giachetti); “Storia della filosofia” (Napoli); “Opera a cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Pessina, autore del Quadro storico dei sistemi filosofici” (Milano, Gio. Silvestri); “Autobiografia”, “Scritti”  (Milano, Dumolard); La filosofia del Galluppi e le sue relazioni col Kantismo, (Napoli, Morano); “Lettere filosofiche” (Bonafede, Palermo); “Epistolario Lettere private. Inedite e rare, Franco Ottonello, Milano, Franco Angeli ("Filosofia e scienza nell'età moderna" Collana a cura della Sezione di Milano dell'Istituto per la storia della filosofia. Dizionario biografico degli italiani. Quella specie di deduzione con cui da una causa, che cade sotto i sensi, deduciamo un efetto, che sotto i sensi non cade, o da un effetto, che cade sotto i sensi, deduciamo una causa, che sotto i sensi non cade, quando la connessione fra la causa e l'effeto non si presenta a noi come necessaria, è fondata su questa verità sperimentale, le cause simli producono o son accompagnate da effetti simili; ed effetti simili suppongono cause simili. Tutti e due questi modi di dedurre i fatti, che immediatamente non si sperimentano, costituiscono l’argomento detto di analogia. Si argomenta dunque per analogia, quando dair osservazione di soggetti simili si deducono qualità simili, e quando da cause simili si deducono effetti simili, o da effetti simili si deducono cause simili. Ma resistenze, che si deducono, sono di due manière. Alcune possono essere oggetto di esperie tua, altre non possono esserlo. Sebbene quando vedo l’acqua, che non ho ancora bevuto, e che giudico di aver essa la qualità di estinguermì la sete, non abbia ancora sperimentato in questo caso particolare la qualità di cui parlo; pure è essa un oggetto di esperienza, poiché posso di fatto sperimentarla, bevendo l’acqua che ho presente. Sebbene prima di vedere la liquefazione della neve, io la deduco dalla vicinanza del fuoco. Pure questa liquefazione può colpire i miei sensi, ed essere un oggetto di esperienza. Ma vi sono infiniti casi, in cui l’esistenze che si deducono, non possono divenire oggetto di esperienza. Domandato ad un uomo perchè egli crede un fatto, che succede in luoghi ove non è, per  esempio, che il suo amico soggiorna alla campagna, o viaggia per la Francia, egli vi darà per ragione un altro fatto: allegherà una lettera che ha da lui ricevuto, alcune risoluzioni che gli vide prendere, alcune promesse che gli ha sentito fare. Ora in tutte queste deduzioni, si suppone, che alcuni dati moti dipendono dalla volontà dell’amico; si suppone in conseguenza, che il suo corpo sia animato da uno spirito simile al nostro. Ora lo spirito dell’amico, e le modificazioni inieinc di esso, non possono giammai divenire un oggetto di esperienza: noi non possiamo giammai sortire da noi stessi, e sentire l’anima sua, e ciò  che  in  essa acca(k; noi dunque qui argomentiamo da una esistenza, che è un oggetto sperimentale, ad un altra esistenza, che per noi non può giammai divenire un oggetto  di esperienza. Quando vedo la lettera, di cui si parla io giudico, che fu l’effetto de’ moti del corpo dell’amico, giudico inoltre, che questi moti  furono l’effetto  della  sua  volontà. Ora questa volontà io non la posso sentire giammai, risalgo dunque qui da un effetto che colpisce i sensi miei ad una causa, che non può giammai divenire un oggetto di esperienza. Similmente se vedo piangere un uomo giudico che egli è afflitto, ora l’afflizione di lui non puògiammai divenire un oggetto di esperienza per ne;  io dunque  deduco qui da ciò che sperimento una causa, che non posso  sperimentare. Ora si domanda: una tal deduzione è es M legittima? Allora che vedo un uomo, io vedo un corpo simile al mio: se lo vedo camminare vedo questo corpo eseguire certi moti simili a quelli, che io fo quando voglio camminare, da ciò conclude, che I moti del corpo che vedo suppongono una causa  simile a quella,  che ho sperimentato, vale a dire uno spirito, che vuole tali moti. Pare dunque, che questo caso possa ridursi alla stessa spezie di quello di sopra, cioè alla deduzione di  una  causa  simile da un effetto  simile. Ma vi ha qui una differenza, di cui bisogna tener conto. Quando dal vedere un orologio deduco 1’esistenza di un artifice, io ho osservato non solo gli effetti simili, ma anche le cause simili, vale a dire, ho veduta molti orologi fra i quali ho trovato della similitudine, ed Ito veduto ancora molti artefici di orologi, fra I quali ho trovato ancora della similitudine. Ciò non accade, quando da’ moti del corpo di un uomo deduco l’esistenza di uno spirito simile al mio, da cui questo corpo è animato. Io non ho giammai sperimentato un altro spirito,all’infuori del mio, quindi non lio giammai sperimentato la similitudine delle cause, da cui derivano gli effetti de' quali si parla, io dunque esco qui fuori deirespcnenia: se avessi erimontato piìi volte che alcuni moti di altri corpi simili al mio derivano da spiriti simili al mio, allora la mia deduzione avrebbe lo stesso fondamento dell’analogia, la quale mi autorizza a dedurre da effetti che sperimento,simili aquelli che ho sperimentato, cause simili aquelle che ho sperimentato. Ma qui siamo in un caso diverso;io sono racchiuso nella sola osservazione di una causa sola: ho sperimentato in me solo che alcuni dati moti procedono da un atto di volontà. Ma non 1’ho sperimentato in altri, nè posso giammai sperimentarlo; or chi mi autorizza a concludere da un caso solo una legge costante, ed universale della natura? Nell'argomento di analogia si conclude per un caso ciò che abbiamo sperimentato costantemente in tutti gli altri , che ci son occorsi: ho sperimentato molte volte, che il fuoco posto in vicinanza della neve la liquefa, nè mi è occorso alcun caso, in cui non abbia ciò sperimentato: vedendo del  fuoco posto in vicinanza della neve concludo,  per questo caso particolare,  ciò che ho  sperimentato  costantemente nella moltitudine degli altri casi.  Ma quando al veder muovere gli altri uomini giudico, che sono animati da uno spirito simile al mio, procedo tutto al rovescio dell’analogia, poiché da un solo caso, vale a dire da ciò che sperimento in me, giudico tutti gli altri. Questa obbiezione merita di esser esaminata, poiché l’analisi dei motivi de’nostri  giudizi  è1’oggetto della logica. Io ho camminato un numero incalcolabile di volte, per varie direzioni, ed in vari luoghi. Ho sperimentato questo fatto costantemente unito al mio volere. Ho sperimentato fra il cammino di una volta equello di un altra una similitudine, ed una similitudine fra l’atto di volere di una volta e quello di un altra. Ho dunque qui sperimentato che effetti simili procedono da cause simili, vale a dire, che il camminare consiste in moti volontari. Quando dunque veggo camminare un altro uomo io concludo per questo caso particolare quello che ho sperimentato nella moltitudine de’casi particolari occorsi in me stesso;  non esco dunque dell’analogia, con cui si concludeda molli ad uno. È nondimeno incontrastabile, che l'illazione non può giammai divenire sperimentale, poiché 1’esistenza della volontà in un altro uomo, che io deduco dal vederlo camminare, non può giammai divenire per me un oggetto di esperiaiza come può divenirlo questa illazione: il fuoco che vedo liquefarà la neve a cui è vicino: Ma ciò mi sembra, che non tolga alcuna forza  alla  deduzione,  che  esaminiamo. Quando dal vedere il fuoco posto in vicinanza della neve deduco la liquefazione di questa, io giudico prima dell'esperienza; ressere perciò l’illazione di natura a poter divenire un giudizio sperimentale,non influisce nella deduzione, L’illazione è vera per me per la sua connessione colle premesse; non già perchè è un giudizio, il quale può confermarsi coll’esperienza. Similmente, l’illazione di analogia, con cui giudico che gl’altri corpi umani, fuori del mio, sono animati da uno spirito simile al mio (“OTHER MINDS” WISDOM), è vera in forza della sua connessione colle premesse, e l’impossibilità che ha questo giudizio di divenire immediatamente sperimentale; non toglie mica il valore della deduzione. Ma qui conviene aggiugnere qualche cosa molto importante. Che i moti chiamati volontari, e che scorgo ne’corpi umani, non dipendano da una causa meccanica, ma da una causa intelligente, mi sembra una verità necessaria della stessa natura delle verità necessarie, che esprimono le leggi del moto.  Se io sono ricco o potate,  e deadcro d'innalzare un edifìzio, mille braccia agiscono, e la mia volontà ha il suo effetto. La mia voce non ha fatto impressione sul corpo  de’travagliatori, se non die per mezzo dell’aria, e no nha prodotto nell’atmosfera on’ agitazione suflìciente a muovere de’corpi molto piìi piccoli di quelli che  eseguono gl’ordini  miei. La mia voce dunque non produce l’effetto come causa meccanica. Bisogna perciò che un principio diverso dall’agitazione dell'aria, o dalla mia parola produce questo moto ne’corpi, e che la mia parola determina  questo princijiio  a produrre  i moti, che chiamiamo voloiitai. Non si può riguardar la mia parola, se non che o come un molo eccitato nell’aria, o come l’espressione della mia volontà. La mia parola non ha potuto come causa meccanica produrre i moti, de’quali parliamo, perchè ciò come abbiamo veduto, è contrario alla legge del moto, che un piccolo moto ne produca uno maggiore; al che si aggiunga, che la mia parola non avrebbe  prodotto moto alcuno  nell’Ottentotto, o in un altro individuo che parla un linguaggio  diverso dal  mio:  per la sola  espressione della mia volontà ha dunque potuto la mia parola determinare ad  agire il principio del moto de’corpi die mi hanno ubbidito. Questo principio è perciò un’intelligenza, poiché ha conosciuta la mia volontà nelle mie parole. La proposizione dunque: vi tono alcuni moti ne’ corpi umani dieerti dcU mio corpo, iquali hanno per causa una causa intelligente, mi sembra di verità necessaria. La proposizione poi: vi sono alcuni moti ne’corpi umani dècer si dal mio corpo i quali hanno per causa la volontà di uno spirito simile al mio, e per conseguenza tali corpi sono animati come il mio, è di verità contingente, e poggiata sull’analogia. Concludiamo nell’argomento di analogia si deducono spesso cause, (M  non  possono divenir giammai un oggetto d’esperienza, sebbene sieno simili ad altre cause, che si sperimentano. 2.°  Vi sono nondimeno alcune deduzioni d’esistenze che non possono divenire sperimentali, le quali deduzioni danno verità necessarie in risultamento.  Questa seconda parte della conclusione enunciata si conferma da quello che si dice nell’ideologia  circa resistenza dell’assoluto. Questo non può certamente divenire un oggetto d’esperienza, intanto la sua esistenza è il risultamento di un raziocinio legittimo, in cui una delle premesse è una verità  sperimentale. Noi diciamo; se vi è il condizionale, et deve essere l’assoluto. Questa proposizione esprime un giudizio  analitico, e necessario: vi e il condizionale. Questa seconda proposizione esprime un giudizio sperimentale; vi è dunque l’assoluto. L’illazione è una verità necessaria. L’empirimo ci riserra nel solo circolo dell’esistenze, immediatamente sporimetitali; nè ci permette di passare da ciò, che cade immediatamente sotto 1’esperienza, a ciò  che  sotto la stessa immediatamente non cade.  Io vi ho fatto vedere il contrario; vi  ho dunque dimostrato la falsità dell’empirismo. L’argomento  d’analogia  è fondato  sul  rapporto  d’identità. Ma l’identità  può fra due cose essere maggiore  o minore. L’identità fra il mio corpo ed il corpo di un altro individuo, che io chiamo uomo, è maggiore di quella che passa tra il mio corpo ed il corpo di un CAVALLO. Ora si domanda: tino a qual grado d’identità l’analogìa è un argomento valevole, cioè un argomento certo  ì È questo un problema di difllcile soluzione. L’analogia ci rivela dunque 1'esistenza degli altri  spìriti simili al nostro. L’esperienza c’insa, che alcuni moti volontari in noi nascono, o sono accompagnati da alcune affezioni interne del nostro spirito. Vedendo in conseguenza moti simili in altri corpi umani, attribuiamo agli spiriti animatori di tali corpi affezioni simili a quelle che abbiamo sperimentato in noi. Allora che sono affetto  EFFETO dal sentimento della sete, corro a bevere ad una fontana che a me si presenta. Se dunque vedo un altro uomo camminare verso una fontana, e bevere, giudico, appoggiato sull’analogia, che egli sia modificato dal sentimento della sete, e che voglia bevere. In queste deduzioni analogiche dove osservare ciò che vi ho detto circa 1'aspettazione del futuro simile al passato, ili bisogna distinguere il sentimento della deduzione meditativa. La dottrina generale che ivi vi ho spigato, può applicarsi  all’oggetto  che ci occupa.  Noi supponiamo ne’nostri simili delle anime alla nostra simile. Noi  facciamo tali suppozioni in forza della I^gc  della nostra immaginazione, non già in forza de’raziocini, che abbiamo sviluppato.  Io suppongo l’incontro di due uomini, privi sino a questo momento di ogni commercio ,ancora cògli animali; ridotti per conseguenza al circolo stretto de’propri sentimenti,  e delle proprie operazioni. Ciascuno di essi vede nell’altro un essere che gli rassomiglia in tutte le cose, che presenta le stesse forme, possiede gli stessi organi, ne fa un simile uso. Egli crede dunque il corpo che lo colpisce, animato da uno spirito. Or ecco, secondo la mia dottrina, come si opera questo fatto intellettuale. Io suppongo che un di questi uomini vegga l'altro camminare, questa percezione risveglia i fantasmi simili del proprio corpo camminante in varie volte, e perciò anche i fantasmi del proprio me affetto in tali circostanze da tali e tali modificazioni. Queste riproduzioni si fanno con somma rapidità in modo che non posson essere fissate dall'attenzione. Esse sono perciò obbliate l'istante appresso, in cui si  son avute, intanto la percezione del corpo simile al proprio determina  l’attenzione non solamente ad essa sola, m’ancora  alla  percezione  simultanea  del  proprio  me, e lascia  fuire  le  percezioni successive simili del proprio corpo camminante in varie volte. La  piercezione del  me riprodotta  si lega  perciò a quella del corpo presente del mio simile, invece di legarsi a quella riprodotta del proprio corpo camminante, che  si  è obbliata,  e questo  legame  costituisce  il  sentimento  interno  di  questa  specie  di  credenza.  L'  obblio  delle  percezioni  riprodotte  del  proprio  corpo  camminante  in  varie  volte,  nell’atto  che  rimane  quella  riprodotta  del  proprio  me, fa  si,  che  questa  ultima  si  associi  a quella presente del corpo simile. La percezione riprodotta del proprio me rimane, perchè la percezione del corpo camminante e quella del proprio me son legati  naturalmente  in  una  comune  attenzione;  essendo  associate  dalla  natura  stessa. Quella  riprodotta  del  corpo  camminante  s’ecclissa,  perchè  quella del  corpo  simile  camminante  richiama  l’attenzione.  Lo spirito trasporta dunque fuor di lui col pensiere l’idea del proprio me, che egli immagina, e che stabilisce nel seno di quelle forme, che colpiscono i suoi sguardi, ed  a traverso delle quali il suo sentimento immediato non può penetrare. Egli presta dunque il suo me al suo simile, 1’anima della vita che respira in se stesso, e concepisce 1’esistenza di un altro uomo. Tale mi sembra la spiegazione del sentimento della credenza che esaminiamo. Risulta dalla stessa che noi concependo ciò che pensano gl’altri uomini, non usciamo  mica  da  noi  stessi.  Nelle  nostre  proprie  idee  noi  vediamo  le  loro  maniere  di  essere,  la  loro  stessa  esistenza.  Da  ciò  avviene,  che  1’uomo  misura  dal  proprio spirito quello degl’altri, dal che nascono molti orrori. Noi non possiamo accuratamente determinare lo stato dei fanciulli; e conoscere  perciò l’epoca in cui hanno luogo le loro abitudini intellettuali. Ma egli mi sembra incontrastabile,  che queste abitudini si formano in loro mediante la rapiditll di talune associazioni.  I fanciulli  percepiscono  negl’altri uomini de’ corpi simili al proprio: &si sperimentano alcuni  moti  spontanei  del  loro  corpo  ed  altri  simili  ne  percepiscono  nei  corpi  degl’altri  uomini. Queste  similitudini, ed  altre, che  si  manifestano  piu  tardi, determinano le associazioni di cui ho parlato. Ma  non solamente  i moti  volontari  che osserviamo negl’altri, ci  menano  a supporre  nel  loro  spirito  alcune  medincazioni. Ma  ancora  certi  moti  e cambiamenti  necessari, che son gli stessi effetti  meccanici  i quali  accompagnano  i sentimenti interni  dell'  anima, come  il  tremore  e la  pallidezza  nello  spavento, le  grida, e le  lagrime  nel  dolore, il  riso – risus signifiat laetitiam interiorem, lacrima significat dolorem --,  e il  tripudio  nell’allegrezza.  Questi  si  manifestano  incontanente da  se  medesimi, anche  ne’ fanciulli  appena  nati, principalmente i gridi ed il lamento che accompagnano il dolore. Concludiamo. Noi  poniamo  per mezzo di alcuni cambiamenti che osserviamo ne' corpi altrui pervenire a conoscere ciò che accade nel loro spirito. Questa conoscenza può essere meccanica o sia  il  risultamenlo  del  sentimento  prodotto  da  alcune  rapide  associazioni,  e può  essere  ancora  l’illazione  di  un  RAZIOCINIO legittimo di analogìa. Possiamo dir la stessa cosa in modo breve. Questa conoscenza può essere o istintiva o RAGIONATA. Da ciò si vede che non è necessaria  una prima CONVENZIONE (cf. Grice: Meaning has nothing to do with convention) fra gl’uomini acciò s’incomincino a intendere fra loro. LA NATURA rende gl’uomini tali che, conversando  insieme  essi  s’iiit  elidono  ENTENDONO naturalmente  anche  SENZA L’ISTITUZIONE del  linguaggio. Seguiamo  la  supposizione  de’due'solitari. Sebbene 1'uno abbia compreso ciò che accade nello spirito dell’altro, non tì è ancora un linguaggio propriamente detto – SENSU STRICTO, ma SENSO LATO; perchè non si ‘parla’ se non  quando SI CERCA DI FARSI INTENDERE (il papagallo – Maurice, Locke); e se  1’uno  de’due  individui  penetra  il  pensiero  dell’altro  (TELEMENTAZIONE) ciò  è accaduto senza che questi cercasse a farglielo conoscere –senza avere l’intenzione della sua intenzione communicativa di ser reconosciuta. I due individui di cui parliamo, osservano, eh’eglino sono stati compresi, ed allora CERCANO DI FARSI COMPRENDERE, e nasce cosi il primo linguaggio. Sviluppiamo  questa  dottrina. Abbiamo  veduto,  che  il  corpo  degl’altri  uomini  ci  presenta  alcuni  avvenimenti, la percezione de’quali ci fa conoscere ciò che accade nel loro spirito. Ciò LA CUI IDEA ECCITA L’IDEA DI UN’ALTRA COSA CHIAMASI SEGNO (Il fumo e segno del fuoco, la nubbe oscura e segno di piuvia. Nel corpo di un altr’uomo vi sono dunque de’SEGNI delle interne modificazioni dello spirito animatore di questo corpo. Siccome tali SEGNI son tali per la costituzione DELLA NOSTRA NATURA, cosi  si  chiamano  SEGNI NATURALI. Vi sono, in conseguenza, de’segni naturali de’pensieri o modi di essere dello spirito degl’altri uomini. Ma non solamente vi sono di quello o questo SEGNO NATURALE de’pensieri altrui; ma 1’uomo può conoscere che vi sono, cioè può conoscere che, con alcuni dati mezzi, si può manifestare altrui ciò che si sperimenta internamente nello spirito proprio. Supponiamo, che uno de’ due nomini supposti pianga, gridi, si lamenti, senza avere l’ intenzione dì manifestare all’altro il dolore, che egli sente; intanto 1’altro sapendo, che questi gridi,  e questi lamenti sono soliti ad accompagnare il dolore, conosce da questo segno il dolor dell’altro, ed accorre al soccorso di lui, questi perciò comprenderà da tutto questo che egli è stato compreso. E se avviene altra volta, che si trovi affetto dal dolore, ed in bisogno del soccorso  dell’altro, piange  e grida  coll’INTENZIONE (non solo volunta o desiderio) di  manifestare  all’altro il  proprio  dolore.  Così  gl’uomini  incominciano  dal  comprendersi scambievolmente. In  seguito  conoscono che  sono  stati  compresi,  e finalmente  si  determinano  a farsi  comprendere. Cosi si osserva in tutt’i fanciulli comunemente. A principio essi GRIDANO, e si lamentano costretti unicamente dalla forza del dolore, SENZ’AVER L’INTENZIONE di manifestarlo con questo o quello segno agl’altri, anzi senza sapere neppure che cosa alcuna si puo ESPRIMERE col pianto e colle grida. Ma appresso, avendo imparato che con tali segni si ottiene l’altrui soccorso, cominciano a valersene avvertitamente per manifestare il loro dolore,  e ricevere  il  soccorso  che  bramano.  Ciò  di  cui  gl’uomini  si  servono,  per  manifestare  agl’altri  i propri pensieri, chiamasi  SEGNO ARTIFICIALE. Un segno  naturale  divenne dunque  NATURALMENTE naturalmente  un segno ARTIFICIALE. Qui  ha  termine  l’educazione  della  natura  per  le  nostre  scambievoli comunicazicmi. La  natura  insegna  all’ uomo che  egli  può  farsi  intendere. E l’uomo  può  non  solamente  servirsi de’mezzi NATURALE che LA NATURA gl’ha mostrato per la COMUNICAZIONE NATURALE de’propri pensieri, ma può ancora  ritrovarne  degl’altri  simili.  Il  primo e più  semplice  mezzo di comunicazione NATURALE, NON ARTIFICIALE, che si offre allo spirito, si è quello di ripetere con riflessione ciò eh’egli fa dapprincipio, senza prevederne le conseguenze, cioè di riprodurre quelle azioni, per mezzo delle quali li si è fatto comprendere. Così si forma un primo linguaggio, che  può  chiamarsi  ‘linguaggio’  della  natura,  poiché  esso  non  si  compone  se  non  che  di questo o quello SEGNO NATURALE,  vale  a  dire  di  questo o quello  SEGNO di  cui  LA NATURA HA già  senza  di  noi  rivestito i nostri  pensieri  spreti,  per  renderli  sensibili  agl’altri. Il linguagio della  natura  è insufficiente per manifestare agli altri tutt’i  nostri  pensieri. Noi  abbiamo al  presente il  linguaggio de’suoni  articolati. I filosofi disputano sull’origine di esso. La quistione si versa  sull’esistenza,  e sulla  possibilità,  cioè  si  cerca; gl’uomini hanno esH DA SE stessi ISTITUITO il linguaggio. Questa ricerca suppone quest’altra. Gl’uomini abbandonati austusi possono istituire il linguaggio. I nostri sacri libri, c’insegnano che Adamo ed Èva (o l’uomo da Polifemo) SONO creati da divino (Polifemo) in uno stato adulto con delle conoscenze in istato di riflettere e di COMUNICARSI i loro pensieri.  Il divino  ù maqiiesta  all’uomo  innocente  ne’primi  istanti  della  creazione. Il divino (Polifemo) è dunque l’autore primitivo del linguaggio. Ma io suppongo, dice Condillac, che, qualche tempo dopo il diluvio, due bambini dell’uno, e dell’altro sesso siensi trariati ne’ deserti, avanti che conosceno 1’ aso de’ vocaboli. A fare questa supposizione,  egli dice,  io sono spinto dal fatto del giovane di Chartres rapportato nelle memorie dell’accademia delle  scienze. È questi del’età di 23 a 24 anni sordo e muto di nascita. Comincia con gran sorpresa di tutta la città tutto ad un colpo  a parlare.  Si  sa  da  lui che, tre  o quattro  mesi  prima, egli  udisce  il  suono  delle  campane,  ed  è  stato  estremamente  sorpreso  da  questa  sensazione novella ed incognita. In seguito gli è sortita una specie di acqua dell’orecchia sinistra, ed acquisce l’udito in tutte e due le orecchie. Egli impiega tre mesi ad ascoltare, senza nulla dire, assuefacendosi a ripetere  sotto  voce  le  parole,  ch’ali  udisce,  ed  esercitandosi  nella  pronunciazione,  e nelle  idee  legate  a’vocaboli. Io non so come questo fatto pu autorizzare il filosofo francese, a fare  la  supposizione di cui  parla,  se non  perché  ciò mena a poter  supporre, che due giovani di sesso diverso sordi e muti di nascita, possono traviarsi ne’deserti o ne’boschi, indi incontrarsi,  e dopo l’ incontro ricever tutti e due  rudito.  Questa supposizione non ha niente di assurdo; ed è perciò lecito al filosofo di cercare, se in una tale supposizione questi due giovani possano ISTITUIRE una società, ed un linguaggio. A ciò si può aggiungere, che si rapporta, essersi in vari tempi vari fanciulli trovati ne’boschi. Uno ne è sorpreso nell’Asia in compagnia de’ lupi, un altro dell’età di circa 12 anni in Weteravia, un altro di 16 è scontrato fra una torma di pecore selvatiche nell’Irlanda, un altro di nove fra gl’orsi nelle selve della Lituania. Uno ne fu scoperto presso ad Hamelen nella Sassonia, una fanciulla presso  a Lwlla nella provincia di Utrecht, ed un’altra è arrotata presso Chalons. Io per altro non comprendo come questi fanciulli abbiano potuto vivere, se sono stati abbandonati, o perduti prima di potersi alimentar da se stessi, ed in conseguenza prima di avere una lingua. Si potrebbe supporre che principiano a parlare, quando si smarrirono. Ma che poi, nella solitudine, interamente obliano quanto hanno imparato.  Or si domanda. Se due di questi di sesso diverso, si fossero per avventura incontrati nella stessa foresta, che  sarebbe egli  avvenuto? E per limitarci all’oggetto delle nostre ricerche, domandasi: avrebbero  essi  ISTITUITO una  lingua. Tralitsciando dunque, sull’origine del  linguaggio,  la  quistione  di  fatto, è egli  lecito  di  esaminare  quella  della  possibilità (cf. Grice on the contract in contractualism), o di  cercare  se  gl’uomini  abbandonati  a loro  stessi  possono  istituire  una  lingua? L’esame di una tal quistione è molto utile, per ben conoscere, e misurare le forze dello spirito umano,  e queste ricerche ipotetiche ci menano ancora a risultamenti che hanno luogo nel fatto reale. Io aggiungo dippiu, che alcuni autori [ALIGHIERI, GELLI] anche su l’autorità de’nostri libri divini, hanno creduto, che le lingue attuali – comme la lingua italiana -- sieno state istituite dagl’uomini coll’uso delle loro forze naturali. Ecco come può essere accaduta la cosa. Nel famoso avvenimento  della  costruzione della torre di Babele,  per forza miracolosa,  è cancellata dalla mente degl’uomini la memoria intera del primitivo linguaggio. In seguito di un tale miracolo, gl’uomini si divideno a torme secondo i rapporti di parentela e di amicizia, e si stabilirono  hi diverse  parti  della terra. Sono dunque  abbandonati  a se stessi, per istituirsi un  linguaggio; e così  perduto  interamente  il  linguaggio  primitivo dì  cui è stato autore il divino stesso, le  nuove lingue, che nasceno sulla terra, sono un prodotto dello spirito umano. In questo modo si spiega come gl’uomini perduto,  per forza del miracolo,  il  primitivo  linguaggio, non  si  sieno  più  scambievolmente  intesi  ne’linguaggi  rispettivi. Questa  opinione  ammette  un  solo  miracolo,  quale è quello  della  memoria  perduta  del  linguaggio  primitivo, laddove nell’opinione  contraria  bisogna  supporre  una  gran  moltitudine di  miracoli,  l’uno in forza del quale gli uomini abbiano perduto la memoria del linguaggio primitivo, e gli altri con cui il divino abbia istitue i diversi  linguaggi, che hanno luogo dopo dell’avvenimento. Ora si  puo  dire,  non  e verisimile, che  il divio  moltiplica inutilmente i miracoli. Checché ne sia di tale opinione, noi esamineremo qui la quistione della possibilifb. il rispetto che il filosofo deve alla religione divina, che c’illumina, mi conduce a questa digressione. Per esaminar la quistione proposta continuiamo la supposizione di sopra, e partiamo dal punto ove siam rimasti. Abbiamo veduto l.° che gl’uomini per natura si comprendono scambievolmente. 2.° che  conoscono di essere stati compresi. 3.° che con ciò si fanno naturalmente un linguaggio artificiale, che è il linguaggio della natura. Vale ad ire che fanno uso di questo o quello segno naturale, per manifestare agl’altri i propri pensieri. Ma il bisogno non potrebbe spingere gl’uomini, a migliorare, cioè ad acrescere questo linguaggio della natura, ritrovando de’segni analoghi? Il pianto ed i gemiti  manifestano  -- risus significat laetitiam interiorem -- agli  altri  il  dolore  da  cui  un  individuo  è affetto. Ma non manifestano lyica la CAUSA del dolore.  Ora gl’uomini hanno spesso bisogno, per essere soccorsi, dì manifestare agl’altri la CAUSA del loro dolore. Per tale oggetto alcune volte bastano le circostanze. Uno de’due  suppposti  solitari  cade  in  una  fosa   egli  non  può  senza  l’al trui soccorso cavarsene  fuora. Egli  grida -- 1’altro accorre, e si avvede della CAUSA del dolore del suo simile. Parimente se uno de’due  è inseguito da una bestia feroce, e grida, l’altro conosce dalla circostanza la causa del dolore del compagno. Spesso nondimeno la CAUSA del dolore non apparisce dalle circostanze.Tutti generalmente acquistiamo l’abito, allorché ci sentiamo in alcuna parte addolorati, di recare colà la mano. Se dunque uno de’due supposti solitari sente dolore in  qualche  parte, egli  grida, e la mano corre naturalmente alla  parte addolorata. L’altro accorrendo alle grida, e spingendo  per  avventura lo sguardo là, dove è corsa la mano dell’altro conosce il luogo del dolore e se la CAUSA del dolore è una ferita, o una contusione, o qualche altra cosa visible; allora conosce chiaramente questa causa. Qualora l’uno vorrà porgere all’altro alcuna cosa, amendue stenderanno la mano l’uno per darla, el’altro  per  prenderla. Questo  moto  della  mano  potranno  da  si  naturale  divenire  un SEGNO ARTIFICIALE, così  si  puo  indicare  la  causa  del  dolore  recando la mano su la parte addolorata; e si potrà da uno de’due individui volendo dire all’altro che non è vicino qualche cosa; e, non volendo o non potendo muoversi, stendere la mano con entro la cosa che gli vuol PORGERE. L’altro similmente se cosa alcuna brama aver dal compagno, porge la mano vota per prendere ciò che desidera. Fin qui non si esce ancora dal linguaggio della natura. Ma già siamo al termine di un altro linguaggio a cui il primo ci  mena. Vi sono due specie di cose di cui gl’uomini hanno bisogno di eccitare le idee negl’altri. Alcune  possono  nel momento  stesso colpire i sensi  tanto  di colui che  vuol parlare quanto di colui a cui si vuol parlare. Altre sono lontane o almeno  invisibili, e non esistono nel momento, se non che nello spirito di colui che vuol farsi comprendere. Tiguardo alle prime, basta che colui che vuol parlare cioè che vuol farsi comprendere ecciti l’attenzione del suo compagno, e la  diriga  sull’oggetto  che  gli  vuol  mostrare.  Abbiamo veduto  che  il  gesto  può  esser  NATURALE e divenire  un  SEGNO ARTIFICIALE. Ma alcune volte non è cosi. Supponiamo che uno de’due solitari voglia mostrare all’altro un oggetto lontano  ma  che  può  esser  veduto. Egli  avverte il  suo  compagno  per un  GRIDO, ed  allora  che  questi  volge  a lui  gli  sguardi. Il  primo  dirige  Io  sguardo  su  l'oggetto (un serpe_, che vuole mostrare all’altro, e fa uso del dito (fingerwave, handwave), per meglio mostrargli la direzione, che  prende lo sguardo suo. L’altro rimite, e la sua curiosità lo porta ad osservare ciò che occupa il suo compagno. Questo grido, questo gesto, forma una prima spezie  d’un SEGNO ISTITUITO (stablished),  che  si  possono chiamare segni  indicatori (INDICARE – CONTENUTO DITTIVO, INDEX).  Osservate  che  il segno di  cui  parlo non  e un  segno INVOLUNTARIO SPONTANEO  INCONTROLLABILE e naturale,  perchè  il  grido  è naturale  nel  dolore e nel piacere. Il grido diviene da naturale artificiale *per* (con l’oggetto di) denotare il dolore, o il piacere. Ma l’uno de’ due solitari avendo osservato, che l’altro, quando egli manda fuori il grido, diriga a lui  il proprio sguardo, FA USO CONTROLATO E VOLONTARIO di un grido  per  obbligare  il  compagno  a fissare  su  di  lui  lo  sgiiardo. Cosi, il  grido  si  estende  a denotare ciò che denota questa  proposizione di modo impoerativo: “volgiti  a me.” Inoltre lo stendere [verbo in infinitivo – cf. Grice MEANING] il dito (finger wave, hand wave) verso l’oggetto (serpe) che si vuol mostrare non è un SEGNO NATURALE, ma un segno ICONICO analogico, poiché vi ha una similitudine fra il moto che fa il dito (finger-wave handwave: I KNOW THE ROUTE --- oohh: “VIENI”), ed il moto che  far  dovrebbe  il  proprio  corpo  per  ginngerc  all’oggetto che  si  vuol  mostrare. Questi due  moti  avendo  la  stessa  direzione,  o pure, la  direzione del  dito  (FINGERWAVE, HANDWAVE, I KNOW THE ROUTE) è identica colla direzione che prende lo sguardo.  Per tal ragione io credo, che  il gesto di  cui  parlo dove riguardarsi  piuttosto  come  un  SEGNO ICONICO IMITATIVO ANALOGICO,  poiché  il  moto  del  dito (fingerwave, handwave)  imita  nella  direzione  il  moto  che  far  dovrebbe il proprio corpo per giungere pel cammino più corto all’oggetto che si vuol mostrare, o pure imita la direzione dello sguardo. Ma servendo tal gesto ad indicare un’oggetto (UN TIGRE), che può nello stesso momento colpire i sensi de' due solitari, gli si pùò dare il nome di SEGNO INDICATORE (INDEX – INDICAT – DICTIVE CONTENT, CONETUTO DITTIVO). Questi due segni indicatori di cui parliamo equivalgono; a queste due proposizioni in modo imperativo: “volgiti a me” + “guarda là”. Vi ha inoltre de’ segni imitativi, i quali servono a denotare alcune cose future,  od altre  cose che nel momento non possono colpire i sensi di tutti e due i solitari. Supponiamo, che uno di questi sia in A (St. Giles), 1'altro sia lontano ma a vista del primo in B (Banbury), che l’oggetto lontano ma a vista di tutti e due sia in C (Christ Church). Inoltre cl» il primo, non potendo muoversi per andare io C voglia manifestare all’altro che vada in C, e che prendendo l’oggetto bramato ivi posto, lo rechi a lui in  A. Ecco come io immagino, che la cosa potrà farsi. Il primo, con un grido,eccita 1'attenzione del compagno. Indi STENDE IL DITTO (FINGER-WAVE) nella direzione della linea fra A e B. Poi, la muoverà nella direzione di una linea parallela a quella fra B e _C_. Con questo moto, egli ‘dice’ (INDICA – ESPLICA ma non IMPLICA) al compagno che vada da B in C. E questo moto è un segno IMITATIVO del moto che il compagno dee fare [INDICANTE DI UNA VOLIZIONE], per secondare il desiderio dell’altro'io  A. Questo moto, che il compagno dee fare è *una cosa futura* che non può nel momento colpire i sensi de’due solitari. Ecco dunque come con de’segni imitativi si possono denotare un’oggetto assente. Supponiamo, inoltre, che l'individuo posto in B si conduca in C. L’altro, che si trova in A, stende il suo braccio da A verso C in posizione orizzontale. Indi fa un moto col braccio imitativo di quello che dee fare il compagno per prendere l’oggetto posto in C. Dopo di ciò ritornando a mettere il braccio nella stessa posizione orizzontale, lo ritrade a se con un moto contrario a quello, con cui rha steso, e che è imitativo di quello che dee fare il compagno per *venire* da C in A. Con i segni imitative dunque si puo denotare le cose invisibili nel momento. Questi segni imitativi si possono eseguire in vari modi. Così, per denotare una *serpe* si può sull’arena designare la sua forma, o il suo moto tortuoso. Abbiamo veduto che vi sono de’segni naturali delle nostre  interne  modificazioni, e che  UN SEGNO ORIGINALMENTE NATURE PUO DIVENIRE ARTIFICIALE, e così costituire un primo linguaggio, significazione, comunicazione, manifestazione, che abbiamo chimato ‘linguaggio’ della natura (cf. Condorcet, ‘comunicazione d’azione’).  Abbiamo detto inoltre che 1’uomo può con altri segni accrescere questo ‘linguaggio’ della natura, ed abbiamo chiamato i segni che accrescono il linguaggio della natura, segni indicatori e segni imitativi. Ora qual principio può guidare l’uomo a ritrovare le ultiqie SPECIE DI SEGNI? Nella logica pura lo spirito è naenato nel passare analiticamente d’una proposizione ad un’altra, ad una certa similitudine che passa fra l’una e l’altra. Il  princìpio della similitudine è dunque un principio d’invenzione, e questo principio ha condotto gl’uomini, partendo dal ‘linguaggio’ della natura, a ritrovare i segni indicatori ed i segni imitativi, queste due SPECIE DI SEGNI possono perciò chiamarsi segni ANALOGICI. Difatto, fra il moto del mio dito (finger wave, handwave), con cui mostro l’oggetto lontano, ed il moto che dovrei fare col mio corpo, per arrivare, pel cammino più breve all’oggetto, vi si osserva una  similitudine:  una  certa  similitudine si osserva eziandio tra un  segno analogico imitativo e ciò di cui è  l'imitazione. Le interne modìficazioni dello spirito possono manifestarsi per mezzo de’moti del corpo. Il desiderio, il rifiuto,  l’avversione, il disostosi esprimono per mezzo de’moti del braccio, della testa,  e per mezzo di quelli del corpo intero, moti piò o meno vivi, secondo la vivacità, con cui ci portiamo verso di un oggetto, o ce ne allontaniamo. Tutti i sentimenti dell’anima possono esser espressi dalle posizioni del corpo. Esse dipingono di una maniera sensibile l’indifferenza, l’incertezza,  l’attenzione, e le altre affezioni interne. Ora se ripetendo queste azioni, e posizioni del corpo, si denota insieme, che esse non si riferiscono ad affezioni presenti, allora denoteranno le modificazioni, da cui siamo stati affetti.  L’analògia  acquista  spesso una grande estensione. Cosi,  per esempio, quando voglio attendere ad un oggetto, die colpisce i miei occhi, dirigo lo sguardo verso di esso. Questa  direzione (GRICE’S FROWN) è segno dell’attenzione dello spirito. Ma io posso ancora rivolgere la mia attenzione ad un oggetto invisibile. Se dunque per denotare quest’ultima attenzione,  mi  servo  della direzione  dello  sguardo, questo  segno  si  estende al di là di ciò, che naturalmente denota.  Allora  che io peso un corpo,  lo paragono ad un altro; pesare  è dunque  paragonare. Ma  paragonare  non  è sempre  pesare;  perciò, quando,  per  esprimere l’azione intellettuale che paragona, io prendo nelle due mani de’corpi, come fo quando viglio pesarli, questa azione è trasportata a denotare  *più* [IMPLICATURA come eccedenti – ‘Hasn’t been to prison yet: ‘He might’)  di  quello  che  denota  in  origine.  Questa  TERZA  specie  di  segni,  che  l’analogìa  somministra  agl’uomini, si  puo  chiamare  SEGNO FIGURATO. L’unione  de’ segni  indicatori, imitativi, o figurati  costituisce il  linguaggio  analogico. Cosi, un segno naturale, divenendo segno artificiale, costitoiscono il linguaggio della natura. Gl’uomini, guidati dal principio della similitudine, partendo dal principio della natura, inventano il linguaggio analogico. Ma fa d’uopo considerare l’ultimo linguaggio,  di cui abbìam parlato, in  colui che per parlarlo lo trova: ed in colui che l’intende. Nel primo, il principio della similitudine guida la meditazione a produrre nuove idee. Nel secondo il principio della similitudine riproduce alcune idee simili a quelle che modificano attualmente lo spirito. Quando colui che vuol parlare fa uso il primo di alcuni gesti, per denotare alcuni dati pensieri, li, guidato dall’analogia, INVENTA QUESTI SEGNI (GRICE DEUTERO-ESPERANTO), e questi segni, e questa invenzione è un prodotto della meditazione. Ma colui che ascolta intende questi segni in forza del principio meccanico dell’associazione dellé idee. Fra i principi particolari compresi sotto questo principio generale, si contiene il principio della similitudine. In forza di questo principio, il moto del dito riproduce l'idea del moto simile del corpo intero, e questa riproduce quella delle modificazioni interne dello spirito legate col moto del corpo intero. Colui che istituisce il linguaggio per farsi intendere è attivo. Quegli che intende il linguaggio btituito è passivo. I gesti, i moti del corpo, ed un SUONO INARTICOLATO costitubeono il linguaggio chiamato da Condillac ‘linguaggio’ o COMUNICAZIONE O SEGNO d’azione. Su di esso deve fare ancora due osservazioni. 1..° un tal ‘linguaggio’ o SIGNIFICAZIONE o COMUNICAZIONE esiste ancora e esso accompagna quello del SUONO ARTICOLATO. Un oratore parla eziandio coi gesti, colla posizione del corpo, co’ moti del corpo, e principalmente co’moti degl’occhi (TURN TAKING IN CONVERSATION – GRICE).  Ciò che si chiama mimica consiste appunto nell’arte di far concordare il ‘linguaggio’ d’azione con quello del suono  articolato. 2.° col solo linguaggio d’azione, anche dopo l’istituzione di quello del suono ARTICOLATO, alcune nazioni incivilite esprimevano de’ lunghi discorsi. PRESSO I ROMANI i pantomimi rappresentano de’pezzi interi, senza PRO-FERIRE (utter) una parola (PARABOLA), li bisogna dunque, che i pantomimi, partendo dal linguaggio della natura prendeno l’analogb  per guida, e così poterono pervenire a farsi intendere. La scrittura santa ci somministra ne’profeti molti esempi di questo linguaggio analogico d’azione. Così, per darne un esempio, ad ogetto di denotare che la Giudea ch’è imita con Dio, è poi stata da Dio rigettata e dispersa per la sua superbia ed idolatria, il profeta Geremia, per l’ordine di Dio, si cinge con una cintura di lino i lombi, indi si toglie questa cintura, e presso l’Eufrate in un forame di una pietra la nasconde. Dopo molti giorni, ritorna aprendere la nascosta cintura, e la trova infracidita in modo, cf)’ è inutile per qualunque uso. Nella profezia di Geremia si possotm trovare molti esempi di questo linguaggio analogico d’azione. Se i moti del nostro corpo da quello o questo SEGNO NATURALE divenne il SEGNO ARTIFICIALE, e se questo linguaggio può essere accresciuto dall’analogia, quello d’un SUONO che da SUONO NATURALE è ancora divenuto un SEGNO ARTIFICIALE (“Ouch”), non puo similmente essere accrescinto dall’analogia stessa. Se un selvaggio, per denotare il moto che dee fare, secondo il suo desiderio, il suo compagno, può servirsi di un moto simile del suo DITO (hand-wave, finger-wave), perchè, per *denotare* il muggito del bove, il belare delle pecore, il rumore del tuono, non puo egli adoperare un suono simile. L'analogia  che 1’ha menato all’invenzione dei primi segni, dee menarlo ancora all’invenzione de’secondi. Il bisogno di *denotare* questi suoni degl’oggetti o le cose sonori,  mena il  sdvaggio a produrre fuori de’ suoni  imitativi (ouch), e così nascono le prime voci radicali del linguaggio de’ suoni ARTICOLATI. Questi suoni non poterono essere dapprincipio se non che mono-sillabi, come lo prova l’esempio de’fanciulli (“da”). Ma l’analogia non è il solo principio del linguaggio del suono ARTICOLATO, poiché non  sempre si debbono *denotare* un _suono_, o una cosa sonora (OUCH). Per denotare dunque le cose che non mandano suono, l'analogia fa però conoscere agl’uomini, che possono servirà d’un suono ARTICOLATO (non-iconico), per far à comprendere.  Ciò  posto  se  un selvaggio  si  trova  nel  bisogno  di  farsi  comprendere, se  non  trova  altro  mezzo  per  ottenere  il  suo  fine, se  non  quello  del suono – la profferenza vocale, OUCH --, perchè  non  puo  egli  produrre un suono arbitrario, il quale, poi compreso dall’altro, divenne un segno comune – ESTABLISHED. Per rendere sensibile ciò che dico,supponiamo, che ì due solitari immaginati siensi perduti di fbta, e che l’uno voglia ritrovar 1’altro, egli conosce certamente che non puo far comprendere all’altro questa sua volontà se non che per mezzo d’un suono. Egli manda dunque fuori un grido (“OOOOH – Indian love song”). Questo GRIDO (OOOOH – Indian love call – cf. OUCH) da principio non è, come ognun vede, se non che un puro EFFETTO NATURALE (cf. GRICE, OUCH). Se il DOLORE è naturalinente sonito d’un suono INARTICOLATO (“Ouch”), dal  pianto (lacrima significat dolorem, risus significat laetitiam interiorem) e dal gemito (“OUCH” – groan); perchè  il  bisogno  di  spiegarsi, e di  MANDAR FUORI (PRO-FERRIRE) un  suono, non  potrà  esser  seguito  da  un  suono  QUALE che  siasi? Noi non possiamo determinar la RAGIONE (non meramente CAUSA) per cui il selvaggio MANDA FUORI un tal suono piuttosto che un altro, come, volendo camminare, non possiamo conoscere la ragione (e non meramente causa) perchè abbiamo mosso il piede diritto anzi che il sinistro, o questo anzi che quello. Questa ragione (e non meramente causa) può consistere, almeno in parte, nella varia posizióne meccanica del nostro cervello, e generalmente di tutto il nostro corpo. Ma  saniamo  lo  sviluppa  della  nostih  ipotesi.  L’ALTRO selvaggio, sentendo il  grido, di cui si parla, accorre a  ritrovare il suo compagno (principio d’aiuta mutua conversazionale), e come amendue osservano che un tal grido HA LA FORZA (VIM, SIGNIFICATIO) di far che l’uno ritorni all’altro, i due solitari se ne serviranno appostatamente. lu tal caso la voce di cui parliamo ha lo stesso significato del verbo “vieni.” (GRICE: “I KNOW THE ROUTE”). Può dunque l’uomo ritrovare un suono ARTICOLATO NON IMITATIVO (arbitrario, non-iconico, artificiale), per denotare agli altri le sue interne modificazioni – e anche una modificazione, per esempio, del clima (“Piove – Andiamo alla caverna”). Egli può trovarsi nel bisogno di farsi comprendere dal suo simile con un suono. Da un tal BISOGNO nasce la VOLONTÀ e INTENZIONE di mandar fuori un suono. Questa volontà ha il suo effetto, ed un suono è da lui mandato fuori. Questo suono è tale e non altro, perchè tale e non altro è lo stato fisico del corpo che produce il suono (o del clima esterno – stato esterno, non interno – “Piove – andiamo alla caverna), e lo STATO morale ancora dello spirito animatore di questo corpo. Ecco spigata la nascita del SUONO ARBITRARIO (Ouch). Ciò che ho detto è provato coll’esempio de’fanciulli. Eglino innanzi che abbiano appreso a parlare,  quando bramano alcuna cosa ardentemente, nell’atto che si sforzano di acceimarla co’gesti, e co’ movimenti  del  corpo, per  lo  più  proferiscono  insieme  una  qualche  voce, poiché lo spirito, quando si trova in qualchegr ave bisogno mette ad un tempo tutte le sue facoltà in azione. Questo è comune alle BESTIE ancora. Anzi i sordi  muti medesimi, benché nemmeno sappiano di aver voce, ciò non ostante per non so qual movimento meccanico,  mentre  s'impegnano di spiegarsi co’lorogesti, principalmente quando si tratta di cose che molto l’interessano e che  non  possono  facilmente farsi  comprendere, mandano  anch’essi  quando  una,  e quando un’ altra voce. Gl’uomini possono dunque istituire de’ SUONO ARTICOLATO ANALOGICO (ouch ouch),  e possono  istituire  ancora  un SUONO ARTICOLATO ARBITRARIO. Lo chiamo  ARBITRARIO non  già  perchè  e prodotto senza  una  ragion  sufficiente, ma  perchè  non  e un SUONO ICONICO O IMITATIVO O ANALOGICO. Qual similitudine, per esempio, può mai trovarsi fra questo suono “cielo,” ed il complesso delle sensazioni visuali che ci desta in una notte tranquilla il firmamento 7£ perchè la costituzione fisica e morale, in cui si son trovati gl’inventori delle lingue – come la lingua latina, CAELVM, e l’italiana, CIELO -- allora che sono ndl  bisogno di, con un suono, *denotare* uno stesso oggetto, è stata varia non solamente per la natura, e per gl’abiti contratti, ma eziandio per i climi, ed i siti. Perciò  in  diversi  luoghi  di  questo  globo  terraqueo  nasceno  DIVERSI suoni  primitivi – cf. glottal clicks -- , come  è provato  per  le  radici  di  tutte  le  lingue  cognite. n fatto  de’fanciulli  prova  senza  replica che  gl’uomini  possono  arrivare  a comprendere  il  linguaggio  arbitrario. E meditando  attentamente  su  di  questo  fatto  si  può  intendere come  ciò  possa  avvenire.  Supponiamo  che  un  fanciullo' apprende il *significato* del vocabolo ‘gallina’ (Grice, SHAGGY), il che può accadere unendosi d’alcuno alla *pronunciazione* (realizzazione fisica) del vocabolo “gallina” (shaggy) l’*indicazione* del volatile dal vocabolo denotato. Supponiamo, inoltre, che il fanciullo vede una gallina _morta_  e che il giorno seguente ascolti d’uno della famiglia questa proposizione: la gallina jeri morì, si accorgerà che si vuole denotare l’avvenimento della morte della gallina accaduto il  giorno  innanzi.  Supponiamo ancora che la proposizione: “La gallina jeri morì” siasi udita più volte dal fanciullo in modo che egli 1'abbia impressa nella sua memoria; « che avendo veduto una cagna partorita il giorno avanti, e sapendo il signifìcato del vocabolo “cagna”, ascolti la seguente proposizione: “La cagna jeri  partorì.” Ecco la serie de’  fatti  intellettuali che in tal caso hanno luogo nello  spirito del  fanciullo. l.°  egli  intende  che, colla  proposizone,  “La  cagna  jeri  partorì”,  si  denota  il  parto  della  cagna  da  lui  il  giorno  antecedente  osservato: 2.o. la  pronunciazione del vocabolo “jeri,” per la le dell’associazione delle idee, riproduce nel suo spirito l’altra proposizione, “La gallina jeri mori.” 3.° volendo  intendere  il  significato  di  ciascun  vocabolo  delle  due  proposizioni,  il  fanciullo  dirige  la  meditazione  su  le  stesse. 4. paragonando le due proposizioni fra di esse, e coi  fatti  dalle  stesse  denotate,  non  meno  che  i fatti  stessi  fra  di  loro, il  fanciullo  vede  che  le  due  proposizioni  sono  IDENTICHE [token] nel  vocabolo  “jeri” e che  i due  fatti  significati  sono  IDENTICI nella circostanza del tempo in cui sono accaduti;  essendo tutti  e due accaduti nel GIORNO PRECEDENTE A QUELLO IN CUI SI PARLA. 5.° con questi paragoni il fanciullo intende il significato del vocabolo “jeri” ISOLAMENTE considerato (GRICE: UTTERANCE-PART). 6.° dopo di ciò comprende eziandio il significato ISOLATO  (GRICE UTTERANCE PART) de’ vocaboli “morì” e “partorì”; poiché  avendo  compreso  il  significato  in  confuso  delle  due  proposizioni,  ed  indi  il  significato  distinto  del  vocabolo “jeri,” e sapendo  dall’  altra  parte  il  significato  distinto  de’vocaboli “gallina” e “cagna”, conosce che  i vocaboli  “morì” e “partorì”  sono  destinati  a denotare  i due  avvenimenti,  e ne  apprende  perciò  il  loro  distinto  significato. Questo  esempio  fa  vedere  che  i fanciulli meditano (BROOD OVER) prima di apprendere il linguaggio più di quello che comunemente si crede; e che le nozioni soggettive d’identità, e dì diversità sono ANTECEDENTI alla conoscenza della propria lìngua – latina, italiana --, e servono ai  fanciulli  per  farla  loro  apprendere.  I vocaboli  o PAROLE o denotano gl’oggetti de’nostri  pensieri, o l’azione dello spirito su di questi oggetti. “Pietro è con Paolo”, i vocaboli  Pietro e Paolo denotano  gl’oggetti  de' nostri  pensieri ; i vocaboli,  con denotano l'azione dello spirito su dì quest’oggetti. Ma  ciò  richiede  ancora  una  maggiore  spiegazione. Il vocabolo “con” *significa* l’azione dello spirito che  attribuisce  a Paolo  il  rapporto di  *compagnia*  con  Pietro.  Ma  acciocché  lo  spirito  ha la  nozione  soggettiva  di  tal  rapporto, è necessaria  la  comparazione di  Pietro  con  Paolo  riguardo  alla  loro  esistenza  in  un  certo  tempo ed  in  un  certo  spazio. Questa comparazione aggiunge all'idea assoluta di Paolo il rapporto di compagnia con Pietro. La voce, parola, vocabolo (preposizione), “con” esprime un tal rapporto, e per  questa  ragione un tal vocabolo può  riguardarsi  eziandio  come  SEGNO dell’azione  dello  spirito  che  compara. Pur  tuttavia essendo il rapporto un prodotto della comparazione preliminare all’atto del giudizio, è maggior esattezza il distinguere i vocaboli che denotano l’azione dello spirito, in vocaboli di giudizio (“è” – Frege, segno d’asserzione) ed in vocaboli di rapporto (“con”).  £ questa distinzione si trova in un opuscolo di GIGLI (si veda) intitulato “Metafisica  del  linguaggio” (Milano). Secondo  questa  osservazione  i vocaboli  si  distinguono  in  vocabbli  di  cosa,  in  vocaboli  di  giudizio  ed  in  vocaboli  di  rapporto.  Così  nella  proposizione, “Pietro  è con  Paolo,” [O PER USARE L’ESEMPIO DI GRICE, PIETRO STRAWSON E FRA PAOLO GRICE E DAVIDE PEARS] i vocaboli “Pietro” (Strawson) e “Paolo” (Grice) – o CATONE E CICERONE -- son vocaboli di cosa o oggeto [linguaggio-oggeto], il vocabolo  i,  esprimendo l’atto del giudizio, è vocabolo di giudizio,  ed il vocabolo “con” [o FRA] è vocabolo di rapporto. Esso denota insime l’azione comparativa,  ed  il  rapporto  di  questa  azione.  Secondo  la  grammatica  generale  e ragionata  di  Porto Reale,  i vocaboli  si  distii^cno  in  due  classi. Alcuni  vocaboli – alcune parole -- significano  gli  oggetti  o CONTENUTO de’nostri  pensieri; altri  significano  la  forma, e la  maniera  de’ nostri  pensieri  di  cui  la  principale  è il  giudizio. Questa  distinzione  mi  sembra  giusta è chiara. I vocaboli o le parole, MATERIALMENTE considerati [SOOT, SUIT] sono o radicali o derivati, 0 toHituiti. Radicali, o PRIMITIVI, son quelli vocaboli o quelle parole, che non nascoti  derivati, e sostituiti, e cosi ad accrescere  notabilmente il linguaggio e la lingua italiana (CASA, CASETTA, CASINA). Difatti  quanti nomi  sostantivi  non  si  possono  trarre  dagl’aggettivi,  quanti  aggettivi  da'sostantivi,  quanti  nomi  da'verbi,  quanti  verbi  da'  nomi? I sostantivi  nerezza, bianchezza,  lunghezza  ec.  tutti  vengono  da  nero,  BIANCO,  lungo. Gl’aggettivi celeste, terrestre, marmo ec. derivano da CIELO, terra, mare. I nomi speranza, amore, dolore, volontà  ec. derivano dai verbi sperare, amare, dolere, volere. 1wirbi “velare”, vestire ec.  nascono  da  velo,  veste.  Inoltre  quante  parole  formar  non  si possono dall’unione di due o più altre? I LATINI unendo il verbo “esse” a varie  PROPOSIZIONI,  ne facevano: AD-ESSE,  ab-esse, obesse, in-esse, proc-esse, prod-esse, sub-esse;  super-esse,  inter-esse.  Dall’unione poi di un nome e di un verbo, quanti altri composti  facessero  i greci  e gl’ebrei,  e quanti  ne  facciano i cinesi,  e tutti  gl’orientali,  è abbastanza  noto  agl’eruditi. Tutte le lingue originali, che  diconsi  lingue  madri,  hanno pochissime radici primitive, per mezzo delle varie combinazioni di queste compongono un gran  numero di vocaboli. Gl’uomini dunque, per MANIFESTARE agl’altri i propri pensieri, hanno potuto istituire il linguaggio dei suoni articolati. Questa invenzione è la  causa  principale che  ha  condotto  il  geqere  umano  a quel  grado  di  coltura  e di  perfezione in cui oggi lo vediamo. IL LINGUAGGIO FA L’ANALISI del pensiere [cf. GRICE SIMPLE IDEAS PREDICATES PROPOSITIONAL CONTENT], e come sia un valevole soccorso per la meditazione. Ma indipendentemente dalla influenza che ha pel progresso delle nòstre conoscenze, considerato  riguardo  all’individuo  -- o gl’individui, i conversanti -- che se ne serve,  ne ha una notabilissima considerato riguardo alla  società, e relativamente all’individuo,  che ascolta e riceve le altrui conoscenze. Il linguaggio può essere considerato come un mezzo che fa progredire lo spirito nella propria meditazione; ed ancora come un MEZZO DI COMUNICAZIONE scambievole de’pensieri degl’uomini. Nel primo caso serve d’istrumento  all’azione  meditativa, per  ritrovare  la  verità;  nel  secondo  presenta  allo  spirito  de’nuovi  materiali  per  le  sue  conoscenze.  Gl’uomini non potendo esistere in tutti i luoghi nè in  tutti  i tempi; segue  che  non  tutti  possono  osservare  tutti  i  fatti. Un uomo può perciò aver osservato de’fatti che un altro non ha osservato (IL POMMO E EDIBILE). Se dunque il primo COMUNICA al secondo le sue osservazioni, questi conosce de’ fatti che non ha osservato; e questa conoscenza ha per motivo1’altrui testimonianza, e costituisce ciò che si chiama certezza morale. Domandate, per esempio, ad un napolitano, il quale non sia mai uscito di questa città, perche egli crede l’ esistenza di tante altre città, di Roma, di Milano, di Parigi, di Madrid, di Londra, di Timbuctoo d’Atlantide d’Utopia ec. Vi adduce per motivo la testimonianza d’altri uomini che hanno veduto le città nominate, ed egli è tanto certo dell’esistenza di queste quanto lo sarebbe, se le vedes» co’propri occhi. Non basta che un uomo conosca un fatto che un altro ignora. È necessario  che abbia la volontà di NARRARE – e narrare il vero [GRICE, il principio dell’aiuta conversazionale], afllnchè l’altro non è dalla testimonianza del primo *ingannato*. Per  disgrazia  dell’umanità  la  volontà  d’ ingannare  i  propri  simili  si  trova  non  poche  volte  negl’uomini; e non poche volte ancora accade che gl’uomini  INGANNINO [mislead] non  già perchè  VOGLIONO INGANNARE [wilfully mislead], ma perchè  O non hanno conosciuta esattamente il vero, O sono stati d’altri ingannati. Da ciò lo scetticismo prende il motivo di combattere la certezza morale. Ma dicano quello che vogliono gli scettici, l’esperienza ci manifesta  queste  due  verità,  l.° un  uomo  può  aver  conosciuto de’fatti che  un  altro,  o non  puo  conoscere o non conosce. 2.° vi sono alcuni fatti di tal natura, su de’quali non si trova giammai concordemente fallace la testimonianza di coloro che gl’hanno osservati. Non si è trovata giammai fallace la testimonianza di coloro che sono stati in Napoli nello  assicurarmi  dell’esistenza  di  questa  città. L’esperienza stessa me ne ha assicurato, poiché  essendo  io  stato  in  Napoli (ma nato a TROPEA),  ho  ammirato  io  stesso  co’miei  occhi  questa   magnifica  città, ed ho così trovata verace l’altrui testimonianza. La stessa esperienza ripeto circa molti altri fatti. È dunque una verità di esperienza quella che stabilisce,  essere la concorde testimonianza di altri uomini circa alcuni fatti, un motivo leggittimo dei nostri giudizi  Vi sono, è vero, degl’uomini che narrano de' fatti de’ quali non sono stati testimoni  oculari,  e su de’quali sono stati d’altri INGANNATI [deceived], e vi sono ancora di quelli che volontariamente MENTISCONO [lie]. Ma vi sono eziandìo de’testimoni non solamente oculari di alcuni fatti, ma testimoni tali che non somministrano alcun motivo di dubitare  della  loro  veracità.  È questa una verità che la propria giornaliera  esperienza  ci  manifesta.  Chiunque  non  ha  veduto  Bonaparte è  sicuro  nulla    meno, per  la  testimonianza  di  altri , che  vi  sia  stato  un  uomo  così  chiamato, il  quale  ha  esercitato  il  sommo potere nella Francia, perde  poi  il  trono, ed è MORTO PRIGIONERO nell’Isola di S. Siena Elena. Cf. Grice, I KNOW CORSICA, I KNOW OF CORSICA. A suo  luogo  parleremo de’limiti  della  certezza  morale. Qui  mi son ristretto a stabilire la sua esistenza. Per istabilirla ho stimato di salire a’suoi primi princìpi. Ho fatto vedere che un uomo può intendere un altro, che l’uomo può voler essere inteso, e che da ciò nasce la prima SIGNI-FICAZIONE, il primo SISTEMA DI COMUNICAZIONE o linguaggio chiamato linguaggio della natura. L’analogia può accrescere un tale linguaggio e far  nascere ancora alcuni vocaboli radicali analogici. Il bisogno può  menare poi gl’uomini a stabilire altri vocaboli radicali arbitrari; e che così ha potuto nascere il linguaggio, de’suoni articolati. L’esperienza m’insegna che vi sono delle cose circa le quali altri non s’ingannano, nè si propongono d’ingannarmi. Da  ciò  concludo che  l’altrui  testimonianza,  cioè il linguaggio volontario degl’altr’uomini, può in molti casi,  circa ì fatti, essere un motivo legittimo  de’ nostri  giudizi. Io non posso coesistere a tutte le generazioni, ed  a  tutti  i luoghi. La mia durata è breve. Il mio luogo è quasi un punto nello spazio. Intanto vi sono moltissime cose, die m’importa di conoscere, e che sono accadute prima della mìa nascita, o che accadono in luoghi più o meno lontani da quello ove io mi trovo.  La testimonianza altrui mi è dunque necessaria per l’acquisto  di  tali  conoscenze.  Il  linguaggio de’suoni, come l’italiano, o il calabrese, è un linguaggio passeggierò e limitato  ad alcuni luoghi. Un uomo che per mezzo delle parole COMUNICA agl’altri i suoi pensieri non può farlose non che nel tempo in cui egli parla e ne’luoghi ne’quali può estendersi il suono delle sue parole.  Un gran problema presentai al genere umano: il problema consiste  a trovare  il  mezzo  di  estendere  a tutti  i tempi ed  a tutti  i luoghi il  linguaggo  limitato  della  parola. Voi  già comprendete l'importanza del problema enunciato, e che la soluzione di esso dee formare la seconda epoca del progresso delle umane conoscenze ponendo la prima  nella nascita del linguaggio  parlato.  I fatti  ovvi  e ripetuti  incessantemente  sogliono destar poco l’attenzione del volgo degli uomini, e perciò non gli recano sorpresa. Vi  ho  fatto  sopra  osservare quale studio fanno  i  fanciulli  per  apprendere, sin da’ loro primi anni, ill inguaggio della parola; intanto si crede forse che essi non meditino affatto; appunto perchè comunemente iiiuno cerca di conoscere come i fanciulli apprendano tal linguaggio. E un errore il credere che le cose sieno state in tutti i tempi come  sono  in  un certo tempo. Qui  è il  luogo di fare uso di questa  importante  osservazione.  La  nostra educazione letteraria incomincia, dal  fare apprendere a’fanciulli le lettere dell’alfabeto. Ma v’ingannereste credendo che la scrittura, vale a dire,l’arte di dipingere  la parola e di parlare agl’occhi, sia stata conosciuta nella prima fanciullezza del genere umano. Noscorsi de’secoli prima che siensi trovate le lettere dell'alfabeto: la scrittura non  è stata conosciuta che molto tardi. Siccome questa ci somministra un motivo molto fecondo di conoscenze, cosi è necessario, dopo di aver cercato l’origine del linguaggio parlato, di cercar quella del linguaggio scritto. Qual mezzo si può presentare agli uomini, per perpotuafc la memoria de’fatti accaduti? In  primo luogo si può osservare un tal mezznello  stesso  linguaggio  parlato.  La propagazione  del  genere  umano  si  fa  in  modo che  gl’individui  di  una  età  vivono  insieme  per  qualche tempo coi loro antenati e coi loro discendenti. Un uomo può dunque narrare alla sua fìgliuolanza tanto quello che egli stesso ha veduto quanto quello che c^Ii ha udito da suo padre, da suo avo, ed a tutti coloro, che sono stati testimoni oculari de’fatti accaduti prima della sua nascita, e del tempo in cui egli avesse potuto osservarli, questo uomo essendo il primo testimone di udito, costituisce il secondo anello della testimonianza. Gl’altri che ascoltano il fatto da lui narrato ne costituiscono il terzo, il quarto ec. Così si forma una serie non interrotta di testimoni oculari, e costituisce ciò che chiamasi tradizione orale. La maniera più generalmente adoprata ne’primi tempi,  per osservare la tradizione orale, è quella di comporre una specie di ode o di cantico – L’ENNEIDE DI VIRGILIO. ARMS AND THE MAN. – o gl’ANNALI d’ENNIO – ROMOLO E REMO -- Cotesta sorte di poesia racchiudeva le principali circostanze degli avvenimenti che  volevano  alla  posterità  tramandarsi.  Vedasi questo uso stabilito ne’secoli più remoti appo tutte le nazioni, tanto dell’antico che del nuovo continente. Dopo la sommersione dell’esercito di Faraone nel mare rosso, Moisè, e gl’istraditi composero un cantico di lode, e di ringraziamento al Signore, nel quale cantico è espresso questo memorabile avvenimento, come si legge nell’esodo. Al mezzo della tradizione orale, per conservare la memoria degl’avvenimenti passati, si è aggiunto quello di alcuni grossolani monumenti. L’uso dei primi secoli è di piantare un bosco, d’innalzare un altare, o un monte di pietre, di stabilue delle feste [OVIDIO], e di comporre de’ cantici in occasione di avvenimenti  riguardevoli. Quasi sempre davasi a’luoghi ove sono accaduti de’fatti memorabili, un nome relativo ai fatti ed alle circostanze (MONTE PALATINO). L’istoria di tutte le nazioni somministra molte prove ed esempi di queste antiche costumanze. Si vedono i patriarchi innalzare un altare nei luoghi, ove è loro apparso il Signore, piantare de’boschi, fare dei monti di pietra in memoria de’principali ancnimenti della loro vita c dare a’ luoghi, ove sono accaduti de’nomi che ne richiamassero la memoria. Se si consultano gli scrittori romaniprofani, questi attestano lo stesso. Ne’contorni di Cadice vedevansi in altri tempi delle pietre ammassate, le quali si dicevano essere i monumenti della spedizione dell’ERCOLE ITALIANO nella Spagna.Tutte queste differenti pratiche hanno servito a rinfrescare la memoria de’fatti memorabili, e a perpetuare le scoperte importanti. La tradizione supple allora alla mancanza della scrittura. I padri spiegano a’loro figliuoli l’origine di questi monumenti, e gl’istrueno de’fatti, i quali ne sono stati la cagione. Io chiamo tradizione tanto la tradizione orale quanto l’unione della tradizione orale coi monumenti. Fra lo spezie dei monumenti composti dagl’uomini, ad oggetto  di perpetuare la memoria de’fatti passati, untt. delle principali,  che siasi presentata al loro spirito,  è stata la rappresentazione degl’oggetti corporali. I primi uomini pensarono naturalmente,  d’impiegar questo mezzo,  per rendere i loro pensieri sensibili alla vista,  e cominciarono dal presentare agl’occhi il ritratto degli oggetti dei quali volevano parlare. Per fare conoscere, per cagione di esempio, che un uomo uccide un altro, eglino  disegnano una figura umana stesa per terra, ed una altra in faccia di quella dritta con un’arma alla mano. Per fare intendere che alcuno è abbordato per mare in un paese, rappresentano un uomo assiso sopra una barca, e così del resto. Da quello che degli antichi monumenti è rimasto, puà assicurarsi, che in prima origine l’arte dello scrivere consiste ili una rappresentazione informe e grossolana degl’oggetti corporali. L’uomo di sua natura imita facilmente, ed in ogni nazione vedesi la gente portata a ricopiare gl’oggetti che le si presentano. Le nazioni più selvagge, o quello le quali hanno minor relazione e commercio con i popoli colti, possiedono con tutto ciò una certa idea dell’arte del DI-SEGNARE, vale a dire di rappresentare, beiichò rozzamente, gl’oggetti della natura. L’onir  brache produce ogni corpo sopra una superficie che gli sia opposta, quando il corpo si oppone al passaggio della Ince, ha somministrate le prime idee del DI-SEGNO. Tirando su i limiti dell’ombra alcune linee, allora che l'ombra  sparisce,  la figura descritta con queste linee è [ICONICAMENTE] simile alla figura del corpo che getta L’OMBRA. Dopo le prime esperienze i primi popoli tentano di rappresentare, e di copiare gl’oggetti senza l’ajuto della loro ombra. Hanno a poco a poco avvezzata la mano a lasciarsi guidare dall’occhi o, ed a seguire le proporzioni suggeritele dalla vista. Il DI-SEGNO nella sua origine consiste solamente nella circoscrizione del contorno esteriore degl’oggetti. Si tenta dopo di esprimere le parti interiori, che L’OMBRA [silhouette] NON DI-SEGNA, come per cagione di esempio una testa, gl’occhi, il  naso  ec. Il  carbone, la creta ec. possono somministrare a’primi uomini la maniera di DI-SEGNARE sopra il legno, sopra la pietra ec. come ancora si sono eglino esercitati in ciò sulla sabbia, sulla terra molle ec. Hanno in seguito con l’ajuto dei sassi, e di altri strumenti taglienti procurato d’imprimere DE-SEGNI sopra le materie solide. La forma che prendono i corpi molli insinuati ne’corpi duri, e l’impronta che lasciano i corpi duri applicati a’corpi molli, hanno su^rito a’ primi uomini l’arte del modellare. Questa ha a poco  a poco prodotta quella dell’intagliare nel legno, nella pietra, e nel marmo. In questa maniera il DI-SEGNO, la scoltura, l’intaglio hanno la loro origine. Queste arti, a mio credere, hanno preceduto la pittura. Hanno queste rappresentazioni degl’oggetti corporali servito per molto tempo invece della scrittura  propriamente detta.  Io  chiamo  la  rappresentazione  degl’oggetti  corporali scrittura figurativa. Questa maniera di scrivere richiede molto tempo. Si pensa perciò di renderla più semplice, ed invece di DI-SEGNARE per intero a cagion d’esempio, un uomo, un albero, un cavallo, si DI-SEGNANO le parti principali che li fanno conoscere; come per esempio la testa, la mano, Marte (MASCHIO) e Vennere, ec. Ma questa scrittura fìgurativa non puo essere suffìciente per esprimere tutti i pensieri degl’uomini. Vi sono molte cose che non si possono dipingere,  come sono lo spirito,  le sue facoltà,  le sue modificazioni.  È impossibile di parlare delle cose materiali,  senza unirvi delle idee die non sono capaci d’immagini. Come  per  esempio, descrivere l’immagine dell’affermazione, e della negazione? Fa d’uopo dunque inventare i segni di queste idee intellettuali e 1’analogia guida gli uomini a trovarli. Si concepì una certa similitudine fra alcune qualità che si osservano negl’uomini,  e quelle che si osservano negl’animali,  e per esprimere,  che  un uomo  è in queste qualità  simile ad un certo animale,  si dice più brevemente,  che il tale uomo è un  tale  animale [un leone]. Cosi, per dire di un uomo, che li è  prudente, che li è astuto, che è fiero e crudele, si  dice, che è un serpente [PRUDENTE], una volpe [ASTUTO], una tigre [FIERO E CRUDELE]; DI-SEGNANDO dunque l’immagine di questi tali animali si DI-SEGNANO *mediatamente* -- FIGURATIVAMENTE – l’immagini delle qualità spirituali (PRUDENZA, ASTUZIA, FIEREZZA E CRUDELTA] di cui si tratta. Una tale rappresentazione costituisce ciò che chiamasi geroglifico. I cinesi per cagion di esempio, per denotare che FoAt, primo fondatore del loro impero, è dotato di prudenza, e di sagace ingegno, lo DI-SEGNANO col capo umano unito ad un corpo di serpente.  Il successore di FoA», di nome  Xino, ad oggetto di denotare, che egli si applica all’agricoltura, ed incomincia a porre i bovi sotto il giogo, lo DI-SEGNANO col capo di bove unito al corpo umano. Gl’antichi denotarono la giustizia, dipingendo  uvergine cogl’occhi bendati, tenendo in una delle mani una bilancia, ed in un'altra una spada.  La vergine figura la giustizia; la bilancia DENOTA CHE che la giustizia consiste a dare a ciascuno il suo dritto, la spada SIGNIFICA CHE la giustizia dee infligger la paia dovuta a’delinguenti, gl’occhi bendati finalmente DENOTANO CHE denotano CHE la giustizia e IMPARZIALE e non dee avere alcun riguardo alle persone,  ma deve agire conformemente alla legge, senza esser mossa da motivi estrinseci. Si vede qui che la similitudine concepita fra alcuni  modi  de’corpi,  e le qualità dello spirito, dettò questo geroglifico. La giustizia è una nozione astratta, e le nozioni astratte sussistono sole nello spirito. Passa perciò una certa similitudine fra l’astrazione e la  personificazione, una vergine non  è macchiata  da  alcuna  impurità  corporale, e la  giustizia  dee esser monda da qualunque difetto. Quando per dare ad un altro una quantità di merce, questa si pesa, ciò si fa per dargli ciò che gli appartiene. Le similitudini fra alcune modificazioni del corpo, e quelle dell’animo si deducono da ciò, che le prime sono i SEGNI NATURALI delle seconde. Denotando le prime si denotano mediatamente le seconde. E siccome le prime son capaci d’immagini corporali, così lo sono MEDIATAMENTE [FIGURATIVAMENTE] anche le seconde. E questa rappresentazione mediate costituisce il geroglifico. Da ciò si vede che la scrittura geroglifica si è unita alle volte alla scrittura figurativa, come si vede ne’due esempi di  Fohi, e di Xino. Alle volte è stata  impiegata  solq  come  nell’esempio  recato  della  giustizia. Si  vede  inoltre,  come  questo  modo  di  scrivere  fa  le  veci  delle  proposizioni  verbali.  Cosi,  per  cagion  di  esempio,  i geroglifici rapportati  valgono  pel  significato  quanto  queste  proposizioni verbali: F(M  fu  dotalo di sagacità.  Xino  pronwtse  ¥ agricoltura, e pose  « bovi  sotto il giogo, fa giustizia dà a ciascuno U tuo dritto,  infligge la pena dovuta a'delinguenti,  né si lascia  muovere  da  motivi  estrinseci. Osservate, che  ne’geroglifici enunciati si trovano i segni relativi al sogetto, al predicato, ed al verbo delle proposizioni rapportate. Così il capo di forma umana nel primo geroglifico donata il soggetto della proposizione cioè Fohi, il corpo serpentino denota il predicato, cioè la segacità, e l’unione del capo umano al corpo serpentino denota l’unione del predicato al soggetto significato dal verbo fà. Nel secondo geroglifico, il  corpo  di  figura  umana  denota  il  soggetto  della  proposizione  cioè  Xino. Il capo bovino denota il  predicato cioè l’aver promosso l’agricoltura,  e l’aver posto i bovi sotto il giogo; l’unione poi del capo bovino alla forma umana denota l’unione del predicato al soggetto,  espressa dal verbo  promosse. Nel terzo geroglifico, il soggetto della proposizione è significato dalla vergine; la bilancia, la  spada,  la  benda denotano i predicati  della  proposizione, e l’unione di queste cose al corpo della vergine denota l’unione de’predicati  al  soggetto. Da ciò segue che un geroglifico può esprimere diverse proposizioni, osia una proposizione composta. Ciò si  vede  chiaramente nel geroglifico recato della giustizia. Wolfio riferisce che un certo Comenio, volendo formare il geroglifico  dell’anima, dispose  de'punti  in  modo  da  formare  una  figura  simile  a quella che  presenta  l’ombra, prodotta  dal  corpo  umano  su  di  un  piano  perpendicolare all'orizzonte, ed opposto direttamente al corpo umano, ed al lume. I PUNTI, secondo i geometri, essendo PRIVI D’ESTENSIONE, *denotano* la SEMPLICITÀ dell’anima. La figura del corpo umano costruendosi, per mezzo de'soli punti, senza l'intervento di alcuna linea, *denota* la sostanzialità dell’anima umana, la quale sussiste indipendentemente dal corpo. I punti, essendo disposti in modo, che necessariamente formano la figura del corpo umano, *denotano* l’unione dell'anima col corpo,  la quale unione si forma dall’autore della natura, indipendentemente dalla volontà dell’anima. Finalmente questi punti, essendo  dispersi  in tutta la figura del corpo umano, *denotano*  la  dottrina  degli  scolastici, cioè  che l’anima NON È NELLA GLANDULA PINIALE come vuole Cartesio, o nel cervello come cuole l’ACCADEMIA, o nel cuore, come vuole il LIZIO, ma è tutta  in  tutto  il  corpo  e tutta  in  ciascuna  parte.  ir  geroglifico  comcniano  equivale  perciò  alle  scienti  proposizioni. l.°  l’anima  è semplice: 2.° l’anima è una sostanza. L’ anima, indipendentemente dalla sua volontà, è unita al corpo. 4.” 1' anima esiste tutta in tutto il corpo, e tutta in ciascuna parte. Dopol’invenzione della scrittura geroglifica portata al più alto grado di perfezione,  di cui è capace, resta ancora agli uomini di farp  l’ultimo sforzo per ritrovare i caratteri alfabetici,  che sono  i SEGNI del  suono [AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE] non  già  degl’oggetti.  Vi  sono  stati  in  ogni  tempo  degli  spiriti  sublimi, i quali colle loro invenzioni hanno ampliato notabilmente la sfera delle umane cognizioni,  ed hanno spinto  velocemente il genere  umano verso quel  grado di coltura, in  cui  (^gi  te vediamo.   Un  vocabolo (“shaggy”)  è un SUONO  o composto (“sha”, “shaggy”),  o semplice (“a”). Per  rendere durevole QUESTO SEGNO basta dunque stabilire  de’segni  permanenti  de’ suoni  semplici (AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE), che compongono i vocaboli. E per tale oggetto  basta stabilire per segni de’suoni semplici ALCUNE FIGURE – in lingua latina, 24: A B C D E F G H I K L M N O P Q R S T V X Y Z -- , e la  scrittura alfabetica è trovata. Ma  (pianto  tempo è egli trascorso, priachè una verità cotanto semplice si presenta allo spirito  de’padri nostrii. Si vuole  render  permanente il linguaggio passaggiero della PAROLA (PARA-BOLA); e  non  si  pensa  di  decomporre  i suoni  ARTICOLATI [prima articolazione: sh- a, sha], e di stabilire de’segni permanenti de’suoni semplici che compongono i vocaboli. Lo spirito intraprende de’cammini lunghi e tortuosi per tramandare alla posterità la somma delle sue conoscenze. La scrittura è prima  figurativa perfetta indi  figurativa  imperfetta. poiché si designarono prima gl’oggetti interi, indi le loro parti principali. In seguito divenne geroglifica, indi sillabica, e finalmente  alfabetica, lo dico prima sillabica, e poi alfabetica, poiché penso coll’illustre Goguel autore dell’opera su 1’origine delle leggi, delle arti, e delle scienze, che dopo la scrittura geroglifica  sono  trovati  i segni  de’suoni delle sillabe de’vocaboli, prima che si trovassero i segni de’suoni semplici che compongono i suoni delle sillabe. In questa maniera di scrivere, la quale chiamasi scrittura sillabica non s’impiega se non che un solo carattere per iscrivere ciascuna sillaba, di cui vien composta  una  parola (PARABOLA). Non si  esprimono allora né vocaboli, né consonanti. Noi, per esempio,  per iscrivere  la  voce  “pane” /pane/ impieghiamo  quattro  lettere o fonemi: /p/ /a/ /n/ /e/. Nella  scrittura  sillabica  non  vi  bisognano  se  non  che  due  caratteri: /pa/ e /ne/. Ora  supponiamo  che  la  pronunciazione  del  vocabolo  “pane”  risvegli l’idea  del  suono “cane,” e questo quella del suono “sane,” e che lo spirito mediti, e paragoni fra di essi questi suoni. Egli li decompone in sillabe, e trova, che la sillaba “ne” è la stessa in tutti e tre questi suoni, il che gli viene ancora insegnato dalla stessa  scrittura sillabica, poiché lo  stesso carattere indica il suono della sillaba “ne” in tutti e tre i vocaboli  enunciati. Questa identità conosciuta mena lo spirito a notare la diversità de’ suoni “pa,” “ca,” e “sa,” che  sono  le  prime  sillabe  di questi vocaboli. Ma  in  questa  diversità lo spirito trova  ancora una identità nella desinenza. Tutte e tre queste sillabe cadono nel suono “a”. Ciò  conduce lo spirito a separare nelle sillabe “pa,” “ca,” “sa,” il suono “a” dagl’altri suoni che vi si uniscono. E siccome egli ha trovato i caratteri de’suoni “pa,” “ca,” e “sa,” così trova il carattere del suono “a,” e quelli  de’suoni  “p, “ “c,” e “s,” e la  scrittura  alfabetica  è  già  trovata. Ecco  dunque  i passi, che  ha  dovuto  fare  lo  spirito  per  ritrovare  la  scrittura  alfabetica, l.° egli conosce che la maggior parte de’vocaboli sono de’suoni composti, e che potevano perciò DECOMPORSI in altri snoni. 2.°  egli  conosce che puo stabilire segni di segni [GRICE – TYPE, U – versus TOKEN, u]], e segni permanenti di  segni  passaggieri;  3.°  egli  stabilisce  de' caratteri,  che sono  segni  permanenti  del  suono  delle  diverse  sillabe, e così nasce la scrittura sillabica. 4.° egli conosce che la maggior parte delle sillabe sono de’suoni composti ancora, e siccome trova de’caratteriche sono segni delle sillabe, trova ugualmente  de'caratteri che  sono  segni  de’suoni  semplici;  e così  è nata  la  scrittura  alfabetica. Alcuni  eruditi,  frai  quali  Goguet,  pretendono  che  i caratteri alfabetici sono derivati da'segni geroglìGci, e che quest’ultimi hanno a poco a poco introdotto il metodo breve delle lettere alfabetiche.  Questa  opinione è falsa  sotto  un  certo  riguardo,  sebbene  possa  esser  vera  sotto  di  un  altro. Per presentacela quistione  sotto  un  aspetto  filosofico,  può  cercarsi:  l.°:  Lo spirito umano puo, senza passare per la scrittura figurativa, e geroglifica, passare immediatamente dal linguaggio della PAROLA [PARA-BOLA]  al  linguaggio  permanente  della  scrittura  alfabetica? È certo, che  puo, poiché fra i passi, che egli dove fare,  partendo dalla considerazione della PAROLA [PARA-BOLA],  per giungere alla scrittura alfabetica non vi sono certamente quelli della scrittura figurativa e geroglifica. Si può cercare S.''.La scrittura figurativa e geroglifica dove condurre naturalmente lo spirito alla scrittura  alfabetica. La scrittura figurativa e geroglifica non hanno relazione alcuna colle lettere dell’alfabeto,  e per  tal ragione non possono condurre lo spirito a ritrovare la  scrittura  alfabetica.  Ma possono sotto  un  altro  riguardo influire  a questa  invenzione. Queste  due  scritture sono  imperfette  assai, e complicate. Lo spirito accorgendosi della loro imperfezione e difficoltà, puo da ciò rivolgere la meditazione a rendere più semplice, e facile il sistema de’segni permanenti. Si può cercare 3.° La figura de’segni geroglifici Jta puo server allo spirito, per concepir la figura de' primi caratteri alfabetici. Le ragioni addotte da Goguet provano, che lo puo. Paragonando, egli dice, con  attenzione  quello che  a  noi  rimane  dei  caratteri  egiziani, colle  figure geroglifiche intagliate sopra gl’obelischi e gli altri monumenti,  si ricava che le lettere egiziane tirano da’geroglifici  la loro origine. Nell’alfabeto degl’etiopi, e nelle lettere majuscole degl’armeni si trovano  i vestigi assai chiari della scrittura antica geroglifica. A queste ragioni se ne può aggiungere un’altra. Col progresso del tempo il rapporto di similitudine tra il geroglifico e la idea da esso significata, non si è piu  ravvisato. Ciò  è  accaduto  per due  ragioni  l.°  alcuni  rapporti  [figurativi – metaforici -- META-ICONICI – GRICE] di  similitudine sono  troppo  lontani. Si esprime, per esempio, l’impudenza per [BY] una MOSCA, la scienza per una FORMICA. 2.° allorché sono  moltiplicati i volumi, si cerca il modo di abbreviare, e perciò invece del geroglifico primitivo si fa uso di un altro carattere, che noi possiamo chiamare la scrittura corrente de’geroglifici. Esso rassomiglia a’caratteri cinesi. Dopo d’essere stato da principio formato dal solo contorno della figura, divenne  in  stanilo  una  sorta  di  nota,  hi  questo  stato  il  geroglifico  puo  riguardarsi  come  il  segno del vocabolo. Tosto che si hanno da’segni permanenti de’vocaboli, puo  pensarsi  di  dare  de’segni  permanenti  alle  sillabe, ed  indi  a’suoni  semplici  di  cui  è composto il suono delle sillabe. L’essenza de’caratteri alfabetici si è l’essere isolatamente considerati SEGNI  solamente  di  suoni [cf. AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE], non  già  di  idee. I caratteri, per  esempio, a, e, i, o,  u, b, c,  ec. [cf. GRICE, DISTINCTIVE FEATURES – FONEMI, FONEMA, ALLOFONICO], isolatamente  considerati  nuli’  altro  SIGNIFICANO se  non  che  alcuni  suoni.  I caratteri poi della scrittura fìgurativa,  e geroglifica, non  denotano suoni  ma idee, l’immagine di un serpente denota l’idea del serpente, quella della prudenza ec. Le nostre cifre arabe,1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 0, sono ugualmente segni d’idee, non di suoni. Essi si leggono diversamente presso le diverse nazioni, sebbene sieno ì segni delle stesse idee. Questa differenza  è della massima importanza. Colla divcisa combinazione di un piccol numero di caratteri, si possono scrivere tutti i vocaboli di una lingua parlata. Ma quando i segni della scrittura sono segni d’idee non già di suoni, il numero di questi segni dee corrispondere al numero de’vocaboli, il che rende il numero de’caratteri molto grande, e perciò esige uno studio lungo, e difficile, per apprendere a leggere,e scrivere, come è provato per l’esempio de’cinesi. È questo un grande ostacolo al progresso della conoscenza. La gente di studio è obbligata a sottrarre il tempo necessario, per apprendere le scienze, ed impiegarlo a saper leggere e scrivere. L’arte di leggere e scrivere essendo di molto poche persone, il resto della nazione dee restare nella ignoranza. Dello stesso inconveniente partecipa anche in parte la scrittura sillabica, poiché il numero de’caratteri, per significare ciascuna sillaba è di gran lunga maggiore di quello, che è necessario per denotare i suoni semplici, di cui il suono di ciascuna sillaba è composto. Così, per cagion di esempio con questi tre caratteri alfabetici, a, b ,c, si possono scrivere le seguenti sìllabe, ab, ba, ac,  ca,  bac,  cab. In questo  esempio il numero dei caratteri sillabaci è doppio del numero de’ caratteri alfabetici. Se suppone quattro caratteri ahabetici, a, b, c, e, il numero ddle combinazioni di questi caratteri, presi due a due, è maggiore del doppio, cosi avremo, ab, ba, ac, ca, ae, eb, be, ec. Uno de’ vantaggi dunque della scrittura alfabetica sulle altre scritture si è il piccol numero de’segni, di cui ha bisogno la prima scrittura. È vero, che le nostre cifre arabe sono per tale oggetto perfettissime, mentre con dieci caratteri possono scriversi tutti i numeri possibili. Ma un tal vantaggio lo debbono alla formazione delle idee da queste cifre designate, poiché queste idee si formano tutte colla ripetizione della stessa idea che è quella dell’UNITÀ. Un altro inconveniente della scrittura geroglifica si è l’incertezza del significato. Uno stesso geroglifico può denotare cose molto diverse fra di esse. Cosi la immagine del serpente dinota questo animale, la prudenza, e ’universo. L’immagine del lepre dinota questo animale, il candore, e la timidità. L’invenzione del linguaggio della parola, el’invenzione della scrittura alfabetica, che rende permanente il primo linguaggio di sua natura  passeggierò, fanno che l’uomo possa gettare il suo sguardo in tutti i luoghi, ed in tutti I tempi.L’esperienza c’ins^a, che gl’uomini possono, per mezzo della scrittura, trasmetterci dei fatti che son veri e che la concorde testimonianza  degli  scrittori circa alcuni fatti non si è giammai trovata fallace. Tutte le gazzette dell’Europa all’epoca, in cui Bonaparte  scese al trono della Francia annunciarono questo avvenimento. Tutte le gazzette ugualmente hanno annunciato la morte del sommo pontefice Pio VII. L’esperienza dei propri occhi  avrebbo  potuto  assicurare  colui, che  avesse  dubitato, della verità di tali fatti. I fatti consegnati negli scritti possono colla conservazione degli scritti, che li contengono,  trasmettersi alle future generazioni. È questa eziandio  una  verità  di  esperienza.  Vi sono dunque de’fatti accaduti in tempi lontani,  de’quali fatti noi possiamo conoscere  la verità.  Il linguaggio passaggiero della parola; quello  permanente della scrittura  alfabetica, e quello dei monumenti, possono dunque circa alcuni fatti, essere motivi legittimi dei nostri giudizi. Tutti questi motivi concorrono a stabilire la certezza morale. Credo utile d’addurvi un altro esempio, in conferma di ciò che vi ho detto. Un terribile tremuoto, poi seguito d’altri, cagiona dei danni notabili alle Calabrie, ed ancora alla città di Messina.  Gl’abitanti  dei  paesi  danneggiati  sono  obbligati  di  uscire  fuori  dalle  loro  abitazioni, e dì  costruirsi  delle  baracche  per  abitarvi;  alcuni  le  hanno  costruite  in  lontananza  dei  paesi  diruti  quali  rimasero  perciò  deserti. Cosi  accadde, per  esempio, a Briatico, che è costruito di nuovo vicino al mare, e Briatico antico presenta allo spettatore i segni delle sue mine. Altri hanno costruite le nuove abitazioni in un suolo contiguo all'antico abitato. Cosi accadde  a TROPEA, le cui nuore abitazioni sono costruite lungo ed all'intorno della strada detta  dell’Annunciata. Molti, che  sono  stati  testimoni oculari  dell’avvenimento, vivono  ancora molti  altri  appartengono alle  seguenti  generazioni. I primi  narrano  ai  secondi  l’orìgine delle  mine  che  colpiscono  i loro  occhi, non  meno  che  l’orìgine  delle  nuove  abitazioni,  ciascuno  testimone  oculare  è  istruito  dalla  esperienza, che  tanto egli, che  gli  altri  testimoni  oculari narrano  il  vero, e che  coloro  i quali narrano il fatto ad altri, per averlo eglino inteso narrare da’testimoni oculari, narrano il vero. L'esperienza dunque c’insegna, die vi sono dei testimoni di udito, la di cui testimonianza è verace,e che la tradizione orale unita ai monumenti può trasmettere alle generazioni future i &tti  accaduti  ne’tempi  da  queste  generazioni lontani. La memoria di questa tremuoto si trova depositata in una moltitudine di scritti, i quali ancora rimangono, ed i cui autori più non sono. La propria esperienza istruisce dunque cisscun testimone oculare di questa importante verità: che per mezzo de’monumenti, della tradizione orale e della scrittura alfabetica, si può conservare  la  conoscenza  di  alcuni  fatti  passati. Intorno alle idee politiche del G., e più sulla  condotta da lui tenuta nell’alterna vicenda degli avvenimenti politici di cui è piena la storia di Napoli nel  periodo della sua virilità, non si può dire davvero che  abbondino i documenti, né che abbiano fatto tutta la  luce desiderabile gli studi consacrati a questo lato della  biografia galluppiana da Tulelli, dal Guardione e ultimamente d’ Arnone. Il quale ha scritto  in proposito una memoria molto accurata, ma per giungere a una definizione di G. considerato sottol’aspetto politico, la quale è in aperto contrasto coi documenti più sicuri da noi posseduti. Anche G.,  secondo l’Arnone, sarebbe stato un giacobino! Della sua dottrina liberale e del suo atteggiamento  risoluto in favore delle pubbliche libertà e contro 1 intervento austriaco non è possibile che  dubiti chi conosca i frammenti che diè il Tulelli de’ suoi  Pensieri filosofici sulla libertà compatibile con qualunque Tulelli, Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar. P. G.,  notizie ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti della li.  Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli. Guardione, Due opuscoli di G., prec. dallo studio critico  Dei concetti civili e politici apportati da P. G. nella rivoluzione,  Messina, D'Amico; a proposito di questo opuscolo, Gentile  nella Critica, V; N. Arnone, P. G. Giacobino, negli  Studi dedicati a Torraca nell’anniv. della sua laurea,  Napoli, Perrella. forma di governo, e i due opuscoli Della libertà di coscienza  e Lo sguardo d' Europa sul Regno di Napoli, ristampati  dal Guardione. Ma da quel liberalismo al giacobinismo  c’è un bel tratto.   Né i documenti dell’Amone riscoperti 1 nell'Archivio  provinciale di Catanzaro bastano a superarlo. Da questi  documenti apprendiamo che G.  chiede un passaporto per recarsi a Palermo « per attendere ad alcuni di lui affari litigiosi. Il Re faceva rispondere dal Segretario di grazia e giustizia al Preside di  Catanzaro, che a G. si sarebbe accordato il passaporto, « quando non vi sia niente contro il medesimo.  Il Preside si rivolse per informazioni al Vescovo e al  Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16 ottobre, rispose:  Quantunque apparentemente il suddetto sembri un  giovane morigeratissimo, e studioso anche di materie  teologiche, pure non gode buona fama, perché si pre¬  tende aversi ingoiato con lo studio vari errori della vana  filosofia, per cui fu, anni sono, denunziato sino a Roma,  e ne’ pochi giorni della falsa assunta Repubblica fu impiegato a far traduzioni, per cui stiede lungo tempo trattenuto nel Pizzo: timoroso poi all’eccesso, si andiede in  Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora vorrebbe andarsi  in Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi meglio sarebbe andarvi il padre don Vincenzo [il padre di  G.], mentre non debbo io, né V. S. 111 . mettersi  deve in compromesso nelle circostanze nelle quali siamo.   Tropea aveva avuto anch’essa il suo albero della libertà e un governo repubblicano. Ma per pochi giorni. AH’avvicinarsi delle schiere Gli è sfuggita la comunicazione che ne aveva fatta Gaetano  Capasso, alla Riv. Stor. del Risorg. ital. [Vedi  ora, per un'altra denunzia di pretesi discorsi giacobini del Galluppi,  F. Scandone, Il Giacobinismo in Sicilia, nell'A refi. Stor,  sic., G.  GIACOBINO  del Ruffo la plebaglia aveva abbattuto albero e governo,  e uh comitato di cittadini era andato incontro al Ruffo a Mileto, a prestargli ubbidienza.  Per la quale il Ruffo volle alcuni ostaggi, che fece tra¬  sportare a Pizzo. Tra essi venne incluso il Galluppi, che  per altro dopo alcuni giorni fu rilasciato senza nessuna  condanna. Aveva, secondo il vescovo sanfedista ', tradotto  qualche documento francese, forse qualche proclama o  decreto dello Championnet; ma la stessa voce raccolta  dal vescovo della gran timidezza del filosofo, ci spiega  molto facilmente perché G., invitato dai giacobini  della piccola città, dove forse era solo a conoscere il fran¬  cese (e non lo conosceva né pur lui molto)  e quando  costoro tenevano il campo, non potesse esimersene, pur  non avendo un grande entusiasmo per la causa repubblicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione  non patì nessuna noia; e se il tenente colonnello don  Giovanni de Mendoza, governatore di Tropea, pur dopo  diligenti investigazioni, non riusciva a trovare nulla a  carico di lui. « Mi sono informato, scriveva costui il  19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone  più probe e timorate di Dio di questa ... città; però ho  chiamato il decano don Saverio Polito, il teologo Grillo, il penitenziere don Vinc. M. Mazzitelli,  il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il parroco di San Demetrio di questa città, e dalle di costoro  estragiudiziali deposizioni, che presso di me si conservano, rilevai che G. è onesto, probo, e di morigerati costumi; che frequenta  spesso li Santi Sacramenti e la chiesa, ove si fa vedere  attento, e pieno di divozione; e che ad altro non bada,  se non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso,   1 Su lui vedi la stessa memoria dell'ARNONE Vedi la mia pref. al voi. del Toraldo, Saggio sulla filos. di G., Napoli.  ”4   e da bene, e che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto  cercai sì dalli stessi testimoni, che da altri sapere l’oggetto per cui si volesse portare in detta città di Palermo,  non fu possibile sapersi la cagione, perché da ognuno  s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre don Vincenzo è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui suole spesso andarvi anche col suddetto don Pasquale suo figlio: ma non posso fame a meno farle presente esser stato, per quanto pubblicamente si dice, il detto G. uno degli ostaggi di questa città chiamati dal sig.  Vicario generale nel Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni  e poi è liberato senza veruna pena. Il Preside di Catanzaro si attenne al Consiglio del  prudente vescovo, e propone al Segretario di Stato che  il passaporto non è accordato. E non è accordato.  Ma lo chiede poi, invece del figlio, il padre, Vincenzo,  che l’ha. Segno che a Palermo hanno realmente  bisogno di recarsi, l’uno o l’altro, per loro interessi di  famiglia. Pei quali forse egualmente G., reduce  da Pizzo, invece di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza,  di dov’è la moglie, Barbara d’Aquino. Non credo pertanto che questi documenti catanzaresi  bastino a farci annoverare il filosofo calabrese nella numerosa schiera dei giacobini contemporanei. Certo nei  Pensieri filosofici sulla libertà, propugnando il principio  della libertà di coscienza e di tolleranza religiosa, egli  ha parole forti contro coloro che dimenticano lo spirito  del Vangelo e non hanno ritegno di tramutare la religione nell’ istrumento del disordine, della persecuzione  e della strage»; e non dubita, ricordando i recenti fatti  del Regno, di scrivere che « se l’universalità del clero e  del popolo di questo bel regno avesse conosciuto il vero  spirito del cristianesimo e la purità delle massime del  Vangelo, non si sarebbe visto un cardinale comandare  delle masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e  d’ogni sorta di iniquità; né si vedrebbero oggi con orrore  tanti preti e frati alla testa delle masnade degli uomini  i più infami e più scellerati » Ma quando G.  scrive di queste parole che pur dimostrano bensì  il liberale, ma non il giacobino  a Napoli erano tornati  i francesi con Bonaparte, il cui governo, J , gli aveva conferito 1’ ufficio di controllore delle  contribuzioni; e a Giuseppe era anche successo Murat. Tutt’altro che giacobino è apparso a me qualche  anno fa da un suo brutto sonetto pubblicato in un giornale di Tropea 3 da Toraldo 4. Il sonetto infatti dice: Della Patria il dolore, il lutto, il pianto.  La rea sorte fatai veder non voglio. Di Marte, di Bellona il fier orgoglio. L’augusto trono di Minerva infranto, Spesso sedendo al bel Sebeto accanto  Col cor trafitto dal più fier cordoglio,   Pria che de' Franchi vacillasse il soglio. Dico nel mio pensiere, e piango intanto.   Un ferro io prendo.  Occhi miei, non piangete, Grido nel mio furore;  io corro or ora  Sollecito a varcar l'onda di Lete.   Ma già l’Angiol divin, che accanto giace.   Di man mi toglie il ferro, e grid’allora: Verrà Fernando: tornerà la pace! Il primo editore fa precedere al sonetto le seguenti  notizie: « Dal manoscritto rilevasi che il sonetto mede-   1 Tulelli, op. cit., pp. 109, in.   * ArnoneL’ Eco di Tropea.   4 E da me ristampato con qualche correzione di punteggiatura,  per renderlo un po' meno oscuro, nell’opera Dal Genovesi a G.,  Napoli (2 a ed. in 2 voli., col titolo di Storia  d. filos. ital. Da Genovesi a G., Milano; ora in Opere  complete di Gentile, a cura della Fond. G. Gentile, Firenze, Sansoni).   simo fu letto alla nostra Accademia degli Affatigati  (assorta allora ad altissima fama), alla quale G.  appartene col distintivo il Furioso, e apparisce dedicato a Ferdinando, come chiusura di un discorso, letto  all’Accademia anzidetta, sul medesimo argomento. Dalla  parte opposta ove è scritto il sonetto, si legge: Ferdinando Augusto, principe magnanimo, nell’ impetuoso  turbine che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci.  I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza. — Ferdinando viene. Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è terminato. Firmato: G. fra gl’Affatigati il Furioso.  Siegue dietro il sonetto dello stesso Accademico. Riproducendo il curioso documento, mi parve che discorso e sonetto si potessero riferire alla reazione;  e, dietro a me, anche Cesare ritenne che il sonetto  alludesse alla restaurazione di quell’anno. Ma non  tutto a quella prima impressione mi restava chiaro degli  accenni contenuti nel sonetto; e le difficoltà ora oppostemi dall’Arnone mi persuadono che sonetto e discorso  vanno spostati di sedici anni. Prescindendo », dice  Arnone che non ha potuto vedere il giornale di Tropea,  al quale io mi riferivo, e le cui notizie ora qui integralmente riportate mi pare che tolgano ogni dubbio intorno  alla paternità del discorso e del sonetto, « prescindendo  dalla loro autenticità maggiore o minore (?), il sonetto  e il brano del discorso accademico non possono mai riferirsi alla reazione. Infatti, nel sonetto stesso si    J R. De Cesare, Taranto e mons. Capecelatro, Martina  Franca, 1910 testr. dalla Riv. Apatia ), p. n: «Il Capecelatro non fu  solo a non aver fede nella durata della Repubblica. Se egli non anda  a Napoli, non vi anda neppure Delfico, chiamato a far parte  della Giunta del Governo, mentre G., che pure ha  principii liberali, recitava, all'Accademia degli Affaticati  di Tropea, un brutto sonetto, che si chiudeva: Verrà Fernando : torna la pace .  trova la designazione del tempo a cui si riferisce ; giacché,  col verso Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio, l’autore,  stanco del fier orgoglio di Marte e di Bellona, deve assolutamente alludere alla prossima caduta del trono di Murat 1 . Io guardo bensì al settimo verso  del sonetto, su cui giustamente ha fermato la sua attenzione l’Amone; ma guardavo anche al quinto: Spesso  sedendo al bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso una  determinazione cronologica non trascurabile. E poiché  era noto che G. è a studiare a Napoli, pensai che per soglio dei Franchi si dovesse in¬  tendere per l«appunto il trono di Francia di Luigi XVI, che cadde quando G. dimora al bel Sebeto  accanto. E vedevo nel sonetto un’enfatica e grottesca  rievocazione delle ansie, da cui l’animo dell'autore sarebbe  stato assalito fin dall’ 89 quasi presago dei lutti che la  Rivoluzione francese preparava alla sua patria. Non  tutto, di certo, restava chiaro, come non tutto precisamente diventa chiaro se s’intende, come propone ora  l’Arnone, che col soglio dei Franchi l’autore designi il  trono di Murat. Ma vien colmato il grande intervallo  che rimaneva, secondo la mia ipotesi quando avvenne il ritorno di Ferdinando IV a Napoli, che il Furioso avrebbe celebrato.   Ma, se accetto che il v. Pria che de’ Franchi vacillasse  il soglio alluda alla prossima caduta del trono di re Gioacchino, e ne argomento in conseguenza che tra la fine  di marzo 1815, quando Murat dichiara la guerra all’Austria, e labattaglia di TolentinoG. Dove essere a Napoli non capisco perché l'Arnone  soggiunga : A me parrebbe che il discorso accademico  potesse riferirsi al tempo del viaggio di Ferdinando I  Borbone pel congresso di Lubiana, quando appunto  il8  l’indipendenza del Regno di Napoli era minacciata dall’intervento austriaco. Quando G. recita il  suo discorso accademico è chiaro che Ferdinando non  era più lontano, ma già tornato a Napoli (Ferdinando  viene, Napoli è salvo); e l’accademia celebra la ristaurazione. È vero che G. trepida per l’indipendenza nazionale, a causa dell’ intervento austriaco  a Napoli; ma gli austriaci sono chiamati da Ferdinando, che non puo perciò essere cantato come  il salvatore dell’indipendenza; laddove nel '15 il Murat  alla legittimità, a cui s’appellavano gli ambasciatori del  Congresso di Vienna e tutti i principi delle vecchie dinastie, opponeva in Napoli il principio dell’ indipendenza;  e a G., già murattiano, i disastri dell’esercito  napoletano e l’entrata degli austriaci nel Regno dovettero  realmente parere la più pericolosa minaccia alla indi-  pendenza di questo, finché non si ripresentò Ferdinando,  a riavere, dopo il trattato di Casalanza,  dalle mani dell’ imperatore d’Austria le redini del suo  Stato due volte abbandonate. E le preoccupazioni che G., come quanti altri avevano servito il governo  francese, dovette, prima di quel trattato, nutrire gravissime e angosciose per la propria sorte, o almeno per  l’uificio che da nove anni teneva, possono anche spiegarci la disperazione da cui nel sonetto dice d’essere  stato preso per l’imminente crollo di quel governo.   E l’osanna al Borbone, dopo il trattato di Casalanza,  in cui l’imperatore d’Austria garantiva la sorte di tutti   1 Volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne; reputando che  più dei maneggi e dei discorsi valere gli dovesse il voto dei soggetti  e la forza dell'esercito, in tempi nei quali menavasi vanto dell’amore  dei popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i migliori in¬  gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi avvenimenti, acqui¬  stata da noi piena indipendenza politica, era suo debito riordinare il  regno senza o soggezione, o somiglianza,, o gratitudine ad altro stato,  così adombrando le tollerate catene per nove anni»: P. Colletta,  Storia del Reame di Napoli. i funzionari del passato regime, era pel controllore delle  contribuzioni dirette nella Provincia di Calabria ulteriore  l’espressione d'un sentimento sincero l 2 . Né giacobino, dunque, né antigiacobino. Ma liberale  e patriota, se non nel senso del 1799, in quello più antico  della tradizione paesana di Napoli e della posteriore  storia italiana.   Del suo patriottismo e liberalismo son documento  bastevole gli opuscoli politici che G. scrive in cui ripiglia le idee dei Pensieri filosofici,  rimasti inediti, e scendeva in campo a difesa della libertà  e dell’ indipendenza minacciata dall’Austria. Ma la lettura  di questi opuscoli, o almeno dei due a noi pervenuti  e qualche anno fa ristampati da Guardione, induce  piuttosto a ricollegare G. alla tradizione di  Giannone, del Tanucci, di Vico e di Filangieri, anzi  che a ricondurlo sotto l’influsso esotico del giacobinismo  rivoluzionario. Nei Pensieri filosofici (di cui si conoscono soltanto  alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli  ha già II sonetto pare tuttavia debba riferirsi non al 1815, ma all’anno  seguente. Perché gl’affaticati in cui esso è letto come ci è fatto sapere da un suo storico, riunivasi raramente;  anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nella Chiesa  dei Liguorini, canta del Santo fondatore dell’Ordine » (forse il 2 agosto  quando ricorre la festa del Liguori): N. Scrugli, Discorso storico  intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle Notizie archeologiche  e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano. Ma le  notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime. Infatti, secondo  lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata nella reazione, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove vi fu certamente recitato il discorso di G. che qui appresso si  pubblica.  Opuscoli filosofici della libertà individuale: Della libertà di coscienza  e delle conseguenze che ne derivano riguardo al matrimonio, dell’Autore  del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, Messina,  presso Antonino D’Amico Arena; Lo sguardo d'Europa sul Regno di  Napoli, di G. di Tropea, in Messina, presso  Papparlardo. Entrambi gli opuscoli sono stati ristampati  dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui servito.  aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri aveva  propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare »,  aveva detto, i dritti del pubblico potere, bisogna partire  dal considerare lo stato di natura come anteriore  allo stato politico, se non in ordine di tempo,  almeno in ordine di ragione. Tutti gli uomini sono per  natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò  che gli piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli  non offenda gli altrui diritti. Ogni uomo non ha dunque  altro dritto per rapporto ad un altro che di non farsi  molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or questo dritto  che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil società  è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vindice dei dritti di ciascun cittadino contro gli attentati  degli altri ». Movendo da questo principio, a differenza  del Rousseau, G. separa nettamente il dominio  giuridico-politico da quello della religione. Riconosce che  la potestà politica dee curare che i cittadini sieno virtuosi. Ella dee riguardare come un male la depravazione  del loro spirito; dee mettere in opera quei mezzi che  promuovono la virtù ed arrestare i progressi del vizio;  e però può parere che abbia bisogno del soccorso della  religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù. Le  leggi, dice Portalis, non dirigono che alcune azioni determinate; la religione regola il cuore. Le leggi sono relative  al cittadino; la religione s’impadronisce di tutto l’uomo.  Ma se le leggi arrestano il braccio e la religione regola  il cuore, dico io, dunque, che la depravazione del cuore  non dee punirsi che dalla sola religione, vai quanto dire,  dal solo Dio che n’è l’autore; ella è dunque estranea  alla sanzione della legge. Se le leggi non son relative  che al cittadino, e la religione s’impadronisce dell’uomo,  le leggi devono dunque contentarsi della sola virtù civile  e lasciare alla religione le virtù dell’uomo. Egli bisogna  distinguere l’uomo giusto agli occhi dell’eterno, che tutto vede, dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto innanzi  a Dio, lo è anche civilmente, perché la sua legge vuole  che si obbedisca alle potestà costituite; ma si può esser  giusto civilmente, senza esserlo, naturalmente, secondo  la religione. Le opinioni religiose pertanto non cadono sotto la sanzione delle leggi, e l’irreligiosità non può esser punita Ogni maniera di persecuzione del resto è contraria allo  spirito del Cristianesimo. Intorno al quale G.  scrive una delle poche pagine eloquenti, che siano uscite  dalla sua penna. Questa religione divina , egli dice,  annuncia agli uomini una morale che perfeziona la  natura. Lo spirito del Vangelo non è che imo spirito di  fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito di  persecuzione e di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascoltati, dice G. C. ai suoi discepoli, scuotete la polvere delle  vostre scarpe e partite. I primi banditori del Vangelo  non impiegarono altre armi per la sua propagazione, che  la forza della parola. La religione deve avere la sua sede  nello spirito, e lo spirito non rigetta l’errore e non abbraccia la verità, se non a proporzione dei lumi che egli  riceve, e trattandosi di religione, a proporzione della  grazia celeste che il Padre de’ lumi gli dispensa. Le prigioni, le forche, le mannaie, i roghi non cambiano certamente lo spirito dell’uomo, e l’incredulo non lascia d'esser  tale, ancorché vada ad esalare il suo spirito fra i tormenti più crudeli. L’uomo abusa di tutto. La ministra  della pace e della pubblica tranquillità divenne col progresso del tempo in mano del superstizioso e del fanatico,  l’istrumento del disordine, della persecuzione e della  strage. Questo mutamento di condotta, non della religione, che in se stessa è santa ed immutabile, ma ne’  suoi ministri, fu sorgente d’incredulità.  Nell’opuscolo sulla Libertà di coscienza la  stessa questione è ripresa e approfondita sì dal rispetto  - Gentile, Albori. I.  speculativo e sì da quello politico. Vi ritroviamo quella  morale kantiana, che è professata negli Elementi, nelle  Lezioni di filosofia e nella Filosofia della volontà. La  regola della moralità delle azioni è la coscienza uniforme  alla legge»: legge puramente formale anche per G.  Il quale infatti soggiunge. Si può agir male seguendo  una coscienza erronea, ma si agirà male ancora facendo  il bene in contraddizione dei dettami di una coscienza  erronea ». E su questi principii, rannodandosi alle dottrine liberali di FILANGIERI (si veda), fonda la sua dimostrazione  del diritto del matrimonio civile abolito nel Regno dal  codice: il quale aveva stabilito non potersi  celebrare matrimonio legittimo « che in faccia alla Chiesa,  secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento. Già  nell'opuscolo precedente aveva provato che « la libertà  del pensiero è il primo diritto inalienabile dell’uomo;  e che tale libertà è illimitata. Ora, se questa libertà è  illimitata, se la moralità consiste nella conformità della  coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla legge  della coscienza, ne viene per conseguenza che quelle  azioni, le quali debbono essere necessariamente in armonia  col pensiero, non possono giammai essere forzate; ma  debbono rimanere nel campo libero del privato cittadino. Potrà intervenire il diritto positivo nel culto religioso  esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno  non potrà di certo intervenire per obbligare il cittadino  ad un culto contrario alla propria credenza, bensì per  permettere un dato culto e impedire quindi che venga  offeso e turbato da chi non vi si conformi ». Ma deve   10 Stato permettere tutti i culti? Tra il Montesquieu  contrario e il Marmontel favorevole alla libertà dei culti, G. dichiara di non voler esaminare di proposito 1’importante questione », poiché egli si occupa piuttosto  della libertà individuale, e però della sola libertà di coscienza, laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo  sociale che abbia abbracciato un culto diverso da quello  di altri gruppi, ed esce quindi dalla sfera del diritto indi¬  viduale. Tuttavia ritiene conveniente che si possa per  ragioni politiche non permettere l’esercizio pubblico di  un culto diverso da quello stabilito. Quanto al matrimonio, dato il suo interesse pubblico,  esso rientra nella sfera di attività del potere politico:  che ha il diritto di far leggi positive sul matrimonio, le quali, lasciando illeso il diritto naturale, determinino  ciò che la natura non determina, e che ha influenza su  la felicità nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere  le condizioni per la validità del matrimonio come contratto civile, e lasciare alla libertà del cittadino, se vuole  al contratto unire la forma religiosa, che T innalza a  sacramento. Altrimenti verrebbe ad esser lesa la libertà  di coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che G. chiama legge di natura o diritto naturale. Tale principio a Napoli è riconosciuto dal codice  francese; e certo quella legislazione,  tranne il mormorio di qualche fanatico, che osa chiamarsi teologo, non produsse fra noi il menomo disordine.  Ma, tornato Ferdinando, i superstiziosi spaventarono la  sua coscienza ». Quindi il matrimonio rientrò nel puro  dominio ecclesiastico. E si fa dippiù, dice G.:  il Concordato diede alla Chiesa il potere giudiziario  sul matrimonio; potere, che dee esercitarsi in conformità  del codice del Vaticano, e così la sovranità temporale  rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti sul  matrimonio ». G., nelle cui parole è agevole  sentire l'eco della tradizione giannoniana, ora che Napoli  sembra risorta a più libera tuta per l’ottenuta costituzione, parla in nome della filosofia («la filosofia non dee  oggi temere di alzar la voce contro di questi abusi) ;  e chiede che il matrimonio torni ad essere per lo Stato  contratto civile; e protesta contro la censura preventiva.   stabilita nella Costituzione spagnuola, per i libri che  trattino di religione.  Il secondo opuscolo, assai più importante per la conoscenza delle sue idee politiche, quantunque rechi anch’esso  sul frontespizio la data del 1820, non par che possa essere  anteriore ai primi del febbraio 1821. Infatti v’ è detto  che « un’armata austriaca si fa vedere in volto minaccioso nella bella Italia » 1 2; con accenno evidente, se non  erro, all’ordine del giorno del barone di Frimont, di cui si ebbe notizia a Napoli tra il 15 0  il 20 di quel mese   In quei giorni un altro filosofo napoletano, Borrelli, compone un inno di guerra, che, messo in  musica dal Rossini, fu cantato al San Carlo la sera del  21 febbraio. La seconda strofa diceva:   O straniero, che guerra ci porti, Chi ti offese ? quell’ ira perché?   Va, rispetta la terra de' forti....   Ma sprezzante 1’iniquo c’ invade,   Ha di sangue nell’occhio il desir.   Cittadini, tocchiamo le spade:   Qui si giuri svenarlo o morir! G. dal fondo delle Calabrie rivolge all’Europa  (ma fin dove sarà giunto ?) il suo opuscoletto, enfatico  nella forma, ma savio ed acuto nella sostanza, per scongiurare anche lui l’invasione straniera e la soppressione  delle libere istituzioni. Rifa brevemente, con giudizi  che ricordano l’alta intelligenza storica di Vincenzo  Cuoco, la storia di Napoli, a conferma  del principio, che oppone alle prepotenti pretese del- [Rist. cit., Vedi De Nicola, Diario napoletano in calce all'Arch. slor. napol., 1905, fase. 3).  l’Austria: che la storia se la fanno i popoli da sé, e interromperla ad arbitrio è violenza, e lo stato violento non  è durevole.   Tutto, egli dice, « cangia incessantemente nel mondo ;  ma tutto cangia gradatamente... Questo principio igno¬  rato o negletto ha spesso fatto abortire i migliori pro¬  getti di riforme ». I grandi avvenimenti, che pare mutino  d’un tratto miracolosamente lo stato di un popolo, in  realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al quale  l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda,  onde hanno origine gli avvenimenti che formano l’epoche  delle nazioni ». Come dai patiboli del '99 si potè giungere  alla libertà del '20 ? G. studia questo  problema. La rivoluzione, per lui, è la conseguenza degl’errori commessi dal governo borbonico  (G. parla sempre di Ministero);  quando, dopo aver favorito in tutti i modi le tendenze  liberali promosse e alimentate dalla filosofìa, a un tratto,  spaventato dalla Rivoluzione francese, che intanto aveva  accelerato il movimento degli animi verso la ri-generazione politica, esso volle violentemente arrestarsi, e tornare indietro, e dichiarò guerra al liberalismo,  e si propose di ripiombare la nazione nella barbarie.  La venuta dei francesi fu la piccola causa che fece rovinare il trono, le cui fondamenta erano state da lunga  pezza lentamente scavate da’ suoi ministri. Così i Giacobini, che s’appigliarono alla massima della  perfetta imitazione dei francesi, senza chiedersi se Napoli  fosse preparata alla democrazia, e alla democrazia francese, come 1’Issione della favola, invece di Giunone,  abbracciarono la nuvola. Giudizio che non è certo  quello di un giacobino. Successe la reazione; e il governo, anzi che mostrarsi  ammaestrato dagli avvenimenti passati, tornò cieco, feroce,  dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio d’un cangiamento. Aggiungi l’azione continua della Francia  sulle cose d' Italia, e gli errori della diplomazia: ed ecco Bonaparte e Gioacchino, che non sono più i francesi, ma i correttori e moderatori dispotici  della libertà, i quali compiono l’abolizione del feudalismo  nel Regno, e vengono via via elevando la coscienza civile  della nazione. Questa al ritorno di Ferdinando è già  matura per la Costituzione: la cui richiesta per altro è  affrettata dagli errori che toma sempre a commettere il Ministero. Fra i quali G. non manca di ricordare il concordato ignominioso, che  annienta tutte le riforme dall’epoca dell’augusto genitore  di Ferdinando fino al suo ritorno fra noi. Mostrata la necessità storica della rivoluzione del 1820  e della costituzione che Napoli s’era con essa conquistata, il filosofo protesta contro l’intervento straniero,  e minacciosamente esclama: Un’ invasione è ella facile  nelle attuali circostanze della nostra nazione? Il '99, il  1815 sono gli stessi tempi per noi del 1820? Si è mai  veduto in altri tempi, allorché il nemico ci minacciava, l’agricoltore, l’artista, il prete, il monaco stesso domandare l’iniziazione nelle società patriottiche per emettere  il giuramento di vincere, o di morire per la difesa della  costituzione e del trono? Siamo così abituati a rappresentarci G., attraverso i suoi saggi meramente speculativi, dove non spunta  mai favilla di passione umana, o un accenno storico, o  un’allusione personale, e attraverso le memorie di quel  suo insegnamento universitario, tutto chiuso, nel periodo di puro raccoglimento spirituale per  Napoli, nella speculazione sopramondana.: che questa  specie di G. inedito, agitato dalle preoccupazioni  politiche e storiche del mondo in cui visse, ci riesce di  uno strano sapore nuovo e d'un vivo interesse. E ne  viene aggiunta una linea caratteristica e simpatica alla figura del nostro vecchio e caro scrittore; che viene ad  occupare anche lui il suo posto non pur nella storia del  liberalismo italiano, ma in quella schiera di acuti pensatori improntati della più schietta italianità, i quali,  rifacendosi direttamente o indirettamente da VICO (si veda), si  opposero all’ astrattismo antistorico e rivoluzionario di  Francia.  Lungi, dunque, dall'apparirci un giacobino, G.,  pel suo modo d’intendere e giudicare gli avvenimenti  contemporanei, ci si presenta come un liberale, penetrato del senso della realtà e razionalità  della storia.   Né questa figura viene menomamente turbata dal  nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste  note: un altro suo discorso accademico, letto a Tropea  (nella solita Accademia degli Affaticati) in lode questa  volta di Ferdinando II, pel suo avvenimento al trono  Discorso che io ho avuto sott’occhio nell’autografo, e  trascritto fedelmente. Esso, ad ogni modo, non può  suscitare né meraviglia, né rammarico in nessuno che  ricordi con quali lieti auspicii salisse al trono il nipote  di quel Ferdinando, a cui iG. aveva inneggiato  nel 18x5. « La giovanezza del re », scrisse lo stesso Set¬  tembrini nella sua Protesta, « la recente rivoluzione di  luglio in Francia, e i movimenti di Romagna, alzarono la  nazione a novelle speranze ». E molto meglio nelle Ricordanze: «Quando re Ferdinando II saliva sul trono delle Sicilie, cominciò bene, e a  molti parve un buon principe. Ogni giovane a venti  armi è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella.  In un suo Manifesto dichiarò di voler rammarginare le  piaghe che da più anni affliggevano il Regno, ristorare  la giustizia, riordinare le finanze, promuovere le industrie  ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni dei suoi  amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per la quale tornarono a le loro famiglie molti esuli, molti prigionieri, le speranze crebbero e l’allegrezza fu grande.  Gli uomini savi dicevano che egli aveva fatto una brutta  orazione funebre a suo padre; ma gli davano lode perché  scacciò parecchi ministri e servitori, che durante il regno  di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché  restrinse le spese della casa sua, tolse via le cacce, e volle  vivere con certa semplicità e parsimonia, che il popolo  chiamò avarizia. Pareva a tutti cortese perché dava  udienza a tutti, domandava, rispondeva, provvedeva  subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta  veduti. Anche Nerone, uscì a dire, uno di quei giorni,  esso Settembrini tra giovani suoi amici e maggiori d’età:  anche Nerone cominciò col quam mallem nescire scribere.  L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate che s’usi,  e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo.  E gli diedero del matto '. « Io che sono stato vittima del  suo insaziabile dispotismo » — scrive Nisco  nell’accingersi alla storia del suo regno, e che ne  porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò con civile  orgoglio la storia dei suoi primi anni di regno, i quali  sono andati confusi con quelli che seguirono, massime  dopo il quarantotto, quando la natura borbonica, ridestandosi ampiamente in lui, lo menò a divenire l’avver¬  sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ». E ricordando  la soddisfazione generale di quei primi mesi del nuovo re,  raccontava : Alle acclamazioni dei popoli facevan eco i  prosatori ed i poeti di quel tempo, e nell’entusiasmo  della sperata redenzione, sventuratamente poi tradita,  vennero fuori giovani ed uomini egregi, fra i quali Filioli, i Baldacchini, i Dalbono, Ruffo e quella sublime donna, che mai non si contaminò di servo encomio, Guacci. E quando 1 Ricord., c. V.  , rimosso ogni ostacolo derivante da  colpe politiche al conseguimento dei pubblici uffizi, abilitò all’esercizio delle pubbliche cariche gl’ impiegati ed  i militari destituiti per le politiche vicende, concedè ai  detenuti in carcere, espatriati, esiliati e condannati napoletani e siciliani alle galere e all’ergastolo di ritornare  nelle loro famiglie, Saverio Baldacchini il chiamò in un  suo inno, Padre a tutti, che il gaudio  Del perdonar provò;   e dall’animo purissimo della giovane Guacci si elevò  quella nobilissima esclamazione Oh ! lieto il sire,   Che nell’amor dei popoli riposa  Al coro delle lodi si unì adunque anche il filosofo di Tropea, tuttavia controllore delle contribuzioni, col seguente discorso; in cui l’adulazione del  suddito par s’indirizzi all’ idea dell’ottimo sovrano piuttosto che alla persona del giovine monarca ; onde si direbbe  che a tratti assuma il tono dell’ammonimento anzi che  del panegirico. Alcuni accenni di dottrine filosofiche,  che vi si mescolano, come i riferimenti ai concetti del  bello e del sublime, dimostrano il già sessantenne filosofo  incapace di distrarre la mente dalle sue astratte meditazioni. E questo è forse l’ultimo scritto, in cui gh accadde di volgere attorno uno sguardo, per esprimere  il suo pensiero su fatti e personaggi contemporanei.  .  1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, Napoli,  Morano. Pel felice avvenimento  al Trono delle Due Sicilie  di FERDINANDO II   Discorso Accademico  di G.    Di letizia ripiena, Accademia illustre, io ti rimiro. Con  la rapidità del fulmine l’arrugginita cetra riprender ti  vedo. Il tuo vivo ardore, di scioglier la lingua al canto,  espresso nel tuo volto io leggo. Sì, dell’estro che ti accende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe ascende  sul trono di Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri  cuori, sparisce: in tutti i volti degli abitatori delle Due  Sicilie, con vivi ed espressivi colori, la gioia dipinta si  vede. Un grido di letizia dappertutto rimbomba.   Ma non è la gioia il solo effetto, che la comparsa del  giovine Re sul trono ha universalmente prodotto ne’nostri cuori. Un vivo sentimento di ammirazione e di  devozione verso la sacra persona di lui, si è immantinente acceso ne’ popoli di qua e di là del Faro. Ferdinando II, l’augusto discendente di tanti Re, non solamente quel sentimento fa nascere, che, in una ridente  primavera, l’aspetto d’una deliziosa campagna, negli  animi sensibili alle bellezze della natura e dell’arte, suole  produrre; ma quel sentimento eziandio produsse, che  in una vasta pianura, la veduta dell’azzurra volta del  cielo, in una notte serena, l'anima colpisce dell’osservatore attento a contemplar l’universo.   Ferdinando II è dunque un oggetto non solamente  bello, ma sublime. Come bello, la sua G. GIACOBINO ? I3I   comparsa sul Trono ha inondato di letizia il cuore de’  suoi popoli; come sublime, di ammirazione e di  devozione gli ha colpiti. Il bello ed il sublime producono  diverse affezioni morali: l’uno rallegra, ed in certe circostanze fa pianger di tenerezza. L’altro l’ammirazione e  la devozione produce. Nondimeno, quando il sublime si  riguarda come una causa, che su la nostra felicità influisce,  all’ammirazione ed alla devozione fa esso succedere la  confidenza e la letizia. Tale è il sentimento, che provano i  soldati di un’armata, quando sanno che il loro generale  è uno Scipione, un Alessandro, un Camillo ; e tale appunto  è quello che in noi produce la vista di Ferdinando II  sul trono delle Due Sicilie. Se il bello ed il sublime l’oggetto sono dell’eloquenza  e della poesia, se senza un oggetto, che sia defl’una e  dell’altra qualità fornito, il genio dell’oratore e l’estro  del poeta languiscono; se l'alto personaggio, che è l’oggetto di questa letteraria adunanza, è dell’una e dell’altra qualità eminentemente adorno, con ragione, Consesso illustre della città di Alcide, di estro animato ti  veggo, per fare oggetto de’ tuoi canti l’augusto principe, che al Trono ascende di Carlo III. Con ragione,  cogli occhi a me affissi, che dell’onore di esser tuo oratore  son fregiato, attento ti miro. Tu vuoi udir dal mio labbro  la dipintura dell’alto personaggio, che verso di lui attira  i nostri sguardi. Tu brami, che i motivi io ti esponga,  che dalla velocità incalcolabile del pensiero aggruppati insieme, i sentimenti di gioia, di ammirazione e di devozione ne’ nostri cuori producono. Ferdinando II è bello: nel suo volto dipinto si vede  la candidezza deH’anima sua, ed una certa misteriosa  espressione del buon senso, del buon umore, del brio,  1 Tropea, città, secondo la leggenda, di Ercole. Vedi Nicola Scrugli,  Notizie archeologiche di Portercole e Tropea, pp. 15-17. della benevolenza, della sensibilità e delle altre amabili  disposizioni. Con questa sua bella fisonomia e colle sue  belle maniere, la letizia egli sparge ne’ nostri cuori. Ma  non è questo il punto di veduta, sotto di cui io mi propongo di dipingerlo. Ferdinando II ci ha colpiti di ammirazione e di devozione, ed a questi sentimenti è successa  la speranza e la letizia. Egli è dunque un oggetto sublime.  Un oggetto sublime è grande. Egli è, per conseguenza,  grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad ammirare in lui ? Sarà forse quella degli Alessandri, e de’ Cesari ? Quella vera grandezza, che in questi gravi capitani dell’antichità noi ammiriamo, si trova bensì nel  nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediatamente ci colpisce, e che più in lui risplende. Una grandezza guerriera può trovarsi negli uomini i più nefandi.  Siila non era insieme un gran capitano, ed mi mostro  di crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché conosce i  doveri di un Re. Egli è grande, perché adempie i doveri  di un Re. È questo l’oggetto del mio discorso. Parte Prima Un pensiere è grande, allora che esso è esteso. Un  pensiere che, nella sua espressione la più semplice, comprende tutti i pensieri particolari, che vi si rapportano,  è un pensiere grande; e l’anima, che lo sente in sé, sperimenta un sentimento di grandezza. Il sentimento della  grandezza è il sentimento della forza o del potere. Colui  che possiede una verità generale, sente che ha in suo  potere tutte le verità particolari che vi son comprese.  Egli è simile a colui che, posto su la cima di un alto monte,  comprende, con un semplice sguardo, un vasto e variato  orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande quando ci  rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di Annibaie  dicendo: Allora che poteva servirsi della vittoria, amò  meglio goderne. Una consimil grandezza si ravvisa  nell’ idea, che egli ci dà di tutta la guerra di Macedonia,  quando dice: «Il vincere fu l’entrarvi». Uno spirito  sublime racchiude le verità particolari in una che sia la  più generale, e per conseguenza la più semplice.   Ferdinando II, asceso sul trono de’ suoi antenati, vede,  con un colpo d’occhio, tutti i doveri di un Re: egli li  racchiude in un principio generale. Il suo pensiere è  grande: egli che lo concepisce, è grande in conseguenza.  La prima parte del mio discorso accademico è terminata.   È terminata? Accademia illustre, ti credi tu forse, con questo mio  breve parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu forse  sperimentato un sentimento dispiacevole, simile a quello  che sperimentar suole uno spettatore di un’azione teatrale, allora che una causa improvvisa lo chiama in altro  luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma cesserà in te  questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità  incalcolabile del sentimento mi ha fatto attraversare, in  un baleno, un vasto spazio. Io non ho potuto arrestare  la sua impressione. Lo scotimento prodotto nell'anima  da qualche grande oggetto, l’alza notabilmente sopra il  suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di entusiasmo piacevolissimo finché dura, che le fa comprendere, con uno sguardo, una moltitudine di oggetti, ma  da cui l’anima tosto ricade nella sua ordinaria situazione.  Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili, lo  spazio trascorso. Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero universo, diede  all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui. L’uomo  è dalla sua natura determinato allo stato della civil società. In questo stato solamente può egli perfezionar se  stesso, ed adempiere la sua destinazione. L’uomo ha in se  stesso le tendenze, i mezzi e la legge di vivere nella civil società. La società civile non può sussistere senza un  essere morale, dotato del potere legislativo ed esecutivo.  Un tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici,  il sovrano è il Re.   Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società su  la terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque  della sovranità, come ordinata a quella della civil società,  è voluta da Dio per la felicità degli uomini. Queste semplici riflessioni ci menano infallibilmente alla conoscenza  del principio generale della morale de’ Re. La destinazione dei Re su la terra è di rendere,  per quanto è loro possibile, felici i  loro sudditi. Ecco il principio luminoso e sublime,  che tutti racchiude i regi doveri.   Ma non udiamo noi forse questa sublime e consolante  filosofìa annunciarsi a’ popoli delle Due Sicilie, nel primo  momento del suo avvenimento al trono, dall’augusto  Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in quell’ammirabile proclama, che destò ne’ nostri cuori l’ammirazione e la devozione per la sua sacra persona, e che  di vera gioia gl' inondò. Il giorno otto di novembre dello  scorso anno 1830 Ferdinando II ascese sul trono, ed in  quell’ istesso giorno egli così parlò a’ suoi sudditi :  Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’ nostri  augusti Antenati, sentiamo l’enorme peso, che il supremo Di¬  spensatore de’ regni ha voluto imporre sulle nostre spalle, nel-  l'affidarci il governo di questo Regno. Siamo persuasi che Iddio,  nell’ investirci della sua autorità, non intende che resti inutile  nelle nostre mani, siccome neppur vuole che ne abusiamo. Vuole  che il nostro Regno sia un Regno di giustizia, di vigilanza, e di  saviezza, e che adempiamo verso i nostri sudditi alle cure paterne  della sua Provvidenza. 1 II proclama si può leggere nella Collezione delle leggi e de' decreti  reali del Regno delle Due Sicilie, sem. II, Napoli, Stamp.  Reale.  A voi, gran Dio, che avete nella vostra mano il cuore  de’ Re, per inclinarlo secondo la vostra volontà sempre  santa, grazie siano rese del prezioso dono, che nella vostra  misericordia ci avete concesso. Non mica nel furore del  vostro giusto sdegno, ma nelle vedute imperscrutabili  della vostra misericordia, voi ci avete inviato a reggere  i nostri destini il giovane eroe, che ci sorprende colla  sua sublime sapienza. Egli riconosce che non dee punto  abusare dell’autorità di cui voi l’avete rivestito; che  è suo sacro dovere, di far che regni fra di noi la giustizia,  e che egli sia il felice istrumento delle cure paterne  della vostra provvidenza su di noi. Ciò è lo stesso che  riconoscere esser egli destinato da voi  a render felici i suoi sudditi. Ciò è lo  stesso che proclamare il principio generale della morale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’ suoi  popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto,  che ha appena compiuto il quarto lustro della sua età. Egli è dunque dotato di un’anima grande ; ed è con ragione,  che qual Grande è salutato da’ popoli delle Due Sicilie.  Un’anima grande ha solamente potuto concepire il pensiero sublime, che tutta racchiude la morale de’Re;  ed un’anima grande ha potuto, invece di essere distratta  dallo splendore del Trono, specialmente in un’età giovanile, concentrar tutta se stessa nell’espressione de’  propri doveri, ed esserne profondamente penetrata. Nell’ammirabile proclama il nostro gran Re non solamente conosce la sua augusta destinazione nel governo  de’ suoi popoli, ma vede ancora i mezzi principali, che  debbono fargli conseguire il gran fine. Egli scovre nel principio le illazioni. Egli vede, in primo luogo, che gli  uomini non possono esser febei, senza esser virtuosi:  egli conosce T intima relazione, che passa fra la virtù  e la Religione; che i sentimenti rebgiosi conducono alla  virtù, come la virtù conduce alla Rebgione. Egli comprende che la vera religione viene in soccorso della pubblica autorità, e per estendere la sanzione delle leggi,  e per ottenere ciò che esse non possono prescrivere, e  per evitare ciò che esse non potrebbero sempre giugnere  ad impedire; ed egli conclude, che dee proteggere la  divina Religione, che c’ illumina. I grandi, dice il  celebre Massillon, « non son grandi se non perché eglino  sono le immagini della gloria del Signore, ed i depositari della sua potenza. Eglino dunque debbono sostenere  gl’ interessi di Dio, di cui rappresentano la maestà, e  rispettare la Religione, che sola rende rispettabili loro  stessi.   Dalla Religione volge il nostro gran Re lo sguardo alla  giustizia. Egli vede che la felicità de’ cittadini richiede  una gelosa custodia de’ loro diritti. Egli conosce che  questa custodia è il sacro dovere del potere giudiziario.  Egli è convinto che il Re nell' istituzione di questo potere,  e nell’elezione de’ membri, che debbono comporlo, deve  porre la maggiore attenzione che gli sia possibile. Il cittadino dee, sotto la protezione della legge, e del pubblico  potere, vivere tranquillo: egli non dee temere che i suoi  diritti sieno violati. Magistrati, a cui la regia maestà  consegnò la spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente  legislatore. Tutti i miei sudditi, egli dice, debbono essere  uguali agli occhi della legge. I tribunali debbono essere  un santuario, che la corruzione, la prepotenza, T intrigo,  non debbono giammai profanare. Se i giudici debbono  essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non debbono essere legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è  una funzione estranea al loro potere. L’impero della  legge dee essere universale. Noi vogliamo dice il Proclama che i nostri tribunali  siano tanti santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagl' intrighi, dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o  interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono uguali, e  procureremo che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia. I cittadini non possono essere felici, se lo Stato non  è ricco. Uno Stato, dice un celebre politico, non si può  dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché ogni cittadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬  damente supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua  famiglia. Un lavoro assiduo, una vita conservata a stento  non è mai una vita felice. I dazj eccessivi sono contrarj  alla felicità di cui parliamo; ed i dazj debbono essere  eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato presenta un voto. E qui l’anima grande di Ferdinando II  ci si mostra allo scoverto. Egli non dirige il suo sguardo  su le pompe de’ Re, su i palagi de’ Grandi, ma lo dirige  su i cenci, e su i tugurj de’ poveri e degl’ infelici. Al suo  penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo doloroso  della soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo. La sua grande anima ne è profondamente penetrata,  ma non abbattuta. Le grandi passioni innalzano l’anima,  e scovrire le fanno degli oggetti incogniti agli uomini  ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento stesso  il voto spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di  ripararlo. La grande opera della instaurazione delle reali  finanze, è tosto nella gran mente del Principe magnammo  già delineata. La felicità de’ cittadini richiede ancora,  che lo Stato sia temuto e rispettato al di fuori. Ad un si grande oggetto conferisce un’armata disciplinata,  valorosa ed animata dal nobile ardore di gloria. E Ferdinando II si fece già ammirar da capitano, prima di  farsi ammirare da Re. Augusta filosofia! Se io a te consagrai sin da  primi anni la mia vita, se non ho avuto altro scopo ne  miei scritti, che di annunciare la verità al genere umano,  se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da te non  si concepisca contro di me alcun sospetto, che mi avvilisca a’ tuoi sguardi. No, l’adulazione non ha profanato  il mio linguaggio. Io non ho prestato al mio Eroe i miei 10 - Gentile, Albori. I.  pensieri, per formarmi un prototipo di mia immagi¬  nazione. Io gli ho osservati in lui, che nel suo proclama gli  esprime. Io ho dunque, senza rimorso di arrossire al suo  cospetto, il diritto di concludere : Ferdinando II  è grande perché egli conosce i doveri  di un Re.    Parte Seconda   Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ? Il tempo,  in cui 1’Eroe di questo discorso regna su di noi, non è  ancora di tre mesi; ed egli ha tali e tante cose operato,  che con ragione i sudditi suoi, nella sincerità del loro  cuore, 1' hanno unanimemente acclamato per Grande.  Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’ personaggi di tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono  de’ secoli. I loro passi sono di una rapidità incalcolabile,  ed agli occhi degli uomini ordinar] sembrano de’ prodigi- Eglino, quando anche la loro vita fosse molto corta,  formano l’epoche della storia; perché producono quei  memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’popoli, e fanno a questi percorrere un cammino diverso.  I loro nomi resistono al furore del tempo, che tutto distrugge. Ferdinando II ascende al trono de’suoi antenati,  nell’aurora della sua vita. Un uomo ordinario sarebbe  stato sedotto dallo splendore del Trono: egli avrebbe  sdegnato le penose cure del governo di un Regno; egli  sarebbe stato colpito dal fasto de’ grandi. Il giovin Eroe  chiude gli occhi alle pompe incantatrici del Trono, ed  attento gli rivolge su i mah del suo popolo. Egli non  vuol assidersi in mezzo de’ grandi pria di piangere cogl’ infelici. Una serie d’infausti avvenimenti produce torrenti  di mali, ed immerge nel dolore e nel pianto gli abitatori  di queste belle contrade. Un muro di separazione s’innalza fra di noi. Esso divide i sudditi da’ sudditi. Quelli della parte sinistra son privi della vita civile, nell’atto  che la necessità ne chiama degli altri, che sono insufficienti, alle pubbliche cariche.   Il potere giudiziario perde tanti ragguardevoli magistrati. L’amministrazione tanti prudenti e savj amministratori. La indizia tanti valorosi campioni. Gran Dio,  chi riparerà i nostri mali ? Voi avete udito i gemiti de  buoni e virtuosi cittadini di questo bel Regno: la vostra  voce finalmente dal Cielo si è udita. Popoli delle Due  Sicilie, rasciugate le vostre lagrime : i vostri cuori si aprano  alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende sul Trono:  egli sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a nuova  vita. Sì, il core magnanimo di Ferdinando il Grande è  commosso all’aspetto de’ mah di una gran parte de  sudditi suoi. Egli sente, nella sua clemenza, che, essendo  l’immagine di Dio e del Redentore divino su la Terra,  dee qual padre correre ad abbracciare il figliuol prodigo.  Egli vede, che la discordia in un Regno è la sorgente di  mali deplorabili, e che un principio saggio dee farla cessare. Egli conosce, che i Re debbano regnare su i cuori  de’ loro sudditi. Il memorando decreto del 18 dicembre  del 1830 è pubblicato. Il muro di separazione è rovesciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale ».   Tacete, animucce infelici, in cui la calunnia ha posto  la sua sede, tacete. Che cosa mai dir vorrete ? Che il  Reai Decreto or ora citato è una finzione ? Che esso non  avrà alcuna esecuzione? No, l’anima eroica di Ferdinando II non cape siffatta bassezza. I reali Decreti del  dì 11 del corrente gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi- [A questo punto d'altra mano, in margine: «La tempesta politica  fa traviare dal retto cammino anche i migliori talenti. L’atto sovrano del 18 dicembre 1830 portava un indulto in favore  dei condannati come rei di Stato, e di coloro che per ragioni politiche  si trovavano esclusi dagli impieghi civili e militari.   3 Allude ai due decreti nn. 104 e 106, emanati con quella data da  Ferdinando II, col primo dei quali si cercava di curare le piaghe   ALBORI DELLA NUOVA ITALIA nando II regna senza distinzione, su i cuori di tutti i  sudditi suoi. Tutti si riguardano quasi fratelli, perché  vivono sotto T impero di un Re, che è loro Padre.  DalTuna all’altra estremità delle Due Sicilie una sola  voce si ascolta : Viva l’Eroe! Viva Ferdinando II il Grande! Tutti sì, tutti son pronti  a versare per un tanto clemente Monarca il loro sangue. La virtù non dee amarsi che per se stessa, e sarebbe,  in buona filosofìa, un distruggerla il riguardarla qual  mezzo per la felicità. Ma è essa una verità incontrastabile, che l’uomo virtuoso sarà felice, ed il vizioso infelice.  Quale spettacolo più commovente per l’anima di Ferdinando II di quello che gli presentò la capitale ne'  giorni ix, 12 e 13 di gennajo, e la relazione, che certamente gli pervenne, della letizia universale innalzata  sino al più vivo entusiasmo di tutto il Regno ? Il piacere  di rendere milioni di uomini felici, e di vedersi da essi  adorato ne ha esso forse un eguale su la terra ? Il Principe  magnanimo intese nel suo cuore, che egli ha tanti soldati, quanti sudditi conta il suo regno. Egli vide il suo  Trono immobile, la sua gloria immortale. La grand’opera della rassicurazione delle reali finanze  la dicemmo già delineata nella gran mente del nostro  Eroe. La mano incomincia tosto ad eseguire il disegno profonde che erano nelle finanze del Regno, sopra tutto dei domimi continentali, per le conseguenze fatali della straniera usurpazione: gli avvenimenti disgraziati del 1820#; si esponeva con leale  franchezza il deficit della tesoreria generale di Napoli, che ammonta a 4 345 251 ducati; per colmare gradualmente il quale si  annunziava una serie di lodevoli economie nella milizia e nei ministeri,  oltre straordinari rilasci della cassa privata del Re e dell'assegnamento  della R. Casa; l’abolizione del cumulo degli stipendi; l’imposizione  di una ritenuta ai soldi e pensioni superiori a 25 ducati mensili; e in  compenso pel « sollievo della parte più bisognosa del popolo » si diminuiva della metà il dazio sul macino. Con l’altro decreto veniva prescritta « una generale economia nelle spese a carico dei comuni di qua  del Faro per invertirla nella diminuzione de’ più gravosi dazi  comunali». Vedi Collezione cit., a. 1831, sem. I, pp. n-17, e 18-20.   G. GIACOBINO? I4I   del pensiere. I Re imprimono alle loro azioni un carattere di gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea  di grandezza si associa a quella delle azioni de’ grandi,  e l’impero delle idee associate sul cuore umano è molto  esteso. Quindi la virtù, quando si scorge nelle azioni  de' grandi, di qualunque grandezza essi sieno adorni,  rende la virtù rispettabile su la terra. Guidato da questo sublime pensiere, Ferdinando II  incomincia da sé la nobile impresa. Que’ insti spazj di  terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto restituiti all’agricoltura. Questa misura diminuisce le spese relative  alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza.  Un rilascio è conceduto dalla borsa privata del Principe:  altro ne è fatto dall’assegnamento della Casa reale. La  classe degl’ impiegati è chiamata ad imitar l’esempio del  Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto del di  11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien  tosto a colpirci di ammirazione e di gioja.   Se tali sono le imprese di Ferdinando II in men di  tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un lungo  regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la  restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra  ed immutabile. Il passato ci autorizza a sperare il futuro.  Sì, il cittadino vivrà tranquillo sotto 1 * impero della legge.  Il regno di Astrea rinascerà su le nostre contrade. Ed io  non posso trattenermi di finire col poeta latino:   lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna,  lavi nova progenies caelo demìititur alto. Con la pubblicazione del suo proclama il Giornale ufficiale  annunziava le sue disposizioni per l’abolizione delle cacce »: N. Nisco,  Gl’ultimi trentasei anni del Reame di Napoli. G. è stato detto a ragione gran riformatore della filosofia italiana ; e aspetta ancora un degno illustratore della sua vita e del suo pensiero . Noi ne diremo soltanto quanto è neces sario al disegno di questo lavoro. Nasce a Tropea, in Calabria dal barone Vincenzo e da Lucrezia G., una delle più antiche famiglie patrizie di quella cittaduzza. Fattii primi studi di latino, è mandato a scuola di filosofia e matematica d’un abile maestro, tal Ruffa, che gli pone in mano la Logica di GENOVESI (si veda) e la Geometria di Euclide; e l'innamora talmente di questi autori e di queste discipline, che G., anche innanzi negli anni, non rivede quei saggi senza una certa commozione. Ma non si ferma a GENOVESI (si veda); perchè alcuni suoi compagni l'induceno a leggere la Teodicea del grande avversario di Bayle. E G. ne è invogliato a studiare tutto il sistema nelle opere del Wolff, come anche ad applicarsi alla teologia, poichè nella scuola si è introdotto, scrive egli stesso, un certo misticismo. Studi teologici e metafisici continua a coltivare a Napoli , dove si reca, da Palermo, ove il padre qualche anno prima aveva condotto la famiglia. Frequenta le lezioni di teologia di Conforti, il Sarpi napoletano, e quelle di greco di Baffi; entrambi vittime gloríose. Studia la Bibbia, la storia antica, l'ecclesiastica, la patristica, Vedi il brano autobiografico pubblicato da PIETROPAOLO nella Rivista di filosofia scientifica di Morselli, &., e ripubblicato da TORALDO nel suo Saggio sulla filos. di G. e le sue relazioni col kantismo, Napoli , Morano  ( dove per una gvista è stampato amabile per abile.  specialmente Agostino. Ma, per la morte del suo minor fratello Ansaldo, dove rimpatriare per attendere all'azienda domestica ; e sposa Barbara d'Aquino di Cosenza, dalla quale ha quattordici figli! Negl’elementi di psicologia egli stesso ricorda la sua numerosa figliuolanza, che nella sua casa non grande gli impede co'suoi strepiti infantili di studiare la filosofia e le matematiche, senza la sua grande passione per questi studi. Persistetti, egli dice, e l'esercizio mi pose in istato, che io me ditavo tranquillamente, non ostante i giuochi strepitosi, i pianti e le grida de’ragazzi. Per rispondere alle censure che certi ecclesiastici avevano fatto di alcune sue proposizioni, pubblica una Memoria apologetica Nè tralasciava frattanto di coltivare la filosofia : ma i saggi filosofici che legge, com'egli c’informa, sono tutti della scuola cartesiana. Legge Condillac, e qui comincia la seconda epoca della sua vita filosofica. Le opere di questo filosofo fecero cambiare la direzione dei suoi studi nella filosofia, lo compresi , - ci dichiara G., – che prima di affermare qualche cosa su l'uomo, su Dio e su l'universo , bisogna esaminare i motivi legittimi dei nostri giudizi e porre una base solida alla filosofia; che bisogna perciò risalire all'origine delle nostre conoscenze, e rifare in una parola il proprio intendimento. Così egli scrive quando è molto progredito nella critica della conoscenza, e aveva, si può dire, approfondito il problema. Forse la prima lettura di Condillac non gli diede quella netta coscienza, che parrebbe da queste parole , dell'im portanza della questione gnoseologica . Certo, l'avviò per questa strada, che è la strada maestra delle filosofia moderna, facendolo ritornare sul Saggio di Locke. E primo frutto di questi nuovi studi fu nel 1807 un opuscolo Sull'analisi e la sintesi; le due ; 2.a ed. , Firenze, Pagani. Anche Vico nella sua vita ricorda con quella sua disinvolta vanità di esser * uso sempre a leggere o scrivere, o meditare » tra lo strepito de' suoi non pochi figliuoli. In Napoli , pei torchi di Vincenzo Mozzola - Vocola. Autobiografia citata. Napoli, Verriento. Tirato in pochi esemplari non messi in vendita, quest'opuscolo è divonuto oggi rarissimo. Una copia è conservata dalla Biblioteca Universitaria di Napoli, nella Miscellanea Imbriani.  I facoltà che occuperanno un posto primario nella filosofia dello spirito galluppiana. Tutto intento a' suoi studi , e senza allontanarsi mai da Tro pea, se di là « con l'occhio e col pensiero, come immaginava in un suo affettuoso elogio Vista, non si sarà rivolto « alla prossima Cotrone, ed ai suoi costumi ed alle sue idee trovato un modello nella vita e nella sapienza del divino Pita gora; certo avrà seguito gli avvenimenti politici dei for tunosi tempi del decennio francese in Napoli , com'è certo che partecipò vivamente con l'animo alle riforme liberali allora at tuate o vagheggiate. Scrisse anche un opuscolo Sulla libertà com patibile con ogni forma di governo, rimasto inedito. E da re Gioacchino è nominato controllore delle contribuzioni della provincia di Catanzaro. Della parte da lui presa alla vita pub blica contemporanea si ricorda pure un opuscolo, Lo sguardo dell'Europa sul Regno di Napoli, in difesa degli ordini costituzionali napoletani minacciati dal Congresso di Lai bach, e contro l'intervento straniero. E altri due opuscoli avrebbe indirizzati al Parlamento napoletano , l'uno Sulla libertà dell co scienza e l'altro Sulla libertà della stampa; opuscoli ora irrepe ribili, ma che non dovevano contenere niente di diverso dallo scritto Su la libertà compatibile con ogni forma di governo, di cui larghi squarci e transunti furono pubblicati; nei quali il Nostro mostrasi largo fautore di ogni libertà, 4. Quando scrisse l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi G. ancora non conosceva nulla di Kant, secondo che egli stesso ci attesta. La conoscenza di questa filosofia, egli dice, non cam biò punto la direzione dei miei studi ; io continuai le mie appli [Memorie e scritti di L. LA VISTA, Firenze, Le Monnier, Vedi quel che no dice TULELLI in un'interessante memoria Intorno alla dottrina ed alla vita politica del bar . P. G. - Notizie ricavate da alcuni suoi scritti ine diti e rari, negli Alti della r. Acc. delle scienze mor . e pol. di Napoli, I, 201 e sgg. Il TULELLI pubblicò un'altra memoria : Sopra gli scrilli inediti del bar, P. G. negli stessi Atti del 1867, III, Vedi l'opuscolo più sotto citato di BISOGNI, Omaggio Vedi la prima delle due memorie del Tulelli. Pare tuttavia che nella reazione G., che allora trovavasi a Tropea , non abbia mantenuta quella condotta che si conveniva a un amico della libertà . Nell'Eco di Tropea) TORALDO , al quale pure si deve il citato Saggio sulla filosofia di G. con appendice di scritti inediti, ha pubblicato questo bruttissimo sonetto recitato dal Nostro noll'Accademia degli Affaticati di quella città : cazioni su l'intendimento umano, ma profittai molto delle fati che del filosofo di Koenisberg ; io riconobbi il merito dei problemi elevati dalla filosofia critica , sebbene trovai insufficiente la so luzione che questa ne avea dato . Le meditazioni da me por tate su la filosofia critica , elevarono molto più alto i miei pensieri e mi presentarono delle nuove vedute nella scienza dell'intendi mento umano. E vedremo infatti quanta parte del criticismo kantiano si rispecchi nel Saggio filosofico sulla critica della co noscenza , di cui il Nostro pubblico i primi due volumi a Napoli, [Questa prima conoscenza di Kant provenne a G. dalle esposizioni nè complete nè esatte di Villers e di Kinker e Della Patria il dolore, il lutt , il pianto , La rea sorte fatal veder non voglio, Di Marto, di Bellona il fler orgoglio , L'augusto trono di Minerva infrant, Spesso sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fler cordoglio, Pria che de' Franchi vacillasse il soglio , Dico nel mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo. Occhi mici, non piangete, Grido nel mio furore ; io corro or ora Sollecito a varcar l'onda di Loto. Ma già l'Angiol divin , che accanto giace, Di man mi toglie il ferro , e grid'allora Verrà Fernando: tornerà la paco! Il sonetto è conservato su un foglio volante, che reca dalla parte opposta queste parole che sono la conclusione di un discorso accademico :Ferdinando augusto , principe ma gnanimo, nell'impetuoso turbino che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza. Ferdinando viene, Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è terminato. E poi : G. fra gl’affatigati il furioso. Siegue dietro il Sonetto dello stesso accademico A me pare che discorso e sonetto possano riferirsi alla reazione. Le frasi di questo passo meritano particolar considerazione per quel cho si dirà più innanzi del pensiero galluppiano. Pei torchi di Domenico Sangiacomo. Seguirono altri 2 vol. Messina , Pappalardo; poi un 5.° e un 6. ° , per cui l'opera fu compiuta,, presso lo stesso Pappalardo. In Napoli fu incominciata la 2.a edizione migliorata ed accresciuta. Philos. de Kant, ou principes fondamentaux de la philos. trascendentale, Metz, 1807. ( 4) Essai d'une exposition succincte de la Critique de la Raison pure ; trad. du l'ol landais par. J. le F.; vedi su questi e gli altri primi scritti francesi sul Kant l'im portante memoria del PICAVET, La philos. de Kant en France, proposta alla sua trad. della Critica della Ragion pratica (Paris, Alcan). dalla Storia comparata dei sistemi filosofici del Degerando. Egli non seppe mai il tedesco, nè mai conobbe la traduzione latina di alcune opere kantiane, già ricordata, fatta dal Born; nè era uscita peranco la traduzione che il cav. Man tovani fece della Critica della ragion pura, e che sarà poi la sua fonte principale. Pubblica gl’Elementi di filosofia contenenti la Logica pura e la Psicologia, e promette l'Ideologia, La logica mista , la Filosofia morale, che infatti uscirono in altri volumetti, e una Storia filosofica ragionata, che un avvertimento dell'editore al quinto volumetto annunzia non si sarebbe piu pubblicata avendo l’autore su l'oggetto intra presa un'opera estesa. E questi saggi, i migliori testi di filosofia per le scuole che si siano avuti finora in Italia, per i loro squisiti pregi didattici d'ordine e di chiarezza, si divulgarono presto per tutta Italia, procacciando molta fama al benemerito autore. Scrive alcune lettere sulla storia della filosofia, indirizzate a Fazzari, che a Tropea insegna gli Elementi di lui e desidera da lui stesso di essere orientato in mezzo al caos delle opinioni, che al presente scrive G. nella prima lettera — agitano il mondo filosofico, e di essere sovrattutto informato della filosofia critica. E queste lettere l'autore raccoglieva in un bel libro, piccolo di mole ma che è il primo degno saggio di storia della filosofia in Italia , il quale diede [Nè soppe tanto di francose da tradurre da questa lingua sonza errori di senso. Vodi per un esempio curiosissimo la mia prefazione al Saggio di  TORALDO. Aggiunse più tardi gl’Elementi di teologia naturale. Si fa a Firenze una edizione di tutti questi Elementi di filosofia con aggiunte dell'autore e note di P.(OMPILIO ) T.(ANZINI) S. ( COLOPIO ), pubblico lettore; ristampata a BOLOGNA. Di questa Storia della filosofia non è pubblicato poi che il primo volume contenento il primo dei duo saggi d’Archeologia filosofica, che l'autore intende premettere all'opera. Ne conosco solo l'odizione di Milano, Silvestri, nella quale precode l'Elogio funebre scritto da PESSINA. Lellere filosofiche sulle vicende della filosofia relatiramente ai principii delle cono scenze umane da Cartesio sino a Kant inclusicamente, Messina, Pappalardo. Le lettere in questa edizione sono tredici. Una 14. ne aggiunse l’A. alla 2.a edizione (Napoli), con un Discorso di BLANCH per venire fino a Cousin e a SERBATI. E questa 2. edizione è riprodotta in quella di Firenze, Fraticelli. occasione al Romagnosi di scrivere una Esposizione storico-critica del kantismo e delle consecutive dottrine. E altre cinque Lettere sull’ontologia indirizzd a un amico, dove si adopera a mettere in chiaro, da un punto di vista kantiano, la futilità dell'ontologia wolfiana. Ma queste lettere non sono venute in luce che recentemente. Per tutti gli scritti già divulgati G. s'è reso noto per tutta Italia; e SERBATI, appena stampati suoi Opuscoli filosofici, glielo invia da Milano, dichiarandoglisi obbligato se egli, che ha arricchita la filosofia, quella scienza avvilita e profanata nei nostri tempi, anzi distrutta, avesse voluto aggradire l'opera e comunicargli qualche lume relativo alle materie che sono in esse contenute. E si stabilì fra i due filosofi un carteggio assai istruttivo per chi voglia conoscere le relazioni storiche delle rispettive loro dottrine . Varie accademie l'aggregano a’loro soci. Fra esse la Sebezia e la Pontaniana di Napoli. Quivi G. torna; e subito vi pubblica una traduzione dei Frammenti di Cousin, con una prefazione e una dissertazione del traduttore, in cui si confuta il domma del l'unità della sostanza, ove però son comprese le osservazioni di G. intorno alle altre dottrine di Cousin non accettate. Avendo meditato su di questo sistema filosofico, trovo in esso delle vedute sublimi, ed insieme un errore pe  Che ne scrive prima una recensiono nella Biblioteca Italiana, di Milano. Nella stessa Biblioteca. Vedi Opp. filos . ed . e ined . , di G. D. R. con annotazioni di GIORGI, Milano. Su questo scritto e in generale sul Kantismo in Romagnosi vedi l'art. del CREDARO nella Riv. di filos. Italiana. Vedi ciò che ne ho detto nella prefazione al citato Saggio di Toraldo. Dovo queste lettere sono stato tutte cinquo pubblicato per la prima volta. Solo le prime due sono state edito da PIETROPAOLO, Scritti inediti di P. Gall. nella Riv, filos. scient.. Vedi GENTILE, Rosmini e Gioberti  (Pisa , Nistri). La filosofia di Cousin , trad . dal francese, ed esaminata dal bar. P. G., a spese del N. Gabinetto lotterario. Si incontra anche una postilla del traduttore relativa ad alcune massime morali di Cousin,  ricoloso. Quindi, accompagnando la traduzione con la detta dis sertazione, ei credeva di porre il lettore filosofo in istato di conoscere non solo la filosofia di Cousin, ma di giudicarla. Il saggio frutto presto molto favore all'eclettismo francese a Napoli, e specialmente al suo capo, che dal canto suo fa conoscere G. in Francia, e anche fuori per mezzo dell'amico Hamilton, che in un giornale filosofico di Edimburgo scrive un articolo sul Nostro. A Napoli è persuaso da amici a chiedere la CATTEDRA di logica e METAFISICA vacante. Presentato al ministro degl’interni marchese di Pietracatella, questi, udito il suo desiderio, l'invito a cimentarsi a un esame. Ma egli con sdegnosa semplicità calabrese risponde. E chi c'è a Napoli che possa esaminare G.? L'amico che lo presenta rimane sconcertato. Ma il nostro filosofo ha il suo decreto di nomina. Con che festa noi, narra Settembrini con quanta calca tutte le colte persone si anda a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli appollaiato su la cattedra detta con l'accento tagliente del suo dialetto! Ci sono sempre i maldicenti, i quali diceno che egli è mezzo barbaro nel parlare, ma in quel parlare è una forza di verità nuova, ma l'ingegno è grande, e il cuore quanto l'ingegno. Da una novella prova delle sue attitudini didattiche dando alle stampe un'opericciuola: Introduzione allo studio della filosofia. Ma nel seguente anno, primo del suo insegnamento, coi primi due volumi della Filosofia della volontà dedicati al marchese di Pietracatella, poi e --- Si conservano nella biblioteca del Cousin , appartenente alla Ropubblica, le lettere a lui di G. Vedi l'art. da me pubblicato su Cousin e l'Italia nella Rassegna bibliograf. della letter. ital. Cousin fa tradurre in francese dal Peisse suo discepolo le lettere di G.; o questi da Trinchera le lezioni di Cousin Sulla filosofia di Kant, aggiungendovi egli delle note, come è notato a suo luogo. Un'affettuosa commemorazione di G. fa Cousin all'Accademia di Francia, o pubblica nel Journal des Économistes, riportato nell'Omnibus di Napoli, dove G. scrive su Cousin. Vedi FIORENTINO, Man . di storia della filos., Napoli; SETTEMBRINI, Ricordanze , Napoli, e il Discorso cit . di BORRELLI, ammontati a quattro , già composti a Tropea, comincia a pubblicare le lezioni di logica e METAFISICA, dettate a Napoli, vero modello di quel lucidus ordo tanto raccomandato da Venosino. Ne compì la stampa; di cui fa una seconda edizione e una terza; ristampata da Tramater. A proposta di Cousin, in concorrenza con Hamilton che ha un solo voto, venne nominato socio corrispondente dell'Accademia delle scienze di Francia. E, a proposta di Guizot, Filippo lo insigne della croce della Legion d'onore Ei se ne sdebita con le sue Considerazioni filosofiche sul l'idealismo trascendentale, ossia sul sistema di Fichte, memoria presentata all'Istituto di Francia, accademia delle scienze morali e politiche; e mandando più tardi , poco prima di mo rire , uno scritto su la teodicea dei filosofi antichi, che fu inserito come il precedente negli Atti dell'Accademia. Pubblica una Storia della filosofia. Vi si tratta della filosofia greca, non però secondo la successione delle scuole, sibbene considerando e criticando le diverse opinioni dell'antichità sull'origine dell'universo e del genere umano fino ai neo-platonici. Una siffatta opera, dice in un elogio funebre dell'autore un affettuoso discepolo saria stata monumento novello di gloria italiana, se a nostra disavventura la vecchiezza, le malattie, le sciagure non avessero di tale infievolito l'animo di lui, ch'ei non potè vederla compiuta, ed a perfezione condotta. Infatti gl’ultimi anni della vita del nostro filosofo sono amareggiati da sciagure che ne affrettarono la morte. Già uno dei figli maschi è caduto, com'ei narra, vittima del furore d'un sconsigliato. Ed egli ne scrive e stampa (Messina) l'elogio. Poi gli è morta la moglie. Ora, in una insurrezione scoppiata a Cosenza perde la vita un altro suo figlio, Vincenzo, che è capitano. Il vegliardo Vedi la lettera di Guizot in LASTRUCCI, P. G. studio critico , Firenze, Barbèra Stampate in italiano, da' torchi del Tramater. Negl’Atti dell'Accademia francese sono pubblicato come la successiva memoria in francese. Elogio funebre di G. , per E. PESSINA, in Op. cit . , p. XIII. ne fu profondamente addolorato e agli amici che tentavano con fortarlo disse : « Avrei desiderato che morisse per una causa più nobile e giusta. Borrelli ne disse degnamente le lodi presso al letto funebre, fra una folla, che recarono a spalla la salma compianta alla chiesa di S. Nicola ; e gli celebrarono funerali solenni nella chiesa di Sant'Orsola a Chiaia, in cui recita un'orazione il gesuita Curci. Campagna piange la morte del filosofo in un sonetto filosofico, lamentando che con lui si partisse dalla terra Una favilla dell'eterno lume. Dall'Accademia delle scienze morali e politiche a G. venne eretto un busto a Napoli, da lui onorata con molti altri spiriti magni. Molti saggi ha ancora in animo di pubblicare, oltre i ricordati, e molti manoscritti di lui ci son rimasti, ora in deposito presso la Biblioteca nazionale di Napoli, i quali fan testimonianza della larga estensione degli studi fatti da lui in teologia, storia dell'antica e moderna filosofia, filologia greca e latina, storia , matematica, astronomia. Meno vita modesta e di grande raccoglimento: assorto negli studi, visse veramente per la scienza, in cui riuscì ad imprimere orme profonde, rinnovando la filosofia italiana. Egli infatti è il solo dei filosofi napoletani da noi studiati, dopo  GENOVESI (si veda), che esercita una influenza molto notevole al di fuori del regno, su tutti gli studi filosofici nazionali, Pubblicato nel Museo di scienza e lett.; v. DE SANCTIS, La letter . ital., Napoli, Morano, e nota di CROCE] Oltre la memoria ricordata di Tulelli , vedi l'olenco dei mss. galluppiani nel l'opuscolo citato di Pietropaolo. Per la biografia v. anche PALMIERI, Elogio stor . del bar. G. con alcuni poetici componimenti recitati in un'adunan za tenuta per cura di Palmieri in Napoli. V'è oltre l'elogio un sonetto di Campagna, un carme latino di A, Mirabelli, alcune sestine d’Anzelmi, un'ode latina di Guanciali e un sonetto improvvisato dall’egregio poeta Regaldi che per una congiuntura si trova presente alla nostra adunanza, - Vedi anche la necrologia Morti e morenti di CORRENTI, Rivista europea, ristamp. in Scritti scelti, ed. Massarani, Roma, Sonato. L'articolo di RACIOPPI, Il Bar, P. G. , nel Poliorama pittoresco; l'opuscolo di BISOGNI, Omaggio alla memoria del b. P. G. nell'occasione che in Tropea il Munic. e la Prov. innalzano una statua all'illustre filosofo, Napoli, Morano ( in 11. Nella quattordicesima delle Lettere filosofiche G., volendo determinare le relazioni della sua filosofia, ch'egli chiama sperimentale, col criticismo kantiano, si fa a descrivere le varie fasi attraverso le quali era passato il suo pensiero . Ma la de scrizione non è molto accurata ed esatta. Abbiamo visto come fino circa ai trent'anni suoi autori sono Leibniz, Agostino e i filosofi della scuola di Cartesio; e si può dire che egli fosse in un periodo di dommatismo metafi sico , che rimase poi sempre nel fondo del suo pensiero ; non solo perchè molto più tardi, quando aveva studiato anche Kant , con tro di questo egli affermava che « la filosofia è essenzialmente dommatica, e non può essere che dommatica. Essa dee contenere delle verità assolute; ma anche per altre ragioni: La lettura di Condillac gli fa intendere , che c'era una que stione preliminare dą risolvere prima di ogni metafisica : ricer care, cioè , i motivi legittimi dei nostri giudizi , quindi risalire all'origine delle nostre conoscenze , rifare, egli dice, l'intendimento. Condillac e Locke cangiarono insomma la direzione de' suoi studi. Segue perciò fino circa a quando venne a conoscenza di Villers e di Degerando, un periodo pre-kantiano di revisione della conoscenza; al quale periodo appartiene l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi, In questo egli concede a Locke e ai suoi seguaci, che tutte le nostre idee hanno origine da' sensi, che pertanto tutte le nozioni universali vengono a formarsi dal paragone degli oggetti particolari, e che le cognizioni particolari ci menano alle nozioni universali, e non già viceversa. Ma si propone la questione se lo spirito, tosto che ha formate le nozioni universali, possa paragonarle, scovrirne i rapporti, e quindi applicare questa cognizione universale alle idee particolari, racchiuse nell'idea universale , che si è paragonata colle questo opuscolo è pubblicato uno scrittorello inedito di G. Sulla semplice apprensione). Uno studio biografico ha pure dato in luce PIETROPAOLO, nel Pensiero contemporaneo di Catanzaro. Non c'è riuscito di vedere la biografla pubblicata nel Giornale dell'equilibrio, citata dal Palmieri, scritta da TULELLI sopra note comunicatemi questi dice, accennando molto probabilmente a questa biografia dall'autore medesimo; Atti della R. Accad. d. scienze morali e polit.  Letl. filos. Sull'analisi altre . Per es . , delle due proposizioni generali ogni cerchio ha tutti i suoi raggi uguali e ogni corpo è grave, nella seconda tra corpo e gravità non havvi una connessione necessaria e il loro rapporto non può affermarsi se non mediante il soccorso dell'espe rienza ; nella prima invece è nell'idea del cerchio la ragione di affermare l'uguaglianza de' suoi raggi; e fra le due idee v'è un legame necessario, che non dev'essere attestato dall'esperienza. V'ha dunque , conchiudeva il Galluppi, verità generali cui lo spi rito non perviene dalle verità particolari (sensazioni), « ma per mezzo del semplice paragone delle idee universali, ch'egli si ha formato; e v'ha poi verità generali che derivano dalla cognizione delle singole verità particolari , che ci fornisce l'esperienza. Le une costituiscono le conoscenze a priori e necessarie ; le altre le conoscenze a posteriori e contingenti. Le prime sono principii ana litici, in quanto si devono all'analisi delle idee generali già acquisite per l'esperienza; laddove le seconde sono un prodotto della sintesi delle verità particolari, non altrimenti che le idee universali. Sicchè già nell'opuscolo G. arriva a quella forza analitica e forza sintetica di cui fa nel Saggio il fondamento di ogni giudizio, distinguendolo net tamente dalla sensibilità. In quell'opuscolo si poteva egli dire ancora puro empirista? Certo, egli fa ancora, come Locke, derivare dalla sensazione ogni idea universale, e puramente speri mentale faceva ancora la materia delle conoscenze a priori. Giacchè le idee generali , fra cui può ammettersi un rapporto neces sario a priori, sono esse stesse sperimentali a posteriori . Tutta quanta la materia della nostra cognizione deriva dall'esperienza. Ma un a- priori si ammette nella sintesi , che, elaborando il dato immediato dei sensi , ci conduce alle idee universali e alle cono scenze contingenti, e più nell'analisi che ci fornisce conoscenze indipendenti dall'esperienza . In quell'opuscolo adunque l'empiri smo crudo cui il lockismo per mezzo dei sensisti francesi era stato ridotto , non era accettato. E notevole sovrattutto era in esso questa netta distinzione tra conoscenze a priori necessarie e co noscenze a posteriori contingenti , fatta da G. quando igno rava affatto la distinzione kantiana di giudizi analitici e sintetici alla quale corrisponde precisamente. Ne pare ch'egli allora cono scesse i Saggi filosofici sull’intelletto umano dell'Hume , nel quarto dei quali ritrovasi quella distinzione tra i legami di causalità, fon damento delle cose di fatto e relazione d'idee, scoperte per mezzo di semplici operazioni della mente, che giustamente si è voluto preluda alla teorica di Kant.Nel suo Saggio, la posizione di G. si determina assai più chiaramente. Egli, bene o male, ha già studiato Kant, e combatte l'empirismo di Condillac, d’Elvezio, di Tracy; di quel Tracy, che ancora a Firenze , al dire d'un arguto scolaro di Cousin, rappresenta le chef et maitre, celui qui l'a dit; e dichiara che la geometria, questa scienza pura, razionale, è la pietra immobile su cui va a rompersi la macchina debole dell'empirismo; e che, infine, non è vero esattamente ciò che egli aveva ammesso o , almeno, non aveva combattuto, nell'opuscolo: derivare cioè tutte le idee universali dal paragone delle particolari. Parve a lui che la critica di Kant fosse una vera rivolu zione. La rivoluzione kantiana, scrive nella prefazione del Saggio, merita , più di quel che si crede , l'attenzione dei pensatori. Asseriva bensì , che il criticismo non fosse altro che un neo logismo, sotto il quale non si faceva passare che una questione vecchia, quella dell'origine delle nostre idee. Ma le prime parole della sua prefazione erano tuttavia le seguenti. L'oggetto di quest'opera è la critica della conoscenza, o l'esame della realtà della scienza dell'uomo. Che cosa posso io sapere? Son io capace di conoscenze reali? Quali sono i motivi legittimi di queste conoscenze? Quali sono i limiti prescritti al mio spirito, limiti che non gli è permesso di oltrepassare senza precipitare nell'abisso dell'errore ? Tali sono le ricerche sublimi ed importanti che mi occuperanno. Ora queste sublimi ricerche, come tutti sanno, sono appunto quelle del criticismo kantiano ; che se è una rivoluzione, sarà cer tamente una novità. Vedi JAJA (si veda), Saggi filosofici , Napoli, Morano. E a quel saggio di Hame è G. ricondotto da Kant, nella IX delle sue Lettere filosofiche, per spiegare, esponendo la critica del concetto di causa fatta da Hume, perchè la lettura di essa svegliasse Kant dal suo sonno dommatico . Ma ivi, ricordando la distinzione di Hume tra cose di fatto e relazione d'idee, non ne avverte punto la parentela con la divisione kantiana dei giudizi. Vedi GENTILE, Rosmini e Gioberti.  Se non che, a giudizio di G., la critica di Kant, lungi dallo stabilire la realtà della conoscenza , tende radicalmente a distruggerla; che i suoi risultati sono essenzialmente scettici ; e quindi una buona dottrina della conoscenza non può costruirsi se non in opposizione a quella critica . Una critica, insomma, ci vuole ; ma non quella di Kant. E quale dunque? Noi non esporremo ne' loro particolari le teorie di G. e le critiche delle altrui dottrine ond'egli stabilisce le pri me. E poichè col Saggio filosofico la sua dottrina è già fissata , senza seguire l'ordine cronologico delle opere , possiamo dall'una e dall'altra di esse raccogliere i tratti caratteristici della sua fi losofia e farne un corpo compiuto. G., come gli antichi psicologi metafisici ammette un sistema di facoltà dello spirito; e a capo di tutte pone la co scienza o sensibilità interna. Questa è la facoltà per la quale lo spirito percepisce, sente se stesso, il me, la cui esistenza è una di quelle verità primitive, che ci sono attestate dall'esperienza, ma non si possono dimostrare ; come già pensano Cartesio e Leibniz. Nè vale l'obbiezione che noi non percepiamo se non le nostre modificazioni, e che l'idea del me si dedurrebbe percið da quella delle modificazioni, pel principio che non v'ha atto senza soggetto. Non v'ha sentimento delle proprie modificazioni donde si possa separare quello del proprio essere; perchè non si può percepire l'astratto, ma il concreto, non il dolore, ma il me dolente. Il me adunque è un dato dell'esperienza, che bisogna ac cettare come una verità primitiva di fatto ; e l'atto con cui lo si apprende , è la percezione immediata. Qui G., ritornando alla posizione cartesiana, ne sente tutta l'importanza. Egli osserva nel Saggio filosofico, che il defi nire , come si fa comunemente, l'idea per la rappresentazione dell'oggetto nella mente, separando cosi l'oggetto dalla mente , e il far consistere quindi la norma della verità nella conformità della nostra rappresentazione con l'oggetto esteriore, apre irrepa rabilmente la porta allo scetticismo. « Se gli oggetti, se la re gione dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza , all'oggetto ? Questo ponte si fa consistere nelle immagini degli oggetti. Lo spirito, dicesi , possiede le immagini degli oggetti ; ma in questo caso lo spirito non potrà giammai conoscere la conformità di queste immagini cogli originali, e la verità andrà sempre lungi da lui. Me [Saggio]  morabili parole , per cui G. non solo non è un prekan tiano , come credono i più , ma va innanzi al Kant dei neokan tiani ; del quale egli in questo luogo discopre espressamente il vizio principale , notando che il fenomenismo critico è una con seguenza della falsa posizione volgare dell'oggetto rispetto al sog getto, presunta dalla definizione dell'idea testé riferita. L'idea del me, a proposito della quale l'autore fa queste osservazioni, non ci deve esser data da una percezione che sup ponga il termine percepito opposto al soggetto percipiente. L'Io ed i suoi modi non sono separati dall'atto della coscienza , ma gli sono presenti. La coscienza li prende dunque immediatamente, e fra questa percezione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo . Questa coscienza , questa percezione è dunque l'appren sione e l'intuizione della cosa percepita. E le intuizioni, secondo G., son vere , non perchè son di accordo cogli oggetti , ma perchè elleno agiscono immediatamente sugli oggetti, e li prendono. Nè bisogna cercare di definire la percezione, perchè non se n'ha se non una nozione semplice, e ognuno pud solo rimettersene alla propria coscienza per istruirsene . Il semplice, adunque , il principio da cui parte G., è questa immediata coscienza di sè , che egli dice percezione o in tuizione ; la cui verità è fondata nella identità dell'essere e del pensiero, come in Cartesio . « Tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza di se stesso  (Saggio) . Sicchè la filosofia del G. è un vero soggettivismo , come si può vedere anche dal suo concetto della filosofia. Che cosa è mai la filosofia? Ella è , rispondono alcuni filosofi, la scienza di ciò che è . In conseguenza ella è la scienza dell'uomo , del mondo, di Dio. Una tal definizione suppone, che l'uomo possa giugnere a conoscere se stesso, il mondo e Dio. Ma, dicono altri filosofi, bisogna prima esaminare se l'uomo può saper qualche cosa ; e su qual fondamento può egli saperla . La conoscenza dei nostri mezzi di conoscere è certamente una conoscenza prelimi nare alla scienza delle cose. Da ciò segue che la filosofia pud riguardarsi sotto due aspetti , o come la scienza delle cose, o come la scienza della scienza umana. Considerata sotto il primo aspetto , ella può chiamarsi scienza oggettiva; considerata poi sotto il se condo, può chiamarsi scienza soggettiva. Ma se la filosofia è la scienza prima, la quale dee contenere la legislazione di tutte le Li investono, dice più innanzi. altre scienze , voi vedete bene esser necessario di considerarla nel secondo aspetto. A cið tende la celebre massima dell'antichità conosci te stesso . Io dunque la riguarderò come scienza sogget tiva. E scienza della scienza la definisce già negli Elementi di ideologia. Negli Elementi di filosofia morale la dice : la scienza del pensiere umano, distinguendola in teoretica e in pratica , secondo che studia l'intelletto o la volontà. Egli ha insomma un concetto moderno della filosofia, giustificato dal suo principio : che è la coscienza di sè. Ma come, partendo da tale principio, egli costruisce la realtà conoscitiva? E qual carattere dà al suo soggettivismo la sua costruzione? Prima di tutto , avverte giustamente G., bisogna di stinguere l'ordine cronologico delle nostre conoscenze dall'ordine scientifico, Noi abbiamo con la prima sensazione e come fonda mento di essa la coscienza del nostro Io ; ma essa non è certo una coscienza di riflessione. Vale a dire, c'è di fatto questa co scienza che è il Primo scientifico ; ma non si rivela se non alla riflessione filosofica posteriore, molto posteriore, cronologicamente. Perchè questa coscienza primitiva si rivelasse effettivamente, lo spirito dovrebbe cominciare da un giudizio ( lo esisto ), ed essere già in possesso dell'idea astratta di esistenza , laddove ei comincia invece da una percezione o sensazione che voglia dirsi . Comincia da una percezione complessa : dalla percezione del me che riceve delle modificazioni, dalla percezione del me che percepisce il fuor di me. Ora lo spirito presta successivamente la sua attenzione ai diversi elementi che compongono l'oggetto di questa prima percezione, decompone , divide questo oggetto ; poi lo ricompone di nuovo e forma il giudizio, che è perciò il pro Lett. filos., lett. Questo stesso concetto è svolto nella Prolusione del 1831: Introduzione alle lezioni di logica e di metafisica del bar . P. G. , Napoli, Gabinetto bibliografico e tipografico (ristampata in fronte alle LEZIONI di logica e di METAFISICA) e nelle primo tre di questo lezioni. Vedi puro il suo articolo Filosofia nella 1." dispensa dello Ore solitarie, rivista diretta allora da Riola , Mancini e  Curion, più tardi da solo Mancini. Nella Continuazione delle Ore solitarie ovvero Giorn. di scienze morali, legislat. ed econom., è un altro scritterello del G.: Sul panteismo di Lamennais. Saggio filos.,. dotto dell'analisi e della sintesi della percezione complessa. Sic chè bisogna ammettere nello spirito , oltre la facoltà della sensibi lità ( interna o coscienza, ed esterna) , quelle dell'analisi e della sintesi. 22. Il fuor di me ci viene offerto adunque dal me, da quella coscienza che cogliendo il me lo coglie modificato dal fuor di me. Questa coscienza, che il Galluppi dice pure sensazione, corri sponde , come bene osserva Spaventa, alla coscienza sensibile dell'Hegel ; è l'unità ancora confusa ed indistinta di soggetto ed oggetto. Allorchè, dice il Galluppi, la modificazione esterna « è percepita col me, che modifica , io non ho ancora che una per cezione ; ma quando ella è riguardata come distinta dal me, e poi riunita a lui dall'atto dello spirito , io allora giudico Saggio, lib . I , § 18). Ora, se conoscere è questo distinguere e unire, è chiaro che conoscere [GRICE COTCH] per G. non è sentire ( percepire [GRICE POTCH]) , ma giudicare. Quindi egli combatte i sensisti, insistendo sulla dif ferenza sostanziale che corre tra sentire e giudicare, notando come giudicare importi necessariamente un rapporto, e come non sia possibile indicare l'impressione esterna, l'organo sensorio che ci manifesta la conoscenza del rapporto. La forza analitica e la forza sintetica dello spirito sono distinte dalla sensibilità; come già aveva sostenuto nell'opuscolo. La coscienza sensibile è adunque l'unità fondamentale del conoscere ; l'unità che è condizione dell'analisi e della sintesi , ne cessaria a tutti i nostri giudizi. Ma come si giustifica questa unita ? Il fuor di me è sentito , dice G., come un molteplice del quale ciascuna parte è distinta dall'altra e le modificazioni di una parte non sono, nel mio sentimento, le modificazioni delle altre . Il tronco di un albero è distinto dai rami : ciascun ramo è distinto da un altro : il moto di un ramo può stare senza il moto di un altro e di tutto l'albero. Questa molteplicità si raduna nel me, il quale alla coscienza si rivela sempre lo stesso, sia che [Saggio filos., ed Elem . di Psicologia. Lo stesso è detto negli Elem , di Psicol.. Saggio G. riferisce un notevolissimo passo dell'Emilio di Rousseau sul valore del giudizio ; passo che conferma la parentela che col fllosofo ginevrino ha quello di Koenigsberg. Elem . d'Ideologia] ragioni, che giudichi, o che percepisca ; talchè « il soggetto di un giudizio può avere una composizione fisica ed una unità logica che gli vien conferita dal pensiero , che appunto sintetizza nella sua unità il molteplice fisico . Questa unità del pensiero s'addi manda unità sintetica , la quale se si ravvicina a quella forza analitica e forza sintetica che s'è accennata , s'intenderà come un'attività distintiva e unitiva insieme . E un'attività sintetica originaria dell'essere conoscitore appunto è ammessa dal G. Ora la coscienza di sè coglie adunque l'Io che sintesizza , uno e semplice, indivisibile. E l'unità sintetica del me, suppone percið l'unità metafisica del me stesso che è la semplicità o spi ritualità del principio pensante. Senza di essa non sarebbe possi bile la scienza, poichè la scienza suppone la riunione di tutti i pensieri da' quali si compone; ed essendo un pensiere distinto dall'altro , come si farebbe l'unione di questi pensieri senza un centro di unione? Ove si incontrerebbero i diversi raggi del sapere ? L'agente che costruisce, è necessario che abbia tutti i materiali della costruzione. L’io di Newton, ripete qui G., che ritrova il calcolo sublime è lo stesso io che ha apappreso la numerazione aritmetica. Senza l'unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità sintetica del pensiere, e senza l'unità sin tetica del pensiere non sarebbe possibile alcuna scienza per l'uomo. Questa unità sintetica della coscienza originaria ha una intrin seca parentela , come ognun vede, coll'appercezione originaria di Kant. Col quale G. s'accorda nel ritenere che l'essenza particolare specifica dello spirito umano ci è ignota affatto. Ma data questa coscienza originaria, che forza analitica e sintetica insieme , tutte le nostre conoscenze derivano , secondo G., dai sensi ? Nel libro I del suo Saggio filosofico egli , rife rendosi allo scritto del 1807, scrive : Io suppongo in tale opu scolo che tutte le idee universali derivano dal paragone delle particolari ; ma cið non è vero esattamente, poichè vi sono alcune idee soggettive. La tesi degli empiristi che non ammettono nella nostra conoscenza se non elementi oggettivi, è insostenibile. Elem . d'Ideol. Lettera a SERBATI, Tropea nella Sapienza, rivista di filos. e lettere. Cfr. GENTILE, Rosmini e Gioberti. Elem . d'Ideol.; cfr . Saggio Saggio] ma In quell'autobiografia intellettuale che è nella quattordicesima delle sue Lettere filosofiche G. dice, che il problema della sua filosofia dell'esperienza fu questo : « Ma lo spirito umano è un agente ; e colla sua azione non potrebbe forse sviluppare dal suo interno qualche elemento che egli non riceve , ma che produce ? E questo elemento soggettivo non potrebbe forse esser tale , che lasciasse intero l'elemento oggettivo , che cooperando collo stesso non recasse alcun nocumento alla realtà della conoscenza , l'estendesse e la fecondasse? Infatti, questa rimaneva la più grave difficoltà del G. contro l'a priori: che l'a priori con la sua soggettività scalzasse la realtà della conoscenza, come rimproverava a Kant per le forme dell'intuizione e dell'intelletto e come rimproverava al Rosmini per la idea dell'Ente indeterminato. Perchè egli non ebbe il giusto concetto delle categorie kantiane , ritenendole quasi preformazioni dell'intelletto . Del resto , nella critica che fa delle idee innate , pure avendo combattuto nel primo libro del Saggio l’in natismo di Leibniz , si può ben dire che ne accetti il principio ne gli Elementi di ideologia. Egli distingue idee accidentali all'intelletto e idee essenziali. Le une non tutti gli uomini possono formarsele, perchè non a tutti è dato di avere le sensazioni che sono il materiale donde l'analisi può ricavare coteste idee . Le altre non mancano a nessun uomo, perchè derivanti da sensazioni co muni a tutti . Sicchè anche le idee essenziali dell'intelletto pre suppongono l'esperienza ; e se per idee innate si vuole intendere idee , che non sono il prodotto della meditazione (analisi) su i sentimenti (sensazioni) , tali idee non hanno esistenza » . Ma, « se per idee innate s'intendono quelle idee , di cui ogni uomo porta costantemente in se stesso i germi per isvilupparle , e che ogni uomo capace di meditare pud in qualunque luogo ed in qua lunque tempo acquistare , idee che ho chiamato idee universali all ' intelletto, l'esistenza di siffatte idee mi sembra incontrastabile ... Noi conveniamo con Locke, che tutte le nostre idee hanno la loro origine ne' sentimenti: conveniamo ancora, che tutte le idee sono acquistate ; ma crediamo di dover fare distinzione fra idee generali , e di ammettere alcune idee per l'acquisto delle quali ogni uomo porta costantemente in se stesso i materiali necessari; da questi germi, che sono nello spirito si sviluppano le idee essen [Vedi il mio Rosmini e Gioberti, p. 79 e sgg. ziali al pensiero umano, e che si ritrovano in tutte le lingue. Donde è chiaro che G. tiene per innate nel senso leibni ziano , di attitudini, disposizioni, germi, coteste idee essenziali all'intelletto , quali sarebbero le idee di corpo , spazio, causa, unità , numero, ecc .; comecchè tutta la sua Ideologia sia una deduzione di queste e altre simili idee dalle sensazioni. Ma, quali sono queste sensazioni o sentimenti portati costan temente da ogni uomo in se stesso ? Se ogni uomo li possiede co stantemente, essi sono necessari , essenziali costitutivi dello spirito. Lo spirito è questi stessi sentimenti. E come potrebbe es sere altrimenti, se tali sentimenti devono servire alla formazione di idee essenziali all'intelletto (facoltà conoscitiva in generale)? G. dice, che essi sono i sentimenti « che in qualunque luogo, ed in qualunque tempo modificano lo spirito di ogni indi viduo del genere umano. Dunque, essi sono immanenti real mente allo spirito , nè questo si può concepire senza di essi. Ora tal carattere nella filosofia del Galluppi compete solo ai senti menti del me e del non me inscindibilmente legati fra loro , costi tuenti il gran fatto , il Primo, dal quale deve cominciare la filosofia. Questo fatto è universale per tutti gli uomini, per tutti i luoghi, e per tutti i tempi. Il complesso de ' sentimenti racchiusi in questo fatto dee dunque riguardarsi come essenziale all'umano intendi mento. Il quale, fornito della forza di analisi e di sintesi , può con la sua azione feconda sviluppare da questi sentimenti e così produrre tutte le idee che gli sono essenziali. Ma la stessa produzione è essenziale , se i prodotti sono essenziali ; tal chè lo spirito , partendo dall'indistinta e oscura coscienza del me e del fuor di me, non raggiunge il grado dell'intelletto , se non per questa spontanea produzione che fa , mediante l'attività ond'è for nito , delle idee di sostanza, causa , corpo, spazio , tempo , unità , numero , ecc. , di cui ha in sé i germi indefettibili. Intorno al valore di questo virtuale a priori di G. si può esser tratti in inganno da certe sue espressioni, dalla sua polemica contro l'innatismo, dal bisogno da lui così spesso e for temente affermato dell'esperienza, che è esperienza sensibile, come unica sorgente delle conoscenze reali . Ma bisogna attender bene al valore della sensibilità nella teoria di G.. La sua sen sibilità è coscienza , è sentir di sentire , è l'unità ancora indistinta di soggetto ed oggetto, che egli concepisce come Primo attivo e [Saggio] produttivo ; di cui vedremo quanto si gioverà a fondare l'ogget tività del conoscere . Ora , dato questo Primo come coscienza sen sibile , egli non può ammettere più un intelletto opposto al senso e ricco a priori di determinazioni dal senso indipendenti. Perchè l'intelletto è uno sviluppo del senso e le sue determinazioni es senziali non possono non essere contenute virtualmente nel senso insieme con l'attività che possa dallo stato virtuale portarle al l'attuale , fecondandone i germi. E questo è , come tutti sanno ora o dovrebbero sapere, il vero concetto dell'a -priori kantiano , preparato dalle virtualità innate di Leibniz ; e in que sto concetto il Galluppi evidentemente sorpassa e si lascia addietro il kantismo volgare, com'egli l'intese e come tuttavia si vuol sostenere dai neocrịtici , che concepiscono senso e intelletto in assoluta opposizione , in un dualismo inconciliabile . Questo punto della filosofia di G. non è stato studiato e apprezzato ancora abbastanza. La idea essenziale di G. corrisponde preci samente all ' acquisitio originaria , con cui Kant define il suo a priori nella famosa lettera a Eberhard, come l'idea accidentale all'acquisitio derivativa. Sono idee acquisite le idee essenziali come tutte le altre idee ; ma esse sono le acquisizioni originarie che la coscienza fa per la sua propria attività salendo al grado del l'intelletto . 29. Fermata questa teoria , G.  ha ragione di scrivere : « Io non ho ammesso idee anteriori a ' sentimenti, in modo che non gli suppongano neppure come condizione ; ma ho ammesso alcune idee essenziali all'intendimento, ed ho stabilito questa dottrina sopra solidi fondamenti... lo nego le idee innate nel senso di idee anteriori ed indipendenti assolutamente da' senti menti ; io le ammetto nel senso di idee naturali, o d'idee per l'acquisto delle quali si possiede una disposizione o virtualità naturale. E poichè così viene a dire il medesimo del Kant bene inteso, a me pare che abbia pur ragione di soggiungere : « Io dunque credo di aver trovato il mezzo di conciliazione fra i due sistemi contrari su la formazione delle nostre idee » ; come è merito reale di Kant, che naturalmente G. non poteva riconoscere , di avere operato siffatta conciliazione del puro em pirismo e del puro intellettualismo. Il meglio che se ne sia detto sono le tre pagine di SPAVENTA, nella sua mo moria Kant e l'empirismo, rist . in Scrilti filosofici, Napoli, Morano Saggio. Per fare intendere meglio la propria dottrina G. la raffronta a quella di Leibniz. Conviene con l'autore dei Nuovi saggi sull’intelletto che lo spirito non è tabula rasa; che vi sono molte idee, che lo spirito ricava dal fondo del proprio essere , meditando sul sentimento di se stesso » ; non solo gli accorda che sono in noi queste disposizioni e virtualità naturali, ma am mette certe modificazioni passive o sia i sentimenti, che contengono i materiali o le condizioni di tutte le idee naturali. E, dichia rando meglio la dottrina del Leibniz , ripete che riconosce con lui esservi « molte idee essenziali all'intendimento , che l'anima non ha bisogno di ricavare dalle impressioni de ' sensi esterni, ma che può ricavare dal proprio fondo. Le idee sono innate come attitudini o virtualità naturali. E questo ritiene anche G. « Ma io non mi contento di rimanermi in idee vaghe : io determino le mie espressioni. L'anima nostra ha un'attitudine , una preformazione naturale per alcune idee ; poichè : 1. ° ella ha originariamente ed incessantemente i sentimenti necessari a for marsi tali idee; 2. ° questi sentimenti sono i materiali delle idee , o le condizioni indispensabili per le idee ; 3.0 l'anima ha origi nariamente nella sua natura le facoltà necessarie per formarsi tali idee; 4. ° l’anima ha in sé originariamente la disposizione, che pone in esercizio le facoltà elementari della meditazione. Data questa dottrina, ch'egli ben dice non potrebbe esser contrastata dalla stessa scuola di Locke , s'intende agevolmente perchè G. continui sempre , in tutte le opere sue , a com battere l'a - priori kantiano , inteso come parte di conoscenza già formata avanti all'esperienza ; esperienza , che era per lui , come vedremo, la sorgente dell'oggettività, della realtà del sapere umano. La filosofia è essenzialmente dommatica, egli ha detto ; e kan tismo per lui significava scetticismo, in grazia appunto di quel l'a -priori soggettivo, anteriore ad ogni esperienza, onde reste rebbe inquinata, secondo la teoria di Kant, tutta la conoscenza. Pure riuscì anch'egli a certe idee soggettive, che ammise come costitutive della conoscenza , e innocue , benchè soggettive, allá realtà di essa . Quali sono cotali idee? Per rispondere a questa domanda bisogna dare un cenno delle sue teorie dell'analisi e della sintesi. Queste due facoltà non sono soltanto , come s'è visto , il fondamento di ogni giudizio , ma [Meditazione dice G. l'analisi e la sintesi insieme.] il fondamento anche di ogni idea universale. Giacchè ogni idea universale nasce dalla sintesi degli elementi comuni che l'analisi discopre in più percezioni simili. L'analisi e la sintesi sono quindi le forze produttive di tutto il conoscere. L'analisi precede ; segue la sintesi . L'una si presenta sotto quattro forme : come atten zione propriamente detta , quando lo spirito si ferma a considerare un solo degli oggetti fornitigli dal senso , escludendo tutti gli al tri ; come attenzione parziale, quando lo spirito contempla soltanto una parte dell'intero oggetto , che gli si rappresenta ; come astra zione modale , quando lo spirito separa il modo dal soggetto cui inerisce ; e come astrazione del soggetto, nel caso inverso, [La sintesi è di tre specie : sintesi reale, quando lo spirito unisce ciò che gli vien dato congiunto dalla esperienza, cioè la relazione tra il soggetto e le sue modificazioni, o quella tra causa ed effetto ( epperò v'ha propriamente due specie di sintesi reale) ; sintesi ideale oggettiva, quando scopre relazioni logiche tra oggetti reali ; sintesi ideale soggettiva , quando scopre , come avviene nelle matematiche pure, relazioni logiche tra idee nostre , non imme diatamente forniteci dall'esperienza; cioè le relazioni tra le idee generali. La siņtesi non può riunire se non per rapporti , le cui no zioni devono essere possedute dallo spirito , a mo' di categorie . E alle quattro maniere di sintesi corrispondono quattro nozioni di rapporti , le quali, per ciò che s'è osservato, dovrebbero essere di lor natura tutte soggettive : e sono le nozioni di sostanza , causa , identità e differenza ; idee essenziali all'intelletto umano, « sem plici vedute dello spirito , le quali derivano dalla sua facoltà di sintesi. Rapporto, come aveva notato il Laromiguière nelle sue Le zioni di filosofia, è l'atto della comparazione o l'idea che risulta da questo atto . « Ora se la comparazione , dice G., è una sintesi , e se il risultamento di questa sintesi è un'idea che non [Elementi di psicologia; Saggio Saggio G distingue ancora la sintesi immagi nativa come la facoltà di riuscire in una percezione complessa , alla quale non corrisponda alcun oggetto naturalo, diverse percezioni di cui ciascuna ha un oggette naturale fuori dell'attuale combinazione ( Saggio, e Psicologia) . Ma s'intende cho questa sintesi non ha valore teorico o conoscitivo, ma solo pratico od estetico . Saggio. Alcune dello idee semplici, dice ivi più sotto , sorgono dall'attività sintetica e queste sono i rapporti risulta da un'impressione, e che non ha percið un oggetto reale al di fuori, segue che vi sono idee semplici, le quali sono sola mente soggettive ed un prodotto della sintesi. Suppongono le sensazioni, ma sono prodotti semplici dell'attività sintetica dell'in telligenza. Infatti seguono, come ogni idea di rapporto , al para gone, che è un'azione dello spirito . Pel paragone non basta che si abbiano nello spirito insieme due percezioni : è necessaria l'a zione che riferisce l'una all'altra. Parrebbe adunque, che le idee dei rapporti, queste vedute dello spirito , o modi della sua attività sintetica, non differissero punto dalle categorie kantiane. Ma l'autore afferma recisamente il contrario . Non vuole aver nulla di comune con Kant; vuol fondare una vera filosofia dell'esperienza, e afferma come una delle esigenze ineluttabili della filosofia , che la connessione fra le esistenze , per cui è possibile la scienza , non deve essere una creazione dello spirito, bensì un dato dell'esperienza; cioè del senso , che per lui , come vedremo, è norma dell'og gettività del conoscere . Insomma, nota un suo critico , gli elementi soggettivi ammessi da G. son sempre determinati da qualche cosa di reale che si trova negli oggetti ; e Kant percið è scettico, G. no. Ed in verità esso, G., scrive che la stessa connes sione deve essere un dato dell'esperienza , quando si tratta di og getti esistenti che dan luogo alla sintesi reale : e che questa sin tesi « riunisce gli elementi reali di un oggetto reale ; e li riunisce perchè li trova realmente riuniti. Così, dicendo : Io son sensitivo, riunisco al me le sensazioni : ora tanto l'io che le sensazioni son cose reali , e realmente le sensazioni son cose reali, c realmente le sensazioni sono unite al me. Quest'unione non è dunque l'opera del mio spirito : io non posso fare altro che conoscerla distinta mente . Questa sintesi copia dunque, dirò così , la realtà delle cose, ed è per cid che io la chiamo sintesi reale. Or dunque, queste idee di rapporti sono o non sono un pro dotto dell'attività sintetica del soggetto? Qui , s'è detto , havvi una flagrante contraddizione. Sentire un rapporto, secondo G. è un espressione assurda ; e la connessione delle esistenze , che è un rapporto necessario , non si potrebbe sentire ; eppure si deve . « Se fosse creata da noi cotestà connessione , scrive Fioren (Saggio Saggio Saggio LASTRUCCI Saggio; cfr . Psicologia] tino, la realtà della scienza sfumerebbe; e G., impaurito delle conseguenze, contraddice ai suoi principii . Il nesso tra il me, sostanza , e le sue sensazioni , tra la sensazione e la causa esterna, cotesto doppio rapporto è sentito . Ei non osa dire sen tito , e dice : è dato. La questione è importante e merita ogni più seria considerazione. Prima di tutto bisogna distinguere , come fa G., le due nozioni di causa e di sostanza , da quelle di identità e diver sità. Le une sono un prodotto della sintesi reale , le altre della ideale ; le une sono dei veri rapporti reali , le altre semplici rap porti logici . Ora questi rapporti logici sono veramente creati dallo spirito , nascono per l'attività di questo , sono idee dello spirito e nulla fuori di queste idee. Di esse l’autore dice che « lo spi rito non riceve dal di fuori questi elementi semplici ed essenziali delle sue conoscenze , ma li ricava dal proprio essere, cioè li produce . Esse corrispondono appuntino alle categorie kantiane . Nè vale opporre , come altri ha fatto, che anche questi rapporti presuppongono l'esperienza, e ricevono da questa i termini , fra cui intercedono . I termini fuori del rapporto , ho detto altrove, cioè prima del rapporto , sono termini del rapporto ? E si badi che dell'esperienza G. ha un concetto tutto kantiano, perchè essa consiste , secondo lui , nel giudizio, il quale vede un rap porto fra i nostri sentimenti. Il solo errore del criticismo , che ha de ' semi preziosi di verità, consiste nell’aver troppo generalizzato riguardando « tutti i modi di connessione fra le nostre percezioni come soggettivi, negando la sintesi reale, confondendo l'esperienza primitiva, cui la sintesi reale dà luogo, con l'esperienza secondaria , scientifica e comparata , che è produzione soggettiva della sintesi ideale . Dunque, a confessione di G stesso, egli è schietta mente kantiano nella teoria della sintesi ideale , come attività sin tetica generatrice delle due idee di rapporto , identità e diversità , all'occasione delle sensazioni , che ne sono condizione indispen sabile. (La filos. contemp. in Italia, Napoli , Morano Psicologia Saggio LASTRUCCI G. (Saggio) non parla di esperienza, ma di sensazioni, supposte cronologicamente como a condizione indispensabile » delle idee d'identità e diversità. Saggio. Vedi anche Lettere filosof.  Soggettive pur sono le idee di causa e di sostanza . Ma G. distingue fra soggettivo e soggettivo . V'ha, egli dice , il soggettivo rispetto all'origine, e v’ha il soggettivo rispetto al valore ; e altrettanto dicasi dell'oggettivo. Altra è la questione dell'origine delle conoscenze , altra è la questione della realtà loro. « Io dichiaro , scrive l'autore , che per oggettivo in tendo ciò che nelle nostre cognizioni deriva dagli oggetti che si conoscono, e per soggettivo ciò che nelle stesse deriva dal soggetto conoscitore. Questi due vocaboli si prendono ancora in un altro senso, quando si parla della realtà delle nostre conoscenze: l'oggettivo dinota allora quell'elemento della nostra conoscenza , a cui corisponde una realtà in sè , ed il soggettivo dinota ciò a cui non corrisponde nessuna realtà. Dunque le idee di causa di sostanza sono soggettive per l'origine, ed oggettive rispetto alla realtà, epperò si dicono relazioni reali , laddove, quelle di identità e di diversità sono soggettive , e per l'origine e pel valore , e son dette perciò semplici relazioni logiche . E però resta fermo, che anche le idee di sostanza e di causa siano un prodotto dell'attività sin . tetica dell'intelligenza, perchè da essa derivano ; il senso è inca pace di darcele. Se non che esse, invece di avere un semplice valore logico , hanno una corrispondenza nella realtà , pel nesso, che è tra la sostanza e i modi, tra la causa e l'effetto. Ma G. dice che il rapporto della sintesi reale ( sia di causa , sia di sostanza ) è dato dall'esperienza . Si , ma devesi inten dere, dato rispetto alla realtà oggettiva di cotesto rapporto. Dato in quel luogo di G., che pur bisogna metter di accordo con tutta la sua dottrina, vale solo oggettivo (rispetto al valore). La difficoltà vera è la seguente : come ciò che è soggettivo rispetto all'origine , può essere oggettivo rispetto al valore ? Que sto è lo scoglio della filosofia della esperienza propugnata da G.; ma è pur uopo notare i grandi sforzi fatti da lui per evi tarlo. S'egli si fosse sempre ricordato dell'osservazione, dianzi ac cennata , relativa alla comune definizione delle idee : che cioè non bisogna separare ed opporre oggetto a soggetto, ove non si vo glia incorrere nello scetticismo , non avrebbe avvertita nessuna dif ficoltà in questa questione della sintesi , circa la soggettività della sua origine e l'oggettività del valore. Egli non avrebbe concepito un'oggettività distinta dalla soggettività. Saggio. 43. Di quell'osservazione fondamentale si ricorda certamente nella sua teoria dell'oggettività di tutte le sensazioni, quando af ferma che la sensazione è la intuizione dell'oggetto , e sog giunge: Per non far nascere equivoco in una materia molto importante, io chiamo intuizione la percezione immediata dell'og getto , in modo che l'esistenza della percezione supponga neces sariamente quella dell'oggetto. Se ogni sensazione è di sua na tura la percezione di un oggetto esterno al principio sensitivo, se quest'oggetto non è rappresentato dalla sensazione, esso è dunque reale, come è reale la sensazione. La realtà dunque del l'oggetto sentito mi è data dall'atto della coscienza; il quale mi . dà la realtà della sensazione : ecco dunque la realtà esterna fra le verità primitive di fatto ; ecco risoluto uno dei problemi fon damentali nella critica della conoscenza (Saggio) . In tutta la teoria dell'oggettività del conoscere si può dire adun que, che G. confermi ciò che aveva detto fin dal primo capitolo del suo Saggio circa la coscienza, o conoscenza prima , conoscenza del me e dei suoi modi ; coscienza fatta consistere appunto in un'intuizione immediata, tale che « fra questa perce zione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo. Pare che per tutta la sfera della conoscenza immediata ei sia disposto a chiedere, come aveva chiesto infatti a proposito della comune definizione delle idee in generale. Se gli oggetti, se la regione dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza , all'oggetto?  Argomento insolubile, com'egli dice , ai filosofi dommatici.  Senso ed oggetto , sia che si tratti di senso intimo o di senso esterno , non si possono scompagnare. Il senso è la misura adeguata e sicura della realtà, comecchè il dato del senso debba poi venire elaborato dalla forza analitica e sintetica dello spirito onde si perviene alle idee e a'giudizi. Il senso costituisce , per le idee e i giudizi cui dà luogo, l'esperienza primitiva o imme [G. non ammette l'incosciente. La scuola di Leibniz ammotte delle percezioni di cui non si ha coscienza : alcuni Allosofi adottano questa opinione ; ma molti altri, co' quali io son d'accordo, non ammettono alcuna percezione, di cui non si abbia coscienza. Non si può percepiro alcun oggetto come un fuor di me, senza perco pire il me, poichè la percezione di un di fuori è ossenzialmente la porcezione di più oggetti ; se non vi ha due oggetti , non vi è un di fuori. Se la percezione di un ſuor di me non è possibile senza quella del me, segue che non possono esservi nello spirito delle percezioni senza osser sentite. Elem . di psicologia] diata; immediata rispetto all'oggetto , in cui s'appunta imme diatamente nella intuizione. Dall'esperienza primitiva va distinta poi la comparata, o derivata o secondaria , la quale consta dei giu dizi d'identità o diversità che noi portiamo sulle idee offerteci dalla primitiva esperienza : giudizi d'un valore puramente logico e soggettivo . I giudizi della esperienza immediata hanno per og getto gl'individui. Questa acqua ha la qualità di estinguer la sete . Questo calorico liquefà la neve vicina . Sono giudizi particolari, che non si possono generalizzare, nè possono costituire l'esperienza secondaria , fondamento delle scienze , se con le impressioni sensibili , coi dati oggettivi non si combinano quegli elementi soggettivi , che sono le due vedute dell'identità e diversità . Per dire la propo sizione generale : l'acqua estingue le sete , - io devo, in seguito alle successive esperienze delle varie acque che m'hanno estinto la sete , comprendere sotto una nozione generale tutte queste acque , e le azioni loro di estinguer la sete ; il che significa che lo spirito dee vedere un rapporto d'identità fra questi soggetti particolari e fra le loro particolari qualità; rapporto d'identità che il senso non mi può fornire ; perchè esso non mi dà che successivamente le singole acque. Della scienza si potrà dire giustamente che è una costru zione soggettiva per mezzo dei materiali offerti dalla esperienza primitiva. G., in verità , non può attribuire altro valore che questo , che è il kantiano, alla scienza. Se la conoscenza vera della natura ci vien fornita dalla scienza , anch'egli deve dire cnl Kant, che lo spirito , legando gli sparsi caratteri datigli dal senso , costruisce il gran libro dalla natura . Eppure.egli ritiuta (Saggio) una tal soluzione. « La distinzione delle due esperienze, egli dice , è della più alta importanza, per determi nare il valore delle nostre conoscenze. È della più alta importanza, perchè se i rapporti di sintesi ideale nell'esperienza derivata sono soggettivi , quelli di sintesi reale nell'altra espe rienza sono essenzialmente oggettivi; in questa esperienza (pri mitiva ) l'esistenze son date allo spirito : egli ne è spettatore , e non il conoscitore : una connessione fra l'esistenze gli è anche data : egli dee conoscerla , non ispiegarla o comprenderla. Ma questa distinzione non tocca punto la soggettività della scienza , in quanto prodotto della sintesi ideale ; anzi la conferma. G. [Saggio] nella epistemologia è un kantiano puro. Checchè egli ne dica, tale è la sua dottrina. Ed ecco la stridente contraddizione cui lo condusse il suo voluto sperimentalismo. La scienza , la parte più certa della cono scenza, è soggettiva ; e la conoscenza sensibile è di sua natura oggettiva; che , per lui , è come dire che la scienza è rosa dal tarlo dello scetticismo , laddove l'esperienza sensibile è certa e reale . Le conoscenze necessarie ed universali , che sono il pernio di ogni specie di conoscenze, hanno un valore puramente logico, e le conoscenze contingenti e particolari sono reali . Il che avrebbe dovuto condurre G. al più schietto nominalismo ; perchè se le nostre conoscenze veramente oggettive , sono quelle dateci dai giudizi particolari dell'esperienza immediata, sfuma la realtà dell'universale . E un realista G. certamente non Egli combatte tuttavia l'empirismo nominalistico di taluni seguaci del Locke, come l'Helvetius , i quali negano le idee universali , asse rendo che quelle, che tali appariscono , non sono se non termini generali , vocaboli vôti di senso . « Perchè , dice G., al ve dere un uomo che non abbiamo giammai veduto , noi diciamo è un uomo ? Se non avessimo un'idea universale di questa specie, come vi rapporteremmo quest'individuo? L'esistenza delle idee universali nello spirito è talmente attestato dalla intima coscienza , che si dura fatica a supporre che vi sia stato chi l'abbia contra stata » (Saggio) . Nè anche Locke , secondo G., nega le idee universali ; e come Locke egli è concettua lista . Siamo sempre lì : la cognizione universale , scientifica ha sì un valore , ma un valore logico. E al Rosmini , che gli dichiarava in una sua lettera di non vedere « come dal soggetto possa venire l'universalità e la neces sità delle cognizioni . Il soggetto è essere particolare e contingente, e non può produrre un effetto maggiore di sè » ; egli rispondeva, che la necessità che ha luogo nelle cognizioni, è una semplice « legge logica del pensiero umano, da non confondersi con la ne cessità metafisica; legge logica espressa dal principio di contrad dizione , e , come ogni altra modificazione dell'anima nostra, me ramente soggettiva . E aveva un bel ribattere il Rosmini , che la necessità logica e la necessità metafisica non sono in fondo che una sola necessità ( in questo punto è tutta la novità, non pic Cita il  Saggio, dove Locke spiega la gonesi delle idee universali.] cola , – di SERBATI verso G.) : « Io non suppongo mica, replicava G., che vi sia una necessità metafisica distinta dalla necessità logica ; ma solamente combatto quei filosofi che riguardano quella necessità, che è meramente logica , come una necessità metafisica , che trasformano la prima nella seconda. L'origine di tal necessità logica mi sembra già determinata ; essa è nella natura del soggetto noi non dobbiamo cercarne la causa efficiente, ma arrestarci alla causa formale di tal neces sità. La sua scienza , perciò abbiamo detto altra volta , come quella di Kant, s'è chiusa nella cerchia invalicabile del fe nomeno; sicchè egli riesce , per la scienza, a quel criticismo che voleva correggere . Gli sarebbe bastato estendere la - sua teoria della sensibi lità o meglio dell'esperienza primitiva alla esperienza secondaria . Non l'ha fatto , perchè gli premeva salvare la realtà del mondo esterno ; e così s'è messo in disaccordo con se stesso , accoppiando al criticismo puro dell'epistemologia il più crudo dommatismo nella gnoseologia. I due elementi in lui non si fondono, e un'in tima contraddizione travaglia tutta la sua filosofia. 49. Infatti ammessa giustamente come soggettiva l'origine della nozione che abbiamo della connessione reale delle cose ( come sostanza o come causa , sussistenza, egli dice per lo più, ed effi cienza ), il valore oggettivo delle medesime non può essere e non è infatti in G., che una semplice affermazione dommatica. La percezione del me è la percezione di un soggetto con le sue modificazioni. Sicchè, egli dice , nella coscienza del me , – che è il principio della nostra filosofia , è data « 1. ° la connessione fra la percezione e l'oggetto ; 2.º fra il soggetto e la modificazione ; 3." fra la causa e l'effetto , il che vale quanto dire , che in questo fatto primitivo ci è data la base della filosofia , e la realtà delle nostre conoscenze. Su per giù , è sempre questa la dimostra zione data da G. della realtà delle connessioni tra sostanza e modi, tra causa ed effetto. Le connessioni sono reali, perchè il me, termine reale della coscienza è soggetto (sostanza ) di modifi cazioni, e queste modificazioni a lor volta sono effetto dell'azione del mondo esterno . Ma i termini noi possiamo percepire, non i rapporti: e i termini in quanto connessi nel loro rapporto non pos siamo percepirli , se non applicando ad essi quelle nozioni di rap Rosmini e Gioberti. Saggio.] porto , onde già dobbiamo essere forniti. Chi ci garantisce che i rapporti, che con queste nostre vedute, di origine soggettiva , noi scorgiamo tra i termini percepiti , abbiano un fondamento ogget tivo ? Chi ci costruisce questa volta il famoso ponte di passaggio dal soggetto all'oggetto ? Chi ci sottrae a quell'argomento inso lubile ? Il dommatismo è evidente. C'è un passo, nel terzo libro del Saggio, contro la sin tesi a priori di Kant , che merita qui speciale considerazione. Il filosofo di cui parliamo, – scrive G., ha confuso l'operazione sintetica co'suoi prodotti, che sono le percezioni del rapporto fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta un termine della relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale è il principio efficiente che pone un termine rapportato. Lo spirito nel termine rapportato vede un rapporto, ed esegue con ciò un'analisi , indi unisce questo rapporto, che aveva separato dal termine rapportato allo stesso termine, e compie il giudizio. Lo spirito , prima della comparazione, non aveva che il termine della relazione : dopo la comparazione ha un termine rapportato : l’atti vità sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della relazione , il rapporto , e questo rapporto è un elemento sogget tivo aggiunto all'oggettivo. Quale che sia il valore di questa osservazione contro il giudizio sintetico a priori ( io non credo che ne abbia alcuno ; chè il giudizio è già avvenuto con quella prima operazione dell'attività sintetica , che consiste nel rapportare i termini), certo è notevole e giusto il concetto del soggettivismo dei rapporti accennato qui dall'autore; ma vi apparisce pure evidente falso concetto che ei s'è formato dell'oggetto. Termine e termine rapportato son cose differentissime; il primo è un dato , il secondo è il prodotto di quel principio efficiente, che è la sintesi. Ma il termine è termine in quanto è termine rapportato ; sicchè il termine si può dire che venga posto , rità , dall'attività sintetica dello spirito . E questa è la dottrina di Kant. Ma se il Galluppi ne avesse piena consapevolezza , non do vrebbe dire , che lo spirito PRIMA della comparazione non aveva che il termine della relazione. No , non aveva niente : non c'è prima il termine , l'elemento oggettivo, a cui dopo venga ad ag giungersi l'elemento soggettivo, il rapporto : termine e rapporto nascono ad un parto, nè lo spirito può percepire il termine della relazione , senza il rapporto , nè questo rapporto è nulla di concreto fuori dei termini ai quali viene applicato . Questo prima e questo dopo, di cui parla G., accusano quella separazione di oggetto e soggetto, quella opposizione da lui già criticata come punto di partenza donde non sia dato arrivare a una conoscenza certa. Sicché , anche per le nozioni di identità e diversità ( alle quali , s'intende, egli si riferisce nel passo ora citato) G. si di batte nelle strette della soggettività , come qualcosa di differente e assolutamente opposta a quella oggettività , che s'era proposto di fondare contro il criticismo kantiano. Ma le sue velleità empi ristiche rompono sempre in quel principio fondamentale della co scienza di sè , preso dalla filosofia di Cartesio, onde si nutrì , come abbiamo notato , la mente di lui nel suo primo periodo speculativo. E la conclusione del Saggio filosofico è che tutti i motivi dei no stri giudizii (senso intimo, sensi esterni, evidenza, memoria, razio cinio e testimonianza degli altri uomini) « hanno per motivo me diato ed ultimo il senso intimo » : e quindi « tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza di se stesso, e chiunque tenta di toglier questa base è indegno, che si ragioni con lui ; poichè non si ragiona col nulla. E così nella chiusa delle Lettere filosofiche. Io ho poggiato – dichiara l'autore su la veracità della coscienza la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere ... ; non si può supporre la veracità di alcun mezzo di conoscere senza supporre la veracità della coscienza, e supponendo la veracità della coscienza , la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere segue necessariamente. Così , secondo me, l'aliquid inconcussum è nella coscienza, ed essa è la base di tutto il sapere umano. Ma se si ricordasse sempre, che principio e aliquid incon cussum è la coscienza, G. non dovrebbe parlare mai di quella oggettività indipendente dal soggetto , alla quale vuol ripor tare le relazioni di sostanza e di causalità ; e in verità non riesce a scoprirne che una origine soggettiva e a darne una giustifi cazione, come s'è visto , fondata unicamente sul sentimento del me. Si potrebbe dire , che egli parla di un oggetto soggettivo for nitoci dalla sensazione, che da lui è detta di sua natura oggettiva . Egli , infatti, rigetta la distinzione di qualità primarie e secondarie, come arbitraria e falsa , e sostiene che tutte le nostre sensazioni [Saygio] soggettive , nè più nè meno di quel senso del tatto , in cui Condillac indicava il filo d'Arianna col quale si potesse uscire dal labirinto della soggettività, « convengono in ciò , che tutte sono le percezioni di un soggetto esterno ; son differenti, poichè sono i modi diversi di percepir questo soggetto : questi modi diversi di percepirlo costituiscono per noi le diverse qualità degli oggetti esterni , le quali sono perciò i diversi rapporti di questi oggetti con noi; e che, « qualunque ipotesi si adotti su la natura de ' corpi , è incontrastabile che il mondo dei corpi non esiste nel modo in cui ci apparisce ; e che noi non conosciamo dei corpi se non le qualità relative » , talchè il pensiero bensì è una realtà in sè, « ma l'estensione non è almeno certo se sia una realtà o un fenomeno e addirittura « la conoscenza che noi abbiamo de ' corpi è meramente fenomenica . E però G. non può parlare se non di un oggetto soggettivo , di un oggetto termine essenziale del soggetto. Ma allora perchè contrapporre oggetto a soggetto , e sin tesi reale a sintesi ideale? Siamo sempre nella sfera del soggetto, e l'attività sintetica dello spirito darà luogo sempre a una sin tesi ideale . Dov'è il punto di separazione tra la res e l'idea ? Non rampollano entrambe dalla coscienza di se? Per metter d'accordo G. con se stesso dovremmo dire , che quello che ei dice sintesi reale e sintesi ideale non siano se non due gradi della sintesi soggettiva, qualche cosa di simile della sintesi di primo e di secondo grado, che Spaventa e Tocco han rilevate in Kant. Vale a dire , bisognerebbe anche la sintesi reale ritenere pura operazione soggettiva; ma non tanto soggettiva quanto la ideale, perchè l'una si esercita su una relazione che la coscienza, questo ultimo motivo, questa. norma suprema della verità , attribuisce al mondo esterno, lad dove l'altra non ragguaglia che termini aventi un valore logico. La sintesi reale coglie, diciamo così, i rapporti degli individui, in cui, secondo G., consiste la realtà; la sintesi ideale coglie, invece, i rapporti che intercedono tra le idee generali, già formate per la forza analitica e sintetica dello spirito. Di modo che la materia della sintesi reale è oggettiva, nel senso che di Elem. di Psicologia. Non vi ha fenomeni nel santuario del mio essero, dice G., Saggio, Saggio] cemmo poter avere per G. l'oggetto; e la materia della ideale è una pura formazione soggettiva. E se la coscienza ha da es sere sempre la fonte della verità , se noi non possiamo parlare di altra verità , se non di quella che tale apparisce alla coscienza , i rapporti che si scoprono dall'attività sintetica nella materia og gettiva saranno rapporti reali, e si potrà pur dire che siano og gettivi pel valore ( poichè il valore è attestato dalla coscienza); e i rapporti che dalla stessa attività sintetica si scoprono nella materia soggettiva, non possono avere più che un valore logico, perchè sono rapporti di concetti, ci concetti nel concettualismo di G. non sono reali. Alla coscienza i rapporti appariscono tali quali appariscono i termini che essi connettono; fra termini oggettivi, rapporti reali; fra termini astratti e soggettivi, rapporti ideali. I termini infatti non possono essere percepiti per quel che sono, se non coi loro rapporti, coi quali e pei quali vengono ad essere quei dati termini. Ma allora non bisogna separare la facoltà dell'analisi e della sintesi da quella della sensibilità (o coscienza ), come fa G.; perchè la sensibilità come tale non potrà mai percepire un rapporto, come bene avverte G. stesso. Allora bisogna andare molto più addentro, che questi non sia andato, nel concetto dell'unità del me. Certo è che G., mosso a scrivere il suo Saggio, che è la sua opera capitale, dal bisogno di assodare la realtà del conoscere contro la critica di Kant, non riesce a distrigarsi dal soggettivismo nella epistemologia; e nella gnoseologia vi riesce solo contrapponendo al criticismo kantiano un oggetto, che non è tale se non per un dommatismo preso dalla coscienza volgare, e che non può non metter capo nella tesi scettica del criticismo, appena venga innanzi alla riflessione scientifica. La sua stessa critica perpetua di Kant, e quell'oscillare continuo tra le lodi più sincere e il biasimo più acerbo del criticismo, dimostrano l'acutezza del suo spirito, che intende la gravità del problema sol [SERBATI scrive al p. Giacomo Maso & Roma: Pare a lei che la filosofia di G. è veramente sana? Noti bene, non metto in dubbio le intenzioni dell'ottimo calabrese, a cui professo sincera stima. Parlo solo della sua filosofia. Di questa dubito, o piuttosto non dubito; perocchè agl’occhi miei ella si volge in circolo perpetuo dentro al soggetto-uomo, e nel soggetto-uomo non vi ha nulla d’immutabilo: manca il punto fermo a cui appoggiare la leva. Vedi La Sapienza] evato dal Kant, e insieme la sua impotenza ad uscire da quel cerchio sconfortante segnato dal filosofo di Koenigsberg attorno allo spirito umano; l'impotenza in cui rimase per non essere salito al concetto adeguato di quella coscienza, che è il primo della sua costruzione filosofica. E dopo quattro libri di discussioni, di polemiche contro quei filosofi, trascendentali, che non si sa se siano filosofi che ragionano, oppure frenetici che delirano, il saggio filosofico finisce anch'esso nella tristezza del mistero: La scienza umana è limitata. Essa può successivamente perfezionarsi. Ma essa non può oltrepassare certi limiti. Non è più reciso l'ignorabimus di Reymond. E il primo limite dello spirito umano, secondo G., è questo: noi abbiamo una nozione generale della sostanza, ma noi non conosciamo affatto la natura, o come suol dirsi, l'essenza di ciascuna sostanza in particolare. E fin qui ha ragione Kant. Secondo limite: ignorando le prime sostanze, ignorar dobbiamo il come le cause efficienti producono i loro effetti; e l'efficienza è per noi un mistero. Dunque nè anche nel ritener soggettivo il rapporto di causalità ha poi un gran torto Kant! Ma tutto quello che è incomprensibile, non è mica assurdo, avverte G.; e questo basta a salvare la creazione. Terzo limite: noi ignoriamo affatto le qualità assolute de’primi componenti de'corpi; noi conosciamo alcune qualità relative di alcuni aggregati delle prime sostanze della materia. I corpi non sono tali quali a noi si manifestano. E questo, in verità, è un po ' più di quel che sostiene Kant: pel quale, se il NOUMENO va distinto dal fenomeno, appunto perchè ignoto, non si può dire che differe dal fenomeno stesso. Differe? Non differe? Se a queste domande si desse una risposta, non si ha più un noumeno. Qui , dunque, G. è più kantiano di Kant. Quarto limite: la conoscenza importa successione, processo , passare da un principio a ciò che ne procede : ma Dio è ne [Passo del Saggio che CREDARO raccomanda a coloro che fanno di G. un kantiano; ni kantismo in Romagnosi, Riv. ital. di filos.Vedi il celebre opuscolo Ueber d. Grenzen d . Naturerkenntniss, Lipsia; e LANGE, Gesch. d . Materialismus, Iserlohn Saggio Saggio, lui gazione assoluta di ogni successione: in questo essere infinito non vi è alcuna cosa che precede l'altra; perciò la sua natura ci è perfettamente inesplicabile ed incomprensibile. I metafisici intanto non si credono tutti incapaci di comprendere la natura divina; ma uno di essi, e de' più moderati, GENOVESI (si veda), avendo tentato, per esempio, di concepire in che modo questo mondo è architettato dal divino progenitore, non è riuscito che a una spiegazione contraddittoria. Il volere spiegare l'atto creatore intelligente è una contraddizione; poichè è un supporre qualche cosa antecedente a (come GENOVESI (si veda) è costretto a porre nel divino progrenitore prima l'essere e poi il conoscere, prima il conoscere e poi il volere o l'operare. Questo è incomprensibile, e lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria proposizioni che non hanno forse il rigore scientifico della dialettica trascendentale, ma che riescono, mi pare , al medesimo risultato. Che più? Kant riconosce come tutti i filosofi il grande valore delle matematiche; ma anche in esse G. trova dei limiti. Noi conosciamo esattamente, egli dice, le relazioni logiche tra le nostre idee astratte; e ne son prova l'aritmetica e la geometria. Ma noi non conosciamo tutte queste relazioni, perchè il loro numero è inesauribile; e la conoscenza di queste relazioni non si estende quanto le nostre idee. La nostra scienza è percið molto limitata sotto tutti i riguardi egli conclude: ed è la conclusione del Saggio intero, vale a dire della sua filosofia sperimentale. Questo mi pare criticismo schietto, sufficiente di certo a fare ascrivere G. alla direzione kantiana, pur con tutte le sue più o meno ragionevoli invettive contro il soggettivismo di Kant; se anche Testa, che altri dice l'unico kantiano che abbia avuto l'Italia, è pur persuaso che Kant, distruggendo il sensismo, non fosse riuscito a sostituirvi altro che un sistema soggettivo che distrugge la scienza verace. Molto ha contribuito a mascherare il kantismo galluppiano, e ben più che le sue dichiarazioni e le sue proteste, che non [Vedi il capo X ed ultimo del lib. IV del Saggio . CREDARO, Testa e i primordii del kantismo in Italia, Rendic. Acc. Lincei. Vedi dello stesso CREDARO Il kantismo in Romagnosi (Riv. it. d. filos.), dove si oppone a chi fa di G. un kantiano, uno dei soliti passi del Saggio contro il trascendentalismo. Come scrive nel suo ultimo libro La mente di Taverna, Genova hanno o non dovrebbero avere molto valore per la valutazione del critico, alcune speciali dottrine, che basta accennare brevemente. E in primo luogo: rifiuta nientemeno che la stessa sintesi a priori, che è come dire il nocciolo sostanziale del kantismo. La distinzione che la scuola trascendentale pone fra i giudizii analitici ed i giudizii sintetici a priori è assurda. Queste son parole di G.. E qui non si tratta di una semplice affermazione. C'è anche la prova. Se le due idee A e B non hanno alcuna identità fra di esse, lo spirito non può riguardarle che come distinte, e senz'alcun legame fra di loro: è impossibile, dunque, ch'egli vi percepisca un rapporto necessario di convenienza fra di esse: dire in conseguenza che lo spirito dee percepire necessariamente un rapporto di convenienza fra due idee diverse è affermare che lo spirito puo pronunciare una contraddizione evidente. Tutt'i giudizi necessarii debbono, in ultima analisi, risolversi nel principio di contraddizione: essi son dunque tutti analitici, ed i giudizii a priori non possono essere che necessarii. Ammettere dei giudizi necessarii non poggiati sul principio di contraddizione è un assurdo manifesto. Se lo spirito non vede alcuna contraddizione nell'opposto di un suo giudizio, egli non può certamente riguardarlo come necessario. I giudizi sintetici a priori non possono dunque esistere. Somiglia non po’, a dir vero, al ragionamento di quel tale aristotelico restio agl'inviti di GALILEI (si veda) di guardare attraverso il cannocchiale. Ma è il ragionamento di G.; e questo basta allo storico, il quale dirà che il filosofo di Tropea, chiuso nel cerchio della logica formale e nel ferreo apriorismo delle sue regole, non puo ammettere e non ammise il risultato principale della Critica kantiana, che è la sintesi a priori. In effetto, egli dice negl’elementi di logica pura, un principio sintetico, puro , a priori come Kant lo suppone , è una cosa contraria alle nozioni fondamen tali di una sana logica. Infatti, egli soggiunge, prescindendo dall'esperienza, nella sfera delle mie idee, io non posso unire B con A, se non riconoscendo che B è uguale ad A, o ne fa almeno parte. Che se B eccede A in estensione in valore, come potrei attribuire ad A, come sua proprietà, tale eccedente di B, non ritrovato in A? Saggio. Così la critica del Saggio è confermata negl’elementi con esplicito appello alle leggi della logica formale, per la quale certamente non è possibile la sintesi a priori kantiana, perchè l'identità non è conciliabile colla differenza, e se la necessità richiede l'identità, rifugge dalla differenza. È inutile mostrare il valore della critica galluppiana, fondata come quella di Degerando con cui va raffrontata, e quella stessa di SERBATI, sopra l'intelligenza della sintesi a priori de sunta dalla sola Introduzione alla Critica della ragion pura (nella 2.a edizione) coi famosi esempii: 7 + 5 12 ecc. Giova piuttosto ricordare che la vera sintesi a priori non con siste propriamente nell'unione di predicati a soggetti, onde siano già belli e formati i concetti; bensi nella formazione medesima dei concetti: problema, di cui non s'accorse affatto G., a proposito di Kant, ma riproduce, del resto, e risolve egualmente nella sua teoria dell'analisi e della sintesi, che, munite dei rapporti soggettivi dell'identità e diversità, servono anzi tutto alla formazione delle idee, e nella sua teoria del giudizio, essenzialmente distinto dal sentire, e necessario alla percezione di qualsiasi rapporto. Questa della sintesi a priori è uno dei motivi prediletti della critica italiana intorno alle dottrine del Kant, e ricorre spesso nei saggi di G. Ma non è la sola teoria kantiana che egli [Ma, so sintesi a priori e logica formale sono assolutamente inconciliabili, non bisogna conchiudore: dunque, aut aut: o si rifiuta la sintesi a priori, o si rifiuta la logica formale. Su questo punto si fa molta confusione. Vi torna su in un lavoro; qui vuole solamente aggiungere, che la dottrina della sintesi a priori fa parte della teoria della formazione delle conoscenze; laddove la logica formale studia i rapporti delle conoscenze già formate o delle conoscenze in sè; e notare, che, se il pensiero non ha da essere un quissimile del vano lavoro delle danaidi, non s'ha da far consistere solo in un accroscimento delle conoscenze, ma anche in un'intuiziono delle già acquisite. Un anonimo nota in un opuscolo molto arguto e tagliente contro il nuovo professore dell'università che le belle ed acute riflessioni, con cui G. combatte negl’elementi della logica pura il giudizio sintetico a priori, sono tolte da LAROMIGUIÈRE, Leçons de philos. Vedi : Degl’lementi e della Introd. allo studio della filos. del celebre Bar. Galluppi, giudizio dato all'editore da un suo amico, Napoli, De Bonis. L'opuscolo reca di Napoli. Scritto con molta vivacità e castigatezza di lingua, rimprove a G. l'inesattezze di certi suoi esempii presi dalla geometria e dall'algebra, l'ignoranza in generale delle scienze fisiche e naturali, la scarna o niuna cognizione dei classici antichi combatta. Anzi, non v'è quasi teoria esposta nella critica della ragion pura che venga risparmiata nel saggio galluppiano e nelle parti delle altre opere che ne dipendono. Lo spazio, il tempo, le categorie, lo schematismo, la dialettica trascendentale gli offrono materia di lunghe e energiche discussioni, il cui scopo è sempre la confutazione di Kant. Aggiungi le frequenti proteste contro il trascendentalismo e l'idealismo, che per G. equivalgono allo scetticismo, proteste nelle quali G. unisce a Kant Fichte e Schelling, per quel poco che ne puo conoscere da traduzioni o esposizioni francesi; ed è evidente che il lettore sbadato e il critico ottuso non potessero e non possano vedere il filosofo di Tropea che agl’antipodi di quello di Koenigsberg.  Il vero è che per un'esatta intelligenza delle dottrine di questo, il primo incontra insormontabili difficoltà nei limiti della sua cultura; la quale non si estende oltre la letteratura filosofica italiana e francese e alle traduzioni (allora pochissime e affatto insufficienti) che ci sono in queste lingue delle opere tedesche. Quello che puo intravvederne indirettamente, è naturale che gli dove riuscire oscurissimo, e restargli innanzi con tali lacune, che s'egli ne ha coscienza, non è certo provato alla critica della filosofia tedesca. Egli, scrittore chiarissimo e pensatore analitico per eccellenza, manifestamente soffre nello studio che puo fare di quegli scrittori. Nella critica di Fichte, sforzandosi d'intendere il vero signifi della filosofia, la leggerezza nell'appigliarsi alla moda francese, e quindi la pedanteria e confusione del metodo analitico imitato dagl’ideologi, e perfino i barbarismi e l’improprietà di espressione. L'opuscolo pare fa una certa impressione. Galluppi risponde col silenzio. Ma i suoi pupilli con due opuscoli: D’un giudizio dato d’ignoto giudice sur alcune parole del chiarissimo B. P. G. appella MORENO, Napoli, Trani; Al giudizio dato d’un anonimo su talune opere del chiarissimo P. G. risposta di PISANELLI, Napoli, Ruberto o Lotti. Curioso l'opuscolo di Pisanelli nella parte in cui difende G. scrittore, per l'enfatica digressione che vi è contro il purismo. Per questa parte invece Moreno riconosce che G. non è puro elegante e gentil dicitore; il che non toglie ch'ei è, alla sua volta, pessimo scrittore. Vodi le Considerazioni filosofiche sull'idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto, Napoli. Di Schelling non pare che conosce nulla di originale, all'infuori della trad. francese di Bruno. Di Fichte cita la trad. francese della Bestimmung des Menschen.] cato della costui dottrina dell'io puro, dichiara ai colleghi del l'Accademia francese. Qui l'oscurità alemanna comincia ad affliggermi. Io che non amo ne' discorsi filosofici, se non che la chiarezza e la precisione, son qui circondato dalle più dense tenebre. E termina la sua memoria invocando le regole wolfiane De stylo philosophico, e domandando agl’amici della verità e del progresso della filosofia, se lo scrivere i trattati filosofici in un modo più oscuro di quello, in cui è scritta la teogonia d’Esiodo, è esso un segno di progresso verso la verità o pure verso l'errore. Altri più recentemente si son lagnati dell'oscurità di alcuni scrittori filosofici, e si son levati in difesa del bello stile. Ma, come nel caso di G., molto spesso l'oscurità che si vede negl’autori, non dipende da un loro difetto, sibbene dalla insufficienza nostra a intenderli; chè nessuno è chiaro a chi non sia preparato e non procuri in ogni modo e con ogni mezzo d'intendere. Comunque, la dottrina di G. è cosa ben distinta e diversa dalla sua intelligenza e dalla sua critica di Kant; e della prima è indubitabile che s'ispira a Kant e non riesce a risultati essenzialmente differenti. In sostanza egli è più kantiano di Kant. Questi, criticata la ragion pura, nega il valore scientifico, oggettivo, della metafisica, ma le riconosce un ufficio regolativo [CF. STRAWSON, PROFESSOR OF METAPHYSICAL PHILOSOPHY], e scrive una metafisica della natura come una metafisica dei costumi. Ma G. si rinchiude in un assoluto psicologismo, per usare parola giobertiana; e, pienamente conseguente alla sua filosofia dell'esperienza, tiene fermo alla dottrina dei limiti della scienza umana; e alla metafisica sostituisce l'ideologia. La sua cattedra ufficiale è di logica e METAFISICA. Ma egli nella Prolusione annunzia che tratta della filosofia teoretica, ossia della scienza dell'umana scienza, e da pertanto la legislazione suprema di tutte le scienze. La metafisica tratta, egli dice, delle idee essenziali all'umana ragione. Nella prima lezione rifiuta la definizione della filosofia data da Wolf, sostenendo che egli volle una [Ricordo per semplice curiosità che sostenne il kantismo di G. RoDRIQUEZ, Lett. sulla filos. sogg . ed oggettiva DEL BARONE G., Messina; cui rispose SIMONETTI, Analisi critica della Lettera ecc. Napoli, Fernandes, Lezioni di log . e METAFISICA] definire piuttosto l'infinita sapienza conforme a quel suo enunciato che Deus est philosophus absolute summus, e attribuendo alla filosofia wolfiana il difetto ascrittole appunto da Kant, di confondere la cosa con l'idea della cosa. Nella seconda lezione commenta il suo concetto della filosofia come scienza del pensiere umano ne’suoi elementi, nelle sue funzioni e nelle sue leggi; nozione, fa notare, della più alta importanza. Prevede la possibile osservazione. Ma è il pensiero il solo oggetto della filosofia? E la ontologia, la cosmologia, la teologia naturale, la fisica? Queste scienze, risponde G., in parte si riducono alla ideologia, scienza del pensiero, e in parte escono fuori dal campo della filosofia. L'ontologia studia alcune nozioni universali, essenziali all'umano intendimento; e la dottrina delle nozioni, delle idee non appartiene forse alla scienza del pensiero? Lo stesso dicasi della cosmologia e della teologia naturale. Sicchè G. conchiude. Tutte le parti dunque della metafisica appartengono alla scienza del pensiere umano. Quanto alla fisica, in parte è filosofia (psicologia, per le relazioni che questa scienza studia tra i fatti fisici quali sono in sè e i fatti fisici quali appariscono a noi, e teologia); e in parte, quale si tratta comunemente nelle scuole, se non può ridursi a rigore alla scienza del pensiero, è nondimeno una scienza che le è contigua, e che serve a rischiarare, ed a perfezionare la filosofia intellettuale. Sicché la metafisica, nel sistema du G., è bella e ita assolutamente. E se la filosofia per lui si divide com'è detto nella lezione in filosofia speculativa o teoretica, che studia l'anima (soggetto del pensiero) in quanto conosce, e in filosofia pratica, che studia l'anima in quanto vuole, è chiaro che nè anche questa puo essere fondata su alcun principio metafisico. Kant non arriva a questo punto. Ma prima di accennare i principii di G. nella filosofia pratica, bisogna fare un'altra osservazione generale, che ci pare di non poca importanza. Nella Prolusione G., vantando le ragioni del metodo sperimentale, avverte che non bisogna però mutilarlo. Anzi prenderlo tutto intero nelle sue specie e ne’suoi risultamenti; ne confonderlo con l'empirismo; giacchè la filosofia intellettuale, come egli chiama quella che insegna, non ammette solamente quelle esistenze, che cadono immediatamente sotto l'esperienza; ma quelle ancora, che l’esperienze sperimentali suppongono necessarie. Quindi ella deduce tanto dall'esistenza del mondo materiale, che da quella del mondo intellettuale, che a noi si manifesta, l'esistenza eterna d’un’intelligenza creatrice. E ciò in modo simile a quello in cui l'astronomia, partendo dal cielo empirico, pone un cielo razionale. Il cielo razionale sarebbe il cielo costruito dall'astronomo mercè la forza portentosa del calcolo, della geometria e del raziocinio, onde si sbalza dal centro del planetario sistema la terra, e vi si pone il sole; si trasforma in masse di meravigliosa grandezza quei piccolissimi corpi, che sembrano tanti chiodi affissi nel firmamento, si determina le distanze, le orbite ed i tempi delle rivoluzioni de’pianeti. Sicché, per G., anche la filosofia intellettuale, la ideologia, la filosofia dell'esperienza, con tutti i suoi limiti, ha il suo cielo razionale; come l'ha del resto il criticismo con la sua cosa in sé. Ma la cosa in sè per Kant è un puro concetto limite, di cui s'afferma l'essere non il come; che si afferma, non si conosce; laddove G. dedica tutta la seconda parte della sua ideologia, che intitola Teologia naturale, allo studio dell'assoluto e de’suoi attributi, come se Kant non è mai esistito. Il nome di questo qui non ricorre se non nelle ultime pagine, dove è detto insensato il suo impegno di contrastarci la possibilità di una teologia naturale e filosofica. Ma tutta questa parte evidentemente è non solo in contraddizione con la critica kantiana, ma anche con lo stesso Saggio dell'autore, la cui conclusione riesce a quella dottrina dei limiti della scienza. Che dire adunque del vero pensiero di G.? È vero, come è detto nel saggio, che lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria? O è vera la teologia delle lezioni? Le due dottrine sono certamente inconciliabili. E io non dubito d’asserire , che se G. non scrive le lezioni per i suoi pupilli a NAPOLI in uno de’periodi di più cupa servitù intellettuale che attraversa il pensiero italiano, la seconda parte dell’ideologia non sarebbe stata scritta. Questa opera, dice l'autore nella prefazione delle lezioni, non è mica la ripetizione dei miei Elementi di filosofia nè di altra mia opera antecedente. E nota altresì che serbando le leggi essenziali di un metodo, può questo ricevere delle variazioni accidentali. Intende egli alludere alla teologia naturale, di cui tratta per la prima volta in queste Lezioni? Si noti che non parla di nuovi svolgimenti del suo pensiero, ma di variazioni di metodo; onde non puo accennare a parti ora per la prima volta trattate della sua filosofia che non importa alcuna modificazione di principii. Si noti anche che la seconda parte dell'Ideologia è come appiccicata alla prima. Solo alla fine d’una lezione, dell’ideologia, l'autore dice. L'essere è o finito o infinito. Io divido perciò l'ideologia in due parti, nell'ideologia del finito ed in quella del l'infinito. E in questa distinzione così accennata è tutta la ragione della teologia naturale o ideologia dell'infinito, cui son dedicate le ultime lezioni del corso. Le dottrine non essoteriche hanno ben più stretti legami coi principii sostan ziali dello spirito d’un pensatore; e questi le fa sempre sgorgare specialmente quando siano dottrine così importanti, rispetto a quella filosofia dell'esperienza, onde  G. si proclama sempre assertore le fa sempre sgorgare, bene o male , dalle dottrine per l'innanzi professate, le pone, bene o male, in accordo con esse, per rimanere esso stesso d'accordo con sè medesimo. Nell'opera di G nulla di tutto questo. Io propendo pertanto a non attribuire alcun valore a quella parte delle lezioni nel sistema delle idee galluppiane. Non penso già che egli le detta e le pubblica contro la sua coscienza, ma certo contro la sua coscienza filosofica. Egli pensa certamente quanto scrive e insegna degl’attributi divini; ma quella parte del suo pensiero non è stata da lui elaborata filosoficamente ne coordinata quindi alla sua speculazione. Chi insegna e non s'è trova nel caso del nostro filosofo, di esser costretto da un programma a insegnare anche ciò che il suo spirito non ha maturato e fatto suo, e insegnarlo quindi nella forma in cui ordi nariamente si dà, e in cui è pur bene che sia offerto all'intelletto del pupillo? Chi non si trova a dover insegnare qualcosa di più di quello che in buona fede e a rigore potrebbe dir di sapere, o di quello ond'egli può dirsi veramente persuaso? Chi oltre a ciò che, per sè e per altrui, deduce chiaramente da’propri principii non ha insegnato qualcos'altro, che da quei principii sinceramente non sa derivare nè per altrui nè per sè? G. non ha per sè una teologia più filosofica di quella che è esposta nelle [Della religione tratta anche negl’elementi di filos. morale. Ma se la sbriga in un breve capitolo, che non ha nessuna pretensione filosofica , e si limita a una semplice notizia molto compendiosa del concetto della religione cristiana.] sue Lezioni; in questa fermasi il suo pensiero; ma stimo che non vi s'acquetasse; perchè una consapevole o inconscia insoddisfazione dove fargli sentire che nella sua filosofia dell'esperienza non c'è posto per quella teologia. S'è accennato che sulla fine della teologia naturale l’autore si ricorda dell'impegno insensato di Kant di contrastare la possibilità di una teologia. E che fa egli per combattere l'assunto kantiano? Scrive così. Kant insegna che i giudizii su cui la teologia naturale – cf. WILDE’S READERSHIP IN NATURAL THEOLOGY -- e filosofica poggia, sono sintetici a priori e fenomenici, privi di una assoluta realtà. Egli dice che le verità necessarie della teologia naturale non sono mica identiche, ma sintetiche; e che le verità di fatto non sono che mere apparenze, che fenomeni privi della realtà noumenica ed assoluta, indipendente dal nostro modo di vedere. G., nella critica della conoscenza segue passo passo la dialettica kantiana; e volendo parlar con giustizia, non può negarmisi, che l'ha invincibilmente distrutta. G. mostra che i giudizii sintetici a priori sono assurdi; mostra eziandio che le verità sperimentali ci danno pure delle conoscenze delle cose in se stesse considerate. Questo è tutto. Ora, poniamo che è esatta l'esposizione del pensiero del Kant. Ma la critica della sintesi a priori non giustifica, tutto al più, che la posizione dell'assoluto, come avviene per l'appunto nel Saggio dello stesso G.; dove partendo dalla pretesa impossibilità dei giudizii sintetici a priori, si dice, contro Kant, che non è tale neppure il principio: dato il condizionale, si deve dare l'assoluto; e si conchiude quindi che il condizionale dell'esperienza è reale in sé, non fenomenico, e che nella sua realtà è pur data quella dell'assoluto. E nel Saggio tutto finisce li. E la conclusione dell'opera è quella che ab [Acoopna al Saggio filosofico; Lez. Quindi accenna alle critiche che alla sua confutazione della sintesi a priori aveva mosse ROVERE (si veda) nel Rinnovamento e lo ribatte. Un'ottima osservazione contro questa deduzione fa col suo solito acume Tesia, il quale crede come SERBATI che G. non mova un passo fuori del soggettivismo. È falsa, egli dice, la premessa che il condizionale sotto il rispetto del condizionale sia un termine dato dall'esperienza. Quosta non ci dà che sensazioni e sentimenti. Ma le sensazioni non sono il condizionale? Si, sono, ma non ci sono date come tali dall'esperienza. La qualità d'essere condizionale è una veduta dello spirito, non è nella sensazione, opperò non è trovata nella sensazione. Vedi Le ricerche apolog. del crist, del popolo da Bignami esaminate, Lugano] biamo vista. Gli attributi divini son dichiarati incomprensibili. Nè quell'assoluto del Saggio differisce molto dalla cosa in sè kantiana. Ma nelle lezioni non c'è solo l'assoluto, bensì la scienza del l'assoluto; e non viene giustificata. La conclusione dell'opera si limita ad affermare che mostrando l'oggettività delle nozioni di sostanza, di causa e dell'assoluto, il criticismo è rovesciato, e la realtà della conoscenza è stabilita. Sono le ultime parole delle lezioni; ma potrebbero essere a miglior ragione le ultime del Saggio, perchè in quelle si cerca di provare qualcosa più dell'oggettività della nozione che la mente possiede dell'assoluto. Se la teologia naturale avesse avuto nella mente di G. la stessa saldezza dei principii più genuini della filosofia dell'esperienza, la sua etica non avrebbe mancato di esservi subordinata. Invece ne è assolutamente indipendente. Anzi, pure inspirandosi all'idealismo kantiano, non tiene affatto conto dell’esigenze sentite dal Kant nella Critica della ragion pratica e nella FONDAZIONE DELLA METAFISICA DEI COSTUMI. Forse egli non conosce nulla direttamente di queste opere, e della morale kantiana non dove avere che l'indiretta notizia fornitagli dalle solite esposizioni francesi. Non per questo si può dire con certi critici, che i suoi quattro volumi della Filosofia della volontà non contengono nulla di nuovo, anzi, di fronte a Locke ed Hume, ed a tutta la specula zione contemporanea, segnano un sensibile regresso verso il vecchio rancidume metafisico e teologico. Chi giudica così non deve avere grande familiarità con questo rancidume, e certo è assolutamente falsa la sua sentenza, che la morale galluppiana sia ispirata all'idealità patristica e scolastica. Non si potrebbe dire nulla di più inesatto intorno a quella morale. Basta una sommaria esposizione per convincersene. Bisogna prima di tutto osservare, che G. insegna filosofia teoretica o, com'egli dice, intellettuale; e non v'ha quindi occasione di trattar mai la morale. Ma egli pubblica un volumetto del suo manuale scolastico, gl’elementi della FILOSOFIA MORALE [cfr. AUSTIN, WHITE’S PROFESSOR OF MORAL PHILOSOPHY, dopo Hare]; e prima d'assumere l'insegnamento scrive La filosofia della volontà,  Vedi l'art. La speculazione di P. G. , Rivista di filos, e sc. affini di BOLOGNA. In essa, secondo che egli dichiara nella prefazione, si propone di trattare in un'opera estesa lo stesso argomento di quegl’elementi, ma col metodo stesso del saggio filosofico, ossia con la discussione e l'esame delle varie dottrine relative ad ogni materia. Ma non dove aver compiuto il lavoro prima di salire la CATTEDRA di logica e METAFISICA; e non pare che vi sia potuto più tornare; sicchè non tutte le parti del volumetto degl’elementi vi sono riprese e novellamente trattate con quella maggiore larghezza, che l'autore s'èproposta. E il disegno di essa, delineato sulla traccia degl’elementi, gli rimase colorito meno che a metà. Nella Filosofia della volontà comincia dal distinguere nell'uomo l'agente fisico della natura, disposto o mosso ad operare pel fine della propria felicità, e l'agente morale, disposto o mosso ad operare dal principio del proprio dovere. Distingue anche i movimenti che nel corpo umano si osservano, in meccanici, che non dipendono dalla volontà, e volontari, per cui sol tanto l'uomo può dirsi agente. Chiama quindi filosofia della volontà quella scienza che fa conoscer l'uomo considerato come un agente; e divide questa scienza in quattro parti. Nella prima, dice  esamino l'uomo considerato generalmente come un agente. Nella seconda l’esamino sotto l'aspetto d’agente morale. Nella terza sotto l'aspetto d’agente fisico. E nella quarta finalmente l'esamino riguardo alla sua esistenza in uno stato futuro, dopo il fenomeno della morte; e ciò in conseguenza della sua virtù e de' suoi vizi. Questo il disegno. Ma delle quattro parti ideate i primi tre volumi dell'opera e il primo capitolo del quarto trattano solo la prima. Gl’ultimi due capitoli di questo quarto volume e dell'opera iniziano appena la trattazione della seconda, com'è svolta negl’elementi; e DELLA TERZA E DELLA QUARTA NON C’È NULLA; laddove negl’elementi l'una, intitolata De' mezzi per esser felice, è trattata con relativa larghezza, e dell'altra c'è pure un cenno col titolo, Della religione. Sicché, quantunque l'autore appaiasse questa sua filosofia della volontà col saggio filosofico, come l'opera contenente la sua filosofia pratica accanto a quella contenente la [I primi due volumi, presso Giachetti in Napoli; il 3.° vol., presso la stamperia Tramater in Napoli. La dedica al MARCHESE DI PETRACATELLA reca Napoli] a sua filosofia teoretica; è evidente, che se la filosofia della volontà presenta discusse con grande ampiezza questioni brevemente accennate negl’elementi, di questi non può fare meno chi voglia acquistare un concetto compiuto delle teorie pratiche galluppiane; e in essi deve principalmente attingere quella parte di coteste teorie, che spetta più propriamente alla morale. Dal disegno stesso dell'opera maggiore si scorge un pregio non comune in questo ramo della filosofia del nostro: voglio dire la pienezza del suo concetto dello spirito pratico. Egli, com'è chiaro già da quelle semplici indicazioni, non vede tra la felicità e il dovere quella dualità inconciliabile, in cui si dibatte l'etica prima di Kant e nello stesso Kant; quella dualità che finisce inevitabilmente, secondo l'uno o l'altro pensatore, o con la negazione dell'uno o con la negazione dell'altro principio, o nel concetto puramente utilitario o in quello del puro disinteresse. G. vede che sono due i fini dell'umano volere: due fini però conciliabili tra loro, sì che uno non importi la negazione dell'altro. L’uomo infatti è agente fisico e agente morale insieme; e per es sere agente fisico non cessa di essere agente morale; e viceversa: segno manifesto, che tra i due fini non c'è opposizione assoluta. La confutazione perentoria dell'utilitarismo (UTILITARIAN, FUTILITARIAN) dal punto di vista etico sta in questo concetto, che G. vide nettamente, come apparrà meglio dalla notizia che ora ne daremo. Tutta la prima parte della sua filosofia pratica s'aggira adunque intorno all'attività in generale dell'uomo: è, come noi diremmo, una semplice psicologia pratica. Parla quindi del desiderio, della volontà, dell'influenza della volontà sull’intelletto, e viceversa, e in generale dei principii motori della volontà, e della libertà umana. Questa è la trattazione più ampia, e occupa quasi per intero il secondo e il terzo volume della Filosofia della volontà. Non avendo voluto G.  lasciare senza risposta nessuno degl’argomenti che sono stati addotti contro l'esistenza del libero volere. Della volontà il nostro dice che non può definirsi. Ne fa una facoltà, avvertendo bensì, che le diverse facoltà, che concepiamo nel nostro spirito, non sono certamente tanti agenti diversi: esse non sono che lo spirito stesso considerato relativamente ad una determinata specie di modificazioni, che avvengono in lui. Si potrebbe intendere per volontà la facoltà [Quindi, secondo l'autore, è volontà il nostro spirito stesso considerato relativa di volere; ma questo come ogni atto semplice non può definirsi, e non se ne può altrimenti avere la nozione che dirigendo la nostra attenzione sul sentimento che abbiamo di questo atto, ossia ricorrendo alla nostra personale coscienza. La volontà senza gl’atti di volere è indeterminata come volontà; è lo spirito stesso in generale. La determinazione della volontà è la produzione de’voleri particolari; e siccome, dice G. stesso, lo spirito è il principio efficiente de'voleri, così può dirsi tanto che lo spirito determina se stesso, quanto che la volontà determina se stessa. La volontà, come nota Locke, va ben distinta dal desiderio. Un idropico, malgrado il desiderio di bere, si astiene dall'acqua. Egli dunque DESIDERA DI BERE, ma NON VUOL bere. In tali casi vi sono desiderii opposti, fra i quali la volontà si determina. Per G. tra desiderio e volere c'è una recisa differenza. Quello non è, come ordinariamente si crede, un fatto d'attività dello spirito, ma, come oggi si direbbe, un fatto puramente emotivo; quel misto di piacevole e di spiacevole onde lo spirito è affetto per la percezione d'una sensazione in se stessa piacevole, ma assente, e però causa d'un dispiacere tanto maggiore, quanto più lontano è il futuro, in cui si pensa che essa sarà provata, Quando, come fa Wolff, si vede nel desiderio uno sforzo, un'avversione, un'inclinazione, o ci si contenta di metafore fallaci, o si confonde col desiderio il volere, onde i movimenti corporei sono l'effetto. Sforzo, tendenza, inclinazione, allontanamento son tutti vocaboli, che applicati all'anima non presentano alcun senso. Come dal desiderio, la volontà va distinta dall'intelletto; sicchè può parlarsi di un'influenza esercitata dalla volontà sul l'intelletto, come di un'influenza esercitata dall'intelletto sulla volontà. Quanto alla prima, G. vede un potere della volontà perfino nelle sensazioni, in quanto lo spirito può esporre o pure sottrarre i propri sensi all'azione de’corpi esterni; e quindi procurarsi o privarsi di alcune date sensazioni. Quindi mente a quella specie di modificazioni, che abbiam chiamato voleri. Insomma, gl’atti singoli presuppongono un quid nella natura dello spirito; o questo quid è la volontà. Filos. d. vol., Psych , emp. L'autore s'accorge che questo potere della volontà si esercita indiretta ci parla di sensazioni volontarie e sensazioni involontarie; e come i desiderii sono un effetto delle sensazioni, trova che vi sono e desiderii volontari e desiderii involontari; e come anche i fantasmi seguono le sensazioni, anche tra i fantasmi pone la stessa distinzione nel campo dell'immaginazione. Quando si passa dalla sensibilità alle facoltà dell'analisi e della sintesi, non si tratta più di un potere indiretto, ma im mediato della volontà sull'intelletto; e dicesi attenzione; nel cui studio l'autore si trattiene con diligenza e acutezza, che fan degne quelle pagine di esser lette ancora, pur dopo tanto progresso nella conoscenza dei fenomeni psicologici. E come l'analisi e la sintesi sono le due attività spirituali onde vengono prodotte tutte le conoscenze, l'impero su di esse vale l'impero su tutto il conoscere. Che più? L'associazione è anch'essa volontaria e involontaria. L'abito, questa seconda natura morale, può dirsi anch'esso volontario, quando consta della ripetizione volontaria di atti volontari; e conferisce a quell'educazione onde ognuno è responsabile, poichè egli ne è l'artefice. I giudizii temerarii sono colpevoli, perchè volontari; in essi l'attenzione si volge a fantasmi, cui non dovrebbe rivolgersi, e l'uomo vuol manifestare i giudizii che da quei fantasmi deriva, confondendo l'immaginare col giudicare. Infine, da questo impero della volontà sull’intelletto la distinzione dei moralisti di ignoranza vincibile e invincibile. In quanto all'influenza dell'intelletto sulla volontà, è chiaro: che la vita dello spirito, come nota G., comincia dalle sensazioni. Ora queste, secondo che sono piacevoli o no, determinano lo sviluppo dell'attività dell'anima; suscitano i desiderii che influiscono sulla volontà. Quindi nasce il problema: in quanti modi l'intelletto influisce sulla volontà? E se ciò che nel nostro spirito dispone o eccita la volontà all'atto di volere, dicesi principio attivo della volontà, si domanda: quanti sono i principii attivi della volontà? E non sono RIDUCIBILI TUTTI AD UN SOLO PRINCIPIO, come sue varie modificazioni? Elvezio concentra tutti i principii dello spirito nella fisica sensibilità. Ma, annientata così tutta l'attività dell'anima, e mente; ma non vede che pertanto in questi casi trattasi d'un impero del volere sul corpo, e non propriamente sull'intelletto. Tutta questa dottrina dell'influenza della volontà sull'intelletto è anche negl’Elem. l’uomo riguardato come solamente sensitivo ed animale, la virtù nei saggi d’Elvezio scomparve dall'universo, e vi è rimpiazzata da un grossolano egoismo. L'uomo per Elvezio è tutto ciò che le cause esterne lo fanno essere. Egli rica le conseguenze logiche più rigorose dal sensismo del Condillac, che uso tutti i riguardi per la morale e per la religione, ma non ragiona coerentemente al suo principio della sensazione trasformata. Elvezio parte dallo stesso principio, e ne deduce illazioni che fanno orrore. Ma, come è falso nella filosofia intellettuale che tutto sia sensibilità fisica o da essa derivi, com'è falso ridurre il giudizio che è attività sintetica e analitica, al mero fatto passivo della sen sazione, così è falso nella filosofia pratica non distinguere dalla passività del senso l'attività e la libertà della volontà, e non riconoscere l'origine soggettiva del dovere. Non è vero che tutto lo spirito sia sensibilità; e perciò il presupposto elveziano è privo di fondamento. Non è vero che i piaceri e i dolori, che agiscono sul volere, sieno in ultima analisi sempre piaceri o dolori fisici provenienti da sensazioni; è incontrastabile, che vi sono anche piaceri o dolori intellettuali provenienti da pensieri. Quindi una prima divisione dei principii motori della volontà o motivi: desiderii inriflessi, quelli in cui lo spirito è passivo, e principii riflessi, in cui lo spirito è attivo. I primi si possono dire anche semplicemente desiderii, gli altri, ragioni. I principii irriflessi si possono ridurre a sette; appetito fisico (fame, sete, amor fisico), desiderio della propria eccellenza, curiosità, sociabilità, desiderio della gloria, emulazione e potere, affezioni. La ragione è principio d’atti volitivi come principio economico e come principio morale; o , come G. dice, in quanto esamina ciò che conviene alla nostra felicità, fa il calcolo dei beni e dei mali, e dirige le nostre azioni a produrre un certo stato dell'anima; e allora si chiama prudenza ; e in quanto ci mostra il bene e il male morale, e ci comanda di far l'uno e non far l'altro; e allora può dirsi ragione legislatrice della nostra volontà. I principii della prudenza sono quattro: un piacere che ci priva di maggiori piaceri è un male; un piacere, che ci produce maggiori dolori, è un male. Un dolore, che ci libera da maggiori dolori, è un bene. Un dolore, che ci produce maggiori piaceri, è un bene. A questo punto l'autore si propone la questione della libertà, alla quale dedica la maggior parte del l'opera sua, ma della quale noi ci sbrigheremo in poche parole. Questa è la parte più vecchia della sua filosofia, e una delle meno logicamente dedotte dai principii della sua speculazione. In essa egli sente la forza del pregiudizio come impedimento insormontabile alla visione della verità più evidente; e ci si vede la sopravvivenza di una vecchia dottrina, che mal si connette all'organismo del nuovo pensiero; anzi vi rimane aggiunta e giustapposta come membro morto che l'artificio collochi al posto di quello che manca in un corpo vivo. Dal suo concetto dell'unità metafisica dell'io, dal suo concetto delle facoltà come semplici principii costitutivi della natura dello spirito, G. avrebbe dovuto esser condotto a più elevato e concreto concetto della libertà, che non sia quello da lui ancora difeso a forza di sottigliezze ingannevoli e d'illusorii ragionamenti. Egli vede la distinzione tra sensibilità, intelletto, e volontà, di cui fa tre facoltà distinte, ma pur facendole scaturire dall'unico io, non giunge a scorgerne la recondita unità. E veramente, separato l'intelletto dalla volontà, da ciò che v'ha d’umano, di spirituale nella volontà, non è possibile altro con cetto di questa, all'infuori di quel vuoto volere, che è il fondamento della libertà bilaterale. Questa è la libertà a cui giunge G.: la libertà per cui nell'atto stesso che vogliamo [GRICE SCRATCH MY HEAD], potremmo non volere; quel potere, che non si esercita, e la cui essenza stessa è di non esercitarsi nel momento stesso che lo sentiamo. Questa libertà del volere è determinata nettamente dal suo confronto con la necessità del sillogismo. La coscienza ci attesta, che noi non siamo liberi di tirare o non da due premesse quella data conclusione, laddove ci attesta il contrario rispetto ai singoli atti del volere. E siccome [Nella Filosofia della volontà tutto finisce con la enumerazione di queste leggi. Negl’Elementi invece, tutto un capitolo è dedicato ai MEZZI PER ESSER FELICE (CF. GRICE, SOME REFLECTIONS ON HAPPINESS). Quivi fra i piaceri intellettuali si annovera il piacere estetico; e quindi i passi contengono una breve trattazione di estetica. Elem. La libertà, io dico, è il potere di volere, o di NON volere un oggetto percepito; Filos. d. vol.] la coscienza è quel fatto fondamentale, a cui il filosofo deve sem pre far capo, la sua testimonianza basta a provare la realtà della libertà. Tutti gl’argomenti contrari non reggono alla critica. Ma negl’Elementi G., prima di appellarsi al testimonio della coscienza, ricorre a un argomento, che rivela subito la paternità kantiana. Nella coscienza del dovere e del premio o delle pene che spettano all’azioni si comprende, egli dice, la coscienza della nostra LIBERTÀ (cf. GRICE FREEDOM). Non si comandano le azioni necessarie, come non si comanda ad un sasso il cadere se non è sostenuto (FREE FALL). Le azioni necessarie non sono riguardate come meritevoli nè di premio, nè di pena. La coscienza della legge interiore contiene la coscienza della propria LIBERTÀ (GRICE FREEDOM).Il comando suppone in colui, a cui è diretto, il potere di eseguirlo e di NON eseguirlo. Devi; dunque, puoi, dice Kant. Non bisogna, del resto, porre G. fra le anticaglie pel suo concetto della LIBERTÀ (GRICE FREEDOM). L’INDETERMINISMO ANZI È UNA DELLE CONCEZIONI OGGI ALLA MODA; E NON MANCA IN ITALIA DI RAPPRESENTANTI; i quali si sforzano di combattere il concetto della direzione unica ed unilineare degl’atti del volere, ponendo nello spirito un irriconciliabile dualismo, che lacera internamente l'unità dell'individuo umano, e sta quasi condizione necessaria, se non sufficiente, della libertà morale. E ancora uno dei più acuti psicologi che ha l'Italia afferma che il concetto del volere libero, cioè non coatto estrinsecamente (libertas a coactione), nè intrinsecamente (libertas a necessitate) è una verità, la quale, sebbene accanitamente combattuta da molti e sotto molti rispetti, resta sempre inconcussa per chi, scevro da pregiudizii e forte nelle convinzioni morali, non si lascia smuovere da’sofismi ne turbare dalle difficoltà. Il vero è, che una questione mal posta non può aver mai la sua vera soluzione; e potrà sempre far accettare or l’una or l'altra di due opposte soluzioni. Quella del libero arbitrio è stata appunto una questione mal posta, per l'indeterminatezza del con cetto del volere, su cui si fonda. Giacchè, se si determina rigorosamente il volere, è impossibile escluderne la ragione, e non vedere quindi, che se han torto gl’indeterministi a difendere la libertas Filos.; cfr. gli Elem. Vedi il lodato saggio di PETRONE, I limiti del determinismo scientifico, Modena, Roma; cfr . BOUTROUX, De la contingence des lois de la nature, Paris. BONATELLI, Elem. di psicologia e logica, Padova]a necessitate, non hanno minor torto i deterministi a combattere la libertas a coactione: gl’uni perdendosi in una vuota creazione dell'intelletto astratto, gl’altri rompendo nello scoglio fallace del meccanismo. E dire che non è mantato chi ponesse bene la questione, e le desse quindi una soluzione da soddisfare le opposte esigenze e dissipare tutte le difficoltà! Stabilita, comunque, l'esistenza della libertà morale, si tratta per G. di risolvere questo problema: esiste un bene e un male morale? E ne chiede la soluzione, anche questa volta, alla coscienza. L'esistenza del bene e del male morale, e per conseguenza di una legge morale naturale, è una verità primitiva attestataci dalla nostra coscienza. Darne una dimostrazione è impossibile, senza avvolgersi in circoli viziosi, al pari di chi volesse provare allo scettico l'esistenza e la realtà del nostro conoscere. La coscienza ci dice che esiste una legge morale naturale, ossia necessaria ed originaria che si dice dovere: indipendente dalla legge positiva, come dall'opinione altrui, valida nel segreto dell'anima nostra. Donde viene a noi la nozione di essa? Chi indipendentemente dalla legge positiva mi comanda di non uccidere un uomo, di RENDERGLI IL DEPOSITO, CHE MI HA CONFIDATO? È la mia ragione, la quale comanda alla mia volontà. Son io che comando interiormente a me stesso. Questo comando non mi viene dunque dal di fuori; ma dall'interno del mio essere. Il predicato dei giudizii morali è l'idea del dovere; e questa idea viene da noi, dice il nostro filosofo, non dagl’oggetti. La nozione del dovere, egli dice anche esplicitamente, è una nozione soggettiva essenziale alla nostra ragione. Meglio non si potrebbe dire. Altro che rancidume, e idealità patristica e scolastica! Nessuna più esplicita e più coraggiosa proposizione avrebbe potuto pronunziarsi in omaggio al moderno, al vero soggettivismo. Soggettivo il dovere, ma anche essenziale: questa è la giusta definizione non solo del vero soggettivo, ma anche del vero oggettivo, dopo Kant, quando bene s'intenda. E nella morale G. riproduce Kant bene inteso, senza esitazioni e senza limitazioni. Annunziata la soggettività del dovere egli dice con accento di sincerità commovente. È questa una verità per me evidente, e credo che tale sembrerà a chiunque vi rifletta di buona fede. Filos. d. Vol. Tutto ciò trovasi anche negl’Elementi. La nozione del dovere rende la ragione ragion pratica o legislativa (tutta terminologia kantiana, come si vede). Essa è essenziale alla ragione, e perciò potrebbe dirsi innata. Ma non sono già innati i principii della morale, ossia i singoli doveri. Non uccidere: se questo precetto fosse innato, dovrebbe esser tale anche l'idea d’omicidio, la quale ci viene invece dall'esperienza. L'uomo è però costituito di tal natura, che la nozione del dovere sorte, nelle occasioni, dal suo proprio fondo. Insomma, quel che vi ha di a priori in G., come in Kant, è la forma del giudizio pratico; e la materia è data dall'esperienza. In che consista il dovere, non è determinato in quella nozione soggettiva ed essenziale, che costituisce la Ragion pratica. Di a priori nello spirito e quindi di essenziale nei fatti etici non havvi che il predicato onde si giudicano le azioni morali: cioè appunto la forma. Soggettivista come Kant, G. è del pari formalista nella morale. La nozione del dovere, egli dice, sorte dall'interno di noi medesimi, ed applicandosi alle azioni che si presentano allo spirito costituisce quei giudizii, che sono precetti o COMANDI – COMMANDAMENTI o MANDAMENTI. Questi precetti, in conseguenza, son proposizioni *SINTETICHE*; poi chè essi sono un prodotto necessario della sintesi della RAGIONE, che aggiunge ad alcuni dati atti liberi l'elemento del dovere. Questi giudizii, sebbene suppongano alcuni dati sperimentali, non sono però sperimentali. Essi possono, in conseguenza, riguardarsi come giudizii A PRIORI. Questa dottrina non ha bisogno di commento. In essa l'implacabile avversario del Saggio filosofico riconosce la verità del sistema di quel grande uomo, com'egli lo chiama nella morale, che è Kant, In varie parti delle mie opere filosofiche, dice nella Filosofia della volontà, io ho mostrato l'assurdità de'giudizii SINTETICI A PRIORI, , ammessi dalla scuola di Kant. Ma i giudizii sintetici di cui ho io parlato nelle mie opere di filosofia teoretica, sono giudizii teoretici, non già giudizii pratici. E negli Elementi di morale. I giudizii sintetici a priori TEORICI mi sembrano assurdi. Ma dall'esame profondo della nostra facoltà di volere son forzato di ammettere i giudizii sintetici A PRIORI PRATICI, i quali son precetti. Mi sembra impossibile lo stabilire altrimenti la moralità delle azioni. Elem., Filos. della vol.. Fuori di questo soggettivismo morale G., come Kant, non vede altro che EUDEMONISMO (alla Grice/Ackrill), o morale dell'interesse (alla Butler), come egli dice; e questa gli pare soltanto una morale apparente. Quando s'intende la giustizia come un interesse bene inteso, si finisce necessariamente col sommettere la giustizia a qualche cosa che non è la giustizia. Distinguendo l'interesse bene inteso dal male inteso, non si pongono in opposizione due interessi differenti.Al contrario, si pone in fatto, che non vi ha che un interesse unico, che l'uomo giusto e l'uomo ingiusto hanno egualmente in veduta; e che fra essi non vi ha che questa differenza, che l'uomo giusto è un uomo accorto, e l'ingiusto un imbecille. Ora contro questa concezione morale militano tre argomenti. La volontà dell'uomo virtuoso differisce intrinsecamente da quella dell'uomo vizioso. Laddove nella morale dell'interesse la volontà d’entrambi è unica; perchè entrambi vogliono la cosa stessa: il proprio utile (UTILITARIAN, FUTILITARIAN). La virtù vera è una dote del volere; e nella morale dell'interesse, invece, sta tutta nell'accortezza dell'operare; poichè col cuore più perfido si può saper fare il proprio utile. La legge morale dee essere assoluta ed universale. Invece la morale utilitaria è fondata sulla situazione ipotica dell'uomo, la quale, cambiandosi, cambia parimenti nell'uomo il principio di direzione, e la virtù diviene vizio, il vizio virtù. Sicché la morale utilitaria è falsa, distruggitrice d’ogni vera virtù si privata che pubblica. La virtù è causa della FELICITÀ; poichè, se diviene mezzo, cessa di essere virtù. La morale è essenzialmente disinteressata. La virtù è amabile per se stessa, indipendentemente dal premio, che la segue. Ma la coscienza di averla praticata dev'essere un piacere puro distinto dal piacere preveduto dal premio, ed indipendente da questo. Nella Filosofia della volontà l'autore sostiene che se il principio dell'utile non può produrre la virtù, nondimeno può concorrere col principio del dovere a produrla. Non manca tuttavia di notare che tale concorrenza non impedisce, che l'azione sia prodotta dal principio disinteressato del dovere; poichè il princi [Filos. d. vol. G. non ammetto che dall'utile proprio possa nascere l'utile altrui, che l'egoismo, come ora si direbbe, possa generare l'altruismo. L'uomo nulla può amare fuori di se stesso se non per se stesso. Fil. d . vol.; Elementi] pio dell’utile in tal caso toglie solamente o diminuisce gl’ostacoli all'esercizio della virtù. Sicché, insomma, non è una vera e propria concorrenza. L'azione morale è effetto unicamente del principio del dovere assoluto e universale, CATEGORICO. Pare che G. si opponga alla rigidezza razionalistica della morale di Kant; ma in realtà sono d'accordo nella medesima dottrina. Negl’Elementi l'autore pare accenni veramente a Kant, dove dice. Alcuni filosofi alemanni hanno preteso che l'ubbidienza al dovere dee esser l'effetto del puro rispetto della ragione per la legge, senza alcuna specie di piacere, nè di amore. Una tal dottrina è falsa, e contraria alla testimonianza irrefragabile della coscienza. Ma egli spiega così il suo pensiero. Non si dee esser giusto e benefico, per esser felice; poichè anche quando la moralità non fosse una sorgente di felicità, non si dovrebbe abbandonare. Ma più la virtù è pura e disinteressata, più vivo è il piacere, che risulta dalla coscienza di averla praticata. Il piacere unito all'esercizio del proprio dovere dispone all'azione doverosa la volontà dell'essere ragionevole. Ma non bisogna confondere le conseguenze di un fine col fine stesso. L'uomo virtuoso vuole il dovere per se stesso: e questo è il fine ultimo della sua volontà; egli, in conseguenza, non fa il dovere per lo piacere; ma il piacere non lascia di accompagnare la pratica del dovere. Ora questa dottrina è in opposizione a un kantismo mal inteso: al kantismo cui s'allude da Schiller nel famoso epigramma sullo scrupolo di coscienza. Ma Kant, in verità, non ammette meno di G. quel piacere che consiste nella soddisfazione che ci dà la coscienza d'aver adempiuto il proprio dovere; ma come G. tene a distinguere questo piacere morale consecutivo all'azione virtuosa dal piacere patologico a cui uò essere ispirata un'azione non virtuosa; ad affermare che il sentimento morale è conseguenza non principio P. es. nella prefazione alla Tugendlehre scrive. Ich habe an einem Orte (der Berlinischer Monatsschrift) den Unterschied der Lust, welche pathologisch ist, von der moralischen, wie ich glaubo, auf die einfachsten Ausdrücke zurückgeführt. Die Last nähmlich, welche vor der Befolgung des Gesetzes hergeben muss, damit diesem gemässgehandelt werde, ist pathologisch, und das Verhalten folgt der Naturordnung; diejenige abor, vor welcher das Gesetz hergeben muss, damit sie empfunden werde, ist in der sittlichen Ordnung. Werke (ed. Rosenkr.); cfr . Krit. pr. Vern., in Werke.  della moralità. Kant bensì osserva che il piacere per l'atto virtuoso compiuto e il rimorso per il delitto presuppone che si sa apprezzare il valore del dovere e l'autorità della legge morale; ond’è che la legge morale è il fondamento di questi sentimenti, non viceversa. Si deve essere, dice Kant, almeno per metà di già galantuomini per potersi fare un’idea di tali sentimenti. Osservazione che mi pare perentoria contro ogni specie d’EUDEMONISMO (alla GRICE). Sicché, anche per questo rispetto, la morale di G. riproduce quella del Kant. Nella morale G. si attiene al criticismo del saggio filosofico. La sua morale, come quella di KANT, è indipendente dall'esistenza di Dio. All'ateo, con la sola considerazione dell'umana natura può provare l'esistenza del bene e del male morale, indipendentemente dalla considerazione dell'utile. Perchè l’ateo, qualora non voglia esser sordo alla voce della coscienza, non può non riconoscere una legge morale, che gli comanda di esser giusto e benefico. Giacchè il dovere si conosce per se stesso, è un elemento semplice di tutte le verità morali, che sgorga dall’intimo di noi stessi. Le difficoltà d’altri incontrate a dedurre dalla natura umana per sè considerata la legislazione morale, derivano dalla inesatta e incompleta comprensione di questa natura; cui si attribuisce solo il principio dell'utile e si nega il principio morale. Si parte dal principio che nella natura umana non vi può essere altro principio RAZIONALE d’azione che quello della propria felicità. Ora qual meraviglia che partendo da un principio insufficiente a generare il dovere non si giunga ragionando con conseguenza ad una verità pratica? Anzi, secondo G., l'idea del divino non è sufficiente a spiegarci l'origine del dovere: perchè una conoscenza teoretica non è sufficiente a generare un principio pratico. Ma, dice GENOVESI (cf. GRAZIA, FILOSOFIA ORTODOSSA), LA RAGIONE umana è fallibile: è spesso traviata dal personale interesse. Eppero i suoi dettami non possono essere norma delle nostre azioni. E G. replica, che questo scoglio non si evita certo con la tesi dell'origine di [Cfr. del resto questo passo di G. I difonsori della moralo dell'interesso bene riguardano il rimorso come motivi, che debbano determinar l'uomo a fare il proprio dovero. Ma noi sostenghiamo, che l'uomo virtuoso dee fare e fa il proprio dovere per se stesso, indipendentemente dagl’effetti che seguono dalla pratica della virtù e da quelli del vizio. Filos. vina della morale. Perchè la legge morale bisogna sempre che sia conosciuta dagl’uomini; e conosciuta , naturalmente, per mezzo della loro RAGIONE. Nè maggior valore ha l'argomento a cui arrestavasi TAMBURINI (si veda): che non si può concepire legge senza legislatore. Il legislatore, dice G., è essa LA RAGIONE, in quanto ragione pratica. Un ultimo punto d'incontro di G. con Kant è il seguente. Secondo il filosofo italiano è un principio essenziale della RAGION pratica che la virtù è degna di premio, il vizio è degno di pena: giudizio *SINTETICO* A PRIORI. Ora, se noi crediamo a questo principio, dobbiamo pure credere all'immortalità del nostro spirito; perchè l'uomo virtuoso in questa terra non è sempre felice, nè sempre sfortunato il malvagio. Che il vizio dev'esser punito intanto è indimostrabile, come che la virtù debb’esser premiata. E indimostrabile, perchè è un giudizio *SINTETICO*. Ma è legge inalterabilmente impressa nella realtà del mio essere; è la voce di quella RAGION pratica, che è la legislatrice delle nostre azioni, e che non ci può ingannare, se la virtù non è nome vano. Uno stato è necessario in cui quel principio ha il suo valore reale, la sua piena esecuzione. Inoltre, io trovo nel santuario del mio essere la necessità d'una ricompensa della virtù e d’una punizione del vizio; vi trovo pertanto la necessità di un giudice supremo. Vi è dunque un'intelligenza suprema, infinita, assoluta, che si manifesta a tutti gl’esseri intelligenti. Questo supremo legislatore e giudice è il divino. È, comesi vede, su per giù , la teoria kantiana dei postulati della RAGION pratica. Ma G. sente la difficoltà che s'oppone a una deduzione teoretica da un'esigenza morale, e si domanda: possiamo noi sulla semplice esistenza delle nostre affezioni in noi, stabilire la realtà degl’oggetti di esse? Anche al Kant si affaccia un problema simile; e fa escogitare quella teoria del primato della RAGION pratica sulla ragion teoretica, che è una vera rinunzia a ogni diritto di vero e proprio filosofare, e perciò a ogni fondamento filosofico della stessa morale. G. non fa motto di questa teorica, forse convinto della sua manchevolezza, e tenta ogni via per distrigarsi dalla difficoltà ravvisata. Ma non pare che le ragioni trovate lo persuadano bene. Giacchè, infine, Elem. Vedi l’ottime osservazioni di MATURI, Principii di filosofia, Napoli, si prova a dimostrare l'immortalità dell'anima, indirettamente, dimostrando che non si può provarne la mortalità. Se pure que sta può dirsi dimostrazione. Egli dice in sostanza, dopo qualche esitazione. L’esperienza ci mostra che gl’oggetti delle nostre affezioni sono reali. Ma fra le nostre affezioni c'è la tendenza alla immortalità. Dunque l'anima è realmente immortale. Bisogna riconoscere che in generale le nostre tendenze naturali non sono defraudate del loro oggetto. Una di queste tendenze è la curiosità. E non possiamo noi forse, dice G., spesso soddisfare la nostra curiosità. Questo spesso, veramente, guasta, e non poco, l'argomentazione dell’autore; il quale si contenta di constatare con l'esperienza. Non vi ha alcuna tendenza nel cuore umano la quale non possa qualche volta raggiungere l'oggetto cui ella tende. Qualche volta! Dunque l'asserzione dell'immortalità dell'anima non è nulla d'apodittico. È meramente problematica. Per dirla schietta, il nostro filosofo è convinto che il domma dell'immortalità importi alla filosofia morale come il più fermo sostegno della virtù infelice ed un freno potente alla licenza del vizio. Ma chiuso nel suo sperimentalismo, ignaro degl’espedienti mal fidi del Kant, non sa fondare teoricamente il suo principio, non sa darne una giustificazione filosofica. Più filosofo nella sua impotenza degl’odierni prammatisti, che con la maggiore disinvoltura creano una metafisica per uso e consumo della morale, quasi che lo spirito ha fine più degno del vero. Quasi che il bene potesse fare a meno di essere il vero bene. Stabiliti comunque i suoi principii generali della morale, che sono principii essenzialmente formali, come tutti i principii soggettivi, si può rimproverare a G. ch'egli ne deduca i singoli doveri. Ma anche in questo egli s'accorda col KANT, la cui dottrina della virtù, nella seconda parte della metafisica dei costumi, per quanti sforzi facesse l'autore di salvare il suo formalismo, è in assoluta contraddizione col principio formale da cui si vuol derivare. Il formalista così nella logica come nella morale deve lasciare alla storia il compito di dare un contenuto alle leggi soggettive, epperò necessarie ed universali, dello spirito. Certo, con tutti i suoi difetti, che non sono solamente suoi, anche nella morale G. rappresenta un progresso immenso Elem. della filos. morale, cap. sui filosofi precedenti. In conchiusione, egli con le sue ispirazioni kantiane, co'suoi studi accuratissimi su tutta la gnoseologia post-cartesiana si libera dalle angustie del sensismo e dello spiritualismo dommatico; e inizia in ITALIA un nuovo periodo speculativo; nel quale il nostro pensiero, rinsanguato delle idee più vitali della filosofia tedesca, si solleva con SERBATTI e con GIOBERTI a un'altezza non più toccata da noi dopo i grandi pensatori del Rinascimento. Galluppi errs in calling natural semiotics, ‘il linguaggio dell natura,’ since no tongue is involved!” But we can forgive him for that since he genially realizes, unlike King Alfred, that one can use ‘dire’, ‘con questo moto del ditto, egli dice al compagno che vada da B in C” Segno figurato, motto dei bracci quando imito il moto de pesare para figurar paragonare. – Grice: “Gallupi’s scheme is a complex, and much better than Locke. He notes that ‘natural’ can apply to ‘sign’, and it is a natural fact that men will start using ‘natural’ signs in an artificial way – this he calls ‘natural sign’ – in that it is already an utterer making the gesture, as when he sneezes, intentionally. Galluppi has always in mind the dyad, what he calls il ‘compagno’ – so he plays with fifty variants on a theme. A makes a gesture – with the finger, with the arm --. Galluppi speaks of the ‘proposizione’ being communicated even in these cases – a ‘grido’ is equivalent to the proposizione that the compagno is to ‘turn his attention towards the utterer’ – In the ‘natural’ sign, as used in communication, we are already in the realm of the artificial – only a black cloud naturally means rain – Galluppi hardly dwells on a ‘grido’ signifying pain in a natural way. He notes that we progress. And he keeps looking for the reasons in the utterer and the addressee for all this. So like me, he looks for a motivational rationale – a ‘semantic’ freedom – or ‘prammatica’ as he would say. Since he is an illuminista, he is only concerned about this in terms of a minimal taxonomy of signs. So between the signs used in communication he distinguishes three types: the imitative, the indicative (different criteria) and the figured sign – not figurative – ‘segno figurato’ – when a lot of pantomime takes place. It is only THEN that he explores the arbitrariness: one loses one’s compagno, and utters, “Where are you?” – so since this worked, they agree that ‘Where are you’ will mean, “I lost you – where are you?” --. And then we have a full lingo – or semiosis. He rightly thinks that his is an improvement over Lucrezio!”  Pasquale Galluppi. Galluppi. Keywords: gesto, grido, gemito, moto del ditto, dolore, causa del dolore, circustanza, segno naturale, segno istituito, segno commune (istituito per la comprensione mutua), segno arbitrario, segno artificiale, segno imitative, segno indicatore, segno figurato, segno analogico, segno figurativo -- gesto della mano, lo sguardo, communicare, sentire, volere, Gentile, il canone nella storiografia filosofica italiana – Gentile su Galluppi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per Il Club Anglo-Italiano,The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Galvano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’arte naturale – filosofia torinese – scuola di Torino – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo Italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I like Galvano; he has philosophised on aesthetics, on ‘spirit and blood,’ and on polytheism, citing Sallust!” Frequenta la scuola a via Galliari, animata da Casorati.  Fonda L'Unione Culturale di Torino. Promuove il “Movimento Arte Concreta” – cf. Arte Astratta Insegna all’Accademia Albertina. Dizionario Biografico degl’Italiani.  FONDAZIONE GIORGIO AMENDOLA E ASSOCIAZIONE LUCANA LEVI  Mantovani Motto  G. Fare, pensare, vivere la pittura"i Pmm gr s m dz de 2zpA—A_t} PA "o Saggi di MANTOVANI MOTTO BOTTA OLIVIERI G. Fare, pensare, vivere la pittura Aver puntato il senso della propria vita sui segni e sui colori sarà stata magari una puntata inutile ma non elusiva e non insincera  G.]  FONDAZIONE AMENDOLA AssociaziIoNE LUCANA IN PieMONTE Carto LEVI MOSTRA D'ARTE DI G.   Torino presso la Sala Mostre dell’Associazione Lucana Levi e della Fondazione Amendola   Con il Patrocinio di Con la collaborazione di REGIONE CONSIGLIO wc I GALLERIA TORINO olii  MIN FEONIE DEL PIEMONTE att Sen DEL PIEMONTE  Quello è stato un biennio segnato dalle notevoli difficoltà imposte dalla pandemia da  Covid-19. Alla luce delle molte restrizioni, la Fondazione Amendola ha cercato, nel limite  del possibile, di proseguire con le proprie attività di divulgazione e promozione culturale adattando spazi e metodologie alle esigenze del periodo, rispondendo all'emergenza coronavirus con iniziative dinamiche e creative, passando per la fruizione digitale per permettere agli utenti di restare a casa,  come le disposizioni prescrivono, senza perdersi dei contenuti culturali. Sotto questa prospettiva e, nonostante le molteplici difficoltà, il lavoro svolto per ricordare l'artista torinese G. è stato importante. La Fondazione Amendola ha ritenuto opportuno offrire alla città di Torino e non solo, la  possibilità di accedere gratuitamente all'incontro con l’opera artistica e intellettuale di una delle figure  di spicco del panorama artistico italiano della seconda metà del novecento. L'iniziativa, di rilievo  nazionale, ha permesso di raccogliere artisti e intellettuali di tutta Italia che hanno collaborato con  G. e che tuttora ricoprono un ruolo fondamentale nella produzione culturale del nostro Paese. Cerabona  Presidente della Fondazione Amendola Studi, Convegni, Ricerche  della Fondazione Amendola e  dell’Associazione Lucana Levi Presidente Fotografie delle opere  PROSPERO CERABONA CORONGI Curatore mostra e catalogo Direttore Responsabile MANTOVANI CERABONA  Scritti di Redazione MANTOVANI, MOTTO, BOTTA, ADRIANO OLIVIERI DOMENICO CERABONA, FERRARI Progetto ed allestimento MANTOVANI MOTTO, IL RINNOVAMENTO Fotocomposizione EDITRICE IL RINNOVAMENTO Ente promotore Fondazione Amendola VIDEOIMPAGINAZIONE GRAFICA DI TESTI E IMMAGINI Associazione Lucana in Piemonte Levi VIA TOLLEGNO TORINO Si ringraziano per il prestito delle opere e la collaborazione: Galleria del Ponte (Torino), Civica Galleria d'Arte Contemporanea Filippo Scroppo  (Torre Pellice), Stefania e Testa, Liliana Dematteis, la famiglia Maggiorotto e tutti gli altri prestatori che hanno preferito restare anonimi. Si ringrazia Barzan per la realizzazione delle docu-interviste. G. e la pittura Mantovani  G.: la fedeltà alla pittura Motto  Da discepolo a interprete. G. e Casorati Botta Gli occhi fervidi e il sapore di cenere. G.: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Olivieri Opere esposte ARTE DI VENEZIA GATMAZH TEAOZ GANATOZ  XXVI: ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D  G.  BIENNALE  Foto Giacomelli - Venezia    FOTOTECA ASA.  G. e la pittura. Mantovani    Da pittore, G. pone tre livelli d’indagine; come qualsiasi artista intelligente, se non fosse  che, nel caso suo e di non molti altri, i tre livelli si  presentano specialmente complessi e coltivati con consapevole separatezza e problematica interconnessione:   Il primo livello comporta chiedersi che pittore  G. sia stato e, ovviamente, interrogarsi sulla  specie e sulla qualità della pittura (delle pitture) che  ha messo in opera nel lungo percorso, sicuro e tortuoso, che lo ha impegnato pressoché ininterrottamente.  Il secondo livello comporta mettere a fuoco la  concezione (le concezioni) ch'egli ha elaborato della  pittura, in quanto da critico (e autocritico: nella sua  scrittura, l’autoritrattoè un vero e proprio genere!) si è  occupato dell’arte, in particolare della pittura, conuna  intensità, una pervicacia, una curiosità sempre sveglia,  direi aggressiva, in un'epoca provocatoria e insieme  minacciata dalla condiscendente banalizzazione.   Ma, forse, il nodo più difficile da sciogliere è  quale rapporto ci sia tra il praticante pittura (è questa l’arte scrive di sé  della quale ab-  biamo, bene o male, una qualche esperienza vissuta  e non crediamo se non ai discorsi che nascono  da questa esperienza”, dove si radica anche la militanza del critico) e il teorico che usa gli strumenti  del filosofo, dell’antropologo, dello psicanalista, dello storico (da competente, eppure mai imprigionato  dallo specialismo? e anche meno dall’appartenenza) Si può daffermare che ogni suo scritto è occasione per una autoanalisi. Come, d'altra parte, che l'autobiografia non è mai cronaca contingente, invece occasione per andare oltre la cosiddetta  evidenza dei fatti, per indagarne radici e proiezioni. G., La pittura, lo spirito e il sangue, in “Tendenza” Torino, in G., La pittura, lo spirito e il sangue,  a cura di Mantovani, Il Quadrante, Torino; G.,  Diagnosi del moderno, a cura di Ruffino, Aragno editore Torino. Gallino, in AG., Atti del  Convegno, Torino a cura di Pinottini. Bulzoni editore,  Roma: "Se l’eclettismo diventa una condizio-  ne dell'esercizio dell’arte, è anche la qualificazione dello status  dell’intellettuale, che, in ogni specifico ambito d'indagine, è sollecitato a non perdere di vista la visione d'insieme dei problemi.  La polemica di G. contro la specializzazione, quale esclusiva  procedura del sapere, risponde a tale regola metodologica. In-  dubbiamente, in ogni attività culturale, è necessaria una partico-  lare competenza, ma, al di là del suo confine, s'impone l'esigenza  del controllo unitario dei suoi esiti e delle sue interpretazioni”. Ruffino, (Com)plessi galvanici, introduzione a Diagnosi del moderno, cit.,: “Contro lo specialismo, ... G. sferra una controffensiva senza tregua e a tutto campo: sul piano pratico, opponendo al tecnicismo la tèchne (nel suo caso quella  pittorica); sul piano morale, opponendo alla provvisorietà della  posa il rigore della presa di posizione (ma mai irrigidita in partito  preso); sul piano estetico, opponendo ai miraggi di progresso illi-  mitato espressi dal Funzionale le ragioni dell’Organico, capace di  suscitare creazioni vive. Interessato “da una parte all'eredità del tardo romantici- A. G. con Mariacarla e Pino Mantovani, Racconigi per affrontare la pittura, alla quale riconosce una  singolare centralità.   Tutti questi temi mi hanno per decenni accompagnato e sollecitato. I miei primi interventi su  G. pittore risalgono, la presentazione  ad una personale presso la Maggiorotto  di Cavallermaggiore, seconda di una serie dedi-  cata ai protagonisti del MAC torinese; ma già nel  marzo dello stesso anno avevo tracciato, con la  collaborazione dei miei allievi in Accademia, un  quadro della pittura degli anni Cinquanta a Torino  nel Museo Civico di Casa Cavassa a Saluzzo’, sulla  falsariga delle indicazioni che Galvano aveva for-  nito a T. Sauvage? per una storia ancora regionale  dell’arte italiana nel Dopoguerra; e sul  catalogo della mostra Arte a Torino, nel smo e del decadentismo: Mallarmé e Bergson, ‘esoteristi e filosofi  della vita’, psicanalisi ed esistenzialismo, dall'altra alla severità  dello storicismo crociano e all'esempio del rigoroso metodo critico negli studi di storia dell’arte Lettore di Klages, di Jung o  di Guénon, ma anche studioso di Kant e di Hegel (G.,  Perché non possiamo non dirci crociani, in “Numero. Attento a Freud come a Jung. Curioso delle storie, nel tempo e nello  spazio, pronto a coglierne, nella comune umanità, le differenze e  le istruttive potenzialità.   5 Pittura a Torino, a cura di G. Mantovani, catalogo della mostra, Museo Civico di Casa Cavassa, Saluzzo. Sauvage (pseudonimo di Schwarz) Pittura italiana del  Dopoguerra; Ed. Schwarz, Milano, il testo fu ripubblicato con  integrazioni e il titolo La pittura a Torino in “Letteratura”, Torino, successivamente in A. G., La  pittura; e G., Diagnosi. Arte a Torino, a cura di Bandini, Mantovani,  Poli, catalogo della mostra, Torino  salone d’onore dell’Accademia Albertina, dedicavo  a G. l’intervento, anche oltre gli anni  definiti nel titolo. Mi trovo, pertanto, a incrociare in queste pagine scritti pubblicati in un arco  di tempo di circa quarant'anni, con il proposito,  spero non solo narcisistico, di organizzare in di-  scorso unitario contributi sparpagliati e spesso di  non facile reperimento. Proprio dalla presentazione Maggiorotto poi  variamente elaborata per occasioni ulteriori dedicate  appunto al MAC, come il catalogo per la esposizione  del MAC torinese sempre curata dalla Maggiorotto alla Expo Arte Fiera Internazionale di Arte  Contemporanea di Bari, la presentazione del  catalogo Albino Galvano, Proferio Grossi, Luiso Sturla,  Artecentro, Milano, fino al saggio sul movimen-  to torinese nel volume per la mostra MAC/ESPACE TORINO È VIa S. GIULIA TORINO  Pre. PARISOT  |F. SCROPPO  Bollettino «Arte Concreta.    all’Acquario di Roma—mi parlogico cominciare,  non tanto perché uno dei primi approcci al tema  allora potevo anche contare sul rapporto diretto con  Galvano, ma devo dire che la sua disponibilità non  era invasiva e tanto meno arcigna rispetto alle inter-  pretazioni che venissero proposte del suo impegno quanto perché vi si pongono i fondamenti del mio  interesse per l'artista /critico / filosofo. L'incipit che  sceglievo allora mi pare sia ancora il migliore possibile;  non mio, intendiamoci, invece proprio di Albino che    Il saggio e rielaborato come prefazione a G., La  pittura, lo spirito e il sangue, cit.  Mantovani, Pittori concreti a Torino, in MAC-ESPACE - Arte  concreta in Italia e in Francia, a cura di Canani e Genova, catalogo della mostra, l'Acquario Romano, Roma,  ed Bora, Bologna. così aveva concluso un asterisco sul Bollettino “Arte  Concreta;   “E scopriremo che è un programma [quello del  MAC le cui premesse erano già nei romanzi dei tempi  della nonna? Tanto meglio, almeno avremo evitato  l'equivoco più antipatico che grava sull'arte astratta:  che si tratti di cosa moderna 0, peggio, d'avanguardia.  Una fulminante risposta al nemico Borgese  che sul Corriere della Sera, aveva definito A’ rebours  di Huysmans, un romanzo, fonte  peraltro di tuttele velleità estetiste dell'avanguardia:  fornendo unovvio spunto polemico non saprei quanto consapevole, nel caso addirittura masochistico a  chi da anni si occupava del rapporto tra le cosiddette  “avanguardie” ela linea dal Romanticismo al Simboli-  smo; ma anche agli amici di Milano che si riconoscevano  nel programma di Sintesi delle Arti pubblicato nello    H  |  FIL    sintesi allo studio b 24 dal 21-2 al i:  se  ?  i    fi  5  5!  È    s7   A. G. riproduzione di Verso Occidente, Biennale di Venezia stesso Bollettino, che prevedeva “il diretto concorso  di tecnici e artisti, sul piano della stretta collabora-  zione, per il raggiungimento finale d’un concreto il  quale aderisca alla funzione in armonia di colleganza  fra il mondo della forma, lo spazio e l'applicazione  pratica dell’opera collettiva”! viva il design, la grafica  e l'estetico diffuso, dunque. Come non bastasse, G. conclude l'asterisco citato rigettando qualsiasi  attualismo:” Che bel giorno quello in cui potremo  lavorare in pace al compito che la storia ci ha affidato,  certi che nonè sulla misura della contingente attualità L'asterisco, cioè l'osservazione, la messa a punto marginale  è il contributo che Galvano sceglie per intervenire criticamente  liberamente sui Bollettini del MAC (e altrove).   11 E Passoni, Le arti e la tecnica, Arte Concreta,  ried. anastatica, a cura della galleria Spriano, Omegna. che il nostro lavoro verrà giudicato! Il fatto è che  G. non intende escludere tutta la complessità  di rimandi e proiezioni, soggettivi ed oggettivi, che i  linguaggi dell'immagine specialmente quando non  siano troppo condizionati da tecniche o ideologiche  motivazioni si portano dietro e dentro, e che, del  resto, la cultura moderna indaga con particolare  impegno e analizza con rinnovata strumentazione,  mentre altri linguaggi dell’immaginario—la poesia, la  narrativa, lamusica stanno sperimentando a tentoni  forme “nuove” (o vecchie !? o antiche, al punto d’essere originarie. Neppure, d'altra parte, egli intende  abbandonare la pittura come linguaggio specifico,  proprio quella tradizionale (tela, carta o qualunque  supporto piano, disegnoe colore, gesti e tracce a formar  figure); per quanto metta in conto uno spostamento  dall’iconico all’aniconico, dal descrittivo all’evocativo,  dall’allusivo all’emblematico, dal geometrico al rit-  mico al gestuale; ciò che non precluderebbe peraltro  “la possibilità di uno scambio e di una penetrazione  sempre possibili nell'esercizio di una lettura figurativa  per elementi, segno, colore, movimento, materia ecc. Confessiamo di essere segretamente d'accordo con Borgese [quando invita a rileggere A’ rebours]. Perché l'essere agli  antipodi [delle scelte di Huysmans e delle preferenze in pittura  del suo eroe Des Esseintes] è troppo vitalmente legato a ciò che  rifiuta per non riprenderlo su di un piano meno esterno: e le citazioni dalla Blavatzky e da Steiner del Kandinsky della ‘Geistige’,  l'appartenenza a circoli teosofici di Mondrian giovane, il fatto che  uno dei primi scritti italiani sull'arte astratta sia di J. Evola sono  ben significativi di un rapporto ambivalente — di rifiuto per la ca-  rica letteraria, moralistica o immoralistica, del simbolismo speso  alla spicciola nell’allusività delle immagini e della messa in scena,  e insieme di accettazione di quel gusto di allusioni e suggestioni,  di segrete corrispondenze tra immagini e speculazioni che nelle sue due facce: sensualmente umbratile l'una, simbolicamente  intellettuale l’altra hanno ostinatamente tentato di aprirsi una strada — sia pure affidandosi alla romantica barca ‘ebbra’- dalle varie forme di resa  alla prosasticità del realismo”. Ancora dall'asterisco citato di G. in “Arte concreta”. Azzardo un'ipotesi (certo suggestionato dal recente catalogo  della mostra La regione delle Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini, Elec-  ta, Milano, in particolare dal saggio di Bracalente, Licini  oltre la geometria: una primordiale genesi del mondo): che Galvano non  abbia ignorato “Valori primordiali”, e in particolare l’opera di F.  Celiberti, anche lui proveniente da studi di storia delle religioni,  tanto importante per Licini proiettato dalla fine degli anni Trenta  oltre la geometria, specialmente nell’incrocio tra teosofia, esisten-  zialismo e fenomenologia (Paci e Banfi), e per comuni interessi per  Spengler, Klages, Guénon ... e per l'alta poesia romantica.  Dipingere con colori e pennelli ... è stata una costante del  mio lavoro nei suoi vari cicli, anche quando come spettatore ho  pregiato e difeso esperienze varie e opposte. Ma è certo che, se  è venuto via via recuperando alla mia pittura  quell’attaccamento alle gidiane nourritures terrestres che confessa-  vo in un altro mio scritto, nei quadri qui presentati esse hanno  perso ogni ghiottoneria che non sia quella dell'occhio contemplan-  te: in bocca è solo sapore di cenere. Ciottoli, fossili: l'eco della vita  in ciò che non ha vita o non l’ha più. G., Autopresenta-  zione della Personale, Piemonte Artistico Culturale, Torino).  Libretto di iscrizione a magistero. non diversi da quelli che consentono la valutazione  di ogni buona pittura”! Perfino le ‘’ giuste ragioni”  concesse ai concretisti milanesi sembrano far parte di  un gioco alquanto provocatorio, portando il discorso  dal livello tecnico a quello culturale ed etico, di una  eticità sempre esposta, in un certo senso negativa  (“demoniaca”, nella cultura occidentale, di radice  inevitabilmente cristiana anche nella più spinta laicità). Firmando  con Biglione, Parisot e Scroppo quello che a ragione  o a torto è considerato il manifesto del movimento  torinese, G. aggira gli ottimistici programmi dei  milanesi, espressi nei manifesti dell’ Arte Organica, del  Macchinismo, del Disintegrismo, dell'Arte Totale!’  che sanno ancora tanto di Futurismo, e dichiara che  carattere essenziale nella scelta dei nuovi adepti è la  “responsabilità liberamente assunta sul limite più  impegnativo ... di lotta contro ogni conformismo e  pigrizia intellettuale” nel campo della pittura come  in diversa applicazione estetica e pratica, senza compromessi e “senza pudore”. Il fatto è che G. (e   G., presentazione della collettiva, Bordoni, G., Jarema, Parisot, Scroppo, Galleria del Fiore, Milano Cfr. “Arte Concreta L'unico atteggiamento ragionevole è quello di lavorare attendendo colla sincerità di chi sa che lo spirito ama le posizioni  estreme ed attive , non i compromessi”. (G., L'evasione, in  “Il Selvaggio”, 15 gennaio 1940, ripubblicato in G., Diagnosi del moderno (cur. Ruffino). con lui Parisot, Scroppo, Montalcini, Biglione e Carol Rama, per nominare tutti i torinesi  che aderiscono più o meno convinti al MAC)ha dietro  le spalle una ventina abbondante d’anni di lavoro non  ovviamente mirato allo sbocco astratto. Basta pensare  alla frequenza orgogliosamente esibita fino all'ultimo  della scuola di Casorati (sul quale elabora un importante saggio che punta non poco  sulla stagione simbolista sull'argomento si rimanda  all'intervento in questo catalogo di Botta),  al rapporto con il neoimpressionismo dei Sei, in va-  riante espressionista; al fatto che egli medita, continua  a meditare sul significato e sul valore della scelta moderna”, essenziale, inevitabile, ma problematica  nelle ragioni, nei modi, negli obiettivi; infine, che ha  una formazione teorica e storica — aggiungerei una  struttura psicologica ed una educazione — che non  gli consentono di utilizzare a cuor leggero la strategia  del manifesto, di ascendenza futurista, e in genere le  dichiarazioni programmatiche!8: una questione di  carattere e di stile oltre che di metodo e di cultura.  Del resto, G. affronta il  tema in testi antecedenti di alcuni anni, ne utilizzo uno  in particolare: La pittura, lo spirito e il sangue”, che  uscì nel 1946 sul primo ed unico numero della rivista  “Tendenza”, nell’ambiziosa prospettiva dei direttori  responsabili — lo stesso G. ed Oriani — Rivista mensile di Arti figurative. Certo esistono di  G. saggi più importanti come quelli che elenco  innota?°, dove il tema è affrontato con argomentazioni  analitiche e storicamente complesse, ma continuo a  trovare snodo esemplare nella vicenda dell'artista il  brevesaggio citato. Anche la data è importante, a guer- Il dubbio, lo scetticismo, l'ambiguità come tensione fra op-  posti sono fondamenti del suo metodo, che non è irrazionale, invece di un razionalismo critico che mai cede allo schema ideolo-  gico o alla rigida consequenzialità. Nonacaso ho scelto il titolo del saggio come titolo per la  citata Antologia di G., edita dal Quadrante, Torino. Diversi saggi di grande respiro, G. pubblica negli anni  immediatamente successivi alla seconda Guerra mondiale. Elenco in ordine cronologico quelli ripubblicati sull’Antologia citata,  consenziente l’autore: Aspetti del problema estetico dell’esistenzialismo, Atti del Congresso internazionale di Filosofia, Castellani e C  ed.,  Roma; L'esistenzialismo, a cur. Castelli ZUBIENA (si veda), Milano; Storicità e significato dell’arte “astratta”, in Archivio di  filosofia”,  Milano, “Galleria di Lettere ed Arti; Medioevo e Romanticismo, “Questioni” n. 2, 1955; Vita e forma  in alcune ricerche di estetica contemporanea, Atti del IIl Congresso In-  ternazionale di Estetica, Venezia 1956, edito dalla “Rivista di Esteti-  ca”, Torino 1957; Le poetiche del simbolismo e l'origine dell’Astrattismo  figurativo, Studi in onore di L. Venturi, Roma. All'elenco  si aggiungono i saggi pubblicati in successive occasioni: in partico-  lare sul catalogo della Antologica postuma: Omaggio a G., a cura di Fossati, Garimoldi, M. C. Mundici, catalogo della  mostra, Circolo degli Artisti, Torino e, con scelta assai più ampia ma ancora lontana dalla completezza, sulla recente antologia:  A. Galvano, Diagnosi del moderno, cit. ra appena finita; come significative le collaborazioni,  che elenco per segnalare la ricchezza e la varietà dei  contributi, intesi a coprire in tutta la loro estensione  le cosiddette Arti figurative: C. Mollino e U. Mastro-  ianni, Monumento ai Caduti per la liberazione d'Italia;  R. Chicco, ... et le tableau quittè nous tourmente et nous  suit; I. Cremona, Dal cannone alla Secessione; A. Dragone, Disegni, acqueforti e acquerelli di Bozzetti; Oriani, Costa; Mollino, Gusto dell’Architettura  organica; O. Navarro Il messaggio della cultura; ancora   G., Woyzeck di Biùchner, Oriani, Breve  discorso su due films di Cocteau. Aggiungo e non è un  dato secondario—dopo una pagina redazionale, quindi  d’Oriani che proviene dall'esperienza futurista” e dello stesso Albino “che proviene dal purismo  casoratiano e dal neoimpressionismo venturiano”,  dove si rivendica, dalle due parti inconciliabili (ma  l’inconciliabilità è segno di forza, di utile tensione)  la gratuità dell'atto creativo rispetto alla riflessione  critica, e l'autonomia del giudizio critico rispetto alle  generalizzazioni dell'estetica, in un tempo storico che  minaccia di deludere chi aveva sperato che la fine del  regime politico e culturale comportasse il recupero  pieno della libertà e la sua pratica esplosiva.  L'avvio del saggio è forte, al solito compromesso,  e ancora una volta lo propongo. L'appello della pit-  LA PITTURA, LO SPIRITO E IL SANGUE  L'appello della pittura risuona dal profondu del  nostro sangue  ancora con quell’urgenza — come  nei quindici anni quando sostituiva in camuff:imenti  impegnati sino alle estreme ragioni della possibile  azione, gli slanci religiosi o i presentimenti sessuuli.  Ma le vie dell'Eden sono perdute, e sarà vano lo  sforzo di ricostruire un itinerarioche approdi al-  l’innocenza d'allora, che vi riscatti la sin troppv  chiara coscienza del carattere composito e compro.  messo di ogni atto umano che non sia di rinunzia:  il peccato fondamentale dell’arte. Invano da anni  l'estetica crociana, non per nulla irritata coll’uomo  pascoliano troppo chiaramente  preanunciante le scoperte freudiane {e contro  Freud i erociani si armeranno della più ipocrita in-  comprensione) cerca di riprendere e di legittimare,  con la sterilizzata convinzione del carattere « teore.  tico» dell’arte, il troppo scoperto alibi kantiano del « bello come simbolo del bene morale.  Credo siu venuto il momento di confessare schiettamente che il bello, proprio questo bello artistico  che ci brucia sin dalla giovinezza ogni possibilità di  rassegnazione e di conformismo, è piuttosto il simbolo del male morale. Tanto, anche eticamente.  dla questa franchezza non perderemo nulla.  Soltanto Nietsche ha insistito con sufficiente chiarezza su questo carattere, profondamente vitale e perciò profondamente « immorale » dell'attività  artistica: contro il quale assai poco mi paiono va-  lere le due obiezioni che implicitamente o esplici-  tamente vengono mosse dagli idealisti e dagli spiritualisti. Se per i crociani ma credo che in GENTILE (si veda) l'implicita ammissione, inevitabile data l’identificazione di arte e sentimento e l’inseparabilità  dell'agire dal conoscere, di quanto sì è detto, fosse  più che sospettata dall'autore anche se la reto.  rica di cui sempre fu ammalato gli impedì di ammetterlo in termini chiari; che tuttavia non mancano nei più diversi fra i suoi seguaci o avversari-  seguaci: dal primissimo ABBAGNANO (si veda) disciogliente  tatto il reale in irrazionalità, appunto con una reductio ad absurdum dell’attualismo, ad EVOLA (si veda), a SPIRITO (si veda) se per i crociani, si diceva,  la scappatoia di ridurre l’arte a pura conoscenza,  giocando sul doppio ruolo confuso insieme del-  l’« intuizione » permette di evitare lo spinoso problema, i recenti spiritualisti ma anche fra di.  loro Stefanini, ad esempio, ammettendo una insufficienza dell’arte alla vita pur nella auto-  ì enza in ordine al proprio valore peculiare,  finisce collo svalutare moralmente l’arte candidamente invece sermoneggiano sulle comuni radici  del bello e del buono (nel secolo scorso queste  niaiseries di solito avvenivano su di uno sfondo  ontologistico vagamente giobertiano, oggi lo gnoseologismo idealistico generalmente è rispettato anche  dagli spiritualisti che dell’idealismo dovrebbero esser avversari) e ci avvertono che il tormento dell'urtistu che insegue con il diuturno lavoro il fan-  tasma che sempre gli sfugge è profondamente morale! ;   Dio volesse che fosse veramente così. E che si  potesse sul serio sperare che all'artista, dopo la  conquista su cui ha tutto giocato, della propria  immagine, fosse anche riservato per soprappiù il  paradiso delle religioni e delle etiche!   Sarà meglio invece guardarci chiaramente in faccia e chiederci se veramente per il puradiso provvi.  sorio della bellezza non giochiamo la salvezza della  nostra anima  ammesso che «questa espressione  abbia un senso: quello cristiano, + quello di una  etica laica ma generalmente è cripto-cristiana  anch'essa riconoscere per che cosa abbiamo  scommesso; chè le conseguenze del nostro pari  atiche se lo avremo perduto non diventerunno duv-  vero peggiori per quest’atto di franchezza.   Rimane inteso che su questa rivista, che non è  dedicata a studi filosofici, non potremo farlo che  sotto l'angolo della pittura; ma poichè è questa  arte della quale abbiamo, bene 0 male. una qual  che esperienza vissuta e poichè d'altra parte non  crediamo se non ai discorsi che nascono da questa  specie d'esperienza, la cosa non sarà fuori posto.   La coscienza rimane inquieta. E poichè sente  che tutto nel problema implica la discussione delle  RAMA Disegno Da «Tendenza, disegno di Rama. tura risuona dal profondo del nostro sangue ancora  con quell’urgenza  come nei quindici anni quando  sostituiva in camuffamenti impegnati sino alle estre-  me ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi  o i presentimenti sessuali”. Geniale, perché collega  direttamente, intimamente la pittura (ma in genere  i linguaggi creativi) alla natura, al sangue appunto,  affermando “il carattere profondamente immorale  dell'attività artistica” già sostenuto da Nietzsche,  negato o perlomeno arginato invece da Idealisti e  Spiritualisti; e insistendo sulla presenza di una  volontà non risolta nella pura contemplazione, né  risolvibile, dato ilsuo orientamento verso l’immagine. La cosaè particolarmente evidente nelle arti figu-  rative e la multiforme e aperta a direzioni divergenti  attività ne è il paradigma. Ed è appunto ciò  che è sfuggito all’idealismo, a causa della artificiosa  distinzione di teoretico e di pratico, come al confusionismo attualistico che confinando l’arte nella sfera dell’immediato sentimento cade di fatto in un troppo  semplicistico naturalismo. La distinzione fra teoretica  e pratica è certo valida, ma all’interno di ogni singolo  atto spirituale nella sua integrità, ché la vita spirituale  presenta questi due aspetti come facce sempre distinte,  sì, ma sempre inseparabili.   Conclude G. (e in questa direzione trova  sostegno nella fenomenologia di Alain?!, ne “L'Immaculée Conception” dei surrealisti e in Breton, più che  nella poetica di Valery, almeno quando troppo insiste  sul pieno controllo cosciente dell'artista nell’elabora-  zione dell’opera): ‘Qui bisogna pensare ad  una volontà tutta inconscia, individuante e non ancora  individuata (come Schopenhauer presente) e ad  unopposto momento rappresentativo che solo giustifi-  ca il valore estetico dell'immagine raggiunta negando  nel sogno l’ebbrezza del movimento fisiologico.   Con un salto di parecchi anni, de La  pittura, lo spirito e il sangue ad una autopresentazione Utilissimal’ampia citazione in proposito da uno saggio inedito di G., riportata da Garimoldi G.: progetto di una nuova cultura, in Omaggio a G. In Alain ovvero Chartier] l'accento cade molto più  che nell’estetica idealistica, sul momento del fare che su quello  del conoscere , e sulla resistenza del mezzo sentita come condizio-  ne positiva ed essenziale al sorgere del fantasma artistico, fanta-  sma che non sarà più un'immagine al tutto congiunta a priori ad  una materiale estensione che la traduce, ma che sorgerà insieme  all'atto di esecuzione e che soltanto a posteriori rispetto a que-  sto avrà la sua concretezza. L'opera non nasce nella testa o  nel cuore, nell’intelletto o nel sentimento, per poi essere realizzata  nella pietra o sulla tela, ma, direi, nel vivo pulsare del sangue al  polso quando questo gioca le resistenze e le tensioni, gli scatti e  le flessioni del pollice e della mano nell’urto con il resistente ma-  teriale. La scultura e la pittura sono meno la realizzazione visiva  di un'immagine mentale che la materiale traccia lasciata da un  gioco di ritmi fisiologici. È in particolare Merleau-Ponty (AUSTIN HATED HIM – GRICE – after Royamount_ a  sviluppare il tema, per esempio negli studi dedicati a Cézanne.    lino Vieeate  colla (o crlize pus (olenda,  cuni (aza sr net&uk' a fr suina  und la gut rin % NAM (dA  Pene più 0 me0 Ara la rr tn he Ut    forata ME TISHOI: RE Peas LA LALA Les    al caso TU fi  e fa dii  Lo val poco comi pila est;  ua dn AA    Prima pagina della lettera di A. G. a Adriano Villata.  — scritta a mano “quasi si trattasse di una  lettera destinata solo all'amico [il “Caro Villata”,  gallerista], nella quale ci si può confidare e divagare  come l'umore o la nostalgia suggeriscono” —, G/  ritorna sul rapporto fra il concepire e il fare, tra il fare e  il decodificare il senso in più o meno risolutive lettere;  ancora una volta mettendosi in gioco, ma senza alcuna  intenzione di assumere valore esemplare o chiedere  scusa 0 simpatia, esponendosi in tutto lo spessore  di sensibilità e intelligenza, di impossibilità (a meno  che non si scelga o si accetti la rinuncia) di sottrarsi  all'impulso profondo. E anche senza compiacimento  narcisistico: ci si esprime non per coltivare l'emozione  ma per darne testimonianza e, per quanto possibile,  esporla a sé e ad una analisi non priva di crudeltà,  comunque oggettiva. È interessante seguire il filo  del discorso, che nella scelta del tono dimesso non è  meno teso del solito.  Prima motivazione del movimento pendolare tra  pittura e scrittura, così esposto al giudizio e all’ironia  dei colleghi dell'una e dell'altra banda: l'appartenenza  “ad una generazione [quella di Cremona, di Maccari,  di Mollino, per restare tra amici] e ad un ambiente Ripubblicata in G., La pittura, lo spirito e il sangue.; e in  G., Diagnosi del moderno, cit.,  All'inaugurazione di una sua personale.    in cui questo male, se male, era quasi una ragione d’orgoglio. Era la generazione dei nati all’inizio del  secolo, che raccoglieva dai protagonisti del rinnovamento dell’arte (secessionista o avanguardistico,  rappresentato per Albino, in primo luogo e per sempre,  dal maestro Felice Casorati), una eredità che era non  meno di esperienza materiale che di elaborazione  intellettuale, un atteggiamento aperto, anzi tentato  da molteplici contraddittorie curiosità e linguaggi  espressivi (ma il quasi suggerisce l’affacciarsi di qual-  che incrinatura nella certezza adamantina esibita dai  predecessori, forse anche per il confronto inevitabile  con una generazione successiva che tornerà a proporre  arroccamenti specialistici).   Seconda motivazione. Tutto quantohai odiato  o amato nei giochi e nella noia dell'infanzia alimenterà  peruna vita quanto produrrai, buono o meno chesial. I nutrimenti terreni avranno un bel essere filtrati  in parole, in segni e colori, in note, in spettacolo, il  loro repertorio non muta, non lo hai scelto, ma ne  sei stato scelto, e tu sei quello che essi ti hanno fatto,  la tua libertà non può consistere che nell'essere loro  fedele sino alla fine, libertà di adesione non di ripudio,  e libertà nella misura in cui con il tuo ripensamento e  il tuo scavo li trasformi da passivo esser fatto in attivo  assecondamento della sorte che essi ti hanno assegnato,  in obbiettivazione in cui il loro oscuro sgorgo, la loro  inconscia matrice, si chiarisce nell'opera, nel segno  formato e consegnato all'oggetto che ti rivela agli  altri e in cui assumi responsabilità di confessione e di    10    proposta”. Insomma, è proprio il rilancio dal fare al  pensare e dal pensare al fare che definisce una identità  intuita come destino e accettata come scelta.   Ma se rimane “ovvio” il rapporto fra i nutri-  menti terreni e ciò che uno diviene e fa nel tempo, è  anche vero che “una immagine retrospettiva di sé  è sempre un’interpretazione che porta il peso della  mutata identità dell’interrogante, del penoso carico  di nostalgie, ricordi, rimpianti e rimorsi e ogni  interpretazione, specialmente nell'impegno auto-biografico, è anche una falsificazione”, per quanto  cerchi di evitare tanto l’apologia ideologica quanto  la “disgustosa e mimetica” confessione personale. Giusto nel mezzo, fra le due citazioni  (è il caso di ricordare che è il  tempo della svolta neodada e pop che mette in crisi  e addirittura annichilisce alcuni dei pittori più convinti), G. mostra d’avere di questo destino  ironica e malinconica ma anche dura consapevolezza.  Del fallimento egli tesse un sistema, secondo i miti  di Prometeo e Sisifo, riscoperti come”moderni” dal  Romanticismo all’Esistenzialismo. “Finis picturae?  Il punto si identifica con questo estremo di  coscienza contraddetta e irritata: la certezza che la  via senza uscita dell’arte oggi non ha nemmeno  l'alibi della professione, del successo, del guadagno, ma  soltanto il fascino senza illusioni di una fedeltà a un  impegno individuale, quasi di una scommessa con la  propria intelligenza e con la possibilità e i limiti del  nostro stesso temperamento!”.   Diventano così esemplari l’ultima e penultima  produzione di G. pittore, alla quale viene dedi-  cata in questa mostra una intera sezione con i ciottoli le foglie i frutti, i relitti,  proseguita con “i paesaggi (rocce, alberi, isole), i nudi, le  macchie[|...]”:esemplare neltentare una trascrizione di  archetipi, congelati inluoghi comuni della pittura, tipi,  generi e maniere (il fascino baudeleriano dei luoghi  comuni! Ma già muovevano nella stessa direzione  ireos e cespugli d'iniziotracce che regrediscono  attraverso lamemoria nella gesticolazione elementare e prima i segni asemantici, prima ancora (siamo nella  seconda metà dei ‘60) le bandiere, i nastri, i nodi e così  via: tutte figure emblematiche, primarie e coltissime,  che niente hanno a che fare con la semplificazione, la  banalizzazione pop. La pittura ivi coincide con la costruzione delle im-  magininominabili (nona caso varianti dell'icona della  cosa, anzi del frantume, astratta da qualsiasi contesto,  su un fondo bianco che è il segno di una definitiva  separazione dallo scorrere fenomenico), e insieme la  pittura è automatismo oggettivo, registrazione fredda  della emozione costruttiva (se non creativa): infatti  presentata tipicamente come nodo, descrizione dell’a- G., La pittura a Torino, cit.    »m®)  da cor. 4 È  ut me rematori E  ua Br su :  Pa ù  LE  a   Con Gorza a Palazzo Te, Mantova   zione dell’annodare, avvolgere, intricare-intrigare, 0  dello sciogliere e liberare (vedi la bellissima immagine  scattata, credo, alla galleria Martano).   Ma è tutta la vicenda di G. pittore e critico  che val la pena di ripercorrere in mostra, sia pure per  cenni e con discutibili tagli.   Danotarel’uso ch'egli fa dell’insegnamento casora-  tiano: del maestro, G. non assume passivamente  il platonismo, consapevole che il rapporto di Felice  con la pittura è dal principio e resta nel tempo un  rapporto decadente, che diventa eticamente sano e formalmente classico solo per un atto di volontà  tanto mirabile quanto falsificante; sarebbe meglio dire  critico, con vettore opposto, sia pure, a quella che sarà la  scelta di G.. Che il travestimentosia storicamente  giustificato su un modello rispettabilissimo come quello  gobettiano, non vuol dire che la sua sostanza più vera  non debba essere riconosciuta nonostante, attraverso  la corazza ideologica e formale ritrovando il nucleo  profondo, ’malato”ma straordinariamente vitale.   Di G. è da  approfondire l’espressionismo che del resto condivi-  de con altri della sua generazione: Nella Marchesini,  Montalcini, Martina, Cremona, Rama. In tal senso ci si potrebbe chiedere che  peso abbia avuto, localmente, Spazzapan che esaltava  l'ispirazione e deprecava l'istinto (viene in mente la  teoria di Klages, che insiste sulla attrazione magnetica  traimmagine e “anima”, ben distinta, l’anima ispirata  e creativa, dall’istinto che è del corpo, come dalla  volontà decidente e dotata di facoltà riflessiva che è  dello spirito”); e anche Levi, l’unico dei Sei che  partecipi intimamente all’espressionismo europeo, e,  fuori sede, i romani, Scipione in particolare al quale  Albino dedicò una bellissima recensione, che  è lo stesso anno della prima edizione del Casorati.   In un saggio intitolato Perché non possiamo non  dirci crociani, in “Numero G.  sottolinea che la sua generazione “decadente” deve  a Croce specialmente questo: d'essere stata messa  nella condizione di “accettare senza malafede e senza  rimorsi i dati di quella cultura di tardo romanticismo  che, così feconda quanto a ricchezza e sottile sensibi-  lità di ricerche particolari, tanto si è dimostrata incapace di una sistemazione totale... [insomma di poter  essere] decadente malgrado Croce, grazie proprio  al riscatto che il metodo crociano offriva”. Che è un  modo ottimo anche per comprendere come coerenza  di sistema e incoerenza pragmatica siano in G.  strettamente congiunte in dialettica tensione: la coerenza consistendo nella allarmata coscienza critica,  nella responsabilità che non può consentirsi “nessuna  comoda complicità”, l’incoerenza nell'essere ogni  scelta un esito che, per quanto imperfetto, è sempre  compromesso e rappresentativo. Come a dire che la  vitalità della ricerca costituisce un valore, non meno  che l'aspirazione ad una sistemazione che finalmente  rappresenti una “identità”, forse meglio “la libertà  di essere identici al proprio destino”. Perciò G.  non intende, tanto meno come pittore, tagliare i ponti  col passato (il suo passato, oltre che la storia); invece  semina il cammino di tracce, di residui, vorrei quasi  dire fisiologici, di lapsus, così che in ogni momento  il cammino sia ripercorribile o almeno riconoscibile,  ma anche sostituibile. Egli, in effetti, sa che nulla  va distrutto e non consuma sacrifici liberatori. Per lui in particolare (adatto il titolo di un importante  saggio), La sublimazione astrattista non liquida  l'erotismo del Liberty, semmai ne prende le distanze,  per poterlo rimettere in circolo, come in un processo  alchemico in perenne rinnovamento.   Così G. passa necessariamente da un con-  cretismo geometrizzante, che di fatto ironizza ma  non banalizza - la geometria come privilegiata ma-  G., Per un'armatura, Lattes, Torino  nifestazione della razionalità e della chiarezza, ad  un concretismo informale che libera la possibilità  di una pittura scritta usando il campo come tabula  rasa 0 pagina intonsa, dove il gesto può scorrere ed  intricarsi, e/o come dimensione praticabile in tutto il  suo spessore magmatico, a sua volta ironizzato dalla  scoperta di una ritmica, di una metrica essenziale.  Come adire che è nella pittura nell'arte chesi realizza,  assumendo evidenza di mito visivo, feticcio laico, l'unico progetto possibile senza illusioni razionaliste  e moralismi ideologici.   Un momento certamente fondamentale, sarei  tentato di dire il perno sul quale ruota il resto è quello: quando la natura del gesto s'incontra  felicemente conlo schema, generando una concrezione  araldica, l'intenzione simbolica con il simbolo ricono-  sciuto nella memoria collettiva; ennesima variante  della tradizione dell’ornato, raccolta e riavviata dal  Liberty: insieme puro gesto e automatismo assolutamente impuro. In questa mostra, il momento avrà  adeguata evidenza. Ma è anche vero che Galvano  si guarda bene dal protrarre artificiosamente quel  momento (diciamolo pure, straordinario, quasi senza  confronto in Italia), tanto che si prenderà negli anni  immediatamente successivi una  pausa di riflessione che produrrà anziché pittura saggi  teorici che culminano in Artemis Efesia, per riprendere  il filo (la matassa) della pittura con proposte (in apparenza) assai differenti: le bandiere, i nastri, 1 padiglioni,  gli anelli di Moebius. Che cos'è la pittura per G., allora? Scrive di lui l’amico / avversario Argan, che ha scommesso sul progetto ideologico, vincente almeno per un certo periodo storico:  “Egli non risponde una volta per sempre, con una  definizione filosofica: infatti ciò che vuol sapere è  che cosa sia la pittura in questa precisa condizione  della cultura, della coscienza, dell’esistenza, e quale  sia il suo grado di vitalità, quali le sue possibilità di  sopravvivere in uno spazio ogni giorno più ristretto.   Non gli si potrebbe dar torto, se non fosse che  proprio l’opera e ciò che la sottende, l’opera come atto  critico, questo è appunto il suo contributo filosofico, e  anche la sua testimonianza sapienziale, che trascrivo  da una autopresentazione: Dunque la pittura, una meditazione sulla morte  imminente o il recupero della gioia ottica nello  spazio ripercorso in termini di colore e di luce, sia  pure della luce irreale della memoria e del sogno? O  la scenografia di ambigue emersioni dall’inconscio?  Davvero non saprei dirlo, e, forse, è inutile porsi le  domande. Forse anche soltanto la monotona iterazione Argan, in catalogo della personale, Galleria Unimedia,  Genova G., Autopresentazione, in catalogo della mostra,  Piemonte Artistico Culturale, Torino di una passione per il dipingere, che ripercorre con  insistenza sigle che non è più capace di vivificare colla  curiosità e il gusto avventuroso della giovinezza”.  Tante pitture, allora, e però tutte mirate ad essere  presenza di pittura e non illustrazione di concetti.  Pittore concettoso, a volte, mai concettuale nel senso di  illustratore di concetti: aggiungo, nel segno di una ineludibile, per quanto mascherata vocazione poetica.”  Si deve citare, almeno una volta, Sanguineti, allievo e amico, grande estimatore di G. Mi trovo forzato a pensare che, alle radici del  lavoro di G., come artista e come studioso,  stia un'immagine è la parola giusta che accenna  all'uomo come animale che è capace di immagine.  E dunque un’antropologia fondata sopra la facoltà  della visione,   In formula perfetta, a conclusione di Storicità e  significato dell’arte astratta, G. precisa. L'opposizione affermata da Mallarmé tra  la concretezza della vue e l’allusività delle visions,  l'affermazione di Alain che il poeta è l'opposto del  visionario perché sa di non vedere sino a che la mano  non abbia realmente costruito nello spazio l'oggetto  che la passione progettava, sono divenute nella co-  scienza del pittore concreto l'imperativo di una scelta  tra il peso della memoria e la libertà pericolosa di una  iniziativa tutta affidata al risultato”. Garimoldi,  nel saggio più volte citato, sottolinea che G.  pone come centro dell’arte l’insoluto rapporto fra  espressione ed enigma” (che cosa di più chiaramente  collocato sulla linea romanticismo-simbolismo come  la vede Albino?), citando una autopresentazione del  La seconda parte di questo scritto elabora liberamente tre testi: in ordine cronologico, Témoignage de notre dignité, in Figure d'Arte, artisti a Torino, cur. Balzola, Cavallo, Ghinassi, Mantovani, Alberti ed., Pescara; A  proposito del pittore Albino Galvano, in Attraverso il Novecento. G.  a cura di Pinottini, Bulzoni ed., Roma; G. pittore, catalogo della mostra, Galleria del  Ponte, Torino Sanguineti, Contro la ragione, “La Stampa Un saggio singolare, dove Sanguineti è figura nodale nella messa in  circolo della linea liberty; linea che Casorati, Cremona, Mollino e G. avevano mantenu-  ta viva con originali apporti nella prima metà del secolo, è L'altra  faccia della luna Origini del neoliberty a Torino di Elvio Manganaro,  Libria ed., Melfi. Al saggio citato si deve la conoscenza di un testo di G.: Processo alla pittura in “Il Selvaggio, che dà originale contributo alla interpretazione della vicenda  artistica della sua generazione, che “si gioca tutto nello spazio che  separa le Uova da quelle, o tra l’”Icaro senza ali e  le ali senza volo del Sogno, di Casorati naturalmente, perché  proprio Casorati è appartenuto paradigmaticamente ai due  mondi quello della figlia di Iorio e quello della Jeune Parque. Manganaro, L'altra faccia della luna. G., Storicità Garimoldi, G Progetto di una nuova cultura, in Omaggio. Si dà arte solo quando il non differente operare  a fini strumentali o di puro edonismo è impedito e  stravolto dai sedimenti di una vicenda individuale che  s'insinuano e dominano dove pretendeva condurre il  gioco la razionalità del progetto decisionale. A questa condizione in ogni tempo si è cercato di opporre  la dignità dell’autocontrollo, certo vanamente,  ma anche proficuamente perché la possibilità di  coinvolgere gli altri non consiste se non nel pun-  tualizzato istante di tensione in cui lascia materiale  traccia di segno o di tocco quel gioco d’insidie; l'istante  in cui l’inspiegata vicenda interiore si fa immagine ed  EMBLEMA Con Bartoli a Palazzo Te, Mantova, La discutibile scelta di privilegiare la pittura  come via di accesso alle molteplici attività di G. obbliga a segnalare gli autori che affrontano il caso con particolare intelligenza e puntuale  CULTURA FILOSOFICA. Sanguineti, in catalogo Antologica; Tessari, nello stesso catalogo, e G. e il mito, in  Figure d'Arte, Carchia, Prefazione a Artemis Efesia, nella riedizione, cit.;  Fossati, Autopresentazione, mostra personale, Galleria Weber, Torino Garimoldi, M.C. Mundici (a cura di), catalogo della  mostra al Circolo degli Artisti; A. Balzola,  G. e D'Adda: l'immagine matrice, in Figure d'Arte; Gallino, e Salza, G. e Jung, in G. Ruffino, Introduzione in G. Diagnosi  del moderno, A parte, segnalo il “ritratto” che ne fa Fossati, presentando Omaggio a G.;  e le memorie che in circa trent'anni di colloqui non  di rado centrati su Casorati, Cremona e G. si puo raccogliere da Gorza, l'unico artista di  generazione successiva che per cultura e gusto potesse  essere accostato a G.. È proprio Gino a volere una  mostra comune con il significativo titolo di Sincronie  a Mantova in Palazzo Te; riannodando il  filo della presentazione che Albino gli aveva dedicato  dieci anni prima, per l’Antologica nello stesso luogo. Si ricorda all’inaugurazionela presenza di  Bartoli, documentata anchein una fotografia  dove il geniale interprete di Licini sembra inchinarsi al  geniale interprete di Artaud. Più recentemente, sempre  al Te, una giornata di studio dedicata a Bartoli è stata  anche l'occasione per rievocare la figura di G.  con Tessari. Anche Tessari è mancato.  Prova di ritratto  e un Uomo riservatissimo, comea volte chi non si neghi  alla mondanità, anzi se la imponga come esercizio.  La leggendaria disponibilità, senza ombra di  debolezza, realizza una delle forme più aristocratiche  dell'etica, per discrezione in maschera di rigore professionale. Essenziale un fondo di malinconia, come  misura di una perdita irreparabile, e di nostalgia per  una totalità irreversibilmente frantumata. Tra distacco soggettivo e oggettiva commozione  scorre l’impurità di un continuare a vivere, si scrive in  tracce stenografiche il diario di un sedotto e di un  seduttore per forza di un gentiluomo piemontese.   Sensualissimo lettore; scrittore capace di costruire  macchine logiche come trebbie di tortura, e di avvolgere  in sontuose inestricabili ragnatele (costante una specie  di dolcezza, cui tanto meno resistono rigidi baluardi):  trascurabile vi è l'inganno, perché la circonvenzione è  ignobile, specialmente d'incapace.   Come un dovere coltiva il diletto: su questo piano  potrebbe essere magistrale se non fosse troppo fine e  pericoloso un tal modello. Nel suo sistema, la pittura  rappresenta il concreto. Distratto semmai da irridu-  cibile curiosità, non è mai astratto. Ireos, sassi e conchiglie sigillano una storia sostanzialmente coerente, perché osano confronto con il  principio e la fine: così su una pietra tombale si posano  cose e il tempo vissuto, relitti nudi, epifanie senza velo. Omaggio a G. Catalogo mostra antologica, Palazzo Chiablese, Torino Catalogo mostra antologica, Circolo degli Artisti, Torino.  Atti del convegno, a cura di M. Pinottini, Torino Antologia di scritti di A. G., a cura di A. Ruffino, Aragno Electa Piemonte  G. cur. Pinottini    BIBLIOTECA DI CULTURA BULZONI G.: la fedeltà alla pittura  Motto  Il magistero casoratiano e la prima figurazione  Galvano nacque a Torino l’anno d'esecuzione delle Demoiselles d'Avignon  di Picasso che segnò l’imporsi e il susseguirsi delle  avanguardie: « che nel bene e nel male problematico  doveno caratterizzare, inconcomitanza concrisi  umane, politiche e sociali ben più gravi, ilnostro secolo  sino a porre oggi il problema della morte dell’arte qualunque cosa si intenda sottolineare con questo  termine apocalittico. G. pur muovendosi nel  solco della modernità, affondava le sue radici in una  meditata e personalissima assimilazione di riferimenti  pittorici dell'Ottocento e del primo Novecento, ben  lontano dalla reazione e dall’inattualità. Apparteneva  all'ambiente casoratiano e alla sua scuola «divenuta il  centro di un'opposizione cortese, tacita che non esclude, la cosa è molto torinese, rapporti amichevoli o  per lo meno corretti con gl’avversari. Venne segnata la temperie di una Torino moderna (tuttavia non futurista) di  seguito enunciata in pochi assunti utili a comprendere  l’ambiente artistico nel quale G. s'introduce: la comparsa di FCasorati alla Promotrice  come artista rivoluzionario e di rottura; la  breve esistenza di Gobetti e il suo cenacolo  antifascista; le polemiche e la reazione dell'ambiente  cittadino alle scelte di gusto antinovecentiste di  Venturi rivolte all'arte di nuovi primitivi,  gl’impressionisti; il fugace percorso del gruppo dei  sei di Torino (coagulato e promosso dal duo Persico e  Venturi) che rinunciarono a Roma madre per Parigi  amica; e la vitalistica apertura culturale europea del  finanziere, collezionista e mecenate Gualino. Dopo un precoce apprendistato con il pittore  Pisano e il maestro di disegno Vannini,  l'educazione di G. all'arte contemporanea si svi-  luppò suriviste di settore (in particolare”“Emporium”  e “L'art vivant”) e attraverso la frequentazione delle  Biennali veneziane. Alla rassegna G.  puo osservare dal vivo la pittura di Felice Casorati  che rappresentò «la scoperta del mondo nuovo e spre-  giudicato che si apriva alla nostra cultura: l'ingresso  del mondo “moderno. Ai iscrisse alla Scuola Libera di  Pittura di Casorati (sorta a Torino e strutturatasi maggiormente dnella nuova sede di via  Galliari, antistante l'abitazione di Riccardo Gualino. Il suo magistero, lontano da  G., Autobiografia, in Pizzetti e  Givone (cur.), G., catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Regione Piemonte, Torino Galvano, Torino e i «Secondi futuristi», in G., Diagnosi del moderno. Scritti scelti cur. di Ruffino,  Aragno, Torino G. (al centro, seduto) e (da sinistra, in piedi, tra gli altri)  Scroppo, Maugham, Galvano, Cremona,  Casorati, Rama, Bertolè, Valpellice. Ogni sistematicità d'accademia, non è solamente  estetico ma anche pregno dell'eredità etica e politica  gobettiana: un debito verso quel «fanciullo puro» che  esigeva «fedeltà e non lacrime»®. Per Galvano il punto  fondamentale della sua formazione fu il trovarsi par-  tecipe di un ambiente che lo salvò «tanto dal rischio  di un'adesione acritica al regime imperante [...] e da  quello ben più grave [...] di un'immersione o som-  mersione nella Torino di quel tipo di borghesia che  amava in pittura Giacomo Grosso». L'insegnamento  del «platonico» Casorati, pervaso «d’una signorile  severità», verteva su l’«insieme» e il «tono». Dal saggio Casorati di G. (Hoepli, Milano) si legge che il Maestro consigliava  agli allievi di «imparare a vedere il più semplicemente  possibile la forma di quella determinata massa  tonale, di quella determinata massa chiaroscurale,  non la forma dell'oggetto. La forma serve qui  a distruggere la linea ed a passare al colore [...]»*.   Il clima della scuola di via Galliari fu efficacemente  narrato da Lalla Romano ne Una giovinezza inventata:  «Verso sera venivano sovente visite: Rossi,  Soldati, Levi. Levi ridacchia con lei sull'indirizzo classicistico della scuola, dove gl’allievi più ambiziosi preparano un bozzetto per il  quadro. Ride ma affettuosamente. C'è UNA BASE CULTURALE COMUNE: IL DISPREZZO PEL FASCISMO. I  nomi citati sono solo una parte delle personalità con  cui G., all’inizio degli anni Trenta, instaurò un  duraturo rapporto amicale sulla via del confronto  artistico, tra gli altri: Montalcini, Bonfantini, Chicco, Cremona, i sei e  Gobetti, Iniziative d'arte a Torino, in “L'Ordine Nuovo Casorati, in “Il Mondo”, G., Autobiografia G., Casorati, L. Romano, Un invento, Einaudi, Torino Argan, ma anche Mollino, Mila, Ginzburg ed Antonicelli.   La pittura postimpressionista di G. si orienta in un contraddittorio intento di tenere insieme i valor plastici  di Casorati e quelli dei Sei» il cui risultato «pesante e  impastato» fu autocriticamente espresso dall'artista  stesso. Anche una certa l’arte d'oltralpe praticata da  stranieri fascina G. (Vlaminck, Terechkovitch, Krog), mentre i rimandi  nostrani furono indirizzati alchiarismo lombardo eai  tonalisti romani. Quei loro mezzi misi sfasciano ed intorbidivano tra le mani, rimanendo parentele  d’accatto o esperimenti di lettura, ed enorme riusciva  la dispersione e la perdita di tempo. Un repertorio antinovecentista di temi iconografici ricorrenti segnò quel periodo: pesci, molluschi, conchiglie, vecchi libri accartocciati, crocefissi e  acquasantiere barocchi, nudi tortili come molluschi  e paesaggi incerti tra quegli andamenti sinuosi e un  modesto cezannismo che era nell’aria, G. s’inserì nel circuito espositivo nell’anno in cui le arti si avviavano verso la loro FASCISTIZZAZIONE di forma con l'istituzione del SINDACATO FASCISTA a cui venne affidato il compito di gestire le  manifestazioni espositive periodiche sul territorio  nazionale. Il rapporto con la società artistica di un  Novecento sarfattiano (a un passo dallo smantella-  mento definitivo) e della retorica celebrativa di Stato  era destinato tuttavia a un sostanziale fallimento.   A Torino G. esordì nell'alveo casoratiano  in due mostre della scuola. Sono regolari le sue presenze alle espo-  sizioni annuali della Promotrice di Belle Arti con più  sporadiche puntate alla Società degli Amici dell’arte.  Il filosofo ZANZI (si veda), in una recensione riguardante un'esposizione di vendita torinese del 1934,  sagomava i tratti pittorici di G.: sfuggito anzitempo alla disciplina rigorosa della  scuola di Casorati. Il Galvano in certe composizioni di  nature in silenzio ricorda la chiara e sapiente pittura  del Maestro, in altri quadroni ricerca l’effetto della  pennellatona agile ed abile, cara passione di qualche  post-impressionista»".   Alle rassegne di carattere nazionale Galvano  prese parte alla I e alla Il Quadriennale romana dove vi fu una discreta rappresentanza torine-  se e piemontese: Felice Casorati e il suo discepolato  (Paola Levi Montalcini, Nella Marchesini, Sergio  Bonfantini, Emilio Sobrero), Daphne Maugham,  G., Autobiografia G., in catalogo della mostra, Galleria La Giostra,  Asti Zanzi, in “La Gazzetta del popolo G. e Scroppo alla I Mostra Internazionale  dell'Art Club, Palazzo Carignano, Torino.    parte dei sei ( Levi, Menzio, Paulucci), Milano, Mastroianni,  ICremona. Alla Biennale di Venezia G. presenzia con un’opera nella stessa sala di  Casorati e allievi, mentre nell'edizione espose  isolato (a Chessa venne  dedicata un'ampia retrospettiva, Menzio e Paulucci  comparivano attigui).   In questo periodo sono da indagare infine le par-  tecipazioni alle quattro edizioni del Premio Bergamo. Fuuna manifestazione, insieme al Premio  Cremona, che svelò la dialettica artistica italiana: due  componenti antitetiche dello stesso volto del regime.  Il primo (promosso da Bottai), più elitario,  «si riallacciava a un versante dell’arte italiana colto,  internazionale e post-impressionista»!* suscitando  polemiche nell’ala più intransigente del fascismo; il  secondo (voluto da Roberto Farinacci) era sintonizzato  sull'onda delle mostre hitleriane.   AII Premio Bergamo del 1939 (in giuria Casorati,  Funi, Longhi e Argan) il terzo riconoscimento venne  suddiviso tra cinque concorrenti: si evidenziava la  presenza romana di Capogrossi e quella  piemontese con Menzio, Paulucci, G. e Martina (è presente anche Galante, non  premiato). Al secondo Premio Bergamo G. riceve una particolare menzione e il suo  dipinto fu acquistato dal Ministero dell'Educazione  Nazionale. Galvano espose anche alla terza e alla  quarta edizione (vincitore l’intimista Menzio),  la rassegna scandalo della Crocifissione di Guttuso,  reinterprete drammatico e rabbioso di un’iconografia  mutuata dal sacro: anticipazione in chiave cubista  della militanza postbellica.   Il ventennio Trenta-Quaranta contrassegnò inol- AA.VV, Gli anni del Premio Bergamo: arte in I talia intorno agli  anni Trenta, catalogo della mostra, Bergamo, Electa, Milano tre il compimento della formazione intellettuale di  G. che si laurea (con GAMBARO (si veda)  ed ABBAGNANO (si veda) con una tesi sulla pedagogia  della religione: atto dell’approfondito confronto con le tematiche spiritualiste, antropologiche  e filosofiche, in primis l'influenza di CROCE (si veda) e Bergson.   Tra le sue prime prove di critica d’arte si possono  menzionare il saggio su Spadini in “L'Arte” diretta da Venturi; il saggio su Spazzapan in “Orsa”; le collaborazioni con il  periodico milanese “Le arti plastiche e la redazione delle cronache d’arte torinese per Emporium. Si ricordano inoltre i volumi  (per  l'editore fiorentino Nemi) L'arte egiziana antica, L'arte  dell'Asia occidentale e centrale, L'arte dell'Asia orientale;  il saggio Casorati edita da Hoepli (uscirà una seconda edizione) e Tre nature morte:  Casorati, Menzio, Paulucci pubblicato a Torino. È assistente alla Cattedra di pittura di Paulucci  all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino ed insegna storia FILOSOFIA negli istituti liceali. Tra gl’allievi  con i quali mantenne profondi legami si ricorda   Sanguineti.  Dalla fase espressionista verso l'astrattismo, al termine del conflitto bellico per Galvano e gli  artisti della sua generazione s'impose il confronto con  l'avanguardia, l'Europa e il moderno. «Moderna non  è soltanto l’arte prodotta nel periodo in cui viviamo,  ma quella che di voler essere moderna ha programmatica intenzione! [ Che assume come categoria  predicativa l'affermazione di novità rispetto ad  una situazione di cultura storicamente conclusa. Il concetto di moderno si chiarisce, così come un  concetto etico  per cui l'avversario non è un  modesto o nullo artista, ma il traditore di una causa  totale, il reazionario che non merita pietà e al quale  non giova la buona fede». Queste lucide affermazioni  di G. aiutano a delineare un settore della sua  linea di pensiero che contribuì ad animare il vivace  dibattito degli intellettuali torinesi, fautori di quel  compatto blocco culturale che tentò  una ricostruzione «morale e civile» della società. La  posizione politica di G. dopo la Liberazione è abbastanza distante dall’ideologia estetica del fronte  comunista. L'urto non è tanto fra tradizione e  innovazione, anche meno tra astratto (o concreto)  e figurativo ma tra militanza costruttiva ed  autonomia critica. G., Moderno, in Enciclopedia Universale dell'Arte, vol.  IX, Fondazione Cini, Roma-Venezia Mantovani, Il malessere dell'arte, in G., La pittura,  lo spirito e il sangue, a cura di G. Mantovani, Quadrante,    E;    Negli anni postbellici il complesso confronto-  scontro con Croce è ineludibile e la posizione di  G. (sviluppata in anni più tardi nel fondamen-  tale scritto Perché non possiamo non dirci crociani)  merita qui qualche breve accenno. L'intuizione pura,  come atto teoretico astorico, non poteva prescindere  dalla soggettività dell’«opera manuale». La polarità  non sussisteva tra il bello crociano, simbolo del bene  morale e il suo opposto, quanto tra lo «spirito» (il  momento razionale - contemplativo) e il sangue (il  principio vitale inconscio che in ultimo concretizza  l’opera con il linguaggio scelto). Scriveva Galvano  nel numero unico del periodico “Tendenza” (coideato con Oriani): Questo bisogno del  sangue che ignora l’astratto spirito e gli anatemi e  le accuse di naturalismo degl’idealisti o quelle d’immoralità degli spiritualisti è essenziale all'opera  di pittura. Essa cade o sussiste con il sangue non con  lospirito»!. L'attività di critico d’arte seguitò in quegli  anni anche su quotidiani come La Nuova Stampa e Mondo Nuovo. La pittura di G. si apre  ad una fase espressionista slargandosi e semplifi-  candosi in campiture bidimensionali dai contorni  lineari marcati e attraverso l’uso di un cromatismo  timbrico. In un testo di autopresentazione l'artista esplica. Così quando, Guttuso  guardando a Picasso, Birolli e quelli di “Corrente”  sbirciando l’espressionismo, diedero altro indirizzo  alla pittura italiana, mi trovai in ritardo rispetto a quei  coetanei e ai loro discepoli molto più giovani di me, e  con un bilancio piuttosto negativo. Tentavo così  una soluzione in un breve periodo di esasperazione  “espressionistica” del segno, dove l’“illusivo” si trasforma in “allusivo” IMPLICATURA COME ALLUSIONE ED ILLUSIONE) a quelle immagini che puo  considerare suoi.   G. puntualizzava inoltre di essere stato  tentato verso «esperienze varie di carattere cultu-  ralistico, fra cui un primo richiamo al liberty che  allora fu aspramente rimproverato da certi critici (Podestà) come incomprensibilmente anacronistico  ma che almeno come recupero critico, rappresentava  un'anticipazione di interessi e recuperi diventati di  moda un ventennio più tardi.   Nella Torino della Ricostruzione gli spazi espositivi sono esigui; molto spesso sorgevano in simbiosi  con una libreria come per esempio la Faber,  dove G.  partecipa ad una Antologica  di Maestri contemporanei. Alla personale di G.  presso la Libreria del Bosco «ci troviamo di  fronte ad un artista dalle varie esperienze», denota Torino G., La pittura, lo spirito e il sangue, in “Tendenza”  G., Galleria la Giostra G., Autobiografia Gatto su “L'Unità”, e proseguiva: «riesce  spesso a lievitare le acquisizioni culturali ed a tradurle  in efficienti risultati creativi». Il molteplice approccio  stilistico, confessato dallo stesso G.  nell’auto-  presentazione, è qui confermato: «leggero  impressionismo, decorativismo un po’ orientale,  motivi che tendono a risolversi in figurazioni quasi  astratte». La fase pittorica più recente, concludeva  Gatto, «pare indirizzarsi verso una pittura dominata  da una volontà ed un’ansia di sintetismo formale»?.   Alla Biennale di Venezia del 1948 (la prima edi-  zione al termine del ventennio fascista nella quale  emersero le linee essenziali degli sviluppi dell’arte  moderna europea) Galvano partecipò su invito con  cinque opere (nudi e nature morte del 1947-48) in sala  con Martina e Paulucci. In quell’edizione fu parecchio  vasta la partecipazione di artisti torinesi sulla via  dell’astratto: Sandro Cherchi, Mario Davico, Garelli, Gorza, Montalcini, Mastroianni, Moreni, Parisot, Rama, FScroppo. All’edizione, nuovamente su invito, G. è presente con tre opere (in  sala con Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Turcato,  Vedova, Zigaina).  Si registrarono nume-  rose partecipazioni dell'artista a rassegne nazionali di  verifica diretta degli sviluppi artistici contemporanei,  tra cui la Quadriennale romana  e la mostra  collettiva Arteastratta e concreta presso la Galleria Nazio-  nale d’arte moderna di Roma (il comitato esecutivo era composto da Joseph Jarema, Palma Bucarelli  e Giulio Carlo Argan). Il testo di Galvano in catalogo  analizzava la ricerca concretista propria e dei torinesi  verso una direzione lontana dal «formalismo astratto»  insenso stretto e intesa attraverso la «‘“proiezione” nelle  strutture dell'oggetto stesso di una carica emotiva, che  asua volta presuppone la totalità spirituale dell'artista  impegnato, ed impegnato “responsabilmente”, in una  prospettiva, in una scelta, in una “Weltanshaung”, cioè  in ultima analisi in un punto di vista etico e metafisico. Non può perciò stupire che anche a Torino siano  proprio gli artisti più responsabili di fronte a un loro  mondo interiore a volgersi a questa pittura. Superfluo  cercar nel dato estrinseco del gusto un’unità “munici-  pale” o di gruppo: se mai l’unità “torinese” di questi  pittori è nella condizione di cultura cui lo stesso schivo  etalvolta un poco scontroso raccoglimento della città in  cui essi lavorano, è, per taluna delle ragioni accennate,  propizia»”!.   Rilevanti furono inoltre le sortite extranazionali. In occasione della mostra nizzarda, Peintres  de Turin, Galvano definì forme e colori delle sue com- Gatto, Mostra d’arte. Galvano al Bosco, in “L'Unità”.   G., in Arte astratta e concreta, catalogo della mostra,  Galleria Nazionale d’arte moderna, Roma.  Con Paulucci, G. e Scroppo. Conferenza al Circolo degli Artisti, Torino.    posizioni come «feticci laici», «costanti di sentimenti  e impulsi» che non necessitavano di riportarlo a una  rappresentazione esteriore e imitativa. La topografia  spirituale di questo mondo che non è né meccanica né  architettonica, ma piuttosto organica e determinata  soprattutto dalla tensione tra le forze elementarie vitali  pressanti, da una parte, e l'aspirazione religiosa o me-  tafisica dall'altra, che vuole dominarle e oggettivarle  nello spirito delle tradizioni filosofiche e religiose alle  quali nei miei quadri faccio a volte allusione anche  attraverso i titoli stessi.   Al Premio Parigi (itinerante anche a Cortina  d'Ampezzo) il critico Luigi Carluccio seguita di  rimando: L'artista si è portato sempre su posi-  zioni di ricerca mantenendo tuttavia vivo il dialogo  fra i suoi istinti pittorici e le sue meditazioni.  Il  temine feticcio laico annota con felice incidenza  che all'origine degli impulsi e dei sentimenti è sempre  vivo lo stesso dibattito tra la pressione vitale di forze  elementari, naturali, e l'aspirazione ad ordinarle in  una ragione metafisica.   Il rivolgersi all'arte d'oltralpe (già a partire dalla  mostra Arte francese d'oggi, Roma e Torino) ebbe  degli echi a Torino con le sei edizioni della rassegna  Pittori d'Oggi Francia- Italia promosse da  Carluccio e alle quali Galvano partecipò alla prima e alla terza, così come figurava ai due  Premi Saint Vincent messi in piedi dalla  fronda democristiana capeggiata da Carluccio in re-Carluccio, in Mostra Nazionale del Premio Parigi catalogo della mostra, Cortina d'Ampezzo e Parigi Con Chessa e Matteis.    azione al Premio Torino, troppo polarizzato  a sinistra secondo il critico.   È di vitale importanza ricordare infine il ruolo  di G. come animatore culturale nel clima  di fermento postbellico, dapprima impegnato  attivamente come promotore dell’Unione Culturale  (raccolse intellettuali antifascisti tra cui  Einaudi, Mila, Antonicelli,  Venturi e tra gli artisti Casorati, Menzio,  Levi) e come propugnatore di due rassegne  artistiche: la I Mostra Internazionale dell'Art Club a  Torino e la Mostra d’arte contemporanea di Torre Pellice. La prima con presidente Casorati e segretario  Scroppo, organizzata dalla sede torinese dell'Art  Club, un'associazione apartitica internazionale —  mirava a presentare le nuove voci artistiche italiane  e di diversi stati esteri. La seconda, aveva sede a  Torre Pellice, che «pur nella modestia delle proprie  possibilità, possiede, come centro delle Valli Valde-  si, una secolare tradizione di cultura che ha i suoi  particolari caratteri di pensiero e di ispirazione. È stata ideata insieme a Scroppo, artista  e critico valdese, (nativo della Sicilia ma inseritosi  dalla metà degli anni Trenta nell'ambiente cittadino)  e da Bertolè notaio e illuminato collezio-  nista di moderno. La Mostra d’arte contemporanea appuntamento estivo annuale protrattosi per un  Mostra d'arte italiana contemporanea, catalogo della mostra,  Collegio Valdese, Torre Pellice quarantennio al quale G. espone  assiduamente—trasformòla cittadina della provincia  torinese in un polo culturale aggiornatissimo sulle  ricerche artistiche nazionali e con qualche non rara  puntata internazionale.    Il Movimento Arte Concreta Il confuso ribollire di tendenze astratteggianti,  che impera anda delineandosi  verso l’elusione dell’astrazione su base mimetica in  favore del concretismo. Una lucida definizione della  corrente venne offerta da Dorfles in un saggio, il così detto manifesto del Movimento Arte  Concreta fondato a Milano insieme  a  Munari, Monnet e Soldati.  Dorfles precisa il concetto di concreto che non cerca di creare delle opere d’arte togliendo lo spunto  o il pretesto dal mondo esterno e astraendone una  successiva immagine pittorica, ma che anzi andava alla  ricerca di forme pure, primordiali, da porre alla base  del dipinto senza che la loro possibile analogia con  alcunché di naturale avesse la minima importanza.   L'adesione formale al MAC di G. e un gruppo  di giovani torinesi — Biglione, Parisot,  FScroppo e in seguito Rama e Montalcini — avvenne. A Torino il coagulo del  Movimento rappresentò una sfaccettata unione di poe-  tiche, abbastanza distante dal rigore costruttivista delle  soluzioni compositive lombarde che fondava le sue basi  nell’Astrattismo storico internazionale e locale degli  anni Trenta. In questa sede non è possibile analizzare  la presa di coscienza sulle radici dell'avanguardia delle  personalità torinesi e ci si limita al solo caso di G..  1] distacco di G. dal comitato promo-  tore del Premio Torino (la prima manifestazione locale di  arte attuale italiana dopola fine della guerra)non avven-  ne solo per posizioni politiche. Come chiariva Giuliano  Martano, nel catalogo della mostra Arte concreta a Torino, per una parte di artisti si trattava di una scelta  di «lettura in quelle matrici dell'avanguardia europea  quasi in contrapposizione alle matrici trovate allora  in un neonaturalismo e del Fronte nuovo delle arti.   Per G. e il discepolato della scuola di Casorati, alla quale riconoscevano la creazione di «una terra  concimata pronta a recepire, stratificazione di cultura  altezzosase vogliamo, ma attenta. Aveva purelasciato  ineredità una figurazione latente, una scansione dell’og-  getto che verrà dai torinesi lentamente e sofferentemente  decantata»°. Uno smarcamento, dunque, in totale buona   Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra, edizioni Schwarz, Milano. Dorfles, Manifesto del MAC, ora in Arte concreta a Torino catalogo della mostra, Sala Bolaffi, Torino Martano, in Arte concreta a Torino pace del Maestro, che anche G. intraprese: la via  verso l’astrattismo ben circoscritta e lineare.   La sua poetica, tra i torinesi, era la più distante dal  concretismo «proprio perché non è mai d'origine sperimentale ma la sua avanguardia si pone sempre come  una verifica dello sperimentalismo. Si pone insomma  come contrasto immediato fra una realtà esterna ed una realtà interna quasi avida di controllare im-  mediatamente sul terreno stesso dell’accadimento, la  validità dell’accadere, e di controllarlo appunto in via  sperimentale»?   Gli aspetti strettamente contenutistici della pittura  di G. sono in diretto contatto con i suoi interessi in quanto  studioso di filosofia e FILOSOFO e storia delle religioni. Griseri nota che gli entusiasmi per  Kandinskij volto all’astratto e per il primo Kupka  giungevano a una presa di posizione nell’ambito  dell’arte non figurativa, chiarita in numerosi saggi, in cui G.lumeggia la derivazione dalla  secessione di Klimt di molta arte contemporanea in  una interpretazione nuova dei rapporti art nouveau-  Liberty e astrattismo. Degli scritti galvaniani degli  anni Cinquanta ai quali Griseri si riferisce citiamo almeno: Storicità e significato dell’arte “astratta,  Dal simbolismo all’astrattismo, Le poetiche del  Simbolismo e l'origine dell’Astrattismo figurativo.  Gl’intendimenti del manifesto del MAC torinese  sono piuttosto netti. Più in generale erano  incontrapposizione con il dibattito dilagante in quegli  anni che scindeva gli artisti tra formalisti e realisti, con-  tro il neopicassismo ed estranei al «pudore» del compromesso dell’astratto-concreto di Venturi. A livello  localelalororicerca era indirizzata all'emancipazione  dall’orbita casoratiana, dal neoimpressionismo dei Sei  e dal secondo futurismo con il quale condividevano  lo spirito avanguardistico, ma certamente non gli in-  tenti. Biglione, Galvano, Parisot e Scroppo firmarono  il testo programmatico, con la responsabilità di «lotta  contro ogni conformismo pigrizia intellettuale». «Se  il nome stesso di arte concreta sta a significare  il desiderio di rigore di chi ha rotto ogni ponte con  tradizioni storicamente esaurite per sostituire la  loro ricerca d'una diretta presentazione d’oggetti  in cui si vengano obiettivando i bisogni spirituali  dell’uomo, come negli strumenti del suo lavoro quo-  tidiano si proiettano i suoi bisogni materiali. G., pur immerso in una personalissima  ricerca non figurativa, nel periodo che all'incirca si    estende, sviluppò una maggior  Griseri, G., in Dizionario Enciclopedico, Utet,  Torino Biglione, A. Galvano, A. Parisot, F. Scroppo, in “Arte con-  creta” Caramel, Mac Movimento  Arte Concreta Electa, Milano adesione al MAC. Lo spazio dei suoi dipinti, asciugato  dall'andamento curvilineo delle partiture, si popolò  di forme squadrate dalla linearità spigolosa. Tutta-  via, la freddezza costruttivista e il rigore logico del  concretismo erano solo apparenti; l'artista puntava  al contrario «ad un'arte che preservi il dialogo tra gli  schemi astratto-geometrici e quelli compositivamente  più liberi, moduli grafici e forme archetipiche non  direttamente razionalizzate.   Un precoce avvicinamento ai concretisti lombardi lo si data. G. èpresente a  Milano in due collettive: con Scroppo (presentati da Monnet) presso la Libreria Il  Salto, cenacolo della pittura concreta milanese e  alla mostra di pittura astratta italiana. Astrattisti  milanesi e torinesi allestita alla Bompiani dove esponevano i piemontesi Costa, Davico,  Mastroianni, Parisot, Scroppo, Spazzapan). I maggiori rappresentanti della corrente di entrambe le  regioni figuravano, G. compreso, anche alla  II e III Mostra d’arte contemporanea di Torre Pellice.   L'allineamento al MAC di G. fu palesato  anche dalla sua presenza ad esposizioni promosse  dal gruppo. La sortita d'esordio dei torinesi (Biglione, G., Parisot, Scroppo ai quali si aggiunsero  anche Davico, Merz eGiannattasio)  avvenne alla Saletta Gissi di Torino con la mostra  Pittori astratto-concreti di Milano e Torino. Non fu  però la prima presenza organica del concretismo in  città poiché presso Il Grifo  si affacciarono alcuni esponenti milanesi così come  alla Quadriennale Nazionale d’Arte di Torino dove  comparve una nutrita schiera di astrattisti tra cui  anche G.. Commentando la mostra presso  Gissi, sul bollettino Arte concreta G, esibe la profonda sicurezza di una non superficiale  accoglienza nell'ambiente cittadino e rilevava la  sfaccettatura di posizioni della compagine torinese  che collimavano in una base comune di principi. Principi che possono riassumersi in una profonda  fiducia nella capacità dell’uomo ad esprimersi e a  comunicare con gli altri uomini, attraverso il puro  linguaggio delle forme, attraverso l’organicità e la  coerenza ch’esso sa imprimere ad un discorso i cui  vocaboli non hanno bisogno di essere immagini e  finzioni per legarsi a una sintassi espressiva e, nei  casi più felici, poetica.   La politica espositiva del gruppo torinese non  Mulatero, in P. Mantovani, I. Mulatero (a cura di), Lucide  inquietudini. Storie singolari dell’astratto-concreto, Civico Museo d’arte Contemporanea di Calasetta, Calasetta G., Mostra di pittori concreti di Milano e Torino alla  Saletta Gissi, in Arte concreta n. 9 cit., ora in L. Caramel, Mac  Movimento Arte Concreta Con un'opera dalla serie i Nastri.    ebbe seguito se non l’anno successivo alla Galleria  5. Matteo di Genova. L'eccezione è rappresentata da  G. che figurò in svariate mostre organizzate  dal MAC, si ricordano qui le principali: Pitture di  G. in un esperimento di sintesi, presso lo  Studio b24 di Milano (valla pena rimandare  agl’asterischi galvaniani di quel periodo, quasi  privati manifesti sui bollettini Arte concreta che chiariscono la sua posizione all’interno  del movimento) e lo stesso anno a Torino da Gissi  esposero pittori concretisti italiani e francesi (G. presenta collages polimaterici di ascendenza  prampoliniana); sempre al Torino l’anno successivo  G. è presente ad una mostra allestita dallo  Studio b 24 in occasione del Salone dell'Automobile.  Si menziona a parte la collettiva presso la Galleria  il Fiore di Milano dove G. espone  insieme a Bordoni, Jarema, Parisot e Scroppo. Nello  scritto introduttivo al catalogo elaborò stringenti  analisi nei riguardi di un’«arte figurativa che non  ripeta ma continui la natura», invitando il visitatore  a riflettere «che l'apparente chiusura ad una più  ovvia comunicazione di queste opere nulla intende  precludere alla possibilità di uno scambio e di una  penetrazione sempre possibili nell'esercizio di una lettura figurativa per elementi, segno colore, movimento, materia, ecc., non differenti da quelli che  consentono la valutazione di ogni buona pittura.   Non sono da dimenticare infine le presenze alle  Biennali veneziane con la sua  produzione concretista e la ripresa espositiva alle  rassegne della Società Promotrice di Belle Arti di  Torino.    Dall'Informale al neoliberty floreale, il logico passaggio all’astrattismo di G. culmina  in una fase di tensione tra impaginatura attenta alle squadrature neoplastiche e colore tonale impastato. La  vibrazione cromatica delle campiture, ottenuta  attraverso una libera stesura di pennellate, lo portò  a un lento e graduale sfaldamento delle sue strutture geometrico-architettoniche a favore dell’indipendenza dell'immagine e al protagonismo di una  componente espressiva. Sul piano formale il gesto  pittorico si faceva emancipato e l’organicità della  materia riprendeva vigore. Si segnò qui il definitivo passaggio di G.  all’Informale, lontano dall’interpretazione del neona-  turalismo propugnata dal duo Carluccio-Arcangeli  (è proprio che sono presentati a Torino l’artisti informali presso La Bussola  nell'esposizione Niente di nuovo sotto il sole, titolo che  rivelava la volontà di mantenere una continuità con  il passato e la natura.   L'evoluzione del concretismo impose a G. (e  alla compagine torinese del MAC) un binario doppio  di direzioni che nonsiindirizzò all’antipittura quanto  piuttosto alla scelta di rimanere dentro la pittura  nell’opzione di un astrattismo lirico che lo condurrà  verso l’Informale. Un Informale, sosteneva G., affine alla declinazione di un LINGUAGGIO ASEMANTICO in cui tuttavia potessero trovare esito quelle ALLUSIONI O IMPLICATURE PRAMMATICHE SIMBOLLISTICHE che hanno un posto ben rivelato  dai titoli dei suoi quadri del periodo astratto-concreto  Rica pe   Una delle prime esposizioni che offrirono un  G. smarcato dall’astrattismo di matrice con-  creta fu la personale alla  Biennale di Venezia mirabilmente introdotta  d’Argan. La radice comune della sua  pittura è la distinzione netta tra i concetti di forma  e immagine. L'idea di forma è inseparabile dall'idea di arte come rappresentazione, implica sempre un  contenuto di nozioni, un riferimento alla natura, un G., in Bordoni, G., Jarema, Parisot e Scroppo,  catalogo della mostra, Galleria Il Fiore, Milano  G., Autobiografia G., in Bordoni, Galvano, Jarema, Parisot e Scroppo G., Autobiografia processo dioggettivazione. L'idea diimmagine supera  ildualismo dioggetto e soggetto, la relatività costante  di quod significat e quod significatur; mira a designare  un assoluto valore d’esistenza, a sostituire alla rap-presentazione un'immediata semantica. Segue  Argan. La sua è la ricerca di un'immagine che non  abbia determinazioni dirette o indirette nel mondo  esterno, che non si manifesti per via di similitudini o  allegorie, che dichiari esplicitamente le sue origini e  le sue ragioni esclusivamente umane, che si ponga ad  un tempo come noumeno e come fenomeno. Così  la materia, non la forma, diventa mito ed immagine;  e la materia è il colore, ma anche IL SEGNO, la linea, il  punto. G. venne invitato da Ragghianti per una personale alla Strozzina di Firenze. Nell’autopresentazione l'artista  tenne a ribadire ancora una volta le convinzioni e la  coerenza del suo percorso pittorico che lo avevano  condotto all’Informale. La formazione spirituale  si ècompiuta, esplica G., attraverso la  sua adesione alle correnti non figurative, a quell'inversione del simbolismo nell’astrattismo che ho  cercato di spiegare storicamente in sede critica. Perciò  a Kandinskij e al Kupka agli americani  Pollock e Tobey, ai polimaterici di Prampolini. L'unico germe di “manifesto” è quello sul feticcio  laico. Feticcio cioè metafisica, ma laico cioè antimetafisica. Crede si possa essere antimetafisici solo  nella misura in cui si è contro le false metafisiche. Nel  caso dell’arte contro la falsa ispirazione, l'evasione  sentimentale. Il mezzo informale di G.  vira verso accezioni neoliberty. La copertura totale  della tela della prima fase si distillò per mezzo di uno  sfondo neutro solcato da grafismi pittorici orientati  sempre meno verso un'immagine quanto in direzione  di archetipi floreali e calligrammidi scrittura gestuale.  Galvano recuperava, seppur allusivamente, attraverso  una nuova definizione di immagini, la figuratività  «trasformando o meglio puntualizzando i feticci  laici in emblemi esplicitati in forme larvali di  iris, i fiori paradigmatici del Simbolismo. Oltre alle regolari presenze alle Promotrici torinesi e  alle mostre annuali di Torre Pellice, si segnalano la  puntata alla collettiva berlinese presso la Maison de  France, le partecipazioni al Premio Bergamo, ai Premi Arezz e Fiorino.    (Firenze) e alla Quadriennale romana.  Di particolare rilevanza in quel periodo furono Argan, in catalogo della Biennale di Venezia,  Venezia G., in catalogo della mostra, Galleria La Strozzina,  Firenze G., Autobiografia  Due mostre. La personale presso Il  Canale di Venezia presentata da Edoardo Sanguineti  che così ultimava il suo scritto: «I fiori Mallarmé ci  costringono anche a riguardare di nuovo in faccia la  posizione dell'artista las que la vie étiole, portando cosìla  pittura ad assolvere a un compito, molto forte e molto  importante, di smascheramento dell'avanguardia,  nella forma, secondo le possibilità “moderne” di uno estraniamento.  Nella collettiva (G., Scroppo e Montalcini) al Quadrante di Firenze, Dorfles, accogliendo gl’enunciati di Sanguineti, alluse  altresì ad un significato orientaleggiante delle pitture  di G. che avevano: accolto nella loro matrice  compositiva quasi il vuoto il sunyata di certa arte  zenista, purrimanendo lige a una composta scansione  di ritmi dell’Abendland.   Pittore dunque in senso tradizionale si define G. che ricusava le forme antipittoriche, schiuse  alla strada dell’arte-oggetto (della quale si interessò  in sede teorica), per abbracciare una «simulazione  d'avanguardia». Un profondo disagio lo conduce a compiere una pausa dalla pittura  causata probabilmente dal cortocircuito innescato a  causa di intendimenti antitetici perseguiti dal parallelo  mestiere di critico e di artista. Come rimarcava Argan: Sanguineti, in catalogo della mostra, Il Canale,  Venezia, Dorfles, Tre pittori torinesi, in G., Montalcini, Scroppo, catalogo della mostra, Il Quadrante, Firenze, G., Autobiografia Con Scroppo. la confluenza dei due percorsi di pensiero (e la sua  pittura è tutta pensiero) sono difficili e interiormente  sofferte.   Assumono infine un ruolo fondamentale nella  produzione saggistica di Galvano i due volumi  pubblicati in quel periodo: Per un’Armatura (Lattes) e Artemis Efesia. Il significato del politeismo greco  (Adelphi). Sono opere difficilmente classificabili  che attingono alla filosofia, alla storia delle religioni,  alla psicoanalisi e all’antropologia. I due studi affron-  tano il problema dell’interpretazione sia culturale che  psicologica di un passato che ci coinvolge direttamente  e sono al tempo stesso processo di autoanalisi in merito al rapporto tra una figura-feticcio  un’armatura  tardomedievale e un idolo greco  e l’area psichica  della coscienza.   È certamente per G.  la fase più feconda di collaborazione con periodici e  riviste tra cui le torinesi Sigma, Cratilo”e come  redattore di Questioni(Galleria di Arti e Lettere”) con Ciaffi, Lattese e Navarro  per Lattes. Una menzione a parte merita il Argan, in catalogo della mostra, Unimedia,  Genova Roberto, G., Dizionario biografico degli  italiani, Treccani, Milano contributo Le tigriimpagliate per il primo numero  d’Azimuth fondata da Manzoni e Castellani. Per “Letteratura” nG.  pubblicò La pittura a Torino, un lucidissi-  mosaggio che inquadra, da testimone diretto, l’arte  torinese del dopoguerra. Successivi furono i notevoli  contributi sulla situazione artistica cittadina tra cui:  Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino, Torino e  i “secondi futuristi” e La pittura a  Torino. Bandiere, Nastri, Griffonages e SEGNI ASEMANTICI. Con l'esposizione Erbe e Bandiere, presso  la Galleria Botero di Torino, Galvano sentì «il bisogno  di affiancare e poi sostituire gli emblemi ispirati alla  natura con quelli di carattere artificiale più spogli e  tendenti in qualche modo a una nuova astrazione».  In mostra le forme organiche dai tratti guizzanti  dell'ultimo Informale di G. sono accostate,  in un felice trait d'union, con la nuova produzione  attraverso la serie delle Bandiere. In uno scritto critico  perla suddetta mostra Chepes sottolinea. Le  sue erbe alghe, le sue flammulae, più che bandiere,  sembrano, ad analizzarle, vive, agitate da sentimenti,  da spasimi da aneliti, da desideri. L'artista perseverò nella coerenza linguistica della  sua ricerca che ancora una volta, nei più nuovi risvolti,  non si collocò in un'immediata e netta inserzione in  correnti o gruppi operativi. Gli estesi panneggiamenti  svolazzanti dai colori accesi che si stagliavano su fon-  di neutri riecheggiavano quasi un'antica tradizione  araldica. I riferimenti pittorici non erano di certo  estranei al linearismo sensuale del Liberty, anche nella  sua declinazione decorativa, rammentando inoltre  suggestioni neobarocche. Un commento di Mollino, riguardante un'architettura baroccheggiante  di Galvano dipinta degli anni Quaranta, potrebbe  restituire puntualmente le atmosfere delle recenti  Bandiere espresse in uno: «scenario di questo tempo  immobile nella chiara decisione di un arabesco che  non si placa che in un ordine senza indulgenza, ma  vivo di un amore disincantato»?   Furono ancora le Bandiere ad essere esposte nel  1968 per una personale a Cremona alla Galleria d’arte  I Portici. Gli stendardi svolazzanti davano la prova di  una profonda conoscenza degli allora attuali linguaggi  pop e forniscono anche un «grave riverbero di anti-  chità» rendendo l’immagine «imminente e insieme  assente che par scelta e fabbricata per un pubblico Tutti gli scritti qui citati sono reperibili in G., Diagnosi del moderno, G., Autobiografia Chepes, in “Borsa Arte Mollino, in S. Cairola, Arte italiana del nostro tempo, senza tempo e d’ogni tempo Proprio per questo  è significante perché carica di intenzioni contrad-  dittorie e fortemente drammatiche, nella dialettica che  stabiliscono tra l’esperienza passata e l'avvento, e la  necessità del presente. G. si rivolse alla nuova serie pittorica  dei Nastri mantenendo una viva tangenza allo sviluppo  formale del periodo MAC. L'oggettivazione del dato  geometrico si sostituì con una figurazione elementare  di armonica tridimensionalità sull’estensione della tela.  Le masse sventolanti e libere, nelle quali si evidenzia  una ben nota propensione per l’ellissi e il semicerchio,  proseguivano l'indagine sullo spazio volumetrico.  Giuliano Martano asseriva appunto di un'astrazione  intellettuale, in cui i segni, i ghirigori, sono veri e propri simboli codicillari, incognite d’equazione, libertà  della memoria. Nastri che si dipanano nel quadro  senza né capo né coda e sono le bandiere di prima rese  a brandelli, sono una forma chiusa che si apre, che da  circonlocuzione diventa INTER-LOCUZIONE. Presso la Saletta d'Arte contemporanea di Cu-  neo, nel 1972, Galvano presentò questa figurazione  elementare di volute concave e convesse di recente  produzione, che si palesavano, secondo Giorgio Brizio,  «dall’uso parco e strettamente pensato delle timbrici-  tà cromatiche. Basandosi su toni primari, operando  esclusivamente sulla opacità della parte in ombra,  Galvano può, in una suddivisione doraziana dell’in-  fluenza tonale, usare la direttrice cinetica del timbro  per equilibrare il dinamismo globale della partitura  spazio-occupato, spazio-vuoto. La personale alla Galleria Martano di  Torino assunse il significato di una ricapitolazione,  dal MAC al presente, in cui gli elementi nastriformi si  erano evoluti, in forme dall’aspetto cellulare e in moduli verticali e curvilinei. Tracce  realizzate a carboncino, impreziosite da lievi velature  scariche di colore, campeggiavano solitarie sulla tela;  la dimensione gestuale fu affiancata dall'espressione  intellettiva dell'atto primario del dipingere. Questi  moduli nella linea filogenetica della sua pittura non-  figurativa «appaiono anche maggiormente legati  ai dettami grafici di una cultura passata attraverso quell’inversione del simbolismo nell’astrattismo che riaffiora con l’organicità delle sue forme così  tese ed essenziali, rispondenti ancora una volta a  quella logica interiore che resta come la matrice vera  di ogni opera di G. Una sala personale della Mostra d'arte di Torre Pellice venne dedicata a    Fezzi, in catalogo della mostra, Galleria d’arte I Portici,  Cremona Martano, G., in “Pianeta Brizio, in catalogo della mostra, Saletta d'arte, Cuneo Dragone in Stampa sera, G. che vi espone una ventina di opere. L'artista  presentò efficacemente al pubblico la sua recente svolta  pittorica: sente il bisogno di logorare la forma,  di intercettarne la presunzione di organicità, sgranandone il supporto disegnativo in pochi cenni grafici su  cui il colore nonagisse più come elemento qualificante  ma soltanto come sottolineatura allusiva. Come  nel ritmo stesso delle vicende vitali, a una stagione  di estroversa aggressione della percezione dello spettatore si avvicendava una fase di ripiegamento sulla  discrezione, sulla riserva, sultono contenuto. Coevi  furono i Griffonages e i Segni dell'alfabeto asemantico  lavori con scritte quasi illeggibili rese «come puro  segno e gioco lineare non senza un, fra ironico  e intenerito, strizzar l'occhio al concettualismo. Si ha la personale genovese  alla Galleria Unimedia per la quale Saguineti imple-  mentò la troppo riduttiva definizione del G.  doppio, critico e pittore, trascendendo anche nella  saggistica e nella FILOSOFIA e invitando a vedere con  totale persuasione la forza della sua lezione rispecchiata, con eguale fedeltà, nelle sue pagine e  sopra le sue tele». Il discorso si reiterava anche nello  scritto critico di Argan che chiudeva con un interro-  gativo dal quale G. non si discostò mai: Che  cos'è la pittura? Ciò che vuol sapere è che cosa sia  la pittura in questa precisa condizione della cultura,  della coscienza, dell’esistenza, e quale il suo grado  di vitalità, quali le sue possibilità di sopravvivere in  uno spazio ogni giorno più ristretto. Tra la ripresa dopo l'interruzione pittorica e  si ricordano infine le puntuali presenze a  collettive con cadenza annuale come la Promotrice  delle Belle Arti e le mostre del Piemonte Artistico e  culturale di Torino; le rassegne estive di Torre Pellice e due edizioni dell’Incontro di artisti piemontesi e liguri  a Bordighera Si reimpose per G. un nuovo  approccio rivolto alle forme naturali: la ripresa  di una figurazione espressionista pervasa d’un  realismo quasi visionario e il fascino recuperato,  come confessò lo stesso artista, per le gidiane nourritures terrestes. G. sembra sentirsi  quasi responsabile d'un tradimento verso la pittura  allorché, per coerenza, operò una sintesi tra l’elemento naturale e il non figurativo che gli consentì  G., Personale di G., in mostra d’arte  contemporanea, catalogo della mostra, Scuole comunali, Torre Pellice G., Autobiografia Sanguineti, in catalogo della mostra, Unimedia, Genova Argan, in catalogo della mostra, Unimedia, SZ Nella bottega dell'antiquario. un'impaginazione astratta servendosi di forme non  inventate, non di natura cerebrale ma veramente  esistenti, Riemerse, con la serie dei Cespugli, la fascinazione per i cespi di iris, tema  dominante di inizio anni Sessanta, ma questa volta  non più giocato con la «gestualità irruente» del  colore spremuto direttamente sulla tela, eredità del  linguaggio informale, ma attraverso un sedimen-  tato approccio di sottili velature di pittura a olio  utilizzata come gouache che si rifaceva alle delicate  tinte dei moduli di qualche anno precedenti. Gli  sfondi bianchi svuotati erano percorsi esplicita-  mente da segni grafici e scritte che sembrarono  dischiudere uno spiraglio perfino alla poesia  visiva. Fu Galvano stesso, riferendosi a questi la-  vori — esposti in una personale presso la Weber di Torino a parlare d’archetipo  floreale dove il fiore dell’iris scandisce l’intrico dei segni, grafismi di parole o di immagini, altre  volte rigidamente modulari o, almeno non anco-  ra piegati all’allusione significativa. ‘Cespugli Spinardi, in catalogo della mostra, Piemonte Artistico e  Culturale, Torino perciò in contrapposizione ai glifi dell’”alfabetico  asemantico” e dei griffonages che li avevano preceduti. Segue la serie dei Motivi vegetali (Ciottoli, Foglie, Frutti, Relitti).  La riappropriazione di una rappresentazione ottica-  mente realistica fu solo apparente; il candore neutro  dei fondiesaltava una suggestione di tridimensionalità  attraverso la scansione prospettica degli oggetti. Tali  elementi solitari erano estraniati dal loro contesto  naturale e inseriti negli spazi illusori di questa pittura  d’assenza.   Sul cadere diogni riferimento a contenuti simbolici o anche solo sentimentali della pittura di G.,  ne scrive Guasco nel saggio che introduce  lagrande mostra retrospettiva dell'artista organizzata  a Torino dalla Regione Piemonte. Tali opere,  per Guasco, non sono più emblemi né simboli che  rimandano a un ulteriore significato. Per essi si può  forse parlare di sospensione di senso”(per usare un  termine di Barthes), di un muto stupore di fronte alla  vita e alla natura. Le foglie morte e i relitti di G.  rifiutano il significato, e quindi ogni commento, o  spiegazione. Il cespuglio spezzato è solo un cespuglio  spezzato; le foglie, anche se rosse, autunnali, non sono  les feuilles mortes.  Con avvio del decennio Ottanta ne i Paesaggi  (Rocce, Alberi, Isole) vi fu il riutilizzo di una stesura  cromatica che spesso occupava l’intera tela con un  conseguente recupero dell'effetto tonale. Gli spazi  desolati, le muse inquietanti, che G. propose  in questa fase suggerirono a Fossati richiami alla  pittura metafisica. Luoghi, intanto, vuoti, svuotati di  allotrie presenze, come è giusto siano le radure vuote  e silenti, per il camminante che vi si ferma a pensare  e meditare. Luoghi di pensiero e di inconsci sofismi:  con i relativi feticci oppure archetipi, teste in gesso  di eroi, manichini nel pictor optimus; rami sassi acque  per G.. L'artista, con le serie di guazzi su  carta di Nudi e Macchie sperimenta infine, una pittura  liquida fatta di segni colantiin un'inversione di «sgor-  bi cromatici di netta matrice informale. Confessa ai lettori del catalogo della Micrò. Ancora una volta ho  voltato gabbana e me ne scuso a chi può dare fastidio,  G., in catalogo della mostra, Weber, Torino, Guasco, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura di), G. cit., Fossati, Per un omaggio a G., in P. Fossati, F. Garimol-  di e Mundici (cur.), Omaggio a Albino Galvano, catalogo  della mostra, Circolo degl’artisti, Torino, Electa, Milano .G., in catalogo della mostra, Micrò, Torino ma vuole ricordare che vi è stata una sua stagione d’eriffonages che a questi fogli ultimi molto si  apparenta, anche se là il segno prevaleva, monocromo. Perciò dico a mia difesa il diritto di difendersi  è sempre riconosciuto ai colpevoli — versatilità, capricciosità sì, incoerenza no. Molti furono gli spazi espositivi torinesi che accolsero le personali di G. inquadrando la sua  fase pittorica, tra cui: laWeber,  il Piemonte Artistico e Culturale, la Cittadella e la  Micrò.  Occasioni extracittadine rilevanti furono presso la Morone di Milano, la Villata  a Cerrina Monferrato e la bipersonale insieme  a Gorza presso Palazzo Te a Mantova. Si  rammentano poi l’antologica presso la La  Cittadella di Torino;  la vasta esposizione organizzata dalla Regione Piemonte presso Palazzo Chiablese di Torino che  esplora l’intera carriera dell'artista (corredata da  un notevole apparato critico in catalogo) e le mostre  retrospettive all’Accademia  di Torino. Costanti furono inoltre le partecipazioni a collet-  tive come alla Promotrice torinese,  alla Galleria Martano e all'esposizione Torino  tra le due guerre presso la Galleria d’arte moderna di  Torino. Infine, nell’ambito della rinnovata attenzione  perlostoricizzato Movimento Arte Concreta, Galvano  figurò in svariate mostre a: Cavallermaggiore,  Torre Pellice, Gallarate, Aosta. G. muore a Torino. La dichiarazione conclusiva sugli intendimenti  di una pratica pittorica perseguita per l'arco di una  vita intera è affidata a Galvano stesso e permette di  afferrare almeno un aspetto di questa multiforme e  primaria figura di artista, critico e intellettuale italiano  del Novecento. «Di una sola coerenza credo di poter-  mi vantare, ma è coerenza che in qualche modo mi  sequestra al di fuori di tanta arte contemporanea: la  fedeltà alla tela, al colore ai pennelli. In parole povere  ho sperimentato molto, forse troppo e troppo disper-  sivamente, ma non mi sono mai sentito vicino alle  ricerche di chi avevarifiutato o cercato un'alternativa ai  mezzi tecnici che poi vuol dire anche espressivi di  una tradizione che va dal Cinquecento agl’impressionisti, ai fauves, agl’espressionisti. Fedeltà o incapacità  di uscire dalla routine? Non sta a me deciderlo. Ne  rivendico la responsabilità o il merito. G., in catalogo della mostra, Palazzo Te, Mantova  Alla presentazione del volume "La pittura, lo spirito e il sangue, Da discepolo a interprete. G. e Casorati   Botta   Quando mi presentai alla scuola di  via Galliari, cioè allo studio di Casorati, ha dietro le incerte aspirazioni dettate da una pretesa mia  attitudine al disegno. Poco, ma abbastanza, insieme alla passione per la storia dell’arte, perché seguissi con attenzione sulle riviste (specialmente Emporium) le Biennali veneziane che  mi educarono al gusto per l’arte.  Con queste parole G. apre la sua auto-biografia scritta per una mostra retrospettiva torinese, definendo sin da subito le proprie origini di  formazione e circostanze di aggiornamento. Nato nell’anno in cui, con le Demoiselles di Picasso, l’arte  occidentale vede chiudersi il ciclo iniziatosi alla fine  del duecento, si iscrive al liceo classico Cavour insie-me ad ARGAN (son vicini di banco), e presto interrompe gli studi per dedicarsi interamente  alla pittura, seguendo inizialmente le indicazioni di artisti intercettati attraverso le conoscenze familiari. Un temperamento vivo e curioso, il suo, che più  che seguire le letture e gli studi che il percorso scolastico gli impongono, preferisce accrescere le proprie  conoscenze con una formazione isolata, fatta di letture  personalissime. Si seppelle cinque-sei ore al giorno  in biblioteca sostiene in un'intervista. Lì incomincia a leggere La Critica. Legge Bergson. Nell’atteggiamento che caratterizza l’artista,  concentrato ad inseguire le proprie passioni piuttosto  che le strade già battute, si può forse leggere una continuità nella scelta di rivolgersi a Casorati come maestro,  una decisione non così scontata in una Torino dove gl’orientamenti estetici sono ancora influenzati dall’ingombrante figura di Grosso e dall’insegna-  mento della paludata Accademia Albertina.   G. ha una fascinazione improvvisa verso  l'artista torinese, arrivata attraverso l'osservazione di-  G., Autobiografia, PizzETTI, Givone (cur.), G., catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chiablese), Regione Piemonte,  Torino ARGAN, G. [presentazione], in XXVIII Bien-  nale di Venezia, catalogo della mostra (Venezia), Alfieri Editore, Venezia. Non sono tra i primi della classe. Troppe cose c'interessano, che non hanno nulla a che fare col programma, e ne discutevamo per interi pomeriggi,  dimenticando le versioni di latino e i problemi di matematica. Forse quell’amicizia di ragazzi ci costa qualche esame ma,  almeno per lui, non è un'esperienza inutile. G. parla d’un apprendistato presso Vannini, maestro di disegno a cui è stato indirizzato dal pittore Pisano amico di famiglia, che ha spesso occasione di  veder al cavalletto G., Autobiografia Intervista di Lanzardo ad G., in Fossati, GarmoLpi, Munpici (cur.), Omaggio a G.,  catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti), Electa Piemonte, G. alla mostra personale di Palazzo Chiablese, Torino. Archivio Storico della Città di Torino, fondo Gazzetta del Popolo. retta di alcuni suoi dipinti presenti nelle collezioni del  museo cittadino: “Alla Galleria di Torino — sostiene egli  stesso nell’autobiografia gli sono cioè piaciuti piuttosto i bianchi di tempera con il rosso dei coralli o il cielo spugnoso del bozzetto per il ritratto della signora Wolf che il neo-quattrocentismo del Ritratto  della sorella. Indicazioni sintomatiche di un interessamento che si rafforza  man mano e che è destinato a diventare decisivo per il  suo ingresso nella scuola dopo la visita alla Biennale  veneziana, nella quale Casorati espone,” oltre  ad otto dipinti, anche due statue destinate al proscenio  per il teatro Gualino. Galvano è colpito, in questa occasione, ‘“[dal]l’azzurro o il paglierino di stoffe e legni in  Daphne che le pose ricercate dei nudi. G., [autobiografia], in Albino Galvano, catalogo della mostra (Asti, Galleria La Giostra, 1952), Asti; relativamente ai dipinti di Casorati citati si veda il catalogo generale  dell'artista BERTOLINO, F. PoLi, Felice Casorati. Catalogo generale.  I dipinti Allemandi & C., Torino. Da qui in poi citato come (Bertolino, Poli G. autobiografia Relativamente alla Biennale scrive: Quella volli visitarla di  persona e vi fui impressionato specialmente da Felice Casorati,  sicché decisi, scoperto che abitava a Torino, di iscrivermi alla sua  scuola.” (Ip., Autobiografia; in quell’occasione, oltre al Ritratto di Daphne Ber-tolino, Poli, Casorati espone l’opera Ragazze dormenti o Mozart, ricordata da G. nel suo racconto autobiografico.   L'ingresso alla scuola lo vede inserirsi in un ambiente già consolidato, accresciuto notevolmente d’iscritti rispetto al nucleo  fondante di stretto discepolato del suo studio che sta  tra l'accademia e il monastero. La scuola  libera di pittura, inaugurata in via Galliari, è ormai una realtà pubblica, che riunisce maestro  e allievi e li vede impegnati come fronte coeso nelle  esposizioni cittadine e nazionali. La serietà e la dedizione alla pittura sono le caratteristiche fondamentali che danno l’accesso alla  scuola: lo si rica dalle impressioni che risuonano  con continuità tra i commenti e i ricordi degl’allievi  che in tempi diversi affrontano l’alunnato casoratia-  no.! G. non fa eccezione: “L'accoglienza fu,  come era nel suo stile, di una signorile severità”.!  Ma, al di là delle incertezze iniziali, il maestro sem-  bra essere più colpito dalla spiccata vivacità intel-  lettuale del giovane allievo piuttosto che dalle sue  capacità pittoriche: “credo che — sottolinea Galvano  raccontando di se stesso — abbia avuto subito per  l’uomo la simpatia e la stima che poi sempre mi di-  mostrò, forse assai più scarsa la fiducia nelle mie  possibilità di pittore, il che mi fu ottimo stimolo a  intestardirmi e ad impegnarmi a fondo. Lo scolaro “intelligente ma noioso, predicatorio,  secondo il ricordo di Romano, anche lei discepola  di Casorati, presenta le sue opere per la prima volta  con il gruppo di allievi all’Esposizione d’arte allestita nello studio di via Galliari. L'esposizione intima,  alla sua seconda edizione, è aperta al pubblico di interessati (a visitarla, sono perlopiù personalità del milieu  intellettuale ANTI-FASCISTA cittadino) e vuol essere una  raccolta dei lavori più notevoli eseguiti dagli allievi  nello scorso anno. La prova generale della scuola  non sembra però garantire a G. l’accesso all’im- G. fissa la sua presenza nella  scuola G., Autobiografia GOBETTI, Felice Casorati pittore, Torino Per uno studio sulla scuola di Casorati e sulle vicende espositive della stessa si veda Cavallaro, La scuola di Casorati, tesi  di laurea, Facoltà di filosofia, Torino, relatore: Rovati; Poi, Cavallaro (cur.),  La scuola di Casorati ed Cefaly, catalogo della mostra  (Catanzaro, Complesso monumentale di San Giovanni), Rubettino, Soveria Mannelli testimonianze e memorie dei suoi discepoli, in Pianciola (cur.),  Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni,  Fano G., Autobiografia Romano, Un invento, Einaudi, Torino, PauLuccCI, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le Arti    Plastiche Su questo argomento si veda A. BOTTA, Felice Casorati nelle. minente esposizione alla Galleria Valle di Genova organizzata probabilmente da tempo che vuol essere l’occasio-  ne per riunire una selezione più stretta degli allievi. Dove attendere ancora qualche mese, in primavera,  prima di assistere alla presentazione di un suo dipinto  (accolto per accettazione dalla Giuria) alla Biennale. Riuniti attorno al maestro, gl’allievi di Casorati  occupano la sala 30, attigua alla fortunata e discussa retrospettiva di MODIGLIANI (si veda) ordinata da  Venturi, che non manca di far nascere alcune  corrispondenze e letture parallele con le opere dei ca-  soratiani.   Da questo momento in poi G. incomincia ad essere presente con continuità alle mostre della  scuola. Una conferma che arriva già a poche settimane di distanza con la partecipazione alla 88° esposizione  della Società Promotrice delle Belle Arti con ben quattro  dipinti. Ancora alla fine dell’anno il suo nome si registra tra gli allievi presenti alla III Esposizione d’arte di  via Galliari,' mentre viene segnalato come uno dei casoratiani che espongono - questa volta senza il maestro alla mostra torinese degl’Amici dell’ Arte. Se fino a questo momento le opere di Galvano  non sembrano sollecitare più di tanto l'interesse della  critica forse perché il modello del maestro è troppo  riconoscibile nella sua pittura, l'occasione della I Quadriennale d'Arte Nazionale di Roma apre ad un interessamento che coinvolgerà da lì in poi  anche il giovane artista torinese, presente con il dipinto  Estate, riprodotto per l'occasione sulla nota rivista milanese La casa bella. G., ancora coeso al gruppo almeno fino al  marzo di quell’anno (la sua presenza è confermata in  una mostra di “scuola” allestita alla galleria Milano,  Esposizione dei pittori Casorati, Bay, Bionda, Bonfantini, Marchesini, Maugham, Mori, prefazione di G. Pacchioni, catalogo della  mostra Genova, Galleria Valle), Genova Sitratta del dipinto Paese con un ponte; cfr. Catalogo XVII Espo-  sizione Biennale Internazionale d'Arte catalogo della mostra  (Venezia) Venezia Pautucci, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le  arti plastiche ZANZI, Cronache torinesi. La mostra degli “Amici dell’Ar-  te Emporium, Torriano, Cronache d’arte. Note alla I Quadriennale, in “La  casa bella”, marzo 1931, p. 57. Relativamente alla partecipazione  degli artisti piemontesi alla rassegna romana si veda L. IAMURRI,  Levi, Paulucci e gli altri. Presenza torinesi alla Quadriennale, in M.  Cossu, C. MicHELLI (a cura di), Cultura artistica torinese e politiche  nazionali, catalogo della mostra (Roma, Galleria Nazionale d'Arte), Electa,  Milano Cfr. Bay, Bionda, Bonfantini, Casorati, Chicco, Cremona, Donati,  G., Levi, Maugham, Marchesini, Mennyey, Mori, catalogo del-  la mostra (Milano, Galleria Milano), Milano Copertina del catalogo della mostra alla Galleria Milano, Milano incomincia a dar segni di cedimento rispetto allo sta-  tuto casoratiano e nei confronti della scuola. Un di-  Stacco progressivo che si rende evidente nell'esercizio  Stesso della pittura, che lo vede ricercare una propria  indipendenza e nuove vie di espressione. La Promotrice diventa per lui un terreno di confronto  nel quale presentare le più recenti ricerche, filtrate at-  traverso nuovi modelli nel frattempo subentrati e maturati, chiariti con lucidità — a distanza di anni dallo stesso artista. Mi affascina il tentativo di ricostruzione formale  del mio maestro e, contemporaneamente e contraddittoriamente, gl’esiti dell’impressionismo e postimpressionismo, sia nelle loro accezioni originali sia nelle riprese  locali dei sei e, in genere, la pittura di colore e di tocco,  ovviamente legata a una visione naturalistica. Nel duplice e, in certo senso, contraddittorio intento di tener  Insieme i valori plastici di Casorati e quelli cromatici dei  Sei il risultato diveniva naturalmente pesante, impasta-  to, anche perché subivo fortemente l'influenza di una  certa pittura francese, o meglio di una pittura che  si faceva in Francia spesso da stranieri, che allora  agli inizi degli anni trenta mi affascinava dalle pagine dell’Art Vivant. Assente il maestro, G. è presente con tre opere. La Composizione con figura, in particolare, riprodotta G., Autobiografia sia in catalogo che sulla rivista Emporium, mostra  gli esiti dell'aggiornamento condotto sugli esempi dei  post-impressionisti francesi e sulle proposte figurative  dei sei (sciolti ufficialmente, come gruppo), che si riconosceno nella linea di rinnovamento  dell’arte contemporanea tracciata da  Venturi. Il passaggio, da questo momento in poi, è breve. Complice un disfacimento generalizzato della scuola  stessa, il pittore, alla mostra degl’Amici dell'Arte allestita nell'autunno del medesimo anno, è considerato  già da tutti un ex allievo. Ma la sua fedeltà al maestro  e l'amicizia che li lega lo vedranno partecipare ancora  ad una mostra di scuola, allestita nel teatro di Pavia. Accanto agli ex compagni, G. diventa una presenza eccentrica. Le sue opere, che  spaziano tra i generi (dalla natura morta al paesaggio),  mostrano la sua indecisione circa la strada da intraprendere, alla luce delle più recenti scoperte, passando  dall’espressionismo all'impressionismo senza un attimo d’esitazione.  La rottura con Casorati o presunta tale, coincide con il suo esordio di critico e con il suo avvicinamento a Venturi, al quale viene introdotto dal  suo compagno di studi Argan G. pubblica un saggio sull’illustre rivista trimestrale L'Arte, che vede Lionello impegnato nella condirezione  accanto al padre Adolfo. La presenza del figlio, professore a Torino, apre il periodico al dibattito sulle arti contemporanee, fino a quel momento  escluso dai contenuti tradizionali della rivista. Il saggio  Armando Spadini e il gusto degli impressionisti? mostra  l'avvicinamento di G. alla critica venturiana, già  evidente nel titolo del contributo, che riecheggia il più  celebre volume, e che si conferma nei contenuti e nel soggetto stesso dell'articolo. ZANzZI, Cronache torinesi. L'Esposizione Interregionale della Promotrice di B. A., Emporium Rossi sulle pagine dell'Italia letteraria sottolinea  come G. sia ormai “teso a tutt'uomo alla ricerca di costru-  zioni personali Rossi, Una mostra interregionale, in L'Italia  letteraria, mentre Zanzi, sulla Gazzetta del Popolo, rileva come la distanza tra allievo e maestro  sia ormai sensibile sia da un punto di vista cromatico che formale:  G. - fa notare - sta liberandosi dai grigi e dalle  tristezze casoratiane e ora si esperimenta, con accortezza e con  gusto, nelle esperienze di Matisse e di Friesz Zanzil],  L'arte al Valentino. Mostra regionale del Sindacato delle Belle  Arti, Gazzetta del Popolo, Cfr.e.z. [E. Zanzi], Agli “Amici dell'Arte” pittori, scultori, ar-  chitetti, decoratori. La mensa degli avieri ideata da Balbo, Gazzetta del Popolo Sornini, Alla mostra Casorati II, in “Il Popolo di Pavia Cfr. G., Autobiografia Spadini e il gusto degl’impressionisti, L'Arte VENTURI, Il gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna Accanto all'impegno pittorico, piuttosto in crisi  in questo periodo (“per una dozzina d'anni, mi mossi  un poco a casaccio”), G. intraprende gli studi  universitari presso la Facoltà di magistero. Una scelta  che è dettata non tanto dalla sua ben nota passione per  le materie filosofiche o dalla sua curiosità  innata, ma più semplicemente da problemi economici che lo obbligano in fretta e furia a prendere una  laurea e ad iniziare l'insegnamento in istituti. La fine del suo percorso di studi, che si conclude con  una tesi sulla pedagogia della religione discussa con GAMBARO (si vda) ed ABBAGNANO (si veda), coincide con  la ripresa dell'attività di critico ma anche di saggista, che si fa particolarmente intensa e  che lo vede collaborare con le riviste Il Selvaggio ed Emporium. Al di là dell'abbandono della scuola di Via Gal-  liari, Casorati resta per Galvano un solido punto di  riferimento, non tanto come esempio figurativo o di  pratica pittorica da seguire, ma come rappresentate di  un modello culturale autorevole e indipendente pre-  sente in città. L'amicizia tra i due, avviata e riconfermata in più occasioni, sembra in  questo giro di anni intensificarsi ulteriormente, antici-  pando il sodalizio che porterà alla pubblicazione della  monografia per la collana “Arte Moderna Italiana” di  Scheiwiller nel 1940, dedicata integralmente al maestro. Incomincia a collaborare con Emporium occupandosi di curare la  sezione Cronache torinesi del mensile. Questo nascente incarico gli permette di affrontare e commentare l’attività artistica piemontese, confrontandosi con un universo legato ad una rivista nota ed ampiamente diffusa  e discussa. Casorati è sempre presente nei suoi articoli:  viene seguito passo passo da G. sia nelle vesti di  pittore che di organizzatore culturale, offrendo in special modo la propria attenzione all'impresa della galle-   G., autobiografia Intervista di Lanzardo a G. Da ascriversi sempre al rapporto con Venturi sono i tre volumi di G., apparsi per Nemi  di Firenze (L'arte egiziana antica; L'arte dell'Asia occidentale  e centrale; L'arte dell'Asia orientale), pubblicati nella  collana “Novissima enciclopedia monografica illustrata”. Casorati sa rispettare la personalità dell'allievo  anche quando non era affatto d'accordo sulla visione dell’allievo. Infatti quei pochi che sono venuti fuori tra i molti che ci sono Bonfantini, Chicco, Montalcini, ed io, ci siamo subito  allontanati da Casorati pur restando suoi amici, pur essendo sem-  pre aiutati da lui sul piano pratico per mostre ed esposizioni. [Ma Montalcini ed io siamo passati all’astrattismo, poi all’informale, tutte cose che Casorati ma non ci  ha mai tolto né la sua amicizia né la sua protezione. In questo è veramente un grandissimo signore, Intervista di Lanzardo  a G. G., Casorati, Arte moderna italiana Serie  Pittori Hoepli, Milano ria “La Zecca, avviata dal maestro a Torino insieme a  Paulucci in via Verdi Se appare piuttosto chiaro come G. tenti con i mezzi a sua disposizione di promuovere e sostenere l’amico Casorati nelle sue molteplici attività, il  maestro, dal canto suo, cerca di aiutare il suo ex-allievo  nel suo percorso di pittore. È lo stesso G. a dichiarare apertamente, molti anni più tardi, come la sua  affermazione al premio Bergamo sia in realtà frutto di  un aiuto arrivato dallo stesso maestro: “Casorati è  molto potente mi fa accettare al Premio Bergamo, mi fa sempre dare qualche premio, per cui mi  trovai agganciato. Presente con continuità G. si aggiudica per ben tre anni i premi in denaro del concorso. Solo nella seconda edizione non compare tra i vincitori, ma la sua opera viene  acquistata dal ministero dell'educazione nazionale a  titolo di incoraggiamento. È data alle stampe il saggio “Casorati” scritto da G.,  apparsa per Hoepli di Milano. Il saggio si inserisce all’interno dell’ambiziosa collana Arte Italiana inaugurata e  coordinata da Scheiwiller, immaginata per  raccogliere  uno dopo l’altro gli artisti italiani più  noti del tempo, attraverso piccole monografie illustrate, introdotte da un testo critico che viene di volta in  volta scelto dall'editore o dall'artista protagonista del  volume. In questo caso, è infatti Casorati a suggerire il  nome del giovane critico a Scheiwiller, incaricandolo  di aggiornare radicalmente la precedente edizione di  Giolli, ormai vecchia di quindici anni.  Il saggio di G. non si colloca,  all’epoca, come una novità di genere nella letteratura  artistica del pittore, ma rientra in un panorama già  piuttosto sedimentato di studi sul maestro, che si occupano di fornire uno sguardo complessivo sull'intera  produzione raggiunta sino a quel momento. Il volume   La collezione Della Ragione, in “Emporium, Torino. Maccari alla Zecca, Emporium, Torino.  Mostre alla “Zecca”, in “Emporium, Torino. Mostre alla Zecca, Emporium,  Intervista di Lanzardo a G. G., Felice Casorati, cit. Per uno studio sulla mono-  grafia si veda Botta, G. e Casorati. La mongrafia per la collana Arte Italiana di Scheiwiller,  tesi di specializzazione, Università degli Studi di Udine, relatore: Fergonzi. Giotty, Casorati, Arte italiana, Serie  Pittori, Hoepli, Milano. lo studio di Giolli,  infatti, limitava necessariamente l'indagine sull'artista. di Gobetti, che si propone come una rico-  struzione cronologica del percorso artistico (nonostan-  te la limitatezza della produzione casoratiana) apre la  strada a numerosi tentativi di interpretazione e ordi-  namento dell’opera del maestro, non limitati alle pubblicazioni di carattere monografico (il caso successivo  — come si è detto — è quello di Giolli) ma rintracciabili  anche all’interno di contributi meno estesi che, a partire dal saggio di Venturi uscito su  Dedalo, diventano sempre più frequenti nei tempi  a venire, anche sotto forma di presentazioni nei catalo-  ghi delle esposizioni. La critica contemporanea studia la produzione di  Casorati secondo principi e approcci molto differenti che, verso la metà degli anni Venti, tendono a farla  rientrare in quel processo di costituzione di un'arte  nazionale ufficiale: un’annessione ai pittori non pienamente condivisa dall'artista che è esplicitata nel saggio di Sarfatti apparso  sulla Rivista Illustrata del Popolo d’Italia e che contribuirà a determinare una lettura  della pittura di Casorati divisa “tra estetica e lettera-  tura”, destinata a rimanere ancora per molto tempo  identificativa del suo lavoro.   Intorno agli anni Trenta il lavoro di Casorati rientra già nell'ottica di una ricostruzione storica più ampia dell’arte italiana ed internazionale: le pubblicazioni  di Sarfatti, di Guzzi, di Costantini, di Brizio e  di Nebbia, esaminano Casorati secondo una prospettiva  generale (con le inevitabili ed ulteriori opinioni contraddittorie), ma sono tutte piuttosto concordi a identi- Gost, Casorati pittore, VENTURI, Il pittore Casorati, Dedalo Mostra individuale di Casorati, Esposizione  d'Arte, Venezia, catalogo della mostra, Venezia, Ferrari, Venezia PACCHIONI, Casorati, in Exposition d'’artistes italiens  contemporains, catalogo della mostra (Ginevra, Musée Rath), Foa, Torino, Rossi,  Felice Casorati, in Artistes Italiens, exposition, catalogo della mostra (Ginevra, Galerie  Moos), Richter, Ginevra BERNARDI,  25 opere di Felice Casorati nel salone de La Stampa, catalogo della  mostra (Torino), La Stampa”, Torino. Per una ricognizione sulla fortuna critica  Casoratiana si veda P. THeA, La critica e Casorati: profilo e antologia,  in LAMBERTI, Fossati, Casorati, catalogo  della mostra (Torino, Accademia Albertina), Fabbri, MilanoSARFATTI, Pittori. Felice Casorati, in Rivista illustrata del Popolo d’Italia In. Storia della pittura moderna, Cremonese,  Roma; Guzzi, Pittura italiana contemporanea. Origini e aspet-  il, Bestetti & Tumminelli, Treves, Roma-Milano; COSTANTINI, Pittura italiana, Ulri-  co Hoepli, Milano; Brizio, Ottocento Novecento, Utet, Torino NEBBIA, La pittura, Società editrice  libraria, Milano ARTE MODERNA ITALIANA G. CASORATI HOEPLI.  MILANO EDITORE  Casorati, Ulrico Hoepli, Milano ficare nell'opera del medesimo una tendenza interna e  personalissima alla corrente novecentista. Le difficoltà nel rintracciare una linea condivisa  per la sua arte era già stata evidenziata da Debenedetti (filosofo torinese, come Gobetti, prestato anche lui alla critica d’arte) con l'articolo Casorati  e la critica d'arte, nel quale sottolineava come L'arte di Casorati pare fatta apposta per isconcertare gli schemi che la più scientifica critica d'arte s'è  data come sicuri oramai ed incontrovertibili, evidenziando nelle conclusioni tutte le contraddizioni di  una generazione: “Linea, dunque, no: forma plastica,  no: colore, no: o quanto meno né la linea, né la forma,  né il colore intesi come schemi esclusivi ed esaurienti, nell'accezione data dai critici, che di quegli schemi  si sono fatti, non pure gli interpreti, ma i banditori. E  questa è l’involontaria polemica del Casorati contro la  critica d’arte.   Davanti a questo insieme di opinioni e approcci differenti, G. si dimostra sin da subito molto  perplesso verso i suoi predecessori, affermando in  maniera categorica come Ciò che è mancato più ad  una critica concludente su Casorati è appunto una  comprensiva ‘lettura’ delle sue pitture, e sintetizzan- DEBENEDETTI, Casorati e la critica d'arte, L'Italia letteraria G., Casorati do poi, nelle prime pagine della monografia, i termini  di questa fortuna critica che è anche incomprensione sedimentata verso l’artista, almeno fino alla metà  degli anni Venti: Casorati ha goduto di un momento di fortuna quando la  sua pittura, forse proprio perché meno urtante a prima  vista di quella di altri pittori di avanguardia, ebbe tutti  i suffragi e specialmente a quelli della critica che voleva  essere alla pagina, ma salvando il rispetto per la tradi-  zione [...] Erano i tempi in cui la pittura del novecento  appariva come uno sforzo neoclassico in polemica con  l’arte futurista da una parte, con l’aneddotismo elegante  dall'altra, la pittura di Casorati ha una sua  funzione in Italia per liberare il medio pubblico dagli en-  tusiasmi per Grosso, per Sartorio, per Dall’Oca Bianca. Rispetto ai precedenti studi la posizione di G. è fin da subito ben chiara: risiede nell'approccio  preferenziale con cui affronta l’opera di Casorati, total-  mente inedito sino a quel momento, che viene ribadito  in più punti della monografia.   In apertura del volume il critico-pittore sottolinea  come la sua analisi non si circoscriva a una rilettura  analitica e distaccata della produzione casoratiana, ma si sviluppi attraverso una consapevolezza fondata sul  ricordo della propria formazione: Casorati pittore scrive richiamandosi ai suoi rapporti col maestro è  stato per molti della mia generazione una esperienza  di importanza capitale in ordine alla formazione del  gusto e all'orientamento di una cultura non soltanto  limitata a fatti di specie figurativa. La pratica di di-  scepolato presso di lui e la frequente consuetudine  di Casorati uomo, hanno valso ad alcuni di noi come  un'esperienza fra le più profonde e decisive anche per  quanto riguarda la vita morale. L'insegnamento di Casorati, oltre a fornire una  solida base di rudimenti pittorici insieme agli stru-  menti per uno sviluppo individuale delle personalità  artistiche, è la chiave sempre secondo G. per  la comprensione stessa dell’opera del maestro, chiarita  metaforicamente in un passaggio del testo. Casorati  è uno di quei pochissimi artisti che dopo il rapimento delle muse non rimangono incoscienti di quanto  in loro è avvenuto; lo capiscono ed aiutano a capirlo  agl’altri. Un concetto che viene ribadito, in maniera  ancora più chiara, verso la fine del suo lungo contributo per Scheiwiller. Non molti di noi allievi hanno  saputo da quelle parole imparare a dipingere decentemente, ma certo tutti a leggere i suoi quadri un poco  meglio.   Con queste premesse G. vuole dimostrare come la vicinanza al maestro gli permetta di avere una visione privilegiata, lucida e fedele del suo lavoro,  elevando la lettura delle opere ad un’originalità vicina  alle intenzioni del maestro, più di quanto gli altri possano avere. Al di là degli schieramenti e dei tentativi di categorizzazione che, a più riprese, hanno interessato il lavoro di Casorati tra assimilazione al gruppo novecentista, ascendenza neoclassica o, ancora, appartenenza  alla poetica metafisica, G. sceglie il sostantivo platonismo per riassumere gli esiti figurativi ottenuti dall'artista, un’indicazione che gli permette di liberarsi da ingombranti etichette sino a quel momento attribuite all'opera del pittore. È un'affermazione di Casorati a suggerire a G. le basi per un'interpretazione platonica delle sue  opere: il critico recupera esplicitamente una dichiarazione del maestro espressa a margine  di un catalogo della Galleria Pesaro, nella quale chiarisce le proprie intenzioni quasi programmatiche di  esercizio pittorico. Dipingere la verità, dimenticando  la realtà superficiale. Un concetto che viene successivamente ribadito da Casorati, spogliato delle sue implicazioni categoriche (rinnegate in un secondo tempo  dallo stesso pittore) in una successiva dichiarazione,  riportata nel catalogo  della prima Quadriennale romana, con la quale l’ar-  tista sottolinea ancora una volta come il suo distacco  dalla realtà dei soggetti sia prerogativa fondante del  suo lavoro: la mia pittura è staccata dalla vita.  La posizione platonica di G. pone il lavoro di Casorati in netto contrasto con la pittura degli  Impressionisti (che godono invece di una notevole for-  tuna, verso gli anni Trenta, a Torino), collocando il movimento francese e il maestro torinese su due fronti opposti sia da un punto di vista lirico che tecnico: un sto di Casorati preferiremmo ad ognuna quella di platonismo. Casorati, [Dichiarazione], in Arte italiana contemporanea,  catalogo della mostra (Milano, Galleria Pesaro), Alfieri & Lacroix, Milano Scritti interviste lettere, cura di Pontiggia, Abscondita, Milano Scrissi allora nel catalogo alcune parole per spiegazione  del mio lavoro e quasi per contrappormi all'arte di quel tempo:  affermavo di voler dipingere la verità, dimenticando la realtà  apparente; di voler indulgere agli errori che spesso sono la sola  ragione dell’opera d’arte. Queste parole furono definite un’eresia estetica; in fondo, però, esse volevano spiegare il carattere di  immobilità, di impassibilità dei contorni decisi di forma, in con-  trapposto al più o meno degenere impressionismo di sfarfalleg-  giamenti colorati, di indecisione ottica, di ricerca del movimento  nel vibrare continuo della luce CASORATI, in G. MascHERPa [a  cura di], Casorati e il religioso, catalogo della mostra [Milano,  Galleria San Fedele, Milano, Milano CASORATI, Presentazione, Arte nazionale, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle esposizioni), Pinci, Roma Scritti interviste  lettere, E infatti se dovessimo trovare una parola per definire il gu- IN  rifiuto che è categorico e si muove sulla falsariga delle indicazioni già enunciate dall'artista nella citata presentazione: “non ho mai capito il movimento qui déplace les lignes’, e adoro invece le forme statiche la mia pittura nasce, per così dire, dall'interno e  mai trova origine dalla mutevole ‘impressione’ }° consi-  derazioni che vengono caricate di significati filosofici,  anche in questo caso, da G.:  Al protagorico impressionismo per cui misura di tutte le  cose è l'uomo individuale, si contrappone dunque il platonico Casorati richiamandoci all'ordine di una pittura  dove le cose appaiono reali in quanto hanno la maneg-  giabilità di ciò che dal flusso delle sensazioni è ritagliato  per opera dell'intelletto. Scodelle o uova, teste o seni varranno come categoria. Al degenere impressionismo Casorati contrappone, secondo G., i suoi caratteri di immobilità,  di impassibilità, di contorni decisi, di forma. Alle premesse teoriche fanno seguito le prime  verifiche sulle opere che, a differenza dei precedenti  Studi, non seguono uno sviluppo strettamente cronologico ed organico della produzione casoratiana, ma si  Muovono più liberamente, procedendo secondo l’andamento del discorso. Come nelle antecedenti occasioni di studio, l’ini-  z10 dell'attività pittorica viene fatta coincidere con le  Opere che gli valgono le prime attenzioni da  parte della critica alla Biennale di Venezia ed alla moStra degl’Amatori e Cultori di Roma. Le considerazioni che investono il dipinto Le vecchie e La cugina sottolineano nelle ricerche di Casorati un senso drammatico della vita teso in un’acuta analisi psico-  logica in cui non manca una punta di sensualità, Ma temperata in una specie di serenità letteraria, Motivi che si pongono in continuità con le formulazioNi espresse in precedenza sia da Gobetti che da Ventu-  Il, attenti entrambi a rilevare l’attenzione psicologica  ed il senso letterario di queste prime composizioni. Il salto a questo punto si fa subito brusco: l’esclu-  Silone di tutta la produzione degl’anni della guerra, che coincide con il suicidio del padre di Casorati e con  le nuove responsabilità di capofamiglia verso le due sorelle e la madre, è in linea con le volontà dell'artista,  che sceglie di non conservare le opere di quel periodo, contraddistinte da un simbolismo e sintetismo decorativo piuttosto anomalo. G., Casorati, (Bertolino, Poli G., Felice Casorati, Cfr. Gobetti, Casorati pittore, VENTURI,  Mostra di Casorati,  Esposizione d'Arte della Città di Venezia, cUn passaggio su Le signorine, che libero questa volta da preoccupazioni di ordine realistico  ed orientato verso una completa subordinazione alla  composizione, permette a Galvano di transitare direttamente su Tiro al bersaglio, anticipando i  problemi di annullamento della terza dimensione già evidenti nel dipinto. Per G. Tiro al bersaglio rappresenta un’opera  cruciale, da cui parte tutta la produzione più celebrata  dell'artista, quella del periodo immediatamente sucCESSIVO: l’opera significativa Tiro al bersaglio. In essa il  colore e la linea collo scomparire di ogni ricerca della terza  dimensione assumono per la prima volta una organicità che  è davvero il segno dell’impostarsi nella pittura di Casorati  dei problemi di cui anche oggi essa si nutre. Ridotto il qua-  dro, colla completa scomparsa delle ricerche chiaroscurali  e mancando ancora l'ulteriore ricerca spaziale, ad un semplice tappeto di tinte piatte, si comprende facilmente come  linea e colore divengano funzione l'uno dell'altro, tendendo  a uno stato in cui la visione inquietante del pittore raggiunge uno dei più intensi suoi momenti Il dipinto, in realtà, aveva sino a quel momento  goduto di una fortuna alterna: tacciato di futurismo  nella prima presentazione pubblica è per  Gobetti un’opera dai rapporti formali indecisi ancora legata alla produzione dalla prima metà degli  anni Dieci, un lavoro insomma, che Casorati realizza  come prova per testimoniare a se stesso la fine del  suo estetismo e la sua incapacità di fermarsi ormai  all'episodio. La rivalutazione di Tiro al bersaglio,  nei fatti trova, prima di G., un precedente mol-  to prossimo all'uscita della monografia Scheiwiller:  Cremona (anch’egli vicino a  Casorati, pur non essendo mai stato allievo della sua  scuola), in maniera analoga a G. ragiona sull’importanza del colore e sul principio di astrazione presente nel dipinto, che anticipa le opere più compiute e  celebrate degli anni Venti: sottrarre le cose dai variabili accidenti della luce per penetrare invece il colore secondo un processo di intelli-  gente astrazione. In quella curiosa vetrina di oggetti  vivono infatti quei bianchi spettrali, quei colori —finti-, che sovente ritroveremo nell'aria rarefatta dove respirano le sue figure, anche quelle delle parate familiari  che Casorati ha sovente composto con sincera affettuosità ma che appaiono pur sempre affacciate a una ribalta,  in uno scenario freddamente preordinato, sul mondo  dal quale l’artista le ha volontariamente allontanate. Bertolino, Poli Bertolino, Poli G., Casorati, GOBETTI, Casorati pittore, CREMONA, Felice Casorati, in “Primato. Lettere e arti d’Ita-    La rivalutazione del dipinto si pone verosimil-  mente in linea con le volontà dello stesso Casorati: l’o-pera, che trova collocazione stabile nell’abitazione dell'artista, è ripresentata ad una mostra  degli allievi e riprodotta per volere dello stesso mae-  stro come prima tavola nella monografia Scheiwiller.  Un interessamento che viene letto da G. come un  segno che una pittura senza volume ed una pittura di  colore sembra ancora a Casorati rivelatrice del senso  profondo della sua arte. Le opere aprono la discussione sulla funzione e l’importanza del colore per  Casorati, che viene ampiamente discussa nel testo e  che caratterizza da qui in poi tutta la monografia come  lettura univoca del decennio successivo. Accanto ad  una premessa platonica, che si confronta nuovamente con le opere Meriggio, Lo studio e Concerto, allontanandole da facili letture estetiche, G. vede in quegli slarghi formali di pittura un  anticipo d’un’esperienza di tono che è chiarissima. Contrapponendosi alle interpretazioni che vede-  vano nella linea e nella forma plastica le caratteristiche  fondanti dell’opera di Casorati G. valuta la pittura del maestro come una pittura essenzialmente di  colore,” spingendosi a verificare le intenzioni dell’artista e giustificare la scelta di determinati soggetti e forme piuttosto che altre, proprio in funzione del colore: Vi sono dei quadri di Casorati, e talvolta proprio i più  formali a prima vista, come Daphne che non si  afferrano in tutto il loro valore se non riferendoli al colore. Casorati ama le forme semplici perché sono quelle  che permettono al colore di stendersi con la sua migliore ampiezza. È strano come questa semplice verità sia  stata tanto spesso fraintesa, non mancando del resto di  contribuirvi la stessa interpretazione che il pittore ha  dato della propria opera”. Una sensibilità tonale che  porta il critico ad accostare come esempio di ‘“straordi- lia”, è quanto mai significativo a questo proposito il fatto che  il pittore abbia tenuto in tempi recenti non lontani ad esporre, ad  introduzione e quasi chiave di sue opere più recenti, quel ‘Tiro  a segno’ piatto e ritagliato fra tutti che volle anche ad inizio di  queste riproduzioni G., Casorati, Il nudo e gl’analoghi Concerto, Meriggio, Studio, ci  presentano un mondo che si presta ad essere interpretato in modo  equivoco, come estetistico, da chi non tenga presente che per Casorati quelle platoniche accolte di figure femminili ignude, anche  se esse presentano molta eleganza, non hanno veramente valore  per questa eleganza ma solo per lo snodarsi ritmico dei volumi Cfr. (Bertolino, Poli G., Felice Casorati, La forma serve a distruggere la linea ed a passare al  colore: essa è, se si vuole, il punto di partenza, ma è proprio il  colore è il punto di arrivo Bertolino, Poli. G., Casorati, ARTE MODERNA ITALIANA CASORATI  II ed. del volume Casorati, Ulrico Hoepli, Milano. nario pre-casoratismo” l’opera di Vermeer e diTour piuttosto che quella di Ingres, riferita  dallo stesso pittore come modello di riferimento alla  propria pittura nel “Referendum sul quadro storico. A sostegno di questa sua tesi sul colore G.  recupera ancora una volta i ricordi dell’insegnamento  del maestro, affrontando questioni di metodo e di pratica pittorica vissuta nello studio dell'artista, dove l’osservazione dei modelli veniva condotta non tanto sulla  forma degli oggetti, ma sui valori tonali dei medesimi: ci limiteremo a notare come quanto resti nel ricordo di  chi è stato alla scuola di Casorati verta essenzialmente  su due punti: l'insieme e il tono. E soprattutto l’insieme come forma il più sintetica possibile in funzione del  tono. La forma intellettualistica di un oggetto, proprio  ciò che interessa di più al pittore formale o classico, è ciò  che Casorati consiglia all'allievo di disimparare, la for-  ma che l'allievo deve imparare a vedere il più semplice-  mente possibile è la forma di quella determinata massa  tonale, di quella determinata massa chiaroscurale, non  la forma dell'oggetto. CASORATI, [Risposta al referendum sul quadro storico Le arti plastiche; Scritti interviste  lettere, .G., Casorati, cit., p. 14. Analoghe impressioni  sì ritrovano in L. RoMAnO, La scuola di Casorati, in L'Arte La discussione sul colore offre a G. il punto  di partenza per affrontare le influenze cézanniane che,  secondo una critica assodata ormai da tempo, avrebbero avuto un ruolo capitale nell'evoluzione del lessico  pittorico casoratiano, soprattutto per il genere della  natura morta. È Venturi a offrire per primo quest'interpretazione, individuando nell'esperienza diretta  di Casorati alla Biennale, dove, su dipinti  di Cézanne presenti, sono ben sette le nature morte,  il passaggio di svolta tra Le uova sul tappeto verde e Le uova sul cassettone: Le uova sono un motivo di bianco su verde, le uova sono un motivo di forma geometrica solida e  chiara sopra un volume scuro. Per G., l'avvicinamento al maestro di Aix  è da intendersi come esperienza più morale che  pittorica, nella quale l'evoluzione delle sue natu-  re morte rappresenta un processo interno alla pittura stessa piuttosto che il risultato di quest’incontro. Uova sul cassettone non si spiega con un riferimento  al costruire tonale del Provenzale nella sua essenza stilistica, puntualizza G., ma solo col metterlo  In relazione a quello che la pittura di Casorati fu prima  d'allora Secondo il critico, più che un precedente stilistico, la lezione di Cézanne offre la verifica di nuove  possibilità espressive; un punto di vista che trova conferma più tardi nelle stesse dichiarazioni del pittore,  che ripercorrono l’incontro con i dipinti alla Biennale: Tutta la grandezza del Maestro di Aix mi si manifesta improvvisa. L'emozione che ne provai fu enorme e non fu  un'emozione di sbalordimento o di stupore, che anzi mi  sentii preso da quel senso di calma, di fermezza, di equilibrio, che solo le opere dei grandi può dare. Equilibrio!  Compresi che nella sua pittura trovava il giusto equilibrio il  problema posto e sviluppato in un senso dell'Impressioni-  smo e il grande opposto risolto da tutta la tradizione; compresi l'aberrazione di una certa critica che non si staccava  di insistere sui problemi di Cézanne: capii che proprio, che  Specialmente in quei difetti è il germe della sua grandez-  Relativamente a questo genere si vedano Fossati, Nature  morte di Casorati, LamBERTI (a cur.), Casorati. Mostra  antologica, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Electa, Milano BERTOLINO,  Dal repertorio di oggetti alle prime nature morte PoLI (cur.), La natura morta nella pittura di Casorati, catalogo della mostra (Iseo [Brescia], Sale dell’ Arsenale, Electa, Milano VENTURI, Il pittore Felice Casorati, Dedalo, Bertolino, Poli; relativamente alle opere si veda  In particolare LAMBERTI, Scherzo: uova (o Le uova sul tappeto  verde) e Le uova sul cassettone, Fossati, Casorati VENTURI, Il pittore Casorati, Dedalo G., Casorati za. Compresi che Cézanne è il pittore della rinuncia e che   la rinuncia è la forza della pittura. Non cambiai  modo di dipingere, ero troppo inconsciamente orgoglioso  per tentare un cambiamento di rotta che non avrei potuto fare in alcun modo. Credetti allora di approfittare della  grande lezione di Cézanne proprio irrigidendomi sulle  mie posizioni e cercando solo in profondità. La monografia Scheiwiller, pensata per aggiornare la precedente di Giolli, in realtà affronta solo marginalmente la più recente produzione del maestro, sostenendo per le opere più prossime la piena attuazione del  proposito coloristico în nuce già nei primi anni Venti.  Ai ricordi della Biennale, e soprattutto a  quella, G. contrappone le opere esposte nei primi anni Trenta: per La lezione, Susanna e Lo straniero pone l'accento su come prevalgano in questi dipinti certe note di rossi improvvisi,  il taglio in controluce, il gusto, almeno nei due primi, di  accostare il nudo ad una figura maschile vestita, un desiderio di atmosfera serena che suggerisce lontananze  chiare e assolate. Motivi pittorici che, spogliati degli  elementi accessori (come la copertina del Selvaggio  nella Lezione o, ancora, le pantofole rosse di Susanna),  trovano un'ulteriore compiutezza in Daphne e  Ragazza in collina” delle collezioni dei Musei Civici di  Torino, soluzioni più aneddoticamente umane dove il motivo del controluce sulla finestra aperta so-  stituisce figure familiari o umilmente umane ai mani-  chini, mentre il paesaggio si fa sereno [...] ricavato da  quei campi di Pavarolo ormai cari all’artista”.  Come già sottolineato da Maria Mimita Lamberti,  l'apporto di G. si dimostra poi piuttosto illuminante nell'individuare nel tema del nudo una possibile linea  di lettura della sua produzione, sino a quel momento trascurata rispetto al genere più discusso della natura morta.  Il passo è riportato in Caruccio, Casorati, quaderni  d'arte del Centro Culturale Olivetti, Ivrea, All'insegna del pesce  d'oro, Milano Noi veniamo dall'esperienza della generazione per cui i  quadri rappresentarono lo scandalo che  ancora confonde la classicità coll’accademismo e che scorgeva  in quei quadtri, visti alle esposizioni colla famiglia deplorante o  pronta al riso di fronte alle stranezze dell'arte moderna, pur qualche cosa di inquietante e di tentatore che non si poteva dimenticare i quadri della biennale  rappresentarono invece  la scoperta del mondo nuovo e spregiudicato che si apriva alla  nostra cultura G., Casorati, Bertolino, Poli, Erroneamente G. attribuisce il titolo Lo studio al dipinto La lezione esposto alla Biennale. L’opera verrà distrutta nell'incendio del Glaspalast di  Monaco. G., Casorati (Bertolino, Poli). G. indica il secondo dipinto con il titolo Estate. Cfr. A. G., Felice Casorati, LAMBERTI, I nudi nello studio, in (cur.), Casorati. Mostra antologica, G. vi riconosce una traccia di continuità che,  a partire dalle Signorine, opera che, secondo il  critico, non è d’intendersi come gruppo SINTAGMA (cf. I LOTTATORI della TRIBUNA di Firenze) ma come  insieme di figure isolate), arriva sino alla Venere bionda, punto di arrivo e di dissoluzione di quello  che si potrebbe chiamare il tonalismo di Casorati secondo G. il motivo del NUDO in Casorati si  presenta come figura essenziale, come una forma elementare, categorica, simile a quelle delle scodelle, delle  uova, dei libri”, caratteristiche che, alla pari dei semplici oggetti che popolano i suoi dipinti, permettono  quegli slarghi formali di pittura, oltre alla possibilità di un tono uniforme capaci di confermare la sua  sensibilità di colorista. Il saggio di G. su Casorati viene ristampata, aggiornato in alcune sue parti e rivista totalmente per  quanto concerne l'apparato iconografico. Tra la prima uscita e la riedizione, l’interessamento che il discepolo dimostra nei confronti del maestro  è continuo e si attesta con modalità simili a quelle che avevano contraddistinto il suo precedente impegno sulle riviste nazionali. Vi si  affiancano però nuove prospettive lavorative. Accanto alla sua attività di pittore e di critico che in questi anni, oltre alla corrispondenza per Emporium e alla collaborazione per Il Selvaggio, si  amplia con due contributi sulla rivista Le Arti, G. è impegnato nella nuova veste di assistente alla  cattedra di pittura di Paulucci presso l’accademia Albertina di Torino, assegnata contestualmente  anche a Casorati per l'insegnamento di composizione pittorica. Incarichi che vengono entrambi  costituiti ad personam dal ministero dell'istruzione nel  contesto dei provvedimenti avviati da Bottai a favore  dell’accademie artistiche. Sono questi, inoltre, gli  anni nei quali G consolida una sicurezza  economica stabile tanto auspicata grazie all'insegnamento nelle scuole: prima  come professore di figura disegnata nei licei artistici  piemontesi e poi, come docente di FILOSOFIA nei licei classici.   La mostra Casorati Menzio Paulucci, inaugurata alla Galleria Cigala di Torino, è l’oc-  casione per tornare a parlare di Casorati sulle pagine di  G., Casorati,  cfr. (Bertolino, Poli). sa: Casorati, Arte moderna italiana, Serie Pittori, Hoepli, Milano. Cfr. Darmasso, Casorati e l'Accademia Albertina, in LAMBERTI, Fossati, Casorati Copertina e pagine del volume Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Carlo Accame, Torino. Emporium”, presente in questa circostanza con due  pittori torinesi protagonisti della scena artistica cittadina (reduci entrambi dall'esperienza del gruppo dei sei, sicuramente vicini a Casorati ma mai allievi diretti del maestro: Menzio  e Paulucci, con il quale  Casorati intraprende da tempo un rapporto di stretta  collaborazione.  Il sodalizio dei tre artisti, che non vuol essere un  principio di ricerca comune ma piuttosto un impegno  di politica culturale condivisa, si ripropone più tardi,  in modo analogo, con una mostra allestita alla Galleria Genova del capoluogo ligure. La  circostanza è anticipata da una pubblicazione autonoma di G., intitolata Tre nature morte e stampata  dalla tipografia Accame di Torino (che pubblica, nello  G., Casorati, Menzio, Paulucci, Emporium”, la monografia su Casorati di Cremona), in un elegante edizione in folio che riporta come  Sottotitolo i nomi dei tre pittori torinesi. In questa occasione che si propone di presentare sinteticamente  tre opere dei rispettivi pittori, con tanto di riproduzioni a colori G. sceglie la natura morta come genere esemplificativo della produzione degli stessi. Un'operazione che nell’introduzione viene definita  come didattica e che si pone in aperta polemica nei  confronti della tendenza a considerare questo genere  come motivo poco adatto alla pittura moderna: ad  Ogni esposizione abbiamo sentito deplorare l'eccessiva  presenza di nature morte o esaltare per il loro scomparire di fronte ai quadri di figura. Una difesa per l'autonomia e dignità del genere pittorico, che non si  risparmia nel chiamare in campo i precedenti noti di Cézanne, Manet ed ancora Renoir. La questione non è nuova, ma prende  le mosse da un pensiero espresso dal maestro anni prima, che rappresenta verosimilmente il  pretesto per il contributo di G., che mostra questo taglio così inaspettato. Sulle pagine del quotidiano  torinese La Stampa, Casorati lamentava nell’artico-  lo La crisi delle arti figurative i medesimi problemi di  accettazione della natura morta da parte di pubblico  € critica, con presupposti che sembravano essere gli  stessi avanzati ora da G. nella sua introduzione: Ho sentito dire ed ho letto purtroppo parecchie volte  questa frase: troppe nature morte, troppe mele, troppi  aranci, troppi pomodori ecc. poveri oggetti, vo1 siete i modelli più docili e più esigenti degli artisti  Nei momenti più disperati della mia vita di arti-  Sta, io ho potuto riconciliarmi con la pittura dipingendo umilmente una scodella, un uovo, una pera. La scelta della natura morta casoratiana  verosImilmente selezionata da G. ricade su Le pere  verdi, presentata probabilmente per la prima  volta in questa sede: un’opera che gli permette di riba-  dire il principio coloristico sostenuto nella monografia, che viene qui chiarito con un'attenta analisi Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Carlo Accame,  Torino La presentazione di Nature morte, dovute a tre fra i più  autentici pittori operanti oggi a Torino, potrà anche apparire, ed  essere criticata, come una iniziativa a carattere tendenzioso e polemico. Non sarà forse il caso di affermare che essa ha piuttosto  un intento didattico? E proprio di educazione del pubblico: degli  intelligenti (almeno in potenza, chè degli ostinati per limitazione  Naturale di possibilità, per passione di parte o per difficoltà di  Sclogliersi da presupposti culturali privi di validità non occorre  Hr a comprendere le ragioni per cui, su di una falsa impo-  azione di presupposti, può passare per atteggiamento polemico, peggio, di conventicola, il semplice intento di chiarificazione  Intellettuale e critica” (Ivi, p.n.n.). i CASORATI, La crisi delle arti figurative, La Stampa, Scritti interviste lettere, cit., Bertolino, Poli.  CY della sua pittura (non priva di tecnicismi del mestiere), che si concentra sui valori tonali e sugli accordi  cromatici presenti nel dipinto, che sottendono sempre  secondo G. a problemi ed equilibri di natura  compositiva:    Sul fondo rosa e paglia un accordo di due verdi: crudo e  spento, e le chiazze rugginose e calde della putredine che  intacca i frutti; solo dal colore prende realtà il fascino di  questa natura morta, eppure il colore qui non evocherà a  nessuno la categoria della forma aperta o la scioltezza di  un pittoricismo abbandonato: chè Casorati è anche ora il  pittore delle forme assolute e degli elementari geometrici,  ma il colore ne rivela, per distinguersi dei campi continui e  dilatati, la purezza, anzi il purismo, di impaginazione e ce  ne propone la più castigata presenza. i colori si subordinano ad una ragione compositiva  a priori in essa si giustifica quel disporsi graduale di  intensità pittorica che può far apparire persino sordo (e  tale veramente sarebbe se non servisse a concentrare ogni  attenzione sull’interno ordinarsi del gruppo centrale, ma  pretendesse di disporsi sul medesimo piano di bel colore dei toni vicini) il colore locale; necessario a staccare nel  castigato e serrato gioco compositivo della frutta ritagliati  sul fondo chiaro, dove più i toni non si distinguono nella  vibrante luminosità, la bruciata profilatura delle foglie. Di respiro ben diverso, invece, è il contributo Casorati e i torinesi apparso sulla rivista Pattuglia di Forlì. Nel numero dedicato interamente alle arti figurative e curato da Testori, G. traccia un bilancio della situazione artistica torinese: accanto a  considerazioni su Casorati in linea con la monografia  Hoepli, abbandona i ricordi della scuola di via  Galliari proponendo una lettura totalmente rinnovata,  alla luce dei più recenti sviluppi espositivi. Menzio e  Paulucci rappresentano qui (insieme agli altri sei, che però non vengono nominati) i pittori che  si sono stretti intorno a Casorati e che, seppur non  direttamente allievi dell'artista, non rinnegano il  debito contratto col primo ideale maestro, né sono da  lui sconfessati. Anzi la stima, l'amicizia e la valutazione  dei diversi ed ugualmente validi risultati, da parte del  più anziano rimanevano intatti od accresciuti. Una G,, Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Casorati e i torinesi, Pattuglia. La rivista, mensile del Guf di Forlì, viene  inaugurata e riporta nel sottotitolo la dicitura mensile  di politica, arti e lettere. Il saggio di G. viene pubblicato  nell'ultimo numero della rivista, curato Testori e intitolato “Omaggio alla pittura”, che si proponeva di fornire un  bilancio dell’ARTE ITALIANA. LA RIVISTA VIENE INTERROTTA E SEQUESTRATA DA MUSSOLINI per i suoi contenuti non in linea con le  direttive in campo figurativo imposte dal regime. 07 ee    (E I TORINESI)  E condizioni che determinarono a To- : sei anni dopo l'altra polemica fra  rino l'orientarsi della pittura degna L. Venturi, a proposito del  di quest'ultimo,  di eu- proposito del valore positivo  tentici pittori. Condizioni in cui la eri. tivo delle influenze parigine sull'arte  tica ai pose di per se stessa come po- ita'iana non ha significato diverso. Ora  lemica: © in cui da polemica fu l'one- Gobetti e Venturi sono appunto  stà stessa della critica. La guerra del tra | primi ad esaltare l'opera di Ca   è terminata. Lo stile libe- sorati. A dispetto danque delle av  ty » in architettura, il neo-pre-ralfuel- versioni del borghese e delle ammira  lismo tipo In arte libertas da cui zioni dell'aggiornato, che esalta insie  pure avevano mosso î primi passi pit- e Carrà 0 © Casorati, l'e  tori validi come Modigliani e Spadini figurativa di quest  uveva esaurita ogni pretesa alla forma- —srebbe un significato diverso, e in certo  zione di una coscienza figurativa nella senso opposto, n quello in cui si è  banalità di un'acquiescenza in cui i svolta la comune esperienza della più  fermenti di possibilità che più tard' vi viva pittura italiana? In parte si deve  scoprirà l'accorto senso del « perver- rispondere affermativamente  pEr eg sai 16 gin   lettuale per quello Hgurativo sano  ogni evasione dal fatto pittorico, E che sioo al 1928 la pittura di Casorati  quanto per queste esperienze avveniva anche nelle punte di estrema avanguar-  ordine a le possibilità della linea cur-.ija come in certi distrutti. di-  me di questo è quel complesso frea- —pinti, n quanto si dice. sotto l'influenza F. Casorati: “Ragazza,. diano avveniva, in modo anche più vol- gel gusto di Kandiski, cerca i proprii  gare è fatuo, mancati Sant'Elia e Boocio riferimenti non in un mondo mediterra-  : ma in uno nordico {quasi a fedeltà    i  H  È  È;  i  figurativo di Martino Span-  Torino poi: Thover seguitava a eredere viti e di Defendente Ferrari che guard    Memet o di Bestlovea, a confeadero assai più che quello, volto verso il l'eleganza lineare di MODIGLIANI (si veda) con di Gaudenzio), non in un'umanità  l'imperizia del bambino (e se mai si assertrice di proporzionata statura mul sarebbe dovuto rimproverargli un'ele- rondo det orizzonte, ma nel  panza sin troppo vicina preoccupazio- tormento di sentirai oppressa da È  ni ostetistiche e contenutistiche simili amine mirror  quelle che limitavano fl eritico) inau- ciò di dramma per la propria persona,  guraodo quella tradizione di contenu- in quanto finita, Il sottile linguaggio  tismo ad oltranza e di cauto e garbato, formale, la ricerca d'equilibrio compo- ma fondamentalmente deciso, fin de sitivo, l'astratto rigore della sintesi po-  non recevoie » mel riguardi di una vi- Loveno sì! suggerire, insieme @ certo  conda pittoricamente valide a cui si at- codenze illustrative (i libri aperti, i  tiene con un'ostinazione che ha per io csrtigli) o agli accorgimenti ‘tecnici,  meno 2 merito della consequenzialità come l'uso della tempera verniciata, ri-  quel poco di csi valga la pena di rorimenti al quattrocento, mostro. sn  menzione della critica d'arte del quo- non poteva sfuggire ad ‘una  tidiani oggi ancora a Torino. più accorta l'assoluta continuità spi-  Un panorama, come si vede, sostan- rituale che legava il mondo d'allusioni  rialmente simile a quello del resto crepuscolari è le eleganze cstotizzanti  d'Italia, in cui tuttavia, in quegli delle « Vecchie» o delle Signorine  anni dell'immediato dopoguerra, Tori. attraverso 1 paradossi pseudo-formali  ba ipo ipa delle  Scodelle è delle Uova nella  maniera particolare e gerto senso, doppia redazione, a tappeto ed s vo-  fispetto al resto d'Italia, polemica, su tume. a questo muovo mondo di non  di un doppio piano, intellettuale e figu: 1meno quintessenziate definizioni umane  Rene a pi o spaziali, anche se nel silenzio di  IO) essere esemplificata PO quelle quinte prospettiche ora quei pro-  sizioni reciproche de La Ronda fili proponessero le loro cadenze non  di rivoluzione liberale. Cinscuno più per la via analitica dei compisci  vede quanto diversi gli orientamenti menti particoleristici, ma per quella  umani e culturali. Ma è tipico che pro? delle sintesi ellittiche.  prio fra Cardareti un'occe. Eppure una così diversa afferma-  sione polemica, su Leopardi, porta a zione in ordine a scoperte pittoriche,  una discussione do andava ben una tanto dialettica decisione nel de-  oltre i termini della cortesia. Siamo nel finire il proprio mondo indipendente. Casorati: “ Bambina. Casorati e i torinesi, Pattuglia, lettura della scena artistica cittadina che esclude totalmente i primi discepoli dell'artista che continuano  nel frattempo a dipingere ed esporre, non solo a Torino  preferendo invece soffermarsi poi sull’anomalie figurative intese rispetto al tracciato casoratiano proposte da Spazzapan e  Cremona. Il rapporto tra allievo e maestro, che è innanzitutto di amicizia, rimane solido negli anni a seguire,  nonostante le scelte di G. si avviino, nel frattempo, verso un fronte non figurativo della pittura, che lo  vedono abbracciare l’astrazione ed aderire al “Movimento Arte Concreta”, fondando insieme  ad Biglione, Montalcini, Parisot, Rama e Scroppo la sezione torinese del gruppo. Accanto alla sua attività di critico militante, più  orientata verso le verifiche nel frattempo ottenute con-  testualmente in pittura, tornerà solo raramente ad interessarsi di Casorati, soprattutto in occasione di letture complessive e bilanci di un'epoca, che sembra ormai  essere lontana nel tempo  Cfr. G., Casorati, CAIROLA (cur.),  ARTE ITALIANA del nostro tempo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche,  Bergamo, La pittura a Torino, Letteratura. Rivista di lettere e di arte contemporanea, La pittura, lo spirito e  mente da ricerche solo per certi riguar- questi sforzi d’uomini della cultura mona, Anch'egli amico di Casorati: ma pre riuscito a cogliere il momento di di parallele, grazie all'autenticità della universitaria e in tutt'altra la lezione che ne ha appreso. spontanen concretezza pittorica. Senza  realizzazione figurativa è della schiet ritorno! Un rigore, un'incisività, un'analitica nì- che del resto questo gli abbia impedito  tezza di linguaggio fantastico da essa Nasce così il gruppo dei sei: tidenza di segno, una predilizione per quell'accorta coscienza teorica della po-  presupposia, s'inseriva nel dialogo della Menzio, Chessa, Levi, Paolucci, Galanta quei profili nettissimi che gli permettono sizione di gusto in cui il suo mondo fi-  italiana di quegli anni con una © Jessie Boswell., Fntro e fuari le vidi dare evidenza allucinante d’inganno gurativo sì determina e del rapporti di  validità di proporzioni che tuttavia man. cende del gruppo, Francesco Menzio isivo alla riproduzione dei i og- esso col movimento surrealista, di  tiene integro il valore dell'esperienza risulta allora e tale si mantiene, come i: distribuiti poi questi in un ardine cui, per una curiosa e significativa  a della la personalità più dotata che fosse ap- di fantasia di rara coerenza suggest vicenda gli interessi destati a Torino  memoria 0 più rigorosa- parsa, da Casorati in qua, fra i pit- rispondere a furono proprio nella cerchia dei col  monte impegnata in un bilanelo della tori torinesi. Un mondo di compiaci- più profondamente che gene- laboratori dell'originariamente  pittura. Tutti da  Fanciullo ad- menti delicati, d’edonismo controllato rano l'inquietante mondo delle ansocia» sano Seleaggio, per brev'ora torinese  dormentato allo Studio  del © schivo, sceglie usa sun umanità d'ele- i oniriche e dei senza si ppunto, sino alle recenti realizzazioni, al Concerto »ne henno zione in volti di donne 0 di gnilicato, dei soprasensi di cui non si itettoniche, nella sede della società  nti i risultati più vivi. Poi el si bambini. Da questo punto di partenza dà lettura , ma  cl Ippica di Mollino) che tatti 1 suoli  hnocorse che i valori di tono e di ero appena le due esperienze opposte, ma frata» per via di quegli emblemi pit- lettori conoscono,  ma erano pur utilizzabili în assai più concordanti nella dissoluzione di ogni e- torici in cui però Cremona è quasi sem- G.  concreto discorso di quanto non si lamento estrinsecamente contenutistico,  facesse dagli epigoni del peggior otto- del rigoriamo formale casoratiano in-  cento. Si afferma che i Macchiaioli tu-, e del fervore cromatico de  rono fra gli artisti autentici della no- gl’impressionisti per-   stra tradizione; si riconobbe che un ar- misero a Menzio di scontare in puro  tista ostile o almeno appartato di fron- sollecitazioni pittoriche quei dati del  te a ricerche futuriste, metafisiche © sentimento, si defini una visione tanto  neoclassiche era un grande pit- personale quanto coerente dove la mu  i si riscopri l'im- sicalità del colore e la freschezza del  pressionismo. Îl necclassiciamo, nel È  È «po  vecento » milanese, che qualcuno git si che delicati non impedirono, anzi fa-  definiva nooromantico, sì innestava, con vorirono lo spiegarsi di una confes-  Tosi, in una tradizione di pittura a- sione umana piena di melanconica no-  perta. Soffici non più cubista predica biltà nel reiterato e come ansiosamento  ed esemplificava un ritorno alla natura interrogato indagare intorno alla con-  in cui l'esperienza di Cézaane non eselu- sistenza pittorica di quelle persone di  deva quella di Fattori: a Torino, do- drumma, così sottilmente lirico e di  ve già intorno a Casorati una scuola cosi pausate parole, che si muovona  tendeva a ridurre a grammatica il sua nelle composizioni famigliari di Menzio. figurativo, attraverso l’inse- Tanto Casorati che Menzio del resto  guamento universitario, Îl mecenatiamo qutt'altro che paghi o chiusi nell'au  di un collezionista, i più rapidi con- tosoddisfazione: anzi entrambi sempre  tatti con Parigi, rapporti col gruppo sofferenti dei limiti o della  milanese di Persico anch'esso partito contiagenti stanchezze che potessero cc-  in battaglia contro il neoclassicismo, appannare il gelido speo-  la lezione degli impressionisti è at- chio di formalismi eidetici del primo,  tinta direttamente ai grandi modelli: ©  Manet, Renoir, Cézanne, in un preciso pida dell'altro. inquietudine che ci spie  senso importante due notevoli carollari). ga il piegare verso più riscntite ao Paolacei: Piazza Navona l'affermazione che Cèzanne non meno nitide pro- veva reagito all'impressioniamo, ma lo filature lineari di Casorati,  veva continuato e che perciò la tradi- come le | ritorni, e, meno  zione più viva di movimento an- , da monotonia le ripetizioni  dava proprio cercata in quel discorso 1delle cose meno valide di Menzio. ln  rapido ed atmosferico si, ma tutt'al. modo assai diverso, ina con accanita tro che occasionale e vedutistico che è commovente dedizione ad un'ideale  stato proprio dei pittori che abbiamo di pura pittura che esclude tanto  citato piuttosto che dei Monet, dei Pis- ogni intrusione intellettualistica  quento surro, di Sisley. Secondo: che quel- ogni dispersione decorativa Pao l'adesione all'impressionisno non po. Iucci è venuto sempre più approfon  teva che importare, da una parte, con- dendo una visione grata © improvvisa, Gogh al più libero fsuvinmo, rivivere il gusto degli impros-  che-dn qualche modo e sia pure unilate; sionisti, proprio di questa fase della  ralmente, il linguaggio di Cizanne ave- pittura torinese, possono essere riat- ivano continuato, Gli strilli dei varii taccati, in senso diverto, Mar-  Ojetti per i salti in lunghezza da tina, temperamento delicato di colorista  Giorgione n Braque naturalmente non eu cui è stata decisiva l'influenza di  si contarono! Ma intanto quello che te nf gie gi  importava fu che la esemplificazione cento personale una trepida, ©  vitale dei frutti di quest'esperienza cul- come smorzata, elaborazione di ogni da- turale fosse data proprio da quei gio- to tonale degli oggetti, e Spazzavani pittori che sì erano stretti intorno pan la cui origine è le cui esperienze  è Casorati, pur non più così ragazzi istriano diedero ad una veramente pro  da diventar suoi allievi nel senso sco- digiosa capacità di trasfigurare |pit-  lastico della parola, © che ora nell'inì-1toricamente, attraverso la rapidità della  ziare un lavoro diversamente orientato, acchia e del segno, ogni dato ogget-  e vano il debito contratto col tivo una truculenza cspressionistica re-  primo ideale macatro, nè sono da Jui mota dal raccoglimento degli altri to-  sconfessati: anzi la stima, l'amicizia rincsi e dalla pacata visione dell'im-  © la valutazione dei diveral ed ugual pressioniamo. È di questo suo pecu- mente validi risultati, da parte del liare atteggiamento ci restano molti mo-  più anziano rimanevano intatti od ec- menti d'espressione mirabile, speci cootrapporre ai della mano facile è dell'illustra incomprensioni fra chi incegue un me- tone occasionale. desio sforzo d'arte, ala pur attra- Opposta invece, per intento e per ri  verso divergenti esperionze di gusto. È all'impressionismo l'esperienza i sultato, altrettanto si può dire dell'attenzione a Dittorica inieressantiesima di Italo Cre- Menzio:  Ritratto Alla scomparsa del pittore, G.  traccerà un ricordo del maestro, a margine del catalogo della mostra d'arte contemporanea di Torre Pellice. Non più il colore o il tono, ma quei valori umani  e di rispetto per le diversità appresi durante gli anni  di via Galliari animeranno, in conclusione, questo suo omaggio di discepolo: poiché è anche la coscienza  di questa libertà, prima ancora morale che estetica, che  da Casorati alcuni di noi ricevettero come l’insegnamento più prezioso, ci è caro chiudere col richiamo  ad esso questo saluto al maestro. Chè le sue opere parlano, per il rimanente, senza bisogno di commento. il sangue, cur. Mantovani, Quadrante, Torino G., Omaggio a Casorati, mostra d'arte, catalogo della mostra (Torre Pellice, Collegio Valdese), Tipografia Subalpina, Torre Pellice. Gli occhi fervidi e il sapore di cenere G.: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Olivieri    Approssimarsi all'opera letteraria di un uomo di  cospicua cultura quale è G., significa  penetrare in una eletta densità speculativa sorpren-  dente se commisurata a un intellettuale defilato in vita  e ricorrente oggi nella ferma e attenta riflessione di  pochi storici. Come ebbe a dichiarare G. stesso  In una autopresentazione, non gli si perdona  l'ambiguità di essere scrittore e pittore aggravata dalle  stigmate dell’intellettuale, categoria in cui finì suo  malgrado per vocazionale passione  per la cultura. Proprio nell’ambiguità, nel marcare un  confine ideologico sottile, ordinandosi orgogliosamente in disparte insieme alla generazione degli eclettici Cremona, Mollino e Maccari, ci pare che G. trova un eccentrico terreno di appartenenza sul quale  edificare una propria filosofia personale sistematicamente relata all’erudizione antropologica, filosofica,  religiosa e pedagogica. Formazione altresì integrata  agli interessi misteriosofici G. stesso ebbe a  definire le proprie opere evocazioni esoteriche vagamente connessi alla cultura torinese d’inizio  secolo e, in modo maggiormente probante, con lo studio di Casorati in via Galliari dove conosce Daphne Maugham che, dopo avere respirato l’aria mistica della  parigina Académie Ranson, si è trasferita a Torino  dove la sorella con Salice,  e Markman si dilettavano già, oltre che di  danza, di teosofia. Redattore e pubblicista prolifico,  G. che inizia ad interessarsi a Steiner e Madame Blavatsky batté gl’argomenti  indigesti alla cultura del suo tempo facendo di sé un  intellettuale atipico che, come ricorda Sanguineti,  ispira idee ereticali nei propri allievi. Autore di pochi  saggi, che punteggiarono una carriera meno prodiga  di quella del compagno di studi liceali Argan, conosce Venturi che lo accolse come  collaboratore dell’Arte facendogli inoltre pubblicare  alcuni saggi sulle civiltà extra-europee. L'equivocità tra critica militante e pratica pittorica  fu un banco di prova sul quale verificare, tra continui  rilanci e azzardi, la reciproca tenuta delle parti. In  questo assiduo riversarsi delle specificità discipli-  nari consiste per G. il senso estremo della sua  Pittura, votata alla vanità dell'atto privato, smagata  d’ogni velleità economica e promozionale ma cro-  S!uolo rovente dal quale estrarre i concentrati succhi di un'urgenza creativa. L'incessante ritorno all'arte. ni n G., La pittura a Torino, Letteratura, La pittura, lo spirito e il sangue, P.MAN-  ia cur., Il Quadrante, Torino, G., Diagnosi del moderno. Scritti scelti, UFFINO (cur.), Aragno, Torino, L'arte egiziana antica, Firenze; L'arte dell'Asia occidentale  centrale, Firenze; L'arte dell'Asia orientale, Firenze è, Al Gioberti di Torino dA EdO a  ad. come artificio, come fare in sé autosufficiente, è per  G. un difettivo rimedio all’insanabile scissura  della natura umana divisa tra spirito e materia, tra  razionalità e intuizione, e un’imperfetta occasione  di confronto tra individui sul piano partecipabile ed  empirico dell'immagine che, pur sempre aderente  alla condizione fabrile, trova la propria natura più  autentica nell'essere essa stessa divisa tra creazione  e imitazione. L'attività poietica, l'agire sulla materia  intesa sui presupposti estetici gettati da Alain (pen-  satore scomunicato da Croce), sottrae il discorso di  G. dall’osservanza teoretica idealistica come  dall'impegno etico esistenzialista e, abrogando di  fatto la condanna platonica dell’arte, accetta il va-  lore estetico come simbolo del male. L'arte trova  allora la propria eretica ragion d'essere nella forma  materiata, così come l’idolo o il feticcio sarebbero la  divinità in presenza e non l’ipostasi divina. Per questo  la pittura per Galvano rappresenta enigmaticamente  il dio visto di spalle. Quando Mosè chiede al Signore di mostrargli la sua gloria il Signore gli risponde:  Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e  proclamerò il mio nome. Soggiunse: Ma tu  non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo  può vedermi e restare vivo. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella  cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò  passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere. L'espediente divino narrato nell’Esodo biblico, fatto laicamente  La Sacra Bibbia Saccaggi, Alma Natura, Ave!, pastello su carta applicata su tela, 68x125 cm., GAM Torino. reagire con esperienze disposte alle proiezioni, tra  cui l’idea del dio pagano che non tace non parla ma  accenna, sarebbe da intendersi per G.  che si  era laureato presso la facoltà di magistero di Torino  discutendo con Gambaro e ABBAGNANO (si veda) una tesi sulla pedagogia della religione” come metafora  dell'immagine (il “dio visto di spalle” appunto), quale unica possibilità mondana di riconquistare l’unità  primigenia dell’uomo. L'azione esercitata dall'artista  nelle condizioni oggettive della materia è, più di una  tecnica operativa, un’alchimia ai filosofi G.  preferisce Helmont e Della Riviera che permette il verificarsi di un'unione  tra l'esperienza concreta bloccata nell'immagine e  l’'epifania del dio inteso non in senso devozionale.  Sì tratta in sostanza dell’allontanamento dall'idea  crociana di un'arte che esisterebbe autenticamente  solo nell’intuizione e non nella funzione estrinsecante  della materia. L'arte sfugge così al concetto di rappresentazione candidandosi come opportunità che  contemporaneamente apre allo sguardo rinserrandosi  nell’enigma, nella manifestazione del trascendente.  G. percorre incessantemente questa terra di  frontiera: COME FILOSOFO, come storico, come pittore. Prodromo del percorso pittorico è l’alunnato presso Casorati, scelto peril linguaggio sufficientemente decantato, sintetizzato e affrancato dal dato naturalistico per mezzo di un'operazione intellettuale  capace di conferire un ordine platonico agli oggetti  dispensati dalla polverizzazione cromatica impressionistica. Una lezione estetica essenziale quanto l’austero contesto della scuola. Esemplarità che si concretizza  inunalto profilo morale e umano che Galvano ritiene  in dissolvimento nell'arte moderna con la quale si  conclude un ciclo plurisecolare aprendosene un altro,  tumultuoso nel bene ma anche nel male, dal quale si  sentì definitivamente estraneo. Il mondo del secondo dopoguerra sarebbe  affetto da una crisi di moralità alla quale potrebbe  unicamente fare fronte una presa di responsabilità  politica, artistica, religiosa, speculativamente limpida  ed esente da posizioni compromissorie e accomodanti  come quelle sostenute dagli artisti che vogliono salvare  i valori della tradizione pur dichiarandosi moderni. L'intera modernità e l’idea stessa di progresso tecnico  a G. risultano ree di edificare, intorno a un fulcro di ragioni economiche (Marx) e sessuali (Freud), un  presente depauperato dall’opportunità della variazione imprevista. A una totalità di costruzione legata alla  forma, tipica del Medioevo, si avvicenda insomma  una totalità d'impiego legata allo scopo, decisamente  avvilente come comproverebbe per inverso il moderno carattere apologetico della narrazione tecnica e  scientifica. Giudizio estendibile al fatto estetico per  cui all'arte come atto fabrile, tipico del Medioevo,  si avvicenda l’arte come atto intellettuale, peculiare  del Rinascimento. Segue il periodo reazionario e tradizionalista del romanticismo, caratterizzato dal recupero programmatico degl’archetipi (Jung) medievali ma rivissuti Per un'armatura, Lattes, Torino. Senza il contesto sociale entro il quale quegli ideali si erano formati. La spontaneità medievale diviene  nel Romanticismo programma culturale e come tale è ereditata dal decadentismo e dal simbolismo,  il soggettivismo dei quali impronterà di sé l'espressionismo. Le avanguardie appaiono dominate dalla pulsione oppositiva alla tradizione elevando a sistema l'efficienza produttiva di un nuovo codificato come  autoreferenziale, programmatico e inintelligibile ma incapace di emanciparsi dal dato naturale nonostante esaurirsi dell'esperienza storica dell’arte illusiva. Gl’epigoni dell’astrazione storica, i concretisti, sono nvece esonerati da questa soggezione insieme alle retoriche idealistiche riuscendo, in piena ricostruzione  etica e umana, a calarsi completamente nel dato residuale figurativo, ossia all'evidenza del fatto pittorico. È l’esperienza che G. intraprende con l'adesione alla branca torinese del MAC,  esauritasi per lui nella spontanea affermazione delle  forme curvilinee tipiche del Liberty su quelle rette e Spigolose dell’astrazione concretistica. In una sorta di personale contropartita agl’intelessi spiritualistici e antropologici, G. pensa a Artemis Efesia, Adelphi, Milano. un'arte come luogo del verificarsi del mito capace di  portare a definitiva decantazione la sua inclinazione espressionistica (rubricata dal Pallucchini) estraendo-  ne la forza panica trasfigurata in una rinnovata spinta  metafisica. Sein ambito artistico risulta evidente come egli ha risolto insé l’apprendistato casoratiano non assorbendone che un clima d'insieme, metabolizzando  l'aspetto decadentistico della pittura del maestro celata  sotto la rigorosa adesione a una norma di cristallina  evidenza estetica ed etica, sul piano dell'esercizio  critico volle incrinare dialetticamente il sapere con-  solidato al fine di cogliere unitariamente il senso più  autentico della modernità. Accostandosi ai testi suoi  maggiori, nei quali dispiega un cospicuo sforzo storico  ma editati in un periodo a loro sfavorevole Per una  armatura e Arthemis Efesia, si ha la  sensazione di essere dinanzi a un affascinate quanto  indefinibile prodotto letterario saggio, DISQUISIZIONE FILOSOFICA, colta divagazione, eccentrico soliloquio, introspezione analitica che, pensando alla continua  permutazione tra scrittura e pittura, indurrebbe a  pensare a una creazione letteraria con statuto indipen-  denteecreativo rifiutato da Galvano incline, viceversa, a una critica intesa come emanazione di un'attività  immanente all'atto creativo. Permane tuttavia l’eco  dell'idea crociana della storiografia e della critica che,  pur non aggiungendo nulla all'opera ma limitandosi  a sancirne la validità poetica secondo l’idea del philo-  sophusadditusartifici- contrapposta all'idea dell’artifex  additus artifici sostenuta da Annunzio e  Conti sulla scorta di Ruskin e Pater, attribuisce facoltà filosofiche e artistiche alla  soggettiva sensibilità intuitiva dello storico.   Coscienza temuta e avversata Croce è, per  G., un'autorità intellettuale che in cambio  di una piattaforma teoretica esige la partecipata  condanna delle opere che, passate al vaglio di un  accurato approccio metodologico, risultino prive  di valore poetico. Nell’acido corrosivo dell'ironia e  dialettizzando gli argomenti con lo storicismo, Croce condanna il decadentismo nell’accezioni mistiche,  estetizzanti, irrazionalistiche e in quella che crede  inconsistenza filosofica e spirituale, includendo in  quel termine tutto ciò che tende a sviluppi formali  astratti e condannando di fatto la fitta rete culturale  e relazionale della modernità. Nonostante ciò Croce ha il merito di avere reso accessibile e ripercorribile questa fitta topografia anche nella declinazione  contraddittoria e fragilmente raffinata del vituperato decadentismo. Accettando la condanna crociana,  G. confessa la propria passione per decadenti, esotici, erotici e apostoli misteriosofici, ponendosi  scientemente in una giurisdizione infernale come  critico e come artista nato dalla linea evolutiva del simbolismo. Identifica anzi quello straordinario momento storico come un estremo malinconico balenio  della civiltà al crepuscolo, un'epoca di transizione  divisa tra spirito e carne, abitata da alcuni tra i più  eletti spiriti dell'umanità capaci di creazioni difformi  ma compiute e che lo sperimentalismo modernista  delle avanguardie esaurirà. In una sorta di ribellione alla figura paterna,  G. trasgredisce la raccomandazione crociana  di non leggere Rimbaud, Mallarmé, Valéry e riscopre, anteriormente a Cremona, il modernismo e la  linfa vitale del decadentismo attraverso il quadro  metodologico del filosofo abruzzese inclusivo di fatti  estetici anche diametralmente opposti alle sue idee. G., come alla sua generazione, fu quindi impossibile non dirsi crociano proprio per l'opportunità  G., Perché non possiamo non dirci crociani, in Numero Arte e letteratura”, Omaggio a G.”, catalogo della mostra, Circolo degli’artisti, Torino, Fossati, GARIMOLDI, Munpici (cur.), Electa,  G., “Diagnosi del moderno CREMONA, Il tempo dell'Art Nouveau, Firenze, che quella metodologia offriva nel sistematizzare  l’intera storia. Quello che invece depose fu lo spirito  conciliante dell'estetica di Croce buona, al più, a banalizzarsi nell’idea d’un museo immaginario. Quando ha il proposito di approfondire  l’immagine cultuale e psicologica dell’efesina Arte-  mide, partì dalla fascinazione prodotta su di lui da  un pastello di Cesare Saccaggi, “Alma Natura, Ave!”  (1898), opera collocabile allora, quando uscì il libro, e  tuttora, in un filone di gusto piuttosto sospetto. Con  una serie di pubblicazioni’, si renderà così protago-  nista, a partire dagli anni Cinquanta, del rinnovato  interesse per l’arte Liberty dalla quale trarrà ben più  diuna semplice ragione di studio quanto invece, nella  pratica pittorica, una viva permutazione in allusioni  enigmatiche irriducibili a ogni interpretazione, quali  il fiore di iris, destituite dal ruolo di metafore e sim-  boli. Questa continuità formale si chiarisce anche  come continuità semantica quando si consideri come  G. e Cremona abbiano ricondotto l’arte astratta  in un comune svolgimento con il Simbolismo e con il  Liberty che, di quest’ultimo, ful’espressione impiegata  sul piano della fabbricazione. Da cui il transitare di  G. dalla fase concretistica a quella informale  e, più in là negli anni, a quella araldica di nastri e  bandiere per giungere appunto agli iris. Trascorrere  stilistico da non leggersi come eclettismo quanto piut-  tosto come legittimo susseguirsi tra la carica allusiva  assegnata ai reticoli cromatici astratti e la sensibilità  decorativa trasformata in materia fermentata fino alla  disgregazione dalla quale estrarre infine nuovamente  il ritmo danzante delle forme arabescate. Il simbolismo  gli consente di riversare il misticismo nella propria  opera di pensatore e, soprattutto, di pittore. L'arte  assume quindi un valore emersivo di forze morali  (leggi spirito) del bene nel momento crociano,  del male più tardi in modo nietzschiano prima  ancora che estetiche (leggi sangue); diade debitrice al  suo filosofo di riferimento Klages, altro intellettuale trascurato in ITALIA quanto sospettato di avere  incubato l'ideologia autoritaria tedesca quando invece  più coerentemente dovrebbe essere pensato come un epigono del romanticismo intuizionista. L'arte tenta  un'indiretta conciliazione tra spiritualità e artificio  consegnando alla storia un’estrinsecazione autentica-  mente creatrice e non solo la copia di una copia; non  una rappresentazione ma un esserci immanente. La  volontà di accogliere quel male come necessario gli  viene dalla presa coscienza di un'’artisticità, che arde G., Dal simbolismo all'astrattismo, in “Galleria di  lettere ed arti; Le poetiche del simbolismo e 1‘origine  dell'astrattismo figurativo, Studi in onore di Venturi. Articoli specifici ai quali aggiungere: L'erotismo del liberty e la  sublimazione astrattista, Cratilo, Gabetti Isola, Casa di Erasmo, Torino. inlui, radicata proprio nelle opere  Create nelle elaborazioni più  irrazionalistiche. Come quella immoralità sia aperta  a fertili risultati lo si comprende appoggiandosi all’in-  terpretazione che Galvano offre delle Artemis: bianca  come simbolo coadiuvante di perfezione conchiusa ma  Statica, nera come simbolo avverso di imperfezione  e INCompiutezza ma dinamica e che in potenza può  Jenerativamente aprirsi a una riserva di possibilità  eventualmente immanifeste. Per traslato, quindi, la  hegatività del Simbolismo si apre a una plenitudine di  risultati. Permane tuttavia il concetto di fondo che la pittura, come prodotto di una volontà impossibilitata  a realizzarsi nell’ideale, sia il risultato di una caduta la  Cul spoglia materiale sarebbe prova di vanità e disviamento. Come s'accennava sopra, G. si smarca  dall'idea di un'arte quale esempio del bello estetico  e del bene morale, per lui non più coincidenti, ma  accetta la disperata affermazione dell'immagine come  a   l Me.  È  È  n  IS  18  la .  t LI  è  ®  î unico possibile risultato dell'impulso proiettivo delle  aspirazioni individuali o sociali. Pittura che in ultima  istanza è anche piacere sensoriale, vocazionale istinto  a testimoniare (Baudelaire), “vizio assurdo”, vanitas;  pittura come atto cultuale che mantiene in gioco la  proiezione degli archetipi, la ricchezza delle imma-  gini aderenti al mistero, almeno per quel poco che la  contemporaneità consente, poiché ilmondo nega ogni  giorno più spazio alla pittura mentre il pensiero bor-  ghese, incapace di slanci estetici e metafisici, permette  che in questa duplice assenza si innesti la tecnica, la  pianificazione, la sterile sistematicità. Per G. la  nostra epoca è irrimediabilmente scissa dal significato più autentifico della vita, dalla sua forza feticistica  poiché ha fatto di quel mondo, in cui la presenza del divino è costante, una favola bella l'iconografia della  quale non è che una lontana immagine idealizzata  priva, per i moderni, di ogni accenno oracolare. Queste ragioni filosofiche, di estremo interesse, doveno apparire perlomeno eterodosse all'atto della  loro formulazione, divise tra esistenzialismo e fenomenologia e affacciate all’abisso del mondo preclassico,  alle profondità eraclitee. Scostatosi dall’irrazionalismo  di Klages, G. non intende fare di sé un anti-razionale quanto piuttosto un convinto a-razionale, come  indica la personale concezione d’arte in equilibrio  tra ragionevolezza e vaticinio, secondo un fare né  pienamente consapevole poiché eroticamente privo  di volontà intellettiva, né tantomeno completamente  incosciente poiché contemplativo. Pertanto l'ipotesi  di G. è più aderente alla poetica di Mallarmé  piuttosto che al pensiero di Valery, perché dove il  primo disidratando e affinando la parola poetica  pone le condizioni per un superamento del modello  simbolistico aprendo di fatto alle avanguardie, il  secondo immagina la creatività come un processo  logico ricondotto alla piena luce della razionalità, alla  consapevolezza dell'atto. Esaltando cartesianamente  l’intelletto e la coscienza, il processo creativo per Valery  è un'attività spiegabile analiticamente senza ricorrere  a misticismo, vitalismo e spiritualismo. Carnalità,  sessualità e sensualità – CROCE (si ved) aveva biasimato la sensualità nell'opera di Mallarmé come priva d’anelito  d’innalzamento sono invece le pulsioni vitali del SIMBOLISMO che interessano G. e che la  razionalità, in un prolifico ripiegamento autoanaliti-  co, dovrebbe avocare a sé integrandole senza ripulse  pregiudiziali. Speculazione intellettuale e artistica che  rivela tutta l’enigmaticità di G. che oscilla tra i termini affermati da Mallarmé, e ripresi da Alain, di “vision”, intesacome vaghezza di ispirazione, e “vue”,  intesa come concretezza dell'oggetto in sé risolto. Se  da una parte, sull'esempio di Mallarmé — il quale pre-  cipitò le parole nell’assoluta perentorietà delle pure  idee aspirando infine a una “poésie sans les mots”, G. pare decidersi per la “vue” aderendo al  concretismo astratto come pars construens dalla quale  pretendere risposte formali di esito certo, dall'altra,  per mezzo del multiforme divenire della sua pittura,  apre obliquamente alla possibilità allusiva dell’apparire, accettando di fatto unesito provvisorio prossimo  al concetto di “vision”. L'oscillazione dalla vaghezza  creativa all'evidenza intellettuale di forme e colori è  l’unica risposta contingente possibile per G. che  decide di non decidere tra i termini antitetici asseriti,  approfondendolo sguardo nell'oscurità della creazione e della vita. Medesimamente il G. scrittore  affronta il passato eludendo la descrizione analitica  delle epoche storiche portandone bensì all’emersione CROCE, Poesia e non poesia, Laterza, Bari, MALLARMÉ, Divagations, Bibliothèque-Charpentier, Fasquelle, Parigi i reconditi meccanismi, le contraddittorie spinte pul-  sionali; un’organica prassi opportuna a increspare la  ricerca storica attraverso una molteplicità di punti di  vista culturali posti in reciproco dialogo e liberamente  sollecitati. Il rischio nell’approcciare oggi la figura di G.  è quello di appiattirne il pensiero, come avverte  Sanguineti. L'illustre allievo aveva compreso  come il decadentismo pittorico di un Moreau o letterario di un Huysmans fossero considerati dal maestro  un indispensabile momento storico. G. mostra  insomma un’idiosincrasia per quelle “mortificazioni  crepuscolarmente schifiltose” che impedeno  ai CAMPANA (si veda), agli ONOFRI (si veda), agli UNGARETTI (si veda) e ai MONTALE (si veda) di  superare, senza rifiutarne la carica panica e mitica,  il naturalismo panteistico dell’Alcyone dannunziano.  InItalia, l'assenza del dissolutivo lavacro simbolista si  era in sostanza ripercosso nella crociana deplorazione  categoriale per l’arte moderna insieme all’illusione di  potere produrre un'opera estetica autenticamente nuo-  vaeludendo il peccato originario del Decadentismo. Il  tentativo di emanciparsi dal prestigio delle autoritates  latine che aveva tentato D'Annunzio richiamandosi  ai romantici tedeschi, apriva gli occhi di G. ai  pre-socratici e alla filosofia moderna (dall’irrazionalismo alla scuola ermeneutica) che del classicismo aveva  assunto il senso vitalistico, indefinibile e misterioso  di una natura come rivelazione del divino. Da cui  l’idea di una suprema ragion d'essere trascendente  alla quale l’arte, per G., dovrebbe aprirsi ma  che invece nelle enunciazioni contemporanee gli  pare, con buona pace di Eco, rinserrarsi in un'opera  chiusa. Con un piglio da lettura sociale dell’arte,  G. scrive dell’esaurimento dei rapporti storici  tra committenti e artisti e di come ciò abbia mutato  l'originaria destinazione d'uso delle opere, ridotte  così a gratuite provocazioni. Conseguentemente  proponeva le dimissioni delle categorie di giudizio  elaborate perle arti visive del passato da sostituirsi con  un equivalente delle letture psicanalitiche tentate da  Sartre su Baudelaire e da Lacan su Poe. Restato sempre  un pittore tradizionalista, G. si dichiara disinteressato a certi sviluppi artistici lasciando intendere  come il problema dell'effimerità dell’arte compreso l'amato astrattismo geometrico sia  anche un problema della storia dell’arte come disciplina. Su come debba essere poi questa storiografia  G. non si pronuncia se non dichiarando che il  problema della storia dell’arte debba essere anche e  SANGUINETI, Contro la ragione, in La Stampa, G., catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Torino, soprattutto il problema dell’uomo! Sovvengono le  parole destinate a grande fortuna critica che scrive Belting nei pamphlet intitolati “La fine  della storia dell’arte o la libertà dell’arte e  nel successivo Das Ende der Kunstgeschichte. Eine  Revision nach zehn Jahren nei quali auspica  la fine della storiografia artistica tradizionale a favore  di proposte olistiche e antropologiche avvedute delle  mutate circostanze sociopolitiche, del rimescolamento  di cultura alta e bassa, della suggestione determinata  dai linguaggi mediali, dell’emergere di realtà culturali  prima marginalizzate, dell’obsolescenza della funzione assegnata al lavoro manuale, dell’alterato ruolo di  musei e gallerie d’arte. La prospettiva delineata da  G. si tinge di accenti acri quando denuncia la  pacifica cittadinanza ottenuta dagli ismi ridotti alla  non nocenza di prodotti da supermarket immersi in  una rete di opportunità economiche e di complicità  professionali. Un terreno culturale desolante che  assume una disillusa trasposizione nella sua pittura  ultima, nei paesaggi desertificati, nella scelta estrema  del silenzio creativo come opzione possibile nonché  parzialmente intrapresa. Facendosi anticipatore di  posizioni storiografiche di superamento della canonica divisione tra antico e moderno e concentrando  il periodo rivoluzionario dell’arte d'avanguardia, in una sorta di personale à rebours  G. esprime l'opinione secondo cui i movimenti  artistici successivi si sarebbero attestati su posizioni di  assimilazione manieristica piuttosto che di irriverente  Sovversione peculiare degli ismi nei riguardi della  tradizione rappresentativa. Delinea unastoria dell’arte moderna parallela più complessa e connettiva come  avrebbero potuto scriverla gli artisti ai quali infine  delega idealmente il compito futuro di creare un'ar-  te che, restando nell’ambito non figurativo e senza  Impossibili riflussi, riesca coerentemente a ristorare i  Valori artistici e umani del passato. G. insomma  invoca il diritto anon essere moderno, o peggio ancora  d avanguardia, evitando di lavorare sulla contingenza  e rifiutando l'egemonia della critica per privilegiare,  In senso dichiaratamente anticrociano, la poetica degli  artisti che al lavoro intellettuale uniscono la prassi.  Insieme alla proposta per un rinnovamento della  Storiografia artistica G. ne affianca un’altra di  Natura conservativa consistente nell’idea di salvaguar-  dare le opere minori del modern style, perlomeno gli  Oggetti e gli arredi non ancora distrutti (di Cometti  Per esempio). Immagina la documentazione degli  edifici Liberty finendo per invocare l'allestimento di  Una retrospettiva sull’Art Nouveau internazionale, ma ù G., Cosa nostra, Sigma, Omaggio a G., Diagnosi del moderno”,  avveduta del caso italiano e piemontese nel dettaglio,  da allestirsi nella rinata Galleria di Arte Moderna di  Torino. Caduta nel vuoto la proposta sarà proprio G. a scrivere un articolo sull’Art Nouveau  a Torino e poi, insieme a Balmas e Guasco, a curare al foyer del Piccolo Regio  una mostra dedicata alla pittura torinese. Sorta di doveroso omaggio a uno stile di  vita prima ancora che d’arte nel quale confluirono la  vita delle forme collettive e l’individualità creativa.  Dissentendo da CROCE (si veda), l'interesse di G. per gl’oggetti si approssima alle idee espresse da GENTILE (si veda) nella prolusione al corso universitario di storia  della ceramica pronunciato nel Palazzo Comunale  di Faenza nel quale il filosofo, saldando  arte e vita, rivendica la dignità estetica dei prodotti  artigianali e industriali di qualità. Si consuma qui  l'ennesima contraddizione di un crociano affine alle  idee di GENTILE (si veda) che pur biasima per densità retorica. Sensibile alle arti dei periodi di transizione e avveduto della caducità dei giudizi, compresi i propri, per  G. ogni critica obiettiva deve essere sempre  un’autocritica. Augurandosi l'avvento di un esegeta  capace di rileggere l’arte tra i due secoli, così come  Sanguineti seppe fare con la letteratura, G.  rammenta come la sua generazione abbia vergato  parole sferzanti su Bistolfi fino a pochi anni addietro  valutato un artista di statura europea. Ma fu anche  la generazione di quei giovani i quali, raggiunti gl’anni quando  dovetteroimmaginare una ribellione la fantasticarono  conle parole di Rimbaud, Gide, Lawrence e Huysmans  il cui Des Esseintes sembra essere allora il prototipo  di un esteta come MOLLINO (si veda). Dell’amico, stimato  oltre che come professionista di genio anche come  dilettante d'eccezione, G. ammira la capacità  di governare con la formazione culturale crociana (CROCE (si veda))  e il rigore razionale tipico della sua professione,  gl’umori sensuali, avventurosi e ambigui del suo  animo capace di ri-evocare il ritmo aperto e biologico  del Liberty restituendolo nella voluttà degli interni  arredati, nell'armonia architettonica dei pieni e dei  vuoti, nella eterogenea e immaginosa commistione  di elementi organici e funzionali. Un'omogeneità  che il termine “surreale” illustra solo parzialmente  e che trova una segreta corrispondenza nelle opere di Cremona come nei molluschi, nelle conchiglie,  negli antichi libri accartocciati e nelle acquasantiere  barocche che G. dipinge. L'identità autopoietica generata da Torino  si manifesta nella condivisione spirituale prodotta da G., Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino, Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti] questa generazione d’eccentrici intelletti, nella speci-  fica formazione di un genius loci come G. e nel  progetto della Bottega d’Erasmo che Gabetti e Isola  disegnano in forme intellettualistiche neo-liberty. Proprio in quell’anno, “A Rebours” di Huysmans  diverrà per G. il pretesto per puntualizzare le  proprie posizioni all’interno del Mac e più in generale  nel modo di intendere il Decadentismo! Quando Borgese consiglia agl’astrattisti concreti,  in chiusura della recensione alla mostra di G.  allestita presso lo Studio di Milano, di  rileggersi il celebre romanzo di Huysmans nel quale,  a suo parere, ci sarebbe stato il necessario per decodificare la loro poetica, gl’aderenti al gruppo accolsero  l'esortazione come una blasfemia da respingersi integralmente. G. ritenne legittima la protesta dei  compagni astrattisti apparendogli chiaro come Borgese incaricasse l’ipocondriaca, solitaria ed estetizzante vita  del protagonista narrato nel romanzo, di esprimere un'epidermica quota d’edonismo e di sensualismo ribelle  ai disvalori della società positivistica industrializzata  e scientifica, votata al profitto, al commercio, al nuovo  capitale borghese. Dopo di che G., confessando  di aderire parzialmente al pensiero del capitano della  brigata anti-astrattista Borgese, s'inalvea in una lettura  sorprendentemente sincretica aperta al riconoscimento dell’ambivalenza del rapporto tra astrazione  e SIMBOLISMO (SEGNO ASEMANTICO). Al rifiuto delle suggestioni emotive  del SIMBOLISMO, l’astrattismo, secondo G., ne  intellettualizza le allusioni ele corrispondenze, termine apertamente rimontante a Baudelaire, come  strumento oppositivo al dilagare prosastico del realismo. L'astrattismo del dopoguerra ridurrebbe quindi ai  minimi termini la carica letteraria aumentando quella  metafisica, riscattando la tradizione dei padri nobili  dell’astrazione e tesaurizzando nel  contempo (sulla scorta della ricostruzione filogenetica  di Pevsner) la lezione di Toorop, Gauguin, Munch  e Klimt insieme a quella degli antesignani Runge, Blake, ANTONELLI (si veda), Ciurlionis, Kupka; in sostanza dei  precursori che evocarono ancora le leggi del mondo fisico consentendo agli evoluti linguaggi non figurativi  di divincolarsi più recisamente dalla mimesi. Tra le due guerre, sull'onda della fenomenologia  e della psicologia della forma, si assista a un aurorale  revisionismo storiografico dell'Art Nouveau, anche  Persico ha in animo di scriverne una storia! G. (asterisco di) in, Pitture di G. in un  esperimento di sintesi (testo anonimo), Milano Studio,  Arte Concreta, bollettino Poi  in Fossati, “Il movimento arte concreta. Materiali e  documenti”, Martano, Torino, BorcEse, “Corriere della Sera, Pica, Revisione del Liberty, Emporium, ma sarà con gli anni Sessanta e Settanta che diverrà  condivisa acquisizione la carica anticipatoria ricoperta  da Mackmurdo e dalla cultura figurativa a partire da  Blake. Anima nera del concretismo, Galvano assume  un ruolo sovversivo nel movimento proponendo ine-  dite e intelligenti aperture di senso che tuttavia non  giungeranno a ispirare un prolifico dibattito all’interno  del gruppo infragilito dalle difformità tra la posizione  intellettuale rigorosamente metodica dei milanesi e  gli arrovellamenti sulla materia fortemente allusiva  espressi dalla linea torinese. Risalendo alle sorgenti  dell’arte astratta, G. riannoda, in antitesi alle letture formalistiche, le affinità con le fonti spiritualiste di decadentismo e SIMBOLISMO e pensando alla densità mistica nell'opera di Huysmans sfogata in occultismo  e cattolicesimo con le citazioni della Blavatsky e di  Steiner scritte da Kandinsky, con la prossimità di Mondrian ai circoli teosofici, con il lirismo magico di segni e  colori dell’orfismo di Kupka e, non ultimo, con uno dei  primi testi dedicati all’astrazione scritto d’EVOLA (si veda). Dandy auto-ironico votato alla marginalità, G. dissemina il proprio percorso di tracce sulle quali  indugiare, trascorrendo liquidamente da una disciplina  all'altra in modo stupefacente per un intellettuale animato da pura vocazione pedagogica ma riottoso alla  metodicità dello studio scolastico. Attribuire un senso  univoco al suo pensiero equivarrebbe a fraintenderne la  filosofia e l’idea stessa di un'arte come autosufficiente e spontaneistico operare nella ferita aperta tra vitalismo e intelletto che l’atto artistico non riesce tuttavia  a cicatrizzare. La civiltà intera corrisponde per lui alla  fenomenicità delle immagini da essa prodotte che, in  sostanza, aprirebbero al mistero quale autentico evento metafisico. Intendendo come piani dell’emersione  archetipica i segni dell’arte della quale l’idealismo  si limiterebbe a coglierne l'aspetto teoretico, Alain  quello pratico e l’Esistenzialismo quello etico è  troppo semplicistico archiviare la passione di G.  per decadentismo, SIMBOLISMO e modern style, come  l'infatuazione culturale per un'epoca vesperale. Egli si sente invece custode ed erede di quella lacerante  contraddizione, di quella genesi oppositiva, di quella disperata tensione verso uno spirituale fatalmente arreso alle forme dell’estetismo, di quella magnifica e  perduta sfida, tanto da riversarne la forza vitale nella  personale proteiforme pittura così come nelle progressive illuminazioni della sua letteratura filosofica  e artistica. Opere esposte Lettrice sdraiata olio su tela 63,5x81 cm Autoritratto olio su tela 23,5x18 cm Astrazione olio su tela 50x60 cm et adi  Il giorno olio su tela 100x80 cm Pacato olio su tela 90x110 cm Composizione in nero olio su tela 90x110 cm SENZA TITOLO olio su carta 34x48 cm Ercole ed Anteros olio su tela 85x115 cm Omaggio a Van De Velde olio su tela 80x90 cm 10 Ir1s olio su tela 105x95 cm  10Y1olio su tela 95x110 cm Calligramma olio su tela 100x85 cm  Fiori di lago olio su tela 100x120 cm Le jardin de cet astre olio su tela 132x116 cm Ireos olio su tela 130x115 cm Proposta olio su tela 135x122 cm Pavese olio su tela 120x110 cm Farfarello e Malambruno olio su tela 80x60 cm Gonfaloni olio su tela 95x80 cm Nastro olio su tela 90x80 cm Nastri olio su tela 60x50 cm Nastri colorati olio su tela 110x100 cm Nastri olio su tela 60x50 cm Nastri olio su tela 60x50 cm    MALI  Nastri 60x50 cm  ter» IG  MOFBEE sie  Tre  ir" Saitta SEGNO ASEMANTICO Segni asemantici (dittico) olio su tela 110x90 cm pari #1 =$ Re |a te n ; 26 SEGNO ASEMANTICO Segni asemantici (dittico) olio su tela 110x90 cm Artemis olio su tela120x110 cm Maioresque cadunt olio su tela 90x80 cm   TITO sal olio su tela 70x50 cm SENSA TITOLO olio e carboncino su tela 80x60 cm  Ireos olio su tela 70x60 cm Iris acquarello su carta 40x30 cm  Sa Cespu glio acquarello su carta 40x30 cm Glotre du lon g desir idees acquarello su carta 40x30 cm  Fiori acquarello su carta 40x30 cm  VRREET L6 LL AIA USD GOG VE o VERDE IL I BEILET DART DIG SPARI DIO RR pia I I LITIO ODE LIL Fiori acquarello su carta 40x30 cm  Une Fleur olio su tela 70x70 cm Scrittura acquarello su carta 60x50 cm Sassi e foglie olio su tela 80x80 cm Foglie morte olio su tela 80x80 cm Ciottoli acquarello su carta 40x30 cm Labrit, © di DASIO LT R EDLI u DILODIAT Ciottoli e rocce acquarello su carta 48x35 cm Ciottoli acquarello su carta 48x35 cm  hu ro iiriiRRRE Rocce e ciottoli olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm Opere in mostra Lettrice sdraiata olio su tela 63,5x81 cm Autoritratto olio su tela 23,5x18 cm  Astrazione olio su tela 50x60 cm Il giorno olio su tela 100x80 cm Pacato olio su tela 90x110 cm Composizione in nero olio su tela 90x110 cm  s.t. SENSA TITOLO olio su carta 34x48 cm Ercole ed Anteros olio su tela 85x115 cm Omaggio a Van De Velde olio su tela 80x90 cm Iris olio su tela 105x95 cm Fiori  olio su tela 95x110 cm  Calligramma olio su tela 100x85 cm  Fiori di lago olio su tela 100x120 cm Le jardin de cet astre olio su tela 132x116 cm Ireos olio su tela 130x115 cm  Proposta olio su tela 135x122 cm  Pavese olio su tela 120x110 cm  Farfarello e Malambruno olio su tela 80x60 cm  Gonfaloni olio su tela 95x80 cm Nastro olio su tela 90x80 cm Nastriolio su tela 60x50 cm Nastri colorati110x100 cm Nastri olio su tela 60x50 cm Nastri olio su tela 60x50 cm Nastri olio su tela 60x50 cm SEGNO ASEMANTICO Segni asemantici (dittico) olio su tela 110x90 cm Artemis olio su tela 120x110 cm Matoresque cadunt olio su tela 90x80 cm   SENSA TITOLO olio su tela 70x50 cm SENSA TITOLO olio e carboncino su tela 80x60 cm Ireos olio su tela 70x60 cm  Iris acquarello su carta 40x30 cm Cespuglio acquarello su carta 40x30 cm Gloire du long desir idees acquarello su carta 40x30 cm  Fiori acquarello su carta 40x30 cm Fiori acquarello su carta 40x30 cm Une Fleur olio su tela 70x70 cm Scrittura acquarello su carta 60x50 cm Sassi e foglie olio su tela 80x80 cm Foglie morte olio su tela 80x80 cm Ciottoli acquarello su carta 40x30 cm Ciottoli e rocce acquarello su carta 48x35 cm Ciottoli acquarello su carta  48x35 cm Rocce e ciottoli olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela  80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm  Rocce e sassi  olio su tela 80x80 cm GARABELLO ARTEGRAFICA, SAN MAURO TORINESE. Grice: “I don’t see why Italians are obsessed with art, but Speranza is Italian, so let it be. Speranza thinks conceptual artists are the only ones – such as Keith Arnatt – worth analysing. In his more snobbish ways, he thinks to mould the male body was Pliny’s idea of art – bronze statuary of the ‘nudo maschile’ – Painting comes only second or third, and only because of the desegno – i.e . the line of beauty, which is – as shape, where ‘kallon’ resided for the Greeks!” -- Albino Galvano. Galvano. Keywords: arte naturale, Gallupi, Peirce, Grice. By uttering x (gestus), U means that p” gesto, gestus, Grice’s use of gesture. il concreto, l’astratto, Sraffa’s gesture. Il gesto di Sraffa, l’implicatura di Sraffa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galvano: implicatura concreta”– The Swimming-Pool Library. Luigi Speranza, “Grice e Galvano”.

 

Grice e Gangale: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del dia-letto e la dia-lettica – scuola di Crotone – filosofia crotonese – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cirò Marina). Filosofo cirese. Filosofo crotonese. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Cirò Marina, Crotone, Calabria. Grice: “I like Gangale; the fact that I taught for years in front of the martyrs memorial helps!” Porta a termine gli a San Demetrio Corone. Si iscrive alla facoltà di filosofia di Firenze. Si laurea con “La logica della probabilita”. Iniziato in massoneria, nella gran loggia d'Italia.  Porta avanti la difesa dell’idioletto e del dialetto.  Opere "Rivoluzione Protestante" (Torino, Gobetti); “Calvino (Roma, Doxa); “Apocalissi della cultura arabresca” (Roma, Doxa); “Il Protestantesimo in Italia” (Roma, Doxa); “Il dio straniero” (Milano, Doxa); “Giacomo della Marca” (Napoli); “Salve regina”; “Fragmenta ethnologica arberesca medio-calabra, Soveria Mannelli, Rubbettino. “L’arbërisht: l’utopia.  According to Hjelmslev, semiotics is first and foremost a hierarchy. Its distinguishing feature is that it is guided by a dynamic principle by which it is split into dichotomies at all levels, yielding expression and content, system and process, denotative and non-denotative semiotics, and, within the latter, metasemiotics and connotative semiotics.  This text may be reproduced for non-commercial purposes, provided the complete reference is given: Badir, The Semiotic Hierarchy , inHébert (dir.), Signo [online], Rimouski (Quebec), signosemio.com/hjelmslev/semiotic-hierarchy.asp. THEORY. he terms  semiotics and semiotic designate two a priori dissimilar things. By semiotics, we mean a field of study in which we can formulate a method for analyzing signifying phenomena, as well as a theory including all the particulars of this analysis. By semiotic [sg.], we mean the result of a semiotic analysis. So for example, there is a musical semiotics that seeks to map out music as a comprehensive signifying phenomenon. And furthermore, from a synchronic perspective (the music of a given period and culture), if not from a panchronic perspective (music in general), we can say that music is itself a semiotic [sg.], being possessed of both a system (distinctions in pitch, duration, timbre, and so forth) and a process (consistent relations between sounds in their various aspects).  According to Hjelmslev, the acceptations of semiotics and semiotic must be articulated in relation to one another. Semiotics as a field of study is (ideally) conformal to the results of its analyses. As such, it is also endowed with a system and a process. In order to preserve the distinction between the two terms, we must understand that semiotics as a whole contains specialized individual semiotics [pl.], some of which are useful in developing theories and methods (the ones that Hjelmslev calls metasemiotics), while others are meant to be articulated into semiotic hierarchies (this is the role of what he calls the connotative semiotics).  Francis Whitfield, the English translator of Hjelmslev's works, drew up a chart showing the semiotic hierarchy with its constituent parts (in Hjelmslev; also translated into French in Hjelmslev).  The class of objects The class  of objects NOTE: THE LIMITS OF GRAPHICS  The above chart shows only one aspect of the functions identified between semiotic components: their paradigmatic functions (the relations between classes and their members). A more complete diagram designed to include the distinguishing features of semiotics would also show the syntagmatic functions (relations of implication) that operate between the different components. Tree diagrams do not really lend themselves to this kind of representation. This is one difficulty that Hjelmslev himself was unable to completely resolve. SEMIOTICS AND NON-SEMIOTICS In his first work, Principes de grammaire générale, Hjelmslev sets out the principle of classification that is operative in any language [langage]. "Categories as such", he writes, "are a fixed quality of language. The principle of classification is inherent in all idioms, all times and all places" (trans. of Hjelmslev). Thus linguistics, with its three levels of analysis (phonology, grammar, and lexicology) is a science of categories.  However he adds that "the science of categories must disregard the categories established in logic and psychology and venture right into language's territory to find the categories that are characteristic of it, that are specific to it, and that are not found anywhere outside language's domain" (trans. of Hjelmslev). Hjelmslev soon extended this domain to include languages other than verbal ones, but not to the point of including any system of classification.  The semiotics [pl.] make up this larger domain, and they are distinguished from other systems of classification by a certain uniformity (or homogeneity) that forms the basis of their analysis at all levels. We find this uniformity first between the components of any semiotic. By custom, these components are called the expression plane and the content plane. The reason for this is that as a general rule, expression forms are visible in the object (they are "expressed"), whereas it is in the content forms that signification resides (the semiotic object contains content forms). However, this is beside the main point, which is that we always analyze a semiotic object (usually a text) uniformly, with an initial distinction between two components. In other words, for Hjelmslev, as for Saussure, neither expression nor content can be given predominance; they must both be analyzed together (Hjelmslev). ISOMORPHISM AND NONCONFORMITY. It is true that Hjelmslev subsequently states that the semiotic planes must also not be conformal to one another; otherwise the distinction between them is nullified (Hjelmslev). It would require too many theoretical details to explain the principle of nonconformity here. Suffice it to say that this principle is not directly related to the issue addressed in this chapter, which is hierarchical organization, and that, furthermore, nonconformity does not in any way interfere with the isomorphism of the semiotic planes (that is, their structural parallelism). Although it doesn't simplify matters any, we must acknowledge that a diagram of semiotics actually postulates a classification that is itself non-semiotic: It is a symbolicclassification, for it can be seen as either an expression plane (the terminology Hjelmslev adopts in his theory) or a content plane (the meaning assigned to each of the terms it presents), and each of these planes is conformal to the other. PARADIGMATIC FUNCTIONS In one aspect of semiotic analysis, we use paradigmatic functions to establish distinctions within the individual semiotics. A paradigmatic function can always be expressed as two elements in an ‘either ... or ….’ relation: "either this or that". In a semiotic, any element of any magnitude (a sound, word, sentence, idea, or abstract feature) can be analyzed in terms of these functions. There are three possible results: two constants are identified; there is no constant identified, so that the elements involved remain as variables; one of the elements is considered to be the variable of the other.  The three types of paradigmatic functions either this or that, one excludes the other  constant ↓ constant  complementarity  either this or that, it makes no difference  variable ↑ variable  autonomy  either this, or more specifically that  constant –| variable  specification  For example, in Italian, the MASCULINE is a CONSTANT (of CONTENT) with respect to an animate beings. Conversely, with respect to inanimate elements, masculine is regarded as a variable of content. In Italian we refer to a city (Latin CIVITAS), which have no designated grammatical gender, sometimes as feminine – but sometimes as masculine. And finally, with respect to the class 'sex' itself, each one has a variable, since sex has been selected as the constant of content.  Naturally, linguistics aims first to establish constants, in either a relation of complementarity or of specification. From a paradigmatic standpoint, the expression plane and the content plane are complementary in semiotics (e.g., in a verbal language), whereas in a symbolic system (e.g., in a computer programming language) they are autonomous. Another aspect of semiotic analysis identifies relations between elements. A syntagmatic function can be expressed as two elements in a both... and... relation: "both this and that". Once again, three kinds of syntagmatic functions may be identified: if one element is present, the other must also be present, and vice versa;  one element does not have to be present for the other to be present; one element is required for the other to be present, but not the reverse.  The three kinds of syntagmatic functions both this and that, by necessity  constant ↔ constant  solidarity  both this and that, by contingency  variable – variable  combination  this necessarily accompanied by that   variable → constant  selection  A verbal sentence is the necessary association of a noun phrase and a verb phrase; they are the two syntagmatic constants of the sentence. Conversely, there is no consistent relation between the categories of verb and adverb: the verb can be present without the adverb, and the adverb can modify something other than a verb (an adjective, such as pretty, in very pretty). The verb and the adverb are variables relative to one another. On the other hand, an article requires a noun, but the reverse is not true; in this relation, the noun is the constant and the article is the variable.  From a syntagmatic perspective, there is always solidarity between expression and content. If the analysis identifies an expression plane for a given object, then it must also identify a content plane, and vice versa; otherwise, the object in question would not be a semiotic object (something we are not supposed to know before we begin our analysis).  NOTE ON LINGUISTIC LAWS  Necessity in syntagmatic functions is quite relative; it depends on the corpus under study. Caution would prompt us to speak of consistency rather than necessity, as language is replete with exceptions, and its rules are subject to rhetorical non-compliance. We are keeping this term nevertheless, if only to emphasize the predictive intent of linguistic analysis: whatever consistencies have been recorded in attested texts must still be valid for future texts. DENOTATIVE SEMIOTICS AND NON-DENOTATIVE SEMIOTICS Natural languages are the first object of semiotic analysis. Their systems are identified through the paradigmatic functions, and their processes through the syntagmatic functions on both planes, expression and content. When analyzed, texts are equivalent to processes, since they constitute chains of semiotic elements that are put into relation with one another.  Semiotic analysis can be applied secondly to other kinds of language, with no theoretical adjuncts, and it is from this extension that it has earned the name  semiotics.  But in addition, semiotic analysis can be applied to a third kind of target: forms of language that cannot be reduced to two planes (their components are not even in number). These languages [langages] are termed non-denotative. There are two kinds: the metasemiotics and the connotative semiotics. A metasemiotic is rooted in a semiotic equipped with a control plane, so to speak. Through this plane, each element of content takes on an expression in a denominative capacity.   This is what we are doing when we say that in a certain advertisement for French pasta (to take a famous example used by Barthes), the yellow and green colours on a red background (the colours of the ITALIANA flag) signify "ITALIANITÀ" (Barthes). ITALIANIT is a meta-semiotic expression used to designate the signification of a visual element such as colour.  The same function is in operation when we say that the expression arbor signifies "tree" (Saussure), except that, in this case, both expression and content take on meta-semiotic expressions through the use of distinct typographical markers (italics and quotation marks) and different languages (Latin and Italian). In this case, they are called autonyms. Metas-emiotic control helps us to avoid any equivocation between expression and content in our analysis.  Finally, metas-emiotic expression also has a power of generalization, by allowing categories to be designated. When we talk about the verb, as we do in linguistics, we are attributing a name to several syntagmatic functions grouped under this common denominator. To put it another way, the metasemiotic expression verb can be used to describe a syntagmatic function that is analyzed in each particular verb (Badir).  It can be helpful to include this control plane in a specific semiotic, for the human mind seems to be adept at juggling metasemiotic expressions (writing being the prime evidence of this, and so very complex). This is how a metasemiotic is formed: one of the planes is the control plane, and the other is the object semiotic. By doing this, the metasemiotic once again becomes a binary structure, but with two tiers.  Metasemiotic structure metasemiotic  control plane, object semiotic, expression plane, content plane, CONNOTATIVE SEMIOTICS The plane that is affixed to a semiotic does not always perform a control function, however. In fact, we can always affix a third plane to a semiotic in order to account for anything that has been missed by the analysis, anything that is considered to be a special case or exception. Variants are the evidence of this analytical shortcoming. If we wish to account for them in some way nonetheless, then we define them as invariants within special or narrowed parameters that Hjelmslev calls connotators. The third plane, then, is formed by considerations that were not selected in the first-tier analysis (called  denotative). This plane is ordinarily held to be a content plane, since it is assumed that semiotic objects cannot be intrinsically modified by these considerations. (One senses a delicate point here, that is admissible only at the discretion of the analyst).  Connotative structure connotative semiotic  denotative semiotic, plane of connotators, expression plane, content plane. For example, Hjelmslev maintains that any given language may be analyzed equally well through its written texts or its oral utterances; in other words, that its rules of syntax, its morphological formations and vocabulary are common to oral as well as written productions. Certainly anyone can see that this assessment is not ill founded. Nevertheless, there are distinctions, which have inevitably been left as variants in the linguistic analysis. Ensuring compatibility between the analysis of these variants and the first-tier analysis is a matter of establishing a plane in which orality and writing can be included as two paradigmatic invariants of content of a particular type: orality and writing are set up as connotators. In this way, the first-tier analysis remains valid, although it can always be customized with respect to the newly established paradigmatic function (Hjelmslev).  From a broader perspective, we can use connotative semiotics to specify which tier of specialization to use for a particular semiotic analysis, as semiotic analysis is not apt to be applied indiscriminately to any element of language (this is only true of its theoretical components, in particular, the ones presented here). In linguistics we begin by recognizing the plurality of verbal languages, basing our analyses on distinct corpora for each language. It is the role of connotative semiotics to establish each language as a connotator. So when we speak of the "linguistic analysis of French", French is a connotator, as it determines in which particular case the analysis is valid. At this time, the theory of semiotic hierarchy has been developed extensively only in the application for which Hjelmslev initially intended it: the metasemiotic hierarchy of verbal languages (as illustrated in Whitfield's tree diagram, reproduced in section. Metasemiotic hierarchy with languages [langues] as the object semiotics expression plane analysis content plane analysis  internal semiologies paradigmatic perspective phonology lexicology syntagmatic perspective  "morphology"  grammar  external semiologies  paradigm of historical and geographic connotators  historical and dialectal phonology  historical lexicology and dialectology  comparative and historical grammar  paradigm of social connotators  sociolinguistics, linguistics of written language  paradigm of psychic connotators pedolinguistics, psycholinguistics, study of language disabilities  paradigm of cultural connotators rhetoric, stylistics, narratology  internal metasemiologies  phonetics  semantics  external metasemiologies  physics and physiology of sound  extrinsic interpretations  We will start by discussing the table entries. In the hierarchy there are two columns dividing the analysis into two components, labelled expression plane and the  content plane. However, this subdivision does not hold throughout (as in the case of comparative grammar), either because two different semiotic analyses bear the same name in practice, or because the analysis is non-semiotic, as it turns out. The hierarchy is divided into rows representing the object semiotics. First they are divided by their rank in the hierarchy (semiotic or metasemiotic), next by distinguishing the denotative semiotics (addressed by the internal semiologies) from the connotative semiotics (described by the external semiologies). Lastly, the denotative semiotics are divided into paradigmatic and syntagmatic functions. It should be noted that the hierarchical structure shown here is reversed in actual practice, where one always proceeds by progressive expansion, beginning with denotative analysis, or more specifically, paradigmatic analysis.  In this table, languages are denotative semiotics from the standpoint of the internal semiologies and metasemiologies; however, they are treated as connotators from the standpoint of the external semiologies and metasemiologies. The operation of the latter is dependent on the former.   In addition, the metasemiologies regulate the semiologies by allowing us to verify whether they are adequate to account for the facts of language [langage]; however, there is no one-on-one correlation between internal semiology and internal metasemiology, nor between external semiology and external metasemiology. For example, a semantic analysis can provide the basis for a lexical derivation or for a narrative schema. And the physiological analysis of sound can be used as a descriptor for a phonological invariant (e.g., using the physiological feature palatal to designate an invariant) or as a means to describe child language (e.g., the term "labial click", which describes the onomatopoeia produced by babies 12 months old, also known as the "kissing sound" – this example is cited in Jakobson). Morphology should be understood in a specific sense, not entirely removed from the common meaning, but in a narrower sense. Morphology deals with what Hjelmslev calls the functions between grammatical forms in his Principes de grammaire Générale. Finally, note that while linguistics can be considered as one metasemiotic among others, there can be no objection to adopting the point of view that semiotics provides cultural connotators for a comprehensive linguistic analysis. These two perspectives are compatible in glossematics (Hjelmslev's theory of language) and are even seen to be complementary, to the benefit of semiotics. top BADIR, S., Hjelmslev, Paris: Belles-Lettres. BARTHES, R., "Rhetoric of the Image", in The Responsibility of Forms. Critical Essays on Music, Art, and Representation, trans. Howard, New York: Hill and Wang, HJELMSLEV, L., Principes de grammaire générale, Copenhagen: Bianco Lunos Bogtrykkeri, HJELMSLEV, L., Prolegomena to a Theory of Language, trans. F. Whitfield, Madison: University of Wisconsin. HJELMSLEV, L., Résumé of a Theory of Language, Madison: University of Wisconsin Press, HJELMSLEV, L., Nouveaux essais, Paris: Presses universitaires de France, JAKOBSON, Child Language: Aphasia and Phonological Universals, The Hague: Mouton, SAUSSURE, F. de, Course in General Linguistics, trans. Baskin, New York: Philosophical Library. Grice: “I like Gangale. Of course, the Italians adored him because he got Danish citizenship; also because he understood Hjemlslev as nobody does! Gangale was practical; he was into his ethnic minority. He formed good philosophical bond with Gobetti, against Croce and Gentile. It is obvious that those who know the Gangale of the Albanian studies won’t make a connection with his fight for protetantism and his adventures with Italian philosophy, with Doxa and Conscientia – but he got his doctorate and he was able to immerse in Hjelmslev’s glottology like nobody else did!” Giuseppe Gangale. Giuseppe Tommaso Saverio Domenico Gangale. Gangale. Keywords: il dia-letto e la dia-lettica, idiolect, dialect, ethno-lect, idio-letto, dia-letto, ethno-letto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gangale: dall’idioletto al dia-letto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Garbo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la fisiologia dell’amore – scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I like Garbo; for one I like Firenze, for another I like a Renaissance man – I’m one!” Grice: “Garbo is extremely interesting at a time when physis did mean ‘nature’ – the physicist and the physician were the natural philosophers! At Oxford Transnatural philosophy was created against Natural Philosophy,” – Grice: “Garbo made the greatest comment on “Love unrequited” by G&S – by focusing on a ditty by Cavalcanti – Boccaccio loved the pretentious prose by Garbo on ‘eros,’ ‘amore,’ and ‘cupidus.’ –“ Studia sotto Alderotti a Bologna. Figlio di Bono, medico e chirurgo. Sotto il consiglio del padre, fu allievo a Bologna di Alderotti, suo cognato, poi uno dei più importanti rappresentanti di un riorientamento della filosofia, all che Garbo diede un contributo importante. Studia sotto Alderotti per un breve period. Torna presso la casa paterna a Firenze a seguito della guerra tra Bologna e Ferrara e fu iscritto, a fianco del padre, nella gilda di Firenze di medici e farmacisti. Le condizioni politiche migliorate gli consentirono di riprendere i suoi studi e si laurea, successivamente si sposta a Bologna, dove insegna. Quando Orsini scomunicò Bologna e, quindi, escluse i cittadini bolognesi dal frequentare lo studio generale, fu, ancora una volta, costretto a lasciare Bologna. Si transferice a Siena, con l'insolitamente alto stipendio di 90 fiorini d'oro come "dotore del chomune di Siena". Saltuariamente si recasse a Bologna nonostante la scomunica. E fu a Bologna che completa il suo commento su una parte del libro del Canon di Avicenna, tanto da guadagnare il soprannome di "espositore.” Torna a Bologna, inizia la sua “Dilucidatorium totius pratice scientie” un commento sul Libro I del Canon. Insegna a Padova, a causa del "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel suo commento ad Avicenna), riprese a peregrinare tra un'università e l'altra (anche se è un percorso poco chiaro, a causa delle scarse informazioni fornite dai biografi e dell'assenza dei documenti). Torna a Firenze e completa Dilucidarium. Sulla scia dell'esodo della Facoltà di Filosofia da Bologna a Siena, venne nuovamente nominato dal Comune di Siena, questa volta con uno stipendio annuo esorbitante di 350 fiorini d'oro, più 100 fiorini, perché teneva letture a casa sua, la sera. Lavora al suo commento al trattamento con piante medicinali nel libro II di Avicenna, Canon, cioè "l'Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae", che complete dopo il ritorno a Firenze. Commenta sul “Donna mi prega” di Cavalcanti. Questo commento è conservato in un manoscritto di Boccaccio ed è stata tradotta in una versione in lingua “volgare”.  A causa dell'invidia dei suoi colleghi di Bologna, fu accusato di essersi appropriato del commento a Galeno di Torrigiani.  Le lezioni riscuotevano molto successo, allora i suoi colleghi, invidiosi, dettero il compito a un allievo che viveva con il medico di spiarlo; quest'ultimo scoprì che prepara le sue lezioni basandosi sul comment a Galeno di Torrigiani, che conserva segretamente. Il plagio e reso pubblico, addiruttura Ascoli ne fece scherno con i suoi allievi, e G. e costretto a allontanarsi da Bologna. Sia Tiraboschi che Colle notarono delle incongruenze cronologiche della vicenda. Torrigiani e co-etaneo e collega del medico alla scuola di Aldreotti, e successivamente si fece certosino in tarda età e solo da quel momento, o dopo la sua morte, avrebbe potuto prendere i suoi scritti.  L'episodio, probabilmente, indica l'atmosfera ostile – tossica -- in cui era immerso G. a Bologna, per questo è plausibile che decidesse di accettare l'offerta di Padova, che dopo la crisi causata dalla guerra contro Enrico VII, cerca insegnanti di fama. Tornato a Firenze, incontra Mussato in preda a un malanno, che probabilmente aveva conosciuto in precedenza a Padova e che era a Firenze in veste di ambasciatore di Padova. A Firenze, la sua stima di filosofo si riprese dai colpi bassi inflitti dai bolognesi; mostra un ritratto cordiale, sapiente ma non scontroso, con un atteggiamento affidabile e umano, che cercava di capire i segreti della natura e molto disponibile, questa era la maniera in cui appariva ai fiorentini. Descritto come una persona arguta in episodi riportati da Petrarca, che non conosceva direttamente, ma che aveva avuto contatti con G.. Pesso un cimitero, rispose a dei vecchi che lo volevano schernire con queste parole. La disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché siete a casa vostra. (Rerum memorandum libri, risposta simile a quella di Cavalcanti nel Decameròn. Un altro episodio, invece, fu la volta in cui un uomo prende in giro il suo piccolo cavallo dicendogli: "e gli insegni a camminare, ma dove hai imparato quest'arte?", e G. rispose: "A casa tua".  Quanto torna scrisse le "Recollectiones in Hippocratem de natura foetus" (Venezia), con la "Expositio super capitula de generatione embryonis" di Tommaso Del G., suo figlio, e la "Expositio in Avicennae capitulum de generatione embrionis" di Torre. Il trattato di G. mostra quanto fosse dipendente dall'astrologia araba. Distingue l'anatomia dalla fisiologia. Indaga la causa delle malattie ereditarie, dicendo che dipendono da un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito che il seme del padre trasmette al nascituro. Tratta anche di argomenti molto discussi dai filosofi del secolo, come la trasmissione dell'intelligenza tra generazioni, dell'origine del calore animale e della nascita di piante e animali per “fermentazione.” Dice nell'Expositio che torna a Firenze non per la crisi di Siena, ma per altri motivi di cui non si hanno documentazioni. Per Tiraboschi e Colle, G. non sarebbe mai uscito dall'Italia, mentre De Sade dice che ad Avignone  avrebbe incontrato Ascoli. Quest'ultimo è il motivo della grave colpa di cui Garbo, insieme al figlio, fu macchiato dopo il plagio già nominato. Ascoli venne allontanato da Bologna e sospeso dall'insegnamento poiché accusato di eresia, successivamente giunse a Firenze con la fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di Calabria. Ascoli scrisse "Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de Sacrobosco", che si ritiene fosse trattato che egli porta sul rogo, trattato che fu aspramente criticato da Garbo che gravemente accesi di rabbia e d'odio contro di lui, perché invidiosi che d'Ascoli fosse preferito come medico dal duca Carlo. I. Garbo accusa Ascoli di fronte al vescovo d'Aversa e successivamente lo denuncia all'inquisizione. Questo spinse il duca di Calabria ad allontanare Ascoli dalla sua corte e dopo fu arrestato dall'inquisitore Bonfantini. L’accusa era di essere "alieno dal vero dogma della fede". Ascoli fu bruciato sul rogo. E evidente la responsabilità di Garbo in questa condanna, per invidia e non per motivi religiosi. G. muore poco dopo l'esecuzione d’Ascoli. Questo, dice Grice, e causato da un incantesimo di vendetta lanciato da Ascoli.  Altre opere: La figura di G. campeggia se non come il più grande filosofo di Firenze, sicuramente come quello più nominato, sia nel bene che nel male, a prescindere dal valore che possono avere le sue opere a livello della storia della filosofia, infatti rappresenta, nell'opinione comune, il tipo ideale di filosofo, sia con i suoi pregi, che con i suoi difetti.  Tra le opere che sicuramente possiamo attribuirgli ci sono ricettari, commenti e trattati.  Tra i vari, ci sono i "Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur" (Venezia), dedicati agli studenti bolognesi che l'avevano seguito a Siena; "Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis" (Ferrara) insieme ad un trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle giunture ossee di Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna, Abū l-Qāsim az-Zahrāwī e ar-Rāzī. In questo e in altri testi, rileva molte inesattezze di Avicenna e parla con tono di ammirazione dei antichi greco-romani.  Altre opere invece non sono state stampate: "De militia complexionis diversae"; una "quaestio" sulla flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica)  "Recolectiones super cirurgia Avicennae" (Modena, Bibl. Estense); Tractatus podagre (San Candido, Bibl. della Collegiata). E non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi prega" di Cavalcanti: "Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus" ("De natura et motu amoris venereis cantio cum enarratione Dini de Garbo", Venezia, introvabile). Il commento riguardo a “Donna mi prega” considera l'amore (eros) da un punto di vista strittamente patologico, come passione, e anche se a volte tende a sovrapporsi a “Donna mi prega”, esponendo le idee sull'amore di se stesso (“amore proprio”) che quelle di Cavalcanti, resta un importante document. Suddivide il testo in tre parti. Nella prima parte, Garbo dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si dicono. Nella seconda parte, Garbo filosofa di quelle, che esser ne determina. Nella terza parte, la chiusa, Garbo dimostra la sufficienza di quelle cose, ch'egli ha dette. Nella seconda parte, la più importante, si segue la dimostrazione sulle *otto* caratteristiche dell'amore: I) dove si produce (nell’appetito sensitivo); II) chi lo genera? la disposizione naturale del corpo dell’amante – per non fare menzione digli influssi di Marte su Venere) quale virtù ha l’amore, dato che è passione d'appetito? Nulla. IV) Quale e l’effetto dell’amore? La  morte che impedisce le operazioni della virtù vegetativa) quale e l’essenza dell’amore? E una passione naturale). Che alterazione provoca? Infermità, malinconia, morte. VII) Che spinge a filosofare sull’amore, dato che non si può celare la passione? Lo spirito platonico) Se l'amore (o strittamente, l’amare) si dimostri via il sentire? Si. È evidente che parli come filosofo aristotelico. Per G., l'amore è una malattia, una passione dell'appetito sensitivo, che può causare a sua volta molte altre malattie, e per questo va curata, con la dimenticanza e l'allontanamento, l'"accidente fero" di Cavalcanti è il maligno influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova nella casa di Venere.  Altre opere: “Dynus super quarta Fen primi cum tabula” (Venezia: Lucas Antonius Giunta Florentinus); “Expositio super tertia, quarta, et parte quintae fen IV. libri Avicennae” (Venezia: Johann Hamann für Andreas Torresanus); “Dilucidatorium totius pratice medicinalis scientie Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae (Venezia); “Recollectiones in Hippocratem de natura foetus; “Dilucidatorium Avicennae (Ferrara) Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae (Ferrara, André Beaufort); “Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur (Venezia); Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis (Ferrariae); “De militia complexionis diversae; di cui un saggio è pubblicato da Puccinotti; Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena, Bibl. Estense); De generatione embrionis; Dizionario biografico degli italiani.  Boccaccio, Cavalcanti’s Canzone “Donna me prega” and Dino’s Glosses The enigmatic, indeed disturbing figure of  Cavalcanti exercised the imagination of his contemporaries, especially of his fellow poets. Without naming him once, Dante talks about Guido in his youthful work, the Vita nuova, telling us that Cavalcanti was the “primo de li miei amici” (VN III), and that he was one of those who replied poetically to Dante’s first sonnet. Dante also refers to Guido’s senhal, Gio- vanna/Primavera (VN). The whole of Dante’s treatise, as a specifi- cally vernacular composition, is dedicated to this first friend (VN). Amongst Dante’s Rime, also, there is a companionship sonnet addressed to Cavalcanti, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io,” to which the older poet responded in verse. The most memorable mention by Dante occurs in canto X of Inferno, where Guido is the “grand absent,” asked after by his damned father, Ca- valcante de’ Cavalcanti. The accent in the exchange is on Guido’s implied “altezza d’ingegno,” shared with Dante, and his disdain for some- thing — unspecified — which Dante by now was pursuing (poetry? theol- ogy?). The poet later resurfaces as an allusion in Purgatorio XI.97–99, where, in an object lesson in humility, literary primacy is passed through the Guidos, presumably from Guinizelli through Cavalcanti, and on to (perhaps) Dante himself. Guido Orlandi, who wrote the enquiry sonnet, “Onde si move e donde nasce Amore?” which occasioned Cavalcanti’s famous reply, the doctrinal canzone “Donna me prega,” paints a picture of the poet in “Amico, i’ saccio ben che sa’ limare,” stressing Guido’s verbal prowess, but also his consid- erable intellectual ambition, verging on vanity. Cino da Pistoia, however, in “Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo?” reacts angrily to an accusation of plagiarism coming from Guido, and hints that his own humility is more appropriate than Cavalcanti’s self-importance. Amongst the other, almost contemporary poets who mention Cavalcanti is Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), in whose astrological apology the Acerba, he seemingly takes Guido to task, in detail, for an erroneous analysis of love’s [heliotropia.org/02-01/usher.pdf 1  Heliotropia heliotropia.org workings (particularly the function of the irascible appetite, Mars) con- tained in “Donna me prega.” Chroniclers, too, were fascinated by him, but as much for his propen- sity to engage in partisan violence as for his intellectual eminence. His contemporary Dino Compagni refers repeatedly to the powerful Cavalcanti clan’s readiness for street-fighting, and refers specifically to Guido’s ex- ploits, including his failed attempt on the life of Corso Donati, who had re- portedly organised an assassination plot against the poet on the pilgrimage route to Compostela. Dino characterises Guido as “cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio.” Villani, writing con- siderably later, draws attention to the prickly nature of Guido’s intelli- gence: “era, come filosofo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso,” a description of the philosopher-poet which al- most exactly parallels Giovanni’s description of Dante himself. Amongst the later novella writers, Sacchetti would include Cavalcanti as the butt (literally) of a practical joke by a small child (Trecentonovelle), a jape which in turn is reminiscent of a Boccaccio novella (Decameron). Cavalcanti figures in the early commentary tradition of the Comedy, in particular as a response to the pilgrim’s discussion with Cavalcante de’ Ca- valcanti in Inferno X, and the reference to the two Guidos in Purgatorio. He also figures to some extent in elucidations of the two lonely, anon- ymous Florentine “giusti” in Inferno. Commenting upon Inferno X, Guido da PISA (si veda) says of Cavalcanti “Fuit enim iste Guido scientia magnus et moribus insignitus, sed tamen in suo sensu aliqualiter inflatus. Habebat enim scientias poeticas in derisum” [This Guido was great in knowledge and celebrated in character, but nevertheless somewhat puffed up as to his opinion of himself. For he despised the poetic discipline]. Guido da Pisa’s interpretation of Cavalcanti’s “disdegno” (Inferno) as essentially poetical will be influential amongst subsequent commentators. The Ottimo commentary points to Guido’s common intellectual in- terests with Dante (“similitudine d’abito scientifico”). Later, when discus- sing the two Guidos passage in Purgatorio XI, the commentator opines: “E Guido Cavalcanti si può dire, che fossi il primo, che [le] sue canzoni fortifi- casse con filosofi[ch]e pruove, come si mostra in quella sua canzona, che comincia: ‘Donna mi prega, perch’io deggia dire.’” The Selmiano, commenting upon Inferno X, again points to Cavalcanti’s intellectual im- pact: “Guido fu tenuto del maggiore ingegno e più alto che allora fosse uomo di Firenze.” The greatest contribution to the myth of Guido Cavalcanti comes from Boccaccio, who views the poet essentially through the distorting prism of heliotropia.org/02-01/usher.pdf 2  Heliotropia heliotropia.org Dante and the early Dante commentators. In the “Introduzione alla quarta giornata” of the Decameron, Boccaccio justifies his own persistence with amorousness, even in his more mature years, by claiming that such a trait was shared with Cavalcanti, Dante and Cino da Pistoia in their old age. He even suggests that he could supply the biographical justifications to prove it (“istorie in mezzo”). The most consistent account of Cavalcanti, however, occurs in Decameron where Boccaccio applies to Guido a widespread anecdote, with a “lethal” punch-line, which Petrarch, amongst others, had used some ten years previously in the Rerum Memorandarum (II, 60) about G., the famous Florentine physician. The tale, now firmly attached to Cavalcanti, thanks to Boccaccio, will subsequently pass into the Dante commentary tradition when Benvenuto da Imola glos- ses the two Guidos passage in Purgatorio. The Decameron tale has been frequently discussed and minutely ana- lysed: what concerns us here is Boccaccio’s preliminary portrait of the poet: oltre a quello che egli fu un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale, si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sa- peva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. [...] Guido alcuna volta speculando molto abstratto dagli uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. (Decameron) Creatively interpreting Dante, in order to give the punch-line extra signifi- cance, Boccaccio deliberately confuses (or rather suggests that the vulgar throng confuses) Guido with his father, Cavalcante de’ Cavalcanti, for it is effectively the latter who is amongst the “Epicureans” who “l’anima col corpo morta fanno” (Inferno). A very similar portrait of the poet is given in the Esposizioni, where Guido is described as: uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun altro nostro cittadino: e oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore [scil. Dante], sì come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima; ma, per ciò che la filosofia gli pareva, sì come ella è, da molto più che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. (Esposizioni) The phrase “ebbe a sdegno” clearly shows Boccaccio’s debt to Inferno X.63: “Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno,” and to the view amongst early commentators, initiated by Guido da Pisa as we have seen, that heliotropia.org/02-01/usher.pdf 3  Heliotropiaheliotropia.org disdain was for poetry, not theology. It is this Boccaccian portrait, with a distinctly Dante colouring, which will inform Filippo Villani’s much later biography of Cavalcanti in the Liber de origine civitatis Florentie [Book of the Origin of the City of Florence]. As we have seen, the anecdote in Decameron had been previously used by Petrarch, who places Dino del Garbo as its protagonist. Dino was, in addition to being a notable physician (a pupil of Taddeo Alderotti at Bologna), a lecturer on materia medica at various universities. He had a number of commentaries to his credit, including a reading of the third and fourth fen of the fourth book of Avicenna’s Canon, dealing with surgery (a relatively new area for medicine, traditionally hostile to the knife). He also wrote a general handbook, based on book one of Avicenna, the Dilucidato- rium totius pratice medicinalis scientie [Clarification of the Whole Practice of Medical Knowledge]. According to Giovanni Villani, G. was very touchy about his academic standing, and took a mortal dislike to Cecco d’Ascoli, at the time a lecturer on the astronomy of Sacrobosco and Alca- bitius at Bologna, who publicly accused him of having plagiarised a dead colleague, Torrigiano de’ Torrigiani’s commentary on Galen. Indeed, Vil- lani suggests that Dino was instrumental in the passing of the death sen- tence on the astrologer: “molti dissono che ’l fece per invidia” (Cronica). Popular opinion had it that Dino’s own puzzling death, very shortly after the astrologer’s execution, was the result of a posthumous necromantic revenge on Cecco’s part. Cecco wasn’t the only one to have an interest in Cavalcanti’s canzone “Donna me prega.” G. writes a detailed Latin commentary on the poem, heavily indebted to Avicenna, Haly Abbas and the LICEO, which was partially imitated and adapted in a vernacular version unconvincingly attributed to Egidio Romano. Medical and philosophical interest in Cavalcanti’s canzone would continue into the Renaissance, with Ficino, amongst others, clearly in debt to it. G.’s commentary is certainly known to Boccaccio. Indeed, it has been convincingly argued by Quaglio (“Prima fortuna della glossa garbiana a ‘Donna me prega’ di Cavalcanti,” in GSLI) that the unique surviving manuscript of the commentum (an insert in Vatican Chigiano) is a Boccaccian autograph. This particular transcription, one of the later documents reinserted into the manuscript – cf. Ricci (Studi sulla vita e le opere del Boccaccio, Milan-Naples: Ricciardi. The entire MS is reproduced phototypically in colour by Domenico heliotropia.org 02-01/usher.pdf 4  Heliotropia 2.1 heliotropia.org de Robertis (Il codice Chigiano L. V. autografo di Boccaccio, Rome-Florence: Alinari). However, already in the Teseida, Boccaccio shows some fa- miliarity with the commentary. Perhaps he had obtained the glosses from Dino’s close acquaintance, the poet and jurist Cino da Pistoia, who had known and corresponded poetically with Cavalcanti, and who had been teaching Roman law in Naples whilst Boccaccio was a student canonist there. The commentary, entitled Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus [Writing on the Canzone of Guido Cavalcanti] has been ed- ited and published as an appendix by Favati (Cavalcanti, Rime, Milan-Naples: Ricciardi). A sectionalised summary translation and secondary commentary can be found in Bird, “The Canzone d’Amore of Cavalcanti According to the Com- mentary of G.” (Mediaeval Studies). There is a fine translation and commentary of the glosses by Fenzi (La canzone d’amore di Cavalcanti e i suoi antichi commenti, Genoa: Il Melangolo. In the Teseida, Boccaccio furnishes substantial ecphrases of the abodes of Mars and Venus, the tutelary deities of the two rivals for the hand of Emilia, Arcita and Palemone. The description of the temple of Venus in book VII, octaves 50 ff., prompts an immensely long authorial gloss, part of which is on the nature of love itself. In keeping with Boccaccio’s implied fiction that the glosses are by somebody else, he refers to himself in the third person as the “author” and reserves the first person for the fictive commentator. The gloss labours on through the various symbolic, almost personified qualities (à la Roman de la Rose) propitious to erotic passion till it reaches the figure of Cupid, or desire: Alcune ne pone quasi confermative dello appetito eccitato per le sopra- dette: tra le quali pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo Amore. Il quale amore volere mostrare come per le sopradette cose si ge- neri in noi, quantunque alla presente opera forse si converrebbe di di- chiarare, non è il mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga la storia: chi disidera di vederlo, legga la canzone di Cavalcanti Donna me priega, etc., e le chiose che sopra vi fa G.. (Teseida, gloss) What is important here is that, for Boccaccio, the poet’s canzone and the physician’s glosses were already intimately linked, presumably in a single document (as would be the case in the much later Chigian MS transcribed by Boccaccio himself). The Teseida self-commentary then continues, after this parenthesis, with further enumeration of the “author’s” selection of symbolic qualities, beginning with an elucidation of Cupid’s darts. But the heliotropia.org/ 02-01/usher.pdf 5  Heliotropia heliotropia.org first sentence of this continuation shows that Boccaccio was still thinking in terms of technical definitions of love borrowed from other sources: Dice sommariamente che questo amore è una passione nata nell’anima per alcuna cosa piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare di piacere alla detta cosa piaciuta e di poterla avere. The phrasing about fervent desire, in this definition, is reminiscent of a remark in G.’s commentary: est passio quedam in qua appetitus est cum vehementi desiderio circa rem quam amat, ut scilicet coniungatur rei amate. (Favati) [it is a certain passion in which there is appetite along with fervent desire concerning the thing which it loves, so that it may join with the thing be- loved] But the presence in Boccaccio’s gloss of the adjective “nata” (even though it could be construed here as meaning merely “arising”) almost certainly betrays an older source, namely the opening definition in Andreas Capel- lanus’ De arte honeste amandi: Amor est passio quedam innata procedens ex visione et immoderata co- gitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alte- rius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri. (De amore) [Love is a certain inborn passion arising from the beholding of and un- controlled thinking about the beauty of the other sex, on account of which the person desires above all else to enjoy the embraces of the other person and, by common desire, fulfil all the commandments of love in this embrace] Andreas uses the term “innata” to describe erotic passion twice more, in quick succession, clearly wanting his readers to understand that its endo- genesis is an important part of his theory of love. “Innata” in the De amore is clearly adjectival in function, as shown by the following participle “pro- cedens”: but “nata” in the Teseida may be more in the nature of a past participle. The lexical fragment survives, however, despite its possible change of status, as a tell-tale sign of Boccaccio’s prior reading. For Boccaccio, conflating the two sources was tempting, because G. is clearly indebted, for substantial elements of his treatise, to the chaplain’s opening remarks on love, as the characteristic initial combination “passio quedam” already demonstrates. Boccaccio was not reading Cavalcanti and G. as an inno- cent, then, but rather as somebody who had already come across authori- tative, if somewhat obsolescent definitions. The problem for the compiler of the Teseida glosses is that the two definitions do not match. Andreas heliotropia.org/02-01/usher.pdf 6  Heliotropia heliotropia.org believed that love was intrinsic (“innata”), the line which Guinizzelli would famously take in his canzone “Al cor gentil,” whereas G., following Ca- valcanti, declares that this passion was definitely exterior in origin “cau- sans ipsum principaliter est res extrinseca” (Favati). Boccaccio at the time of his writing of the Amazon epic seems totally unaware of the in- consistency between these auctoritates. One might doubt that Boccaccio had anything more than circumstantial knowledge of the existence of Dino’s commentary. In other words possibly he hadn’t read it. But certain of the key words (“appetito” and “generare,” markedly Aristotelian terms, though present in the De amore, are simply not used as technicisms in Andreas) imply that he has a good idea of the philosophical slant of G.’s vocabulary. Unlike Cino da Pistoia, who is quoted unambiguously in the Filostrato and Rime, textual traces of Cavalcanti in Boccaccio’s fictional and creative works are rare and tantalising. The meagre harvest of possible (and hardly provable) intertextuality has been traced by Letterio Cassata, passim in hisedition of Cavalcanti (Cavalcanti, Rime, Anzio: De Rubeis, esp. index). Branca furnishes more detailed examples (Rime; Teseida) in Boccaccio medioevale e nuovi studi sul Decameron (Florence: Sansoni). One could add to this list, tentatively, perhaps. There is possibly a hint that Boccaccio had a “cultural memory” of the opening of “Donna me prega” when writing the Filocolo, for Florio’s love is there de- scribed by an experienced Ascalion as “sì nobile accidente. It could be, however, that this particular use of “accidente” (generically a very common term in the early Boccaccio) derives from a reading of Dante’s Vita nuova, where the distinction between substance and accident in love theory, probably as an echo of Cavalcanti, is also made (VN). Another possible reprise of Cavalcanti occurs in the Teseida sequence which generates the gloss which mentions “Donna me prega” and G.’s glosses. In octave 53 of the seventh book, Boccaccio describes the musical and visual environment of Venus’ garden, indicating Palemon’s soul in prayer as it visits the bower: ripieno il vide quasi in ogni canto di spiritei, che qua e là volando gieno a lor posta. Though “spiritus” was a technical term in medicine, referring to the transmission of vital and animal forces through the body, the diminutive “spiritelli” is a characteristic Cavalcantian usage, denoting the hypostatic emanations of fragmented consciousness characteristic of the “anima heliotropia.org /02-01/usher Heliotropia heliotropia.org sbigottita.” Guido even parodied this verbal tic in a sonnet, “Pegli occhi fere un spirito sottile.” More persuasive again, in terms of intertextuality with Cavalcanti, is one of Boccaccio’s early Rime: Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui accidente noioso, pien di spavento, cupido e ritroso, Though Branca does not expressly say so in his commented edition of the Rime in volume V of Tutte le opere (Milan: Mondadori), this sonnet seems to parodically contrast a pessimistically Cavalcantian view of love in the first quatrain with a more Guinizellian, positive stance in the remainder. All in all, though, compared with the massive early presence of Dante, and later of Petrarch, the verse of Cavalcanti seems to have had little prac- tical impact on Boccaccio. He seems to have been much more interested (as the layout of the glosses and the title of the autograph Chigiano LV 176 transcription shows) in “Donna me prega” as a vehicle for G.’s commentary, rather than as a composition in its own right. G.’s commentary became more useful to Boccaccio when he came to write the Genealogie and the Esposizioni. By this time, his appreciation of the question of substance and accident, and of intrinsic and extrinsic causality, had markedly improved, though his interest is still anything but scientific. The Genealo- gie passage occurs in the biography of Cupid, begotten from the illicit cou- pling of Mars and Venus. Cupid had been the figure, as we have seen, who had given rise to the mention of G.’s glosses on “Donna me prega” in the Teseida. This time, though used much more ex- tensively, the Garbian source is not explicitly acknowledged. Est igitur hic, quem Cupidinem dicimus, mentis quedam passio ab exte- rioribus illata, et per sensus corporeos introducta et intrinsecarum vir- tutum approbata, prestantibus ad hoc supercelestibus corporibus aptitudinem. Volunt namque astrologi, ut meus asserebat venerabilis Andalo, quod, quando contingat Martem in nativitate alicuius in domo Veneris, in Tauro scilicet vel in Libra reperiri, et significationem nativitatis esse, pretendere hunc, qui tunc nascitur, futurum luxuriosum, fornicatorem, et venereorum omnium abusivum, et scelestum circa talia hominem. Et ob id a phylosopho quodam, cui nomen fuit Aly, in Commento quadri- partito, dictum est quod, quandoque in nativitate alicuius Venus una cum Marte participat, habet nascenti concedere dispositionem phylocaptionibus, fornicationibus atque luxuriis aptam. Que quidem aptitudo agit ut, quam cito talis videt mulierem aliquam, que a sensibus exterioribus commendatur, confestim ad virtutes sensitivas interiores defertur, quod placuit; et id primo devenit ad fantasiam, ab hac autem ad cogitativam heliotropia.org/02-01/usher.pdf 8  Heliotropia heliotropia.org transmictitur, et inde ad memorativam; ab istis autem sensitivis ad eam virtutis speciem transportatur, que inter virtutes apprehensivas nobilior est, id est ad intellectum possibilem. Hic autem receptaculum est specie- rum, ut in libro De anima testatur Aristoteles. Ibi autem cognita et intel- lecta, si per voluntatem patientis fit (in qua libertas eiciendi et retinendi est) ut tanquam approbata retineatur, tunc firmata in memoria hec rei approbate passio (que iam amor seu cupido dicitur) in appetitu sensitivo ponit sedem, et ibidem, variis agentibus causis, aliquando adeo grandis et potens efficitur, ut Iovem Olympum relinquere, et tauri formam su- mere cogat. Aliquando autem minus probata seu firmata labitur et adni- chilatur; et sic ex Marte et Venere non generatur passio, sed, secundum quod supra dictum est, homines apti ad passionem suscipiendam secun- dum corpoream dispositionem producuntur; quibus non existentibus, passio non generaretur, et sic large sumendo a Marte et Venere tanquam a remotiori paululum causa Cupido generatur. (Genealogie) Rather than provide a translation into English here, we can go straight to Esposizioni V litt., which is an outstanding example of Boccaccio’s self-volgarizzamento. The passage occurs in Boccaccio’s literal commen- tary on the episode of Paolo and Francesca, and is occasioned by Dante’s famous line “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” (Inferno). Whereas in the Teseida Boccaccio indulges in a long account of Cupid’s iconography and dismisses (“per ciò che troppa sarebbe lunga la storia”) the aetiology of love with a curt reference to Cavalcanti and G., here in the Dante commentary he inverts the process, omitting the lengthy account of details Cupid’s portrait (“alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga storia”) so as to concentrate on the explanation of love’s workings. The passage is prefaced with an apparently perfunctory explanation of Aristotle’s tripartite distinction of the kinds of love (Nicomachean Ethics), of which more later. Only the very last periods suffer any change from the content of the earlier Genealogie text. The corresponding passage in the Esposizioni, the volgarizzamento of the Gene- alogie text, reads: Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia apartiene, dico che questo Cupidine, o Amore che noi vogliam dire, è una passion di mente delle cose esteriori e, per li sensi corporei portata in essa, è poi aprovata dalle virtù intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla rice- vere. Per ciò che, secondo che gli astrologi vogliono, e così affermava il mio venerabile precettore Andalò, quando avviene che, nella natività d’alcuno, Marte si truovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e truovisi esser significatore della natività di quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alì nel comento del Quadripartito che, qualunque ora nella natività d’alcuno Venere insieme con Marte parti- cipa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che nasce una heliotropia.org/02-01/ usher. pdf 9  Heliotropia heliotropia.org disposizione atta agl’inamoramenti e alle fornicazioni. La quale attitu- dine ha ad aoperare che, così tosto come questo cotal vede alcuna femina, la quale da’ sensi esteriori sia commendata, incontanente quello, che di questa femina piace, è portato alle virtù sensitive interiori e questo pri- mieramente diviene alla fantasia e da questa è mandato alla virtù cogita- tiva e da quella alla memorativa; e poi da queste virtù sensitive è tra- sportato a quella spezie di virtù, la quale è più nobile intra le virtù apren- sive, cioè allo ’ntelletto possibile, per ciò che questo è il recettaculo delle spezie, sì come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi, cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di sopra è detto, portato v’è se egli avviene che per volontà di colui nel quale è que- sta passione, con ciò sia cosa che in essa volontà sia libertà di ritenere dentro questa cotal cosa piaciuta e di mandarla fuori, questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore, o vero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sen- sitivo e quivi in varie cose adoperanti divien sì grande e fassi sì potente che egli fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne; e alcuna volta, essendo meno aprovata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E così non è da Marte e da Venere generata questa passione, come alcuni stimano, ma, secondo che di sopra è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione secondo le disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse, questa passione non si genererebbe. The translation diverges only at the end. Out goes the Ovidian reference to a love-struck Jupiter preparing to ravish Europa (Metamorphoses), clearly inappropriate for a commentary to a Christian poem, and in comes a limp and vague reference to shameful behaviour. Similarly, the very last concessionary formula of the Genealogie passage, conceding at least the indirect operation of Mars and Venus, is removed in its entirety, leaving the earlier categorical denial of astral influence intact. But what of the content? The making of such contentious horoscopes, predicting a libidinous disposition, could be dangerous. Villani intimates that one of the reasons for Cecco d’Ascoli’s misfortune at the stake was his disconcertingly accurate prognosis for his patron, the duke of Calabria, that his daughter Giovanna, the grand-daughter of Robert the Wise and future queen of Naples, would be subject to scandalous erotic excesses on account of her birth under the sign of Mars in the house of Venus. Though at first sight, Boccaccio is implying that his source in both pas- sages is the Genoese astronomer Andalò del Negro (almost certainly dressed up as Calmeta in Filocolo) and that he is quoting from Ptol- emy’s commentator Haly Abbas and from Aristotle’s De anima, a large section of this treatment, including the reference to these auctoritates, is in fact lifted from various, almost contiguous places in G.’s glosses. The heliotropia.org /02-01/usher.pdf 10  Heliotropia heliotropia.org opening sentence is an extremely reductive paraphrase of a section of Dino’s commentary where the physician indicates the role of the stars in creating the dispositions of the soul. Dino writes: Alia res concurrit ad causandum aliquam passionem, que est res ex- trinseca que suam ymaginem vel speciem causat in virtute sensitiva, ad quam cognitionem vel apprehensionem consequitur appetitus talis vel talis, in quo appetitu iste passiones fundantur. Ideo auctor, ut complete ostenderet que est res generans istam passionem, primo ostendit que est dispositio naturalis corporis que reddit hominem aptum ut faciliter istam passionem incurrat; secundo ostendit que est res extrinseca ex cuius ap- prehensione consequitur in appetitu passio amoris. Secunda ibi: “Vien da veduta forma”; vel posset incipere ibi: “D’alma costume.” In prima parte quod dispositio naturalis, per quam aliquis inclinatur ad incurrendum faciliter in aliquam passionem, ex principiis proprie nati- vitatis hominis contraitur et, inter ista principia nativitatis alicuius, precipua et principalia sunt corpora celestia: nam, ut dicit Philosophus in Phisicis, homo hominem generat et sol; et in De Generatione Animalium dicit quod in spiritu genitivo est natura existens proportionalis ordinationi astrorum. (Favati) [Something else is involved in causing any passion, and that is an exte- rior thing causing its image or “species” in the sensitive faculty, upon the cognition or apprehension of which there follows an appetite for this or that, in which appetite these passions are established. So the author, in order completely to show what is the thing which generates this passion, first demonstrates what is the natural disposition of the body which makes man suitable for incurring this passion easily; secondly he demon- strates what is the external thing from whose apprehension the passion of love follows in the appetite. The second starts “Vien da veduta forma”; or can start at “D’alma costume.” In the first part he shows that the natural disposition, by which some- body is inclined to incur some passion, is contracted from the principles of a person’s own birth, and, amongst these principles of a person’s birth, the foremost and most important are the heavenly bodies: for, as Aris- totle says in the Physics, man and the sun generate man; and in The Generation of Animals, in the generative spirit a nature exists proportion- ally to the ordering of the stars] Boccaccio’s reference to his astrological mentor, Andalò del Negro, is an opportunistic amplification of a far less specific passage in Dino. The Garbian passage, commenting on the canzone, reads: Hoc autem ostendit in verbo illo quod premisit cum dixit “La quale da Marte viene et fa dimora”: nam ista passio dicitur procedere a Marte isto modo, quoniam astrologi ponunt quod, quando in nativitate alicuius Mars fuerit in domo Veneris, ut in Tauro vel in Libra, et fuerit significator nativitatis eius, significabit natum fore luxuriosum, fornicatorem et omnibus venereis abusivis scieleratum; unde quidam sapiens qui dicitur Aly, heliotropia. org/02-01/usher. pdf 11  Heliotropiain “Comento Quadripartiti,” dicit quod, quando in nativitate alicuius Venus participat cum Marte, dat inamoramentum, fornicationem, luxu- riam et talia similia, que omnia pertinent ad passionem amoris de quo loquitur auctor in hac cantilena. (Favati) [He shows this, however, in that word he placed before when he said “La quale da Marte viene et fa dimora”: for this passion is said to proceed from Mars in this way. Astrologers claim that, whenever, at the birth of somebody, Mars is in the house of Venus, as in Taurus or in Libra, and there is a person to do the child’s horoscope, he will signify that the child will be lustful, a fornicator, and wicked in all venereal excesses. Whence a certain sage called Haly in his commentary to the Quadripartitum says that, when at the birth of somebody Venus participates with Mars, it grants enamourment, fornication, lust and such like, which all are con- cerned with the passion of love which the author talks about in this can- zone.] Boccaccio’s reference to Andalò is rather disingenuous, if the evidence of the Calmeta episode of the Filocolo is to be believed. For there the empha- sis in that passage is almost entirely astronomical, with no hint of judicial astrology, and the authorities consulted are almost certainly limited to Ptolemy’s Almagest, Andalò’s own Introductorium, rather than the simi- larly titled work by Alcabitius, and to the Alfonsine Tables. Of Haly’s commentary to the Ptolemaic Quadripartitum there is not a trace. Boccac- cio’s early astrological culture, under the sway of Andalò, has been examined in an important study by Quaglio (Scienza e mito nel Boccaccio, Padua: Liviana) and its narrative consequences (possibly more tending towards judicial astrology) in the Filocolo have been investigated by Smarr and Grossvogel. The adventitious references to Haly in the love definition in the Genealogie and Esposizioni are a sure sign that the late Boccaccio, whilst acknowledging his youthful enthusiasms, was now passively accepting and reproducing G.’s quotes and mentions, rather than referring to material he knew and remembered intimately and at first hand. What then follows in Boccaccio’s account, namely the sequence of inter- iorisation, comes from G.’s gloss to the line. G.’s ordering of the inner processes is, according to Bird, untypical, yet Boccaccio accepts it without demur: Hic autem est ordo in apprehensione humana, sicut declaratum est in scientia naturali: quod primo species rei pervenit ad sensus exteriores, ut ad visum vel auditum vel tactum vel gustum vel olphatum, deinde ab illis pervenit ad virtutes sensitivas interiores, sicut pervenit ad fantasiam primo, deinde pervenit ad cogitativam et ultimo ad memorialem. Ab istis autem virtutibus procedit postea ista species ad virtutem nobiliorem, que virtus in homine est altissima inter virtutes adprensivas, et ista est virtus possibilis. (Favati) [For this is the sequence in human apprehension, just as it is declared in natural science. First of all the species of the thing reaches the exterior senses, for instance sight or hearing, touch, taste or smell, thence from these it reaches to the inner sensitive faculties, so it comes to fantasy first, then comes to the cogitative and lastly to the memorative faculty. From these faculties this “species” reaches to the nobler faculty, which in mankind is the highest amongst the apprehensive faculties, and this is the possible faculty] G. then provides a brief explanation of the difference between the intel- lectus agens [active intellect], the reasoning function of individuation and universals, and the passive or possible intellect, merely concerned with the processing of species resulting from sensibles. The discussion is not otiose, for G. is aware of Cavalcanti’s dramatic positioning of love right at the crucial borderline between rational and sensitive activity. Boccaccio is not at all interested in such technicalities, and moves on to a matter of much greater concern, namely the question of the relationship between love and will. The relevant passage from G. glosses Guido’s assertion that love is “di cor volontate,” but Boccaccio characteristically leaves out G.’s proessionally inspired mention of the difference of opinion between Aristotle and Galen concerning the seat of the sensitive faculties, in the heart or in the head. G. writes: Et nota quod istum appetitum vocavit voluntatem, que videtur intellectui attinere, ut ostenderet quod, licet amor fiat in aliquo ex dispositione na- turali per quam quis inclinatur ad incurrendum faciliter hanc passionem, tamen fit etiam ex proposito et per electionem, quod pertinet ad volun- tatem, que est libera et liberi arbitrii, cum se habeat indifferenter ad op- posita; et est simile hic, sicut etiam est in aliis passionibus ut, verbi gra- tia, de ira. Nam aliquis, licet sit dispositus ex natura ad faciliter incurren- dum in iram, tamen per voluntatem potest se retrahere ab ea, et potest etiam in eam incurrere; et simili modo etiam de amore. (Favati) [And note that he calls this appetite the will, because the latter is seen to appertain to the intellect, in order to show that, although love can happen to somebody through a natural disposition whereby that person is in- clined easily to incur this passion, that person does so nevertheless on purpose and by choice, and so that is a case of will, which is free and by free choice, when it is faced equally with opposites. And it is the same here, just as it is with the other passions, like anger, for instance. For somebody, even though he may be disposed by nature to get angry easily, nevertheless through his will he can draw himself back from it, and he can even indulge in it; and it is the same with love. For Dino, the question is one of classification: given the working of erotic passion specifically in the sensitive appetite, it follows that engaging in or disengaging from love is necessarily a voluntary act, and therefore in part subject also to the operations of the rational soul, where choices are made. Boccaccio’s rewording changes the emphasis substantially towards moral philosophy: love is no longer an ineluctable force, and the potential lover, being free to choose, is therefore responsible for his own actions in this field as in any other. Love, as a phenomenon of the soul, is consequent on an initial act of the will, by accepting or refusing to be drawn further into passion. Though Boccaccio’s direct quotations from the Garbian glosses are all located in a compact area, he may have been encouraged to under- line this aspect by his reading further on in the commentary, for G. refers to the will obliquely later on, drawing on Haly’s Pantechne, to state more clearly than elsewhere the voluntaristic nature of passion: amor est sollicitudo melanconica, similis melanconie, in qua homo iam sibi inducit incitationem cogitationis super pulcritudinem quarundam formarum et figurarum que insunt ei. (Favati) [love is a melancholic anxiety, similar to melancholy, in which a man actually brings upon himself the rousing of cogitation upon the beauty of certain forms and figures which are within him.] A fragment of this reading of G. can be found in the Decameron, when Boccaccio describes the aegritudo amoris of the pharmacist’s daughter Lisa, as she struggles with cumulative “malinconia.” What is more important in the Garbian gloss is the accent on the will. The lover “sibi inducit incitationem.” And later again, G. will return to the topic, to explain why nobles have a greater propensity for erotic pas- sion than those whose existence is marred by the struggle for economic survival: Secunda causa est quia, licet in amore, quando est multum impressus, appetitus non sit liber, imo est servus et ducitur secundum impetum huius passionis, tamen in principio, quando incipit hec passio in appe- titu, adhuc appetitus est quasi liber, ita ut possit amare et possit desistere ab amore. Et ideo initium huius passionis incipit multotiens ex proposito. (Favati) [The second cause is because, though in love for instance the appetite, when it is much pressed, is not free, indeed it is enslaved and is led by the impetus of this passion, nevertheless in the beginning, when this passion starts in the appetite, at that point the appetite is almost free, so that it can love or desist from love. And so the beginning of this passion frequently starts from choice.] heliotropia.org/ 02-01/usher.pdf Heliotropia heliotropia.org Whereas in the Genealogie the highlighting of the question of free will served no particular purpose, and was not set within a moralising context, in the Esposizioni the moral discussion is crucial. Boccaccio has a precise task, for he is explaining the sin of those who “la ragion sommettono al talento” (Inferno). Boccaccio’s own prior interpretation of this line is rather odd: Eran dannati i peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento, cioè alla volontà. E come che questo si possa dire d’ogni peccatore inten- dere, per ciò che alcun peccatore non è che non sottometta, peccando, la ragione alla volontà, vuol nondimeno l’autore che per quel vocabolo “carnali” s’intenda singularmente per i lussuriosi. (Esposizioni V litt. 46) Boccaccio, never very consistent when adopting others’ philosophical sys- tems or terminology, seems to see no difference here between “will” and “desire.” He seems to have no real understanding of the complexities of appetition. Perhaps he was thinking of the passage in Dante’s Vita Nuova, where the poet admits to a struggle between appetite (“cuore”) and reason (“anima”). Maybe he is using “volontà” to stand for “voglia,” the term Meo Abbracciavacca uses when he writes “e qual sommette a voglia operazione” (Contini, Poeti del Duecento, Milan-Naples: Ricciardi). It is no surprise, therefore, to find that Boccaccio now moves straight from his paraphrase of G. on love and will to a discussion of whether Paolo, “atto nato ad amare” (Espo- sizioni V litt.) was obliged to fall in love with Francesca. Boccaccio freely admits that Paolo is ‘flessibile,’ in other words easily swayed, be- cause of his complexion. It is the same concept Boccaccio applies to Dante’s amorous disposition in the Chigi version of the Trattatello: “inchinevole molto a questo accidente” (again a fairly Garbian formula), but when it comes to the famous line: “Amor, ch’a nullo amato amar per- dona” (Inferno), the moralist suddenly swings into action: Questo, salva sempre la reverenzia dell’autore, non avviene di questa spezie di amore, ma avvien bene dello amore onesto (Esposizioni V litt. 169) Here Boccaccio is returning to the Aristotelian distinction between the three varieties of love (Nicomachean Ethics VIII.3) with which he had prefaced his discussion in the Esposizioni. There, he had indicated that the sensual love indulged in by Paolo and Francesca is the morally inferior “amore dilettevole,” where the pleasure principle is foremost. It is a defi- nition totally missing from the Genealogie account of Cupid, even though it had been promised much earlier. Now he claims that Francesca’s declaration of the inevitable reciprocity of love is misplaced, for such reciprocity can only happen with “amore onesto.” He backs this up with the definition to be found in Purgatorio (where Statius’ love for Virgil causes a corresponding affection in the older poet). But the lovers of Inferno V are seekers of pleasure only, not seekers of goodness (the “amore onesto” of Aristotle). But why did Boccaccio, between the Genealogie and the Esposizioni accounts, suddenly introduce the Aristotelian distinction? What does it have to do with G.’s commentary? Once again, Boccaccio has been searching around in the glosses, and has found that the next argument G. engages in is concerned with is the dual nature of love. One is the common definition: uno modo comuniter et large, secundum quod est quedam passio per quam inclinatur et movetur appetitus in aliquam rem que videtur sibi bona propter complacentiam eius, ratione cuiuscumque actus illius rei: et isto modo non accipitur hic: nam amor est circa multa, de quo amore non est presens intentio. Et de omnibus amicis ad invicem est hoc modo amor: quia amici amant se ad invicem, et tamen non amant se amore de quo est hec presens intentio; et potest etiam esse amore in uno respectu alterius, et tamen non erit amicitia inter eos: omnis enim qui est amicus alicui amatur ab illo, sed non omnis qui amat aliquem amatur ab illo; et ideo, licet omnis amicitia sit cum amore, non tamen omnis amor est cum amicitia. (Favati 371–72) [one way commonly and widely defined, according to which it is a certain passion by which the appetite is inclined and moved towards something which seems good to it on account of its pleasurability, by reason of whatever agency of that thing: and it is not accepted in this way here: for love concerns many things, about which love it is not Guido’s present intention to speak. Concerning all mutual friends, love is of this kind: for friends love each other reciprocally, and yet they do not love each other with the kind of love which is the topic here; and it can be a question of love in one regarding the other, and yet there will not be friendship between them: for everybody who is a friend to somebody is loved by that other person, but not everybody who loves somebody is loved by that person, and so, even if every friendship is with love, not every love is with friendship.] In his round-about way Dino is dealing here with the distinction between love “per concupiscentiam” [for desire’s sake] and “per amicitiam” [for friendship’s sake]. The first is properly the subject of Guido’s canzone, whereas the second is Aristotle’s true friendship, what Boccaccio calls “amore onesto.” Dino’s purpose is to go on to define the pathology of the illness that derives from amorous excess, the so-called “ereos,” richly in- vestigated by Massimo Ciavolella (La “Malattia d’Amore” dall’Antichità al Medioevo, Rome: Bulzoni, 1976) and before that by John Livingston heliotropia.org /02-01/ usher.pdf 16  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Lowes (“The Loveres Maladye of Hereos,” Modern Philology). Boccaccio, uninterested in the minutiae of such medical matters (though he refers to them in his Valerius Maximus inspired episode of Giacchetto Lamiens in the novella of the Count of Antwerp (Decameron), retains the distinction but uses it for a moral purpose. Paolo and Francesca were free to retreat from their passions, as theirs was an “amor dilettevole.” Their obstinate refusal to avail themselves of the free- dom of choice inherent in the birth of such sensual passion led to their damnation. This issue of free will clearly exercised Boccaccio, for he re- turns to it belatedly in the allegorical exposition to the canto. The com- mentator has been explaining why carnal sinners, guilty of excess in what is otherwise a natural process, are punished more lightly than the other damned souls, in a circle further from the pit of hell and nearer to God. He then has another go at defining the relative roles of astrological disposition and free use of the rational faculty of choice: L’origine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia nell’attitudine a questa colpa datane da’ cieli; la quale parrebbe ne do- vesse da questo scusare, se data non ci fosse la ragione, la quale ne dimo- stra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò, il libero albi- trio, nel quale è podestà di seguire qual più gli piace. (Esposizioni V all. 78) But this moralistic view of erotic passion, prompted by a public reading of the Paolo and Francesca episode and shaped, selectively, by G.’s glosses to Cavalcanti’s canzone, represents a very late position, beginning with the first redaction of the Genealogie, and perhaps impli- citly coeval with some of the thinking behind the remedia amoris of the Corbaccio. Boccaccio’s earlier allusions to the Inferno V episode seem to show, instead, that the involuntary nature of love, propounded by Fran- cesca, prevails. In the Filostrato, for instance, after much sighing and tearful pillow-soaking, Troiolo finally admits to his friend Pandaro the cause of his melancholy: he has fallen in love. Boccaccio’s writing at this point is saturated with reminiscences of the Paolo and Francesca passage from Inferno V. Troiolo is grateful that Pandaro is inclined to hear of his “martiro,” rhymed with “sospiro” (Dante: “sospiri” and “martiri”) and is responding to Pandaro’s “priego” since he is incapable of opposing a “nie- go” (Dante: “priega” and “niega”). Troiolo then indicates how love took over: Amore, incontro al qual chi si difende più tosto pere ed adopera in vano, d’un piacer vago tanto il cor m’accende, ch’io n’ho per quel da me fatto lontano ciascheduno altro, e questo sì m’offende, (Filostrato) This is a clear echo of Francesca speaking of how love “al cor gentil ratto s’apprende e ’l modo ancor m’offende” (Inferno). Boccaccio in paraphrasing “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” here, further em- phasises the involuntary nature of such passion. The same emphasis can be seen in the Filocolo: in the “court of love” in book four, Clonico has asked the queen for a judgment on whether an unrequited or a jealous lover should be more pitied. The queen passes sentence, saying that the unrequited lover will finally get his reward, for true love induces inevitable reciprocity in the beloved: ché, ben che ella si mostri verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non vi ami, però che amore mai non perdonò l’amare a niuno amato. (Filocolo IV.38.11) The same concept lies behind that other enamourment clearly inspired by Dante’s Paolo and Francesca, the Ovid-inspired passion of Florio and Biancifiore in Filocolo II: their love, too, is caused by Cupid’s agency, they too are apparently coerced by mutual delight. Florio clearly considers that such a situation is universal, and affects not only mortals but gods: Padre mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apollo, da voi ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all’amorevole passione resistenza; né tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato, che da simile passione non fosse oppresso. (Filocolo) But perhaps the most memorable examples of such love apologies come in the Decameron. In the novella of the count of Antwerp, the queen of France lays bare her passion for the count: Egli è vero che, per la lontananza di mio marito non potendo io agli sti- moli della carne né alla forza d’amor contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini non che le tenere donne hanno già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli ozii ne’ quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore e divenire innamorata mi sono lasciata correre. (Decameron) Though the power of love is emphasised, a subtle change has now taken place. We now get at least a fleeting admission that an element of volition was involved (“mi sono lasciata correre”). When we come to look at the famous justification of Ghismonda, caught in flagrante with Guiscardo by her jealous father (Decameron), we see the same refined con- cession. Her speech begins with a reminiscence of the Paolo and Francesca episode, audible in the pairing “né a negare né a pregare sono disposta.” Ghismonda, at various points, then outlines the sheer power and durabil- ity of the passion which has overtaken her: Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amer e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo. (Decameron) Though the wording has been altered, the influence of Francesca’s per- during love in Inferno V is clear: “ancor non m’abbandona” and “che mai da me non fia diviso”. But then the speech gets down to detail. It is Ghismonda’s youthful appetite, whetted by previous marriage and now enforced celibacy, which causes her to cede to her desires: Sono adunque, sí come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che an- cor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disi- dero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto desidero dar com- pimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello che elle mi tiravano, sí come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. (Decameron) Yet, here again, we can see that Boccaccio clearly imagines there to be a moment of decision, an instance of rational choosing, even if the flesh (and the sensitive faculties) are predisposed to “incur such passion.” To sum up then, the evidence for Boccaccio having read Dino del Garbo early on in his career, earlier than the Teseida, is quite strong. The gloss on “Donna me prega” is not associated, as one might imagine, with an interest in Cavalcanti’s vernacular verse, but rather with its availability as a con- venient manual, accessible to a non medical scholar, on the “maladye of hereos.” For this reason, perhaps, it became associated with Boccaccio’s constant re-reading of the Paolo and Francesca episode from Inferno V. What changed over time was the quality of Boccaccio’s reading of Dino, starting from an opportunistic level, where the distinction between Capel- lanus and Del Garbo is hardly felt, and ending with an interpretation which consciously develops the potential in Dino’s understanding of the role of the will. The moment of transition, however timid, seems to take place in the years of the Decameron. Grice: “So here is charming Cavalcanti writing a charaming love lyrics (Donna mi preigha) and Garbo in his worst Aristotelian jargon destroying it. I dealt with Blake (“love that never told can be”) and the best thing is to leave poetry to poets (cf. Austin rebuffing Nowell-Smith’s inability to understand Donne). The physiology of love is beyond philosophy. But in philosophy, unlike any other discipline, we respect history, and the longitudinal history of philosophy ensures that every philosopher will be familiar with the idiocies Plato makes Socrates says in Convitto about Cupido, Cupidine, Amore, Eros, Erote, Anterote, and Mars, qua symbol of maleness. In Italy they were concerned about astrology. Since the future queen of Naples had been born under the House of Mars, she will possibly be a whore!” --  Aldrobrandino Del Garbo. Garbo. Keywords: appetitus, appetitus sensitivo – spiegatura dell’amore in termine aristotelichi – amare, sentire, il patico – fornicazione – latino/volgare – Boccaccio – Petrarca – Alighieri – Cavalcanti --. de militia complexionis diversae, eros, amore, malattia, Aristotele, passione, ragione, appetite sensitive, amore, sentire – re-cognosenza da parte dell’amato dell’amore dell’amante – via senso? Marte – self-love, other-love, amore proprio, amore a se stesso, amore all’altro. Refs.: Luigi Speranza, “Garbo e Grice: amore, passione, implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gargani: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia – filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “I like Gargani; many of his essays are pretty interesting: he’s written on the ‘sense’ of ‘true,’ and on the ‘endless phrase,’ – la frasse infinita – which according to Griceian principles, must rely on implicature, since it involves a communicational impossibility!” -- «È un fatto che gli uomini hanno prodotto assai più cose di quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno eretto nella forma di costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se fossero separate dal caso e dal disordine, corrisponde ad un uso che essi hanno fatto della propria vita.” Si laurea a PISA sotto BARONE (si veda). Collaborando con Lepschy, allora professore all'University College di Londra, e conducendo le sue ricerche al Queen's sotto la guida di Geordie McGuinness. È stato il massimo studioso italiano di Vitters, e ha contribuito alla diffusione della filosofia di D. F. Pears. I suoi ambiti di studio sono stati prevalentemente la filosofia del linguaggio, l'estetica, l'epistemologia, e la psicoanalisi. Di particolare interesse è anche il suo tentativo di una scrittura filosofica narrativa, come in Sguardo e destino” (Laterza, Roma-Bari); “L'altra storia” (il Saggiatore, Milano); Il testo del tempo” (Laterza, Roma-Bari).  Altre opere: “Esperienza in Vitters” (Le Monnier, Firenze); “Hobbes” (Einaudi, Torino); “Vitters” (Laterza, Roma-Bari); “Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell'esperienza commune” (Einaudi, Torino ); “Vitters a Cambridge” (Stampatori Editore, Torino); “Kafka” (Guida, Napoli); “Lo stupore e il caso” (Laterza, Roma-Bari);  “La frase infinita” (Laterza, Roma-Bari); “Il coraggio di essere” (Laterza, Roma-Bari); “Stili di analisi” (Feltrinelli, Milano); “L'organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica” (Guerini, Milano); “Il pensiero raccontato” (Laterza, Roma-Bari); “Una donna a Milano” (Marsilio, Venezia); “Il filtro creative” (Laterza, Roma-Bari); “Dalla verità al senso della verità” (Plus, Pisa); “Mondi intermedi e complessità” (Ets, Pisa); “Il gesto” (Cortina, Milano); “La filosofia della cura” (ASMEPA Edizioni, Bentivoglio); “L'arte di esistere contro i fatti” (Lamantica Edizioni, Brescia); “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane” (Einaudi, Torino). Altri contributi Relazione d'aiuto, sintonia comunicativa e organizzazione sociale, in Il vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane, Fondazionalismo e antifondazionalismo, Relativismo e nuovi paradigmi filosofici, Inquietudine, empatia, identità e narrazione (Pordenone). Eurialo e Niso coppia di amici, guerrieri troiani nella mitologia greca e nell'Eneide di Virgilio Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti mitologia romana e personaggi immaginari non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Eurialo e Niso Nisos Euryalos Louvre LL450 n2. jpg Eurialo e Niso di Roman, Louvre SagaCiclo Troiano ed Eneide Nome orig.Euryalus e Nisus Epitetoinsigne per bellezza (Eurialo), fortissimo in armi (Niso), Irtacide (patronimico di Niso) 1ª app. inEneide di Virgilio, I secolo a.C. circa (Eurialo)  Sessomaschi Luogo di nascitaTroia (Eurialo), monte Ida (Niso) Eurialo e Niso (in latino Euryalus e Nisus) sono due personaggi che compaiono in due episodi dell'Eneide di Virgilio. Guerrieri profughi di Troia, costituiscono un grande esempio di amicizia e di valori che Virgilio teneva a riportare in vita con la sua opera.  Il particolare rapporto che li lega è definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici nemici dei troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani latini Cidone e Clizio.  Il mito Appresentossi in prima Eurïalo con Niso. Un giovinetto di singolar bellezza Eurïalo era; e Niso un di lui fido e casto amico.»  (Virgilio, Eneide, traduzione di A. Caro, V, 425-428) Eurialo Eurialo (figlio di Ofelte, un troiano morto durante la guerra di Troia nonché lontano parente di Priamo) è il più giovane dei due amici, poco più che un fanciullo, e con la sua grande bellezza riesce sempre a ottenere il favore degli altri.  Partecipa alla gara di corsa a piedi durante i giochi funebri per Anchise, nel quinto libro dell'Eneide, a fianco dell'amico Niso e riesce a vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di Salio, un altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le sue lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per lui.  Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani, approfittando dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici. L'inesperienza di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba nell'accampamento nemico diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo. Saranno proprio quei trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una parte il riflesso dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due compagni, dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai soldati nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un bosco vicino all'accampamento rutulo.  In quel momento Virgilio richiama alla mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa il capo durante la pioggia.  NisoModifica Niso appartiene a una famiglia illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - del nobile troiano Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata da Priamo, chiamata anche Ida. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto, avendo combattuto insieme ai fratelli nella guerra di Troia. Nel poema è ricordata tra l'altro la sua passione per la caccia, trasmessagli da entrambi i genitori. Compare per la prima volta nel quinto libro al fianco di Eurialo nella gara di corsa, in cui scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie a uno stratagemma.  Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per uscire dall'accampamento dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea, ma Eurialo vuole seguirlo. Dapprima Niso non acconsente ritenendo il ragazzo non ancora pronto per affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua insistenza, parte con lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi giovani italici sopraffatti dal sonno, dal vino e dall'inesperienza, imitato poi da Eurialo.  Tenterà invano di salvare l'amico fatto prigioniero dai cavalieri di Volcente. Il suo affetto per il giovinetto lo spinge a vendicarne la morte; egli riuscirà nell'intento cadendo però a sua volta.  Quinto libro - La gara di corsaModifica La prima apparizione di Eurialo e Niso risale al quinto libro dell'Eneide, durante la gara di corsa a piedi svoltasi a Erice nei giochi in onore di Anchise, il defunto padre di Enea. L'episodio è peraltro tratto dalla gara avvenuta nell'Iliade fra Odisseo, Aiace d'Oileo e Antiloco, vinta da Odisseo. Niso si porta in testa, ma scivola inavvertitamente su una pozza di sangue sacrificale, probabilmente sparso da Eneaprima della celebrazione dei giochi.  A quel punto Salio, un altro partecipante, tenta di correre per il primo posto, ma Niso, mosso da un profondo affetto per l'amico, fa uno sgambetto all'avversario che finisce a terra.  Di conseguenza Eurialo sorpassa Salio e vince la gara.  Irritato per la vittoria ingiusta di Eurialo, Salio si lamenta da Enea, ma il pubblico, commosso dal pianto e dal bell'aspetto di Eurialo, parteggia per il giovinetto.  Enea consegna comunque un premio di consolazione a Salio e a Niso, rispettivamente una pelle di leone africano e uno scudo forgiato da Didimaone, e offre al giovane vincitore il premio che gli sarebbe spettato di diritto, ossia un cavallo con borchie.  Nono libro - La sortita notturna e la morte dei due giovaniNella sortita notturna del nono libro, Virgilio s'ispira a quella di Diomede e Ulisse nel decimo libro dell'Iliade, dove i due achei sorprendono nel sonno il giovane re trace Reso e dodici suoi guerrieri.  L'esercito di Turno sta cingendo d'assedio la cittadella dei Troiani sbarcati nel Lazio; Enea, alla ricerca di alleati, si è recato tra gli Etruschi. Niso si propone di uscire per andare a raggiungere Enea e avvertirlo del pericolo imminente, ma Eurialo vuole rimanere al suo fianco, pur sapendo di essere ancora molto giovane per un'impresa così rischiosa e di poter avere ancora una lunga vita davanti a sé. Dopo aver ricevuto il consenso dei compagni riguardo alla loro proposta, Eurialo e Niso si preparano a partire per la loro missione. Ascanio, il figlio di Enea, promette loro grandi premi, tra cui tazze e cucchiai d'argento, cavalli, armature, donne e schiavi, mentre gli altri troiani li equipaggiano con armi adatte all'impresa.  I due amici penetrano nel campo dei Rutuli addormentati. Niso mette al corrente Eurialo della sua intenzione di farne strage e passa immediatamente all'azione, aggredendo un amico intimo di Turno, il borioso re e augure Ramnete, che stava russando nella sua tenda su un cumulo di sontuose stuoie, e con la spada lo colpisce alla gola; introdottosi quindi negli alloggiamenti di Remo, altro importante condottiero italico, sgozza l'auriga disteso sotto i cavalli per poi staccare la testa al suo signore coricato nel letto e ancora al bellissimo giovinetto Serrano riverso a terra nel suo sonno di ubriaco dopo aver dedicato al gioco dei dadi buona parte di quella che sarebbe stata la sua ultima notte. Questi sono i più noti tra i numerosi guerrieri che finiscono vittime di Niso. Anche Eurialo non resiste alla tentazione di uccidere qualche italico; un certo Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di nascondersi dietro un cratere, ma viene ucciso proprio da Eurialo. A questo punto Niso esorta il compagno a cessare la strage; i due troiani escono dal campo nemico. Eurialo porta via con sé alcuni oggetti di valore, tra cui l'elmo di Messapo (un alleato italico dei Rutuli, che non è tra le vittime).  Proprio per la vanità di Eurialo i due amici vengono avvistati da un drappello di trecento maturi cavalieri rutuli guidato da Volcente; accade infatti che i bagliori dell'elmo e il suo vistoso pennacchio attirino l'attenzione dei nemici, che incominciano allora a inseguire la coppia di troiani, rifugiatasi nel bosco.  Gli uomini di Volcente si sparpagliano quindi attraverso passaggi sconosciuti a Eurialo e Niso, che cercano una via di fuga.  Improvvisamente Niso si ritrova da solo e, correndo a ritroso per cercare l'amico, lo vede circondato da soldati italici. A quel punto, disperato, scaglia le sue armi contro i nemici e riesce a uccidere Sulmone e Tago, due cavalieri di Volcente, il quale, non capendo chi possa essere l'autore di quelle uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada, trafiggendolo mortalmente.  (LA)  «Talia dicta dabat; sed viribus ensis adactus transabiit costas et candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus it cruor, inque umeros cervix conlapsa recumbit: purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens lassove papavera collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur. Mentre così dicea, Volscente il colpo  già con gran forza spinto, il bianco petto del giovine trafisse. E già morendo  Eurïalo cadea, di sangue asperso  le belle membra, e rovesciato il collo, qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch'a terra il capo inchina. -- Trad. Caro. Niso allora grida disperato e si scaglia con tutta la sua violenza contro Volcente, conficcandogli quindi la spada nella bocca spalancata e uccidendolo. Il giovane viene però attaccato dagli altri soldati presenti e, morendo, si getta sull'amico e si dà finalmente pace. At Nisus ruit in medios solumque per omnis Volcentem petit in solo Volcente moratur. Quem circum glomerati hostes hinc comminus atque hinc proturbant. Instat non setius ac rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et moriens animam abstulit hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum morte quievit. In mezzo de lo stuol Niso si scaglia  solo a Volscente, solo contra lui  pon la sua mira. I cavalier che intorno  stavano a sua difesa, or quinci or quindi  lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre  addosso a lui la sua fulminea spada  rotava a cerco. E si fe' largo in tanto  ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava,  cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse.  Così non morse, che si vide avanti  morto il nimico. Indi da cento lance  trafitto addosso a lui, per cui moriva,  gittossi; e sopra lui contento giacque.»  (Caro) Conseguenze della morte di Eurialo e NisoModifica Sùbito dopo la morte di Eurialo e Niso, Virgilio interviene nella narrazione, assicurando ai due amici un eterno ricordo da eroi tragicamente sconfitti:  Fortunati ambo! Siquid mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. Fortunati ambidue! Se i versi miei tanto han di forza, né per morte mai, né per tempo sarà che 'l valor vostro glorïoso non sia, finché la stirpe d'Enea possederà del Campidoglio l'immobil sasso, e finché impero e lingua avrà l'invitta e fortunata Roma. (Caro) I corpi esanimi di Eurialo e Niso vengono portati all'interno dell'accampamento rutulo, e quivi sottoposti a decapitazione.  Le teste recise dei due giovani vengono quindi conficcate su lance e portate davanti al presidio troiano con grande clamore.  In seguito la Fama avverte la madre di Eurialo della morte del figlio. Ella, sconvolta dalla notizia, corre fuori di casa strappandosi i capelli e urlando. Ha così inizio un commovente discorso in cui sembra rimproverare il figlio per non averla nemmeno salutata per l'ultima volta prima di partire per la sua pericolosa missione, e rimpiange di non aver potuto guidare le sue esequie e rivedere il suo corpo.  La donna sembra non aver più nemmeno la forza di vivere e implora di essere uccisa dai Rutuli, trafitta dalle loro frecce. L'ultima memoria a Eurialo e Niso è offerta dai troiani che li rimpiangono con gemiti e lacrime e riportano in casa la madre di Eurialo.  Vittime di Eurialo e Niso Vittime di Eurialo Le vittime di Eurialo, tutte uccise nel campo dei Rutuli, sono perlopiù anonime; fanno eccezione:  Abari Erbeso Fado Reto (l'unico che non viene ucciso nel sonno). Colpito di spada al petto, muore vomitando l'anima insieme al vino e al sangue. Vittime di Niso Cavalieri uccisi in scontro aperto:  Sulmone, colpito mortalmente da un dardo al petto Tago, ucciso con un dardo che gli trapassa le tempie Volcente, il comandante, cui Niso conficca la spada nella bocca spalancata Guerrieri sorpresi nel sonno:  Ramnete, augure e re italico Remo, condottiero rutulo Lamiro e Lamo, guerrieri rutuli al seguito di Remo Serrano, giovanissimo guerriero rutulo famoso per la sua bellezza, anch'egli al seguito di Remo In questo elenco vanno aggiunti i tre servi di Ramnete e l'auriga di Remo: ma il verso «armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis, da alcuni tradotto sopprime l'auriga ed armigero di Remo è da intendersi per altri come sopprime lo scudiero di Remo e l'auriga, quindi il numero complessivo delle vittime di Niso può variare da 12 a 13. In ogni caso Niso è, dopo Enea e Turno, il guerriero che uccide più nemici nel poema; e tra gli italici che egli sorprende nel sonno sono ben quattro quelli che subiscono la decapitazione, ovvero Remo, Lamiro, Lamo e Serrano.  Virgilio mette anche un certo Numa tra gli italici uccisi nel sonno, ma solo nella sequenza che descrive la scoperta della strage. Per molti studiosi il punto in questione sarebbe uno dei tanti sfuggiti alla revisione definitiva dell'opera: e poiché Numa viene citato insieme a Serrano, si pensa che il poeta abbia scritto erroneamente "Numa" in luogo di "Lamo" o "Remo". Peraltro in un passo del libro X il nome Numa ritorna, insieme a quelli di Volcente e Sulmone: quest'ultimo viene detto padre di quattro giovani guerrieri catturati da Enea, che poco dopo appunto uccide, in mezzo ad altri nemici, un guerriero chiamato Numa, e il figlio di Volcente, Camerte, biondo signore di Amyclae.  Raffronto con l'IliadeModifica Nel compiere la strage, i due giovani vengono paragonati dal poeta a un leone vorace che entrato in un ovile affonda i denti sulle inermi pecore; la similitudine proviene dal modello omerico con la strage dei Traci. La pagina del massacro compiuto dalla coppia troiana si caratterizza però soprattutto per la presenza di particolari cruenti, come l'immagine di Reto che vomita la sua anima intrisa del vino bevuto, e le decapitazioni operate da Niso (Diomede riserva questo trattamento a Dolone e non ai Traci addormentati); il giovane eroe tuttavia si astiene dall'incrudelire sulle teste recise delle sue vittime, divergendo in questo da altre figure epiche (Agamennone e Achille nell'Iliade; Turno e lo stesso Enea nell'Eneide). L'immagine di Eurialo morente, col giovinetto che piega il capo come un papavero, è anch'essa mutuata dall'Iliade, ma richiama un altro passo, quello dell'agonia di Gorgitione, uno dei figli di Priamo, ucciso in battaglia da Teucro nell'ottavo libro del poema. Il testo virgiliano contiene anche alcuni tratti di comicità nera (l'augure Ramnete, amante del fasto, che non riesce a prevedere la propria morte; e l'uccisione del bizzarro auriga di Remo, sorpreso mentre giace tra i suoi stessi cavalli).  Benché l'episodio della sortita notturna sia modellato su quella compiuta da Odisseo e Diomede, i troiani presentano tratti che rimandano più ad Achille e Patroclo per il rapporto che li unisce, ovvero quello di due guerrieri-amanti. In Niso peraltro si può riscontrare una personalità molto simile a quella di suo fratello Asio nell'Iliade, caratterizzata da audacia e irruenza; oltretutto anche Asio soccombe dopo aver tentato di vendicare un commilitone caduto, Otrioneo, al quale però non è sentimentalmente legato, così come non risulterebbe avere un coinvolgimento erotico col proprio auriga, destinato a perire subito dopo di lui. [1].  Interpretazione dell'episodio Affiora in questi versi lo sgomento di Virgilio di fronte agli orrori della guerra, che miete lutti su lutti. La guerra non è tra buoni e cattivi: i troiani cercano una nuova patria, gli italici si sentono minacciati. In nessun altro punto del poema soccombono così tanti eroi giovani: se si eccettuano Volcente e i suoi due cavalieri, padri di famiglia, tutti gli altri personaggi dell'episodio vanno incontro a morte prematura, non ci sono solo Eurialo e Niso, dato che i guerrieri che i due troiani uccidono nel sonno sono più o meno loro coetanei: in IX, 161-63 si dice infatti che Turno sceglie per l'assedio 1.400 giovani («bis septem Rutuli muros qui milite servent / delecti, ast illos centeni quemque sequuntur /purpurei cristis iuvenes auroque corusci»). Gioventù che va di pari passo con l'imprudenza: i Rutuli si lasciano sopraffare dal sonno, un elmo sottratto da Eurialo ai nemici sarà all'origine della sua morte. Ma morire giovani in guerra significa anche guadagnarsi la fama eterna, e a questo provvede Virgilio che manifesta lo stesso senso di rispetto per tutti i caduti: guerrieri aristocratici come Niso, Remo e Ramnete (che pur bollato dal poeta in un primo tempo come superbus per l'ostentazione del suo doppio potere è uno degli italici che Virgilio metterà tra le vittime maggiormente rimpiante dall'esercito italico, essendo indiscutibile la sua amicizia per Turno), e soldati di estrazione non nobile come Eurialo e Serrano.  Fortuna dell'episodio Nell'Orlando furioso di Ariosto i due soldati saraceni Cloridano e Medoro compiono una sortita notturna nel campo dei cristiani per cercare il cadavere di Dardinello, il loro signore caduto in battaglia, e vi uccidono diversi nemici sorpresi nel sonno. Fin qui Ariosto segue Virgilio: diversa è la conclusione, che vede soccombere il solo Cloridano, mentre Medoro è destinato a essere salvato dalla bella Angelica; inoltre mancano descrizioni relative al ritrovamento dei guerrieri uccisi nella strage.  Eredità culturaleModifica A Eurialo e Niso sono stati dedicati due crateri di Dione, uno dei satelliti di Saturno. Massimo Bubola ha preso ispirazione dall'episodio virgiliano per una sua canzone scritta in collaborazione con i Gang e da questi incisa in primis, intitolata Eurialo e Niso, in cui si narra di due giovani partigiani - omonimi della coppia di personaggi virgiliani - autori di una sortita notturna contro i nazisti. Anche in questo caso la vicenda si conclude con la morte di entrambi gli amici. Fonti VIRGILIO (si veda) Eneide. Asio è invece molto più legato al principe troiano Deifobo, che subito dopo la sua morte decide di vendicarlo Iliade (Monti) Voci correlateModifica Temi LGBT nella mitologia Irtaco Arisbe Asio (figlio di Irtaco) Ippocoonte (figlio di Irtaco) Salio Volcente Cloridano Medoro (Orlando furioso) Ramnete Remo (Eneide) Serrano (Eneide) Lamiro e Lamo Reto Cidone e Clizio Decapitazione Reso. Eurialo e Niso   Portale Letteratura   Portale Mitologia Scienza e filosofia della complessità. Studi in memoria di G. A cura di Marinucci, Salvia, Bellotti Collana “I Tempi e le Forme” (Carocci) G.: la filosofia come analisi delle possibilità di Alfonso Maurizio Iacono Introduzione di Angelo Marinucci e Stefano Salvia 1. Determinismo, linearità, prevedibilità. Il problema dei tre corpi da Newton a Poincaré di Salvia Genesi e sviluppo di un problema scientifico/La prima formulazione esplicita del problema Dalla geometria analitica all’analisi algebrica/La controversia intorno a 1 r2 Il problema dei tre corpi ristretto Il Sistema solare è stabile? Dall’analisi algebrica alla meccanica analitica La meccanica razionale e l’analisi classica Il teorema di Poincaré: limite invalicabile o nuovo spazio di possibilità? Il problema della previsione in un sistema deterministico classico di Cintio Il problema dello studio delle evoluzioni temporali/Sistema dinamico/Il determinismo e il problema delle previsioni delle evoluzioni/ Evoluzioni caotiche/Dalle singole orbite alle famiglie di sistemi Il problema della previsione e la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali 3. Ordine e caos nella scienza moderna di Fronzoni Introduzione La riscoperta del caos Le biforcazioni Coerenza e autorganizzazione La turbolenza Stati coerenti localizzati: i solitoni La sincronizzazione Coerenza e disordine nella meccanica quantistica Entropia e complessità  Network Conclusioni Su Turing, gli algoritmi, le macchine, la prevedibilità di Bellotti Turing: una brevissima biografia Una digressione: Penrose contro Turing Algoritmi Macchine di Turing Un’osservazione finale: sulla prevedibilità del comportamento delle macchine di Turing 5. Come il futuro dipende dal passato e dagli eventi rari nei sistemi viventi di Longo Introduzione Storia e dipendenza dal cammino in fisica: qualche confronto/La memoria: un esempio d’invariante storicizzato/Gli osservabili biologici e le loro dinamiche evolutive Verso il futuro: sapere e imprevedibilità/ Tracce invarianti di una storia/Spazi relazionali costruttivi e invarianza Conoscenza del presente e invenzione del futuro/Il ruolo della diversità e degli eventi rari Conclusione Possibilità e realtà tra fisica e biologia di Angelo Marinucci Introduzione/Fisica classica La meccanica quantistica La biologia Scienza e filosofia della complessità: Studi in memoria di G., a cura di: Marinucci, Salvia, Bellotti, Carocci, Roma, Il volume raccoglie i contributi, ampiamente elaborati, presentati al convegno Possibilità al di là della determinazione. Matematica, fisica e filosofia della complessità, tenutosi all’Università di Pisa in memoria di G.. Del filosofo sono ben noti gli interessi filosofici per la questione, nata nella fisica moderna e in altri saperi, dell’emergere – in sistemi complessi – di possibilità che vanno, irriducibilmente, al di là della determinazione. Aldo Giorgio Gargani. Gargani.  Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia, scambio, organisazzione condivisa – communicazione – implicatura come condivisa – empatia – d. f. pears --. Mcguinness, Gargani on Grice – ragione – Treccani -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gargani” – The Swimming-Pool Library. Gargani.

 

Grice e Garin: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del rinascimento – scuola di Rieti – filosofia rietesi – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rieti). Filosofo rietese. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Rieti, Lazio. Grice: “Garin is a serious student of what we may call the longitudinal, rather than latitudinal, unity of Italian philosophy! If ever there is one!” --  Italian philosopher, author of a very rich, “La cultura filosofica del rinascimento italiano.” And “L’umanesimo italiano” Grice was Lit. Hum. Oxon, so he knew. Linceo. Studia sotto Limentani. Frequenta il Liceo classico Galileo. Si laurea sotto Limentani. Vari studi sull'Illuminismo che confluiranno nel volume sui moralisti inglesi. Subito dopo la laurea sostenne e vinse il concorso per insegnare nei licei, cosa che continuò a fare fino a quando vinse la cattedra da ordinario all'università. Tra i commissari del concorso liceale c'è GUZZO (si veda), una figura che costituirà un punto di riferimento per G. quanto meno fino ai primi anni del dopoguerra. I suoi riferimenti culturali non erano costituiti da intellettuali e politici come Gramsci, ma da filosofi di matrice spiritualista e cattolica come Lavelle,  Senne, Castelli Gattinara di ZUBIENA (si veda), SCIACCA (si veda) e lo stesso GUZZO (si vedea). Iscritto al Partito Nazionale, pronuncia al liceo di Firenze una commemorazione a GENTILE (si veda). Una svolta nelle prospettiva politica, filosofica e storiografica (le tre cose non vanno separate) si ha con l'uscita dei Quaderni del carcere di Gramsci, che hanno fortemente influenzato la sua filosofia nel costante riferimento alla concretezza del pensiero, e con la pubblicazione delle Cronache di filosofia italiana, fortemente sollecitato da Laterza. Storico della filosofia molto legato al rigore filologico e al lavoro sui testi, rifiuta la definizione di filosofo. È tuttavia considerabile tale proprio in virtù delle sue polemiche anti-speculative e come influente teorico della storiografia filosofica. Insegna a Firenze. Si ttrasfere a PISA a causa dei perduranti disordini della rivolta studentesca, di cui non condivide le modalità di lotta e che considera espressione di astratto rivoluzionarismo. La sua infaticabile avidità di letture filosofiche lo rende consigliere prezioso. I lincei gli confere il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Altre opere: “Pico: vita e dottrina”; “Gl’illuministi inglesi. I Moralisti; “Il rinascimento ITALIANO”; “L'Umanesimo ITALIANO”; “Medioevo e Rinascimento”; “Cronache di FILOSOFIA ITALIANA”; “L'educazione in Europa”; “La filosofia come sapere storico”; “La filosofia nel Rinascimento ITALIANO”; “La cultura ITALIANA”; “Scienza e vita civile nel Rinascimento ITALIANO”; “Storia della FILOSOFIA ITALIANA”; “Dal Rinascimento all'Illuminismo”  “FILOSOFI ITALIANI”; “ Rinascite e rivoluzioni”; “Lo zodiaco della vita”; “Tra due secoli”; “Cartesio”; “L’Ermetismo del Rinascimento”; “Gli editori ITALIANI”; “La cultura del Rinascimento”. Ciò non toglie che l'importanza della interpretazione del Rinascimento che G. ci dà nei suoi scritti e ci documenta nelle sue edizioni, pubblicazioni, finissime traduzioni di testi umanistici di ogni tipo (filosofico, politico, critico, letterario) possa essere, senza iperbole, confrontata con l'importanza della evocazione del Burckhardt» in Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, la Repubblica, Mecacci L., La Ghirlanda fiorentina e la morte di Gentile, Adelphi, Milano, su lincei. Fondo G., Il percorso storiografico di un maestro, Firenze, Le Lettere, Biondi, Dopo il diluvio. G., l'ombra di Gentile e i bilanci della filosofia, in Un secolo fiorentino, Arezzo, Helicon,,Olivia Catanorchi e Valentina Lepri, Dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,. Ciliberto, G.. Un intellettuale nel Novecento, Roma, Laterza,. Raffaele Liucci, Quelle ombre sul delitto Gentile in "Treccani Magazine", La Ghirlanda fiorentina e la morte di Gentile, Adelphi, Milano, "Il Gramsci di G., in Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia della realtà, Napoli, Bibliopolis, Umanesimo e umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di G., Milano, FrancoAngeli, Treccani Enciclopedie Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Eugenio Garin, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di G.. Quando con ritrosia è portato a farne un sobrio bilancio, G. insiste a dire di essere stato soprattutto un insegnante. Ho sempre insegnato, ripete. E insegnante lo  è stato alla scuola di  avviamento al lavoro di Fucecchio, dei ragazzi di buona famiglia delle  Mantellate di Firenze, alle quali fa lezione sorvegliato da una severa suorina, dei suoi quasi coetanei del Liceo Cannizzaro di Palermo, poi di quelli del Liceo Vinci di Firenze, mentre sostituiva  uno dei suoi maestri, SARLO (si veda), nell’insegnamento universitario di filosofia. Insomma,  sempre insegna e, come si dice, in ogni ordine di scuola dall’università  in giù. Non saprei dire di G. insegnante di liceo. Vorrei dire solo qualosa di G. docente universitario. Credo che ognuno possa sostenere, e  con ragione, di aver conosciuto e di aver avuto un suo G.. Non già  perché egli avesse la facoltà di adattarsi a chi per dovere o per diletto lo  volesse ascoltare. Anzi. Ma perché ciascuno era messo in grado di reagire  a quell’incontro con il proprio carattere, con la propria formazione, con  è scomparso G.. Al maestro fiorentino e alla sua  opera la Biblioteca Roncioniana aveva dedicato un convegno (cfr. Giornata di studi,  omaggio a G., Bollettino Roncioniano; del convegno sono poi  usciti gli atti: G.. Il percorso storiografico di un maestro, cur. Audisio  e Savorelli, Firenze, Le Lettere. Pubblichiamo qui un ricordo di G., che Tonini legge nela cerimonia svoltasi in Palazzo vecchio , aha quale sono intervenuti il Sindaco di Firenze, Domenici, Cacciali, Ciliberto, Luzi e Rossi. Il testo è apparso nella brochure Per G., Napoli,  Bibliopoli, edita a cura di Tonini e Franco, che si ringraziano  per averne acconsentito la ristampa in questa sede. Tonini le proprie attese. In altre parole egli non intende plasmare l’ascoltatore, ma solo offrire occasioni, occasioni cui ognuno doveva e poteva rispondere a suo modo, liberamente.Non che il suo insegnamento è univoco, uguale dappertutto e per tutti. È un insegnante troppo navigato per  sapere che una cosa è far lezione al pupillo di filosofia assieme, un’altra ai soli filosofi, come ci chiama, un’altra cosa ancora ai laureati e laureandi. Sa bene che è diverso rivolgersi ai colleghi in un convegno di  studio, o parlare in una casa del popolo, oppure rivolgersi a tutti, ai cittadini, come spesso gli è capitato proprio qui nel palazzo vecchio della sua  Firenze. Cambiano i contenuti, mutano i toni, mai il carattere, l’alta  professionalità, medesima sempre la passione. G. non spezzetta mai il pane della cultura: ovunque, o a chiunque avesse da parlare  o da insegnare, lo sconosciuto pupillo che si presenta all’esame, l’amico e collega, lo studioso straniero, il laureato, tutti meritano  sempre la stessa attenzione, il medesimo trattamento. Sì che nella sua produzione letteraria le conferenze lincee e le lezioni al Collège de France  stanno insieme agli scritti, diciamo, d’occasione, senza che il lettore ne  colga, se non con l’aiuto di riferimenti bibliografici, la loro provenienza e  la loro destinazione. Niente gli è più alieno, fisicamente e metaforicamente, dell’espressione prendere per mano. G. non prende per mano nessuno. Apre un libro, i cui capitoli anda narrando di volta in volta. Un libro sempre nuovo. Per chi sa apprezzarlo, quel libro conduce a altri libri,  poi a una collana, infine a una biblioteca, spesso la sua. Un libro somigliante a quello di un autore a lui carissimo, Sterne, La vita e le opinioni di Shandy [LIFE AND OPINIONS – GRICE], fatto di parentesi, di divagazioni apparenti, di  vie traverse che sembrano far perdere di vista il contenuto promesso fino  a farlo dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è necessario  per cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un libro ciascuno,  per proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi, se volete, la propria  strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E come con un libro, ciascuno instaura con lui un rapporto individuale: per quanto paradossale, la  sua lezione non consentiva alcuna lettura corale, alcuna possibilità di dispense, alcuna versione ufficiale. Considera la cultura, lo ha scritto, la conquista di una più profonda coscienza di sé. E l’università è cultura. In questo senso il suo non è  mai stato un insegnamento demagogicamente democratico, né si è mai  considerato un missionario, né ha considerato il proprio lavoro una missione. Piuttosto un funzionario, come amò talora definirsi, civettando  con il motivo del trasferimento della sua famiglia a Firenze, che assicurava un viaggio su un treno sicuro, tecnicamente aggiornato, ben condotto,  ma che, al pari di un capotreno, non era, e non si considerava, poi responsabile se i viaggiatori scendevano alle stazioni intermedie e prendevano altre direzioni. Non credo si sia mai sentito coinvolto nelle scelte altrui, né voleva esserlo. Non si prestava, pur avendone le doti, a essere il  pifferaio fascinatore di candide giovinette e di timidi giovinotti. Lo  considera un tradimento, un traviamento del suo compito, che  è appunto, e solo, quello di insegnare la filosofia, di insegnare a capirne  la storia, di fare cultura, ma sempre altro da convincere o da portare su  una strada che non fosse già in qualche modo segnata, e segnata individualmente, in chi lo ascolta. Un pescatore anche, ma un pescatore che getta reti larghe e profonde nelle quali si aspettava che i pesci entrassero spontaneamente, mai  che venissero catturati. I suoi pesci erano e dovevano essere pupillo non venivano infatti da un esame che ne aveva certificato proprio la maturità? che egli considerava suoi pari, almeno per quel che riguarda il cartesiano bori sens, la bona mens, la cosa più diffusa e più equamente  distribuita tra gli uomini, sì che la differenza tra lui e noi riguardava, galileianamente, l’estensione del sapere, non la capacità di comprendere. Il  severo, severissimo G., che tanto spaventa le matricole, è un benevolo confessore dell’ignoranza del suo pupillo. E quelli più maturi  imparavano subito che la migliore risposta alle domande che fioccavano  in aula era quella di confessarla subito quella ignoranza, anche quando si  era quasi sicuri della risposta -- ma chi è sicuro di fronte a G.?.  Certo, quell’estensione del sapere costituiva una barriera, una differenza di cui era consapevole lui e consapevoli noi, una barriera quantitativa, ci faceva credere, scalabile e riducibile, quasi come una differenza di  età, mai come un’inattingibile diversità, che mai si trasformava in paternalistica condiscendenza. Quella barriera si sgretolava nella generosa disponibilità a fornire indicazioni e libri, al reiterato prestarsi a spiegare non  solo le tematiche del proprio corso, ma a offrirsi di guidare piccoli gruppi  alla lettura dei testi (Hegel, Kant o Husserl) dei corsi di altri colleghi che  ci risultassero particolarmente difficili. Il grande intellettuale non dimentica in nessuna occasione la sua professione: non solo nel rigido adempimento dei suoi obblighi di docente, nella proverbiale puntualità, nella  scrupolosa preparazione dei corsi (i ‘bauli’ di libri che partivano anzitempo per la montagna), nella paziente e tanto prodiga lettura dei capitoli  delle tesi di laurea, nella curiosità con cui ogni anno rinnovava l’incontro  con i suoi giovani interlocutori. Aveva trasformato una precoce vocazione in una professione, in un affetto per il proprio lavoro, prima ancora  che per chi dovesse usufruirne, in una disciplina che scherzosamente at- [G. La lezione di un maestro  tribuiva alle lontane origini savoiarde, ma che forse è la chiave per cogliere la sua straordinaria e mai dismessa operosità, la freschezza di ogni suo  intervento. G. non è mai stato altro cheun insegnante: poche, modeste e occasionali le cariche accademiche, nelle quali emergeno un’insofferenza e una scontrosità imprevedibili nel professore, altrettanto rare  quelle istituzionali o editoriali e solo al termine, o quasi, della sua carriera  scolastica, nessuna, ovviamente, carica politica, in un uomo che ha, come sa, una grande e perdurante passione civile, per la sua scuola,  per la sua città, per il suo paese. Credo che nulla gli è apparso più  estraneo e spiacevole di esser considerato a capo di qualcosa, fosse un istituto, una rivista o una cordata accademica. Di fatto non c’è mai stata una  scuola di G., ci sono stati, e ci sono, tanti che hanno studiato e si sono  laureati con lui, che lavorano con lui, che condivideno aspetti  e momenti del suo lavoro, che si sono incontrati con lui, ma niente di più. Incauti, invidiamo gl’allievi di PRA, che il maestro  raduna a S. Margherita o sul lago di Garda, cui apre la Rivista critica  di storia della filosofia, la collana del centro milanese di storia della filosofia. O quelli di Paci, che si ritrovano su aut aut,  che si incontrano nelle edizioni del Saggiatore, ricordiamo e riconoscemo quelli di Banfi o quelli emergenti di Geymonat, che attendeno a imponenti opere collettive, e tanti altri che andano sorgendo vicino e lontano. G. non ha nulla. Non ha mai diretto opere collettive, non ha mai organizzato convegni né li ha fatti organizzare, mai collane editoriali. Quando ciò è avvenuto con l’ISTITUTO NAZIONALE DEL RINASCIMENTO o con il Giornale critico della filosofia italiana, tutto si è potuto e si può dire, fuori che fossero espressioni di una  scuola o di un gruppo che in lui si riconoscesse o che in lui fosse riconoscibile. Neanche quando a PISA gli si è offerta l’opportunità di cogliere ancora una volta una straordinaria e entusiasta messe  di studiosi, è venuto meno il carattere del suo insegnamento. Lì,  come in S. Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha mancato di offrire  opportunità, un’occasione irripetibile, anzi, generosamente resa disponibile, ma sempre e solo per chi aveva modo e voglia di coglierla e di realizzarne le potenzialità, ma lasciando a ciascuno la libertà di decidere, di  interpretare quell’incontro, di farne ciò che voleva. Il severo G. non  rimprovera mai. Non gli è mai venuto in mente di riprenderci, come capita al suo amico e collega CANTIMORI o a RAGIONIERI,  se mancamo a una seduta di seminario e veniamo sorpresi in biblioteca o, peggio, al bar. Ma neppure gli è venuto in mente di TONINI portarci nello stesso bar a prendere un aperitivo o un caffè, come capita  spesso con Cantimori e occasionalmente con Ragionieri. Non vuole essere né un padre, né un maestro di vita. Non credo  neppure che volesse additarci un modello. È piuttosto una lezione di  maturità, di piena e consapevole democrazia intesa come rigoroso rispetto dei ruoli, quella a cui ci chiama, e che per molti è anche la prima.  Il suo dovere è quello di insegnare, del nostro doviamo rispondere  noi. Scende dalla cattedra per aiutarci a leggere un testo, per offrirci  un’indicazione, per mostrarci un passo di un libro, sede tra noi a discutere di Cartesio o di Platone, e la lezione puo proseguire nella biblioteca di facoltà, o vicino ai tavoli della Nazionale o tra i libri di Seeber, ma  senza mai abdicare alla sua funzione. Non è mai sceso a discutere  con noi il corso, la sua organizzazione, le sue modalità. A ciascuno il suo. Non discute le nostre scelte di vita, i propositi di  lavoro, le carriere. Li considera su un altro piano, nel quale l’insegnante  non dove né puo intromettersi: li accetta. Al massimo inarcava le  ciglia, come nei lavori che gli sottoponevamo, e continuamo a  sottoporgli, quando un impercettibile segno di lapis segnala i dubbi e gl’errori di sintassi. Cittadino di forti passioni civili, le lascia tutte,  fuorché quella di insegnare, fuori dall’aula. Ë facile sapere come la pensa, lo leggemo su Paese sera, sull’Unità, su Rinascita, lo seguimo nelle Case del popolo, al Circolo di cultura, ma non si è mai innescata, con lui, una forma qualsiasi di intesa, di complicità, oserei dire, che  prescindesse da quella unica e prevalente di insegnante e studente. G. ci ha lasciato centinaia, migliaia di pagine in cui ci ha insegnato  come ricostruire figure di pensatori grandi e piccoli, da ASTORINI a Cartesio, da CITTADINI a PICO. Ha ricostruito squarci del nostro passato culturale e civile, da CROCE a GENTILE, da GRAMSCI a LABRIOLA, da CAPPONI a VILLARI, ci ha dato testi  e momenti del nostro passato FILOSOFICO che hanno costituito e costituiscono un’eredità operante, viva e vitale per ognuno che voglia fare una  professione simile alla sua. Non ci ha potuto lasciare, ed è purtroppo destinato a perdersi, quello che gli pareva più importante: la sua lezione. Mi accorgo, nel concludere, di aver ricordato una scuola, un’università che non c’è più. Non saprei dire se l’attuale, nella quale molti di noi si  trovano ora, sia migliore o peggiore di quella. Mi auguro, e lo auguro soprattutto ai più giovani, di potervi incontrare ancora un insegnante come G. L'insidia implicita nel concetto stesso di genere letterario ha non di rado contribuito a falsare la prospettiva necessaria a ben collocare la produzione filosofica dell’umanesimo. Eta in cui vennero predominando preoccupazioni critiche, in cui tutta l'attivita  spirituale e impegnata a costruire una respublica terrena, degna pienamente dell'uomo nobile, trova la sua espressione piu alta in opere di contenuto in largo senso moralistico e di tono retorico, in cui non solo si consegna un modo di concepire la vita, ma si difende e si giustifica polemicamente un atteggiamento originale in ogni suo tratto. Per questo chi voglia andar cercando le pagine esemplari dell’epoca, le piu profondamente  espressive, dovra  rivolgersi,  non  gia  a testi per  tradizione  considerati  monumenti  letterari,  ma  alle opere in cui veramente si manifest6  tutto 1'impegno  umano  della nuova civilta. Cosi,  mentre  chi  prenda  a  scorrere  novelle  umanistiche  non  potra  non  uscir  deluso  da  talune,  piu  che  imitazioni,  traduzioni,  o  meglio  raffazzonamenti,  di  modelli  boccacceschi,  quali  troviamo, tanto per esemplificare, in Fazio, pagine  di insospettata bellezza, capaci  di  colpire  ogni  piu  raffinata  sensibilita, ci  si  fanno  incontro  nei  trattati  e  nei  dialoghi  di Bracciolini,  e perfino  nelle opere d’un  filosofo di  professione, dall’andamento  talora  scolasticizzante,  qual  e  Ficino.  E  proprio  Ficino  nella Theologia  platonica,  presentando  gl’uomini  travagliati  dalla  malinconia  della  vita  e  desiderosi  che  tutto  sia un  sogno  (wforsitan  non  sunt  vera  quae  nunc  nobis  apparent,  forsitan  in  præsentia  somniamus),  defmisce  nei  suoi  particolari  espressivi  un  tema  di  larghissima  risonanza  in  tutta  la letteratura europea. Sempre FICINO, nel Liber de Sole, pur  parafrasando  talora l’orazione  famosa  dell'imperatore GIULIANO, fissa i  momenti  di  quella lalda  del  sole che,  attraverso VINCI (si veda),  arriva  fino all’inno ispirato di Campanella. VINCI (si veda)  rimanda  esplicitamente  all'apertura  del  terzo  libro  degli  Inni  naturali  del  Marullo;  ma  chi  veramente,  ancora  una  volta,  in  una  prosa  di  grandissimo  impegno, ci offre tutti i temi di quella si. L'omo nato nobile e in citta libera- come  diii  PICCOLOMINI.  FICINO,  Opera,  Basilea,  Petri.  (Theol  plat.). lenne  preghiera  di  ringraziamento  alia  fonte  di  ogni  vita  e  di  ogni  luce,  e  proprio  Ficino. Del  quale  e la non  dimenticabile  raffigurazione  di  una  tenebra  totale,  ove  e  spento  ogni  astro,  che  fascia  lungamente  i  viventi,  finche  di  colpo  il  cielo  si  apre  per  mo-  strare  colui  che  e  sola  forma  visibile  del  Dio  verace.  E  ficiniana e 1'opposizione del carcere  oscuro e della luce di vita, della tenebra  di  morte  e dei  germi  rinnovellati  dalla  luce  e  dal  calore  solare,  in  cui  si  articolera il  metro  barbaro  di  Campanella. Ma per rimanere  agli  scritti  d’un  medesimo  autore,  ALBERTI,  non  grande  imitatore  del  BOCCACCIO,  raggiunge  invece  la  sua  piena  efficacia  quando  costruisce  i  suoi  dialoghi,  e  sa  essere  perfettamente  originale  pur  intessendoli  di  reminiscenze  classiche.  Perfino  la  tanto  celebrata  Historia  de  Eurialo et Lucretia di Enea Silvio perde tutto il suo colore innanzi alle pagine dei Commentarii'*e sono piu facili a dimenticarsi i casi  di Lucrezia che non le stanze delle antiche regine divenute nidi di serpi, o le porpore  dei  magistrati  romani  rievocate  fra  Tedera  che  copre  le  pietre  rose  dal  tempo,  o  i  topi che corrono la notte nei sotterranei di un convento e il papa che caccia sdegnato i monaci negligenti. Per non dire di quella feroce presentazione dei cardinali, fissati in ritratti nitidissimi con rapide Imee  mentre  per  complottare  trasferiscono nelle  latrine  la  solennita  del  conclave.  Poggio  consegna  a  trattati  di  morale  narrazioni  scintillanti  di  arguzia,  spesso  molto  piu  facete  di  tutte  le  sue  Facezie.  I  mari  di  Grecia  percorsi  sognando  d’Ulisse,  il fasto  delle  corti  d'Oriente,  le  belve  africane,  i  fiumi  immensi, et  per  Nilum  horrifici  illi  anguigeni  crocodiliw,  si  alternano  a  discussioni  erudite  sulle  iscrizioni  delle piramidi  nelle  lettere  agli  amici  e  nel  taccuino  di  viaggio  di  quel  bizzarro  e  geniale  archeologo  che  fu  Ciriaco dej  Pizzicolli  d'Ancona.  E  forse  il grande Poliziano  ha  scritto  le  sue  pagine  piu  belle  nella  prolusione  al  corso  sugli  Analitici  primi  d' Aristotele  e  nella  lettera  alPAntiquario  sulla  morte  del  magnifico Lorenzo.  Lettere  dialoghi  e  trattati,  orazioni  e  note  autobiografiche,  sono  i  monumenti  piu  alti  della  letteratura  del  Quattro  cento, e tanto piu efficaci quanto meno 1'autore si chiude nelle  i. «La  novella  era  un  genere  troppo  definite,  troppo  condizionato  nelle  sue  linee  essenziali  da  una  tradizione  ormai  piu  che  secolare,  perche  PICCOLOMINI (si veda) puo  eluderne  il  colorito  e  gli  schemi»  (PAPARELLI,  Piccolomini, Bari, Laterza).  forme  tradizionali,  quanto  piii  si  impegna  nel  problema  concrete  che  lo  preoccupa,1  o  si  accende  di  passione  politica  nel  discorso  e  nell'invettiva,  o  si  dimentica  nella  confessione  e  nella  lettera.   Poliziano,  che  della  produzione  letteraria  del  suo  tempo  fu  il  critico  piu  accorto  e  consapevole,  e  che  ha  dichiarato  con  grande  precisione  i  suoi  princlpi  dottrinali  nella  prefazione  ai  Miscellanea,  nella  lettera  al  Cortese  e,  soprattutto,  nella  grande  prolusione  a  STAZIO (si veda)  e  Quintiliano,  ha  visto  molto  bene  come  all’umanesimo  sono  intrinsiche  particolari  maniere  espressive. Proprio  nelle  prime  lezioni  del  suo  corso  sulle  Selve  di  STAZIO (si veda) ,  con  la  cura  minuta  che  gli  era  propria,  si  sofferma  a  dissertare  abbastanza  a  lungo  intorno  a  due  forme  letterarie  tipiche,  Fepistola  e  IL DIALOGO, accennando  insieme  al  genere  oratorio,  da  cui  gli  altri  due  si  distaccano  pur  non  senza  svelare  un'intima  parentela.  L'epistola egli  dice e  il  colloquio  con  gl’assenti,  siano  essi  lontani  da  noi  nello  spazio  oppure  nel  tempo:  e  vi  sono  due  specie  di  lettere,  scherzose  le  une,  gravi  e  dottrinali  le  altre  -- altera  ociosa,  gravis  et  severa  altera. Ma  1'epistola  deve  essere  sempre  i.  In  una  compilazione  erudita  come  i  Dies  geniales  di  Alessandro  d'Alessandro la discussione filologica si inserisce con eleganza fra il ritratto e il ricordo senza togliere a questi  alcuna grazia, cosi che la discussione di un testo classico si colloca nella descrizione d’un compleanno del  Pontano o d’una  cena di  Barbaro,  o fa  seguito  a  una  lezione  romana  di Filelfo  (cfr.  CROCE,  Varieta  di  storia letteraria e civile,  Bari, Laterza. A  proposito del DIALOGO e  dell'epistola  come  forme  caratteristiche  dell'umanesimo e  da  vedere  quanto  dice RttEGG, Cicero und der Humanismus, Formate Untersuchungen  über Petrarca und Erasmus,  Zurich,  Rhein-Verlag,  anche  se  a  proposito  della  sua  tendenza  a  ricondurre  tutto  a CICERONE e da tener  presente  la  nota  che  CROCE  stese  appunto  sull'opera del Rxiegg  (Mommsen  e  CICERONE, in Varieta).  II commento  del  Poliziano  e nel  ms. Magliab.  vn, (Bibl.  Naz.  Firenze). II  testo  in questione e  a  c.  4V-5V  (est  ergo  proprie  epistola,  id  quod  ex  Ciceronis (CICERONE (si veda)) verbis  colligimus, scriptionis genus quo certiores facimus absentes si quid est quod aut ipsorum aut nostra interesse  arbitremur. Eiusque tamen  et  aliæ  sunt  species  atque  multiplices,  sed  duæ  præcipuae  altera  ociosa,  gravis  et  severa  altera. Atqui  neque omnis  materia  epistolis  accommodata  est. Brevem  autem  concisamque  esse  oportet simplicis ipsius rei expositionem, eamque simplicibus verbis. Multas epistolæ inesse convenit  festivitates, amoris significationes, multa proverbia, ut quæ communia sunt atque ipsi multitudini accommodata.  Qui vero sententias venatur  quique  adhortationibus  utitur  nimiis,  iam  non  epistolam,  sed  artificium  oratorium. Epistola velut pars altera dialogi. maiore  quadam  concinnatione  epistola  indiget  quam  dialogus imitatur  enim  hie  extemporaliter  loquentem at  epistola  scribitur.] breve  e  concisa,  semplice,  con  semplici  espressioni,  ricca di brio, di  affettuosita, di motti,  di  proverbi  (amulta  proverbia,  ut  quae  communia  sunt  atque  ipsi  multitudini  accommodata). Nella  lettera  deve  prendere  un  tono  troppo  sentenzioso  e  ammonitorio,  altrimenti  non si ha piu una lettera ma una elaborata  orazione  -- iam  non  epistolam,  sed  artificium  oratorium.  L'epistola  e come la battuta singola,  e  die  rimane  quasi  sospesa, di un  dialogo (velut  pars  altera  dialogi),  anche  se  deve essere formalmente  piu  curata  del  dialogo,  che  per  essere  schietto  deve  imitare  IL DISCORSO IMPROVISATO,  mentre l’epistola e per  sua  natura  discorso meditato e scritto. In tal modo un carteggio viene ad essere un dialogo compiuto e vario; e non va dimenticato  come proprio il curioso epistolario di Poliziano  ci  offra  un  esempio  caratteristico  di  simili  colloqui. Non a caso, con la  sua  grande sensibilita  critica,  Poliziano  batte  proprio  su  queste  forme:  ad esse  infatti  si  puo  ricondurre  quasi  tutta la  piu significativa produzione  latina in prosa,  poiche anche il  diario,  il taccuino di  viaggio,  si  configura  di  continue  come  lettera  ad  un  amico. Cosi,  per  ricordare  ancora l’Itinerarium  di  Ciriaco  d'Ancona,  noi  vi  troviamo  riportati  di  peso  i  temi  e  le  espressioni  medesime  delle  epistole.]  stato  detto,  ma  non  del  tutto  giustamente,  che  l’umanesimo è una  rivoluzione  formale. In verita la profonda  novita  formale adere esattamente a una rivoluzione sostanziale che facendo centro nella CONVERSAZIONE CIVILE,  nella vita civile,  po- [Itinerarium:  ego quidem interea magno visendi orbis studio,  ut  ea  quæ  iamdiu  mihi  maximæ  curæ fuere antiquarum rerum monumenta undique terris diffusa vestigare perficiam. Hinc ego rei nostrae gratia et magno utique et innato visendi orbis desiderio. Epist.  Boruele  Grimaldo  (ins.  Targioni, Bibl.  Naz.  Firenze): cum  et  a  teneris  annis  summus  ille  visendi  orbis  amor  innatus  esset. Del  resto  tutta  l’opera  di  Ciriaco e una serie di variazioni di questo appassionato motivo: summus ille visendi orbis amor,antiquarum  rerum  monumenta vestigare, quæ in dies longi temporis labe collabuntur litteris mandare. La sete di conoscere il  mondo,  il bisogno di vincere spazio  e  tempo,  di  riconquistare  ogni  piu  lontano  frammento  d'umanita  e  di  sottrarlo  alia  morte,  e  insieme  questo  senso  concrete  del  passato  trovano  in  lui  una  espressione  singolare.  Nella  medesima  epistola  a Bruni abbiarno in sieme notizia di  un'iscrizione  inviata  da  Atene ex me nuper Athenis e della difesa di Cesare contro Bracciolini spedita dall'Epiro ex  Epyro  hisce  nuper  diebus. Cosl,  appunto,  il  Riiegg, (der  Humanismus  ist  eine  formale,  nicht  eine  dogmatische  Revolution).  neva  IL COLLOQUIO COME FORMA ESPRESSIVA ESEMPLARE (GRICE, CONVERSAZIONE). E se la lettera deve  essere  considerata  velut  pars  altera  DIALOGI,  l’attenzione  si  polarizza  sul  DIALOGO:  ed  IN FORMA DI DIALOGO e  in  genere  il  trattato,  di  argomento  morale o politico o filosofico IN SENSO LATO, che  rispecchia  la vita d’una umana  respublica e traduce perfettamente questa collaborazione voita a formare uomini ccnobili e  liberi, che costituisce 1'essenza stessa della humanitas rinascimentale. La quale celebrandosi  nella  societa  umana  tende  a  persuadere,  a  far  culminare  ogni  incontro  in  una  trasformazione  degli  altri  attraverso  una  riforma  interiore  raggiunta  per  mezzo  della  politia  litteraria. Limiti  e  prolungamenti  del  colloquio  ci  appaiono  da  un  lato  la  notazione  autobiogranca,  dall’altro  il  pubblico  discorso,  1'orazione,  che  attraverso  la  polemica  arriva  all'invettiva.  I  cancellieri fiorentini, Salutati e Bruni, ci offrono esempi  insigni di questo intrinsecarsi  di  filosofia  e  politica, di questa prosa che dell’efficacia e potenza espressiva si fa un'arma  piu valida delle schiere combattenti.  La lode  famosa di  Pio  II  alla saggezza di Firenze, e ai suoi dotti cancellieri le cui epistole  spaventano Visconti piu di  corazzate truppe di cavalleria, non e che la proclamazione del valore di una propaganda fatta su un piano  superiore  di cultura in una societa educata ad accogliere e  a rispettare la superiorita  della cultura.  L'incontro di politica  e  cultura a Firenze e a Venezia ritrova la valutazione  della retorica di un Poliziano e  di  un  Barbaro, e  giova a  definire  un'epoca che  cerca  i  suoi  titoli  di  nobilta  al  di fuori dei diritti  del  sangue. La VIRTÙ,  che  non  e  certamente  un bene ereditato,  e sempre intelligenza, humanitas, e cioe consapevolezza e  cultura. Anche  quando, nelle discussioni  non  infrequenti  sull’argomento,  si  riconosce  il  valore  della milizia,  s’intende  una  sottile dottrina, ove il valore  personale  del  capo e intessuto  di  sapienza.  Montefeltro  e  poco  ci  importa  se il ritratto è fedele e  profondamente  addottrinato, e sa che  i filosofi  descrivendo  le  battaglie  possono  divenire anch'essi maestri dell’arte  della  guerra. Alfonso  il  Magnanimo reca  seco  al  campo  una  piccola  biblioteca, e pensa sempre  a  filosofi,  e  sa che la parola bene adoprata,  ossia  veramente espressiva,  e  piu  potente d’ogni esercito.  C'è  appena  bisogno  di  ricordare  che  si  tratta  dei  titoli  delle  opere  di  Palmieri  e  di Guazzo. E  ancora il  titolo  di  un'opera  significativa,  quella  di  Decembrio  in  cui  si  rispecchia  la  scuola  di Guarino. II suo motto, racconta Vespasiano  da  Bisticci, è  che un re non letterato e un asino coronato. II  che non significa, si  badi, che  ser  Coluccio è un  vuoto  retore,  o  Alfonso  un  re  da  sermone,  ma  che  la  cultura è,  essa, viva  ed  efficace  e  umana,  e perfetta  espressione  di  una  societa  capace  d'accoglierla.   L'uomo  che  nel  linguaggio  celebra veramente  se  stesso -- l'uomo  si  manifesta  uomo  essenzialmente  nella  parola, come  si costituisce  in  pienezza  definendosi  attraverso  la  cultura  (le  litteræ  che  formano  la  humanitas), cosi raggiunge ogni sua  efficacia  mondana  mediante  la  parola  persuasiva,  mediante  la  retorica  intesa  nel  suo significato  profondo  di medicina  dell'anima,  signora  delle  passioni,  educatrice  vera  dell'uomo,  costruttrice  e  distruttrice  delle  citta. Tutto  e, veramente,  retorica,  sol  che  si  ricordi  ch,  d'altra  parte, retorica e  umanita,  ossia  spiritualita,  consapevolezza,  ragione,  DISCORSO di  uomini;  perche',  veramente,  l’umanesimo,  in  cui  tutto  è  inteso  sub  specie  humanitatis,  e humanitas  e UMANO COLLOQUIO,  ossia  tutto  il  regno  delle  muse figlie di Mnemosine che e il piu vero e il  piu bello dei  miti. Con  semplicita  francescana  frate  Bernardino  da  Siena,  che  vede in  ser  Coluccio  un  maestro  e  in  Bruni  un  amico,  scrive  cristianamente  le  medesime  cose. Non  aresti  tu  gran  piacere se tu vedessi o udissi predicare Gesu Cristo, san  Paulo,  GREGORIO (si veda),  santo  Geronimo  o  santo  Ambruogio?  Orsu  va,  leggi  i  loro  libri,  qual  piu  ti  piace  e  parlerai  con  loro,  ed  eglino  parleranno  teco;  udiranno te e tu udirai loro. E, come  dice  altrove,  le  lettere  ti  faranno  signore.  II  grande Valla  parlera  di  un  sacramentum il modesto Bartolomeo della  Fonte  dira  di  un  divinwn  mimen: quel nume  che  da  agl’uomini  anozze e  tribunali  ed  are. Per  questo le  litteræ  sono  una  cosa  terribilmente  seria,  e  la  responsabilita  di  un  termine bene  usato  e  gravissima,  e  non  v'e  posto per  Fozio. Per questo la poesia in senso vichiano e  da  cercarsi  la dove  si  traducono  e  si  consegnano  i  discorsi  essenziali  per  la  vita  dell’uomo. Cosi FLORA,  Umanesimo, Letterature  moderne, Ecco   secondo  Fonzio  quello  che  ottiene  la  parola:  fidem  inter  se  homines  colere,  matrimonia inire,  seque  in  una  mœnia  cogere  viribus  eloquentiæ  compulit.  Per tal modo  quella  poesia  che  talora e  lontana  dai  versi  e  dalle  novelle,  e  presente  ed  altissima  nella  pagina  di  un  filosofo  o  nell'appassionata  invettiva  di  un  politico. La  dolcezza  del  dire  (dulcedo et sonoritas  verborum),  la luce  della  forma (lux  orationis),  che  si  invoca  per  ogni  espressione  di  vera  umanita,  vuol  far  poesia  d’ogni  UMANO DISCORSO;  e  nel  momento  in  cui  riesce  a  tanto  toglie  ogni  privilegiato  dominio  alle  dettere  oziose. Perfino un  oscuro  erudito  come CASSI d'Arezzo  sa  dirci  che  in  tal  modo  nell'eloquenza si unificano  tutte le umane attivita,  e tutto in essa si umanizza  davero,  e  non  perche come  taluno  ha  fantasticato,  si  celebri  solo  il  letterato  ozioso,  ma  al  contrario  perche  1'uomo  e  presente  in  ogni  momento  dell'agire:  perche,  faccia  egli il matematico,  il  medico,  il  soldato  o  il  sacerdote,  sempre  e innanzitutto e uomo, e il suo sigillo  umano  imprime  ad  ogni  sua  opera  umanamente  esprimendola,  ossia  rivestendola  della  lux  orationis.   Di  qui  l’importanza  centrale che vengono ad  assumere le TRATTAZIONI SULLA LINGUA,  sulla  sua  storia,  sulla  eleganza?  ove  LA DISCUSSIONE GRAMMATICALE si  trasforma  di  continuo  in  discorso  finissimo  d’estetica:  e  quel  trapassare  dal  vocabolario,  e  magari  dal  repertorio  ortografico  basti  pensare  a Perotto  o  a  Tortelli nell’analisi  critica  e  nella  dissertazione  storica.  Mentre, contemporaneamente, la  storia,  che  intende  farsi  vivo  specchio  della  a  vita  civile)),  e  per  eccellenza  eloquente  discorso,  ossia  prosa  politica  e  trattato  pedagogico-morale. Bellissima  cosa e infatti come  afferma  Bruni raccontare 1'origine  prima e il  progresso della propria citta,  e conoscere  le imprese  dei  popoli  liberi (est enim decorum cum propriæ gentis originem  et  progressus,  turn  libe- i. Quasi  unum  in  corpus  convenerunt  scientiæ omnes, et rursus temporibus nostris eloquentiæ studiis studia sapientiæ coniuncta sunt (d’una  lettera  di  Cassi  a  Tortelli,  contenuta  nel  Vat.  lat.  e  pubblicata  da GAMURRINI, Arezzo  e  r Umanesimo, Arezzo, Cristelli, miscellanea in onore di Petrarca dell'Accademia Petrarca). A proposito  dell’eleganze di Valla  scrive  Cortesi, De hominibus doctis, ed. Galletti, Florentiæ, Mazzoni, conabatur Valla vim verborum  exprimere  et  quasi vias ad structuram orationis. rorum  populorum res gestas  cognoscere. Cortesi,  in quel felice  dialogo  De  hominibus  doctis,  che e una vera propria storia critica della letteratura,  appunto discorrendo delle  storie di Bruni, batte su questo incontro della verita con 1'eleganza, che e tutt'uno con quell’armonia di sapienza ed  eloquenza che Accolti celebra quale dote precipua dei fiorentini e dei veneziani del suo tempo nel dialogo De præstantia virorum  sui  aevi. Per  la  stessa  ragione  per  cui  tutto  sembra  divenir  DIALOGO, tutto  anche  e libro di storia; e storia e, ancora, colloquio con le eta antiche, con i grandi spiriti del passato.Bruni  nell'introduzione ai commentarii  confessa  che  la  grande  filosofia classica fa si che i tempi lontani ci siano piu vicini e piu noti dei tempi nostri (mihi quidem Ciceronis  Demosthenisque tempera  multo  magis  nota  videntur  quam ilia  quae  fuerunt  iam  annis  sexaginta),  e  dichiara che e  compito della storia  immettere  nella  nostra  vita e nel nostro colloquio il passato, farlo vivo con  noi, quasi  picturam  quondam viventem  adhuc  spirantemque. Palmieri  innanzi  alia  vita  di  ACCIAUOLI ci  insegna  che  la storia  e una  specie  di  immortalita  terrena  di quanto in  noi  e,  appunto,  vita  mondanala  storia e culto  e  salvezza  di  quella  parte  mortale che le lettere  redimono  da  morte  dilatando  la  società  umana oltre i limiti del tempo e salvandola  dall’oblio  e  dal  destino. Si  aprono  qui,  tuttavia,  a  proposito  della  prosa  latina,  due  questioni  fra  loro  strettamente  connesse e  che  sembrano  in  qualche  modo,  gia  nella  loro  impostazione,  venir  contrastando  con  quei Cosi  nel De studiis et litteris in BARON, BRUNI Aretino humanistisch-philosophische Schriften,  Leipzig.  Una giusta  valutazione  dell’opera  storica  di BRUNI presenta  Ullman, BRUNI and  humanistic  historiography, Medievalia  et  Humanistica e,  per quanto si e sopra osservato su retorica, politica e storia, son  da  vedere i tre  saggi  di  BARON,  Das  Erwachen  des  historischen  Denkens  im  Humanismus,  Hist.  Zeitschrift;  di RUBINSTEIN, The  Beginnings  of  Political  Thought  in  Florence: A Study in Mediaeval  Historiography, Journal  Warburg  Inst.; di CANTIMORI, Rhetoric  and  Politics in Italian  Humanism, Journ. Warburg  Inst.; Corpoream  vero  partem non  omnino  negligendam  ducunt,  sed  tamquam  suam  in  terra  recolendam,  ideoque  desiderant  illam oblivioni et fato præripere  caratteri  stessi che  si sono  voluti  definire. Come, infatti,  parlare  della’umanità  di  una produzione che si serve di UNA LINGUA CHE NESSUNO ORMAI USA e che, dunque, gia nel mezzo espressivo pone come suo canone l’imitazione. In che modo  una  FILOSOFIA MIMETICA, RICALCATA SU MODELLI CICERONIANI,  puo oltrepassare  i  limiti  della  erudizione?  Ma i  due  gravi  problemi, del LATINO umanistico e dell’imitazione classica,  gia tanto dibattuti,  hanno oramai offerto  anche  1'avvio a una soluzione. Quanto infatti si obbietta intorno all’uso del latino, in luogo del volgare, e ad una  presunta  frattura  che  si  opera  rispetto  alla  tradizione,  deve  essere  corretto  coll’osservazione  che  i generi di prosa a cui ci  riferiamo,  orazioni,  trattati,  epistole  politiche,  DIALOGHI dottrinali, hanno  sempre  fatto uso  del  latino. Non e quindi esatto  dire  che da un presunto uso del volgare si torna al latino. È  vero invece che al LATINO MEDIEVALE definite  BARBARICO, e  cioe  GOTO O PARIGINO (dai franci, non gallii),  si  oppone  un  *altro*  latino  che  si  determina  e  si  definisce  rispetto  ai  modelli  classici.  II  quale  latino,  che  si  dichiara — come dice esplicitamente PLATINA —  integrate da tutta la più feconda tradizione post-ciceroniana,  ivi  compresi  i  Padri  della  Chiesa,  intende  rivendicare  i  diritti  di  una  lingua  nazionale  romana  contro  l’universalita  di  un  GERGO scolastico  (lo  stile  PARIGINO della Sorbonna, no di Bologna),  ed  innanzi  tutto  nel campo di una produzione costantemente  espressa in latino.  Giustamente  SANCTIS (si veda) sottoline la frase del VALLA che proclama lingua nostra il latino vero, che si contrappone al LATINO GOTICO dell’uso medievale. La quale nostra lingua romana degl’umanisti, che SI PRECISA CON CARATTERI PROPRI COSI RISPETTO AL LATINO CLASSICO COME A QUELLO BARBARO DEI BARBARI FRANCI,  va  vista  per  quello  che  essa  veramente  e,  anche  rispetto  al  volgare:  un  nuovo  latino,  in  cui  la  complessita  antica  cede  il  posto  alia  scioltezza  moderna. Il latino degl’umanisti, lingua veramente viva che aderisce in pieno a una cultura affermatasi attraverso una consapevolezza critica che  si  colloca chiaramente  nel  tempo  defiendo  i  propri rapporti cosl col mondo antico come con il medioevo. Il latino  dei grandi  umanisti, lungi  dal  rappresentare  una  battuta  d'arresto o un  momento  di  invo-  [Cosi  nella  prefazione  alle  Vite,  che  riportiamo  per  intero. Rilievi utili in proposito ha  Sabbadini sia nella Storia del ciceronianismo CICERONE (si veda) (Torino,  Loescher),  come  nel  Metodo  degl’umanisti  (Firenze,  Monnier). luzione,  si  colloca  nella  storia  stessa  del  volgare. Il latino insegna al volgare l'eleganza la misura la forza e 1'eloquenza, e il volgare imprime ne’filosofi umanisti le leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta, dei  suoi  trapassi intuitivi, della sua eloquenza  interiore. Fra il latino, in cui si rispecchia pienamente tutto un atteggiamento culturale, e il volgare v’e una collaborazione che del resto  si  traduce  quasi  materialmente  nel  fatto  che  gl’autori  spesso  scrivono  1'opera  loro  in  latino  e  in  italiano. Non  sempre  si e posto mente al fatto che  da MANETTI (si veda) a  FICINO gli stessi trattatisti, siano pur filosofi, stendono anche in volgare le loro meditazioni. E come il loro latino e  davvero  una lingua  low.,  cosi  il  volgare  che  adoperano  non  e  per  nulla  oppresso  da  una  imitazione  artificiosa  di  modelli  classici. Giungiamo  cosi  a  quello  che  forse  e  il  punto  piu  delicato  ad  intendersi  dell'atteggiamento  di questi:  l’imitazione degl’antichi. Che la posizione assunta dagl’umanisti rispetto  agl’autori  classici  sia  alimentata da  una  preoccupazione  storica  e  critica; che  essi sono dei  filologi  desiderosi innanzitutto  di  comprendere  gl’autori  del  passato  nelle  loro  reali  dimensioni e nella loro situazione concreta: e cosa ormai in complesso pacifica. Ora gia questo  definisce il  senso  di  quella  imitazione che indica un atteggiamento molto caratteristico. ACCOLIT  dichiara  nettamente  la  parita  di  valore  fra  i  nuovi  autori  e  i  classici.  POLIZIANO (si veda)  nella  polemica  col CORTESI,  che  e  un  testo  capitale,  confuta  tutte  le  istanze  del  ciceronianismo,  e  proclama il  valore di  un'intera  tradizione  afferrata nel suo sviluppo, rivendicando il senso di tutto il periodo piu tardo della FILOSOFIA ROMANA (neque autem statim detenus dixerimus quod  diversion  sit).  Ma  dice  soprattutto  1'enorme  distanza  fra  una  poesia  che  fiorisce  come  libera  creazione  su  una cultura meditata e fatta proprio sangue, e l'imitazione pedestre — ilia poetas facit, haec simias. SPONGANO, Un capitolo di storia della  nostra  prosa  d'arte,  Firenze,  Sansoni,  E  cosi  sono  spesso  notevoli  le  version!  di  scrittori  celebri  come  latinisti:  TAurispa  che  traduce  Buonaccorso  da  Montemagno,  Donate  ACCIAIUOLI che  volgarizza  BRUNI,  e  cosi  via. interessante  ritrovare,  distesi  e  volgarizzati,  i  concetti  di  un  Valla  e  di  un  Poliziano  nei filosofi  francesi.  Per  esempio  Bellay,  scrivendo  dopo  aver  tratto  da  Valla il concetto che Roma è grande per la lingua imposta  all'Europa  non  meno che  per l’impero  (la  gloire  du  peuple Romain n'est  moindre, comme a dit quelqu'unen l’amplifacation L'Umanesimo e in questa singolare imitazione-creazione, come la chiama RUSSO: l'umanita fatta consapevole attraverso il rapporto stabilito con gl’altri uomini nell'operoso  sforzo  di raggiungere una sempre pifc alta forma di vita. Di qui, appunto, il particolare carattere delle sue piu felici espressioni letterarie. de son langage que de ses limites) eccolo riprendere POLIZIANO: immitant  les  meilleurs  aucteurs,  se  transformant  en  eux,  les  devorant,  et  apres  les  avoir  bien  digerez,  les  convertissant  en  sang  et  nouriture. Solo cosi l’imitazione e giovevole allo scrittore. Autrement son immitation ressembleroit celle du singe. Cfr. WEINBERG, Critical  prefaces  of  the  French  Renaissance, Northwestern,  Evanston,  Illinois, Russo,  Problemi  di  metodo  critico,  Bari,  Laterza. G. Antonio  Nasce a Rieti, figlio di Francesco e di Teresa Barbagli. Il nonno, intendente di Finanza, si è trasferito dalla SAVOIA in Toscana con l’Unità d’Italia; la madre è originaria di San Giustino nel Valdarno; il padre – allievo di Vitelli, in rapporti amichevoli con Pasquali, che scrive il suo necrologio su Atene e Roma – è un valente filologo, con particolare interesse per la storia del romanzo greco, per Teocrito e per i commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura e quasi improvvisa ne stroncarono la carriera e costrinsero il figlio ad assumersi, precocemente, pesanti responsabilità.  G. ha, anche per questo, un'infanzia e un'adolescenza assai difficili e tormentate, che hanno un peso nel rafforzare i toni disincantati e pessimisti del carattere, controllati, in genere, dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti però a esplodere nei momenti di  particolare amarezza o di maggior contrasto con i tempi in cui gli toccò di vivere e di lavorare.   Fin da quegli anni – duri e mai dimenticati – comprese però quale era la sua vocazione e individuò nei libri, e in uno studio assiduo e disperatissimo, la bussola con cui avrebbe costruito, con tenacia, la propria vita: bruciando le tappe, si iscrisse alla facoltà di filosofia a Firenze e si laurea col massimo dei voti in filosofia con una tesi su Butler [cf. GRICE, SELF-LOVE, OTHER-LOVE], preparata sotto la guida di LIMENTANI (si veda). A Firenze aveva compiuto anche gli studi elementari e medi, frequentando il Liceo Galilei, nel quale insegna il padre e dove incontra Maria Soro, nata a Sassari, che sarebbe poi diventata sua moglie, con rito civile. G è nato a Rieti in seguito al trasferimento in quella città del padre, che come professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta l’Italia; ma si considerò sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un ricordo assai vivo degli anni liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella facoltà di lettere di Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto di vista sia personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico; stabilì rapporti con personalità come PASQUALI (si veda), e conosce compagni di studi ai quali resta legato tutta la vita, italiani e non italiani: Teicher, Rubinstein, LUPORINI (si veda), il quale, rievocando gli anni della sua formazione (Qualcosa di me stesso, in Luporini, a cura di Moneti, Il ponte), ricorda come G. eccellesse già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei per maturità e sapere. In quegli stessi anni, G. conosce due maestri che incisero segni profondi nella sua mente e nella sua personalità intellettuale e scientifica: SARLO (si veda) e, soprattutto, LIMENTANI (si veda), che lo avviò agli studi sull'Illuminismo inglese, confluiti nel volume L'Illuminismo inglese. I moralisti (Milano). Dopo aver insegnato nel Regio Convitto delle Mantellate, G., ottenuta l’abilitazione in storia e filosofia riuscendo tredicesimo nella graduatoria generale, fa il concorso per l'insegnamento di filosofia e storia nei licei per sedi determinate, e lo vince, dopo essere stato esaminato da una commissione presieduta da GUZZO (si veda). Prende servizio come professore straordinario di filosofia e storia presso il Liceo Cannizzaro di Palermo, dove rimane fino a quando – dopo molti tentativi giustificati da motivi sia familiari sia filosofici – è trasferito a Firenze per insegnare, come professore ordinario, filosofia e storia al Liceo Vinci.  Gli anni palermitani sono assai importanti e fecondi per G.: per gli incontri umani e intellettuali che fece e per le ricerche che condusse, preparando l'importante volume PICO (si veda) Vita e dottrina, pubblicato a Firenze, ma già pronto a Palermo. È a Palermo che scrive in gran parte il suo primo saggio di argomento umanistico, servendosi dell’eccellenti biblioteche pubbliche della città, e frequentando la Biblioteca filosofica a Palazzo Reale, col suo singolare fondatore e direttore, POJERO (si veda), l'amico di GENTILE (si veda) e primo editore dell'Atto puro, il bizzarro filosof' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla per scritto (Una collaborazione lunga una vita, in Belfagor).  A spostare G. dagli studi iniziali sull'Illuminismo inglese verso le ricerche umanistiche e rinascimentali contribuì una pluralità di fattori: certo agirono la presenza, e il magistero, di Limentani, che in quegli stessi anni studia  il BRUNO 'inglese' sulla scia della importante monografia su La morale di Bruno. Ma alla base di quello spostamento ci furono due altri motivi, forse più rilevanti: la centralità assunta a quella data dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella ricerca filosofica europea intorno a problemi decisivi come la libertà, e la dignità, dell'uomo; il rapporto tra uomo, mondo, Dio; il carattere e il significato dell'esperienza umana. È stato, peraltro, G., in un testo degli anni Settanta (lettera a Chemotti, la cui minuta è conservata presso il Fondo G. della Scuola Normale Superiore di Pisa), a segnalare la complessità delle questioni che, negli anni Trenta, si concentravano nella discussione sul Rinascimento: domande di ordine sia filosofico sia religioso, ma tutte convergenti in una generale interrogazione sul significato dell'uomo e del suo destino, in un momento tragico della storia del mondo.  È in questo contesto che si inseriscono sia il saggio su PICO sia il saggio su La "dignitas hominis" e la letteratura patristica (in La Rinascita)  in cui questo intreccio di motivi si presenta in modo esemplare, con un netto primato della problematica di tipo religioso – anzi esplicitamente cristiano – e, simmetricamente, con un consapevole distacco dalle impostazioni di tipo idealistico, comprese quelle risalenti a Gentile. Come testimoniano anche i molteplici richiami alla interpretazione  Burdach – messa in circolazione in Italia, anche da Cantimori –, a quella data G. era su un'onda assai diversa rispetto a Gentile che, pure, fin dal primo momento apprezzò molto i suoi lavori su Pico, invitandolo a collaborare al GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA, sul quale aveva cominciato a pubblicare con un saggio su L’etica di Butler.  Non si trattava solo di una distanza di ordine storiografico, evidente, per esempio, nella importanza che già in questi anni G. comincia ad assegnare alla tradizione ermetica, avviando una ricerca che avrebbe continuato, sia pure con toni e forme assai diverse, fino ai suoi ultimi anni -- il saggio su Una fonte ermetica poco nota. Contributi alla storia del pensiero umanistico, destinato a essere ripreso e profondamente modificato, uscì originariamente in La Rinascita. Al fondo, rispetto a Gentile, c'era una forte distanza di carattere strettamente filosofico, come risulta dai principali riferimenti filosofici di G. in questi anni: Senne, Marcel, Gilson, Lavelle, forse il più importante di tutti, quello al quale si sentì a lungo più vicino.   Sono tutti autori di area francese e di matrice cristiana, convergenti, sia pure con toni differenti, nella prospettiva di un esistenzialismo religioso che appare ben presente negli scritti storici di . sul Rinascimento di questo periodo, pur mediati, e filtrati, da una armatura di carattere filologico ed erudito molto forte già in quegli anni (ne è una conferma il ricco e aggiornatissimo corredo bibliografico del libro su Pico). Mancano, invece – con l'importante eccezione di Cassirer, presente già nel saggio– riferimenti altrettanto significativi ad autori di area tedesca, a cominciare da Heidegger che, in quegli anni, era invece interlocutore privilegiato di altri importanti esponenti della generazione di G., come Luporini, suo amico fin dagli anni della Università, ma assai diverso sia per interessi filosofici che per le strade che avrebbe poi preso sul terreno politico.  È una mancanza che non stupisce, se si considera che la cultura di matrice francese fu una componente centrale della formazione di G., e che essa – insieme al pensiero inglese, ma con maggiore forza – ebbe un ruolo centrale nella sua attività scientifica e anche editoriale, come testimonia l'imponente opera di presentazione e traduzione di testi capitali del pensiero francese svolta insieme alla moglie – da Rousseau a Malebranche, a d'Holbach e gl’enciclopedisti.  Il primato della cultura di matrice francese era, del resto, un tratto diffuso della generazione di G. e, in modo particolare, dell'ambiente culturale fiorentino: quello che si esprimeva in istituzioni di notevole rilievo come il Gabinetto Vieusseux – di cui è bibliotecario e direttore Montale –, e LA BIBLIOTECA FILOSOFICA di Levasti e Marrucchi, una personalità notevole, alla quale G. rimane sempre legato e che ricorda in pagine molto intense, rievocando quell'ambiente e quell’atmosfera, in cui vive il ricordo di una figura come Michelstaedter, alla quale anche G. dedica, a più riprese, molta attenzione. Tornato a Firenze, ha un incarico di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia. Ottenne, poi, la libera docenza in storia della filosofia. Quando per effetto delle leggi razziali LIMENTANI (si veda) lascia la cattedra di filosofia morale, la facoltà decide di NON chiamare su essa un altro ordinario, ma di conferire l’incarico a G., discepolo – pupillo -- di LIMENTANI (si veda).  Nei modi possibili in quei tempi difficili, G. espressa pubblicamente la sua fedeltà al maestro e tutore con cui si è formato, tenendo una conferenza presso la BIBLIOTECA FILOSOFICA Biblioteca di Firenze in cui attacca a fondo ogni forma di storicismo  identificato con il relativismo rivendicando, da un lato, il valore della lotta, e dell'ostacolo, sulla scia di Senne. Ribadendo, dall'altro, e con massima energia, la distinzione tra vittima e carnefice, tra perseguitato e persecutore, che nessuna provvidenza storica avrebbe mai potuto, in alcun modo, risarcire. Dopo la morte di LIMENTANI (si veda), ne redatta un commosso necrologio, pubblicato in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi scritti (Limentani, Firenze). Comincia, intanto, a partecipare a concorsi per ottenere una cattedra universitaria, che riuscì a vincere quando risulta primo ternato in quello per professore straordinario alla cattedra di storia della filosofia a Cagliari -- la commissione èformata da Aliotta, presidente, Lamanna, segretario, Abbagnano, Banfi, e Spirito. Precedentemente partecipa, venendo dichiarato maturo, a tre altri concorsi, banditi, rispettivamente, da Messina e da Napoli -- quest’ultimo si svolse in due tornate, per l’annullamento, a causa di un ricorso, dei risultati della prima.  Difficili sul piano accademico e anche personale, quegli anni sono però fertilissimi dal punto di vista filosofico. Oltre a una serie di saggi assai importanti usciti, in genere, su La Rinascita diretta da Papini, con il quale ha, allora, un rapporto intenso, G. pubblica due importanti antologie: Il Rinascimento italiano, Milano, commissionatagli da VOLPE (si veda) e stampata nella collana dell'ISPI; e Filosofi italiani, Firenze, uscita come pubblicazione dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. Si tratta, in entrambi i casi di opere fondamentali, destinate a lasciare una orma profonda negli studi rinascimentali. Ma lette con attenzione – e tenendo conto della inclinazione dissimulatoria tipica dell'epoca –, esse svelano con precisione quali fossero gli atteggiamenti filosofici e politici di G. in quel momento: una posizione nettamente antifascista, trasparente nelle pagine dedicate alla critica del tiranno; un profondo interesse di tipo religioso, già emerso nei primi saggi rinascimentali della seconda metà degli anni Trenta, e ora pienamente dispiegato nella lunga Introduzione ai Filosofi italiani, a cominciare dalle pagine scritte sulla morte, discorrendo di Salutati. Sono temi nei quali la nota religiosa risuona con particolare forza e vigore, e non solo nei testi sull'Umanesimo. Pubblica per una piccola casa editrice fiorentina, Cya, una antologia di testi tolstoiani, Ultime parole,  nei quali è affermato con nettezza il primato della 'riforma interiore' come condizione di ogni riforma di tipo economico e sociale. Sarebbe stato, del resto, lo stesso G. ricordare che anni prima, nel pieno della guerra, attraversa una vera e propria crisi di tipo religioso, subendo a fondo l'influenza di Tolstoj. Sul terreno filosofico è una inclinazione che si rivela, oltre che sul piano del linguaggio, nel forte ruolo assegnato a SAVONAROLA (si veda), un autore che gli è sempre carissimo, ma che arriva ad affiancare al Platone della Repubblica per il Trattato sul reggimento di Firenze. Spicca anche il lavoro di presentazione e di traduzione dei testi fondamentali di PICO (si veda): De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno, Firenze; Disputationes adversus astrologiam divinatricem -- un'impresa imponente, che contribuì a mutare in profondità sia l'immagine tradizionale di Pico, sia quella corrente del Rinascimento, ponendo le basi della interpretazione generale che G. propone ne “Der italienische Humanismus, pubblicato nella collana diretta da GRASSI (si veda) per l'editore Francke di Berna, ristampato poi nel testo originale presso Laterza. Sono saggi resi possibili anche dal forte sostegno di una figura singolare, ma più importante di quanto in genere si pensi, della cultura italiana: CASTELLI ZUBIENA (si veda), il quale – oltre a pubblicare le traduzioni di PICO (si veda) nell'ambito dell’edizione nazionale dei classici del pensiero italiano promossa dal REGIO ISTITUTO DI STUDI FILOSOFICI da lui presieduto e del quale G. è anche segretario della sezione toscana, si impegna con molta tenacia e costanza, a tutti i livelli, per fargli ottenere un distacco dal Liceo Vinci che gli consentisse di svolgere con maggiore tranquillità il suo lavoro. G. sottolinea più volte che non c'è un rapporto meccanico tra storia della cultura e storia politica, precisando, per esempio, che la crisi e la fine dell'idealismo crociano si compiono nel 1968, non nel 1945. Non c'è però dubbio che con la fine della guerra sia iniziata una nuova fase della sua lunga vita sul piano sia intellettuale sia politico. Dopo un periodo connotato dalla vicinanza a posizioni di tipo liberal-democratico (come appare chiaro dagli articoli che pubblica sull'Italiano), si avvicinò infatti, sia pur progressivamente, al Partito comunista italiano, senza mai iscriversi a esso, ma diventandone, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei principali intellettuali di riferimento.  Alla base di questo netto spostamento di campo ci furono motivazioni di ordine intellettuale e di natura politica.   Sul primo punto, è decisivo l'incontro con le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che recensì subito su Leonardo, la rivista di cui, divenne redattore – cioè, in effetti,  direttore –, avviando un intensissimo colloquio che sarebbe continuato lungo tutta la sua vita e che avrebbe inciso sia sulle sue ricerche umanistiche sia sulle Cronache di filosofia italiana pubblicate per i tipi di Laterza ma preparate dagli articoli su Leonardo e sul GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA fondato da GENTILE (si veda) e diretto da SPIRITO (si veda). Dal punto di vista strettamente politico, per quanto possa apparire paradossale, in quella scelta agì il profondo, e mai venuto meno, interesse religioso di G.: e infatti profondamente LAICO, NON LAICISTA. Ritene necessario distinguere con chiarezza ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, anzi pensa che dalla confusione dell'uno e dell'altro potesse derivare una degenerazione di entrambi. Il partito della Democrazia cristiana gli apparve come la realizzazione concreta di questo rischio, con la ripresa, e il potenziarsi, di quelle tendenze che durante il Regime si erano espresse nel clerico-fascismo, contribuendo, a suo giudizio, a corrompere il carattere morale degl’italiani. Perciò considera negativamente l'inserzione dell'articolo 7 nella Costituzione repubblicana, ma fu per questi stessi motivi che si avvicinò al Partito comunista: per una scelta di ordine anzitutto morale e, alle origini, religiosa. Pur nel dissenso con il Partito comunista nella valutazione dell'articolo 7, G. vide in esso la forza più intransigentemente schierata a favore di una concezione laica dello Stato e, in genere, della vita, contro il riaffiorare e l'imporsi di una nuova forma di clerico-fascismo, dannosa, ai suoi occhi, sia per la politica sia per una autentica esperienza religiosa.  I due piani – quello culturale e quello politico – si intrecciarono e si potenziarono a vicenda, nella concretezza del suo lavoro, sia in quello sul Rinascimento sia nelle ricerche sulla filosofia italiana. A quest'ultima aveva già dedicato, per incarico di Gentile, due volumi pubblicati da Vallardi. Si tratta dell'opera: La filosofia, da non confondere con la Storia della filosofia uscita per i tipi di Vallecchi: uno de suoi libri più belli, più vivaci, più liberi.  Le Cronache di filosofia italiana  erano, in effetti, un'altra cosa: una sorta di autobiografia di una intera generazione, quella nata al tornante del primo decennio del secolo – la stessa di Bobbio, nato anch'egli, come G., e autore di Politica e cultura, l'altro grande testo 'autobiografico' della loro generazione. A considerare oggi quegli anni, non appare casuale che due intellettuali di quel livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la necessità di confrontarsi con la propria storia, sia pure da punti di vista diversi e con strumenti differenti. In G., assai più che in BOBBIO (si veda), e infatti presente la lezione di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La filosofia come sapere storico (Bari) si conclude con un lungo saggio su Gramsci, nato come relazione al Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma l'anno prima, ma anche sul piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di uomini e cose, come Togliatti rileva nella sua recensione a Cronache di filosofia italiana (Rinascita).  Non solo: la lezione di Gramsci, in forme assai mediate e controllate, è visibile anche negli scritti che G. dedica al Rinascimento. Nonostante che, in questo caso, i giudizi di Gramsci e G. fossero, proprio nel merito, profondamente differenti. L’UMANESIMO CIVILE, IL TRAMONTO DI UN MONDO  Quando si parla di G. si pensa, in genere, alla sua interpretazione del Rinascimento come 'umanesimo civile'. È giusto, ma riduttivo per due ordini di motivi. In primo luogo, essa svolge funzioni e ruoli diversi, anche a seconda del mutare dei contesti storico-politici. In secondo luogo, a cominciare dagli anni Settanta G. riformula in modo profondo la sua interpretazione, dislocando l'Umanesimo civile in zone progressivamente laterali, rispetto al nucleo centrale del suo discorso (in questo senso è fondamentale Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali, Roma-Bari: uno dei suoi lavori più importanti, insieme a La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, uscito per i tipi di Sansoni, nel quale spicca in apertura il saggio – capitale dal punto di vista dell'Umanesimo civile – su I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina da Salutati a Scala, pubblicato originariamente  in Rivista storica italiana. All'interpretazione del Rinascimento come Umanesimo civile G. lavorava, in effetti in convergenza con le ricerche di Baron, del quale fa pubblicare su La Rinascita un importante saggio. Ma allora esso aveva una funzione parallela, anzi secondaria, rispetto ai motivi ermetici che G. tendeva maggiormente a valorizzare, anche in relazione a quell'esistenzialismo religioso nel quale allora si riconosceva. Negli anni Cinquanta e Sessanta il quadro muta in modo deciso, e  l'Umanesimo civile diventò il motivo dominante della sua interpretazione, come appare dall'antologia, fortemente lodata da Cantimori, Prosatori latini del Quattrocento (Milano). I motivi messi a fuoco nella seconda metà degli anni Trenta erano ripresi, e anzi energicamente sviluppati, a cominciare dalle tematiche magiche e astrologiche, cui dedicò due saggi fondamentali; ma essi ora venivano riformulati (per esempio, cambiò in modo consistente il giudizio sull'astrologia) ed inseriti in una prospettiva che privilegiava, in primo luogo, la dimensione mondana, terrestre – appunto, 'civile' del Rinascimento –, dando rilievo centrale al problema del rapporto tra 'vita contemplativa' e 'vita activa', e valorizzando in questa luce i grandi cancellieri fiorentini come SALUTATI (si veda) e BRUNI (si veda). Ne scaturì una nuova immagine del Rinascimento, entro cui assunsero valore centrale discipline come LA RETORICA, l'arte della memoria o esperienze filosofiche prima trascurate, o non comprese in modo adeguato, come, per esempio, il lullismo. Su questo sfondo, G. si pose in termini nuovi rispetto agli scritti degli anni Trenta anche il problema della genesi e dei caratteri della scienza moderna, sforzandosi di mostrare come un moto di cultura strettamente legato nelle sue origini alla vita delle città italiane debba considerarsi una delle premesse del rinnovamento scientifico moderno (come scriveva nella Premessa al volume Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, pubblicato con Laterza: una linea di ricerca, sia detto tra parentesi, che non ebbe ulteriori sviluppi, anche per i mutamenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo storico, coinvolgendo a fondo anche il mondo storiografico). In questa accentuazione della dimensione civile agì certamente la lezione metodica di GRAMSCI (si veda), che appare con ancor maggiore chiarezza nei lavori che G. dedica alla filosofia contemporanea, specie a quella ITALIANA. Sono importanti, da questo punto di vista, sia La cultura italiana (Bari); sia, e soprattutto, quello sugli Intellettuali italiani  (Roma), che costituisce, per molti aspetti, il vertice della presenza, e della influenza, di G. nella cultura, e anche nella politica, italiane.   Se si considera il corso della sua vita, si può azzardare un giudizio: forse furono proprio quelli gli anni in cui G. riuscì a stabilire, nel complesso, un rapporto positivo con il proprio tempo storico, e non solo per i molti riconoscimenti pubblici che ebbe in quel periodo, dentro e fuori l'Università, in Italia e all’estero. E diventato professore ordinario di storia della filosofia medievale a Firenze, insegnamento che tenne per incarico. È poi subentrato a Lamanna come titolare della cattedra di storia della filosofia presso la stessa Università.   Riconoscimenti, e onori, altrettanto importanti stava avendo anche al di fuori dell'Università. Socio effettivo dell'Accademia toscana di scienze e lettere 'La Colombaria', ne era anche segretario generale; eletto socio corrispondente dei lincei, diventandone socio nazionale. Riceve dalla British Academy la Serena medal for Italian studies (gl’ultimi italiani che l'avevano ottenuta – scrive, con orgoglio, al direttore della Scuola Normale comunicandogli la notizia – sono Longhi e Bandinelli.  Al fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, G. è, a suo modo, un animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Riusce a esserlo come non gli era accaduto prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando un'attività scientifica di alto livello con un impegno civile assai intenso sui temi che gli interessavano maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui intervenne anche con una relazione molto dura letta al Teatro Valle di Roma  pubblicandola poi in volume, La cultura nella società italiana, Torino. La situazione muta profondamente. Quell'equilibrio, sempre fragile e precario, si incrina e G. si distacca, progressivamente, fino a contrapporsi, dai movimenti culturali e politici che comincia a scuotere il paese fin dalle fondamenta, nel bene e nel male. Il punto più aspro del contrasto, anzi la vera e propria rottura, si produce quando – si legge in una lettera al preside della facoltà di lettere, Sestan -- minuta nel Fondo G. della Scuola Normale Superiore – e costretto a interrompere la lezione per il contegno oltraggioso e provocatorio di uno studente. È una scelta assai meditata, anche se amara, quella di lasciare Firenze, che è stata la sua alma aater, trasferendosi alla scuola normale superiore di PISA come professore e anche questa scelta è significativa di storia della filosofia del Rinascimento. Come scrive al direttore della scuola, Bernardini, sarebbe stata quella la conclusione migliore, certo la più onorevole , di un lungo insegnamento (minuta).  Questo non significa che da quel momento si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a cominciare da quella italiana. Anzi: pubblica, con l'editore barese Donato, un saggio importante, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia, riprendendo in forme nuove il problema del positivismo e riaprendo, in generale, la questione del rapporto tra eredità positivistiche e filosofia, nelle sue varie diramazioni. Ma il saggio non ebbe un successo paragonabile a quello tributato al volume sugli Intellettuali italiani. Nel giro di pochi anni, la situazione era profondamente mutata e i temi trattati in quel testo, pur così importante, avevano perso peso e rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai aprendosi, e su vasta scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione nazionale, nel pieno di una crisi che investiva lo stato italiano fin dalle fondamenta. Effettivamente, un intero mondo sta cominciando a finire.  Tanto più colpisce, in questa situazione, il saggio  che in controtendenza, G. dedica a Gentile pubblicandone, con l'editore Garzanti, le Opere filosofiche. Aveva ormai 82 anni: nel 1979 era uscito dai ruoli dell'insegnamento, nel 1984 era andato definitivamente in pensione, nel 1986 era diventato professore emerito della Scuola Normale. Lascia anche la presidenza dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. E dunque diventato un libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine istituzionale, e forse anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e l'atteggiamento 'non conformista', si potrebbe dire – con cui si confronta con Gentile nella lunghissima introduzione che premise ai testi, spiegando il senso della sua scelta.  Non è un'impresa facile. I rapporti di G. con Gentile e con Croce sono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con il tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a Gentile. Basta leggere le pagine che gli dedicò nella Storia della filosofia, e accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere come ne apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce. Certo, come dimostrano le cronache, il suo giudizio sull’idealismo si approfondì col tempo e divenne assai più ricco e articolato. Ma la distanza di G. dalla 'filosofia dello spirito' non venne mai meno, perché essa coinvolgeva un punto centrale, allora e poi, della sua posizione. Alle origini, le ragioni di quella scelta stano precisamente qui. Sul piano filosofico GENTILE (si veda) appartene a quella filosofia della libertà, specie di matrice francese, in cui G. riconosce il carattere principale della filosofia e anche le proprie radici filosofiche. Filosofia della libertà: cioè azione, praxis, atto, volontà. Sono i motivi che erano presenti anche in Marx, quelli che gli avevano fatto apprezzare GRAMSCI (si veda), sentire affine la ricerca dei Quaderni del carcere, e che, nel volume, sottolineò anche in GENTILE (si veda), vedendo anzi nella sua lettura di Marx la via attraverso cui si era affermato nel nostro paese il principio della praxis, dell'azione, della volontà.  È per queste stesse ragioni – strutturali, non contingenti – che G. fu, invece, in sostanza, lontano da CROCE (si veda), pur apprezzandone il rapporto stabilito tra politica e cultura e l'immenso lavoro: non ne condivideva la concezione del circolo spirituale; lo sentiva distante per l'incapacità di afferrare la intima, e insuperabile, tragicità della vita; rifiuta la dissoluzione dell'individuo empirico, che invece per lui era fondamentale. Certo, con il tempo maturò un giudizio assai più ricco di quello espresso negli anni Quaranta; ma alcuni elementi in cui si esprimevano un distacco, e un dissenso, perfino di ordine generazionale non vennero mai completamente meno. In occasione del centenario della nascita di Croce, scrive un bel saggio sui suoi rapporti con Serra (SERRA (si veda) e Croce, in Belfagor) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ha esitazione a schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo. Iniziò una profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere, in vari modi, nel mondo storiografico, compreso quello di G., che operò mutamenti profondi nella sua posizione, a cominciare dalla concezione dell'Umanesimo civile, che nel ventennio precedente era stato il centro della sua interpretazione del Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale; anzi una ideologia nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come appare nel Ritratto di Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo), mentre assunsero rilievo essenziale altri temi, altri autori, come risulta chiaro dal libro Lo zodiaco della vita. La polemica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento (Roma-Bari), che raccoglieva quattro lezioni tenute al Collège de France. Fin dall'inizio della sua attività G. da rilievo alle tematiche magiche, astrologiche, ermetiche, sistemandole, poi, nel contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse ridiventarono centrali, con una particolare sporgenza dei testi e dei motivi di carattere astrologico. Alla base di questo c'era, come sempre in G., un convincimento di ordine teorico.   A lungo era stato persuaso che nella cultura europea fosse stata presente, e dominante, quella che egli chiama la 'linea PICO (si veda)-Sartre', secondo cui l'uomo non ha una natura (una specie, una forma), ma è un atto che si sceglie, per riprendere una sua battuta contenuta nella lettera a Amoroso minuta nel Fondo G. della Scuola Normale Superiore di Pisa. È un convincimento coerente con la sua filosofia della libertà, della praxis, del primato della volontà. Negli ultimi anni furono proprio questi capisaldi che si infransero e vennero meno sbalzando in primo piano, al posto dei cancellieri fiorentini, filosofi come POMPONAZZI (si veda) e, soprattutto, ALBERTI (si veda), sostenitori, l'uno e l'altro, di una concezione totalmente disincantata dell'uomo e della vita, ridotta o a gioco privo di senso o a una eterna vicissitudine di uomini, di cose, di sorti. E qui si può osservare come in un microcosmo in che modo lavora G., e quanto fosse profondo nella sua ricerca l'intreccio tra autobiografia e storiografia, a loro volta sostenute da una posizione teorica precisa, ma destinata, al tempo stesso, a importanti variazioni e mutamenti. ALBERTI e s infatti sempre al centro della sua attenzione, ma venne a lungo inserito nella prospettiva dell’Umanesimo civile, mentre negli scritti dell'ultimo periodo si configurò come uno dei principali esponenti di una concezione che vede nell'uomo niente altro che un ludus deorum, per riprendere l'espressione utilizzata da Platone nelle Leggi e ripresa nel De fato da POMPONAZZI (si veda). Sono precisamente questi temi, e queste espressioni (citate puntualmente nello Zodiaco della vita, e rafforzate dalla scoperta che fa di alcune Intercenali inedite di Alberti, pubblicate su Rinascimentonel), che attrassero G. quando si convinse che la linea PICO (si veda)-Sartre si era infranta ed èstata sconfitta. Né è facile dire quanto in queste posizioni storiografiche avesse inciso la crisi che fin dalla fine degli anni Sessanta sta travagliando il mondo storico, dandogli progressivamente il senso – e poi la persuasione – che una intera epoca della cultura europea stava tramontando, dissolvendo quegli ideali e quelle utopie che ne avevano sostenuto il cammino, specie nei momenti più gloriosi come il Rinascimento e l’Illuminismo.   In un intreccio profondo di autobiografia e storiografia, le pagine dell'ultimo G. sono solcate da toni assai disincantati e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in questi scritti, egli si presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo forte era stata la persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della volontà perché essa potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la sorgente originaria della sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa – nonostante tutto – aveva cercato di restare fedele, dipanando il filo essenziale della sua esistenza, nelle diverse situazioni in cui gli toccò di vivere, per quasi un secolo.  Quando muore, a Firenze  non ha smesso di pensare all'utopia di un mondo diverso: come gli avevano insegnato a fare i rappresentanti più eminenti dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta parte della sua esistenza. G. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, Giornata di studio, Prato, Biblioteca Roncioniana a cura di Audisio - A. Savorelli, Firenze (si vedano in particolare i saggi di Cesa, Momenti della formazione di uno storico della filosofia e di C. Vasoli, Gli studi di E. G. Su Pico; G. e il Novecento, numero monografico del Giornale critico della filosofia italiana; Ciliberto, G. Un intellettuale nel Novecento, Roma-Bari; G. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Convegno, Firenze, a cura di Catanorchi - Lepri, con Premessa di Ciliberto, Roma-Firenze; Il Novecento di G., Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, a cura di Ricci - Vacca, Roma. Grice: “Don’t expect philosophical insight from Garin. He is at most an amanuensis. But like Gentile, it is helpful, if you are into minor philosophers, or minor figures, to go through the indexes of his many compilations. As with Gentile’s Storia della filosofia italiana, Garin’s is just as boring. Garin makes it more difficult in that he uses two or three words which we don’t use at Oxford: ‘pensiero’ for philosophy, ‘intellectual’ (‘intelletuali italiani del novecento’) and ‘culture’ (cultura italiana del ottocento’). By these monickers, he is attempting to include as philosophers people who we should not!” Eugenio Antonio Garin. Eugenio Garin. Garin. Keywords: cicerone come umanista – umanesimo e unamenismi – garin, umanista del Novecento – umanisti e il ritorno dei filosofi antichi – umanesimo, ovvero, il primo secolo del rinascimento – il ritorno dei filosofi antichi – retorica umanista – castelli e garin -- le griceianisme est un humanism!” humus, human, homo sapiens, homo sapiens sapiens, human vs. person, sapientia, persona -- human, umano, umanesimo – filosofia romana -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garin – umano, troppo umano – The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Garroni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Pinocchio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo Italiano. Garroni. Grice: “I like Garroni; he writes very Griceianly: on lying, on Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --, and on sense perception (‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura, communicazione’). Inizia la sua attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica, grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte.  Insegna a Roma. Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia Einaudi.Cura Benedetto, Bottari,  Melis, Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni artistiche ("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza del “senso” (il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la portata iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che trascendono lo stato empirico delle scienze  e vivono operanti nel meglio degli indirizzi novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli. (L’orizzonte di senso). Altre opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica ed estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico” (Bari, Laterza); “Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari, Laterza); “Pinocchio uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla "Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni); “Ricognizione della semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna, Il Mulino); “Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica. Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e il mentire” (Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari, Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo letterario. Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà di giudizio” (Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti sul cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Bruno e Cervini, Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno, Macerata, Quodlibet); “La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen quartett. Una storia” (Parma, Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e della lontananza, Roma, Editori riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti morali, Parma, Pratiche); Lettere alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e della Televisione italiana, Marsilio; Una puntata, tratta da Rai Teche, del programma TV "Arti e Scienze", in cui G. parla del Bauhaus e intervista Zevi e Gropius  Presentazione della mostra dell'Autoritratto; Articolo de La Repubblica; Intervista che riassume la nozione di estetica come "filosofia non speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche.  Treccani L'Enciclopedia italiana". Legalità / Creatività.: G. legge Kant di Romeo Bufalo, in Studi di estetica, Bologna.  LORENZINI, Carlo (Collodi). Nasce a Firenze, primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del marchese Carlo Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina) Orzali, figlia del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri (frazione di Collodi). Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero il terzogenito Paolo, Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del L., Ippolito.  È probabile che il L. abbia frequentato le scuole elementari a Collodi, dove risulta ospitato dagli zii materni Giuseppe e Teresa (forse per le disagiate condizioni della famiglia a Firenze); l'anno successivo, con il sostegno economico del marchese Ginori, entrò nel seminario di Colle di Val d'Elsa. Decise di interrompere gli studi in seminario, iscrivendosi nel maggio dell'anno successivo al corso di retorica e filosofia delle Scuole pie di S. Giovannino a Firenze. Terminato il corso trovò subito un impiego nella libreria Piatti di Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi mantenere agli studi.  La libreria, anche casa editrice, era fra le più importanti di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra i quali G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato dal giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di redigere notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle novità della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore dell'impresa ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che ottenne l'autorizzazione alla lettura dei libri proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne accompagnò le prime prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e come critico musicale nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da C. Tenca, dove  apparve il primo articolo firmato del L., L'arpa.  L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio Piatti, proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità d'osservazione e descrizione.  In estate il L. tornò a Firenze e dovette trovarsi un altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla malattia del padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per interessamento di Aiazzi fu nominato "messaggiere" (segretario, commesso) del Senato toscano e arrotondò il modesto stipendio con un'intensa attività di collaborazione a diverse testate, in particolare, al periodico democratico Il Lampione (1848-49) di cui fu tra i fondatori. Qui pubblicò numerosi articoli, per lo più non firmati, tra i quali spiccano alcuni pezzi anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la serie di ritratti intitolata "fisiologie" in cui già con matura incisività satirica tratteggiava caratteri e tipi contemporanei, come quelli contrapposti del "codino" e del "crociato" (cioè il falso volontario): in essi più che "mazziniano sfegatato" (come lo definì Martini, p. 168), manifestava tendenze repubblicane e democratiche derivate da Mazzini solo "in termini generali" e in "modo indiretto" (G. Candeloro, C. Collodi nel giornalismo del Risorgimento, in Studi collodiani).  Con il ritorno dei Lorena nel Granducato, L. dapprima rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in giugno, fu reintegrato, ma la sua condizione lavorativa dovette restare precaria, tanto che l'autunno dell'anno successivo si dedicò alla traduzione dal francese del romanzo La figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a puntate nel periodico milanese l'Italia musicale, per il quale compì un lungo giro tra Emilia e Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista continuò a collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per i suoi impegni giornalistici) e quando perdette definitivamente il suo impiego.  Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si intensificò ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del periodico artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I. Nievo). Nel periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica musicale, teatrale e letteraria (tra cu una feroce stroncatura del poema Rodolfo di G. Prati che anticipava di netto le prese di posizione negative di F. De Sanctis e G. Carducci sul poeta trentino) e prose umoristiche: tra l'altro, condusse una battaglia contro la pittura accademica convergendo sulle posizioni dei macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T. Signorini, A. Tricca, S. Ussi) incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo. Il tutto "con uno stile rapido e di presa immediata, che si segnala per il valore e la modernità del linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Contemporaneamente, fondò e diresse il periodico teatrale Lo Scaramuccia, per il quale aveva reclutato collaboratori di livello, tra cui P. Fanfani e il giovane P. Ferrigni (Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo pseudonimo di Yorick.  Ormai dedito a tempo pieno alla sua attività di pubblicista e scrittore, estese il raggio delle sue collaborazioni giornalistiche a periodici quali Lo Spettatore (cui collaboravano, tra gli altri, G. Giusti, N. Tommaseo e R. Bonghi) e al giornale umoristico La Lente, in cui per la prima volta usò lo pseudonimo di Collodi (nell'articolo Coda al programma della Lente, 1856).   Il L. coltivava anche ambizioni di scrittore teatrale e compose il dramma in due atti Gli amici di casa ispirato a un episodio reale e in cui si ritrovano evidenti influssi del romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici: tentò invano di farlo rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté pubblicarlo (Firenze), ma non riuscì a farlo mettere in scena. Pubblica Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida storico-umoristica, nato come opuscolo-guida per viaggiatori in occasione dell'inaugurazione della ferrovia Leopolda, che collegava appunto Firenze a Livorno. In esso il L. contaminava e stravolgeva, tentando un'inedita forma di giornalismo umoristico ispirato al modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C. Collodi, Opere), il genere "popolare" del romanzo e quello "borghese" della guida di viaggio. Così la narrazione romanzesca, che procede in modo parodisticamente caotico e con l'intreccio ingarbugliato della narrativa d'appendice, è inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o curiose per il viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia.  Confortato dal buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si dedicò alla stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I misteri di Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857, preannunciata dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e spontaneo. Il romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo volume, intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice alla E. Sue (I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto fine del romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina, moralmente e politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente espressivo e satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali.  Durante la stesura di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua intensa attività di pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse l'incarico di segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da G. Servadio, facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze e intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa la sua attività di segretario della Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove ripartì improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione amorosa) la primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico del periodico L'Italia musicale.  Nella capitale sabauda si arruolò nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla guerra. Dopo l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu posto in congedo e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a collaborare come "cronista settimanale" al giornale La Nazione, diretto dall'amico A. D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo a B. Ricasoli. E proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli venne chiesto di scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e quella del governo toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri, uscito (con la falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di dicembre del 1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani filopiemontesi, i plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione di un Regno dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di Napoleone III, a Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il sig. Albèri ha ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a Firenze alla fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del professore bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando come sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei Toscani.  Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione del quotidiano umoristico Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e direttore (mentre il fratello Paolo ne era l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione del giornale interrotto, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo annessionistico.  A questa amara e disillusa evoluzione politica corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi, nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté chiese e ottenne di essere collocato a riposo.   Le non onerose incombenze del suo impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con crescente intensità delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore teatrale e, infine, di cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860, recandosi a Milano per contattare Tenca e il gruppo del periodico Il Crepuscolo, fu cooptato come segretario aggiunto nella Commissione promotrice del Panteon italiano, cui era collegato il progetto di un'edizione nazionale delle opere di Dante.  Nel 1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle porcellane di Doccia, steso (probabilmente per iniziativa del fratello Paolo, direttore della fabbrica Ginori) come guida storica e illustrativa dell'industria dei marchesi Ginori in occasione dell'Esposizione italiana che si tenne quell'anno a Firenze. L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza fedelmente la linea espositiva di un analogo volumetto compilato ancora da Albèri circa vent'anni prima, era anche un "elogio della politica illuminata dei marchesi Carlo ("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per migliorare le condizioni di vita dei propri operai" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Ne Il Lampione, apparve la commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata con il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime consenso ricevette la vivacità linguistica del testo.  Al teatro il L. continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio (fa parte della Società d'incoraggiamento teatrale e nella Gazzetta d'Italia apparve un suo importante articolo tecnico sulla Censura teatrale in Italia) sia come critico e in qualità di autore. Pubblica a Firenze la commedia in tre atti L'onore del marito, rappresentata per la prima volta al teatro Niccolini, rivolta non tanto alla condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la vitalità della borghesia attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia italiana. In quel periodo attese anche alla stesura della commedia in quattro atti Antonietta Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; risale inoltre la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi, rappresentata con scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo. Subito trascritta in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a puntate nel Fanfulla con il significativo sottotitolo Bozzetti e studi dal vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata lucidità con cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio, dall'agiatezza e dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il "vero" che si prefiggeva L., più che quello del naturalismo letterario, era quello nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente chiaroscurato en plein air della contemporanea pittura toscana.  Del resto, anche nell'intensa attività giornalistica esercitata dal L. nel quindicennio che va dall'Unità, in particolare in La Nazione, La Gazzetta del popolo e nel Fanfulla, la sua attenzione di notista politico e di osservatore e commentatore di costume andò concentrandosi, con toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei problemi, dei conflitti e degli scandali dell'Italia appena unificata, con attacchi sempre più ironici e velenosi contro personaggi e provvedimenti politici (come M. Coppino e la sua legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e la tassa sul macinato, il corso forzoso e la politica fiscale dei governi della Destra) e soprattutto contro tipi, costumi e mentalità dominanti, fino all'acme paradossale e sferzante della Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M. Minghetti, pubblicata il 30 genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla ventata antitoscana successiva alla polemica sul privilegiato esercizio delle ferrovie, era esposta la paradossale e sferzante proposta di sopprimere la Toscana stessa, cancellandola dalla carta geografica del Regno d'Italia.  A questa oltranza polemica, pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato, in quanto dipendente del ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi dal pubblicare articoli politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di orizzonti.  In primo luogo, al giornalismo etico-politico militante subentrò una fase in cui L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in volume del meglio della propria produzione pubblicistica (racconti e cronache) nelle raccolte, dai titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano 1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (Firenze). In esse riunì, senza alcuna revisione, semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva non senza autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più tipiche della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature e tagli narrativi" (Asor Rosa) a formare un antinaturalistico ritratto "alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei "profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).   Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo ènominato dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la compilazione del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro, dette scarso contributo. L. si indirizzò, dapprima casualmente e occasionalmente, poi con impegno, assiduità e adesione personale sempre più convinti, verso la letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di illimitata libertà fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e insieme la possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo", dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della superficie" delle cose (Asor Rosa), dal quale prendevano le mosse i due diversi ma in fondo convergenti filoni della letteratura verista e della letteratura moralistica e normativa alla De Amicis. L'occasione per quella svolta fu offerta al L. dalla dinamica casa editrice fiorentina dei fratelli Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato dell'editoria scolastica, che gli propose di tradurre i Contes e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le favole della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La versione, condotta dal L. con leggere variazioni rispetto agli originali e con stile piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente con il titolo Racconti delle fate e le illustrazioni di E. Mazzanti.  Da allora, pur riprendendo la collaborazione al Fanfulla e continuando la sua attività di critico teatrale, il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo della letteratura scolastica e per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito i due libri di lettura Giannettino, che sin nel titolo riprendeva il fortunato romanzo pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini, e Minuzzolo: entrambi erano storie di bambini discoli o svogliati, ricondotti alla scuola e alla normalità dalle famiglie e da esperienze che li inducevano a riflettere (lo schema è già quello di Pinocchio, ma le peripezie dei due protagonisti si svolgono sullo sfondo della Firenze contemporanea).   Ormai accreditato tra i più ricercati autori di libri scolastici e per l'infanzia, il L. (che per le sue opere pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina a cavaliere della Corona d'Italia e ricevette da Conti, assessore alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di compilare i libri di testo per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita metodicità alla compilazione di una lunga serie di opere che configuravano una sezione autonoma, personale e sistematica, all'interno della "Biblioteca scolastica" della casa editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie di volumi imperniati sulla figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino: Italia superiore, seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia centrale e nel 1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di Giannettino; L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino; fino a La lanterna magica di Giannettino. Con la loro formula innovativa questi testi costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica Istruzione (cfr. Raicich): le diverse discipline, infatti, erano esposte in forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente dialogica nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e rendere l'apprendimento il più possibile piacevole e "naturale".  Al centro di tale intensa attività vanno inquadrate la nascita e la complessa vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di Pinocchio. Il libro nacque per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L., che lo voleva tra i collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di cui era animatore e che era stato fondato da Martini con l'ambizione di rinnovare la letteratura infantile italiana. L., ormai stanco e disilluso, rispose controvoglia inviando all'amico i primi tre capitoli di un testo intitolato La storia di un burattino (dallo stesso L. definito, con la consueta autoironia, "una bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del Giornale. I capitoli successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27 ottobre: la vicenda si concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la presunta morte del burattino. Forse per le insistenze di Biagi e certo per il successo riscosso dalla storia, il L., dopo molti dinieghi, si decise a proseguire la narrazione, il cui seguito, con il titolo ormai definitivo di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal cap. XVI) dal febbraio 1882. La pubblicazione proseguì a ritmo irregolare. Velocissima è la pubblicazione in volume, che uscì nel febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di nuovo, di Mazzanti; sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite, una seconda edizione nel 1886 (lo stesso anno in cui Amicis pubblica Cuore), una terza di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad & figlio concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu alterato da refusi e banalizzazioni.  Se ci si limita alle sole circostanze esterne della composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque, può risultare fondata la qualifica di "capolavoro scritto per caso" risalente a P. Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace formula critica la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della "bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del giornalismo della seconda metà dell'Ottocento.   In realtà, nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme profondamente coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano l'universo del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non letteraria e mediana, che trova piena realizzazione nel toscano "vivo" in cui la celebre fiaba è narrata.  Di tutto ciò non si accorsero né i contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre la fortuna editoriale della "bambinata" veniva crescendo fino a farne il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro della letteratura mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita e la carriera del suo autore.  Negli anni della composizione e pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla e assunse parte sempre più attiva nella gestione del Giornale per i bambini, di cui divenne direttore e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi non ha coraggio vada alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e Pipì lo scimmiottino color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre pubblicato nel 1887, sempre presso Paggi.  L'anno prima era morta la madre, presso la quale il L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non riuscì a riprendersi. Gli anni successivi furono i più tristi e solitari della vita del L. che, già minato nel fisico, venne sempre più chiudendosi in se stesso e isolandosi nel suo lavoro. L. muore a Firenze improvvisamente.  Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e lessicografo purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e Divagazioni critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze) gran parte delle prose sparse del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai testi. Rigutini e il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta raccolta delle sue carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere (private o d'argomento politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità del L. e di molti viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di salvaguardare "il buon nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo Lorenzini [Collodi nipote]). Le non molte carte sopravvissute furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito, alla Biblioteca nazionale di Firenze.  Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale, N.A., 754: Carte Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di carte è custodito presso l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad Marzocco di Firenze, erede della casa editrice Paggi (cfr. Minicucci, Tra l'inedito e l'edito delle carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti del I Convegno internazionale, Pescia. Altri documenti sono presso l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze; Pinocchio e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di R. Maini - M. Zangheri, Firenze).  Tra le testimonianze biografiche contemporanee, i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla della domenica e nella Domenica fiorentina; i profili premessi dai curatori a due successive edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G. Rigutini, Firenze; a cura di I. Cortona, Lorenzini); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi, in La Lettura, Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), I, Firenze; inoltre Lorenzini, Collodi e Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio. Vita e opere del Collodi, Milano, Traversetti, Introduzione a Collodi, Roma-Bari; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato Tutto Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume (Firenze); la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle Opere, a cura di D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C. Collodi dà conto delle numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e delle opere minori (narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la ristampa anastatica della Grammatica di Giannettino, a cura di Geymonat, Firenze.  De Le avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni di particolare rilievo: le due edizioni critiche, la prima a cura di A. Camilli, Firenze 1946 (basata sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura di O. Castellani Pollidori, Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad, l'ultima rivista dall'autore -, ma corredata delle varianti delle precedenti stampe e dei manoscritti dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F. Tempesti (tutte pubblicate a Milano), corredate da un ampio commento e da ricchi apparati documentari; infine, quella compresa nella raccolta di Opere, a cura di Marcheschi, con ampio corredo di note. Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con introd. di S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano) con introd. di P. Italia e prefaz. di V. Cerami. Per il resto si rinvia (anche per la letteratura critica) alla Bibliografia Collodiana di L. Volpicelli (Pescia), da integrare con la citata Bibliografia di D. Marcheschi, aggiornata, , alla consultazione del catalogo della Biblioteca Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli su C. Collodi e Pinocchio (on-line su internet), gestiti dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi di Pescia.  La storia degli studi critici sul L. in gran parte contributi su Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da Collodi a L.: sulla fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di Collodi, cur. Viola e Rovigatti, Roma; Pinocchio. Breve storia della critica collodiana di Bertacchini, in C. L.- Collodi nel centenario. Atti del Convegno, Roma-Pescia Roma. Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli della critica collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature enfantine en Italie, in Revue des deux mondes, Pancrazi, Elogio di Pinocchio, in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze Croce, Pinocchio, in Id., La letteratura della Nuova Italia, V, Bari; Bargellini, La verità di Pinocchio, Brescia Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia, Milano Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze; Baldini, La ragion politica di "Pinocchio, in Id., Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D'Annunzio e minori, Firenze; Pancrazi, Capolavoro scritto per caso, in Id., Scrittori d'oggi, Segni del tempo. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo studio della personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi, a Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici: Studi collodiani. Atti del Convegno Pescia; Pinocchio oggi. Atti del Convegno pedagogico, Pescia-Collodi, C'era una volta un pezzo di legno. Atti del Convegno La simbologia di Pinocchio", Pescia Milano; Folkloristi italiani del tempo del Collodi(, Pescia, cur. Clemente - M. Fresta, Montepulciano; Pinocchio fra i burattini. Atti del Convegno internazionale, cur. Tempesti, Firenze; Pinocchio sullo schermo e sulla scena. Atti del Convegno internazionale, a cura di G. Flores d'Arcais, Firenze; Scrittura dell'uso al tempo del Collodi cur. Tempesti, Firenze; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia cur. Bernacchi, Firenze; Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda, Lucca.  Per il centenario della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla Banca Toscana, C. Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con introduzione di L. Comencini e Suso Cecchi D'Amico, Firenze e le citate pubblicazioni dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il catalogo C. L. oltre l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi nel centenario.  Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di grammatica in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma; G. Cives, Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il bambino e la lettura. Testi scolastici e libri per l'infanzia, Pisa, Giachery, Tre compari intorno a un burattino, in Id., La letteratura come amicizia, Roma, Gómez del Manzano - G. Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci; A. Asor Rosa, Le avventure di Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana nel tempo, Torino, Citati, Il ritratto di "Pinocchio", in Id., Ritratti di donne, Milano, Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due fortune molto diverse, in Scuola e città, Farnetti, I notturni di Pinocchio, in Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico, Pasian di Prato Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino; Tempesti, Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Spinazzola, Pinocchio & C., Milano Toesca, La filosofia di Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di burattino, in Forum Italicum, Pizzoli, Sul contributo di "Pinocchio" alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani, Randaccio, La "Legge shandyana del nome" nei personaggi di C. Collodi, in Riv. italiana di onomastica, Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova Antologia, Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in Studi cattolici; Campa, La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", Lucca; Sterne e Collodi, Lucca, testi di R. Bertacchini, D. Marcheschi, F. Tempesti, Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la tradizione delle guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi d'inchiostro. Note su viaggi e letteratura in Italia, Udine, Iermano, Da Parravicini a Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, Carosi, Pinocchio. Un messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma; A. Gnocchi - M. Palmaro, Ipotesi su Pinocchio, Milano; Moret, Pinocchio e le pinocchiate in Francia, in Levia gravia, Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi piemontesi, Villoresi, La letteratura poliziesca e del mistero ambientata a Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in Archivi del nuovo, Lavizzari, Della disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti,  Geymonat, Una grammatica di buon senso, in Collodi, La grammatica di Giannettino, cur. Geymonat, Firenze; Marello, La dubbia efficacia del paternalismo induttivo, i Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia, Roma, ad ind.; Il giro di Pinocchio in due giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa. Proietti. Ho intervistato G. presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso, insieme al mio relatore Amoroso, di scrivere un saggio i sull’estetica di G.. G., molto gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e mi ha fornito indicazioni importanti per la stesura della tesi. G., nei suoi testi c'è stato un progressivo spostamento di interesse dalla semiotica all'estetica, in che modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi sono occupato molto prima di estetica che di SEMIOTICA. Ma quando ho cominciato ad occuparmi di SEMIOTICA, l’interesse non e rivolto solo alle opere d’arte, anche se l’occasione e questa. Perché mi sono occupato di SEMIOTICA? Sono stato attratto anch’io nel vortice della MODA della SEMIOTICA. Ma forse ho anche qualche motivo serio per farlo. Provengo dalla cultura estetica imperante in Italia, di tipo crociano, dove l’arte viene riportata all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più. Non si sa in alcun modo come l’estrinsecazione di questa intuizione si strutturi e sia analizzabile. Lo stesso Croce nelle sue opere critiche conduce analisi critiche vere e proprie in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e quasi nient’altro. Anche i tentativi che sono fatti sulla scia 2crociana nell’ambito di arti particolari, nell’architettura da parte di Zevi , nella musica da parte d’altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché resta pur sempre quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto meno si puo sapere, come pure e nella mente di Croce, se e quando un’opera d’arte e veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera d’arte riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte. Appunto questo intuizionismo mi urta. Non a caso mi avvicinai in un [Questa intervista nasce dunque come appendice al saggio di Ferrari, Estetica e FILOSOFIA in G, Pisa. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino] primo momento a Volpe, citato già nel mio saggio e ampiamente discusso insieme al pensiero di Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Volpe? Perché in lui c’e l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un uso specifico del LINGUAGGIO. In VOLPE insomma l’opera si presenta come analizzabile, ed effettivamente Volpe conduce ANALISI SEMANTICHE, piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali analisi semantiche si occupano inoltre anche di varie arti non linguistiche. L’appendice alla Critica del gusto, che riprende il tema del Laocoonte lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è un caso che al proposito si citi Brandi, che non e mai un semiotico, anzi e un accanito ANTI-semiotico, e tuttavia pone le basi di un’autentica analisi dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzo tuttora moltissimo Brandi, che ho sempre letto. Insomma: mi interessa di poter disporre di una teoria che permettesse di analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro struttura COMUNICATIVA. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora adottato frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli come SEGNI  (per esempio, nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si dimostra anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzo cioè di produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità formali costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una autentica leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua costituzione. Non pretendo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di un’opera a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è un'altra cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere opera d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono accorto che quel lavoro puo forse essere interessante come mero esperimento, ma non porta a niente. In realtà non porta a niente né la semiotica materiale di tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e propria crisi teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica, saggio semioticamente troppo ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della semiotica, che è una dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e un’apertura più decisa, anche se già più che affiorante nei saggi precedenti, verso altri orientamenti. Una precisazione importante. Mi sono distaccato dagli studi di semiotica sulla base di un accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire: tento di utilizzare opportunamente gli strumenti linguistici anche per i linguaggi non verbali e di arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma ANALOGHE, nella definizione del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto che neanche il codice linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte codificata, fonematica, monematica e grammaticale. Ma, nell’uso, poi, il linguaggio è creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono convinto che sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di [ G., La crisi semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma. Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano. G., Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi non-verbali, Problemi teorici e applicativi, Laterza, Bari. G., Ricognizione della semiotica. Tre lezioni di, Officina Edizioni, Roma] più da linguaggi chiaramente ancora meno codificati, come per esempio il presunto linguaggio figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento della filosofia di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in particolare della terza Critica, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di lezioni. E via via che ando maturando una mia interpretazione di Kant, essa e sempre più in collisione con una prospettiva semiotica. Non che le opere non siano analizzabili, ma sono analizzabili con strumenti diversi, non con strumenti propriamente semiotici. Ma questo è un altro discorso. Come reputa di inserirsi nella tradizione kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi riferimenti imprescindibili in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi sono stati e sono i suoi interlocutori privilegiati? Il riferimento più significativo è SCAVARELLI. Scaravelli dà un’interpretazione fulminante della terza Critica, mettendo in evidenza cose che non sono mai state viste, e che invece, dopo aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare anche un autore, un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: BARATONO, che sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio come un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e quindi della scienza. È insomma una parziale anticipazione di Scaravelli. Un ultimo riferimento notevole è MATHIEU, che è giunto a risultati analoghi nei riguardi del cosiddetto Opus postumum. Questi sono i miei più importanti riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato anche molte opere di studiosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da Hinske a Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un certo punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani si sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho, e ottimi. Per esempio MARUCCI, con cui ho avuto anche una corrispondenza che, come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica». Con Marcucci sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i suoi saggi e io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se non siamo sempre d’accordo, soprattutto sul punto fondamentale dell’interpretazione del principio estetico della facoltà di giudizio. Ma spesso è più [Le considerazioni più rilevanti sulla terza Critica sono in: Scaravelli, Osservazioni sulla Critica del Giudizio, poi in Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze. Cfr. Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del Giudizio, Logos. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’Opus postumum di Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino; Kant, Opus postumum, a cura di Mathieu, Zanichelli, Bologna. G., Marcucci, Lettere kantiane, Studi di estetica] proficuo non essere d’accordo, che l’esserlo. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho scambiato idee, ho letto il suo saggio su Kant che apprezzo molto. Per esempio, ci siamo visti in occasione di un seminario kantiano a Palermo, e abbiamo parlato a lungo. E ancora Makkreel, che ho conosciuto a Salle, e Rocca, che mi interessa molto. A proposito di Salle, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo, chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che stavamo entrambi traducendo la terza Critica, rispettivamente: Critica della capacità di giudizio e Critica della facoltà di giudizio. Ma dovrei ricordare alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è sempre stato uno scambio molto forte su problemi kantiani: Giacomo, Montani, Catucci, Velotti, che ha scritto un bel saggio che si occupa largamente di Kant, recentemente edito da Laterza. E soprattutto Hohenegger, con il quale ho lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e nella stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. Rocca è un caso per me leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è per fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme oltre che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio stesso della facoltà del giudizio. Eppure Kant dice, mi pare più volte e chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da quello. Il caso di Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di DESIDERI, che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’ complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è uscito un suo saggio, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione, che a lui sta bene, al contrario di Rocca. Ebbene, [ Cfr. G., Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni, Roma, con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano); Marcucci, Epistemologia ed estetica in Kant, Physis.  Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, Seminario promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a Palermo, Grand Hotel des Palmes, Tema del convegno: Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente all’uscita di Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di Tedesco, Aesthetica, Palermo, Hanno introdotto la discussione Amoroso, Ferraris, G., Russo. Partecipanti: Carbone, Carchia, Angelo, Giacomo, Diodato, Ferrario, Goldoni, Griffero, Kobau, Lombardo, Mattioli, Mazzocut-Mis, Montani,  Pimpinella, Pizzo Russo, Salizzoni, Tedesco, Tomasi, e Velotti. La relazione di G. e altre relazioni e comunicazioni sono state poi pubblicate in «Aesthetica Preprint». A Cerisy si svolgono le attività del Centre Culturel International cerisy.asso.fr). Il Colloquio su L’Esthétique de Kant si svolse. Gli atti sono stati poi pubblicati in Kants Ästhetik, hrsg. H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin. Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di Amoroso, BUR, Milano. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di G. e Hohenegger, Einaudi, Torino; Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza, Laterza, Roma-Bari; Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia;  Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, Il Melangolo, Genova] curiosamente non ho mai avuto rapporti personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo saggio che questa idea gli è venuta leggendo una serie di saggi, fra cui il mio, ma anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono idealmente» in rapporti di discussione. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso si prendono in considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per un certo verso anche in Senso e paradosso, si argomenta intorno alla possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come estetici, rilettura nella prospettiva del senso che è a Lei propria. Come ritiene quindi fattibile una storia dell'estetica? E con quali limiti? Non ho mai scritto una STORIA DELL’ESTETICA (Grice: “Bosanquet, a minor, has!”), né mi è mai venuto in mente di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a uscire dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica calibrata in modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia dell’estetica che non presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale, così come si è costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono fare distinzioni opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione estetica, in senso molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico a quello che noi chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente in un certo tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei saggi, somiglianze, identità parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari oggetti sui quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo significa che non si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una disciplina e che però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni che, in qualche modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato opere d’arte bella e che richiedono parimenti un principio non intellettuale. Su questa base è nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me diretta, dedicata ai problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica, dove sono usciti alcuni ottimi saggi, per esempio quello di Angelo sull’estetica della natura e dell’ambiente. Dunque, estetica fino a un certo punto, che non si occupa di opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono essere sottoposti a giudizi di tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai, puramente estetici, ma coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito poi un saggio di Guastini sull’estetica ANTICA, particolarmente interessante, perché riesce a chiarirla senza mai dimenticare che la LA FILOSOFIA ANTICA non possiede una vera e propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come disciplina, ma perché i suoi [G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano; G., Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari; La serie di Laterza si chiama: «Temi per l’estetica» ed appartiene alla collana Biblioteca di cultura moderna; Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari] problemi erano alquanto diversi. Ebbene, in quel saggio si vedono bene, come le dicevo, e differenze e analogie. Insomma: questo è appunto un modo di fare storia dell’estetica senza pretendere di fare la storia di una disciplina, ma piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante che circola nella riflessione e che tuttavia richiede una qualche condizione comune, qualcosa come il principio soggettivo della facoltà di giudizio. E del resto io stesso, il mio saggio, l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con questa precisa intenzione. Nei suoi più recenti saggi, Lei lamenta il fatto che l'arte non riesca più ad essere esemplificatrice di una prospettiva di senso: essa sarebbe solo una reduplicazione e sostituzione dell'esistente. In che modo valuta questi cambiamenti? Ritiene inoltre che vi siano nell'arte propensioni opposte a questa tendenza generale? Sull’arte ho poco da dire, ho poco da dire perché... Guardi, io mi sono interessato moltissimo di arte e storia dell’arte, occupandomi dell’arte antica e moderna, dai greci fino ai nostri giorni, compresa l’avanguardia novecentesca. Mi sono avvicinato di più all’arte che si sta facendo allora e ho scritto anche qualche saggio in onore di pittori che mi interessavano. Ma questo interesse artistico è un po’ scemato col tempo. Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non sempre testimoniate in saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’ perché credo che il giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione dell’esistente, con l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia abbastanza valido. Io non so se esistano casi che facciano pensare il contrario, può darsi, non so dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati... qualcosa di «carino», sì, una invenzione che richiama l’attenzione... però tutto sommato mi pare che l’arte nella sua generalità tenda precisamente a quella riproposizione dell’esistente, attraverso i mezzi tecnologici oggi a disposizione. Le stesse installazioni, per esempio, che pure sono qualche volta opere di grande interesse, sono spesso la raccolta di oggetti trovati, ma con intenti diversissimi rispetto a Duchamps, e richiamano sempre l’esistente tale e quale, o quasi. In effetti è significativo che anche in quelle opere ci sia spessissimo un te- [Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari; G., L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari; Pochi giorni dopo l’intervista, G.mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che sarebbe stato davvero il suo ultimo saggio: G., Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari. Cfr. G., Relazione interna, relazione esterna e combinazione delle arti, relazione presentata al Convegno della Biennale Lo scambio delle arti, Venezia, poi in: G., L’arte e l’altro dall’arte, cit.; G., Senso e non-senso, conferenza letta a Coloquio Latino-americano de Estética y de Critica di Buenos Aires e alla Facultad de Arquitectura Diseño y Urbanismo, poi in: G., Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda, Castrovillari; G., Crispolti, Greco, Biblioteca di Alternative Attuali, Roma; G., Arte mito e utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari, Tipografia Fonteiana, Roma; G., Il mito negativo e la pittura di Vacchi, Officina, Roma; Benedetto, Amore Uno: 6 acqueforti, presentate da G., Il Torcoliere, Roma; Benedetto, Galleria d’arte internazionale Due Mondi, Roma] levisore, quasi che si volesse richiamare l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul fatto che quello che si mostra è proprio quello che potremmo incontrare andando in una casa che non conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per il futuro. Può darsi che tutto cambi, basta che emerga una personalità di talento, che faccia del nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la verità, io non credo molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I talenti sono un fatto, ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri tempi sono tempi di degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali. Insomma, se l’arte mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degl’artisti, ma piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o telematica. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e Wittgenstein) è Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e Heidegger sono i due filosofi più importanti. Questo forse sarà un giudizio estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente questi sono tra i pochi più importanti. Io trovo motivi di interesse per un certo verso più in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti, ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una volta un altro filosofo, che non cita più nessuno: CARABELLESE. Carabellese è stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese nell’ambito filosofico e stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità. Confesso di preferire di gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono a metà. Quella era la sua caratteristica principale. Io tento di ispirarmi a quel metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza. Cito Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un estetica precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo in un ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una crociera, e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è stato molto impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma soprattutto per alcuni Sul problema interno della filosofia, cfr. Carabellese, Che cos’è la filosofia?, Rivista di Filosofia; Per le critiche alla semiotica, cfr. BRANDI (si veda), SEGNO e immagine, Milano, Il Saggiatore] aspetti filosofici della sua estetica, guarda caso proprio in riferimento allo schematismo kantiano, e per la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere d’arte. Basta leggere i suoi Dialoghi, l’Architettura barocca, Duccio, eccetera eccetera, per rendersene conto.  Da sempre Lei ha alternato alle opere filosofiche, opere di narrativa. C'è stata un'influenza tra i due ambiti? L’argomento dei miei scritti narrativi mi imbarazza leggermente, dato che cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei miei lavori. Tuttavia non mi imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa attenzione degli altri scritti, e, per di più, che essi meritavano forse un’attenzione maggiore, al di fuori della ristrettissima cerchia dei miei lettori, come dire?, convinti. Non è uno sfogo da autore deluso. E’ una convinzione, credo non immotivata, che non nasce affatto dalla delusione. Ora lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i due ambiti. Senza dubbio, non può non esserci, perché sono sempre io che scrivo, quell’io che ha una certa storia, personale e culturale, e che è arrivato a certi risultati, buoni, cattivi o mediocri, questo non importa, in fatto di comprensione. E tuttavia ciò che scrivo nelle opere narrative non serve a spiegare nulla dei miei saggi. Anzi sarebbe una fonte di fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire i miei saggi filosofici. Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una spiegazione ulteriore da parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una posizione più arretrata. Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi deve arrivare ad una vera comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di personaggi in qualche modo nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste due parole nel sottotitolo del libretto Racconti morali: lontananza e vicinanza. Ebbene i miei personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e la vicinanza al mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione sia superabile, e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della vicinanza con gli oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile guardare da lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti metafisici che intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura elaborata, saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che non hanno capito [Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma; Brandi, Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi, Torino Brandi, Celso o della Poesia, Einaudi, Torino Brandi, La prima architettura barocca: Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza, Bari, Brandi, Duccio, Vallecchi, Firenze G., La macchia gialla, Lerici, Milano G., I tasmaniani, Bucciarelli, Ancona, G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma G., Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma; G., Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma G. si dedica non solo alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni dipinti sono riprodotti nel libro- intervista: G., Doriano Fasoli, Il mestiere di capire, Edizioni Associate, Roma; G., Racconti morali, cit.] ciò che io chiamo il guardare-attraverso. E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una sorta di postfazione, ai testi filosofici. G. non è stato soltanto uno dei filosofi italiani più importanti, ma anche una figura di intellettuale complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai suoi svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di questo focus di Syzetesis dedicato ad alcuni Momenti di FILOSOFIA ITALIANA sui suoi contributi più convenzionalmente etichettabili come filosofici, quali quelli dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando tutto il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica), l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti visive, la letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani, settimanali o cataloghi, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fare solo qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo, ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o passione dominante di G., e che il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La bibliografia più completa degli scritti di G,, curata da A. D’Ammando, è dispo- nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” G. e Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma 2005.  3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?, testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma; G. poi rielabora questo testo in La mente, il corpo, le cose, in Carignani e Romano, Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Angeli, Milano; Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia – è strettamente legato in G. alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza” che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo” dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella prospettiva critica adottata da G., ha ben poco da dire), ma neppure come una dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per G. il senso dell’esperienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma per niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima- mente paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso. Per chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la sua seconda parte, l’estetica come filosofia non speciale), è bene ricordare che per G. l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con un proprio oggetto epistemico o materiale, ma riguarda le condizioni di possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte, semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare. Per G., infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piuttosto il compito di guardare-attraverso le esperienze determinate, per Cfr. G., Sul dover essere del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti, Milano (seconda ed., Castelvecchi, Roma, con un’introduzione di Velotti, testo presentato originariamente al convegno dell’Associazione italiana di studi semiotici “Semiotica ed epistemologia delle scienze umane (Siena).  Cfr. G., Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Bari G. usa il termine “guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso tecnico, quale traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90 delle Philosophische Untersuchungen, ed. Anscombe e Rhees, Blackwell, Oxford, Trad. it. di Piovesan e Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi. È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni, die Erscheinungen durchschauen: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla possibilità dei fenomeni. Velotti   risalire alle loro condizioni di possibilità intellettuali e non intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica, come orizzonte di senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e indeterminabile. Il com- pito di capire è inteso innanzitutto proprio come questo guardare- attraverso i fenomeni per comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il cosiddetto «problema interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa questa volta da Pantaleo Carabellese, che G. ammirava e le cui tutoriale frequenta da pupilo alla Sapienza – è infatti per G. un problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della filosofia, cioè il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla quale, a un tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare un proprio altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. Vorrei partire, però, da qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci permette di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale, di quella passione per il capire stesso, che G. non considera affatto un’esigenza contingente. G. lavora per diversi programmi televisivi della RAI, in parte dedicati alle arti, in parte ad altre questioni (si ricorda, per esempio, un bel documentario su AOlivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista. Lavorava alla RAI per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora fosse culturalmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi che potrei citare a cui G. lavora: tra gli altri, Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scienze, Le tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel 1944, con la direzione di Seroni e Piccioni, diventato programma televisivo come settimanale di lettere e arti, più tardi accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui comitato direttivo si trovavano alcuni dei più importanti intellettuali dell’epoca (Bacchelli, Bo, Cecchi, Longhi, Ungaretti, a cui bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di spicco), per non menzionare, nella RAI, la presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative, come Carlo Emilio G., Senso e paradosso Cfr. Dolfi e Papini, L’Approdo: storia di un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme di divulgazione, Johan & Levi, Monza Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale Gadda (o, più tardi, di CAMILLERI (si veda), coetaneo di G., o ancora di ECO (si veda), che di G. è un costante interlocutore. G. dà conto della sua attività televisiva in un’interessante intervista da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibilmente volto al capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti – dice lì G. – deve essere certamente colto, ma c’è di più: deve essere, nel campo della letteratura, delle arti figurative, della musica, oltre che colto, anche intelligente. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve capire. Deve insomma essere qualcuno, precisa però subito G. che sia capace di far vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono affatto. Emerge qui quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto costante di G., che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa, controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica che oggi seduce molti, anche i filosofi: occupare una casella nell’esistente, dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente – di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo compito – inteso da G. come un compito intellettua- le, culturale ed etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica come filosofia non speciale, cioè come filosofia tout-court [“LA FILOSOFIA, COME LA VIRTU, E ENTIERA – GRICE], benché spesso praticata in una sua forma obliqua anche in relazione all’arte e alla letteratura; non solo il rapporto con la psico- analisi o lo studio del linguaggio, su cui sono nati, rispettivamente, il lungo sodalizio con FERRARI (si veda) e la duratura e profonda amicizia con MAURO (si veda). Ma anche l’attività giornalistica e nelle modalità proprie, non certo assimilabili a quelle filosofico-argomentative le stesse pratiche pittorica e narrativa. G. esordisce con una raccolta di racconti L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino Velotti  a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera singolare, La macchia gialla, titolo ripreso da un’incisione di Dürer, riportata sulla copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che indica un punto del suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice. Là dove c’è la macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore, direi, insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo a una lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro filosofico-estetico – La crisi semantica delle arti12, su cui non posso soffermarmi. Né mi soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo autoritratto di G., un autoritratto verbale dell’autore, a cui seguirà venti anni dopo un secondo autoritratto, questa volta dipinto su cui torna in chiusura. I curatori della collana Narratori dell’editore milanese Lerici sono due nomi di grande rilievo del mondo poetico-letterario, BILENCHI (si veda) e LUZI (si veda),  i quali presentarono giustamente questa notizia biografica, o autoritratto semi-ironico dell’autore da quasi-giovane, come segnato d’acume e humour. Ne riporto qualche riga, che suggerisce una motivazione anche socio-biografica, per reazione all’ambiente di provenienza, di quella passione per il “capire” che ho indicato come la passione domi- nante di G.. È nato a Roma in un ambiente abbastanza sciatto e approssimativo, che non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia, tanto più che certa piccola borghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue tenerezze. Si è accorto che anche la sua formazione culturale è caratterizzata dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e spregiudicata e nello stesso tempo lacunosa e assai provinciale. Si è LAUREATO IN FILOSOFIA presso la Facoltà di filosofia a Roma, G., La macchia gialla, Lerici, Milano Il testo, con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito dell’associazione “CiEG - Cattedra internazionale G.  12 Ma, come ha scritto Ammando all’interno di un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di G. (Il circolo estetico e il guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di G. – Roma”), a cui rimando anche per un’analisi della Crisi semantica delle arti, si puo affermare, in proposito, che crisi, al pari d’oriz-zonte e senso, è una parola cara al pensiero di G., almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo statuto quanto mai incerto e problematico. Il senso dell’esperienza:  G. e l’estetica come filosofia non speciale  con la quale intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Pubblica saltuariamente saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte su riviste specializzate, settimanali e quotidiani. La saltuarietà del suo lavoro dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla mancanza di tempo. Da molti anni collabora infatti alla televisione dove fa un po’ di tutto dedicandomi prevalentemente in questi ultimi tempi alla redazione e presentazione di rubriche d’arte, con intenti, dice, nobilmente divulgativi. A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte su richiesta del Manifesto, che aveva invitato ventisei personalità della cultura a raccontare la propria esperienza personale di una visita a un museo. G. scelse la Galleria nazione di arte moderna di Roma: Non so se fosse possibile– con la CULTURA LICEALE imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa, volta a capire, non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di livello assai modesto che un museo o una galleria d’arte potessero essere immediatamente formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano sono perlopiù ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse strettamente tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. Non era un atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. È in balia della cultura e dei gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta borghesia romana cui essa apparteneva, ed ècondotto più volte da certi suoi zii, che si riteneno intenditori d’arte, alla galleria nazionale d’arte moderna. Vuole solo dire che quella galleria è, nil luogo della mia diseducazione. Il fatto è che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già preparati a formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre, non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e dogmatiche edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo, non mi sia allontanato per sempre dalle arti figurative. Così che la galleria nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante dei miei zii, di farmi capire G., La macchia gialla, cit., risvolto di copertina. Velotti come non si guarda un quadro. Che è un’abilità indimenticabile, come andare in bicicletta. Abbandono ora queste incursioni biografiche – che pur nella loro rapidità credo siano indicative del modo in cui G. si situa nei confronti della realtà, e quindi anche della sua attività filosofica per cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua rifles- sione più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e interessi anche eterogenei. Ha ricordato CARABELLESE (si veda) – che, al di là degli esiti del suo ontologismo critico, G. considera uno dei pochi insegnanti che ho avuto all’università che fosse anche un grande filosofo perché è probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più significativi per il suo pensiero, insieme a SCARAVELLI (si veda) per l’inter- pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a BRANDI (si veda). È stato infatti proprio CARABELLESE (si veda) ad aver criticato sia GENTILE (si veda), sia CROCE (si veda) (come poi farà anche con SPIRITO (si veda) e CALOGERO (si veda) per non aver colto il problema interno della filosofia, la domanda, cioè, con cui la filosofia diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua possibilità, le sue pretese. In una postilla Carabellese spiega così l’incomprensione da parte di Croce e di CALOGERO (si veda) del problema da lui sollevato: Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del Croce) continuano a porre il problema della filosofia come problema del suo oggetto, cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma soltanto e sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono questo con quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa dimostra o consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storicismo) d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non porlo neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si ricerca neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa dimostra. G., Il piccolo Ottocento italiano”, in MELIS (si veda), La scoperta del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma G. e Fasoli, Il mestiere di capire, Carabellese, L’ontologismo critico,saggi, Che cos’è la filosofia, Signorelli, Roma Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   Il problema della riflessione sul senso, per Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama il paradosso della filosofia nel suo saggio intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale. È forse il libro più impegnativo che G. scrive, e certamente uno snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì G. cita Carabellese e il suo saggio, e la replica di Croce, sostenendo che entrambi facciano valere un’esigenza legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la filosofia è a se stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la filosofia si conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza e del fare concreti e storici. Entrambi, in sostanza, intendevano rifiutare l’idea di un luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della parzialità e complementarità delle loro posizioni, che se rettamente intese si compongono in quello che G. chiamerà appunto il paradosso fondante della filosofia. Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigura una antinomia non risolta, formulata da G. in questo modo: Un problema interno della filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un suo luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da Carabellese; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabellese insignificante. G. fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure po- neva un problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo- samente, era quello di considerare la filosofia, in quanto si pone il suo problema interno, come una sorta di meta-linguaggio che si esercita su un linguaggio oggetto già compattamente costituito (una metafisica, o un sistema, quale era per lo stesso Carabellese il suo ontologismo critico), perdendo di vista proprio quel paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in un paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di CARABELLESE (si veda) e di CROCE (si veda) è invece comprendere la filosofia come risalimento, o come quel guardare- attraverso che risale dalla concretezza dei fenomeni, dall’interno dell’esperienza concreta in cui stiamo, alle loro condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia da qualche parte, e senza G., Senso e paradosso Velotti   però neppure vederla disciolta nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso» deve essere inteso dunque come «un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty [“whom Austin hated” – Grice – “but then why do you go to Royaumont in the first place?”], G. riassume così la sua posizione. Una filosofia di questo tipo include la propria stranez- za, perché non è mai del tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo. Questa stranezza, questo paradosso fondante, era presentato da G. come una posizione fedele alla tradizione critica, in quanto opposta a posizioni metafisiche, nella specifica accezione di “non criti- che”, sia di stampo razionalistico, sia di stampo ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli anni in cui in Italia Rorty e il suo neopragmatismo sembravano raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo specchio della natura era stato presentato da VATTIMO (si veda) e Marconi, che aprivano la loro introduzione sottolineando come questo libro si presentasse esplicitamente come epocale), G. vi scorgeva una delle due prospettive metafisiche, non critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un lato, infatti, è certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa di una God’s eye view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno “veramente” le cose nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse che tra noi e il mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o intuitivi, presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa situazione al di fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di chi proponeva l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari – come Putnam (“He had the cheek to say I was too formal! – GRICE) – per confutarlo: per G., porlo e comunicarlo è già confutarlo; immaginarlo o escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non escogitato. Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione op- posta e complementare, apparentemente demistificante, di chi, come il neopragmatista Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra, cioè inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze, culturali storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che avanzano pretese universali, e dovremmo conside- [G. e Fasoli, Il mestiere di capire, Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton, Trad. di Millone e Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   rare piuttosto la filosofia come un genere letterario tra gli altri. G. replica: Rorty avrà anche ragione, ma commette un unico errore, affermarlo. È questo quel taciuto guardare-attraverso – negato in teoria, e quindi fatto valere metafisicamente come un ritorno del rimosso a cui alludeva G. nel passo citato poco sopra dell’intervista con FASOLI (si veda), cioè la pretesa di stare sempre alle determinatezze dell’esperienza, di sbarazzarsi di ogni riferimento alla sua totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella stessa pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in volta di esperienze solo con- tingenti e determinate. Per G., infatti, non si tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta, saremmo cose tra le cose. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza nella sua totalità indeterminabile. È questo movimento che G. ravvisa in Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger sulla scorta dei quali la filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma che includono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere. Questo paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del- l’esperienza e può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate da Kant, in particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che, nel modo più schematico, Kant formula in questo modo. Tesi: il giudizio di gusto non si fonda su concetti, ché altrimenti se ne potrebbe disputare (decidere mediante prove. Questa argomentazione, qui appena accennata, viene sviluppata da G. nell’Estetica. Uno sguardo-attraverso, anche in relazione ad alcuni autori classici e a diversi autori contemporanei. Su questo punto potrebbe aprirsi un confronto con il diversificato universo di alcu- ni nuovi realismi-materialismi oggi in voga (per esempio quello della flat ontology), che propongono una visione degli esseri umani proprio come cose tra le cose G., Senso e paradosso Velotti Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti, ché altrimenti, malgrado le differenze dei giudizi, non se ne potrebbe neppure discutere (avanzare l’esigenza del consenso necessario di altri con tale giudizio. L’antinomia può irrigidirsi in una contraddizione, oppure essere composta (non eliminata, ma compresa e resa praticabile), come fa Kant, spiegando che nella prima tesi si tratta di concetti determinati, nella seconda di concetti indeterminati. Ora, la struttura di questa antino- mia, e il modo in cui Kant la compone, è omologa a quella che G. fa valere, per esempio, in relazione al linguaggio, il motivo per cui Rorty non può affermare quel che l’uso stesso del linguaggio confuta. Un saggio dedicato a MAURO (si veda), L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, si apre con una frase che annuncia la riproposizione della struttura dell’antinomia kantiana della facoltà di giudicare, che G. propone poco dopo: Che il linguaggio sia stato talvolta considerato atto creativo individuale e irripetibile oppure realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità già interamente previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due ipotesi esclusive e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più, in quanto entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività – fanno valere «un’esigenza che non può neppure essere lasciata cadere. E infatti poco dopo G. riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana, enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone l’indeterminatezza del- Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in zehn Bänden, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmastad Trad. it. di E. G. e H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino G., L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Bari. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni et al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Bari. Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale la sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché altrimenti non potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e intenderci. L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso tempo lo usiamo nella sua totalità possibile indeterminata o, detto ancora altrimenti, per un verso il linguaggio richiede come una sua propria condizione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega in favore delle sue determinazioni: non si darebbero espressio- ni linguistiche determinate, dotate di questo o quel significato, se non le comprendessimo come tali, cioè nella loro determinatezza, e dunque a condizione di un riferimento a una totalità indeterminata che le rende possibili e che esse negano in quanto, appunto, determinate. È questo il nodo a cui Garroni arriva sempre, che indaghi il linguaggio o la percezione [cf. GRICE e WARNOCK on SEEING – VEDERE], l’organizzazione della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo motivo mi permetto di citare diffusamente. Ma l’analogia tra questa antinomia [kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni concetto determinato/ concetto indeterminato e determinazione/indeterminatezza del linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e tuttavia sono altrettanto indispensabili Velotti   alla conoscenza empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za, che è, sì, intellettualmente e sensibilmente determinata procede, per quanto le è dato, mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi leggi sotto leggi più potenti, non sarebbe possibile se non si inscrivesse innanzitutto nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata delle possibili conoscenze determinate – Kant scrive d’una conoscenza di oggetti dati in genere, se insomma, sull’occasione di rappresentazioni deter- minate, come nel caso esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non avessimo coscienza forzatamente non intellettuale che una conoscenza d’esperienza è possibile. Esperienza possibile, però, non nel senso della possibilità della conoscenza in genere della prima Critica, che ci dà appunto solo una tessitura analitica, ma nel senso che è possibile e ha in generale senso cercare di deter- minarla intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza sotto il principio della facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della conoscenza d’esperienza possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né tantomeno possiamo fare una conoscenza di esperienza. Non si fa esperienza di un’esperienza in genere. Ne sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza determinata, cioè non la cono- sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn, senso o sentimento comune, che abbiamo in comune, che ci assicura a priori della comunicabilità universale delle rappresentazioni e delle conoscenze, il quale esibisce sensibilmente e indirettamente ciò che non è propriamente esibibile e che la ragione può soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea indeterminata di una totalità, viene in qualche modo messa in scena sensibilmente mediante la facoltà di giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso comune o il gusto, cioè mediante il sentire esteticamente dunque l’interna indeterminatezza del determinato. Sentire l’interna INDETERMINATEZZA [GRICE INDETERMINACY OF IMPLICATURE] del determinato è uno dei modi per capire in che modo il paradosso fondante della filosofia fa della filosofia, come estetica non speciale, una riflessione sul senso dell’esperienza. Se vogliamo restare sul piano linguistico, possiamo dire infatti che dare significato ai concetti è determinarli, per esempio mediante uno schema empirico o trascendentale, sempre a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza, che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in Rorty), proprio in virtù di un SURRETTIZIO riferirvisi. Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale. Il gioco delle parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è affrontato da G. in molte altre occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza, poi pubblicata in appendice al volume, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati possono significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso che rende possibile e traspare in ogni SIGNIFICATO DETERMINATO, non rischiamo infatti di parificare tutti i significati nel loro essere varianti di sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’ nel loro proprio far senso? Come se la filosofia critica, spinta fino a questo punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso condiziona. Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi, convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo problema, G. lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte l’antropologia in relazione all’etnocentrismo: l’irrinunciabile rispetto che l’antropologia moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti, d’altra parte, di parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza, togliendole “serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente inaccettabili, avevano però almeno il pregio di prendere le culture nella loro serietà. Ma era proprio questo ciò su cui si interroga G.: non tanto la questione delle culture altre, ma della nostra stessa cultura. E conclude così. Le considerazioni appena svolte non hanno una vera e propria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Cfr. G., Senso e paradosso. Si potrebbe sostenere che questo imperialismo della sensatezza sia stato proclamato e poi smentito da Fukuyama nel suo The End of History and the Last Man, mentre l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro serietà, e tuttavia prenderle così seriamente da negargli una dimensione comune di senso – veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order. Le due posizioni, insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica, Studi di estetica Velotti   in cui consiste la filosofia, vale a dire: che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla [...] Forse il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse, ritroviamo – come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere. Il problema del prevalere della sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso in non-senso è strettamente legato al problema spinoso della perdita di esemplarità dell’arte, della questione, cioè, se l’arte non ha progressivamente ceduto a un’aderenza sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua ottusità, il suo darsi di fatto, come mero accompagnamento del senso, avendo per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella regola che non si può addurre di cui parla Kant nella terza Critica; una regola indeterminata che, non potendosi addurre, formulare o esplicitare. può essere, appunto, solo esemplificata in un esempio singolare, inassimilabile a un esempio inteso come membro di una classe. Nel denso saggio di G. Immagine Linguaggio Figura troviamo spunti inediti, ma anche una nuova sintesi di decenni di studi e ricerche. È un libro bello e importante, che attende ancora di essere esplorato a fondo, in tutta la sua fecondità, anche in relazione a ricerche in atto nel panorama nazionale e internazionale, ma che qui non posso affrontare in modo minimamente adeguato. Ricordo solo che il perno intorno a cui ruota è la nozione d’immagine interna che ha preso forma attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo” kantiano, e che non è confondibile in alcun modo con l’idea di poter spiegare qualcosa della percezione o del riferimento al mondo – rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte dalle figure che nell’uso comune chiamiamo immagini, ma che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni dell’immagini interne, l’immagini interne sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi ogni obiezione legata alla presuppo- [G. Estetica. Uno sguardo-attraverso, G., Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Bari G., Immagine linguaggio figura. Il senso dell’esperienza:  G. e l’estetica come filosofia non speciale   sizione indebita e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro tornano anche temi antichi come quello, centrale, della metaoperatività, un concetto già introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della semiotica. È l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il titolo di metarappresentazioni, ma che in G. si estende già all’intero ambito dell’operare umano un operare che è senso-motorio, pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione metalinguistica che è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello G. introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da un’operazione che include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un chiodo con un martello è sì un’operazione determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma come operazione umana contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili qualcosa, dunque, che potrebbe essere chiamato uno schema operativo. In Immagine linguaggio figura la nostra capacità metaoperativa viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G. chiama complessivamente facoltà dell’immagine, che è responsabile sia delle sensazioni come precedenti di un’immagine, sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile, [G., Ricognizione della semiotica, Officina, Roma Cfr. per esempio Sperber, Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, Oxford. Una formulazione molto simile dei rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e metaoperazione all’interno di una prospettiva enattiva sulla percezione, a cui credo sia riconducibile per molti versi anche quella proposta da G. è possibile riscontrarla nei saggi di NOË (si veda). Per un confronto, su questi temi, tra G. e NOË (si veda), cfr. S. Velotti, Tecnica, in Ferrario, Estetica dell’arte contemporanea, Meltemi, Milano. G., Immagine linguaggio figura Velotti dunque distinte dall’immagine-SEGNO materialmente intesa, la figura, appunto, e che è invece sostanzialmente statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur sempre capo a figure per quanto possano essere mobili, processuali, evanescenti, eventuali è considerata da G. come il venire in primo piano di questa dimensione metaoperativa una rielaborazione della kantiana conformità a scopi senza scopo interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo «ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano vengono in primo piano questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza, come quella d’aggregato. Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto anche il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito solo percettivamente da un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. Né la funzione dell’aggregato si esaurisce all’interno della prima infanzia, o nelle ipotesi relative a una infanzia dell’umanità o in forme di pensiero magico, se, come nota G., Ancora oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo alle considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di Winnicot in Senso e paradosso, G., Immagine linguaggio figura Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale sere evitati paradossi liminari, che denunciano in un certo senso la persistenza dell’ufficio, pur intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione unitaria e non più risalibile. Basta pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi, e così via. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di G., molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con «acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua importante eco. È un polittico dipinto da G. sulla soglia dei sessant’anni – dopo aver subito una seria operazione chirurgica, composto da 13 comparti, che formano un quadrato di 115 cm per lato. Collezione privata Velotti Alcuni comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vissuti come oggetti estranei e familiari a un tempo. Figurano anche strumenti di studio e di affezione dalla Critica del giudizio a Tempo e racconto di Ricoeur, cose amate, come il Dissonanzen Quartett di Mozart che dà anche il titolo a un suo romanzo-saggio. Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti nel dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione. Quando dicevo che la passione dominante di G. è quella di capire, di comprendere, pensavo anche a questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica proprio in un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su cosa si prova ad essere un homo sapiens. Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di G.  un’occasione per elaborare, anche operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è possibile, nota G. in alcune notevoli pagine del suo saggio, mirare a cogliere l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il determinato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo aggrovigliato. Forse vedremmo, per così dire, solo l’indeterminato e ci sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di oggetti? Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di patologie gravi, quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno perfino il senso della nostra identità ma parimenti dovremmo escludere il caso estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti, il riconoscimento non G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è stata avanzata da Olivetti, dice. Primi appunti su un Autoritratto di G., pubblicato nel catalogo della mostra G. Un Autoritratto, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma. G., Immagine linguaggio figura, Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   viene meno neanche nel caso di un risveglio depresso e confuso. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli oggetti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo è il nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito, languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato di G., tendente piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento, si lascia andare anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del ventennio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a cambiare i parametri della vita pubblica, la mente dei cittadini): Ormai si è istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte, di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche, l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la mente dei cittadini, di cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo politico di trista attualità ho messo termine a questo saggio. La facoltà dell’immagine di G. e il suo contributo alla ricerca sulla percezione, i contenuti non concettuali e l’immaginazione . Il saggio di  G.,  Immagine Linguaggio Figura, è in parte  una ripresa e un ripensamento di alcuni temi trattati quasi trent’anni prima in  Ricognizione della semiotica Da una rielaborazione dei problemi abbozzati in questo  volume, e grazie a un’assidua  interpretazione e rielaborazione del pensiero kantiano, G. arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni irriducibili della sensibilità e  dell’intelletto   in termini di facoltà dell’immagine, da un lato, e  di linguaggio e concetti, dall’altro. Nonostante  Immagine Linguaggio Figura nomini fin dal titolo il problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma kantianamente irriducibili  dell’esperienza umana , lo statuto del linguaggio non è qui affrontato nella sua problematicità complessiva  all’interno di tale esperie nza, ma  solo in relazione all’«immagine interna», che deve essere considerata «la premessa e  la garanzia della realtà del significato delle parole del linguaggio. Naturalmente, Relazione tenuta al convegno di studi “G.: determinazioni e dissonanze, Chieti,  G.,  Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Roma-Bari, Laterza Ricognizione della semiotica. Roma, Officina.  Immagine Linguaggio Figura, dove G. precisa. Chiamo complessivamente immagine interna sia il precedente d’un’immagine, sensazione, sia l’immagine in quanto  attualmente prodotta, percezione, sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata, rielaborata, immaginazione, per distinguerle complessivamente dalla figura esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno. Perciò mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è responsabi le facoltà dell’immagine, tale da riunire in sé sensazione, percezione, immaginazione. Immagine Linguaggio Figura. non bisogna cadere nell’errore di considerare l’immagini interne come figure (Bilder,  pictures) che avremmo nella mente. G. conosce bene la critica wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e insostenibile. Anzi, si potrebbe considerare la teoria dell’immagine interna come una lunga  e meditata replica a chi confonde la critica di Wittgenstein con un rifiuto di attribuire ogni valore cognitivo o semantico alla nostra attività percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio. Per integrare quanto è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor tuno tenere presente l’articolo che G. dedica a   Minisemantica  di  MAURO (si veda), caratteristicamente intitolato L’indeterminatezza semantica,  una questione liminare. Sia sul versante della percezione e dell’immagine, sia su quello  del linguaggio e dei concetti, troviamo infatti  in quest’articolo  quella correlazione di determinato e indeterminato che è forse il nodo teorico che G. ha pensato più a fondo e nelle sue molteplici articolazioni: il paradosso fondante della filosofia, ma a nche dell’esperienza comune di cui G. parla prima nella voce i  paradossi  dell’esperienza   scritta per  l’enciclopedia Einaudi , e poi in  Senso e paradosso non è altro  che un’antinomia inevitabile, modellata  sull’antinomia della facoltà di giudizio della terza Critica kantiana. La relazione paradossale tra determinatezza e indeterminatezza è  al centro sia della trattazione della facoltà dell’immagine, sia  della facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un verso, mostrare quale aspetto abbiano assunto  nell’ultimo libro certi problemi già impostati in  Ricognizione della semiotica creando  MAURO [si veda], Minisemantica, Roma-Bari, Laterza; G.,  L’indeterminatezza semantica, una  questione liminare  , in Ai limiti del linguaggio, cur. LEONI, GAMBARARA, GENSINI, PIPARO, SIMONE, Bari, Laterza, poi in G.,  L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e   di critica, Bari, Laterza.  G.,  I paradossi dell’esperienza   ,  in Enciclopedia Einaudi, Sistematica  , Einaudi, Torino;  Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non  speciale, Bari, Laterza così un asse verticale, o di profondità temporale, all’interno de lla ricerca stessa di G.; per altro verso, però, vorrei tentare qualche rapido confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati in  Immagine Linguaggio Figura e la filosofia contemporanea, soprattutto di area analitica, con qualche riferimento anche all ’ambito  della psicologia cognitiva e discipline affini. Con il corrodersi della filosofia linguistica, infatti, o, se si vuole, con l’apertura della  linguistic turn al non linguistico quest’area di ricerca permette di riscoprire il problema della percezione e dell’immaginazione, creando  ambiti disciplinari anche molto specialistici su questioni strettamente interconnesse: dal problema della natura della  mental imagery a quello dei cosiddetti contenuti non concettuali della percezione in cui un ruolo di rilievo assume anche la percezione e la cognizione degli animali non umani, da sempre tenuta presente da G.; da quello della natura delle rappresentazioni mentali a quello delle numerose prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e cognitivistico  all’immaginazione. A  lungo considerata in area analitica come una “facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da qualche anno a questa parte l’immaginazione è al centro di  molte aree di ricerca: se ne parla i n relazione ai giochi di far finta games of make believe sia nel campo delle arti che in quello più generale dell’esperienza comune  9   Cfr. l’ampio  contributo di THOMAS, Mental Imagery, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, cur. ZALTA plato. stanford. edu/ archives/ win2011/ entries/ mental-imagery/. Si tratta di un buon contributo, ma è sintomatico che proprio allo schematismo kantiano Thomas dedica uno spazio molto ridotto, e limitato alla schematismo trascendentale dell’intelletto della prima Critica:  aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo cui lo schematismo è un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui vero impiego difficilmente saremo in grado di strappare  alla natura per esibirlo patentemente dinanzi agl’occhi, Thomas mette da parte il problema concludendo che Kant, -- in attempting to grapple with problems about the nature of mental representation that the empiricists had failed to solve, leaves the process of image formation, and the nature of image itself, deeply misterious. Cfr. WALTON, Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of Representational Arts, Harvard, (trad. it. di NANI, Mimesi come far finta, Milano, Mimesis, alle ricerche sull’autismo considerato da alcuni come una patologia dell’immaginazione, a quelle sull’EMPATIA  e sulla simulazione, ai cosiddetti  paradossi della finzione, della suspense o della resistenza immaginativa, e ai tentativi, o alle rinunce, di fornire una nozione unitaria di immaginazione che ne comprenda le varie declinazioni: un’immaginazione pr oposizionale e non proposizionale, una ricostruttiva e una creativa, e così via 11.  Immagine Linguaggio Figura   è stato scritto senza note e senza riferimenti espliciti ad altri autori o ad altre ricerche contemporanee. Ma  è tutt’altro che un  libro estemporaneo o isolato. Anzi, G. lo ha potuto scrivere liberamente,  quasi di getto, solo perché sono almeno trent’anni che anda elaborando quei  pensieri. Abituati ormai a pensare, come è d’uso nella filosofia analitica,  sotto  l’ombrello di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici di fondo  nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi nel caso della  mental imagery , per esempio, il primo discrimine che troviamo è quello fotografato dall’annoso e  fuorviante dibattito tra sostenitori delle  teorie analogiche e delle teorie PROPOSIZIONALI, la riflessione di G. sembra condotta in isolamento, e risulta  difficile da collocare sotto un’etichetta  univoca. Mentre non credo che le etichette servano davvero, in quanto tali, a far progredire la comprensione dei problemi, credo invece che un confronto sostanziale tra le proposte di G. e quelle elaborate in ambito anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli schieramenti. In ogni modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di G. in quel dibattito che nel bene e nel male è sempre più ristretto, specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre volte utile a chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì, magari, non sono contemplate -, potremmo  orientarci verso l’ambito delle teorie enattive, enactive, della percezione e delle  Per il nuovo interesse suscitato dall’immaginazione in ambito anglosassone negli ultimi decenni,  e le relative indicazioni bibliografiche, rimando a VELOTTI,  La filosofia e le arti. Sentire,  pensare, immaginare, Roma-Bari, Laterza, in particolare il cap. 3immagini mentali, che costituiscono una terza via non computazionale rispetto a quelle analogiche e a quelle PROPOSIZIONALI (cf. Grice, CONTENUTO PROPOSIZIONALE).  Come che stiano le cose rispetto a questi orientamenti, il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni di G. e le teorie della percezione,  delle immagini mentali, dell’immaginazione   nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico, estetico, artistico  è un lavoro ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in relazione al problema dei cosiddetti contenuti non concettuali della percezione, cominciando però dallo sviluppo  interno al pensiero di G. stesso, e in particolare dall’insoddisfazione per  la  semiotica denuncia. Alla domanda se la semiotica è sufficiente a se stessa, G.  rispondeva di no, perché la semiotica non poteva indagare il problema delle condizioni grazie a cui un qualcosa diviene SEGNO. Lì G. invoca la costruzione di una semantica trascendentale come metateoria di una semantica empirica e di una semantica logica, e indica il suo oggetto  specifico nei significati trascendentali, cioè negli schemi dell’immaginazione, affrontati in sede di schematismo trascendentale nella  Kritik der reinen Vernunft. G., d’altra parte, avverte avendo pubblicato Estetica ed epistemologia  l’insufficienza dello schematismo trascendentale della prima  Critica,  valido solo per le condizioni de)la conoscenza in genere überhaupt, ma non per comprendere la conoscenza effettiva o determinata, e rimanda al principio trascendentale soggettivo, creativo e costruttivo indagato da Kant nella terza  Critica. Nella Premessa a  Immagine Linguaggio Figura si dice che l’enigma dell’immagine interna, G.,  Ricognizione. G., Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla  CRITICA DEL GIUDIZIO di Kant, Roma, Bulzoni, nuova ed. con una nuova premessa, Milano, Unicopli. G., Ricognizione, vero e proprio tema centrale del saggio, ha preso forma attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano. Dunque, una continuità  con l’opera, ma certamente anche un’importante discontinuità: lo schematismo trascendentale, quello dei concetti puri dell’intelletto, passa decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a venire in primo piano  sono lo schematismo empirico - quello cioè che permette di pensare la costruzione dei concetti empirici a partire dalla percezione, che Kant nella terza Critica chiama esempio - e lo schematismo simbolico, quello che funziona per analogia, in relazione a concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo delle  cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del nostro linguaggio. Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili grazie alla distinzione - disponibile solo a partire dalla terza  Critica tra uno schematismo oggettivo e un libero schematismo, si intrecciano sempre nella produzione effettiva di enunciati e figure significanti, ma devono essere distinti a livello analitico. Nella  Ricognizione della semiotica G. mette in chiaro come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni concezione ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una direzione di ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si dice. Il referente non è la cosa stessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle e  configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’operazione a sua volta è questo stesso  concreto manipolare, che non può essere disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le  nostre manipolazioni delle cose, cioè dal nostro prendere le distanze dagli stimoli immediati, e  che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e parlarne Immagine Linguaggio Figura, Cfr. KANT, CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO, ed. it. cur. G.  e HOHENEGGER, Torino, Einaudi, in particolare l’introduzione dei curatori. Sull’analogia in Kant v. CAPOZZI, L’inferenze del giudizio riflettente in Kant:  l’induzione e l’analogia, Studi kantiani, G., Ricognizione. È evidente, mi pare, che l’operazione  di cui si parla include anche la nostra nativa attività percettiva che verrà poi indagata attraverso il problema della costituzione, della natura e della funzione delle immagini interne. Distinte dalle figure che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini interne), le immagini interne sono innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti,  o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da  escludere quindi ogni obiezione legata alla presupposizione indebita e circolare di un  HOMUNCULUS (cf. CUMMINS ON GRICE) homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di figure nella testa. Figure nella  testa non ce ne sono. È invece questa operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i regresso all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare  una  spiegazione, in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un ruolo decisivo gioca qui la nozione di  metaoperatività  introdotta in  Ricognizione della semiotica e poi ripresa, anche terminologicamente, in tutta la sua  importanza, solo trent’anni  anni dopo. È interessante come, anche in questo caso, G. anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il t itolo di meta-rappresentazioni , ma che in G. si es tende già all’intero ambito dell’operare umano, un operare che è pragmatico e corporeo, percettivo, cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione metalinguistica che per G. è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione che può essere solo interna al linguaggio di primo livello  G. introduce la nozione di metaoperatività come interna a qualsiasi o perazione umana. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del G., Ricognizione, Cfr. Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, cur. SPERBER, Oxford genere STIMOLO-RISPOSTA da un’operazione che include  già dentro di sé una generalizzazione. P iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione  determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma  come operazione umana contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili qualcosa, dunque, ch e potrebbe essere chiamato uno schema operativo:  piantare questo ch iodo, per l’uomo, suppone piantare i chiodi in generale, cioè un comportamento operativo metaoperativo rispetto a quello volto alla fabbricazione di strumenti e alla determinazion e di variabili operative; e il piantare chiodi in generale suppone ul teriormente l’operare in generale in vista d i possibili variabili operative, cioè un comportamento specificamente metaoperativo. Persino l’operare per prova ed errore tipico del comportamento animale non umano -  suppone nell’uomo un piano, una consapevolezza di operare  per prova ed errore. Sappiamo che proprio l’attività artistica è considerata da G. come l’esemplificarsi di questa dimensione metaoperativa, e che questa dimensione  metaoperativa non è altro che una riformulazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo. La terza parte di ricognizione della semiotica   è tutta incentrata sui cosiddetti linguaggi artistici, che LINGUAGGI PROPRIAMENTE NON SONO, non solo in  quanto PRIVI DI UN CODICE, ma in quanto strettamente condizionati da un’operatività  e da una meta-operatività irriducibili a linguaggio. Tutte le arti di cui G. lì parla dall’architettura alla musica, dalla poesia alla narrativa alla pittura sono indagate a partire dal modo in cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di per sé inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i prodotti umani, e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di stile viene riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici metaoperativi. In estrema sintesi, questa capacità metaoperativa viene caratterizzata come una condizione  G.,  Ricognizione nozioni diverse, quali gli oggetti che Winnicott ha chiamato «transizionali, di quelli che Dummett ha chiamato proto-pensieri, che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi   a partire da Evans chiamano contenuti non concettuali della percezione (c ontraddicendo, dunque,  l’idea  fatta valere da FERRARIS (si veda) secondo cui la tradizione kantiana decreta l’equivalenza tra epistemologia e ontologia, cioè l’assimilazione di tutto il  reale, di quel che c’è, a quel che possiamo conoscerne grazie ai nostri schemi concettuali, gettando così le premesse del radicale prospettivismo e costruzionismo  nietszscheano secondo cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, e di qui del postmoderno, del neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo secondo cui niente è fuori dal testo, e così via .  affidata a un principio estet ico che esprime un’originaria adesione del soggetto all’esperienza, e insieme un’anticipazione distanziante di questa. Già in  Senso e paradosso, G.  s’è riferito in un altro contesto agli oggetti transizionali di Winnicott mediatori tra il narcisismo infantile, o primario, e le relazioni  oggettuali, obbedienti a quel principio di confusività che violerebbe appunto il principio aristotelico di non contraddizione accostandoli da un lato all’ Unheimliches freudiano e, dall’altro, alla paradossale unità di determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte e nell’esperienza estetica una sua manifetsazione esemplare. Non c’è esperienza ben determinata, apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una condizione di transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici oggetti transizionali non sono che concretizzazioni di un paradosso-senso. Qui si legittima anche la creatività che viene esemplar mente e più tipicamente esibita  oggi, per noi e dal punto di vista di una riflessione estetica, da ciò che chiamiamo arte ed esperienza estetica DUMMET, Origins of Analytical Philosophy, Harvard, ed. cur. PICARDI, Origini della filosofia analitica, Torino, Einaudi. Il  proto-pensiero si distingue dal pensiero vero e proprio che è esercitato dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne è il veicolo per il fatto di non essere separabile dalle attività e circostanze presenti non possiamo dare una spiegazione soddisfacente della nostra capacità di base d’apprendimento e di orientamento nel mondo trascurando il livello dei proto-pensieri. EVANS,  The Varieties of Reference, Oxford. FERRARIS, tra i tanti testi e articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da ultimo il manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, Laterza. Per una discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come unità costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in dichiarata corrispondenza a quell’unità  estetica delle rappresentazioni di cui si occupa Kant nella  Kritik der Urteilskraft. A questo punto abbandono il saggio per vedere come queste  problematiche vengano riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel saggio. Il nuovo strumento teorico che G. mette a punto, al di là del riferimento al principio di una conformità a scopi senza scopo quale senso e sentimento comune, il  Gemeinsinn   kantiano, è la nozione d’immagine interna, proprio a partire da una rielaborazione del libero schematismo della terza  Critica. Qui la nostra capacità metaoperativa resta una nozione importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo, ma viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G. chiama complessivamente facoltà  dell’immagine, che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di  un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in  quanto riprodotte o ricordate- rielaborate. Quella che veniva chiamata per lo più operazione è qui inn anzitutto l’attività di questa facoltà dell’immagine, dal livello senso-motorio e non ancora associato effettivamente al linguaggio e ai concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con linguaggio e concetti, ma pur sempre  all’interno di una non riducibilità dell’una dimensione all’altra. Sensazione,  percezione e immaginazione sono tutte immagini interne costitutivamente  dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non  sensibile, dunque distinte dall’immagine SEGNO materialmente intesa, che G. chiama figura [ETIMOLOGIA INTERESANTE], e che è invece sostanzialmente statica.  G. Ricognizione, G. Immagine Linguaggio Figura Una delle nozioni di maggior interesse che emerge subito assente, direi, negli scritti precedenti è quella di aggregato. Si tratta di qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di classi. Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali. Un aggregato è invece costituito solo percettivamente – GRICE, POTCHING, NOT COTCHING -- e costituisce un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un aggregato può essere costituito  da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma  solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile  intellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. Mi sembra di poter dire che G. stia cercando di dar conto, con una  rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una sintesi dell’apprensione,  ancora priva di un’unità conc ettuale, della comune radice di  G., Immagine Linguaggio Figura. Ma G.  segnala una revisione  tendenziale dell’estetica trascendentale kantiana a un livello  molto più radicale e produttivo, già da  Senso e paradosso. Con la riflessione estetica della  Critica del Giudizio , il problema dell’immaginazione viene in primo piano: nasce u n nuovo schematismo lo schematismo libero, senza concetti,   dell’immaginazione come capacità originaria di organizzazione delle percezioni. Di conseguenza tende a ridimensionarsi notevolmente la primitiva estetica trascendentale, nonché la stessa logica trascendentale, della  Critica della ragion pura. Per esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello spazio e del tempo non è che  un  aspetto, forse non il più originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua  elab orazione nell’immaginazione non più soltanto produttiva e riproduttiva, ma anche creatrice, non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali rispetto a una materia sensibile. Il centro della questione, di fronte a quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla relazione tra aggregato e oggetto (GRICE OBBLE) transizionale, mi sembra che uno degl’esempi portati in  Immagine Linguaggio Figura non lasci adito ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive G., prima che il linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione di  un’intelligenza prev  alentemente senso-motoria, si può ipotizzare che si producano,  nel la manipolazione degli oggetti, riconoscimenti, usi e aggregati di oggetti in essi variamenti  disposti. Un burattino può essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un   vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una copertina o un lenzuolino possono  essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero  della madre, il suo abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non ancora propriamente conosciuto  e dominato; e così via. In questi casi l’aggregato è lontanissimo  dalla formazione di una futura tassonomia intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non fosse preceduta da quello. Se queste forme prelinguistiche di aggregazione e riconoscimento sono  però contrassegnate da una vocazione al linguaggio e all’organizzazione  concettuale, ci si può chiedere se siano pensabili anche senza questa teleologia  evolutiva e se non siano per caso da pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune specificazioni, delle rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie di animali non-umani. A questi, infatti, G. riconosce non una vera percezione interpretante come quella umana, ma neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente distinto da un mondo come avevano fatto Scheler e Heidegger sulle orme di von Uexküll. Forse la distinzione vale per  l’ambiente sensoriale della zecca, ma sarebbe diff  icile dire la stessa cosa di un cane o delle grandi scimmie.  tesi rispetto a Kant, rimando a VELOTTI,  Storia filosofica dell’ignoranza, Roma-Bari, Laterza. G., Immagine Linguaggio Figura. G., Immagine Linguaggio Figura. Un mondo, senza darne qui un’impossibile definizione e accettando della parola solo l’indicazione di un senso complessivo della vita e delle cose che la avvolgono, è attribuibile anche  agli animali non-umani. Solo che sembra presentarsi non come mondo in immagine, ma come comportamento, in cui la sensazione, visiva o non visiva, svolge una funzione segnaletica e non formativa, essenziale, ma non caratterizzante propriamente una co siddetta immagine del mondo. Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione infantile e degli animali non-umani perché è diventato  forse l’argomento più forte  portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della percezione. Questo confronto tra le  posizioni di G. e quelle dei sostenitori dei contenuti non concettuali (un’espressione che Garroni non usa mai)  richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione  tra l’ aggregato e i proto -pensieri di Dummett, una nozione elaborata proprio per dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio, proprie sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo che sia necessario, anche per Dummett [WRIGLEY TO GRICE: MY THESIS WILL BE ON DUMMETT’S FREGE – PHILOSOPHY OF LANGUAGE. HAVE YOU READ IT? GRICE: NO, AND I HOPE I WON’T], distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di diventare pensieri, o vocati a diventarlo, e quelli che non lo sono). Se menziono i possibili punti di convergenza della riflessione di G. sulla irriducibilità della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di tradizione analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero di G. sta al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di pochissimo interesse. Il fatto è che G. mette in luce  spesso senza portare fino in fondo i  dettagli dell’analisi aspetti, implicazioni e dimensioni del problema che potrebbero essere molto fecondi se messi a contatto con la ricerca contemporanea propria di quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non si tratta solo di un generico auspicio di integrazione di prospettive diverse, ma di confronti concreti G.,  Immagine Linguaggio Figura Non solo in EVANS , cit., ma soprattutto, tra gli altri, in C. A. B. PEACOCKE, Does perception have a nonconceptual content? Journal of Philosophy, e Phenomenology and nonconceptual content  , in “Philosophy and Phenomenological Research”, e già anche in DRETSKE ,    Naturalizing the Mind  , MIT che potrebbero portare a risultati sorprendenti forse anche in termini di nuove acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il primo, già accennato, riguarda proprio  i contenuti non concettuali. Il secondo riguarda invece l’indeterminatezza delle  immagini mentali  A. È indubbio che le principali ragioni che hanno portato la filosofia della  linguistic turn   a occuparsi di fenomeni non linguistici, e in particolare di contenuti percettivi non concettuali, è legata a una serie di ragioni che trovano corrispondenze abbastanza puntuali in Garroni. E tuttavia, nonost-ante la loro raffinatezza, spesso queste analisi sono incapaci di vedere aspetti della questione che una riflessione filosofica come quella di G. aiuta a scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al dibattito sui contenuti non concettuali sono svariate. La possibilità, riconosciuta da G. con la nozione di’aggregato, di rappresentare nella percezione stati di cose contraddittori o impossibili da un punto di vista proposizionale e concettuale [SPERANZA MISE-EN-ABYME E GRICE:  l’esempio che si fa di s olito sono le figure di Escher, o la l’illusione della cascata di Crane,  ma l’aggregato di  G., come abbiamo visto rapidamente, coglie questa possibilità percettiva  innanzitutto al livello dell’immagine interna, e nella sua  necessità non solo come fatto accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura. Un secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale sostene che il contenuto della percezione è unit-free: percepisco una distanza  CRANE,  The Waterfall Illusion, Analysis, Cfr. Immagine Linguaggio Figura, in cui G. analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di alcune   figure, e il ruolo primario nei riguardi della varia interpretabilità del percepibile giocato dall’indeterminatezza percettiva propria delle  immagini interne in relazione al mondo reale. PEACOCKE,   Analogue content, Proceedings of the Aristotelian Society, determinata tra me e un oggetto senza per questo dover  usare un’unità di misura. E  queste rappresentazioni sono irriducibilmente nonconcettuali. G., di nuovo appoggiandosi qui implicitamente a Kant, usa  un’argomentazione analoga per mostrare come la percezione ci appaia legittimamente come soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia nulla di contraddittorio o ossimorico, in quanto la percezione fornisce valori oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere   poi   esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori  oggettivi   è  nostro  [e questo avvertimento è non concettuale: nota mia] e, tanto più, la  nostra misurazione   non sta  nelle cose  , ma dipende  da un’unità di misura da noi stabilita idonea per l’esplicitazione  concettuale di quei rapporti. L’avvertimento dei valori quantitativi privo di un’unità di misura è dunque la condizione, non concettuale estetica, direbbe  G. con Kant di ogni misurazione oggettiva e concettuale. 3. Un terzo argomento, avanzato da Evans e poi ripreso da molti, è la maggiore finezza di grana della percezione rispetto alla grana dei contenuti degli atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a G. nella sua rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in relazione agli aggregati, quanto al libero schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee estetiche» (una modalità esemplare di «immagine interna», che Kant stesso designa come «intuizione interna»: « dal punto di vista estetico l’immaginazione è libera, al fine di fornire, ma in modo non ricercato una copiosa e inesplicita materia [Stoff] all’intelletto, che questo,  nel suo concetto, non prendeva in considerazione ). E l’analisi,  centralissima, che G. dedica al libero schematismo, non si limita a un riferimento alle ope re d’arte che sono, per Kant, espressioni  di idee estetiche, ma KANT, Critica della facoltà di giudizio, G.,  Immagine Linguaggio Figura . KANT  ,   Critica della facoltà di giudizio  si allarga alla stessa costruzione di schemi per concetti empirici. G. precisa infatti che  lo stesso schema lo schema empirico, l’immagine schema o, nel linguaggio della terza  Critica    kantiana, l’esempio è possibile dentro il quadro del rapporto dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici  percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no, percepibili o no, c onfusi nell’indet erminatezza della totalità.  Non si tratta, è vero, di una percezione non relazionata ai concetti (dato  il rapporto dell’immaginazione con l’intelletto) , ma è anche vero che qui nessun concetto determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e anzi un concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire da una totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o concettualmente  classificati. Nella prospettiva di G., la maggiore “finezza di grana” della  percezione verrebbe vista in un quadro più ampio di quello analitico e cognitivista,  che ha conseguenze antropologiche, semantiche, di teoria dell’arte, mentre  probabilmente potrebbe guadagnare a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da  Ayers, e riguarda la possibilità di acquisire e apprendere concetti empirici. Se non si dessero contenuti non concettuali, o il nostro ragionamento sarebbe circolare (coglieremmo già concettualmente contenuti percettivi di cui invece, per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti), oppure dovremmo supporre un innatismo fortissimo e insostenibile. La  G., Immagine Linguaggio Figura, C. A. B. PEACOCKE, A study of concepts, MIT, e Does perception..., cit.; AYERS, Sense experience, concepts, and content: objections to Davidson and  McDowell, in SCHUMACHER, Perception and Reality: from Descartes to the Present, Paderborn, Mentis, 2ripresa da parte di G. delle considerazioni svolte da ECO (si veda) nel suo  Kant e L’ORNITORINCO (che a sua volta si riferiva a G.) fornisce un modello per la formazione dei concetti empirici proprio a partire dai contenuti non concettuali, in forma di aggregati, che permette un riconoscimento percettivo anteriore alla costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune. Veniamo al secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di provenienza analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche che le differenzia dalle figure (pictures) è la loro indeterminatezza. Sembrerebbe, questo, un tratto che li avvicina alla tesi di G. sul reciproco correlarsi di determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi usa questa argomentazione è quello di sostenere che le immagini mentali, essendo indeterminate, sono più simili  a descrizioni che a figure. L’argomento di Dennett è abbastanza noto, e rig  uarda il numero delle strisce del manto di una tigre:  in un’immagine mentale il numero delle  strisce di una tigre può essere indeterminato, mentre in una figura le strisce devono essere numerabili, e dunque determinate. In una descrizione, il numero delle strisce  può essere indeterminato (“questa tigre ha numerose strisce sul manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle descrizioni che alle figure. Un’autorità sulla  mental imagery   come Thomas insieme a molti altri sostiene che questo argomento  non è valido, perché un’immagine mentale di una tig  re potrebbe avere un numero determinato di strisce, solo che uno potrebbe non fare in tempo a contarle perché  l’immagine mentale svanisce velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una figura  di una tigre potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto sfocata o sommaria, e  G.,  Immagine Linguaggio Figura. Tra gli altri, DENNETT,  Content and Consciousness , London, Routledge & Kegan Paul; PYLYSHIN ,  What the mind’s eye tells the mind’s brain: A critique of mental  imagery  , “Psychological Bullettin”; tra i critici di questa argomentazione, TYE,  The Imagery Debate, MIT, anche una tigre reale   –   presente alla percezione attuale e non immaginata -, data la natura frammentaria, confusa e sfuggente delle sue strisce, porrebbe molti dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra evidente come Dennett e gli altri autori abbiano colto solo di sfuggita un carattere delle immagini mentali o interne e ne abbiano tratto una conclusione affrettata. E come le contro-argomentazioni di Thomas (insieme a quelle di molti altri) si mantengano sullo stesso livello, senza prendere neppure in considerazione la relazione, ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze, colta da G. tra determinatezza e indeterminatezza dell’immagini interne e il loro rapporto con le figure. L’indeterminatezza dell’immagine interna così come viene pensata da G. - non è una figura sfocata o mancante di alcuni particolari, o addirittura una figura che sarebbe determinabile se solo avessimo il tempo di esaminarla nella nostra mente. La correlazione essenziale tra determinatezza e indeterminatezza che la caratterizza è condizionata dal fatto che è  un’immagine dinamica e multimodale (visiva, olfattiva, tattile, uditiva, mnemonica,  affettiva, viscerale, e così via) e dunque non è in nessun modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita o evanescente. È piuttosto un’operazione nativa e  attiva, che, nel caso della percezione visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi luminosi a cui è sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai  movimenti saccadici e di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe neppure un’immagine retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta attivamente  e selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione interpretante» sullo sfondo di un contesto oggettivo e soggettivo che si allarga da quello visibile a quello non  visibile, fino ad estendersi alle altre caratteristiche non presenti (associazioni con altri oggetti e memorie percettive). Il problema dell’indeterminatezza condizionante dell’immagine  interna non è tanto se possiamo contare o meno certi suoi elementi, quanto quello di darne un resoconto teorico adeguato, che, per esempio, non si  45  THOMAS,   Mental Imagery, 1illuda di poterla considerare  come l’immagine interna di un oggetto già definito e isolato dagli altri oggetti, dal mondo soggettivo e oggettivo e dal sentimento della  totalità dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si possono anche costruire modellini della percezione più semplici, avendo in vista la costruzione di macchine per il riconoscimento automatico di certe caratteristiche oggettuali nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini riproducano effettivamente la percezione umana. Per concludere, vorrei citare per esteso quel che nota G. nel già citato articolo sulla indeterminatezza semantica a proposito del senso stesso di una riflessione filosofica. Credo che quel che diceva allora a proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe essere ripetuto per la percezione e i percettologi, come  suggerisce l’ultimo esempio che ho portato: Si mette in dubbio prima che potessero esistere puri linguisti o puri percettologi, potremmo dire. Forse è proprio vero: non esistono. Anzi, se l’antinomia che essi  inevitabilmente incontrano e si sforzano di comporre è sempre presente esteticamente in  loro e in tutti noi, linguisti e non linguisti, nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso, del  linguaggio in genere nella sua totalità indeterminata, è forse addirittura possibile sostenere che la cosiddetta filosofia si inscrive necessariamente in ciò che abbiamo detto coscienza implicita del linguaggio. È infatti difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente ma che essa nasca da un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza e del linguaggio, consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella stragrande  maggioranza dei casi solo una precomprensione o un avvertimento oscuro di una  comprensione, questo sembra tutt’altro che campato in aria.  Ciò comporta una differenza rispetto a una linguistica che non vuole saperne, di  filosofemi? Forse no, se la differenza va cercata in positivo, in una determinazione dall’alto di principi e metodi. Forse sì, se invece va cercata in negativo, nell’esclusione che principi e  metodi possano essere qualcosa di assoluto e unilaterale, si ispirino poi alla indeterminatezza o alla determinazione. Ciò pare plausibile soprattutto se essa fa emergere più nettamente la coscienza implicita che ogni nostro uso del linguaggio non è solo un  uso particolare ma contiene una componente di indeterminatezza che lo fa essere paradossalmente proprio quell’uso e permette di descriverlo proprio come quell’uso determinato, nello stesso uso effettivo, in tutti i sensi. Non sarebbe per caso anche un contributo non del tutto insignificante, da un punto di vista etico e politico, non sospettabile di ideologismo, alla promozione di una cultura non dogmatica, non settaria e non particolaristica? G., L’indeterminatezza [cf. GRICE, INDETERMINACY OF IMPLICATURE] semantica. Emilio Garroni. Garroni. Keywords: l’implicatura di Pinocchio, Freges Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin cognate ‘sentire’ -- senso, senso fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” – Do not multiply senses --  mentire/mentare/meinen/mean -- messagio, message, semiotic – sender, recipient, message, emittente, mittente, recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to ‘out’ --  ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Gartida: laragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, G. Succeeds Boulagoras as head of the sect of Pythagoras. He had spent some time away from Crotonne and returned to the city that had been badly damaged as a result of a feud between the Pythagoreans and their opponents. He was so upset by what he found that he is said to have died of a broken heart. Gartida.

 

Grice e Gatti: la ragione conversazionale dell’implicatura conversazioale – filosofia lombarda -- Luigi Speranza   (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Filosofia del Linguaggio  SAGGIO  SULL’ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA. Je travaille à me rendre voyant. MILANO GENOVA ROMA NAPOLI  SOCIETÀ ANONIMA EDITRICE DANTE ALIGHIERI (ALBRIGHI, SEGATI & C.) y Spa 9 apart pi  DI x  î 7 STRIP IMRATI OA ss =%: STABILIMENTO TIPOGRAFICO LA PERSEVERANZA— POTENZA + £ : AI  MIEI DUE FRATELLI  CHE  ANSIOSI E TREPIDI  VISSERO  LE STESSE MIE ANSIE E TREMORI  NELL'AUDACE SOLITARIO MIO ASCENDERE    LE CIME PIÙ IMPERVIE DEL VERO ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA. La grandezza delle statue diminuisce allontanandosene, quella degl’uomini avvicinandoci ad essi. Quale necessità di DUE DIVERSI LINGUAGGI, l'uno del sentimento e l’altro dell’inteletto, per esprimere il COMUNE CONTENUTO della coscienza? Altro infatti  è IL LINGUAGGIO COME LINGUAGGIO, ossia come mero fatto estetico — afferma  Croce — e altro IL LINGUAGGIO COME ESPRESSIONE del pensiero logico, nel quale caso esso rimane bensì sempre  linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio, ma è insieme [Il presente saggio — capitolo di un ampio lavoro, di prossima pubblicazione, dal titolo: La logica nella dottrina estetica di CROCE (si veda) e una  nuova concezione dell’arte viene, qui, ristampato del tutto compiuto, oltre che  notevolmente ampliato, trasformato e riveduto, perchè il direttore della rivista  nella quale apparve per prima, anni sono, non solo, all’ ultimo momento, credette  di modificarlo a suo modo, e mutilarlo, anche, sconciamente, qua e là, quanto, altresì, vigendo ancora e sempre, nel mondo della vecchia cultura, il costume  di condannare irremissibilmente lo spirito ereticale di coloro che non si sentono in nessun modo di alimentar d'olio le lampade accese dinanzi ai santi della scienza, non mi avrebbe, certo, consentita l’odierna stesura dello scritto, pur  rigidissimamente composto nella libertà, franchezza e sincerità della sua espressione. Tanto più che qui, ora, essendoci anche occorso di avvalorare magnificamente la tesì che noi opponiamo a quella di Croce con l’ autorità del pensiero vichiano, siamo stati costretti, pur senza volerlo, a mostrare, altresì, come Croce non sia riuscito a comprendere affatto affatto quel pensiero nell’intimo, verace, sostanziale suo significato. Onde, ad un tempo, ed è ciò che  a noi essenzialmente preme, il nuovo abbagliante fascio di luce, che, sprigionandosi irresistibile dal fondo della dottrina vichiana (VICO (si veda)), riesce ad illuminarla,  oltre che più intensamente, a pieno, col fugare tutte le ombre che qua e là,  finora, si addensavano in essa, impenetrabili. i  e ua ner! A più che linguaggio. Ora, delle due, l'una: o esso, rimanendo sempre linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio,  non può, per ciò stesso, non rimanere sempre ed unicamente  intuizione © immaginazione, e, quindi, sinonimo di sola  fantasia e poesia; ovvero è, anche, 7% che linguaggio,  e cioè concetto, e, allora, come dirlo, più, sinonimo di sola  fantasia e poesia, e non anche d' intelletto e filosofia? Ma, in  tal caso, il formidabile scoppio di un'assoluta contradizione, celata nelle fondamenta stesse dell’edifizio estetico di Croce,  non manda di schianto tutto in rovina tale edifizio, basato,  appunto, sul presupposto dell’assoluta identità del linguaggio, od espressione, con l’arte, od intuizione? Tranne che la frase,  più che linguaggio, non voglia essere, qui, e non sia che  una di quelle espressioni vuote, non rare nell’ opera di CROCE (si veda), dirette secondo la maligna INSINUAZIONE, o il perfido SUGGERIMENTO [IMPLICATURA] di Mefistofele a mascherare col suono della  parola l'assenza del concetto: Zè dove manca 1 concetto, poni  la parola; il che, d'altronde, usa bene anche l’ACCADEMIA, sostituendo il mito al concetto, ogni volta che non gli riusciva  di cogliere col pensiero la soluzione di qualche arduo  problema. Ma, in verità, ciò che non permette di dubitare in  nessun modo di quell’assoluta contradizione è la seguente  affermazione di Croce: per effetto dell’ixcarnazione che  il concetto e la logicità ha nell’espressione e nel linguaggio, il linguaggio è tutto pieno di elementi logici; il che trae  necessariamente a concludere, che: o non è affatto vero che  il linguaggio obbedisce sempre alla sua legge, perchè, per  effetto di tale incarnazione, riesce senz’altro a violarla,  impregnandosi, e quindi contaminandosi, di elementi logici, Logica come scienza del concetto puro; Laterza, Bari, ovvero che esso è masura/mente o necessariamente, ch'è lo  stesso, il prodotto non solo della fantasia, ma, altresì, dell’  intelletto, nella loro funzionalità sintetica, e perciò non vi  può essere come non vi è, di fatto che un unico  linguaggio esprimente, indifferentemente, il reale concreto od  il reale astratto: e cioè immagini o concetti, ovvero arte e  filosofia. Quale la vera di queste due conclusioni contradittorie? Altrimenti dovremmo credere che in un medesimo vestito  possano bene trovar posto, ad un tempo, due individui, oppure  che un medesimo vestito possa attagliarsi ugualmente bene  ad un fanciullo e ad un uomo maturo, come potrebbero  rispettivamente considerarsi l’immagine intuitiva, assolutamente  alogica, e l’immagine concettuale, così corpulentemente /ogrca. Salvo  unica via di scampo che per l'utilità del  momento il che non disgrada punto, in simili casi, al  pensiero di Croce non si voglia scindere il linguaggio dall’intuizione, per ridurlo « ad un fatto fisico-acustico,  aderente al pensiero, ovvero, ch'è lo stesso, ad una  mera guaina di esso, sì che sia facile, vòlta a vòlta,  alla fantasia ed all’intelletto trovarvi posto, conformandola,  naturalmente, ognuno a modo proprio, vòlta a vòlta. Ma se  ciò è da escludere assolutamente, non rimane, sola conseguenza possibile, un unico linguaggio, frutto, naturalmente,  della funzionalità sintetica di tutte le attività fondamentali  dello spirito? Infatti, ogni intelligenza sinceramente ersosa  di scoprire la verità e non già di far valere, comunque,  un proprio modo di vedere  alla presenza di tanti elementi logici nel linguaggio, non avrebbe esitato un istante a ricredersi del proprio iniziale errore, conchiudendo per l'appunto in  logica  dt  tal senso: ma non è così, purtroppo, che la pensano o  ragionano  almeno presso di noi i seguaci della dialettica  hegeliana, pei quali, invero, non è punto lo schema mentale,  arbitrariamente preconcepito, che deve conformarsi o risultare  conforme alla realtà, ma, per contrario, è proprio quest’ultima, che deve, comunque, inquadrarsi in quello schema: anche se debba ritrovarsi in esso precisamente come nel famoso letto di Procuste. E perciò mentre noi seguaci, in tal caso, della logica del LIZIO conveniamo bene con Croce che  l'acqua non può dirsi vino, sol perchè in essa è stato versato  del vino, egli, a sua volta, non sa in nessun modo convenire  con noi che l’acqua, del pari, non può dirsi, più, neppure  acqua, ma sì acqua mista con vino: e cioè fuori di  metafora, il linguaggio, come noi sosteniamo è pur  vero che non è opera di sola logica, ma non è nè pure  opera di sola fantasia, ma, sì, dell’una e dell'altra; ed anzi,  per verità, di quella, essenzialmente, più che di questa, come  or ora cercheremo di provare, dopo aver anzitutto liberata  sì fatta quistione, concernente L’ORIGINE E LA NATURA DEL LINGUAGGIO, da una grave pregiudiziale opposta dagli intuizionisti in genere, e principalmente del gran maestro dello  intuizionismo, Bergson: e cioè che IL LINGUAGGIO, in quanto  prodotto puramente spontaneo e /oz/ours è faire dello spirito,  è, per ciò stesso, da considerarsi come il flusso perpetuo d’Eraclito, per concludere, poscia, alla inutilità delle forme  grammaticali, non meno che dell'uso o SIGNIFICATO COSTANTE [GRICE, TIMELESS MEANING, APPLIED TIMELESS MEANING, “MEAN” used in the historical present – ‘shaggy’ MEANS ‘hairy-coated’] della parola, il cui carattere immobile immobilizzerebbe,  naturalmente, ed arresterebbe senz'altro il moto perpetuo  del pensiero, o la vivente fluidità del reale, così come il gelo  arresta lo scorrere od il fluire delle acque di un fiume, Ma  DALIA Zogica. veramente la parola, nella sua immobilità, riesce a nascondere  e sopprimere, agli occhi nostri, la vivente mobilità del reale?  Ma, forse, l'idea stessa di fiume, non è l’idea di un’ acqua  che scorre? Ha un bell’ essere immobile, ed anche solida,  la parola fiume: essa, tuttavia, non cesserà mai di richiamare  il ricordo e darci l’immagine di un’ acqua che scorre; così,  anche, il Corzidore dello statuario antico ha un bell’essere  fermo anch'esso: noi sentiamo e vediamo benissimo che i  suoi piedi lo traggon veloce come se avessero l’ ali. Ancora: l’astronomo che calcola l'orbita di Marte, suppone, forse, Marte immobile? e l'equazione di un movimento quello,  ad esempio, della cometa di Halley si può negare che  corra, anch’ essa, perfettamente come la cometa, con velocità  sbalorditiva attraverso l’infinito? È ben chiaro, adunque, che  nessuno pretende di fare scorrere il gran fiume del reale con  fiotti gelati, giacchè le nostre idee, ben lungi dall’ essere,  evidentemente, delle forme congelate di esistenza del reale,  sono, per contrario, delle perenni, luminose vibrazioni di  quell’intima essenza del reale, ch'è la consapevolezza della  coscienza umana.   E non è vero, infatti, ch'è proprio a mezzo di esse, o  son esse proprio che, col singolare vibrar luminoso, ch'è  proprio di ognuna, conforme al singolare vibrar dello stato  di coscienza in ciascuna racchiuso, o da ciascuna espresso,  ci attestano la perenne mobilità del reale, o la vivente sua  fluidità, che, altrimenti, noi non potremmo in alcun modo  affermare, in quanto solo a mezzo di esse è a noi consentito  d’innalzarci sul presente e guardar lontano, così nel passato  come nell’avvenire, e scorgere, quindi, in tutta la sua illimite  distesa, il corso evolutivo del reale? E ciò, intanto, non implica, necessariamente, nella natura  di quest'ultimo, la presenza di alcunchè di essenziale e permanente accanto a ciò ch'è puramente contingente e  momentaneo? Altrimenti come potremmo dire che il reale  si evolve, e cioè, assume, appunto, forme di esistenza sempre  più nuove e più progredite, senza supporre, naturalmente, o ritenere, necessariamente, sempre zz0 il soggetto che tali  forme successivamente assume? Se così non fosse, noi non  potremmo parlare di evoluzione, o divenire del reale, ma  solo di un perenne passare di torbidi « flutti di sensazioni,  perdentisi, senza 77c0rdo alcuno, dans la nuit éternelle emportés sans retour. E se, adunque, la realtà è sempre zza nella sua essenza,  non ostanti, dirò, tutte le sue mutevoli démarches e i sempre  nuovi suoi /resssaillements, e il pensiero umano, strettamente  conformandosi alla natura di essa, di cui esso medesimo è  parte, non fa che cercare il permanente sotto il successivo,  e cioè, cogliere, costante, l' essenza di essa traverso tutti i  suoi rapporti in cui essa viene a trovarsi in quelle mutevoli  sue démarches, fissando, di conseguenza, in espressioni o  idee sempre nuove la sempre nucva fisonomia che essa viene  ognora assumendo, come dire che il pensiero suppone immobili  o inerti i termini tra cui vengono stabiliti quei rapporti?  Immobile, sì, è la legge che governa il divenire del reale  principio di causa e, quindi, la funzione conoscitiva che  mira a coglierne l’ intima essenza (principio di ragione)  pur traverso le più svariate sue manifestazioni, ma non i  termini di queste, che non possono non essere necessariamente  mobili, dato il perpetuo divenire della realtà : e cioè le sempre  nuove sue relazioni con sempre nuovi soggetti d’ esperienza.  Ma per mobili, però, o mutevoli che tali termini possano  ° essere, non si può, per ciò stesso, ammettere che essi riescano,  | così, ad infirmare l'essenza del reale, chè questo  precisamente come notammo per l’acqua non viene punto a perdere, anche a traverso le più stranamente mutevoli sue manifestazioni,  l’intima sua essenza o la sua identità fondamentale. La rondinella, infatti, che fende l’aria, si sente, è vero,  fuggire nel tempo e nello spazio, ma non è men vero che  essa si sente, anche, sempre la stessa. Salvo che non si  voglia riporre la realtà proprio nella innumere varietà di  toni, o addirittura sfumature del sentimento, quindi proprio  in ciò che essa ha di più accidentale e caduco, ovvero  ch’è lo stesso nel mero cambiamento o nella mera  transizione come tale, più che nel rapporto assolutamente  obiettivo tra noi e le cose, rapporto fondato zx ze, non meno  che in intellectu, posto che l'essere e il pensiero sono parti  solidalmente costitutive del reale. Onde la. conclusione che,  se coscienza vuol dirsi il sentimento perpetuo diun cangiamento,  non è, però, il cangiamento come tale che può dirsi coscienza:  la quale, pertanto, in quanto conserva, evidentemente,  immutabile la sua identità fondamentale, pur traverso le più svariate ripercussioni del sentimento, che le procurano, appunto, quei sempre nuovi suoi /ressaz/lements, ci vieta  assolutamente di ritenere le singole espressioni od intuizioni  così assolutamente  individuali da rimanere PER OGNI ALTRO SOGGETTO conoscente, che non è il creatore di esse, del  tutto  intraducibili, inclassificabili, val quanto dire  inesprimibili, almeno adeguatamente. E perchè affermare, allora, che ad ogni impressione  corrisponde un’espressione immancabilmente adeguata? Salvo  che non debba dirsi adeguata solo alla particolare impressione  che un medesimo obietto viene a destare in ogni singolo soggetto, un'adeguazione, quindi, puramente soggettiva, perchè  variabile da soggetto a soggetto conoscitivo: e come mai,  allora, da intuizioni sì fattamente individuali si può pretendere  una conoscenza di carattere urzversale e necessario?  ERE o IO  Da  I, TRO  L. i si  a VR Il pensiero, infatti, non può rimanere in nessun modo  chiuso negli impossibili limiti di un’ intuizione assolutamente  individuale, come pretende, anche, il Mosè di Vigny: O seioneur, J'ai vecu puissant et solitaire! giacchè la possanza è unicamente nella commozione e vibrazione spirituale estendentisi  a quell’umanità da cui viene e a cui torna l'onda alterna del  pensiero e del sentimento. E fu, tra altro, precisamente in vista di tal carattere  di universalità e necessità, proprio e inscindibile dall’ attività  conoscitiva, che noi fummo costretti ad escludere dalla coscienza  intuitiva, come particolare ed esclusivo contenuto di essa,  il sentimento, in Quanto precisa e recisa negazione di tal  carattere. E, peraltro, dato, eziandio, per Croce, la natura  assolutamente ineffabile od INCOMUNICABILE del sentimento,  come può egli pretendere, ancora più assurdamente, di  contemplare e gustare le altrui opere d' arte, rivivendole con  le singolari vibrazioni del proprio sentimento? Ma non ci  disse egli che tali opere, per l'impossibilità, appunto, da  parte nostra, di rivivere identico lo stato sentimentale dell’  artista che le creò, sono, per ciò stesso, assolutamente intra-  ducibili, sì che ogni nostro tentativo di tradurle fedelmente  si risolve, in realtà, nella genuina creazione di una nuova  opera d’arte accanto ad altra opera d'arte? E che, anzi, lo  stesso artista è incapace esso stesso di rifare identica la  propria opera, non potendo rivivere nè pur esso, puntualmente,  quegli stati di coscienza, che trovarono il loro nitido spontaneo  riflesso nella primitiva sua intuizione? In verità, io non riesco a comprendere qual gusto possa  mai trovare CROCE (si veda) nella coquetterie; che è anche di  Renan di contradirsi per mille versi, ad ogni piè sospinto, e non solo nella medesima pagina, ma nella  medesima frase. Sai ce! Il maggiore rappresentante dell’intuizionismo Bergson è vero che attribuisce anch’egli al sentimento LA POSSIBILITA DI PENETRARE L’ANIMA ALTRUI, non meno che delle  cose, ma solo in quanto gli riconosce quel particolare carattere di COMUNICHEVOLEZZA che ad esso deriva da « cette  espèce de SYMPATHIE intellectuelle, par la quelle on se transporte à l’intérieure d’un obiet. Ma CROCE (si veda) non nega  recisamente sì fatta COMUNICHEVOLEZZA al sentimento, che, per  lui, è 470 di ogni elemento intellettualistico? E, allora,  come può pretendere di rivivere con le singolari vibrazioni  del proprio ineftabile sentimento l’ineftabile palpito di vita onde vibrano le altrui opere d’arte, per contemplarle e gustarle? E, d'altra parte, la stessa simpaia intellettuale di Bergson, riesce, forse, anch'essa  senza l’aiuto di tutte  le debite operazioni intellettuali a penetrare a fondo  la vita del reale, fino, addirittura, a coîncider avec ce que  il a d’unique et d’INESPRIMABLE? Ma l’unico e l’INESPRIMIBILE, in quanto tali, non sono, per ciò stesso, INCOMUNICABILI? Tuttavia, ammessa pure la possibilità di quella coincidenza, noi non diverremmo senz'altro i sosta delle cose, o  le cose stesse, addirittura? e come, allora, queste sarebbero,  più, uniche? Ma, a parte tali assurdità, come mai LA SIMPATIA, senza tutte ripeto le operazioni dell’intelligenza,  potrebbe farci penetrare l’anima delle cose? Senza dubbio,  allorchè io seguo ad esempio con l'occhio un razzo che sale dritto verso il cielo, io sento in me un movimento  che imita la brillante sua linea di ascesa, uno sforzo paral-  lelo al suo sforzo: può dirsi bensì, allora, che IO SIMPATIZZO con esso; ma, tuttavia, cotal SIMPATIZZARE non mi rivela  punto ciò che fassa o accade in quel granello di polvere  Revue de Metaphisygue.  RT nn    (E i ES   ardente. Ancora : quando io scorgo levarsi la luna, e vedo  i suoi raggi tremolar nell'ombra della sera placida e serena,  io, pur sentendo l’anima vibrar simpaticamente con essi, fin  quasi a sentirmi dissolvere di .tenera commozione, al pari  della blanda luce, che da quei raggi, tenera effondendosi,  si perde sulle cose, non riesco, tuttavia, in nessun modo,  pur nella maniera più vaga che si voglia, a penetrare, così,  la vita di quell’astro notturno. Del pari, LA VIVA MIA SIMPATIA lper la primavera, che mi fa, invero, provar nell'anima  tutta la freschezza e verginità di vita di tutte le cose che  alla vita si destano fresche e verginali, e nella persona stessa  come una leggerezza o snellezza di ali di farfalla, può dirsi  riesca mai, anch'essa, a farmi cogliere, così, la vita intima di  quella stagione ch'è la gioventù dell’anno? Ma vediamo, se,  almeno nel mondo umano, LA SIMPATIA raggiunga piena e  precisa la sua potenza penetrativa. Io vedo una donna in  lagrime uscir dal cimitero : una tristezza analoga alla sua  invade subito l’anima mia; io simpatizzo intellettualmente  con essa, a mezzo del fersiero della causa che l’affligge: la  morte di una persona cara, nel tempo stesso le sue lagrime  tendono a provocare, per sensibile contagio, le mie; io,  dunque, penetro ben meglio nell'anima di questa donna  che non nelle precedenti forme inanimate di reale. Ma chi  oserà dire che io ho vera e piena la intuizione del suo  dolore? Ma non accadde, forse, al Guyau, come egli stesso  ci narra in una delle sue più belle liriche, di scambiare per  scoppio di riso l’improvviso singhiozzo di una donna che  tornava dai piedi di una croce levata sur una tomba?  D’un cété le jardin, de l’autre un cimetier; Un seul mur les sépare, et la mèéme lumière Fait resplendir la feuille inquiète du bois, nen Les blancs marbres des morts et les rigides croix. dea a Il poeta cammina senza meta, gli occhi perduti nel  fogliame, bevendo a lunghi sorsi l’aria della primavera: nell'ombra di un sentiero, a passi lenti, una donna procede innanzi a lui; egli non la vedeva che di lontano: i  suoi piedi visibilmente tremolavano, ed egli non sapeva perchè.  D'un tratto un brivido la scosse tutta, e sembrò ch' ella  ridesse di un riso secco e nervoso ; e, per ridere, ella nascose la testa fra le dita: Quand j’approchai, je vis, légères et limpides Des larmes qui coulaient entre ses doigts humides: Car c’était un sanglot que ce rire sans fin,    Et cette femme, errant au fond du doux jardin,  Sortait du cimetière.  Sicchè  Une larme qui tremble,  Un sanglot qui de loin, pour l’oreille ressemble  Au rire, et rien de plus-voilà donc la douleur!  C'est tout ce qu'on peut voir lorsque se brise un coeur.  C'est le sieze fuyant qui, pour un jour à peine,  Révèle 1’ infini d’une souffrance humaine.  Les plaisirs les plus doux, les maux les plus amers  S'expriment par le mèéme ébranlement des nerfs  Que l’air indifferent propage dans l’espace: Cri de joie ou d’angoisse, il éclate, il s’efface  Et, sans étre compris, glisse sur l’univers. È questa, dunque, la corncidenza colle cose che ci  dì la stessa simpatia intellettuale? quella conoscenza infallibile e perfettapromessaci dagli intuizionisti? Un mero choc en retour di onda nervosa, od anche emotiva?  R Giacchè, in realtà, la mia coscienza, in quanto tale, pur  essendo così vicina all'altra, rimane, nondimeno, con tutta  D- evidenza, senza punto penetrarla od esserne penetrata :  n Ainsi jaurai vecu près d’elle inapersu,  Toujours è ses cotés et toujours solitaire! VERS D’UN PHILOSOPHE: Z’ecla/ de rire, Paris, Alcan. Mi Ah! Que nous sommes loîn l’un de l'autre,  Étant si près!  E, forse, Dio stesso può mai riuscir a sondare le altrui  coscienze come la propria?  L’oeil était dans la tombe et regardait Cain ora, se quell’occhio è di Dio, esso pure non può guardare  che dal di fuori; Dio, infatti, non essendo Caino, non può,  di conseguenza, nè sentire nè volere ciò che sente e vuole  Caino, e cioè possedere, appunto, l’anima di quest’ ultimo, Ciò prova chiaro che la. filosofia non è punto come  vorrebbero gli intuizionisti  il sentimento di un fiotto mon- tante di vita interiore, il rapido bagliore di una stella filante, ma una sintesi razionale e finale di tutta la nostra esperienza,  fondata precisamente sulla determinazione, sempre più ampia  € più precisa, delle relazioni che intercedono tra il nostro  stato di coscienza presente ed il nostro we tutto intero; fra  il nostro me e gli altri esseri; fra gli esseri particolari ed  il tutto, perchè il reale è ciò che inviluppa sempre e dap-  pertutto l’infinito. Di guisa che più noi lo conosciamo, e  più vi scopriamo relazioni multiple, le quali, pertanto, trovano  la più perspicua loro espressione precisamente in quella insu-  perata manifestazione del reale che è l’idea, la quale, adunque,  così può rimanere distaccata dall’ intuizione come i fosforescenti bagliori, che corrono sulle onde del mare ondulato,  dalle onde stesse, che quei bagliori accendono col loro moto. E poichè, intanto, cosa certa o innegabilmente vera è che  il continuo divenire e perenne trasalir dell’essere coincide  col continuo divenire e perenne palpitar del pensiero, è  naturale che, in conformità di questa stessa natura perennemente 22 fieri del reale, si debba procedere per rag- Prada E giungere una visione sempre più piena e indefinitamente  integrale della realtà infinita ed eterna, ininterrottamente  da un'idea all'altra, all'infinito ed in eterno. E come, allora,  potrebb'essere mai lecito rinunziare ai precedenti /ermzini  della nostra coscienza, e cioè alle precedenti nostre intuizioni? Ma queste non sono, adunque, le espressioni assolutamente adeguate, e perciò stesso insuperabili ed immutabili,  dell'essenza delle cose, o del caratteristico, che è in ogni  singola forma di reale? E se tali esse sono, e cioè immagini  che attinsero, al fine, preciso, quel limite assolutamente insuperabile che è segnato dal rapporto esattamente proporzionale  degli elementi o determinazioni onde risulta l'essenza di ogni forma di realtà; e donde, appunto, deriva alla cono-  scenza intuitiva il suo carattere o valore universale e necessario, come si può pretendere di andare oltre tali immagini  limite, senza che la realtà corrispondente non cessi, per ciò  stesso, di essere quella che è? Giacchè, si sa l’accennammo  innanzi l’essenza d'una cosa può trovare la sua ESPRESSIONE o RAPPRESENTAZIONE intuitiva veramente adeguata solo  in quelle immagini da cui la conoscenza logica, possa, a sua  volta, derivare immediato e preciso quel concetto-limite che  le variazioni della realtà corrispondente non possono ulte-  riormente superare, senza che questa, naturalmente, non cessi  di essere quella che è. È quanto tuttodì accade in ordine alle  mutevoli quanto fallaci immagini al cui gioco soggiace, ingenua, la coscienza infantile, ch'è, per ciò, continuamente  smentita e corretta, ad un tempo, dall'esperienza, fino a  quando essa non sia diventata capace di scegliere od assu-  mere come elementi fondamentali od essenziali delle sue  immagini intuitive, quelli, appunto, che, resistendo alla doppia  prova dell'esperienza e della ragione direttrice, rimangono  indici insuperabili per la funzione di assimilazione e differen- Mento,  marziana    Pa    E |. =  ziazione, ad un tempo, in ordine a tutte le altre possibili  forme della realtà, funzione in cui, notammo, si assorbe e  concentra essenzialmente l’attività conoscitiva.  Infatti, le intuizioni o cognizioni umane costruzioni  superbamente armoniche del nostro pensiero non vivono  punto, già, per il colorito emotivo che le riveste, ma, sì, per  l'essenza unicamente ch'è nel loro fondo : quell’essenza, appunto che nessuna variazione della  realtà corrispondente deve in alcun modo riuscir a superare,  E se, dunque, sì fatte intuizioni, in quanto universali e necessarie, sono, per ciò stesso, immutabili e perenni, come  non dover ritenere ugualmente universali e necessarie, e,  quindi, immutabili e perenni, le corrispondenti espressioni,  in quanto adeguate e insuperabili manifestazioni esteriori di  quell’intimo moto armonico del pensiero, che riesce a individuarsi o concretarsi precisamente in quelle espressioni? Giacchè, si sa, e non si può negare, che quantunque il rapporto che lega la lingua al pensiero sia di pura a/tribuzione  e non di z2427a, lo sviluppo dei due procede, non di meno,  assolutamente di pari passo, fino al punto che le imperfe-  zioni della lingua sono imperfezioni del pensiero: il che trae,  di conseguenza, a riconoscere che lo sviluppo del pensiero,  senza l’aiuto della lingua, sarebbe stato del tutto impos-  sibile, in quanto per la coscienza, indipendentemente dalla  lingua, è possibile solo uno sviluppo rappresentativo di natura sensibile, come, ad esempio, le costruzioni geometriche  e meccaniche, il gioco degli scacchi, un motivo musicale, un'immagine visiva e simili; ma non ostante tutti gli sforzi, noi non saremmo, certo, mai in grado, senza parlare, di pensare, ad esempio, che BISOGNA DIR SEMPRE LA VERITÀ – GRICE CANDOUR. Posso  bene, anche, rappresentarmi un albero determinato senza il È: nome corrispondente, ma PENSARE L’ALBERO in generale, senza la parola, è semplicemente IMPOSSIBILE: il che prova che solo  dal concetto e col concetto comincia, per la mente, la necessità  della parola, e, quindi, la conoscenza che si pretende universale e necessaria, come, appunto, quella intuitiva. E se,  pertanto, può non essere vero che il concetto esista prima  del segno, certo è, però, — come nota Hamilton che  il concetto ricade, appena formato, nel caos dal quale lo spirito l’evoca, se IL SEGNO VERBALE non lo rendesse  permanente nella coscienza. Questo, perciò, è assolutamente necessario per assicurare i nostri progressi intellettuali,  per fissare quello che è già acquisito per la conoscenza, e  farne un punto di partenza nuovo per ulteriori progressi. Un esercito si può spargere sur un paese, ma non lo conquista se non vi costruisce delle fortezze. Le parole sono  come le fortezze del pensiero. Esse ci permettono di stabilire  la nostra dominazione sul territorio che il pensiero ha già  invaso e di fare di ciascuno dei nostri acquisti intellettuali  una base di operazioni per farne dei nuovi. Ovvero, per  adoperare un’altra immagine, il rapporto fra la parola e il  concetto è quello stesso ch’è tra lo scavare un zu7%e/ nella sabbia e la muratura. Voi non potete procedere avanti nello scavare senza fare ad ogni passo una vòlta. Ebbene, il lin-  guaggio è per lo spirito quello che la vòlta è per il tuzzel. Ogni sviluppo del pensiero dev’ essere seguito imme-  diatamente da uno svilluppo della lingua, altrimenti il primo  si arresta. Dei concetti si possono formare senza la parola,  ma sono scintille che si spengono immediatamente; ci vogliono le parole per dar loro evidenza, per poterli riunire,  per cavar, insomma, una gran luce da ciò che senza di esse  sarebbe stato uno sprazzo di scintille subito spento. Riportato da MASCI (si veda), Logica; Pierro, Napoli.  E, veramente, la moderna filologia, analizzando e dissecando in mille guise il vivente organismo della lingua, è  riuscita a rintracciare nelle radici gli elementi primitivi inde-  componibili, che SEGNANO, CON LA SIGNIFICAZIONE PRIMITIVA, la  prima unità del pensiero con la lingua, donde, poscia, quel  rapporto di dipendenza reciproca in virtà del quale, mentre il pensiero, nel suo progressivo sviluppo, e sempre più attivamente all’inizio della sua produzione, riesce a modificare progressivamente il linguaggio, questo, a sua volta, non manca di  reagire sul pensiero, e dargli un’impronta individuale e collettiva, ad un tempo. Sappiamo, infatti, che è la lingua che  impone alla coscienza individuale la forma mentale della  razza, e cioè la maniera di fissare (nelle sue forme) le abitudini secolari di analisi e di sintesi del pensiero di un  popolo: onde giustamente è da ritenere, con Hamilton,  che il pensiero senza la lingua o non avrebbe avuto sviluppo, o ne avrebbe avuto uno del tutto limitato, come ce  ne fanno prova i sordomuti, che, senza l'adozione di un surrogato del linguaggio, non arriverebbero, con la loro intelligenza, ad elevarsi affatto, o solo ben poco, al di sopra  della intelligenza animale. Infatti, pur la momentanea mancanza, per momentaneo oblìo, di una data parola, non è,  forse, da noi avvertita a parte la sorda immediata inquietudine che altresì ci procura come un vero ostacolo che  c' impedisce di fissare il corrispondente pensiero, di isolarlo dagli altri, di porlo con essi in relazione, di riviverlo, insomma, necessariamente, onde il senso di vera liberazione  che noi proviamo, trovatala, appena, la parola che cercamo?  Non solo: ma l’assoluta mancanza, nella nostra lingua, di  date espressioni che valgano a renderci adeguatamente un  dato concetto, non ci costringe a ricorrere ad altre lingue ni  “ SAS    per le corrispondenti espressioni, come, ad esempio, per la  parola pietas, che noi siamo costretti a mutuare dalla lingua  latina, non possedendone la nostra una che adegui perfettamente il concetto da quella espresso? E trovato che abbian, dunque, le intuizioni la loro  espressione adeguata, e cioè posto che siano, davvero, conoscenza universale e necessaria, come possono, per ciò stesso,  rimanere assolutamente intraducibili, val quanto dire inattingibili nel loro INTIMO SIGNIFICATO, o nella profonda loro  verità obiettiva?  Ese, pertanto, tali esse rimangono, non è giocoforza  ammettere ch’esse, ben lungi dall'essere, per davvero, intuizioni, e cioè precisamente conoscenza universale e necessaria,  altro non sono, in realtà, che particolari espressioni di singolari ineffabili impressioni di un wzico soggetto: quello,  per l'appunto, che sì fatte impressioni riescì a provare? Giacchè di assolutamente singolare o insuperabilmente individuale in una forma di conoscenza veramente universale e  necessaria non vi può essere, al più, che quella frangia o alone, a dir così, che, come ombra il corpo, naturale ed immancabile accompagna  la forma mentis di ogni singolo soggetto conoscente, quale  spirituale riflesso del carattere ch'è proprio di ognuno di  essi, e che prende, comunemente, il nome di stile. Ma cotal  frangia o alone  che serve solo a farci distinguere le crea-  ture o immagini d'una medesima ispirazione creatrice, presso  i più diversi artisti: la yarcesca di ALIGHIERI (si veda) da quella di Pellico ed Annunzio, il Neroze del Racine  da quello d’Alfieri, d’Hamerling, di Costa, di Sinkie-  wicz  non toglie affatto nulla alla intelligibilità obiettiva,  e cioè fer tutti necessariamente identica, di sì fatte intuizioni,  che, perciò, restano identicamente valide come espressione   e:  o conoscenza di quella data forma di reale che ci vogliono  apprendere fer #uéte le intelligenze assolutamente. Qualora |così non fosse, potrebbero mai le intuizioni essere, ad un i  tempo, arte e scienza: e cioè immagine estetica e verità  scientifica? La quale, infatti, non si sa, forse, che, allorchè  tale, per davvero, rimane assolutamente identica per tutte le  intelligenze, non ostante la innumere varietà di espressioni  che essa trova presso ogni singolo uomo di scienza? E  cotale identità, qualora non fosse, già, nella immagine intui-  tiva, dove potremmo mai ritrovarla? Infatti non ci disse  innanzi il Croce medesimo che l’aere spirabile del concetto non possono essere che  /e iwéuizioni? E, in realtà,  qualora quest’ ultimo non fosse in esse, « non sarebbe in  nessun luogo: sarebbe in un altro mondo che non si può  pensare, e perciò non è. Ed esso « permane come qual-  cosa che è in esse implicito e deve farsi esplicito: vale  a dire come l'essenza delle cose. Non risulta, quindi, in ogni modo evidente che il valore  universale e necessario della conoscenza non può ritrovarsi  o appuntarsi che nell’ essenza dell’obietto di essa conoscenza il solo elemento, a dir così, per davvero immutabile e  permanente nel divenire perenne della realtà che non A  può, per ciò stesso, non essere riconosciuto tale recessariamente al  e universalmente, se vero è che di un medesimo obietto la  intelligenza umana non può nè deve avere che wr solo e  medesimo concetto, donde, appunto, il carattere di universalità  e necessità della conoscenza? E alla stregua di cotal principio  logico e gnoseologico pienamente riconosciuto dalla stessa Logica di CROCE (si veda) come può esser mai possibile la concezione o figurazione di intuizioni assolutamente individuali,  nel senso da lui propugnato, e cioè del tutto intraducibili  ed inclassificabili? A parte la tangibile contradizione #  adjecto di una conoscenza universale e necessaria, che può,  nondimeno, assumere i più diversi significati non solo pei  singoli soggetti conoscenti, ma eziandio pel medesimo soggetto,  da un istante all'altro come, appunto, l'intuizione di Croce a noi preme soltanto di chiedere se non è sempli-  cemente un assurdo, e, per ciò, del tutto impensabile, quanto  impossibile, l'esistenza di intuizioni, e, quindi, di forme della  realtà, che sfuggano alla connotazione anche dei predicati  più generali, che Aristotele, prima, e Kant, dopo, ci hanno  indicati come assolutamente indispensabili e, ad un tempo,  insuperabili, per la intelligibilità della realtà: come, appunto,  le categorie della somiglianza e della differenza. Infatti, al  di là di tali predicati, o categorie, non rimane come  sappiamo che una sola possibile espressione, quella formulata  dalla mistica: ergo faceamus, ovvero peggio ancora  seguire il malaccorto consiglio del Nietzsche. Penche-toi  sur ton propre puits, pour apercevoir tout au fond les étoiles  du gran ciel. Ma chi non sa che egli, appunto per essere  rimasto tutta la vita sospeso a guardare nel fondo di sè  medesimo, fu preso da vertigini, e le stelle del gran cielo  si confusero ai suoi occhi in una immensa notte? E, in realtà,  l'intuizione  nel senso inteso da Croce non è che una  oscura buca, in cui non si può discernere nulla, nemmeno  se stessi. Perciò se tacere o rimaner muti non si vuole, e  tanto meno perderci  come Nietzsche  nelle tenebre  della follia, non occorre, di necessità, far capo, per la intelligibilità della realtà, a quelle tanto deprecate categorie del  pensiero, che, in quanto predicamenti od espressioni degl’aspetti e condizioni più generali di esistenza sotto cui a noi  si rivela la realtà, non possono, per ciò stesso, non contrassegnare, in  maniera del tutto obiettiva, tutte le possibili forme dell’ essere? Lg  E se, adunque, la realtà non può essere da noi concepita  se non sotto la specie di sì fatte categorie onde il carattere universale e necessario della intelligibilità che di 3  essa abbiamo come mai, poi, le intuizioni possono dirsi  od essere 2r/raducibili? Ma la traducibilità di esse non importa l’uso di quelle medesime categorie che a noi occorsero per  la loro zntelligibilità? E come, allora, si può ammettere la  intraducibilità? Ad una condizione, sì: che la intuizione e la  espressione fossero due e non una; e cioè che il moto interiore  o intelligibile del nostro pensiero I’ intuizione appunto  fosse tutt'altra cosa che l’ immagine esteriore, (parola, suoni,  linee, colori ecc.), in cui tal moto si estrinseca, e cioè /a  espressione. Ma il Croce non avverte reciso ed insistente che l'intuizione e l’espressione sono #4 enon già due, in quanto, ETA  RION Ceti,  Di SE DE che venga appena espressa la parte iniziale di uno schema,  che subito e infallibilmente il nostro pensiero preconcepisce  l’altra, che completa lo schema (così come; per quanto   pure; tanto — quanto ecc.).   Sicchè la precisione del SEGNO linguistico, e cioè una  forma grammaticale vera, è solo essa che ci dà, rapido e  preciso, il rapporto pensato, senza aggiungere che, anche  quando l’attenzione non si rivolge ad essa, produce ugual-  mente l'idea del rapporto e favorisce, così, lo sviluppo del  pensiero logico: e se ciò, intanto, accade, è appunto perchè  l'idea del rapporto vi è scevra di ogni contenuto materiale :  il che trae a concludere che, come il concetto espressione  di una vera e propria 7es, anche se è da esso sussunto a  sostantivo una mera qualità o predicato di essa riuscì a  fissarsi nella parola, trovando nella concretezza ed evidenza  di questa la sua rappresentazione adeguata, così il rapporto,  nell’astrattezza della sua essenza, riescì a trovare nella #m-  materialità della forma la sua espressione adeguata. Ora, dati sì palpabili rapporti d’' interdipendenza fra la  lingua ed il pensiero, rapporti che risultano, per giunta, una  condizione size gua non per lo sviluppo dell’una e dell'altro,  come si può, seriamente, ritenere mero gioco di artifizio  del pensiero ciò che è, invece, mezzo assolutamente imprescindibile per la sua piena esistenza e sviluppo? Ma son,  dunque, un mero gioco di artifizio le naturali incoercibili  tendenze che traggono ogni essere a perseverare nel suo  essere, e cioè pienamente adeguare la propria esistenza alla  propria essenza? Ma non s'è pensato che, se la tendenza  del pensiero all'espressione del rapporto vuoi dirsi o rite-  nersi, per davvero, un artifizio, è da concludere, allora, che  le più artificiose espressioni del nostro pensiero, prima e più dei concetti stessi  in quanto senza paragone, notammo,  pnt SII  più ricche e complicate di articolazioni o rapporti logici, in  confronto di questi sarebbero precisamente le nostre intuizioni. Non solo: ma tutte le più elevate manifestazioni  od espressioni del pensiero umano, dalle prime sue riflessioni, o moti intuitivi, fino alle odierne concezioni dell’intuizionismo e del pragmatismo, assertori, appunto, di tal  gioco sarebbero, forse, tutt'altra cosa che un perenne, vario, gigantesco, e sia pure smagliante gioco di artifizio, sottilmente intessuto dal pensiero sulle più varie e strane  e innumerevoli vicende della vita dell’uomo, come della vita  universa? Giacchè, si sa, fuori di ogni rapporto logico, o  priva di ogni rapporto logico, ESPRESSO (EXPLICATURA) espresso o SOTTINTESO (SOUS-ETENDUE, IMPLICATURA – MILL, GRICE), mon  è concepibile nessuna forma od ESPRESSIONE di pensiero,  sia pure la più semplice altrimenti  dovremmo negare che conoscere — come afferma FICHITE significa vedere in relazione: il che sa precisamente  come negare che il sole illumina o riscalda. E provato,  adunque, che la tendenza o funzione essenziale e necessaria del nostro pensiero è quella di gorre in relazione,  come può esser lecito, poi, negare che le forme grammaticali,  che corrispondono a questa funzione e la esprimono il più  analiticamente possibile, non siano precisamente la più genuina e adeguata sua espressione? E, d'altronde, prova o  testimonianza assolutamente inconfutabile e tangibile della  necessità e adeguatezza di tali forme non rimane vedemmo  la stessa crescente forza di penetrazione, agilità e rapidità,  che lo sviluppo del pensiero trova, per l’appunto, nell'aiuto  di sì fatte forme? Ma seguiamo pure con tutta rapidità,  alquanto più da vicino, lo sviluppo del pensiero nei suoi  rapporti con la lingua. Questa, adunque, pur essendo nata  da un bisogno pratico, e, per ciò, tendente immediatamente,   wi oi £ + ES   cose, si rivelò, tuttavia, in una fase successiva, col progressivo  affermarsi della intima tendenza del pensiero all’ espressione  del rapporto un esperimento di pensare, che doveva dar luogo  alla forma: e n'è prova, precisamente, oltre che il tentativo  di combinazione delle parole, l’ altro, sopratutto, di piegare  parole indicanti oggetti a significare rapporti logici. In una  fase ulteriore le combinazioni di parole diventano costanti,  e le parole adoprate ad esprimere nessi cominciano a perdere  il loro significato indipendente. Segue una terza fase, nella  quale le combinazioni delle parole guadagnano di unità: le parole, segni di nessi, si aggiungono come suffissi alle parole denotanti oggetti; però il legame non è ancora saldo abbastanza, chè i punti di attacco sono tuttavia visibili, l'insieme è un  aggregato, non ancora una unità: dai surrogati di forme si  passa agli analoghi di forme; la lingua è nel periodo di  agglutinazione. Finalmente il carattere formale della lingua  si afferma decisamente, l’organismo grammaticale si completa;  la parola diviene un’ unità modificabile in conformità delle sue relazioni grammaticali solo per un cangiamento di  suono, che costituisce la /fessione. Ciascuna parola è una parte del discorso determinata, ed ha, insieme, una individualità lessicologica e grammaticale. Di più, le parole indicanti relazioni, perduta ogni traccia dell'ORIGINIARIO SIGNIFICATO RADICALE, che, presente ancora, avrebbe potuto oscurarne la  intelligibilità, rimangono puri SEGNI di rapporti, come i segni algebrici, esprimendo, essi, unicamente, ciò che al pensiero  importa che significhino. Si spiega, quindi, perchè le lingue  che hanno vere forme grammaticali procurano al pensiero, con una singolare chiarezza e precisione, una singolare  agevolezza e facilità e rapidità di movimento: onde la formazione parallelamente progressiva e, alfine, completa, di due  stupendi organismi: quello del pensiero, nella rigida unità e compattezza delle sue forme logiche, e quello della lingua,  nell'unità, non meno rigida e compatta, delle sue forme  sintattico-grammaticali. E, pertanto, quest'ultima, nella connessione delle parole nella proposizione, nei rapporti sintattici  fra esse, e nel pensiero che quelle connessioni e questi  rapporti esprimono, non rivela o rispecchia, netta, l’attività  logica del pensiero? Vario, relativo, organico il pensiero,  nel suo moto verso le cose, o verso la conoscenza di esse,  e tale anche la lingua e la parola, mediante l’ARTICOLAZIONE,  la FLESSIONE, le forme grammaticali, la SINTASSI. Ed è naturale: nutrito e cresciuto il pensiero, fin dai  suoi primi moti vitali, insieme con la lingua, non poteva,  nella sua naturale, invincibile tendenza all'espressione del  rapporto, non piegarla od imprimerle tutti gli atteggiamenti  e tutte le movenze del suo procedere essenzialmente discorsivo, come innegabilmente ci provano molte parti del discorso,  che non sono infatti come notammo per altro verso  che indici di direzione del pensiero, schemi verbali di direzioni logiche (così come; sebbene pure ecc.).   E si noti, intanto, che codesto intimo rapporto di dipendenza reciproca, che lega indissolubilmente lo sviluppo del pensiero a quello della lingua, non è  punto punto smentito o minimamente infirmato dalla differenza talvolta anche sensibile delle forme grammaticali-sintattiche che ci vien fatto di riscontrare anche  presso lingue appartenenti al medesimo gruppo: e ciò anzitutto perchè quel rapporto non è di natura, ma semplicemente di aftribuzione, e, poscia, perchè la differenza delle  forme grammaticali dirette ad esprimere le stesse relazioni  logiche NON MUTA IL SIGNIFICATO o la natura di tali relazioni.  Particolari disposizioni e, dirò anche, particolari RIFLESSI DI NATURA PSICOLOGICA, dipendenti dai più varî atteggiamenti del pensiero, oltre che da forme di sensibilità diverse e variabili,  in connessione, per giunta, con particolari condizioni di vita  e di ambiente le più svariate da popolo a popolo — il tutto.  punto punto determinabile, come non è determinabile la collocazione delle forze che impongono alla foglia turbinata dal vento quella data direzione — hanno dato origine alle più diverse forme grammaticali per l’espressione di un medesimo rapporto. Fatto questo eloquentemente confermato,  oltre che dalla relativa libertà che presiede alla formazione  e trasformazione delle lingue, dalla presenza di radicali di- È  versi in lingue derivate da un medesimo ceppo (la gallica e l’italiana). Infatti cotale persistenza della funzione formatrice, anche dopo la separazione delle lingue, non può essere altrimenti spiegata, che  con l’esistenza di una identica funzione originaria, proprio dl  come la diversa ed anche diversissima sorte che accompagna pel mondo, e quasi istrania, i figli mati da un medesimo  padre non può in alcun modo farci negare la comune loro  origine, nè, d'altronde, riesce a distruggere in essi la profonda voce ed i vincoli intimamente tenaci del sangue. E, peraltro, chi può negare che l'apprendimento e sempre più  facile intendimento di una lingua straniera è largamente mediato dalla traduzione $i 0 meno consapevole di essa nella nostra ? Il che sarebbe del tutto impossibile se le lingue,  pur nella innumere varietà di forme in cui sono riuscite a  plasmarsi, non dovessero la loro origine ad una tendenza o  manifestazione psicologicamente idezzica della coscienza. Identità di tendenza che, frattanto, per le ragioni testè ricordate,  non può, naturalmente, non mostrarci del tutto vano quanto  infondato il tentativo della filologia comparata di rintracciare  il primitivo linguaggio, donde, poscia, tutte le lingue sarebbero derivate. Infatti la ricerca filologica si è arrestata, impotente, dinanzi ad una molteplicità che resiste ad ogni. riduzione, e spinge, quindi, ad ammettere senz’ altro una  molteplicità primitiva, dominata, nelle sue forme somiglianti, i  semplicemente da identità di fattori, senza nessuna causa cla”:  storica di derivazione. Ma d'altronde non manca un modo veramente e,  semplice per convincerci della validità mecessazia di tutti i  sistemi di segni – SISTEMA DI SEGNI --, che l'umanità è riuscita sin qui ad organizzare e far valere come espressione universalmente intelligibile    ht,    di tutti i più intimi moti del nostro pensiero, ed è questo:  spogliate la parola di tutti i rapporti grammaticali-sintattici,  Ned    î annullate tutte le norme inerenti alla prospettiva col solo  capovolgere — ad esempio — un qualsiasi quadro o disegno;  alterate i rapporti armonici fra le note musicali ed avrete,  precisa, quella lingua da futuristi, che è, senza dubbio, meno  intelligibile di quella stessa degli idioti o dei pazzi, ed un È   disegno che non sarà, certo, più espressivo di quella lingua, ed una musica, infine, od un'armonia al cui confronto quella  dei popoli più barbari potrà dirsi una sinfonia. E se, adunque, tutti codesti sistemi di segni espressivi  sono wiversalmente intelligibili, e, per di più, universalmente  identici anche nel loro aspetto formale salvo, in parte, l’espressione linguistica ciò stesso non prova ch'essi re- Dez:  cano una validità necessaria, la cui sorgente è da ricercarsi 3  molto, ma molto al di là del capriccio o della volontà indi- pr  viduale? Infatti perchè tutti i tentativi di creare una lingua ®  universale unica come, ad esempio, il Volapwk, l’ Esperanto,  il Deutero-Esperanto, l'Interlingua sono falliti miseramente, ognora? Non, forse,  pa pil S perchè la lingua, come vero mezzo o strumento di espressione del pensiero, è ben lungi dall'essere così una creazione  arbitraria dell'individuo, consapevolmente compiuta secondo  una piano ordinato a scopi determinati, come il prodotto di P  una spontanea formazione naturale di ogni individuo, così dui come può dirsi del proprio organismo fisico? E, in realtà,  essa, come riflesso obiettivo nell’ unità organica delle sue.  espressioni vocali di quel coerente moto interiore che  anima il nostro organismo spirituale, è meno il prodotto  del singolo che della collettività. Infatti l'individuo non.  riesce a creare, per suo conto, che le singole parti, e cioè le singole parole o frasi; ma la lingua, nel senso dianzi  inteso, non può dirsi, certo, tutta lì: e sì che essa richiede.  ben altro; senza dire che ogni singolo atto formativo del  linguaggio, ogni atto di trasformazione, ogni uso nuovo della.  lingua rimane diretto sempre al fatto singolo, mai alla |  lingua come tutto. E poichè, pertanto, la lingua, come mezzo  o strumento di conoscenza, è precisamente e solo nel risul.  tato, o nel suo tutto, e questo tutto è, in sostanza, od  essenzialmente, non solo il prodotto delle influenze mutue delle coscienze individuali più che solo dell’ azione reciproc  dei singoli inventori, che in misura varia lavorano all’ opera comune, come taluni vorrebbero ma eziandio, e sopratutto,  il frutto di una critica sociale che adotta ed elimina onde.  quella forma d'identità di pensare e di esprimersi tutta propria  di ogni popolo è naturale ammettere che il contributo  dell’ individuo nella formazione della lingua scema a misura.  che si va dalla parte al tutto, il quale, perciò, deve senz’  altro ritenersi come il frutto, principalmente, di quella che  noi comunemente diciamo azzzza collettiva. La quale, se è pur  vero che, come realtà obiettiva, è non altro che un’ astrazione,  e non può, perciò, al pari dell’ individuo, creare affatto un  mito, un canto, un poema, una religione, è non meno vero,  però, che, al pari, e più dell’ individuo, è dessa che nella  maniera testè indicata riesce ad acquistare a quel mirabile  strumento che è la lingua, quella precisa e stabile forma  espressiva universalmente intelligibile, senza la quale qualsias  ‘iii its ue canto, o poema, 0 religione, od altra forma che si voglia di  conoscenza estetica od intuitiva, sarebbe, per davvero, nient'  altro che un mito. Onde giustamente il Feuerbach potè  affermare che se l’uomo deve alla natura la sua esistenza, deve, però, all’uomo di essere uomo, e cioè soggetto spiri-  tuale, in virtù, appunto, della sua libera partecipazione al  possesso di quella infinita ricchezza spirituale, frutto di sforzi  millenari, che proprio la lingua, traverso la infinitudine dello  spazio e la eternità del tempo, ci conserva e consente di  far nostra, senz'altro limite che la potenza o capacità di  appropriarcela: e di qui precisamente la singolare rapidità  del progresso nella storia umana, in confronto di quel procedere sì lento della natura, che, davvero, sembra star. Sì  che a buon dritto il Guyau potè chiedersi ed esclamare, ad  un tempo: D’où vient qu'en chaque mot je cherche une harmonie?  Je ne sais quelle voix a chanté dans mon coeur! C'est comme une caresse, et mon oreille épie   Et s’emplit de douceur! E la ricercata armonia nei nostri accenti, l'eco e la  dolcezza del canto altrui nei DOSE cuori è precisamente  perchè la lingua, quale iisaltante d' infiniti sforzi individuali e collettivi, per veder sempre meglio e più a fondo  nell'intimo del reale, può dirsi governata, nella efficacia  espressiva delle singole sue voci armonicamente connesse  nell’ inviolabile struttura delle sue forme logico-grammaticali,  da norme che ricordano bene quelle stesse che regolano e  determinano l’efficacia espressiva dell'armonia musicale. Nella  quale, infatti, ciascuna nota come sappiamo echeggia  nelle altre : tonica, mediante e dominante risuonano nell’accordo perfetto, e, inversamente, l'accordo risuona in ogni  nota; di guisa che ciò che noi prendiamo per un suono isolato è, per ontrario, un concerto. E sì fatta legge dell'armonia è noto anche regola non solo i suoni simultanei, ma ezianlo i successivi, in quanto gli accordi che  seguono vengo ad essere legati in maniera che il primo  si prolunga nell'ultimo. Aveva, quindi, ben ragione ANNUNZIO (si veda) rivolto agli uomini della sua terra di affermar loro. La mia parola non è solitaria: è l'eco di un coro  che voi non udite e che pure si compone di vostre intime  voci. Avete dinanzi a voi, rivelata, la vostra essenza. Voi  credete che io trasformi tutto in poesia, mentre non altro  io fo se non obbedire al genio cui voi medesimi siete sog-  getti. Voi mi giudicate dissimile, mentre io vi somiglio come  un fratello purificato. » d Qual mesariglia, quindi, che la lingua, simile, adunque,  nella sua struttira e consistenza — secondo un'altra immagine di Guyau — Ì  LI    à ces votes d’église  Où le moindre bruit s'enfle en une immense voix,  I  «i   Ceri cosmico che ci dà il tutto nella vita del singolo, e il sine  nella vita del tutto. Benissimo: ma, allora, il senti ; |  così inteso, è, forse, tutt'altra cosa che della ragione  grosso, a dir così, invece che al dettaglio ? Infatti, sol p  noi non riusciamo, bene spesso, a cogliere tutte, ad una 4  una, le ragioni complesse e profonde che si presenta nol  massa al nostro sguardo interiore, allorchè ci decidiamo  agire, è, per ciò stesso, lecito arguire che noi agiamo,  tal caso, alla cieca, ovvero che il sentimento che ci ha g  dato, sol perchè non ragionato, sia, per ciò stesso, non.  zionale? Ma il sentimento non ha, per caso, la sing  prerogativa che gli viene, appunto, dalle innume  sue connessioni con le direzioni ancora inconsapevoli de  tenuto della coscienza morale in formazione di a7  in confronto della ragione, le sue vedute, e di av  quindi, qual termometro sensibilissimo della vita spi  tutti gli abbassamenti o deviazioni della condotta dalla  segnata dall'ideale morale o dal dovere non anco  tutto chiara alla coscienza riflessa e, perciò, spin;  consapevolmente il soggetto morale lungo le vie del  Esso, quindi, non è, in sostanza, che luce sotto for  calore, e solo così inteso può avere ed ha un signil  motto famoso di Pascal: 7 cuore ha delle ragioni    ragione non conosce, in quanto tal conflitto non è, vera    pante da tutta la precedente nostra analisi al rigua  non ha nessun contenuto suo proprio,    PES pr  Quindi le ragioni del cuore, se veramente ragioni o  sionevoti, non possono, in realtà, rimanere inascoltate o  7 ligibili per la ragione, sempre che questa, a sua volta, venga presa o intesa in senso astratto, e cioè come  sre meramente raziocinante, e, quindi, affatto « pensosa tutti i 422 concreti offerti alla riflessione dall'esperienza  4 esistenza concreta della nostra vita; giacchè tra espe-  A e ragione vi ha, per noi, profonda identità: l’ espe-‘enza non è che ragione concreta vivente ed agente, e la  gione non è che l’esperienza stessa, astratta e quasi con-emplativa delle sue forme essenziali. È chiaro, adunque, che, per l'umanità, allo stato nor  ale, non può esservi che un solo modo di pensare e di  are: pensare e parlare, non solo in armonia e col con-  degli altri spiriti: Wie spricht ein Gcist zu anderm Geist,  eziandio, in armonia e col concorso delle cose, e cioè  conformità di quella vera esperienza, che è un tutto ra-  nalmente collegato e stretto ad unità, in quanto le funzioni  nostro pensiero, ben lungi dall'essere come, cogli  ionisti, vorrebbero anche i pragmatisti un apparec-  di forme in certo modo falsificatrici della realtà, sono,  vece, non altro, originariamente, che il prolungamento, in  delle funzioni o processi del reale, come ci attesta, evi-  te, la innegabile cooperazione e solidarietà tra la nostra  enza e la realtà delle cose. Si sarebbe, sì, potuto cre-  a tutti i Nietzsche e i James che le forme e  orie del nostro pensiero fossero delle semplici /orgnettes  iali, che noi fuz4iazzo sul reale, solo qualora noi fos-  stati al di fuori o al di sopra della realtà, come un  do di forme vuote, senza contenuto, e cioè fuori di quella LO  sj  à    catena causale universale causa ed effetto e reciprocità |  di tutte le azioni causali che è l’idea stessa della continuità senza iato nè interruzione della vita del reale, secondo L  gli stessi intuizionisti; ma poichè noi facciamo parte di tal  catena, è, dunque, impossibile ammettere che le forme fon» |  damentali del nostro pensiero non si siano formate e non si esplichino i funzione, ad un tempo, della nostra propria  natura e della natura delle cose, da cui non siamo separati,  ma solo emersi per immergerci, conoscitivamente, ogni volta  che ne veniamo fuori. Sicchè a noi non resta che ritenere le i  funzioni o categorie del nostro pensiero come l’ espressione  delle inzer-azioni fra noi e le cose, e cioè i mezzi, direi, di  prendere coscienza delle più diverse azioni reciproche, a cominciare dalla nostra: esse, quindi, non sono solamente la  coscienza della nostra causalità, ma della stessa causalità È  universale; e poichè la causalità è essenza dell’ essere e la sua rivelazione, le categorie non sono che la coscienza stessa  dell'essere, universalizzate sino ad abbracciare tutto l'essere: ovvero la diastole e la sistole della vita universa, perchè  nel cuore stesso della realtà, e non già circum praecordia  rerum.  Infatti, senza di esse, noi non potremmo dire neppure  esistenti le cose, e tanto meno dotate di tale o tal altra maniera di esistere, da tutti affirmabile : togliete, invero, dicemmo anche innanzi l’intelligibilità e l’ insieme dei.  rapporti intelligibili, che formano la realità stessa del reale,  e non resterà di essa che quella inconcepibile astratta poten-  zialità, quella mera 3ivqus del tutto impensabile, che è l'ormai. famoso atto puro di GENTILE (si veda).Il che prova inconfutabilmente che la realtà è assolutamente inconcepibile, astrazion fatta.  di quanto il nostro pensiero vi mette di suo, precisamente. 2 Age con le categorie: onde quella sintesi organica di rapporti  logici in cui, conoscitivamente, consiste il reale. Ora è precisamente questa impossibilità di concepire il  reale senza le forme del nostro pensiero che ci costringe,  inevitabile, a ritenere tali forme come atti intimi della vita  mentale e, ad un tempo, della vita reale immanente alle  cose, a parte anche l’ imprescindibile necessità di ammettere  un'assoluta unità e continuità di divenire o di sviluppo della  realtà; il che, pertanto, viene ad essere confermato, fra  altro, anche da sì fatta inconcepibilità. Per ciò, più che  delle forme astratte, o dei modelli vuoti, ovvero dei « punti  di vista » fotografici isolati come si vorrebbe anche le  categorie sono delle forme viventi e dei modelli flessibili in  cui la realtà entra senza giammai rinchiudervisi : quindi, come  delle vere démarches delle cose, precisamente come la funzione vitale della locomozione è conforme alle leggi obiettive  del movimento, come la funzione dell’ assimilazione nutritiva  è conforme alle leggi fisico-chimiche delle sostanze alimentari e dello sviluppo vitale. E se è pur vero, intanto, che  le forme della nostra esperienza come Kant afferma  dipendono dalla struttura generale dello spirito umano, non  per ciò è lecito all’ intuizionismo ed al pragmatismo di aggiungere, a mo’ di conclusione, che « la struttura dello spirito  umano è l’effetto della libera iniziativa di un certo numero  di spiriti individuali » (2). Giacchè, in realtà, pur potendosi  ammettere che taluni individui, per iniziativa davvero intelligente, ma non già « libera » sì da rimanere sottratta alla  natura delle proprie individuali disposizioni, abbiano introdotto  delle innovazioni, fatte delle scoperte, lasciata la traccia del V. a tal riguardo, G.: Una visione teleologica del manda, Pet.  rella, Napoli BERGSON : Preface de Verité et Réalité di James. Tosh i loro genio nella tradizione, nella lingua e perfino nel cervello della razza, non per ciò rimarrebbe spiegato il /oxdo  della nostra costituzione cerebrale, e cioè, ad esempio, la  rappresentazione del tempo e dello spazio, il principio di  identità e di causalità. Infatti tali principî non vorranno  dirsi, certo, fortunate ipotesi create da uomini intelligenti o  di genio, dato che essi vengono applicati 6 origine da ogni  intelligenza nel suo spontaneo moto di orientamento spiri.  tuale tra le cose e tra gli stessi stati di coscienza: e la  prova assolutamente inconfutabile ci vien data dalla presenza  od esistenza di essi anche negli animali, che non, certo,  parlano. E, veramente, non pochi di essi ad un certo  grado d’altezza nella scala zoologica hanno, con tutta  evidenza, più o meno confusa e concreta la rappresentazione dello spazio e del tempo: tutti, poi, hanno una specie di   credenza pratica e irriflessa nel principio d' identità, in quanto  tutti reagiscono nello stesso modo a delle eccitazioni simili,  e in maniera diversa a stimoli diversi; e tutti, anche, se in  qualche modo capaci di riflettere sulle azioni delle cose e  sulle particolari reazioni da essi opposte, ci danno chiara la testimonianza di questa loro credenza vissuta e vivente: che  ogni cosa ha la sua ragion d' essere, onde la loro tendenza  a cercare le ragioni delle cose nella misura in cui tali ragioni  li interessano, e, talvolta, anche per semplice curiosità. Tutti,  ancora, credono ad una realtà indipendente dalle sensazio vo  ed azioni, ad una correlazione determinata tra le loro sensazioni ed azioni e questa realtà: il gatto [GRICE ETOLOGIA FILOSOFICA] ad esempio che, sulle mosse di rubare del formaggio, sente che arriv  il padrone e si dà a fuggire per tema del bastone, ha Lalli N  il sentimento della pluralità costituita da sè medesimo, da padrone e dal formaggio. Ha, inoltre, il sentimento de  realtà della pressa del suo padrone, della possibilità dell Si  CATO battiture e, in fine, della relazione costante tra la scoperta  del furto e la minaccia delle percosse, oltre che, di conseguenza, la somiglianza tra l’avvenire ed il passato. Il gatto,  adunque, è già schiavo anch’esso delle categorie tanto  descritte dai pragmatisti ed intuizionisti? Esso, infatti, si  permette di distinguere il possibile ed il reale, il passeggero  ed il permanente, il fatto e la causa, l'uno e i più, come se  avesse avuto falsato lo spirito dalla lettura dei Dialoghi dell’ACCADEMIA. Il vero è, dunque, che le forme del nostro pensiero sono  innegabilmente dei punti di contatto tra l'essere ed il pen-  siero, dei mezzi per pensar l'essere e far essere il pensiero,  delle identità tra l' intelligibile ed il reale, e tutte si raccol-  gono nella categoria razionale e reale per eccellenza che è  la ragion d'essere, dato che il divenire della realtà non è,  in fondo, che divenire del pensiero. Il che prova che la  realtà è ciò che è, alla volta, obiettivo e subiettivo: l’unità  delle cose con lo spirito clie le conosce e con l’universo di  cui quelle e questo sono parti costitutive e solidali. È naturale, quindi, che la filosofia non possa restringersi nè al semplice  sforzo come pretende Comte di raggiungere la piena conoscenza del mondo, nè, del pari, all’ altro secondo lo Hegel di raggiungere la piena « coscienza  di sè, perchè i due punti di vista sono veri solo se inseparabili. E ciò è provato ad evidenza dal fatto che quanto  più larga e precisa è la conoscenza che noi abbiamo del  mondo che agisce in noi e sopra di noi, tanto più piena è  la conoscenza che noi veniamo ad avere di noi stessi; e,  per converso, quanto più precisa è la conoscenza di quel tipo di realtà e di intelligenza ch'è in noi, o che siamo noi  stessi onde la virtù, da parte nostra, di concepire ogni altra esistenza ed ogni altro pensiero tanto più perspicua e più sicura è la nostra conoscenza del mondo nella sua  realtà e intelligibilità. Quindi, qual valore può avere una  filosofia, che, annullando l’aspetto obiettivo della realtà, riduca  quest’ultima all'aspetto puramente soggettivo, o, peggio ancora,  alla mera astratta 3ivaus dell’affo $u70, come dicemmo?  E questa profonda unità delle cose con lo spirito e degli  spiriti fra loro è provata, in maniera inconfutabile, proprio  da quel comune sentimento che ci fa credere alla verità - la  quale, infatti, si afferma wniversalmente, come tale, precisa-  mente ed unicamente allorchè si manifesta come unità fra il  nostro pensiero e gli obietti rivelati dalle nostre sensazioni,  e, poscia, fra il nostro pensiero ed il pensiero altrui, che ci rivela le nostre sensazioni. È naturale, quindi, che le nostre  espressioni 0 idee sian da ritenere fermamente come scrigni,  a dir così, in cui si celano, come collane di diamanti, le  leggi, ad un tempo, del pensiero e della natura: e perciò  non sono da buttarsi via dopo l’ istante della loro creazione;  esse, in altri termini, sono delle verità immobili che noi  cercammo sotto il fluire del reale, o sotto la fluidità delle nostre sensazioni. La differenza, infatti, tra una ciliegia ad esempio ed una bacca di belladonna, oltre a non essere  puramente nominale, non è nè pure meramente o individualmente soggettiva, com'è provato dal fatto che, mentre la  prima nutre, l’altra uccide il fanciullo che non riescisse a    rt    distinguerla dalla prima. Perciò ripeto come pretendere che i nostri progenitori avrebbero potuto pensare e parlare  a loro talento, secondo la propria comodità? Allora sì che,  per davvero, non ci sarebbe fanciullo, che, piccolo Descartes, non si sentirebbe, necessariamente, di yewzeltre loul en question, 138 divenendo, così, essi proprio, i fanciulli, i veri creatori della lingua, e tanto più quanto più dimentichi o dispregiatori di ogni eredità sociale o spirituale, e cioè futuristi ad oltranza. Mentre il vero è che, non solo la coscienza comune e  cioè precisamente di quei grandi fanciulli che sono i popoli  nella loro immensa maggioranza di individui non sogna  neppure la possibilità di far della filosofia novatrice o creatrice onde la impossibilità, per esso, di yemettre en question  alcunchè di quanto spiritualmente ha ereditato dai suoi ante-nati, ovvero anche solo di agire alla luce del gran lume  della dea ragione quanto, eziandio, gli stessi filosofi,  avendo appreso da Platone e da Kant della naturale originaria limitatezza del nostro sapere, non si attendono minimamente di porre in dubbio simile verità, e, per ciò contrariamente al Nietsche, e sì, pure, a qualche altro odierno  pensatore fra noi si guardano bene dal ritenere la propria  opinione personale al di sopra delle condizioni universali in  cui essi vivono, e, a meno di esser folli, non pretendono,  certo, di essere dei supermomini. È, dunque, evidente, che le leggi della grammatica, ben  lungi dall'essere forme arbitrarie del nostro pensiero, sono,  invece, espressioni il più possibile adeguate e indispensabil-  mente zecessarie delle proprie sue leggi, risultanti, tali espres-  sioni, dalla congruenza attiva e costante collaborazione del  nostro pensiero colla natura e col gruppo umano di cui  siamo parte. E, si noti bene, tale collaborazione onde la  fissità ed universalità del linguaggio, nella immutabilità e universalità delle sue espressioni e delle sue forme logico-grammaticali non riesce punto come piace di opporre  agl'intuizionisti a ricoprire i nostri stati d’ animo più  personali come di una guaina impersonale fabbricata dalla  società. In verità, questa preoccupazione avvertita prima e  più di ogni altro da Bergson è priva di ogni fondamento,  in quanto i rigidi comuni schemi delle forme logico-grammaticali in cui il pensiero, come contenuto rappresentativo, deve  poter essere constretto, qualora voglia essere, davvero, strumento di conoscenza, se valgono, per l’ appunto, ad acqui. stargli in quanto tale valore universale e necessario  che altrimenti, abbiam detto, non avrebbe, e non potrebbe  in niun altro modo avere non riescono, peraltro, ad impedire affatto, anzi nè pure minimamente ostacolare, in quel È  suo moto spirituale verso la conoscenza delle cose, la naturale  incomprimibile sua /endenza alla forma soggettiva. E, in realtà, vi ha, per caso, corrente di pensiero che non presenti delle  particolarità che la distinguano nettamente da quella dello  stesso pensiero presso altri soggetti conoscenti? Senza pur  dire che la stessa particolare corrente di pensiero, che è È  propria di ognuno di noi, può, con tutta facilità, variare da  un tempo all’altro. E tali particolarità, che costituiscono ‘accennavamo come una frangia od alone del pensiero,  possono paragonarsi a quello che sono gli ipertoni rispetto p  al tono, per cui strumenti diversi possono riprodurre diversamente lo stesso tono: ed il motto comune /o stile è l' uomo  vuol esprimere, per l’ appunto, questa qualità individuale, 0, A  dirò così, particolare colorito espressivo, che il pensiero, pur È  nella medesimezza del suo valore oggettivo, 0 significato  rappresentativo, tende ad assumere presso le singole menti,  onde la facilità con cui noi riusciamo a distinguere o riconoscere, come se le avessimo davvero incontrate, od avute _  famigliari, oltre che le creature di ALIGHIERI (si veda0 e di Shakespeare,  e le figure di VINCI (si veda) e del Rembrandt, e i motivi di Beethoven e del Wagner, le immagini, altresì, rampollate da  una medesima sorgente spirituale d'ispirazione e recanti, |  quindi, una medesima impronta dele, come l’immagine dell'amore cantato da Dante nella Vita Nuova, e quel  offertaci da tutti gli altri poeti del dolce stil nuovo, non meno  de Tue che da Petrarca nel suo Carzorziere e da Shelley nel suo Epipsychidion ecc. Ed, anzi, quanto più netta e rilevata è  la personalità del soggetto conoscente, tanto più chiaro e  inconfondibile è il colorito espressivo delle sue creazioni  intuitive. E poichè, pertanto, tal colorito raggiunge la più  singolare sua tonalità individuale e la più sicura sua espres-  sione caratteristica proprio nell’ àmbito della coltura dove,  appunto, vige assoluto l’imperio delle forme Jogico-gramma-  ticali, più che nell'àmbito di quella esperienza comune, in  cui, invece, è quasi completa /’assezza di tali forme, ragione  per cui il parlare di due persone volgari od incolte presenta  una uniformità o identità formale di espressione che invano  noi cercheremo nel parlare di due persone colte, e più invano  ancora se, per giunta, di diversa educazione mentale, come  un valente letterato ed un grande scienziato  non è gioco- forza concludere che le forme logico-grammaticali, ben lungi dal distruggere o comprimere, comunque, la naturale tendenza  del pensiero alla forma soggettiva, son proprio quelle, invece, che, mediante, appunto, la infinita loro varietà d'intreccio, ed intreccio infinitamente variabile, offrono al pensiero di  ogni singolo soggetto conoscente la più larga possibilità di  rivelare ed affermare quella sua tendenza, nel tempo stesso  che prendono ad acquistare alle sue intuizioni un valore  universale e necessario?  Altrimenti come spiegare che cotale tendenza, se non  manca del tutto, è, senza dubbio, punto punto rimarchevole nelle espressioni delle persone incolte,  e manca, altresì, nei fanciulli, che, al pari di queste, igno-  rano ancora l’uso delle forme logico-grammaticali? In ogni  modo, non si può negare che pensare significa, in un certo  senso, scegliere: e noi scegliamo, infatti, così nel ragionamento, in cui cerchiamo come il punto di passaggio da un pensiero all'altro, come nelle intuizioni, cercando gl’elementi necessarî maggiormente  rappresentativi, ed eliminando gli insignificanti. E proprio in  sì fatta scelta, colla genialità della potenza intuitiva del soggetto conoscente, si rivela, altresì, e con non minore evidenza,  la particolare tendenza espressiva di esso; giacchè tale tendenza si rivela precisamente nel configurare (e cioè coordi-  nare e subordinare ch’esso fa) quegli elementi alla stregua,  dirò, di un comune denominatore (e cioè dell’ essenza del  reale che è obietto dell’ intuizione, od anche solo di quel  particolare aspetto di esso che si vuole porre in rilievo), e  colorirli, altresì, d'un medesimo zoro (quello offerto od im-  posto dal carattere sentimentale proprio del soggetto conoscente). Ed ecco, in tal modo,  per dirla con parole di  Croce stesso la ballatella di Cavalcanti ed il sonetto di Angiolieri, che sembrano il sospiro o il riso di un È  istante; la Commedia d’ALIGHIERI (si veda), che pare riassumere in sè  un millennio dello spirito umano; le Maccheronee di Merlin  Cocaio, che sghignazzano sul Medio Evo tramontante; la elegante traduzione cinquecentesca dell’Ewesde di Caro; l’asciutta prosa di Sarpi e quella gesuitica frondosa di Bartoli. Nessuna meraviglia, quindi, che cotal forma di pene.  sare, propria di ognuno di noi, si rifletta persino nei singoli È  frammenti delle nostre serie di pensieri, come non di rado ci provano quegli elaborati 4 mosaico di qualche alunno, nei  quali la varietà di stile dei diversi autori, i cui brani di.  pensiero concorsero alla formazione di tal mosaico, si mos Breviario che noi proviamo all’ improvviso apparire di una parola od  espressione di lingua straniera nella nostra, non devesi, forse,  alla interrotta uniformità di stile o colorito espressivo ? E non  è questa, altresi, la causa della gradevole sorpresa o disgusto,  che, lungo il procedere discorsivo proprio di una scienza, ci  procura così l’ incontro di frasi tutte proprie del dizionario  di un’altra scienza, inserite o non a proposito, come l’uso  di forme di ragionamento estraneo alla sua tecnica logica,  dato che ogni scienza, anche, ne possiede una? E la mescolanza del parlare volgare col letterario non ci procura anch’essa disgusto per la medesima ragione? Ora, se cotal naturale e, veramente, insopprimibile  tendenza del pensiero a forme espressive individualmente  caratteristiche o caratteristicamente individuali, pur nella loro  universale intelligibilità, riesce ad affermarsi e raggiungere  le più tipiche o singolari sue forme espressive precisamente  nel campo della coltura, in cui il rispetto alle forme della  grammatica e della sintassi è, come sappiamo, condizione  sine qua non per l'accessit in esso dei soggetti conoscenti,  non si deve, per ciò stesso, riconoscere senz'altro, che sì fatte  norme sono, per lo meno, ben lontane dall’oscurare od assorbire, nella loro universale uniformità, il particolare colorito  espressivo di ogni singolo soggetto conoscente ? E ciò stesso  non ci obbliga, d'altro canto, ad escludere, altresì, che esse possano essere, o siano meri giochi di artifizio, od anche  forme puramente convenzionali da noi arbitrariamente imposte  al pensiero? Giacchè, senza dubbio, in tal caso come  giustamente opinano gl’ intuizionisti esse sarebbero riu-scite o bene riuscirebbero come ne fan prova le forme  artificiose del Volapik dell’Esperanto e DEUTERO-ESPERANTO, e dell’ Interlingua  ad impedire l’aftermarsi ed esplicarsi della tendenza del pensiero alla forma soggettiva, pur riuscendo questa ad estrinsecarsi è tutto dire anche nei casi di natura patologica,  I quali, invero, a dissoluzione compiuta della personalità  normale ci fanno assistere, con tutta evidenza, alla for- o  mazione di nuove personalità, che, indeterminate dapprima,  si vanno, poscia, progressivamente affermando, fino ad assu-  mere fisonomie del tutto diverse dall'antica, e nei soggetti  ipnotici, poi, l'assunzione di fisonomie nuove si mostra pos:  sibile anche dietro la semplice adozione di un nome. Or tutto.  ciò non deve necessariamente convincerci della naturale ragion  d'essere delle forme logico-grammaticali, onde l'estrema assurdità della pretesa di Croce di volerle soppresse;  il che egli credette di poter fare vietando, con un tratto  penna, l'insegnamento della grammatica nelle nostre scuole?  Pretesa che, certo, non sarebbe nè pur balenata alla sua  mente, se questa avesse avuto il potere di accorgersi che sì  fatte forme, oltre che esigenze fondamentali imprescindibili  per la funzione d'intelligibilità del pensiero, sono, altresì, il  fondamento stesso della esistenza di quest'ultimo, in quanto,  appunto, condizioni e termini, ad un tempo, del nostro fersare?  Infatti, non riuscimmo noi a provare innanzi che le forme  logico-grammaticali altro non sono e non vogliono essere,  in sostanza, che espressioni pure e semplici delle relazioni 0!  rapporti che intercedono tra le cose, o tra i singoli elementi  di esse, così come le singole voci o parole non sono che i  termini puramente drdicazivi di esse cose, o dei singoli loro  elementi? E come potrebbe, adunque, darsi conoscenza i  intuizione di una qualsiasi cosa fuori, appunto, delle  relazioni con altre cose, o dei rapporti che intercedono  i suoi stessi elementi (70%), sì che possa ritenersi, cotalé  intuizione, tutt'altra cosa che una sintesi, appunto, ri  mente coerente di rapporti logici? E se, adunque, cote  rapporti sono, con tutta evidenza, i so/é termini del nos TORRE pensare, non è, perciò, da ricercarsi unicamente nella loro  netta distinzione e preciso loro significato, o valore logico,  la più netta e precisa intelligibilità della realtà? Nessuno,  infatti, ignora la confusione od oscurità che, immancabile,  procura al pensiero la insufficiente distinzione formale del  valore logico-grammaticale di qualche termine del nostro  pensare, come, ad esempio, quella che ricorre nel famoso  responso dell'oracolo a Pirro, che gli ha chiesto se sarebbe riuscito vincitore nella guerra contro i Romani: Aio te, Aeacide, Romanos vincere posse. E ciò per di più accade non solo in rapporto  al valore logico delle espressioni, e cioè in tutti i casi che  diciamo d’ANFIBOLOGIA, ma in rapporto, altresì, allo stesso SIGNIFICATO intuitivo della parola, e cioè anche nei casi in cui  questa possiede UN DOPPIO SIGNIFICATO, onde la famosa quanto ironica lode al debito di Berni: Debito è fare altrui le  cose oneste  dunque fare il debito è far bene. Non  solo: ma lo stesso ORDINE DELLE PAROLE nel discorso non  asconde anch'esso il suo valore logico? Quante volte, infatti,  il predicato non occupa esso il posto del soggetto, per richiamare su di sè l’attenzione e porre, quindi, in vista tutto il valore in esso riposto dal pensiero? Valgano di esempio le  seguenti espressioni. Mobile e grande, veramente, la persona del Re!; e/ix qui potuit rerum cognoscere causas. Spesso, ancora, il predicato logico è il soggetto grammaticale o l'aggettivo che l’accompagna: « 7% sei l'uomo! Tutti gli invitati sono arrivati, per dire appunto che  gli invitati che sono arrivati sono ## quelli che erano attesi. Invece nella frase, il danaro è dentro lo scrittoio,  quali dei tre elementi può dirsi preponderante o di maggior rilievo? Non si sa, perchè potrebbe essere così il primo (danaro), come il secondo (dentro), come anche il terzo (scrittoio). Tutto sta nel cogliere od indovinare il pensiero o L’INTENZIONE intenzione di colui che parla [GRICE, UTTERER’S MEANING]; ma dicendo io: è dentro ll  scrittoio il danaro, chi non comprende che l'elemento essenziale è, qui, scrittoio? Ma potrebb’essere anche dezzro.  non ricorriamo, per ciò, in sì fatti casi, e cioè in manca È.  di una qualsiasi specificazione anche in ordine al posto occupato dalla parola nel discorso, ad una particolare accentuazione o zoro, col quale prendiamo ad esprimere o pronunciare  la parola in questione, e cioè, nell'esempio addotto, accentuando la voce su denaro, dentro, o scrittoto? [GRICE: IMPLICATURES OF STRESS]. E se, adunque  l’intelligenza ha dovuto ricorrere fino a simili SOTTIGLIEZZE [IMPLICATURE] pe  rendere la lingua più che mai duttile e perfettamente obbediente ai più lievi moti del pensiero, non è semplicementi  assurdo e ridevole, insieme, chiedere come fanno gl’intuizionisti l'abolizione addirittura delle forme sin  tico-grammaticali per l’espressione del nostro pensiero? E  tuttavia, il tentativo di cotal soppressione non è stato, fors  già, magnificamente compiuto dai rappresentanti del futurismo? E con quale risultato, per la funzione intelligibile del pensiero, sa molto bene chiunque abbia avuto occasione di ammirare qualche saggio dei prodotti artistici di questa nuova  letteratura, il cui merito è precisamente nella mapei imintelligibilità delle loro espressioni. È  Qual meraviglia, quindi, che, in sì fatto caso, co  espressioni, appunto perchè asso/uiamente individuali ri  gano, per davvero, assolutamente intraducibili ed inclascabili? Ma è, dunque, sol perchè zrsntelligibili, come noi affrettammo a dichiarare innanzi: onde la conseguenza tangibile, ora, che l'elemento veramente intraducibile  in una forma di conoscenza dichiarata universale e necessaria, non può essere, e non è, che unicamente e precisimente il particolare COLORITO ESPRESSIVO [FARBUNG – GRICE] di ogni singolo soggetto  conoscente, val quanto dire unicamente la sua forma mentis,  e non già pure il corzerzto oggettivo delle sue espressioni  o intuizioni, come sostiene Croce. Altrimenti saremmo costretti a chiedergli perchè egli, pur convinto dell’assoluta  impossibilità di renderci, comunque, anche IL SIGNIFICATO ideale  delle immagini estetiche, oltre che la loro forma o COLORITO ESPRESSIVO, potè, nondimeno, decidersi al tentativo di darci  la traduzione sia qualsivoglia il valore di questa di  talune liriche di Goethe: ed in tal caso a lui non rimarrebbe che: o riconoscere semplicemente pazzesco tal suo  tentativo appunto perchè senza scopo di sorta; oppure  confessare il proposito, da parte sua, di darci, a fianco o di È  fronte all'opera d’arte dell’Apollo Musagete della Germania, DI  un’altra opera d’arte non meno grande e perfetta di quella, E  E sia pure: ma perchè, intanto, credette di far passare s0//0  il nome del Goethe il contenuto ideale di quelle sue tradu-zioni, e non già sozto il proprio suo nome, se vero è che, col i  mutar dell’originaria forma espressiva di un’opera d’arte, pi.  muta, altresì, il proprio contenuto rappresentativo? È se,  pertanto, Croce crede di attribuire al Goethe e non a  sè i fantasmi ideali o l’ideale fantastico espresso da ognuna i  di quelle liriche da lui tradotte, non, forse, ciò stesso vuol È  | significare, anzi testimoniare, che l’intraducibilità è solo della È  forma espressiva e non già pure del suo CONTENUTO RAPPRESENTATIVO [GRICE, CONTENUTO PROPOSIZIONALE], se questo vien senz'altro riconosciuto e dichiarato dell’azzore e non già del traduttore? Se così, di fatti, non vaemtetizizo    fosse, con qual miracolo di pensiero, egli proprio, accanito    bi | assertore e propugnatore di cotal peregrina teoria dell’asso-  luta intraducibilità del pensiero altrui, sarebbe mai giunto,  poi, sino a distinguere addirittura dei cicli progressivi «i SENO  di prodotti estetici inerenti ad una « wedesima materia », R  =*  sf  Da  = LL come ad esempio  la materia cavalleresca durante  la rinascenza italiana da Pulci ad Ariosto? Mentre, a  rimanere strettamente fermi o coerenti con la sua teoria, noi,  non solo non dovremmo assolutamente poter distinguere 7224/%  di nulla in un'opera d’arte, ma neppure la szessa maderia di  un'opera da quella di un’altra; fino al punto che, qualsi  distinzione come, ad esempio, quella di attribuire il con-  tenuto del Decamerone a Francesco d’ Assisi e quello dei  Fioretti a BOCCACCIO (si veda) sarebbe la più naturale e  bene informata di questo mondo, precisamente come la su  contraria ? È questo, infatti, l’assurdo, possiam dire tangibile,  cui direttamente mena » della.  sua dottrina estetica? Il che è tanto vero che proprio io  mancato riconoscimento del valore gnoseologico di tal prin-  cipio ha tratto Croce il preteso interprete autorizzato |  della dottrina vichiana : autorizzato a giudizio suo proprio,  o di chiunque si voglia a non comprendere aftatto nulla  di tale dottrina, posto ch'egli è riuscito non solo a falsarla  nell'intimo e vero suo significato, quanto a spogliarla, altresì,  di tutto il suo valore filosofico. E mi darò a provare ciò  rapidissimamente, con l’opera di Vico in una mano, e quella 3  di Croce nell’altra, sì che ognuno abbia modo di convin-  cersi, ancora una volta, come, in realtà, sia proprio nell’  abito mentale di quest'ultimo interpetrare @ suo 2040, e cioè |  nella maniera più capricciosa ed arbitraria per le ragioni |  più volte dette innanzi il pensiero degli scrittori di cui| si occupa, e specie allorquando l’opera di questi rientra più  direttamente, od essenzialmente, nel dominio dell’arte, o delle  dottrine estetiche. Mi affretto per ciò ad iniziare senz’ altro  l'esposizione del pensiero vichiano, rivolgendomi in particolar  modo a coloro che non hanno avuto occasione di leggere ji  la Scienza Nuova ; ragione per cui comincio proprio come  Vico col ricordare loro la necessità o bisogno da questi  avvertito prima di entrare nella diretta trattazione dell’opera sua di far notare al lettore come il sistema naturale del diritto delle nazioni di tutti e tre i più celebri |  uomini del suo tempo Grozio, Seldeno e Pufendorfio  debba a parere di lui  il suo più grave difetto al fatto.  che nessuno dei tre pensò stabilirlo sopra la Provvedenza divina. Mentre si sa che, per scuoprire sicuramente | le vere e finora nascoste origini » di cotal dritto, che investe Principi di Scienza Nuova; a cura di Ferrari, Milano, e concerne religione, lingue, costumanze, legge, società, g0-  verno, domicilio, commerci, ordini, imperj, giudici, pene, guerra,  pace, rese, schiaviti, allianse, insomma duéte le cose divine e umane, occorre, anzitutto, ed imprescindibilmente, ricercare  ed ammettere l’idea di un ordine universale ed eterno. Altrimenti, come spiegare quel senso comune del genere  umano, o che è lo stesso quella certa mente  umana delle nazioni, che, usando per me227 quegli  particolari fini perseguiti dai singoli individui e « per i  quali essi andrebbero a perdersi », dispone tai fini, fuori  e bene spesso contro ogni proposito degl’individui  stessi, a un fine wziversale? Non è, quindi, da me-  ravigliare che cotale /dea, sotto l'aspetto, appunto, di Pyrovvedenza ordinatrice di tutto il diritto natural delle nazioni,  debba necessariamente rimanere /a fri2a o principal  fondamento di ogni qualunque lavoro » del genere, e,  per ciò, essa non manca, e tale si dimostra per tutta  l’opera sua.   Si noti, però, che, in quanto tale, essa non può, natu-  ralmente, non possedere due propietà primarie, che sono:  una /’immutabilità (o necessità ch'è lo stesso) l’altra /’uzs-versalità; giacchè solo in forza di codeste proprietà potè  venir concesso ad essa « Provvedenza, o Divina architetta [cf GRICE INGENGNERO] di mandar fuori il mondo delle nazioni colla regola  della sapienza volgare: e cioè di quel senso comune come dicemmo di ciascun popolo o nazione, che rego.  la nostra vita socievole in tutte le nostre umane azioni, così  che facciano acconcezza in ciò che ne sentono comunemente  tutti di quel popolo o nazione. La convenienza, poscia di questi sensi comuni di popoli o nazioni tra loro tutte è  la sapienza del genere umano. La quale, per ciò,  mane, evidentemente, come il principio informatore delle  utilità o necessità umane uniformemente comuni a tutte le particolari nature degl’uomini: il frutto avrebbe.  qui detto lo Hegel dell'ASTUZIA [GRICE CUNNING] della ragione. Giacchè, n  sostanza, cotal principio universale, o Divina Provvi-  denza, non è, pel nostro, che, per l'appunto, / agwadità  dell'umana ragione in tutti, ch'è la vera ed eterna natu  umana: val quanto dire, più semplicemente, 2°  dello spirito, il quale soltanto, in verità, è il princi  reale ed assoluto che informa e dà vita a questo mondo  di Nazioni.   E, poichè, intanto, la lingua è l’espressione più univer.  salmente intelligibile e sicura dell'attività spirituale, è  turale e conseguente ammettere, che, qualora essa voglia  rimaner, davvero, una forma espressiva wrzversalmente e e-  cessariamente intelligibile, debba recare quei due medesir  caratteri, o froprietà primarie, riconosciute all’attività spi  tuale. Onde la necessità  intesa bene da Vico  di  collegare com'egli fa i due motti che per lui voglio  rispettivamente esprimere il carattere di universalità e ne    di  Cfr. anche Degnità: «Il senso comune è un giudi;  senza alcuna rifessione, comunemente sezzizo di tutto un ordine, da tutto |  popolo, da tutta una Nazione, o da tutto il Genere wmano. Principi di Scienza Nuova°, Ed. Truffi  Milano J  N  i    CI    EPA AR,  i Da cessità del LINGUAGGIO: «a /ove principium Musae   col   quale, addirittura, egli apre la Scienza Nuova — e « as   gentium, © sia la favella immutabile delle nazioni », a quell’altro motto, espressivo dell'universal principio ch'è lo spirito :  Jovis omnia plena.  Ed ecco, così, nell’ « Z4ea tutta chiusa in questi tre  motti i*primi due dei quali, già, possono dirsi bene sottintesi, o sinteticamente ricompresi dall’ ultimo quella  chiave maestra, l’espressione per immagini allegoriche,  col suo mirabile segreto, il carattere di unzversalità,  che ci consente, senza dubbio, la più coerente e stupenda  visione sistematica di tutto quel complesso di verità e prove   ti di fatto intorno all'origine, essenza e sviluppo della lingua,  che ci rivela e dette, davvero, una scienza z%ova.  E, in realtà, non si può negare che il carattere o va-lore intelligibile della lingua o della conoscenza intuitiva, ch’è lo stesso, è strettamente dipendente e correlativo alle modificazioni della nostra medesima Mente umana.  E poichè questa raggiunge il suo pieno sviluppo a traverso  tre fasi — che preannunziano i #re stati di Comte, non  sono, per ciò stesso, da ammettere tre diverse forme o gradi  di conoscenza poetica o intuitiva? Quella della prima età,  detta « divina », in quanto comincia dagli Dei, « con  gli auspici di Giove, e, fatta, per ciò, tutta di « parlari  divini ritruovati dai Poeti Teologhi, che ben « s' inten-  devano del parlare dei Dei. E quest'età continuandosi  in un secondo momento — per g/i ZEro:, dette  luogo alla sapienza eroica, per ricongiungersi, infine, col tempo storico certo delle nazioni; tempo in cui si . ù  =  o dda ebbero, appunto, quei parlari per rapporti naturali, che  dipingono descrivendo le cose medesime che si vogliono esprimere: della qual lingua si ritruovarono già forniti i Dopo  greci a’tempi d’Omero. i  Ora Croce non ha del tutto schernevolmente quanto  inconsapevolmente negato ogni valore filosofico a codesta distinzione do Vico, distinzione che pure involgé od esprime, |  in realtà, la norma e forma, insieme, veramente fondamentale ond'è governato e si esplica lo sviluppo della cono-  scenza, e rimane, altresì, una delle più comuni verità della.  nostra esperienza ? Infatti, che cosa vuol dire, qui, il Vico,  tenendo bene presenti le premesse da noi dianzi a bella.  posta richiamate della sua dottrina ? Semplicemente questo.  com’egli, poscia, in lungo e in largo si affretta a chife  rire e dimostrare lungo tutta l’opera sua: che i primi  uomini, privi ancora di favella, o di par/ari convenuti, non  potevano, naturalmente, intendersi fra loro che ricorrendo precisamente come i Mutoli  a cose ed atti che  avevano NATURALI RAPPORTI ALL’IDEE CHE ESSI VOLEVANO SIGNIFICARE, come, per l’ appunto, ci provano le cinque parole  reali con cui Idantura, Re degli Sciti, risponde a Dario Maggiore, che gli aveva intimato guerra Man man. E qui, molto acutamente, Vico nota: e avvenne che quasi tutti i popoli della Grecia ognun pretese essere Omero s  cittadino, è appunto perchè, avendo questi /essuzo i suoi poemi con i mig  parlari di tutta la Grecia, ciascun popolo avvertì in questi poemi i suoi nai  parlari, onde ritenne Omero della propria terra: il che val quanto dire:  carattere più universalmente espressivo acquistato, appunto, dalla lingua quest’ultimo in confronto di quella di ogni altro del suo tempo. Le cinque parole reali furono: una ranocchia, un topo, un uccello,  dente d’aratro ed un arco da saettare. La ranocchia significava ch’ esso  nato dalla terra della Scizia, come dalla terra nascono, piovendo 1’està,  ranocchie e di esser figliuolo di quella Terra ; il 4050 significa, esso €  topo dov'era nato, aversi fatto la casa, cioè aversi fondato la gente; /’wece SME però, il genere umano, venendo in possesso della favella,  cominciò a sostituire alle immagini yea/ delle cose le immagini 272424ve di esse. E però s'intende di leggieri queste non sarebbero mai potuto divenire mecessaziamente intelligibili fer #/#, qualora non avessero avuto a fondamento  un'idea universale, 0 un pensiero (a tutti) comune, come,  per l'appunto, una qualche cognizione di Dio o della Divina  Provvedenza, di cui, certo, essuzo andava privo. E quale  idea o cognizione più generalmente nota, o a tutti comune,  di quella di Giove, dato che «7 primi popoli erano incapaci  d’universali? Ed ecco, ora, svelato a pieno, e in tutto  il suo valore gnoseologico, il segreto della chiave maestra dell’opera vichiana: l’idea della divinità, in funzione di categoria dell'uzzversale, pel suo carattere appunto di universalità.  E così Giove nacque in Poesia naturalmente Carattere Divino significa, avere in esso gli auspici, cioè, che non era ad altri soggetto che  a Dio; l’aratro significa aver esso ridutto quelle terre a coltura, e di averle  dome, e fatte sue con la forza, e finalmente l’arco da saeffare significava  ch’esso aveva nella Scizia il sommo imperio dell’armi da doverla e poterla  difendere. In conclusione, egli, Dario, « contro la ragione delle genti », gli  avrebbe portata la guerra. Veggasi Degnîtà LVII, in fine: Alla qual FAVELLA (FABVLA) NATURALE (per atti  o scopi, ch’avevano zazzrali rapporti all’ idee ch’essi volevano significare) do-  vette succedere la locuzion Poetica per immagini, somiglianze, comparazioni, e naturali propietà. Questa Degnità è anche il principio dei geroglifici,  coi quali si trovano aver parlato tutte le nazioni, nella loro prima barbarie. E cfr. anche Degnità: Zdee uniformi nate appo  întieri popoli tra essi loro #0n conosciuti debbono avere un mwofivo comune di  vero. Ed altrove: Col carattere divino di Giove, che fu il primo di tutti î  pensieri umani della gentilità, incominciò parimenti a formarsi la /ineua articolata con l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i fanciullini: ed esso Giove è da’ Latini dal Yragor del tuono detto dapprima  Iovis; dal fischio del fw/mine, da’greci è detto Zi03; dal suono che dà il  fuoco, ove brucia, dagli oriertali dovett'essere detto Ur; onde venne Urim,  la potenza del fuoco, dalla quale stessa ragione dovett' a’greci venir detto  Odpavés il Cielo, ed a' Latini il verbo Uro bruciare. E così via ancora, per  lunghe pagine. Ù in alte pet ST-PTRE WEST] gie tificazione, del segno con la cosa significata, per cui non  da meravigliare sia accaduto che il significato immaginativo  della radice e noi avemmo testè occasione di convincercene sia riuscito a cancellarsi, per non esprimere, poscia,  la parola, che il concetto. Non solo: ma giunto il pensiero.  a sì fatto grado di sviluppo, e cioè a liberarsi da qualsiasi,  schiavità rispetto alle immagini sensibili, e divenuto, per ciò |  stesso, padrone assoluto del materiale della conoscenza, è  naturale che la parola, oltre che ogni traccia del significato  radicale, venga a perdere, anche, ogni autonomia, col pren  dere a significare unicamente ciò che al pensiero importa  che significhi : diventa, cioè, quello stesso che è IL SEGNO algebrico, perchè il concetto rimane, così, definitivamente  fissato nella sua generalità; nè basta ancora: chè essa)  acquista, altresì, la capacità di divenire il soggetto di tutti.  nessi possibili, appunto perchè scomparso in esso quel SIGNIFICATO RADICALE, che, presente ancora, avrebbe ciò reso impossibile, o non poco difficile.  Si spiega, quindi, chiaro, adesso, perchè, nell’ascoltari  un discorso come innanzi osservammo  noi, ben lungi  dal tradurre le parole in immagini della fantasia  il che  darebbe luogo è facile supporre a quale tumulto e confusione  nella mente!  riusciamo ad afferrare immediatamente, e  con tutta precisione € determinatezza, il senso di esso. Come, quindi, la duttilità della lingua, e cioè la  scente sua perfezione e precisione come strumento d  conoscenza, non devesi essenzialmente all’ intelligenza?  noti bene Croce che NON È PER ARTIFIZIO, o per la natura tut  propria dell’Aomo faer come assevera Bergson  la lingua diventa, progressivamente, strumento di conosc  o attività veramente conoscitiva, col progressivo  svilu  dell'attività razionale; così come non è per artifizio o STE priccio che il bambino pure, coll’affermarsi anche progressivamente del potere della ragione, viene via via dispogliandosi  di tutti i più bassi ed oscuri suoi istinti; ma unicamente e  necessariamente perchè solo a mezzo dell'attività razionale e cioè in quanto %omo sapiens : la pensi pure al contrario  il Bergson  è consentito alla coscienza umana di elevarsi  dal mondo della sensibilità a quel mondo di valori, che  è appunto il mondo dello spirito: condizione essa appunto, la  razionalità, di tutti i valori, perchè condizione size gua won  della vita stessa dello spirito. Ora, poichè l’arte  per affermazione di Croce stesso  è il fondamento del mondo dello spirito, in quanto, difatti,  non si può revocare in dubbio, che la espressione per 77224-  gini, o poesia, è, « per necessità di natura, e lo provammo  bene innanzi la prima operazione della mente umana »,  e per ciò « la lingua materna del genere umano », si può,  eo ipso, concludere col Croce che gli uomini tutti debbono  ritenersi poeti ad un modo?   Eppure, oltre la grave fondamentale difficoltà, che in ma-  niera fix che mai varia, pei singoli soggetti conoscenti,  oppone la insufficiente esperienza, che, in generale, noi si ha  della vita interna delle cose, perchè ci fosse dato di cogliere  ad un modo la individualità vera e propria di esse o della vita  intima del reale  come innanzi ampiamente mostrammo,  non, fors’ anche,  giusto l’ altro grave impedimento posto  in luce dal Bergson fra la natura e noi (che dico? fra  noi e la nostra coscienza) s'interpone un velo, velo spesso per gl’uomini comuni, velo leggero, quasi trasparente per  l'artista ed il poeta? Quel velo che, impedendoci, ‘naturalmente, di farci vedere  e comprendere le cose per sè stesse, ce le mostra, invece, 7 Riso pp. 142-143; Laterza, Bari; .  ea DETTO,  \  o  VI d   Y A  Ti,  A TRES unicamente sotto il rapporto che esse hanno coi nostri  bisogni, e punto, già, nel loro naturale clinanzer, o tendenza che le trae a perseverare nel proprio essere. Di guisa che,  di solito, noi non vediamo e sentiamo del mondo esterno |  che solo ciò che i nostri sensi ne traggono per illuminare.  la nostra condotta, e, quindi, essi non ci danno della realtà che una semplificazione pratica », così come noi non conosciamo, ugualmente, di noi stessi « che quello che affiora alla  superficie e prende parte all’azione, e cioè non altro che È  lo spiegamento esterno della nostra coscienza, e non già i nostri stati d'animo che si nascondono a noi in quello che i  hanno di intimo, di personale, di originalmente vissuto (1 e.  Di conseguenza noi saremmo stati realmente Zulli artisti, solo se la realtà avesse preso a co/pire direttamente i  nostri sensi e la nostra coscienza », e, quindi, fossimo potuto. entrare in comunicazione immediata con le cose e noi stessi »,  giacchè, in tal caso, la nostra anima sarebbe riuscita a vibrare all’ unisono con la natura. E come, in realtà, negare che codesto velo abitualmente  ed istintivamente  se non fatalmente e inevitabilmente, secondo  il Bergson si interpone davvero tra la natura e noi, e fra.  noi e la nostra coscienza, ed è spesso, certo, fra gli uomini  comuni, e leggero e quasi trasparente per gli artisti e poeti,  per non ritenere tangibile, a dir così, l’ assurdità dell’ affe  mazione crociana: che noi si sia #ut: poeti, e ad un modo   E sì che è anche comunemente noto, in quanto cano  fondamentale per l’arte e per la vita di essa,  e da Cr  per giunta, come da niun altro, forse, di continuo ricordai   che l’opera d’arte dev'essere spoglia di ogni fine inter  .  2190902  sato che non fosse, appunto, la più adeguata e genuina  espressione o rivelazione della vita intima del Reale, ragione  per cui diciamo, a tal proposito: che l’arte uéto fa e nulla  si scopre, se non appunto tale intimità di vita delle cose. E allora? i Allora risulta in ogni modo evidente, che se Croce che pure ha scritto un enorme trattato di Logica  avesse  avuto una cognizione chiara ed esatta dei processi logici onde il  nostro pensiero tende  come ampiamente vedemmo innanzi ad affermarsi, appunto, compiuto e coerente organismo logico, indubbiamente, prima stesso di negare ogni valore alle forme  grammaticali del linguaggio, egli si sarebbe ben guardato  di non riconoscere alcun valore alla distinzione delle tre fasi  di sviluppo dell'attività conoscitiva. Fasi, che, in verità, noi  possiamo ridurre senz'altro a due, in quanto, produttrici  entrambe, le due prime, d’espressioni per #rasporto o metaforiche, la distinzione fra esse viene ad essere, naturalmente,  puramente empirica: e, per ciò, mentre l’una  sintesi delle due  prime  rimane creatrice di roi poetici: frutto, appunto,  d’intuizioni per serzgdianza di cose conosciute ; l’altra affermasi  creatrice d'immagini proprie: frutto di diretta intuizione della  realtà. Ora, con tal riconoscimento, è chiaro che il pensiero  crociano avrebbe evitato senz’altro di cadere in una posizione  davvero sconciamente contradittoria. Giacchè, mentre, da  un lato, egli ammette bene, col Vico, che alle origini il  pensiero umano, non saffiendo la causa delle cose, non  può, di zecessità, non intuire o concepire la realtà che per  immagini (e solo metaforiche, già), ragione per cui l’uomo  non può, originariamente, non essere foeta (e cioè facitore  appunto o creatore d' 272722g7777,come udremo più in là proprio  dal nostro), dall’ altro, contrariamente al Vico, e, quindi, in  Fi    RARO VAL    ARE    cn    pp o ped Be 5 iti vien ile   x    he Masi RUE ITA TIA RITA  fg AI #i% Mes E contradizione con tali premesse, prende senz’ altro a concludere che l’arte (frutto, adunque, per quest’ultimo, della  seconda fase di sviluppo del pensiero, o, possiamo dir pure,  del secondo momento dialettico del pensiero, in sintesi, già,  col primo, giacchè solo allora, in verità, esso riesce a creare  l’immagini proprie delle cose o della realtà) è « il momento È della barbarie e ingenuità dello spirito: come dire quel  tale « persar da bestie », tutto proprio di quel primo momento, in cui, per recessità di natura,  € necessità insuperabile  lo spirito non può creare che per simzglianza di cose conosciute, e, per ciò, non altro che #raslati. E cioè quei tali tropi poetici, o immagini metaforiche, o figure retoriche,  che nessuno, mai, più recisamente e convintamente di Croce  ha dichiarato zon arte, anzi addirittura arzzartistiche 1 Ed è così che si ragiona? E valeva, allora, la pena,  tanti anni sono, di mettere il mondo a rumore con quella crociata, veramente, e così 7zzz0rosa, contro lo studio, nelle  nostre scuole, della retorica, o anche solo contro la più semplice considerazione generalmente accordata alle immagini retoriche, se queste, evidentissimamente, sono originarie quanto  necessarie forme successive di sviluppo del pensiero conoscitivo, e per ciò frutto proprio del primo momento, quello appunto  di barbarie e ingenuità dello spirito, incapace, com’ esso è  tal momento, sia « d’ intendere il ro delle cose, che appellar (queste) con voci propie? Onde un esprimersi,  naturalmente, solo « con metafore attuose, simiglianze. Quindi, più  eterna di così, in quanto tale, davvero? Giacchè, infatti, « fer  necessità di natura, la mente umana in entrambe le fasi o   = it, Za GEA e IT. Si Pu , se  e SVIENE SI e_N II    Cap FA  e    na al    sti RETTE    eeti    sas  momenti di sviluppo della sua attività conoscitiva, non può |   abbiamo visto riescire ad esprimersi altrimenti che dex  immagini. Ma non per questo, però, le due specie d’immagini, o forme d’ espressione poetica, dei rispettivi due momenti, sono senz’altro da identificare; giacchè le immagini assolutamente allegoriche e, per ciò, del tutto fantastiche della | a Metafisica poetica: espressione propria del fr7720 momento; rimangono sempre, pel nostro, di fronte a quelle del tutto ragionate della Logica poetica: espressione del secondo  momento  frutto genuino di un fersar da bestie, ch îa  per ciò appunto, oggidì, afpera intendere si può, affatto imma:  guare non si fuò. Giudichi, quindi, ognuno, con quanto  arbitrio ed insensatezza Croce ha preso a identificare le  due forme d' espressione, onde di rimbalzo, nel campo de  cultura (dove, purtroppo, per inerzia o per incapacità mentale, È: si reputa ed usa in genere di pezsare e sapere col giurare  in verba magistri, anche se, talvolta, il maestro è tale, com  non di rado oggidì, cui, a nostra volta, saria vergogna ess  maestro +) quella orrenda confusione tra Arte e Poesia, pi  cui anche persone dell'altezza mentale, per esempio, di t  Cesareo (che può vantare, fra altro, anche lui la concezia    di un saggio sull’Arte) è giunto  con un’ ingenuità  dovrebbe essere del tutto impossibile in un uomo di cultu  veramente sino ad affermare: quella dell’uomo de caverne poeta è una figurazione graziosa ma alquanto can- |  zonatoria.  Canzonatoria?!! E perchè, di grazia? Avrebb'egli pretes  per caso, che quell'uomo, più che fer immagini, e come alt  mai sublimi divine  nel senso vichiano, già: e cioè del tu  metaforiche si fosse espresso per concetti, e magari add Saggio sull’Arte creatrice, Zanichelli, Bologna. RIVE, et rittura nella maniera concettuale dello stesso maestro dell’ 27/0  puro, od anche dei suoi cuccioli metafisicanti, dato che  a questi riesce in particolar modo impossibile concepire la  realtà per immagini ? Tanto vero, che se, talvolta, vi si pro-  vano, chi non sa  per confessione loro stessa  quali  immagini plebee vengon fuori? Ora tale confusione, e nei domini della più alta cultura,  non prova, evidente, che il concetto di poesia, qual'espressione puramente per immagini, non è stato fin qui, ch'io sappia, E, in verità, come mai il Cesareo, che, col suo Saggio su 2° Arte  creatrice, ha pur creduto di poter fissare i lineamenti di una nuova Zsfefica  ben diversa da quella del Croce, e pigliando, già, anche lui, le mosse dalla  filosofia del Vico, la quale, al pari del primo, egli pure ha creduto di poter,  qua e là, correggere ed integrare, abbia, nondimeno, finito coll’intendere anche  lui il concetto vichiano della poesia precisamente a mo’ di Croce, e non già  nell’accezione mille volte datane dal Nostro di immagine allegorica o meta-  forica, io non son riuscito a comprendere. E sì, per giunta, che anche in  questo caso il Vico, come prevedendo l’obiezione del Cesareo come, già,  l’altra del Croce non ha mancato nè pure di indicare esplicitamente le ra-  gioni per cui la poesia nacque prima della prosa. Da tutto ciò e cioè dalla  prova datane innanzi del carattere origizario e necessario delle figure retoriche,  per cui |’ indistru/tibilità di queste sembra essersi dimostrato La Locuzione  poetica esser nata per necessità di natura umana prima della prosaica ; come per  necessità di natura umana nacquero esse Favole Universali Fantastici, prima degl’universali ragionati, o siano Filosofici ; i quali nacquero per mezzo di essi far/ari  prosaici; perocchè essendo i Poeti innanzi andati a formare la Zavella poetica  con la Composizione dell’ idee particolari, come si è a pieno dimostrato; da essa  vennero poi i fofolî a formare i parlari da prosa col contrarre in ciascheduna voce, come in un gezere, le parti, ch’aveva composta la favella poetica ; e di  quella /rase poetica, per esempio, mi bolle il singue nel cuore, ch'è parlare per  propietà naturale e/erza, ed universale a tutto il genere umano; del sangue del  ribollimento e del cuore fecero urna sola voce com’un genere che da’ Greci fu detto  oouazoi, da’ Latini  #ra dagli Italiani co//era. Con ugual passo de’ geroglifici  e delle /eflere volgari, come generi da conformarvi innumerabili voci articolate  diverse, per lo che vi abbisognò fior d’ ingegno: co’ quali gezeri volgari e di  voci e di lettere, s'andarono a fare più spedit: le menti dei popoli, ed a for-  marsi astrattive; onde poi vi si poterono provenir i Zi/osofi, i quali formano i gereri intelligibili: lo che quì ragionato è una particella della. Storia  dell’idee. cita e e bd Sa    id  dtt bici e di  dii    sΠ   #  te    orti Ja    NOI alt    s  Ù  4  î  À  *  »)  5  x  " A  i    re cs = dee la 7 faro fida: 0h compreso mai da nessuno? Giacchè, generalmente, s'è preso  ritenere  come si ritiene  poesia, unicamente le espressi  per versi, strofe, rime ecc., che non solo udimmo da Vico sono le x/#me espressioni della ragion poetica, quan  altresì, può darsi bene il caso che con tutto ciò, e cioè  più sonori versi di questo mondo, non si riesca punto a f  della poesia, e cioè creare un organismo di immagini (  goriche o proprie che possano essere), e solo, invece, organismo puro e semplice di concetti. Infatti non si ritiene, forse, poesia, ed essenzialmente tale, dall’opera capitale di LUCREZIO (si veda), sol perchè espressa in versi, e punto tale i  loghi dell’ACCADEMIA, a' quali possiamo aggiungere quelli du Leopardi, non  che l’opera capitale di Schopenhauer, in quanto la vincono, e senza  paragone, sulla prima, per ricchezza e potenza espressiva delle immagini? E, tuttavia, andate a dire nel campo della cultura che queste ultime 0  sono poesia ben più vera della prima, e cosa più mirabolante ancora  esse sono, ad un tempo; opera d’arte, appunto perchè le immagini ond?’e  esprimono la vita del Reale, oltre che singolarmente proprie, nutrite, anci  più che mai di fersiero, invece che di puro senzimento, come dal mondo  turale, in genere, e da Croce, in particolare, si pretende debbano esse;  immagini dell’arte! Si vedrà alla fine di questa nostra indagine critica a  profonda rivoluzione filosofica ha tratto il nostro pensiero codesto nuovo  cetto dell’arte, nel riesaminare che a noi, di conseguenza, s’impose stregua di cotal nuovo suo fondamento conoscitivo, tutti gli altri proble  pensiero, che comunemente noi diciamo massimi: rivoluzione, peraltro, implii  idealmente nello stesso pensiero di Vico, inteso, già, nel senso da no: quì indicato, con le stesse sue parole. Infatti, non escludeva egli, testè,  quivocabilmente, la conoscenza logica quale funzione origizaria, o conoscitiva del nostro spirito, non essendo essa, per lui, che una mera plificazione pratica, od espressione puramente schematica della conoscenza |  tiva? e cioè  per dirla con le stesse sue parole  una forma co  delle parti della favella poetica, in quanto « composizione delle 3  ticolari (0 note predicative, diremmo noi oggi) delle immagini intuiti  ciascheduna voce, come in un genere: il corcezfo, appunto? Il che, d’al  in maniera inoppugnabile mostrammo anche noi, innanzi, per nostro  Quindi forma vera e propria di conoscenza, 0 conoscenza veramente 0  del nostro spirito, unicamente quella iniziva, che raggiunge appunto la.  piena sua adeguatezza e compiutezza nelle immagini proprie, 0 dell’a  ragione per cui, anche, il nostro credè di darle lo stupendo quanto af. po Eppure, fin dai suoi tempi, il Manzoni non solo avvertì  come ricorderemo più dltre che il canto desti- appellativo di « lingua maferna del genere umano », escludendo eziandio, così,  che, in quanto tale, possa esservene un’altra. E, poi, la stessa /ogica interna della dottrina estetica di Croce  pur  affermando egli il contrario a parole  non trae, furse, alla medesima conseguenza? Egli ci disse, infatti, innanzi, che il concetto è inconcepibile, fuori  dell’ intuizione, o immagine, perchè quivi soltanto, e in nessun altro luogo,  il suo « aere spirabile, salvo ad ammetterlo in un altro mondo che non si  può pensare e perciò non è ». Non solo, ma chiedendosi anche altrove: Che  cosa è la conoscenza per concetti x ? risponde: È conoscenza di relazioni  di cose, e le cose sono intuizioni. E continua: Senza 2e intuizioni quindi 207 sono possibili î concetti, come senza la materia delle impressioni non è possibile l’intuizione stessa (Breviario): onde la conseguenza, perfettamente i regola: che l’attività logica, dipendendo inevitabilmente da quella estetica, viene ad essere effettivamente quest’altra attività, serbando,  quindi, in fondo, un’ esistenza puramente putativa o convenzionale. Conseguenza  intendiamoci che deriva direttamente da un principio, e del tutto  bene fondato, affermato da Croce stesso:  un'attività il cui principio dipenda  da quello di un’altra attività, è, effettivamente, quest'altra attività, e ritiene  su sè un’esistenza puramente $u/afiva o convenzionale (Brev.). Come, quindi, è mai possibile ammettere, logicamente, altra conoscenza  se non solo pulaliva o convenzionale com'è di fatto la conoscenza per concetti  oltre quella intuitiva o per immagini, e riconoscerle, per giunta, un  grad »  o valore conoscitivo superiore, a quello stesso di quest’ ultima, col  ritenerla il secondo gradino della conoscenza, nel tempo stesso che la suprema istanza del pensiero? Ma se le intuizioni,  s’è pienamente riconosciuto, quali immagini $rogrie delle cose o della vita del reale, ci  dànno già una conoscenza perfettamente adegzaza e compiuta del loro obietto,  e, per ciò stesso, di carattere universale e necessario; e, intanto, codesto valore universale e necessario  val quanto dire essenzialmente /ogico  non  devesi, naturalmente, che al concetto implicito in esse, qual’espressione appunto dell’essezza delle cose », tanto più che il concetto non può trovarsi  od esistere 7 nessun altro luogo fuori delle intuizioni; è lecito sapere  come e dove si potrebbe e dovrebbe trovare altra e superiore conoscenza fuori  ed oltre di questa offertaci dalle immagini intuitive? Solo, certo, « 72 x altro  mondo che non si può pensare e perciò non é. Ma  potrebbe qui opporre Croce la conoscenza logica o per  concetti non è, forse, conoscenza di re/azioni di cose, a differenza dell’altra  per immagini, ch’ è intuizione dell’essezza delle cose? Sia pure. Ma non è altresì vero che «l’operazione  da parte della  nostra mente  di sciogliere i fatti espressivi (od intuizioni) in rapporti logici  %  an * Ae Ue rp    i  +0  nato a vivere eterno è quello che la lingua trae dal fe  profondo, quanto, altresì, che « /a poesia contata per nu  per raggiungere appunto la conoscenza delle relazioni delle cose, e pass  così, dal primo al secondo gradino della conoscenza: e cioè dall’ arte  filosofia  si concreta, a sua volta,  per affermazione sempre di Croce ce lo mostrano, peraltro, ix concreto tutte le più grandiose, geniali Weztaschauungen, o intuizioni della vita del mondo, che noi dobbiamo all'arte in un’espressione? E l’espressione non è arte, o intuizione, e punto, già, ; sofia, quindi affatto wferiore grado di conoscenza? Ed affermare, intanto, che il pensare scenzificamente prende di neces.  una forma estetica, non è, semplicemente, una contradizione in fermi  posto che l’espressione od intuizione non può în nessun modo contenere  pensiero scientifico, e cioè quelle astrazioni a cui essa  per dichiarazioni Croce sempre estremamente ripugna, anzi mon conosce nemmeno #9] Sono contradizioni, queste, sì stridenti ed insanabili, evidentemente,  cui solo la mente del Croce è in particolar modo capace, come abbiamo vi sin qui. Rimane, così, pienamente assodato, che per la stessa /ogica interna de  dottrina estetica di quest'ultimo e ce ne assicura egli non meno de mente e inconfutabilmente anche più oltre, in più altri modi non  originariamente, e per ciò stricto sensu, che un’ zziea forma di cono  e suprema istanza, già, essa stessa, del pensiero: la conoscenza per imm  poichè l’altra per concetti è, in realtà, meramente pufaliva o convenziona Croce ha creduto di far ammettere anche a Vico un secondo gradino  conoscenza, solo per aver egli preso a scambiare, nell’ interpretare la filo  vichiana, il secondo momento dialettico dell’attività conoscitiva (7r24%i%v4 s che, in sintesi col primo (la poesia), ci dà le immagini proprie dell’ar  cioè la forma conoscitiva più adeguatamente piena e compiuta che sia  di raggiungere al nostro pensiero con un grado per se stesso wlferior  formalmente diverso della nostra attività conoscitiva. i  E sì fatte illusioni di ottica mentale  proprie di Croce, anche si deb  principalmente a quella gioconda quanto facile sua trovata per interpreti  suo dire, il pensiero degli scrittori antichi di quel tale dialogo di.  parla proprio nell’Avvertenza a La filosofia di Vico dialogo tl  antico e nuovo pensiero nel quale solamente l'antico pensiero viene inte  compreso, col piegarlo,com’egli usa, puramente e semplicemi  fargli significare ciò ch'è soltanto nel cervello di lui e punto già nel p o nella dottrina di quegli scrittori, onde la piena assoluta sua convinzio  aver egli, così, e come altri mai, infallibilmente inteso e compreso il  di quelli, non senza peggio ancora far appello, quando occorra, all’illusioni, proprio come nel caso in quistione,  ri di sillabe deve finire, rimanendo eterno il suo spirito nella prosa. E Tommaseo, che gli ha dato sempre ascolto, in  quell'occasione non seppe tenersi come, in altro modo,  oggidì Cesareo dal ribattere. Il metro, il metro ancora  più che il ritmo, è un bisogno, non tanto del senso quanto dell'anima umana e della ragione stessa, che, come immagine di Dio, ama le cose in misura ed in numero. Quale stranezza! nota, a sua volta, Borgese. Che c’entra l’infinità di Dio con le dieci o undici dita, coi  numeri della prosodia scolastica e della tombola di famiglia? Lo spirito si espande, elude regole e strettoie; le dighe fra  prosa e poesia cadono; la prosa diventa il grande organo a  mille canne da cui la ragione parla e il cuore canta.  E con ciò si noti nonsi vuol concludere che la  poesia contata per numero di sillabe debba necessariamente  perire. Le matematiche sublimi non aboliscono l’abaco, la  danza delle sfere non prescrive i ballabili, e l’ alto giardinaggio ammette i fiori che si contano per numero di petali. Bene, quindi, può nascere la pagina del cielo di burrasca  sopra il Lazzaretto nei Promessi Sposi; e  accanto ad essa può sopravvivere, o vivere, il semplice stornello.   E non, forse, lo stesso Canto e perfino il verso, come, già, tutte le figure retoriche, formano, pel Nostro,  parte di « tutta la suppellettile della favella poetica? Penultima forma espressiva, infatti, della « agion Poetica è il canto e per w/timo il verso. Ed è ben noto, invero,  che i mutoli mandan fuori i suoni informi carzando ; e gli  scilinguati pur cantando spediscono la lingua a pronunziare;  e che, in generale, anche, gl’uomini sfogano le grandi passioni Degnità dando nel caz/0, come si sperimenta ne’sommamente addolorati  et allegri, E però, mentre, in un primo momento, gl’uomini mutoli dovettero come fanno i mutoli, mandar  fuori le vocali cantando; di poi, come fanno gli scilinguati, 3  dovettero, pur caz/ando mandar fuori l’articolate di consonanti. Di tal primo canto de’popoli fanno gran prova i dittonghi È  ch'essi ci lasciarono nelle lingue; che dovettero dapprima  essere assai più in numero; siccome i greci e i francesi, che passarono anzitempo dall’età poetica alla volgare, ce  n'han lasciato moltissimi, come nelle Degnità si è osservato; e la cagion si è, che le vocali sono facili a formarsi; ma le  consonanti difficili; e perchè si è dimostrato che tai primi La  uomini stupidi, per muoversi a proferire le voci, dovevano  sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si spiegano con altissime voci; e la natura porta, ch'ove uomo a/zi assaî |la voce egli dia ne’ dittonghi e nel canto, come nelle Degrità  si è accennato ; onde poco sopra dimostrammo, i primi uomini.  Greci nel tempo de’ loro Dei aver formato il fri0 verso eroico spondaico col dittongo ra, e pieno due volte più di  vocali, che consonanti. E codesto primo verso dove nascere convenevole alla lingua ed all'età degl’eroi – COME NAPOLEONE, qual È è il verso eroico, il più grande di tutti gli altri, e propio  dell’eroica Poesia; e nacque da passioni violentissime di spa- 1  vento e di giubilo, come la Poesia Eroica non tratta che Ri #  passioni perturbatissime ». E nacque, anzitutto, « sfondaico » } I, dappoi facendosi i% spedite e le menti e le lingue, v’ ammise  il dattilo; appresso spedendosi entrambe vieppit, nacque il Bi  giambico, il cui piede è detto presto da Orazio, come di tali  Ti n  %  P  #9 se Degnità. E continua: Queste due degnità, supposto che gli Mai  autori delle nazioni gentili eran andati ’n uno stato ferino di destie mute; e che per quest’ istesso da/ordi non si fussero risentiti, ch’a spinte di violentissime passioni, dovettero formare le prime loro lingue cantando di  i  4 Origini si son proposte due Degnità; finalmente, fattesi quelle  speditissime, venne la prosa; la quale, come testè si è veduto,  parla quasi per generi intelligibili; ed alla prosa il verso giambico  s'afpressa tanto, che spesso 7ravvedutamente cadeva ai Prosatori scrivendo. Così il canto s'andò ne’ versi affrettando  coi medesimi passi, co' quali si spedirono nelle Nazioni e le  lingue e l’idee, come anche nelle Degwità si è avvisato, Tal Filosofia ci è confermata dalla Storia. Ed è perfettamente vero. Perchè noi, pur avendo seguìto  altra via del tutto diversa dalla sua, siamo pervenuti alle  medesime conseguenze. Non, quindi, ha ben ragione anche ANNUNZIO (si veda) di  affermare, e del tutto sprezzantemente: Io sono di continuo minacciato dal sistema metrico decimale dei pesi e delle misure. Sono di continuo sospinto verso la bilancia e verso la stadera,  verso l’endecasillabo e verso l’ottonario, verso le clausole  ciceroniane e verso le cadenze predicatorie. Odo vantare la coscienza, odo celebrare l’ inspirazione,  odo affermare la rivoluzione. Il mio sorriso persiste; e fa rilucere intorno a me le  carrucole perpetue e le rotaie inflessibili. Ma che farci, se, pur troppo, come giustamente assevera Borgese — non si dà, in generale, verità quanto si  voglia decisiva, che riesca a sradicare del tutto un errore;  fosse pure il più secco e stremenzito? E, di fatti, il rivelarsi  e progredire della verità non raggiunge altro effetto che  quello, soltanto, di rendere più secchi e noiosi gli errori! E  non, forse, perchè codesti errori sono in particolar modo alimen-  tati e mantenuti in vita proprio da coloro che prima e più degli  altri dovrebbero ripudiarli e concorrere a farli ripudiare, in Per l’ Italia degli italiani:  Bottega di poesia» - Milano. VER” g° CE TAI Py  9  È ERO POTTER REI TI  Ma i / quanto ritenuti, essi, con qualsivoglia fondamento, maestri È  del: pensiero, rimangono essi proprio i più tenaci e pervi=.  caci propagandatori fra i proprî discepoli o seguaci? Infatti,  non, forse, proprio GENTILE (si veda) che prima e più calo- È  rosamente di ogni altro, anche, prese a giurare 27 verba  Crucis, coll’ affermare che il maggiore studio che ci sia i;  intorno al pensiero vichiano è precisamente quello di Croce ha continuato e continua imperterrito ad alimentare il grave errore in quistione? E come egli, che ha pur  letto e meditato tanto la filosofia di Vico, sia riuscito ad  intenderla e comprenderla proprio nello s/esso modo di Croce lo sa lui. A noi qui, ora,  preme soltanto far notare, che se egli fosse riuscito a cogliere il significato filosofico e valore conoscitivo della famosa chia  maestra, o principio primo di quella filosofiia, avrebbi  subito compreso, persuadendosi senz’ altro, che se ANNUNZIO (si veda) ad esempio non avesse scritto pur un  verso, ma solo i romanzi a noi noti, egli sarebbe rimast  ugualmente il più prodigioso poeta che abbia mai visto la stes  prima età del genere umano: e cioè il più sublime, divino   quanto inesauribile creatore d'immagini: immagini che em co  gono singolarmente mirabili non solo da brevi insieme di vo  ma quasi, anche, da ogni singola voce, allorchè, almeno, que  sono di sua creazione. E ne abbiamo, tante, in verità, cre  da lui singolarmente immaginose; onde, non a torto, egli  ferma di sè: « #ulto m'è visione, e tutto m'è simbolo. Ma ANNUNZIO (si veda), però, è anche artista, oltre che poeta, e arti st  non meno possente del poeta, per quella « divina proporzioi  che le immagini da lui create recano insuperabilmente,  insuperabilmente, per ciò, immagini proprie delle forme de  realtà, che esse ci vogliono raffigurare, dato che la porzione a dire di Croce stesso, che ripete sempi mente un concetto di Vico — è la caratteristica fondamen-  tale delle immagini deil’ arte. Ciò posto, come o donde  la esilarante conclusione del filosofo di Pescasseroli : che l’ arte  può ritrovarsi, anche, in un organismo intellettivo o di con-  cetti, e questo, per ciò, irdifferentemente, può ritenersi arte  o scienza, a seconda che si prenda a cortemplarlo od esami-  narlo nella verità che esso esprime ? Uditelo un pò: « Ogni  opera di scienza è insieme opera d’ arte. Il lato estetico potrà  restare poco avvertito, quando la nostra mente sia tutta presa  dallo sforzo d'intendere il pensiero dello scienziato ed esa-  minarne la verità. Ma non resta più inavvertito quando dall’  attività dell’intendere passiamo a quella del contemplare, e  vediamo il pensiero o svolgersi innanzi limpido, netto, ben  contornato, senza parole superflue, senza parole mancanti,  con ritmo e intonazione appropriati, ovvero confuso, rotto,  impacciato, saltellante. Il che significa, dunque, nè più nè meno, che l’immagine  ed il concetto, e cioè un fantasma lirico, e un pensiero VICO, infatti, nell’orazione in morte di Cimini, richiamandosi come di frequente al concetto proprio della poesia, la quale udimmo raggiunge, per lui, il sommo divino suo artifizio allorchè, a somiglianza di Dio, dalla nostra idea diamo l’essere alle cose che non lo hanno,  tiene a chiarire e precisare : quelli’ Idea, però, che impossidil cosa è esserci  venuta in mente jer li sensi mortali (come le nostre proprietà) i quali, quanto  s' intendono di tutt’altre cose de’ corpi #2n/0 z0n san nulla affatto delle certe  misure e proporzioni de’ corpi onde forse per ciò i valenti dipintori che sanno  l’ ideal bellezza in tela ritrarre hanno il titolo di divizi » ve di quì 1’ espres-  sione: divina proporzione ricavata da Croce. Il che vuol dire, in termini  nostri, che solo allorquando noi riusciamo colla nostra mezze, o riflessione, più  che coi sensi, a cogliere l’espressione propria o caratteristica delle cose, la  quale viene a noi fornita unicamente dalla ricerca dell’ordize e valore logico  delle stesse loro zo/e costitutive chè questo e non altro vuol significare,  quì, la cera misura e proporzione dei corpi noi si raggiunge l’immagine e  conoscenza vera e propria di esse cose, Estetica e Breviario è. Bien e    eg    RI 1 IT peleee 9 PE NI sl a RI IE O IA TIRATI PIPE TINI de VIT Lau MARTI    n    Th CAV; - critico sono la stessa cosa, formalmente e sostanzialmente;  come dire: maschio e femmina la stessa persona. Infatti Croce non inizia addirittura la sua Zstetica  proprio col richiamare la nostra attenzione sulla natura @  carattere espressivo assolutamente diverso, che distingue la imagine dal CONCETTO, in quanto la prima è linguaggio del sentimento, e per ciò conoscenza intuitiva o dell’individuale, e l'altro LINGUAGGIO dell’ z72/e//etto, e per ciò conoscenza dell’urnversale Non solo, ma non aggiunge, anche, per maggior distinzione, che l'una rappresenta il $ri720 grado della conoscenza  e l’altro il secondo? È. E, come, allora, anche sotto tale aspetto l’ux  può essere, ad un tempo, de, e il due 0? Sono, evidente.  mente, contradizioni e assurdità inconcepibili, che potrebber  nondimeno, sparire solo nel caso che si volesse ammetteri una precisa distinzione tra forma e contenuto, sì da ritenere. l’arte non altro, invero, che mero involucro delle forme. superiori e complessedel pensiero. Cosa che Croce, per  primo, e più recisamente che mai, nega, affermando con SANCTIS (si veda) che il contenuto è la forma e la forma è il contenuto, giacchè l’intuizione e L’ESPRESSIONE vengono l'una  fuori con l’altra, perchè non sono due, ma uno. E poichi  intanto, l'intuizione, od espressione, non può rappresentare. che stati d' animo, vale a dire nient'altro che la fassiozali  il sentimento, la personalità, che si trovano in ogni arte e  determinano il carattere lirico », come, per ciò stesso, e  può darci, mai, e, peggio ancora, ad un tempo, il fe  dell'artista e del filosofo, se la contradizion nol consente?  di fatti, l’attività intuitiva od espressiva, al pari dell’ incoe  cibile potere posseduto dal re Mida di trasformare in oi Estetica tutto quello ch’egli toccava con le mani, non può darci,  inevitabilmente, che 7m2m0agizi, e solo immagini e sempre  immagini, e cioè a7rfe e solo arte e sempre arte. E non, forse, proprio ciò intende affermare Croce  stesso là ove dice che L’ESPRESSIONE non si può neppure  paragonare all’epidermide degli organismi, salvo che non si dica (e forse la cosa non sarebbe falsa neppure in fisiologia), che tutto l'organismo in ogni sua cellula e in ogni cellula  di cellula è insieme epidermide? Onde la conseguenza inevitabile, e del tutto #2 forma, che noi, come Prometeo sulla scizia rupe, restiamo sì strettamente ed 7 eferzo incatenati al 97120 gradino della conoscenza da non poter neppure  levare gli occhi a mirare, più che raggiungere, il secondo  gradino. Onde l’ assurdità, per altro verso, da parte di Croce, di porre l'assoluta identità di arte e linguaggio, defimibili luna per l’altro come dire l’arte col parlare per sè  stesso; giacchè, mentre, da un lato, noi in forza di  tale premessa non possiamo raggiungere, in ess wm20do, il secondo gradino della conoscenza, e cioè diventare scienziati o filosofi (e, forse, per ciò Croce non può dirsi filosofo),  dall'altro, in compenso, rimaniamo tutti ver7 e grandi artisti.  Che ve ne pare? Non senza fondamento, adunque, il nostro afferma che  la poesia e la metafisica sono naturalmente opposte fra  loro, e per ciò non è mai uno stesso valente uomo insiememente e gran metafisico e gran poeta della specie Breviario Si noti che questa stessa sorprendente conclusione negativa, cui, contro ogni previsione e intenzione di Croce, mena direttamente quanto inevitabilmente la logica interna della sua dottrina estetica, viene indirettamente accennai a confermare anch'essa, e magnificamente, tutto il valore gnoseologico del fondamento teorico di quella tremenda rivoluzione filosofica cui accennammo innanzi, Si vedrà, si vedrà | sa A bri L |1 NI CITI NL a MAREA ou Ci EI amo INT TIE Tapi.  PH  i a Mi Ò  Vedi  i Tp,   mi I  “è  Vi SA al .. e  mid e il  gua  U  massima dei poeti nella quale fu frireipe e padre Omero  E potrebb'essere, forse, altrimenti? In possesso com'è  metafisico, o filosofo, della più larga esperienza delle cose, come potrebb'egli mai concepire la realtà al pari di coli  che è rovesciato nell’ignoranza di tutte le cose, come allorchè  si è nella fanciullezza, per cui la mente, tutta piena di pregiudizi, vi si immerge e rovescia dentro, mentre, nell'altro caso, « resiste al giudizio dei sensi e ne fa  accorti di non fare dello spirito corpo, onde i pensieri sono 4  tutti astratti, invece che corpulenti, come nel primo caso, in quanto non altro che immagiri e metaforiche? Ora, generalmente, a cominciare da GENTILE (si veda) che, oltre vent'anni sono, l’oppose proprio a noi, recensen  la nostra opera su LEOPARDI (si veda) facendosi eco alla interptazione. crociana di VICO (si veda), tale opposizione tra il poeta e  filosofo non viene intesa STRICTO SENSU (GRICE) e illimitatamente?  cioè ritenendosi il poeta non già nel senso vichiano cui vera quell’ opposizione di creatore d'immagini a/leg  riche, e nutrite, già, essenzialmente di senso, quindi per  nulla verilà, o conoscenza vera, o 72 ze, perchè assolutamen o frutto di rifessione, e per ciò arte, come potre  mai essere in opposizione con le sentenze o conce  di quella mente dritta, ordinata e grave qual a filosofe conviene, e cioè non valere conoscitivamente nè  nè meno che i concetti stessi, se questi altro non sono c l'essenza astratta od estratta da quelle, onde solo  renza tra essi quella puramente /ormza/e, per cui mentri  prime sono espressioni particolari, o individuate JE. SL e a rta SETE Pr Sad e, È belt e quindi concrete, le altre generali od universali, e  per ciò astratte? Intanto è accaduto e qui l'origine del disastroso  errore che oggi domina sovrano nel campo della cultura, in  generale, e della conoscenza estetica, in particolare che,  compiutosi il primo passo sulla via dell’ identificazione della  poesia con l’arte, e cioè annullata ogni distinzione fra le  immagini allegoriche, prodotto di « forte inganno di fantasia »,  (per la mancata conoscenza, ancora, delle cagioni naturali  delle cose, e le immagini proprie, frutto di riflessione,  (e, quindi, conoscenza vera e propria di esse cose), s'è proceduto senz'altro sino in fondo, coll’attribuire a queste ultime  non solo lo stesso corzezzio delle prime, ad esse fornito essenzialmente dai sensi, o dal sentimento, quanto, peggio ancora, s'è preso, altresì, a ritenerle frutto di mera fantasia, senza nè  pur l'ombra dell’intelligenza o della riflessione, e, di conseguenza, senza nessun «» od « aurori  Aurorale una conoscenza che non ignora nè la trasce  medievale, nè la saggia esperienza della vita, non i 74,  menti voluttuosi o la sensibilità animalesca, al pari dell’ eroisn Breviario e del fersiero della morte; così la commossa dolcezza di un  amore tenero e soave, nello sfondo di una vita tranquilla e  serena, come il grido terribilmente straziante e disperato per  la infinita vanità del tutto: cioè, insomma, nessuno ignora  anche dei più vari aspetti e delle forme tutte, le più diverse,  di esperienza. della vita? E se, adunque, l’arte, pur nella virginea sua purezza di sentimento, si mostra pregna di ogwz  sapere, compreso quello vo/zttuoso, e, per di più, fornita di  un gusto, che, nella sua bocca eloquente, rivela, chiaro, la  maturità e perfin la corruzione, ed in tutto il suo essere vibra  l’aridezza di una febbre insistente che la spinge smapniosa a  spremere il succo di tutti gli ingannevoli frutti che maturano  lungo il sentiero della vita, al calore della più travagliata  esperienza umana, come si può non convenire assolutamente  col Vico che l’arte, sia per la filosofia che per la séorza, come ci disse innanzi più che il momento di barbarie  e ingenuità dello spirito, è, invece, precisamente l’altro: quello della maggiore consapevolezza e più compiuta esperienza  della vita del reale? Di fatti è solo in questo momento che è  dato alla mente umana di cogliere l’immagine vera e propria  delle cose, o il loro caratteristico, onde la più piena e per-  fetta conoscenza che, progressivamente, noi si viene ad avere  della realtà. E poichè, intanto, anche pel Croce, codeste  intuizioni che ci danno le immagini proprie delle cose sono udimmo le vere e sole intuizioni estetiche, non è,  per ciò stesso, da convenire che, anche per lui, il momento  dell’arte è proprio questo e non il primo, che in wesswur  modo, invero, può darci immagini frofrse della realtà? Non  solo: ma non arriva, al pari di noi, sino ad ammettere, sia  pure a mezzo di una tremenda contradizione come  empre allorchè gli vien fatto di scoprire il viso della verità che abbiamo anche una grande arte: ed è precisamente butta sal -4  ITS. le du dl! quella più che mai nutrita di fersiero o di filosofia, invece | 3  che di sentimento (onde il più completo rovescio della tesi  sostenuta 27 principio nella sua £Zstezica? Così ad  esempio le grandi tradedie del bene e del male y si  dello Shakespeare (Otello, Macbeth, Amleto, Re Lear) sono, per lui, come ognuno ricorda senza paragone pi  pregevoli, esteticamante, che non quelle di pura ispirazione  storica (Antonio e Cleopatra, G. Cesare, Coriolano), le quali, a lor volta, ci attraggono senza paragone più delle comedie  d'amore, tra cui vediamo pur grandeggiare e splendere,  mirabilmente vive, figurazioni estetiche come Giulietta e Romeo, i  Il Mercante di Venezia e simili, che non la cedono, per  intrinseca bellezza, nè pure ai più grandiosi fantasmi tragi  a dire di lui stesso. E così del Goethe: il possente fantasma  tragico di /azsf, quale espressione, appunto, di quella urgente  e mai appagata ansia dolorosa (die Sehknsucht), o di qu  profondo e segreto travaglio spirituale, che « ange e marti  la coscienza di quelle nobili esistenze, che una volontà, quasi  fatale, sospinge per entro £ profondi abissi alla ricerca deli  dimora delle Madri, e cioè dell’ /4eale, non giudica, egli, se  paragone superiore alla bella favola di ZAermanz un  Dorothea, che pure fu oggetto del più vivo ertusiasmo,  non solo da parte dei filosofi e dei letterati, ma eziandio  di tutta la brava gente: degli onesti borghesi, delle madri  di famiglia, delle zitelle e zitellone dei maestri di scuola  i quali vi trovavano ciò che essi vagheggiavano e desiderava  una esibizione di onestissimi sentimenti e di sagge opere S  l’amore che si fa subito fidanzamento, la cura dei genitori per la felicità dei loro figliuoli la virtà disavventurat:  premiata e una ricca copia di osservazioni e massime  quelle che si accolgono dicendo:  è vero senza sfor. rente paradosso. È la fortuna che una volta Hegel disse  mancare ai filosofi e abondare ai predicatori, che subito soddisfano e commuovono a edificazione, perchè ripetono cose dî  cui gli spetttatori sono persuasi e che hanno familiari. Perfettamente vero, adunque, che la grande arte è  quella, proprio, più intensamente nutrita di erszero, invece  che di sentimento, onde non a torto MANZONI (si veda) credè nell’Urania di cantare: pncroe sol quaggiù quel canto Vivrà che lingua dal pensier profondo  Con la fortuna delle Grazie attinga; e Schiller, a sua volta, quasi a concludere : quello che not  oggi ammiriamo come Bellezza ci verrà incontro domani come  Verità; onde il fondamento dell'antica credenza che il vate  o poeta fosse indovino. Giustamente, quindi, noi, fin dai primi nostri scritti  sull'arte, affermammo non solo la necessità di rintracciare V. Goethe, Laterza, Bari; e Shakespeare, (in ARIOSTO (si veda) Shakespeare e Corneille) Laterza, Bari. E se questa è la grande arte, come il Croce in lungo e in largo ha  creduto di mostrarci con l’esame delle due maggiori opere d’arte della lette-  ratura inglese e tedesca, è lecito sapere perchè, poi, la lirica filosofica del  Leopardi, come altra mai, forse, così intensamente nutrita di fersiero, ed  espressa, per di più, come quella di niun altro poeta, per immagini, è,  per ciò stesso, da meno delle sue liriche amorose, anzi, addirittura « z0x poesia »,  contrariamente a quanto egli ha affermato per i due poeti stranieri ? E così,  anche, l’arte d’ALIGHIERI (si veda): perchè questa sale, e sale alto, molto alto, con le immagini di senlimzento, e cade, poi, cade tanto, fino a diventare anch'essa w0x  poesia, con le immagini di fersiero, sì che Padre Dante finisce col rimanere  al di sotto o da meno di Shakespeare e di Goethe? Lo sa egli solo, Croce,  pel quale, per ciò, del tutto erroneamente è stato affermato del divino Poeta;  A veder tanto non surse il secondo?  Ah! la fede nel libro tedesco inculcata a Croce da SPAVENTA (si veda) e  rafforzata da LABRIOLA (si veda)! (V. Contributo alla critica di sne stesso; Laterza,  Bari). È stata davvero accecante cotal fede per lui! E potremmo dir anche  perchè, ma non occorre: può facilmente supporlo ognuno un assoluto criterio di valulazione estetica, quanto, al  tal criterio, invenimmo e fissammo precisamente nel grado d’universalità razionale posseduto o epresso dal motivo is  ratore dell’opera d’arte: e cioè non si crederebbe  proprio in quell’elemento o fattore, l'intelligenza, che da tutti  in generale, per quanto senza piena convinzione da part  di qualcuno e da Croce e sua onrevol gente, in particolare, viene assolutamente escluso dalla funzione creatrice dell’ arte. E però, s' è visto anche, a parole soltanto, chè,  di fatto, colle risultanze critiche dei suoi saggi sul Goet  e lo Shakespeare, come abbiamo visto testè oltre c  colla logica interna della sua dottrina riconosce pienament  con noi che proprio la razionalità del motivo comunque  si voglia, questo, sommerso o identificato colla forma rimane la variabile indipendente, come allora dissi, alla qu e  si deve la variabile intensità d’irraggiamento o potenza di  attraimento o rapimento che un fantasma d’arte, più che altro, a parità di perfezione, o dall’espressione in ciascuno  perfettamente Jr0fr72 o compiuta, esercita sullo spirito umani  che, in quel caso, appunto, per dirla col Goethe, viene  sentir davvero l'accordo con sè stesso e col mondo. E per ciò presi a concludere senz'altro: le intzioni estetiche veramente sovrane son precisamente quel) che ci danno il brivido di quell’oscuro desiderio e di q  muto anelito di redenzione dal male e di liberazione da  gioco degli impulsi inferiori, che fanno gravitare in giù  coscienza umana, soffocata dal peso greve della materia:  che, comunque, dèstino in noi anche la più debole eco di  quel profondo dramma interiore che agita e convelle diutur  namente la coscienza umana, che, affaticata dall’ indigenza dell’ infinito, mira al di là del finito, o del limite umano, e cio  au dela de la vie et au dela de la mort. Nessuna meraviglia, quindi, che le intuizioni estetiche che prendono a celebrare  questa insuperabile antitesi cosmica, e cioè questa perenne  lotta tra l’uomo mouzzenon e l’uomo faenomenon, nel tempo  stesso che cerca d’ indagare il woisterzo eterno dell esser nostro,  riescon più di tutte le altre, o come altre mai, ad esercitare  un profondo e invincibile fascino sullo spirito umano, che,  nelle immagini d’arte espresse da tali intuizioni, vede chia-  ramente rispecchiate le sue più intime lotte e i suoi più  oscuri tormenti, le sue inconfessate debolezze e le sue più  segrete aspirazioni, le sue più dolorose sconfitte e i suoi più  nobili trionfi: e cioè, in uno, l’immagine e il destino della  propria esistenza; di quell’ esistenza, per giunta, di cui noi  stessi, giorno per giorno, ed ora per ora, veniamo liberamente  intessendo la trama e amorosamente disegnandone l’ immagine  morale e spirituale, dato che l’arte udimmo da Croce stesso altro non è, nè può essere, che espressione della vita del reale, e per ciò della nostra esistenza spirituale, sopratutto. E, pertanto, noi amiamo in particolar modo si sa ciò  che, appunto, è frutto dei nostri liberi sforzi, e poichè l’z07z0  libero per dirla collo Schiller ama è legami che lo guidano, s' intende perchè, poi, noi prediligiamo senz’ altro con la stessa infinita tenerezza di un padre verso quello dei  figli, che venne al mondo sofferente precisamente ciò il  cui possesso fè più dolorosamente, e ad ogni passo, sanguinare  i nostri piedi. Ricordate, infatti, con quanta commozione, profonda  tenerezza e nobile soddisfazione, ad un tempo, il gentile poeta di Barga ricorda alla sorella i tempi bui e sconsolati della  lor triste e dolorosa giovinezza? Tu scis ut doleant gaudia nostra, soror! E si noti, per di più, che il sentimento che nasce dalla contemplazione del più arduo e più universale conflitto, al  pari di quello che accompagna e si manifesta nelle forme della più alta curiosità intellettuale, è, per ciò stesso, il più atto a tradursi in espressioni che sono le più elevate e più.  vere del sentimento estestico, Il quale, infatti, trova un estremo  eccitamento, o il massimo suo eccitamento, precisamente nell  rappresentazione fantastica della lotta impegnata dalla volontà e dalla passione contro la necessità dell’ ordine oggettivo. della natura, cioè nella rappresentazione idealizzata della lotta per l'esistenza, val quanto dire completamente trasfigurata in lotta morale. Per ciò, quello stesso sentimento che, nel  dominio dell’arte, crea quelle sovrane concezioni verament  insuperabili nel loro genere quali sono la Commedi  dantesca e la tragedia shakespeariana, la lirica filosofica di LEOPARDI (si veda) e quella della medesima natura di Goethe quello stesso sentimento crea, nel dominio della morale, l’azione, affermandosi come bisogno di operare, del  sperare, di combattere e soccombere utilmente, onde quell:  sottile voluttà dolorosa: dolendi voluptas, che sospinge, inelut À  tabile, l’uomo a salir d2 collo in collo, e celebrare, pur nell:  rovina e dea morte della sua esistenza Di il priag l'elemento o fermento perenne dell’ antitesi a cosmica  E, difatti, nella Commedia dantesca, come nella trage  greca e shakespeariana, nella lirica filosofica di LEOPARDI (si veda), come in quella di Goethe, nelle quali, $;  appunto, come Yale si accenna Mii Sonde cosmico o°MAE EN carl. ra Figi x « EI sa ta Woo sin Lei =J i. Pacs it che l’opprime, celebrando, così, tra le forze avverse o paurose  della natura, e al di sopra di essa e della sua muta eternità, il suo trionfo; e da ciò, o per ciò, le immortali speranze  che sospingono anelante e senza tregua il genere umano lungo  le vie che conducono al regno della Verità, della Bellezza  e del Bene, e cioè, per dirla in uno, al regno di Dio. Ora, cotal mondo dello spirito dato pure che la  lingua fosse riuscita, comunque, a crearne l’ espressione non  sarebbe rimasto ammessa la tesi di Croce nè più nè meno che un nome vano senza subbietto, ovvero, per  dirla più esattamente con parole sue stesse un'utopia  della specie più stolta, perchè utopia del contradittorio », appunto  perchè in quel 7290 del mondo dello spirito, ch'egli è riuscito  a raffigurarci con la sua Zstezica, base o fondamento di tal  mondo, tutto come in lungo e in largo abbiamo potuto  constatare — ci viene fatto di trovare, razze, appunto, lo  spirito? Il quale, pertanto, — e ne abbiamo avuto, anche,  ad ogni passo la prova, nell’aggirarci criticamente per tal  regno mai come nella sua assenza rivela la nececsità della  sua fresenza, precisamente sotto la forma altrettanto imperiosa quanto inflessibile della recessità logica, e cioè a mezzo, appunto ,  di quell’imperio universalmente riconosciuto, ch' è proprio del  principio di zo contradizione. G.: L'arte e la sua funzione creatrice:; Casa Edit,  Albrighi Segati e C. Veggasi anche, presso la stessa casa: il fascino dell’ arte  di Dante, nel quale lavoro i principî teorici sostenuti nel precedente volume  hanno trovato la loro diretta applicazione nelle maggiori opere d' arte antiche  e moderne,  E poichè, intanto, la filosofia per Croce è nient'altro che coesenza mentale, la quale coerenza si trova anche in uomini che vivono in una  cerchia assai ristretta d’esperienza e che la sicugggta degli addottrinati chiama  ignoranti, laddove può accadere che, in quel che davvero è sostanziale, 7g70  ranti siano gli addottrinati e non essi », non si deve, per ciò stesso, concludere  che Croce è senz'altro non filosofo ed gnorante, insieme? Chè, in  PS Verità, come non filosofi sono coloro che non soffrono dell’ incoerenza e n  si travagliano nel superarla », così non può non essere filosofo anche colù  che non scriva di filosofia e perfino ignori il nome di questa disciplina, e non-  dimeno abbia compiuto e compia il lavoro di porre ordine nel suo intelletto eu k  di formarsi, come si dice, idee rette sul mondo e sulla vita, e sia aperto ai  dubbi, che hanno sèmpre virtù di renderlo pensoso, e, per vie non scolastic i di  consegua sempre quel tanto di filosofia che gli bisogna. Non senza ragione si  ammira, talvolta, la « filosofia » di certi modesti uomini, e perfino di popolani e contadini, che pensano e parlano saggi e posseggono con sicurezza le verità :  sostanziali: non si tratta, in quel caso, di uso metaforico della parola, ma d  uso proprio, e metaforico sarebbe da dire piuttosto l’uso che se ne fa col largirla ai compilatori di tesi e di dissertazioni e ai recitatori di lezioni, deserti  di spirito filosofico. Quando poi l'attitudine filosofica giunge a quella forma ampia e inten che investe tutti o quasi gli ordini dei problemi di un'età, si ha il filoso  specificamente detto o addirittura il genio filosofico, da non confondersi, certo, punto punto, cogli scrittori e professori di filosofia. Pongo quest’avvertenza perchè non vorrei che altri, rivedendo in immaginazione certi  volti e figure non interrompesse col riso quello che vado dicendo. Quel  genio filosofico, voglio dire, che sembra così remoto e alto sugli al  uomini e pure è loro così vicino, e raccoglie e unifica i loro sparsi cona =  e converte in precise domande le loro angoscie, e dà loro risposte, che A  se anche non intese dai più o alla prima, si vengono traducendo in comun  convincimenti e sentefize e modificano a poco a poco l’ ambiente sociale  storico. Il filosofo di natura*e vocazione è dominato dal bisogno della coé  renza mentale, e, simile al poeta, anche nelle più vivaci lotte pratiche, e ne  più acerbi dolori, non appena gli accada di avvertire in sè, per effetto di es  un dubbio, una contradizione, una incoerenza, materia a un problema, si astr  e si assorbe nella meditazione, e vi rimane assorto finchè non abbia affermato o riaffermato il nesso logico che gli sfuggiva; e in tal riassodato possesso ritrova la serenità e con essa la forza d’animo per resistere nelle lotte e vincere  i dolori e praticamente operare. Cwifica). li Or poichè in forza di codesti principi del tutto bene fondati, fissati da CROCE (si veda)   stesso, è da escludere senz'altro, adunque, ch'egli, pel primo, sia filosofo, appunto  per la singolare sua insensibilità diremo al dolore logico della contradizione,  onde la invincibile sua incoerenza mentale, che proveremo, d’altronde, ìî  altre sue opere, senza pur tenere affatto conto della «superficiale considerazione ch’ egli usa nel trattare i problemi che concernono la vita dello spirito come spiegare che nel mondo culturale egli é ritenuto, intanto, addirittura della classe più alta dei filosofi; e cioè filosofo di natura e vocazione, ragione  per cui le sue opere, e l’estetica proprio più di ogni altra, hanno avuto il  particolare onore di essere tradotte in tutte le lingue di tal mondo? Non s  potrebbe, a parer nostro, spiegare altrimenti questo fenomeno paradossale che riconoscendo, davvero del fondamento alla famosa domanda dello Champfort Combien faut-il de sots tour faire un public, e col convenire, d'altra  parte, collo Stendhal, che le opere più largamente diffuse e lodate da sì fatto  pubblico sono precisamentequelle più largamente dosate sul grado di cretineria degli spettatori e dei lettori. In ogni modo, questa disfatta del pensiero crociano, ammessa e riconosciuta, s'è visto, ex ore suo stesso per essersi immesso in una via senza uscita, bene può dirsiuna disfatta in gloria, più superba di tanti trionfi, in  quanto coll’ ammonirci che ogni tentativo di ricalcare quelle orme sarebbe non  altro che un vano sacrilegio, sia pur da parte di gente inconscia, ci fa ritenere esecrabile e sacra quella via. Tale, almeno, essa rimane per noi, che da essa  appunto traemmo l’avviso ed ammaestramento, insieme, di percorrere con tanta più saggezza quanto maggiore consapevolezza la via che abbiam preso  a seguire, coll’intento di raggiungere con maggiore affidamento quel torturante  segreto connesso col più oscuro e fondamentale, insieme, dei selle eriomi della vita universa, secondo Reymond: l’enigma concernente l’origine del pensiero. Pasquale Gatti. Keywords: filosofia del linguaggio.

 

Grice e Gatti:  la ragione conversazionale e l’impplicatura conversazionale poetica – filosofia napoletana – scuola di Napoli – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he philosophised on Aristotle’s Poetics, something we hardly do at Oxford! And many other things, too!!” -- Nato di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a Napoli sotto Puoti ed ebbe, come colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora  a “Il concetto di progresso.” E a “Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli. Le fondamenta del suo pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin, sul quale scrisse “Di una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua filosofia.” Sostiene che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole filosofiche e reputa indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la filosofia cousiniana avvicinandosi in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo nasce la convinzione secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e l'evolversi della storia provengono entrambe da un principio comune: la legge universale della ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la filosofia attuabile solo all'interno della realtà storica in quanto è la scienza generale di tutto l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in “L’arte.” Critica la dottrina aristotelica secondo la quale l'arte è una riproduzione (mimesi) della natura, contrapponendole la filosofia hegeliana che ritiene l'arte riproduzione (mimesi) del sovra-sensibile, delle idee, del noetico. (“L’estetico e mimesi del noetico). In “Della filosofia in Italia” si sofferma sul pensiero e la cultura italiani contestualizzandoli nella filosofia europea. Esauritosi il periodo florido della diffusione della scuola hegeliana, la rivista del Gatti andò incontro ad un lento declino e fallì anche nella creazione di una nuova testata editoriale chiamata Rivista napoletana di politica, letteratura, scienze, arti e commercio.  Altre opere: “Della fenomenologia”; “Fichte e il concetto di scienza; “La filosofia della storia in Grecia”;“Filosofia”. Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. treccani. Si è detto, ora non saprei più da chi la prima volta, e poi da moltisièsovente ripetuto che VICO autore di un sistema che i suoi contemporanei non poteano intendere come quello che dovea esse re la scienza di un'altra età, e il frullo di nuovi germogliamenti dello spirito, non aveaperquestaragione potuto raccoglierein vita il premio di quella gloriacheinepotipiù idoneia giudicare dellapoteoza dellasua mente e del valore delle sue dottrine, glidoveanoalarga mano prodigare dopo lamorte. Or questo modo di considerer la cosa è senza fallo giustissimo quando vel filosofo napoletano ,come in tutti i filosofi del mondo, anziintuttiquelliuominichesonosi più che mezzanamente sollevati sull'universale, si voglia sceverare due parti es senzialmente diverse insieme, e che congiunte solo per accidente, co. stituiscono una dualità permanente nell'unità stessa dell'individuo. Di queste due parti, l'una tulla relativa è determinata dalle condizioni esteriori della vita,da'luoghi eda'tempi a cui siappartiene, dagl’uomini da'qualisiè circondato, dall'educazione stessa che si è ricevuta, dagli studii a cui più si è piega talamente, dal primo libro che si è letto, dalle prime impressioni d'infanzia, dalle seguenti occupazioni dalla famiglia, da'parenti, dagliamici. L'altra parte sottratta a tulte queste contingenze non si appartiene veramente a njun luogo o tempo determinato ma a tutti del pari, nè ha da far sulla con alcuna speciale condizione di vita. La prima di queste due parti scende insieme col corpo nel sepolcro e dopo della morte non se rimango no più tracce, la seconda per contrario sopravvive all'ultimo giorno ed assicura all'uoino coll'immortalità la perpetuità della sua presenza fra'più lontani nepoti. Similmente in ogni sistema per quanto nuovo e profondo e fruttifero essosia, trovasiunaparte che è direltamente determinata non solo dalle proprie particolarità dell'indole e dell'ingegno del suo autore, ma si ancora da quelle del luogo e del tempo in cui venne fuori, inmodo che di questi conservando sempre la special fisonomia, ne parlecipa spesso agli errori e a'pregiudizii. Questa è quella parte caduca de’ sistemi, la qual e non sopravvive mai a quelle condi zioni speziali che le hanno dato origine, eche, quando quelle son cambiate, non ba più niun valore, ed è condannata all'obblio imman. cabile delle età posteriori, quando caduta nel dominio dell'istoria, non fa più partedella scienza viva e feconda di conseguenzee di applicazioni le cui tracce si scorgono presenti, quasi all'insaputa di tutti, in ogni ramo del sapere e in ogni manifestazione della vita. Conciossiachè non solo ogni nazione, ma ogni secolo haunasua impronta particolare, ha uno special modo di veder le cose, una sua propria logica, per la quale anche aquell ecose che tiene per vere dalle età precedenti, non giunge per i medesimi procedimenti, ma per altre vie, per altri melodi, per argomentazioni e prove di diversa natura. L'altra parte, quasi l'altro elemento costitutivo di ogni gran sistema, è per contrario indipendente da ogni condizione di luogo e di tempo, non ha in sé nulla che sia momentaneo o relativo, ma stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non rivelasi lulla intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano uomo, nè alle investigazioni di niun secolo , imperciocchè è la conquista ideale dell'umanità che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a poco a poco conquistando ora una ora un'altra parte in mezzo a errori ed acolpe, a mensognee da violenze, ainganni ed a pregiudizii d'ogni maniera. L'edifizio intanto del sapere insepsibilmentema irreparabilmente sia ccresce, atteso che lo spirito umano non d'altra cosa aiulato che dall'opera del tempo, va d'ogni sistema sceverando le parti false e vane e relative a cerle determinate contingenze, va spogliando della superflua ed incomoda scoria quella parte di eterna verità che in ciascuno si rac chiude, la fa diffinitivamente sua e la trasmetle come sacro deposito e in dubitabile acquisto alla seguente, che facendone suo pro, l'arricchisce di nuovi progressi, ne'quali quelli che vengono dopo di essa banno ad esercitare il medesimo lavoro di purificar l'eredità ricevuta e di accrescere il patrimonio. Cosi la pianta fecondissima della scienz acresce di secolo in secolo con non interrotta germinazione, non altrimenti che cresce un albero fra leassiduecure dell'agricoltore che ne innaffia e lelama diligentemente le radici, e a suo tempo ne taglia colla scure i sermenti vecchi ed isutili. Questa è quell'aurea catena di cui, se non vado errato, parlava Platone nell’ACCADEMIA, per la quale l'un secolo trasmette all'altro l'eredità del sapere, come un sacro deposito che esso è tenuto di accrescerea suo potere e tramandarlo al susseguente; benchè non tutti i secoli possono ugualmente a ccrescere quel deposito, non intuttigli elementi secondarii e contingenti che circondano i frammenti della verità eterna son della medesima natura e nella medesima proporzione con essa. E questo è pure quell'ecletismo pon artificiale , quale può farloun uomoouna scuola e che o manca di criteriooneha uno in cerloe si risolve più tosto in sincretismo, ma reale ed istorico il quale hapersuo autorelospiritoumano stesso che di secolo in secolo va sceverando da sistemi la parle condizionata e temporanea da quella che come frammento della verilà assoluta dee restare senza alterazione niusa in suo perenne dominio. Cosi il frullone abburrattando la farina de discevera il fiore dalla crusca inutile , e cosi molte verità da' tempi non dico di Arislotile nel LIZIO ma di PARMENIDE DI VELIA e di ZENONE DI VELIA (VELINO), sono rimaste tuttavia sulla terra , dove che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato nè alla forma nè al fondo del pensiero di generazioni cosi lontane ad essi per distanza di luoghi e per diversità dit empi. Secondo queste considerazioni è indubitato che in tutto l'insieme del sistema del VICO trovasi una parte di un valore assoluto che è ri masta per sempre nella scienza ,ed a cui eran troppo immature le menti de'suoi conleinporanei, i quali o no a neinlesero affattoosolone  frantesero e ne misconobbero la vera importanza. Ma accanto a que sta un'altra ceneha per la quale il filosofo napoletano legasi diretta menteco'suoitempi, echemeglio intesaevie piùapprezzatada' coe. lanei non ha più per noiniun valore , ed è caduta come cosa vieta in dimenticanza. Sicché a lui, come a tutti igrandi uomini, è avvenuto che per una parteè uomo assolutamente de'suoi tempi, econessi perquella partesièmorto, dove che per un'altra è contemporaneo de'suoi nepoti, e per essa a se medesimo sopravvive. Non giả che i puovi filosofi da lui abbiano preso il concetto della filosofia dell'isto ria,come alcuni sono andati dicendo, credendo cosi di accrescere, quando invece diminuivan la gloria e impicciolivan lavera grandezza di colui che voleano magnisicare. Conciossiache picciolissima gloria, e che soloapochi, e forse a niuno anche dei mediocrissimi e mancata, si è quella di comporre un sistemache ad altri inun altro secolo piacerà poi di seguire. Ma grandissima si è quella d’indovina re e quasi divinare tutta una scienza per la quale la pienezza de' tempi non è ancor venuta, ed a cui un'altra età dovrà essere condotta per i nuovi progressi dello spirito, comunque per altre vie, per altri metodi e come per dialettica deduzione di principii di diversa natura, siccome appunto è avvenuto per la filosofia dell'istoria molto tempo dopodel VICO, che primo la presenti. Ma non potendo, com'eranaturale, presentir tutto, procedette senza metodo e senza principii proporzionati da cui dedurla, sol per induzione da fatti troppo speciali, e in mezzo a tali tendenze intellettive che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio diquelle costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente stabilirsi. Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che la stagione più propizia non fu giunta, a cui non furono nascoste levere vie che poteano condurre alla nuova terra promessa, scoverta da lungida un arditissimo navigatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea potuto approdare, ma non prenderne sicuramente possesso. Quasipareche lo spirito travedendo di lontano la novella scienza, avesse fatto un primo tentativo per conseguirla, ma destituito degli altrezzi e delle armi che a quella conquista si richiede a no, avesse dovuto temporpeamente mettersi giù dell'opera per fornirsi in silenzio de'mezzi che gli abbisogna  vano, e quando ebbeli tutti presti ed apparecchiati, ritornare con m a g gior confidenza all'interrotta impresa, e riuscirvi con miglior successo. Non si vede egli talora quando già la fióe dell'inverno si avvicina m a ancora la primavera è di lungi, un solitario fiorellino quasi racco gliendo i primi caloriche si cominciano a muovere per legelateaiuole, spuntare tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddo e bianchi dalla Deve? Ma quel primo sforzo e troppo precoce della natura riman solo, nèèseguitoda altri sino a che alla stagione avanzata, nuovi torrenti di calore tutte compenetrando le zolle più mature, covrono di famiglie innumerevoli di fiori la faccia de'prati e i dossi delle colline. Qui maggiore è la copia e la bellezza, ma più ammirato è il fiore del febbraio, infrulluoso e solitario indizio d'una ricchezza a venire di cui tutti largamente godranno, ma che poca o niuna maraviglia non saprà più ri svegliare agli sguardi assue fatti. Se poi prendiamo quel sistema di VICO  nel quale appunto ha tra sceso i confini del suo tempo divinando l'avvenire, vitro veremoma pifestada pertutto la presenza del giureconsulto nepoletano dellafine del decimo settimo secolo, e accanto a que'principii che si veggono diventati proprietà eterna della scienza e son passati quasi nella cosienza universale del genere umano,ne troveremo altria cui nessuno più non saprebbe attribuire alcun valore, e che si posson dire caduti per terra e dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo glieseccheche ancora si trovano insu'rami degli alberi a mezzo novembre per lasciare nudo il tronco che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione si dovrà rivestire. Troveremo lui aver messo a capo del suo sistema un dualism I cui due termini non possono stare insieme, quello cioè di una mente, di una ragione, di un mondo delle idee che fa colle sue proprie leggi il mondo de'fatti, e quello di una volontà estranea di cui la scienza non puòtenere niun conto, essendo che i suoi atti appunto per essere volontarii non si possono sottomettere a niuna costruzione scientifica, cioè a priori, ma sono essenzialmente contingenti. Troveremo lui aver detto che la sua scienza del la storia è una vera teologia delle idee divine, la qual cosa se può esser vera in altr isistemi, appunto nel suo è falsa. Troveremo averegli traveduto il principio che la storia dell'umanità si va facendo per mezzo di un successivo passaggio da una fortuna più materiale a una più spirituale, da una più oscura e incerta di sè a una più chiara e più consapevole, ma non aver potuto vedere né il come nè le leggi d i questo cammino , nè tutte le sue conseguenze, nè tutto l'insieme delle sue applicazioni. Troveremo che dopo di aver veduto la correlazione che è tra le idee e i fatti, la concepi però a rovescio dicendo che l'ordine delle idee dee procedere secondo l'ordine delle cose, il che sepureè veroinunsenso tutto psicologico e a posteriori, è falsissimo, anzi privo affatto di senso, negli ordini dell'ontologia e dell'istoria. Or lutto quanto illibro della scienza nuova procedendo a questo modo svela costantemente agli occhi del riguardante la presenza di due uo mini, l'uno giureconsulto napolelano del decimo settimosecolo,e l'altro filosofo divinatore di un pensiero che dovea esser quello di al tri secoli a venire, e predicente una scienza che egli stesso non in tende a che a mezzo. Ma nelle altre opere questa dualità scomparisce, o almeno il secondo e nuovo uomo si eclissa tanto darestar quasi tutto intero il campo al primo, cioè all'uomo dotto dell'età incuigli era sortito di vivere. Le opere contenute nel volume il cui titolo è in capo di questo scritto sono piùtosto di questa seconda specie che del la prima, quantunque non bisogna dimenticare quello che del resto è quasi inutile di dire , cioè che la parte più universale dalla sua mente non si nasconde mai tanto che e'non si veggano sempre e da per tut topresenti le tracce di quello spirito che ha pensato il primo sulla terra una scienza dell'istoria. Io non parlerò delle diverse orazioni su varii subbietti, delle quali le latine son tradotte in italiano da Pomodoro, che con tanto amore si è volto il primo tra noi a dare una raccolta compiuta delle opere del filosofo napoletano. Neppure parlerò della sua vita scritta da lui medesimo e che anche trovasi nel presente volume,importante sopra tutto per questo,che in essa trovasi delineala la storia intima della mente di VICO, e vi si assiste alla generazio ne di tutto il sistema nato nel suo pensiero ( cosa straordinaria e quasi incredibile ) non di un principio metafisico , che dee essere la sua vera sorgente, m a più tosto da particolari considerazioni sull'insieme del DRITTO ROMANO e sull'istoria di ROMA. L'opera di cui più particolarmente mi propongo di ragionare quella dell'antichissima sapienza degli Italiani,la quale se pure io non m'inganno stranamente, non solo ci rappresenta più chiaro VICO del suo secolo, ma non ci rappresenta altro che questo, nèmaisenzalei dee e le teoriche che erano in voga a quell'età, e fino senza i pregiudi zi i e gli errori del tempo non sarebbe stata concepita, nė mai, neppure iltitolo, potrebbe ora saltare nella mente di niuno. Io non parlo delle speciali teoriche professatevi, di cui alcune si hanno o poco o niun v a lore, e altre ne hanno uno grandissimo m a non si appartengono a VICO propriamente, anzi a tutta la filosofia da PARMENIDE DI VELIA a Leibnitz e da Leibnitz a Hegel, ma quello che merita di esser considerato come pro prio di lui, si è il modo di deduzione e il procedimento con cui vi è pervenuto, pel quale una volta messosi, ne ha tirato delle conseguenze istorichee creduto di giungereaunaseria scoverta filosologica, quan tutto riposava sopra due o tre falsi supposti che sono il perno intorno a cui si aggira tutta l'opera, e ne formano non meno la conchiusione che la base. Or ecco in che consiste tutto il sistema. Nell'uso di alcune voci e modi di dire de’ LATINI VICO ha veduto o creduto di vedere un profondo significato metafisico, che dimostra un gran progresso fatto in questa scienza presso il popolo che in quelmodo parlava; dall'uso che essi facevano delle voci causa eeffetto vero e fallo, ed altre simili egli deduce il sistema metafisico di cui quelle lo cuzioni erano l'immagine e che dovea trovarsi nelle menti dico loro che le avean irovale e che cosi le adoperavano. A questa prima scoverta poi tutta filosofica di sua natura, se ne veniva ad accoppiare come per consegnenza un'altra filologica o istorica intorno al popolo che era giunto a cosi profonda sapienza, a cosi riposta dottri na da essere autore e di quella filosofia e di que'modi di parlare. Certo IL ROMANO non potè essere, delquale sisa indubitatamente non avere atteso ad altro sino al tempo di Pirro che all'agricoltura ed alla guerra, diche è mestieri di risalire più indietro sino al popolo da cui quello di ROMA ricevette con la lingua quelle locuzioni, e lui senza più dichiarare popolo di profonda dottrina, e presso il quale la metafisica avea dovuto giungere a uno non comune grado di eccelleoza. Nè la storia ci può la sciare lungamentein certinellascelta, sapendo siche i due popoli con cui I ROMANI ebbero ab antico più strelte relazioni si furono i Joni della Apao. Questa serie di dedazioni ci mena alla giustificazione nel titolo dell'opera, DELL’ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI, ciò sono i Joni e gli Etruschi, i quali per questa via si scovre aver dovuto essere dollissimi in metafisica, e poichè da essi presero I LATINI gran parte della loro lingua, si trovò questa come per eredità o più presto per invasione straniera picha di concelli metafisici,comunque il popolo che la parla ne fosseesso medesinioin consapevole, ničsi potesse dasèsolo sollevarea tanla altezza.Ne qui le deduzioni istoriche si arrestano,anzi partendo da quel lepremesse, siè condotti assai più lungi, fino acongetturare che gli Egiziani quando fioriva appresso di essi e l'imperio e la potenza e l'ar. dimento delle lontane spedizioni,navigando per il mare interno che lutto signoreggiavano, avessero doyuto dedurre floride colonic per le cosle diquelle, ecosiportare in Toscana la loro filosofia. Quivi poiessendo surto una ssa i gran regno che diede il nome a lulto quel tratto di mare che Lagna di Toscana fino a REGGIO l'Italia, anche la lingua degli Etruschi si dovette per quello diffondere, e di questa più dovellero prendere i popoli più vicini del LAZIO. Per la qual cosa non si dec credere che Pitagora avesse dalla Ionia portato in Italia la sua filosofia, m a sibbene esser venuto in Italia ad impararla, e sol dopo di essersi ammaestrato nella metafisica italiana, cio è etrusca, la quale non era altro che l'egiziana, essersi stabilito in CROTONE e qui vi fondato la scuola. Di quila sua filosofia si sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac ce nella lingua, della quale gran parte passò poi a’LATINI, iu guisa che sc ci ha voce latina di filosofica signicazione, quella si dee tenere essere stala prima in Egillo, poi in TOSCANA e quindi passala in Magna Grecia. Per questo modo ne'fossili della lingua latina si trova tutta la sapienza degl’etruschi, e dalla notomia di quelli noi possiamo ricavare tutta la anctafisica che era in voga sulle rive di ARNO prima che il TEVERE ba  e  magna Grecia e gl’etruschi, dei quali d'altra parte si sa che furon popoli dottissimi, gli uni avendo dato nascimento alla filosofia italica dell'antichissima sapienza degli altri facendo ampia fede la purità del la loro religione, l'augusto concetto che essi aveano dell'ente supremo, i sontuosi sagrisizii, la teologia civile onorata , la naturale praticata, e con questo l'architettura antichissima e semplicissima,a far testimo. nianza che essi furon dotti nella geometria prima de’Greci.  gnasse la città de'sette colli. Con un passo di più ma senza allontanar ci dal sistema di VICO, anzi seguendolo fedelmente, solo affidandoci al l'uso di poche parole latine, noi possiamo esser sicuri di essere in pieno possesso della cosmologia e teogonia egiziana. Ho voluto insisterealquantopiù a lungo sulle vere pretensioni di questo saggio del filosofo napoletano, sol perchè basta l'esporle nettamen leperchèsene veggano chiaro i lati deboli che sono nè più nèman co che tutti isuoi lati, la cui poca consistenza połea essere nascosta un secolo e mezzo fa, m a ora non ha più scudo che la possa difendere da piun colpo della moderna critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un inimico domestico e cognato nel VICO della scienza nuova, il quite le condotto da altre divinazioni più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a quella de'suoi, poevade'principiii qual inegano le basi su cui poggia tutto il libro dell’ ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI. E in fatti in quel sistema che più lo ravvicina a noi e più lo stacca da'suoi contemporanei, egli riconosce tutta l'opera del popolo nella formazione delle lingue, e quasi lo riguarda senza ambagi come una creazione spontanca di quello, quando spiega tutte le diversitàchesono fra le une e le altre per mezzo della diversità che passa fra la natura o icostumi de'differenti popoli. Ma questo principio che veduto in tutta la sua plenitudine esvolto secondo il rigore della logica sarebbe stato fecondissimo d'importanti conseguenze, non gl'impedi di arrestarsi m a ravigliato innanzi alle locuzioni che a lui parvero troppo metafisiche DELLA LINGUA LATINA, per tal modo che dimentico del popolo edelmon do delle nazioni, ostinatamente volle vedere in quelle l'opera meditata de'filosofi che dopo di averlo composte e sanzionate coll'autorità del loro sapere, le sparsero e le feccio adottare al popolo, da cui poi le ebbero in eredità gli altri che la dottrina e ingran parte la lingua diquelloereditarono. Ora non i principii, comunque ancora incerti, dell ascienza nuova condussero VICO aquesta scrie d'idee, ma sibbc ne la filosofia del suo tempo, contro la qualc egli in gran parte prote stava, e tutto il general modo concuisiri guardavano allora le cose, e che egli senza saperloe senza volerlo, etalvoitapurvolendo ilcontra rio, avca comune con tutti.Ora uno de'punti principali della filosofia del secolo passato si è il non aver riconosciuto in piente l'opera sponla nea dell'umanità e l'aver veduto da pertutto il prodotto volontario e riflesso e però consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto della società civile non vide altra cosa che UN CONTRATTO con cui gli uomini si erano volontariamente convenuti fra sè divivereinsieme per il maggior comodo e la maggior sicurezza di tutti; nelle religioni non vide che il trovato de’ pochi per contenere i molti, e farlipiegare coll'au torità di esseri superiori agli umani , a quelle cose che essi avean risolutoessere d’universale vantaggio o di loro particolare utilità; nella poesia e nelle arti non vide che l'occupazione di alcuni uomini di più squisita immaginazione e di maggiore ozio che gli altri, i quali per loro proprio diletto e per altrui si decideano didarsia quell'esercizio, seguitando delle regole parte tirate dalla natura stessa delle co se, e parte stabilite per reciproca convenzione fra quelli che si era no volti al medesimo non so se mestiero o passatempo; finalmente nelle lingue non iscorse altro che un sottil ritrovato e una universale convenzione degli uomini, iquali essendosi accorti di avere l'organo delle voce vie più pieghevole che quello degli altr’animali, si erano risolutamente decisi, non senza esame, di voler mettere aprofittoquel Ja flessibilità della gola, e servirsene senza più a render più facili e speditele loro reciproche relazioni. Da questa teorica non era lungo il cammino da percorrere per giungere all'ipotesi, o per dir meglio,al la conchiusione del VICO, il quale, come prima si fu imbattuto in locuzioni che gli par vero avere del filosofico in sé, subito giudicò non il POPOLO IGNORANTE, ma sibbene ifilosofiaverne dovuto esseregliautori. Di che senza por tempo in mezzo,si diede a ricercare dove doveano poter esser que’ filosofi da cui eran venuti parlari filosofici a un popolo che non ha filosofia, e trovolli nell'ETRURIA e nella Magna Grecia e, risalendo, nella patria de’ Faraoni. Maisistemi talvoltasoncuriosi davvero; e curiosissimi sieran questi, i quali negavano le cose più ovvie, il fatto, la storia, la vita, l'uomo, per accordar tutto a’filosofi; razza nobilissima e d'ogni considerazione degnissima, ma cosi poco di sua natura operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un solverbooun articolo. Ora il fatto si è che il popolo, e qui, intendiamoci bene, popolo valquanto genere umano o spirito umano, il popolo adunque in cerle cose non è da meno e in certe altre è da più de'filosofi. Ancora non si dee credere che nello spirito de'filosofi trovisi assolutamente più di quello che ènello spirito di ogni uomo, cioè nel popolo. E se nelle coloro menti trovasi tutta chiara ed aperta la teorica della ragione e degli elementi che la costituiscono, e la scienza delle sue leggi e del nodo come esse operano, la mente del popolo per mancare di quella teorica o per ignorar quellascienza non è men ri schiarata dalla medesima ragione, nè men costituita dagli stessi ele. menti,nè men regolata dalle medesime leggi,conciossiache se cosi non fosse, la filosofia non sarebbe più la scienza dello spirito umano, ma lascienzadello spirito de’ filosofi; il che, se io non m'inganno, dove sufficientemente nuocere alla sua importanza; la sola differenza che passa tra il filosofo e colui che non è filosofo, si è che l'uno sa quelche egli ha, laddove l'altro loha senza saperlo; l'uno possiedee pur possedendo e usando della sua possessione,non ha mai posto mente a quel che egli possiede, dove che l'altro non solo possiede ma si è occupato di sapere la natura, il valore, le leggi, l'importanza, gl’elementi, il modo di operare, le relazioni e le condizioni di quello onde egli è in possesso. Ora le lingue son come figliuole di due madri,cioèsonoilpro. dotto di due cause che operano ngualmente nella loro formazione, vale a dire delle attitudini naturali e delle fisiche condizioni degli orga ni della voce da un lato, e dall'altro della natura morale dell'uomo e delle leggi sostanziali dello spirito. Di che ogni lingua se nella parte puramente esterna e fonetica de'suoni, della loro trasformazione e corruzione, e del loro passaggio adaltri secondarii e derivati, e in tutto quello che riguarda l'istoria naturale della parola, segue invariabil mente le leggi naturali dell'organizzamento fisico della gola, in quanto al contenuto interno di essa parola rappresenta tutti i principii psicologici del pensiero, tutti gli elementi ontologiciche in esso si rinchiudono, esecondo le leggi logiche del pensiero stesso coordina e dispone l'espressione estrinseca di tutto quello ch e il pensiero ha lavorato, e che nelle misteriose profondità della mente è stato apparecchiato. Certo si nella formazione che nell'esplicamento delle lingue non tutto si può ridurre e principii razionali, e qualche cosa ci ha che si sottrae all'analisi e dipende da quella parte inesplicabile dello spirito umano, che senza essere ilprodotto o l'espressione di una o di un'altra sua legge determinata, risulta dall'azione nė descrivibile nè determinabile di tutte quante insieme, e dall'opera simultanea di tutte quelle forze in cui si appalesa la vita nelle sue infinite manifestazioni. Ma oltre a questa parte che si sottrae ad ogni investigazione e ad ogni esplicazione scientifica, l'edificio di ogni lingua è legato per la parte estrinseca alle leggi anatomiche e fisiologiche del corpo, e per l'intrinseca alle leggi morali dello spirito, in modo che siccome ogni sintassi nel coordinamento delle parole e delle frasi è regolata dalle leggi logiche del pensiero, e cosi ogni etimologia rinchiude in sè un sistema compiuto di tutte le categorie della ragione; e siccome non può trovarsi nello spiri to più o meno di quel che trovasi nella lingua , in cui talti i suoi ele menti raggiungono un'esistenza estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi nelle lingue nè più né meno di quel che sia nello spirito nel qua leessee le categorie dicui esse sono l'espressione hanno la loro esistenza intrinseca e soggettiva. Per la qual cosa non ci è nulla che sia meno arbitrario e meno convenzionale delle lingu, nè ci LA LINGUA DI POPOLO COSI BARBARO o selvaggio che non rappresenti e non contenga in sé un intero SISTEMA DI LOGICA [RUSSELL – STONE-AGE METAPHYSICS], e UN INTERO SISTEMA DELLE PIU RECONDITE CATEGORIE DELLA RAGIONE. Ben si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere ragiona di quelle parole latine che sembrano contenere un significato più a stratto e metafisico, senza avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo progredito assai oltre nelle vie della dottrina e della filosofia, da cui I ROMANI nè dottiné filosofi abbiano dovuto ricavarle. Già l'ipotesi di VICO incontra nel fatto di tali difficoltà che niuno oggidi ancorchè men che mediocramente iniziato in certi studii, non avrebbela concepita nella mente senza voler che di lui si dicesse col proverbio che egii fossesi posto a pestar l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui spezialmente cadono lo investigazioni filosofiche e istoriche di VICO sono di origine e di formazione cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa abbian da fare con esse gl’etruschi o į Jonii , o come abbia poluto saltare altrui in mente che I ROMANI lc abbiano prese dalle costoro lingue, o almeno imitato da essi il modo di adoperarle. Tan!e  più che se in ana lingua si possono trovar parole di origine straniera, il modo di adoperarle non è ma istraniero opresoin prestanza da altri, MA PROPRIO DAL POPOLO CHE LA PARLA, il quale nell'usarne, imprime in esse il suggello della propria nazionalità e le fa sue, senza dire che un popolo per imparare da un altro ad usare secondo un concetto metafisico le sue proprie o le altrui parole, dovrebbe innanzi imparare da quello tutto il sistema della sua metafisica, quando non si vuol riconoscere che ogni lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni dojtrina acquisita, è naturalmente e spontaneamente l'espressione di un sistema di metafisica riposto nel fondo dellaragione, e che costituisce l'essenza stessa di essa ragione. Per VICO intanto i Latini aveano a ogni modo dovuto imparar qnelle parole e que'modi di dire du altri popoli più dotti che essi non erano, e questi popoli non poteano essere che i Jonii e gli Etruschi popoli dottissimi e con cui I LATINI aveano strette relazioni. Vediamo ora quelche non già ioounaltroma tutto il sapere del secolo in cui viviamo oppone senza paura di contradizione al più dotto napoletano del XVIII secolo. Ne è possibile d'incominciare questo esame senza fermarsi in primo luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente nonpuò giustificare e che in nessun sistema e in nessuna ipotesi non si può difendere. E veramente non vi è niuno il quale abbia mai pensato a'Jonii o al dialetto jonico per sostenere la parentela di filiazione tra il Greco e il Latino, e le colonic greche di cui parla VICO, ca cui attribuisce nella formazione della lingua latina un'importanza che non si hanno maiavuta, noneranodiJuniima di Dori.Ilfatto slorico che la storia latina è  posteriore alla greca unito all'altro fatto della relazione di simiglianza fra le due lingue avca condotto alla con chiusione che l'una lingua dove essere derivata dall'altra, nè lasciato alcun luogo a dubitare quale si dovesse essere la madre e quale la figliuola fra la più giovine e la più vecchia. La stessa argomentazione poi avea fatto determinare più particolarmente questa relazione di m a ternità fra il latino e il dialetto eolico, che èquello fra dialetti della Grecia chepiù di affinità si ha colla lingua del Lazio. Intantolenuo vescovertedella scienza delle lingue hanno dimostrato questa ipotesi impossibile, havno scoverto nel LATINO tracce di maggiore antichità che pel Greco si nel sistema de'suoni e si nelle forme grammaticali non che nella genesi etimologica e nello stato attuale delle parole ; hanno scoverto la stessa specie e lo stesso grado di aslioilà , e talvolta anche maggiore,che è tra il Greco e IL LATINO trovarsi eziandio fra le duelin gue classiche ed altre ancora o meno conosciute o quasi del tutto igno te prima di a questi ultimi tempi, sicchè è stato forza di ricorrere all'ai. tra ipotesi di una lingna più antica di esse lulte, da cui come da comune stipitetutte quanteesse, e le altre ad esse simili discendessero, allontanandosene quale più e quale meno , quale in una e quale in un'altra cosa, ma ritenendone tutte e la general fisonomia, e il sistema grammaticale, e il comune materiale delle radici, in mezzo a quelle differenze che debbono fra’i varii rami di uno stesso tronco essere cagionale dalle speziali condizioni fra cui ciascuno di essi si è venuto separatamente formando ed esplicando , sicché la relazione di parentela è rimasta , anzi la famiglia si è trovata cre sciutadimoltialtrimembri creduliprimaaffattoestranei,masiè trovato quella parentela essere di fraternità e non già di filiazione. N ė si può negare che il dialetto eolico sia quello tra gli altri dialetti dell'antica Grecia che più si rassomiglia al LATINO, ma invecedi con chiuderne che questo sia nato da quello, si è dovuto inferirne che esso è come l'anello intermezzo, il punto di passaggio tra le due diverse forme di una medesima lingua, appunto come la storia naturale ci dimostra molte specie di animali , molte famiglie di piante, le quali sono l'anello intermezzo fra due specie di verse del mondo animale otra due diverse famiglie del vegetabile, e quasi come il ponte per cui mezzolanatura che non procede per salti,dall'una è passata all'altra.Cerlo molte paro le si possono trovare nel LATINO che vi si sono introdotte direttamente dal Greco, ma queste o sono di data assai più recente o sirisesconoa oggetti speciali, ad usi e invenzioni,a trovati comunicati dal conımercio e dalle esterne relazioni tra due popoli in quell'epoca e a quella parte della lingua a cui si riferiscono le investigazioni etmologiche e istoriche di Vico. Di parole straniere che per accidente sienpassatedauna lin gua a un altra ancorché di diversa indole e di diverse famiglie se ne trova in tutte le lingue, m a si è questo un fatto tutto contingente di cui sirende ragioneper mezzodel fatto delle esterne relazioni senzache nulla  se ne possa conchiudere per la forniazione della lingua stessa. La parola kalamos che è ab antico nel Greco per dinotare la penna o uno strumento aguzzo, una capna qualunque da scrivere, non è di origine greca, nè se ne trovala radice nelle lingue affini al greco, ma è di patria affatto straniera, parendo essere nè più nè manco che il semitico Kalem che in Arabo dinota la penna. Certo verisimilmente è da credere che avendo i Greci antichissimi appreso da'Fenici, popoli di stirpe e di lingua semitica, l'arte dello scrivere abbian preso anche da essi il nome dello strumento da esercitare la nuova arte. Ma dove sono le parole greche, eoliche, e joniche, come impropriamente il filosofo napoletano direbbe, corrispondenti a quelle con cui I LATINI esprimeano non già un utensile materiale, lo strumento di un'arte ignota prima e poi appresa, ma i concetti più intimi e più astratti dello spirito senza di cui il pensare stesso è impossibile? Le medesime cose, ma adassai più forte ragione si vogliono ripetere per l'Etrusco. Che da questa lingua si sieno potute introdurreuel LATINO delle parole relative ad usi della vita e a cerimonie sacre , è cosa che facilmente sipuò concedere massime chi pensi che molti riti religiosi dall'Etruria hauno dovuto passare in ROMA, ma non è possibile di trasformare questa azione tutta estrinseca, questa introduzione accidentale di alcune speciali parole , in un'azione più internaequasi primitiva dell'Etrusco sul LATINO.Vero èche questa non è propriamente l'idea di VICO, nè la conchiusione a cui egli intende di giungere coi suoi procedimenti etmologici. E già la qui. stione delle lingue era così poco avanzata , anzi così poco sopposta a' tempi del VICO, che non ad essa la sua mente si rivolse , non di es sa egli si occupò come conseguenza e coronamento della sua ipote si, ma sibbenedi quelladella filosofia. Einfaltinon altrovechein questo punto egli vide l'importanza della sua scoverta , e assai più che nel libro stesso v'instette nelle sue riposte a varie obbiezioni mossegli allora contro con una critica, che non vedea,e in gran parte non poteavedere i veri punti debolie impossibili a sostenere di tutto il sistema. Quivi si vede che VICO (si veda) pensa di aver fatto una stupenda sco verta istorica, perocchè vi è detto chiaramente che essendo gli Etruschi cosi doltissimi in cosi remotissima eti, come si vedea manife. b'o da' modi di dire metafisici che sol dalla loro lingua avean poluto passare nella latina, si dovea credere fermamente che la dottrina non avea poluto passare dalla Grecia in Italia, ma si da questa, cice dall'Etruria in quella, e quindi coordinando tutte le parti del sistema, ne conchiude che Pitagora non avesse portato allronde la soa fi losofia inItalia,quando alcontrariosiavea dacredere che venulo quivi ad appararla, riuscitovi poi dottissimo, si fosse fermato nella Magna Grecia a formar la sua scuola, sicchè quest'antichissima filosofia che la rappresentava avea dovuto passare dall' Etruria nel Lazio e dal Lazio nella Magna Grecia , e in Etruria avea dovuto primitivamente venire dall'Egitto. Ecco perchè io diceva più sopra che secondo questo sistema, le vere origini di certe parole e modi di dire della lingua latina si convengono cercarle senza più nella patria dei Faraoni. Ma tutte queste ipotesi riposano sul falso concetto che ogni voce di un contenuto edi un valore metafisico supponga un sistema metafisico divenuto popolare nel popolo che la parla , ogni sistema metafisico debba essere stato da un popolo portato nel l'altro. Se i Greci non avean potuto escogitarlo da sè , ma riceverlo da Latini, e i Latini dagl’etruschi, egl’etruschi dagl’egiziani, non so perchè non si abbiano da spingere anche più oltre le investigazioni, e cercare da quale angolo più remoto della terra avessedo vato venir trapiantata sulle rive del Nilo. La scienza moderna che è meno corriva alle ipotesi, e comunque sia spesso accusata di sognare, più riconosce l'importanza de' fatti prima di edificare un sistema, va più guardinga in questa quistione degli Etruschi, e non ostante la grande abbondanza de'falli che sono a sua disposizione, non ha sapulo per anche decidere che cosa eglino fossero stati e donde venuteci, nè che cosa si fosse la loro lingua, se cioè semitica o di origine arja, nè che relazioni si abbia avu ta la loro civiltà coll'egiziana. A ogni modo le induzioni per cui giungeva Vico alle sue opinioni intorno all'Etruria niuno è ora che ardirebbedi crederle di alcun peso o di prenderle in sul serio. Ben sono stati alcuni più moderni che le hanno sostenute, e avregnacchè l'istoria dimostri come cosa quasi indubitata che la civillà tenga nel suo corso ilmedesimo cammino che il sole cioè da oriente în occidente, han voluto che i primi principii d iessa fossero passati dall'Etruria nella Grecia, ma han cercato con fatli e argomenti e documenti che a VICO mancavano di sostener la loro teorica, comunque non sieno mai riusciti a sostenerla tanto da farla aceellare almeno per medio cremeute probabile a'più dotti in queste materie. E non ha guari abbiam veduto mancare a'viviio Napoli uno dei suoi ultimi sostenitori, uomo picchissimo di abbondante erudizione istorica, ina corrivo non so se ad:ingegno o per la natura stessa del suo spirito. ad abbracciar le opinioni più strane e le meno simili alle più comunemente ricevute. Spesso si èri posto come una specie di amorproprio Nazionale a sostenere colesta emigrazione del sapere dall'Etruria nella Grecia quasi per aggiungere un altro periodo di gloria alle glorie dell'istoria italiana E veramente pjente non è più giusto o più sacro quanto quel sentimento per cui un popolo si studia di accrescerei tesoro delle sue grandezze non meno presenti che future o passate, di queste perpetuare la ricordanza nella memoria degli uomini. Ma per esser gelosi custodi di questo tesoro noi altri Italiani non abbiamo a far violenza alla istoria, e volervendicare a noi quelche non ci appartiene, tanto più che quello di cui non si può dubitare che sia nostro è più che bastevole a non farci desiderosi di altro. Or la nostra ve ra e indubitata istoria incomincia da Peoma; il che mi sembra itd'an lichità abbaslanza remota, e una grandezza abbastanza gloriosa pera. Versenea contentare. Tutto quello che è prima di Roma, e già è assat in certo che cosa fosse, non ci appartiene. E veramente Italia non era ancora il paese rinchiuso tra le Alpie il mare, nė Halianiera noi Greci dell'estremità meridionale, I Siculi o gli Aborigeni del Lazio o gli Etruschi, Celti o gl'Iberi, se alcun tratto gl'Iberine occupavano, ma bene erano essi gli elementi primordiali i quali stritura li e fasi insieme dall'opera del tempo e dalla forza assimilatrice di ROMA, d o veano comporre il popolo dicui ha fatto l'istoria LIVIO, Macchiavelli e Botta; lavoro lento e gigante scoele con diverse proporzioni e solto diverse condizioni si è operato per altri popoli ancora; per questa sola ragionei Macedoni eran Greci, e Alessandro che se fosse nato du'secoli prima sarebbe stato barbaro, fu al suo    Innanzi di conchiudere questo scritto che avrebbe potuto esser più breve, ma che potrebbe prolungarsi ancora di molto, non credo essere inutile per meglio far comparire la vera natura delle obiezioni che homosse al filosofo napoletano, il ricordare comeegli non avea per cosa affatto nuova il modo delle sue investigazioni etimologiche, anzi fin dal principio del suo scrillo afferma che egli è per fare quel medesimo per la lingua latina che avea già fatto Platone per la greca, il quale dalle etimologie e composizione delle paroledi quella avea voluto scourire l'antichissima sapienza de'popoli che l'avean parlata. Se non che si forma VICO un concelto assai ristretto dal Cratilo se credea a questo solo ordinato quel dialogo, il quale abbraccia tutta quanta la quistione della lingua, della sua origine e del suo valore, coordinandola colla teorica socratica delle idee. Ben è vero che Platone anche delle etimologie si occupa in quel dialogo, e che, ove non il fa ironicamente e come per istrazio, intende di cavare delle induzioni intorno a'primitivi concetti del popolo fra cui quelle parole aveano avuto nascimento. Ma adonore del filosofo ateniese, si conviene confessare che il metodo delle sue ricerche non devia da'giusti confini, nè potea condurlo ad induzioni o false o immaginarie o arbitrarie o contrarie alla genesi delle lingue o ripugnanti alla vera palura. Della metafisica che inquelle si può trovare. Non abbiamnoi veduto che OGNI LINGUA CONTIENE IN SÈ UN INTERO SISTEMA DI METAFISICA (RUSSELL GRICE STONE AGE PHYSICS), ma di netafisica spontanea che in quella si trova all'insaputa dello stesso p o  t e m p o il rappresentante dello spirito e della civiltà della Grecia , e u n a delle più alte figure dell'istoria greca.Cosi le felci gigantesche del mondo antidiluviano non sono ilcarbon fossile ma debbono divenirlo, poiché , collo scorrere del tempo e coll'azione invisibile delle forze naturali si macerano a poco a poco , le differenze scompariscono, e da ultimo si trovano riunite in una sola massa che dee poi divenire uno de'motoripiù irresistibilinelle mani dell'uomo; ma leproprie tà che fanno onnipotente il carbon fossile non si appartengono alle umide foglie delle piante naufragate nel diluvio . Così le glorie q u a si mitologiche de’ Pelasgi e de' Rasena , de' Tirreni e de'Siculi non siappartengono a'discendenti del popolo di GIULIO CESARE e di Trajano.  polo che la parola , e che ve l'ha senza saperlo , depositata? Imperocchè le lingue figliuole tulle dell'identica natura dello spi rito e dell'identica struttura degli organi della voce sol differisco no nella loro composizione in quanto che quell'identica natura vede da diversi o opposti lati le cose , e diversamente concepisce le relazioni obbiettive che passano fra quelle.Per la qual cosa si può dalla natura di una lingua scovrire il modo in cui il popolo che prima l'ha parla la concepiva le relazioni fra le cose, e ilmodo con cui iconcetti meta fisici che presiedono segretamente alla composizione di essa si presen tarono al suo spirito. E se questo lavoro è ancora oggi pieno d'incertezze e di difficoltà, se era impossibile a'tempi di Platone, che fae gli cotesto? Basta che il discepolo di Socrate abbia vedulou na verità che solo i lontanissimi nepoti poteano dimostrare, e tentato un lavoro per compiere il quale, moltissimi secoli di esperienze e di scoverte non han potuto somministrare finora tutti i mezzi necessarii. Ma non cre dea Platone che una setta di filosofi avesse introdotto nella lingua i concetti metafisici, apzili attribuiva al popolo stesso, che egli per le esigenze del suo linguaggio filosofico, chiama il legislatore, il quale nella successiva costruzione della lingua ve li veniva spontaneamente e però inconsapevolmente trasfondendo. Në pensò mai Platone che da filosofi di altra nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori gioe, e quindi esser passate a'primitivi abitatori della Grecia, che per essere ancora ignoragti non le avrebbero potutemai più ritrovareda sè medesimi. Son queste le due ipotesi su cui è fondato il libro del l'antichissima sapienza degl'Italiani, ma nè dell'una nè dell'altranon è colpevole l'autore del Cratilo, Se io ho troppo insistito su queste cose, non è già per desiderio ehe io avessi di appiccare un'inutile giornata col maggiore de'filosofi napoletani, ma si per voler mostrare col suo esempio come camminando il sapere collandare del tempo, e trasformandosi quasi in ogni secolo la sua fisonomia, evedendo gli uomini nelle diverse età sempre diversamente pur le medesime cose, la grandezza de'grandiuomini non si vuol misurare dal numero delle verità che eglino possono ancora inseguare a'lontani ne poli, a cui pure essendo grandissimi, non possono  lal volta insegnare più niente, ma sibbene dal grado a cui eglino si so no innalzati al di sopra de'loro contemporanei, dalle nuove vie che prima degli altri hanno aperle allo spirito, nelle quali altri cammi p ando sono si arricchiti di verità ad essi rimaste ignote, e dagli sforzi con cui hanno potuto faticosamente e oscuramente veder da lungi quel che alle seguenti generazioni è stato poi agevole di veder chiaramente e di loccare con mano, senza che per questo si possano dir sempre seguaci de'primi, alleso che avviene soventi volte che una verità giunta alla sua maturità e alla pienezza de'tempi, si mostri per nuove e più facili vie anche aspiri!i meno alli, quando al tempo che era tuttavia immalura appena si era svelata per astrusissi mi sentieri alla potenza divina trice di solitarii ingegni. Chi è più grande di Aristotile? m a quale è oggiscolarecheintutte lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe meglio del maestro di coloro che sanno? O quale è scuola filosofica a cui basterebbe il proporre la massima parte de'problemi della scienza in quel modo appunto in cui si trovano proposti nell'Organo e ne'libri della Melafisica, anche in quei punti in cui il pensiero arislolelico quanto alla sostanza delle cose è identico col moderno? L'altra cosa su cui io voleva insistere siè questa, che un uomo pec quanto grande egli sia, per quanto s'innalzi al di sopra de'suoi contemporanei e de'suoi tempi, par non si può mai taplo da questi separare che la più parle delle sue idee, anzi esse tulle non abbiano in quelli lalorora dice, siche egli non può mai separarsi dal general modo d'intendere dell'età che lo vide nascere, anzi appuntoperque slo ègrande , che egli tutta la compendia ed esprime , aprendole le vie agli altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se tul teleidee de'suoi tempii nlujsiriflollono, insieme conquelle anche gli errori e i pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito, nè per quanto egli se ne distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle. Di che si vede quanto sia grande la semplicità di coloro che siappoggiano all'autorità de'grandi uomini in que'punti che eglino hanno in comune con tutta la loro generazione e che non costituisco no la loro vera e più squisita individualità. Molle volle mi è avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni; o siele voi più grande  di Alighieri il quale pensava appunto cosi come voi negate di consentire. Or cerlo il canlore de'tre regni della morle si fu il più grande uomo del suo secolo, nè ci ha oggidi chi in potenza di menle e grandezza di comprensione poelica possa venire con lui in paragone, ma il pubblicislae il filosofo del XIII secolo era figliuolo del medio eroe avea cinque secoli di educazione filosofica ed islorica meno di noi, e il cilladino di Firenze nato l'anno di grazia mille duecento sessantacinque in molte cose non potea non pensare come frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è che vorrebbe piegarsi innanzi all'autorità di questi nomi? Cerlo, che io mi creda, niuno. Quesle cose poi che si dicono dell'antorità de'grandi uomini vanno deltealmedesimo modo dell'autorità dell'istoria in generale. La sentenza di Tullio che dice l'istoria maestra della vita è veris ima se s'intende in un senso, ma fonte di molti errorise s'intende in un altro. Verissima è in un senso universale e scientifico in quanto che l'istoria facendoci come assistere allo spellacolo delle diverse generazioni clic si sono succedute sulla terra, ci rende quasi contemporanei del passato. Per mezzo di essa noi possiaino allora formarci un concello generale del cammino del genere umano, e delle leggi ideali che presie dono al succedersi delle civilti, delle leggi, degli istituti, delle religioni, degli stati e di tutte quante sono le manifestazioni dello spirito umano. Allora noi partendo da queste considerazionipossiainocom prender  il posto che anche no i occupiamo nella storia del mondo, de terminare le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi affaticale sulla terra, e divinar quelle che abbiamo colle altre che dopo di noi bagneranno col loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso veramente la sloria è maestra della vita, come quella che ne porge il più stupendo ammaestra in e n t o che si possa , la comprensione della vila slessa in tulle le sue manifestazioni, in tutte le sue relazioni col passalo, col presente e coll'avvenire. Ma inetta e principio d'inganni è quella sentenza presa in un senso più ristrello edempirico,quasivolessedireche las toria insegna agli uomini cogli esempii de'tempi passati a sapere come eglino si abbiano da con durre ne'casi agli antichi simiglianti,Il credere a questa specie di aulorilà istorica dipende dalla falsa supposizioneche gli avvenimenti si ripelano o si possano ripetere nelle medesime condizioni, il cheè tanto falso quanto è falso il credere che il genere umano non si muova, e che l'istoria non cammini. Ora ogni clà ha suoi proprii fatti e un'indole sua propria per la quale anche i fatli che sembrano rasso migliarsi in certe esterne condizioni, sono diversissimi di significato e divalore. Il principio che niente è ma lutto si fa, niente permanema tulto si muove, spezialmente nella storia e nel cammino del genereuma no si verifica. Ben la nalura fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si ripete,la natura morale dell'umanità non mai. A coloro iquali dicono: ben così dee avvenire perchè così altra volta è avvenuto,ben sipuò rispondere che appunto perchè altra volta così è avvenuto non può più avvenire al medesimo modo.Dove il genere uinano cosi continua. mente agitandosi finalmente abbia da giungere, chi è che possa pre vederlo, o quale è filosofiache lo possa al meno verisimilmentepre dire? Ma quando si pensa quel che era la famiglia umana al tempo delre de' re Agamennone, per non salire più alto, e quale oggi è divenuta, chi non si sente di naufragare coll'anima in uti Oceano senza fondo, allorchè volge il pensiero a  coloro cui se parerà da noi la medesima distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade  L'Italia era pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una eccellenza, che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia, la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto dal cielo, e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e fio renti stati pareano quasi cote che affilavano gl'ingegni, af forzavano gli spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello. Intanto, fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e l'adoloscenza delle no stre menti,venne l'età più matura e quasi la virilità dell' in tendimento, nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui suona il medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso quello ch 'egli è, e quello che le altre cose sono, le quali in fino a quel punto è stato contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue immaginazioni. Allora inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee sorgere dopo la poesia, siccome la Grecia e l'ITALIA col fatto ne fanno prova . Nè si potrebbe addurre in contrario la scolastica che è antichissima, e certo precedente alla poesia, perchè quella, oltre che confinava da presso con la teologia, più presto che esser l' effetto spontaneo , per così dire , del pensiero nazio nale , lavoravasi nel seno della chiesa e nel silenzio de' chio stri , senza che il pensiero laicale vi avesse alcuna parte. Il quale , quando fu venuto il tempo propizio, si fece da sè una filosofia che veramente dalla scolastica fu diversa. Costantinopoli non cadde in vano per noi; perchè la sua rovina che fu quasi l'ultimo crollo della civiltà antica servi ad arricchirci di gran numero di monumenti dell'antica sa pienza a noi tuttavia ignoti , e a compensar con usura i nostri padri dell'ospitale accoglienza per essi accordata ai fuggitivi figliuoli d'una nazione illustre e generosa, che dopo quattro secoli d'oppressione, dovea riacquistar l'indipendenza, e, bella delle memorie passate e del presente trionfo, ricomparire sul fortunoso teatro del mondo, sorgendo, come Lazaro, dal polveroso sepolcro che avea accolto il suo cadavere. So bene che da alcuni si è creduto il risorgimento degli studii classici e la conoscenza più intera dell'antica civiltà essere stati più presto di nocumenlo che di utile alla moderna, parendo loro esserne stato impedito il libero cam mino degli spiriti, e turbata l'originalità del pensiero mer cè l'innesto violento d' un vecchio ramo sovra un più gio vane tronco . Ma costoro non pensano che la civiltà di un secolo non è e non può esser un fatto isolato e da sè ma che è iotimamente legata a quella de' precedenti mercè l' aurea catena delle tradizioni, e che ogni secolo dee, in quanto può, legarsi col passato e argomentarsi di perfezionarne l'opera, piuttosto che separarsene e disdegnare di riconoscerlo, o pretendere superbamente anzi puerilmente di incominciar tutto da capo, e rifar da sè l'opera a cui le generazioni pre cedenti han lavorato. Però il risorgimento degli studi classici e la conoscenza dell'antichità, innanzi che nuocere, ha do vuto perfezionar l'edifizio della civiltà moderna, nè in fatto pud negarsi che a risorgimento delle antiche lettere sieno dovuti in gran parte i subiti progressi che le scienze fecero tra noi. Quando si furono rotli i cancelli un po' stretti fra cui la scolastica volea talora chiusa l'intelligenza, quando si fu meglio e vie più direttamente conosciuto il pensiero dell'an tichità , ed ecco sorgere di presente una nuova filosofia, alla quale si può dire che avessero posto mano di conserva il pensiero antico e il moderno, la sapienza greca e lo spirito italiano. I più profondi ingegni della penisola si misero a quest'opera, lavorando insieme, quale in uno e qualein un altro modo , al comune e nobilissimo scopo, e tosto si vide venir fuori dal loro numero il celebre triumvirato di  TELESIO (si veda), CAMPANELLA (si veda), e BRUNO (si veda), i quali tutti e tre videro la luce in questa meridional parte d’Italia. Comune ebbero la forza della volontà, l'ardire dell'inge gno e la potenza della mente; ma il primo restò indietro agli altri due , imperciocchè la sua opera fu puramente ne gativa, laddove questi poterono crear de sistemi che nè il tempo nè i seguenti sforzi dello spirito umano non giunse ro a far dimenticare. A così bei cominciamenti fu possibile di sperare splendidi destini per la filosofia italiana, ma la speranza anche allora, siccome spesso è, fu ingannatrice, e l'avvenire mancò a così lieti principii. Del qual fatto non si può trovare altrove la ragione che nelle condizioni della storia italiana e nella intima natura della nostra filosofia. E, in vero se, come abbiam veduto, la filosofia comparve in Ita lia quando il pensiero era abbastanza maturo per siffatta ma niera di studii, quando questo momento fu arrivato, la nazione incominciò a declinare. Quella maravigliosa abbon danza di vita che avea alimentato il movimento dello spi rito e favorito l'innalzamento di tante piccole nazionalità, nel cui seno eran comparse prima la poesia e le arti , e poi la scienza , incominciava a indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la conquista era compiuta; le antiche forme di reggimento eran cadute o avean perduto della loro importanza; e le nostre sorti incominciarono ad esser , quando più e quando meno, legate a quelle di altre nazioni. Strana cosa è l'ammirazione di taluni storici, siccome DENINA, per la beata tranquillità, per i giorni di serenità e di pace che spuntarono a rallegrare il bel cielo dell' Italia. Più stra na ancora è la maraviglia del TIRABOSCHI il quale non sa comprendere come la letteratura, le arti e in gran parte le scienze sien volte in basso stalo allora a ppunto che la pa ce di cui finalmente godea l'irrequieta terra italiana , facea sperar nuovi progressi e quasi un novello secol d'oro al nostro paese. Costoro non intendevano che quando una nazione cade, cade di necessità con essa tutto quello che è intimamente collegato con la sua vita e col suo essere . E in fatti allora la bella prosa italiana fini, allora la poesia spirò sulle labbra di TASSO, e le arti andarono ogni di più declinando. Allora incominciò la corruzione onde il seicento è rimasto celebre nella memoria degli uomini, sic come età di decadenza. E' sembra che l'antico spirito let terario si rifuggisse un momento in Toscana per morir no bilmente nel paese stesso che l'avea veduto sorgere, siccome la pittura cercò un asilo in BOLOGNA e parve di nuo vo levar il capo fra le mani de' tre CARACCI, di RENI, del GUERCINO e d'altri. Ma questo fu come l'ultimo sforzo del gladiatore ferito, o come l' ultimo canto del cigno che si muore. Egli è facile il concepire come una filosofia, la quale derivava da un movimento al tutto italiano, e che pe rò era legata alla fortuna del pensiero onde ella avea da nascere, dovesse cader di necessità il giorno stesso che quel pensiero veniva a perdere la nazionalità e l'indole originale. Il medesimo senza fallo sarebbe avvenuto nell'antichità, ove la Grecia fosse caduta il giorno stesso che il gran disce polo di Anassagora bevè la cicuta, perciocchè allora a Platone dell’ACCADEMIA e ad Aristotile del LIZIO sarebbe mancato il tempo di compari re, siccome mancò tra noi dopo la morte de Socrati italiani. Dopo questo tempo non comparve, si può dire, nessuno il cui nome fosse degno delle antiche glorie, e le menti ita taliane sembravano comprese da una mortale stanchezza, quando venne fuori tra noi VICO quasi a protestare in nome di tutti e mostrare al mondo che il fuoco sacro del pensiero non era già spento nel bel paese ma solo nascosto sotto tiepide ceneri. Tra una gran folla di eccel lenti giureconsulti che fiorivano di quel tempo in Napoli, dalla meditazione del diritto romano egli seppe innalzarsi alla scienza delle leggi universali che reggono il cammino del genere umano sulla terra, e dalla meditazione d'una sola città alle leggi supreme della civiltà e del corso di tut ta quanta l'umana famiglia. Ma poichè egli precorreva di due secoli i suoi contemporanei, fu non curato e poco avuto in pregio da quelli, ed è stato sol da'posteri onorato condegnamente alla sua grandezza; gloriosa ma pur tarda e, che è più , inutile ricompensa al merito degli uo mini veramente grandi, e a' sudori per esso loro sparsi in pro di chi o non li comprende e per ignoranza o per mali gnità li dispregia, ovvero di chi più non può giovarli . Parecchi anni dopo del VICO, e immensamente a lui infe riore, comparve in Napoli GENOVESI. Del quale spiacemi di dover parlare in modo che a molti sem brerà per avventura o affatto ingiusto o troppo severo . Im perciocchè io penso che il suo merito, almeno comefilosofo, chè in quanto economista non so , sia stato più del giusto esagerato de' suoi compatriotti, i quali eran pure que' me desimi che avean veduto il Vico morir nella miseria , e poco o niente avean creduto alla sua grandeza. GENOVESI poi, sendo prete, credeasi in certa guisa mail'obbligo di rico noscer l'antica metafisica,ma nè seppe intender quello che veramente di più profondo trovavasi in essa, nè il più delle volte seppe spogliarla dell' aridità delle forme, non ostante che non poco pretendesse alla leggerezza dello stile, e fino alle facezie e alle arguzie il più spesso di cattivo gusto e di sdicenti alla gravità delle materie per esso lui trattate. Nato poi nel XVII secolo e fiorendo ne' principii del XVIII, credeasi parimenti obbligato di seguir le dottrine del suo secolo , senza scorgere le conseguenze a cui quelle menavano . Per tal guisa mentre come teologo avea in 198 napzi AQUINO (si veda), intendea come filosofo seguitare l’EMPIRISMO di Locke e il RAZIONALISMO di Cartesio, allora nuovi e in voga oltremonti, e a cui l'alta mente di Vico avea mosso infin dal principio potentissima guerra. Diviso fra due estremi così opposti in sieme, e' travagliavasi pure a volerli conciliare, e parvegli che l'autore del sistema delle monadi potesse maravigliosa mente servire al suo scopo, e così volea conseguir la gloria, tanto per lui ambita , di libero pensatore e di teologo; ma il tentativo riescì vano alla prova. Chi in fatti apra i suoi libri di leggieri si potrà accorgere d'un continuo vacilla re e di una enorme confusione, per la quale il lettore si tro va , siccome l'autore dovea essere, in una strana tenzone di discordanti dottrine che ben sono accoppiate insieme , ma non sono e non posson essere ricondotte all'accordo e all'armo nia. E, in vero, quale è la teorica onde egli ha arricchito la scienza ? quale è il sistema che si chiama dal suo nome? quale la scuola che ha fondata? Se pure non voglia dirsi , come si potrebbe in certo modo affermare, che egli sia sta to il primo che incominciasse a introdurre fra noi la filosofia del XVIII secolo, la quale dovea poi più largamente spandersi e acquistar quasidiritto di cirtadinanza. Concios siachè, spezzato il legame sacro che avrebbe dovuto legarci a' nostri più antichi, rotta la tradizione e in certo modo spenta presso il più gran numero la ricordanza delle passa te glorie filosofiche, parve più facil cosa il domandare ol tremonti bella e fatta la filosofia, innanzi che travagliarsi a crearla da sè; tanto più che tra noi l'uso delle profonde me ditazioni era venuto meno, ei sistemi che lavoravansi oltre le alpi, tra per la loro comoda facilità e per la popolarità che la letteratura francese ogni di più andava acquistando, divenivano anch'essi popolari in gran parte dell' Europa. Or questa filosofia era derivata direttamente da' sistemi del Bacone e del Locke , e più indirettamente da quello del Cartesio. Cartesio avea continuato nelle astratte regioni della filosofia l'opera incominciata dalla Riforma in quelle della religione, più astratte eziandio e al tempo stesso più positive delle prime, che era senza più l'idea della libertà del pensiero. Cosiffatta idea era nata da prima in Italia, do ve non chiedea altro che la libertà del pensiero filosofico; anzi in sulle prime si fu contenti a quella solo della libera discussione contro l'Aristotile delle scuole, salvo a costruire un nuovo edifizio con le vere dottrine dello stesso Stagirita ovvero di altri filosofi dell'antichità, siccome spesso si vide fare. Ma la Riforma, confondendo i limiti di cose diverse, domanda la libertà della discussione religiosa, il che era distrugggere la religione medesima, la quale per sua es senza è fondata sulla fede, sulla credenza e sul mistero, talchè sì tosto che la discussione e l'esame incomincia, la religione finisce, dove tra il credere e il non credere , tra il si e il no, alcuna transazione non è possibile, e ogni ana lisi l' uccide. Della religione avviene lo stesso che d'una leggiadra fanciulla dalle guance rosee e da'capegli dorati, la quale sembra contaminata dal solo sguardo troppo cupi do e indagatore dell'uomo; ma non si tosto l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo i misteri della sua bellezza, ogni prestigio è finito. Così accade delle religioni, e tutte quelle che finora hanno imperato in su la terra, vere e fal se, ne son argomento. I libri sacri degli Ebrei eran conser vati nel luogo più recondito e segreto dell' arca; l'Egitto che può dirsi per eccellenza il paese della religione, è la patria de' simboli e de' geroglifici , e in Grecia solo pochi savi dopo faticose prove erano iniziati a' misteri di Samo tracia e di Eleusi . In somma è strana cosa il credersi obbligato ad aver pure una religione e non volerla fondata sul principio dell'autorità. E in questo veramente il principio cattolico è superiore alle dottrine de protestanti e a quelle delle altre selte del cristianesimo, come quello che non soffre di discen 200 dere ad alcuna transazione, ma riconosce in sè la fonte di ogni vero, poggiandosi in sulla autorità che è potentissi ma, come quella che ha per sè la costante tradizione e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo spirito umano , ben fa spesso de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si succedono e i costumi s' ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi pare che ogni verità sia destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che lo spirito dell'uo me sia in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il più che a lui è conceduto all'unico e immutabile vero , Ma dove è questo vero? chi mai può dire di averlo ve duto, o chi mai potrà vederlo e indicare agli uomini la meta di tutti i loro sforzi in su la terra , siccome il sepolcro di Gerusalemme a'Crociati e le coste di S. Domingo a COLOMBO? Cotesto continuo moto, coteste secolari agi tazioni stancano l'anima, la quale ha sovente bisogno di fermarsi pure a qualche cosa di fermo e indubitabile, e di trovar come un'oasi in cui riposarsi dalle fatiche del suo penoso viaggio fra le certezze e i dubbi , fra le affermazioni e le negazioni dell' intelligenza. Or la Riforma distrugge questa proprietà assoluta ed es senziale d'ogni religione, gettandola in un pelago più con trastato ancora che quello della scienza, e in una bolgia di più inestricate e spaventevoli quistioni. Ma queste ardue pretensioni della riforma furono rendute ancor più estreme dal Cartesio , il quale spinse tant' oltre il desiderio della li bertà che volle quella stranissima di dubitar di tutte quanle sono le cose create e le increate fipo delle sue conoscenze, delle sue idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi, se gli fosse riuscito, di costruir da sè quello stesso che erasi dilettato con una nuova voluttà a distruggere. E veramente uno smodato desiderio di azione sernbrami dover esser in chi si piace di distruggere quello che egli ha intorno , per aver poi l'illusione del creare, e, che è più strano ancora, creare partendo dal dubbio; nuovo e titanico esempio d' un sublime veramente dinamico, Che cosa è egli quindi avvenuto? Cartesio dovea egli so. lo ricostruir da sè l 'edifizio della realtà e dell'universo con solo i mezzi che il ragionamento gli porgea. Ora e' ci ha nella realtà delle cose alcuni fatti, siccome la religione, l'istoria, le arti, i quali non sono opera dell'intendimento ovve ro della logica. E' ci ha nella vita delle cose e degli avve nimenti che non potrebbero derivare e non derivano dalla intelligenza individuale dell'uomo , quale essa alla logica e alla psicologia apparisce, ma sibbene da altri principii e da altri motori , a cui non si può che per diverse strade per venire. Per la qual cosa chi si argomenti di costruir la realtà delle cose con solo le armi che quelle più ristrette scienze gli concedono, e' non ginngerà mai ad avere essa realtà, quale nel fatto è, ma si quale con i suoi mezzi la si può formare, e priva delle sue più nobili parti, come quel le che di gran lunga son superiori ad ogni costruzione in dividuale. La quale difficoltà si può muovere a quasi tutta quanta la filosofia moderna, e nonsolamente a quella del Cartesio a cui essa è indubitamente debitrice di si superbe pre tensioni. Or delle due cose l'una può avvenire; o che la fi losofia riconosca la sua impotenza e rinunzii alla superba impresa, ovvero che presumendo troppo altamente di sè, nieghi di riconoscer come vero quello che essa non ha po tuto creare. Egli è inutile il dire che non potendo la prima ipotesi verificarsi per esser la scienza troppo superba di sua natura e troppo sicura del fatto suo, resta che la seconda si avveri . Pur tuttavia il Cartesio, siccome suole avvenire, per essere il primo, non giunse alle assolute negazioni di cui era pure nel suo sistema il germe , che poi seppe altri logicamente tirarne , allorchè si vide al fatto qua' si erano le estreme, ma pur legittime conseguenze delle dottrine cartesiane. Succedeva intanto in Inghilterra qualche cosa di simile a quello che in Francia, comunque le forme potessero esser diverse. Quivi il Bacone avea dichiarato quasi vana ogni scienza, il cui obbietto non potesse cader sotto l' impero de’ sensi, quando Locke cercò modo di applicar questo me todo alla conoscenza dell'intendimento umano, e fu di necessità costrello a vedervi solo quello che ci ha in esso di più apparente, cioè il fatto stesso della sensazione. Dalla quale, per sofismi che la scienza adoperi , non giungerà mai a cavare altro che fatti singolari con cui è impossibile di venire ad alcuna spiegazione probabile di fatti più alti e di più riposta natura, siccome sono le religioni, le arti, l' istoria. Pure Locke si ostinò nel suo cammi no ma non seppe o non volle o temè di venire al termine estremo a cui quello conducea. Non io vorrei entrar mal levadore della verità d'alcun sistema, nè far l'apologista di una più presto che d'un' altra filosofia, ma mi sdegno di certi acciecamenti della scienza e della cieca sicurtà con cui sovente si ostina a perdurare in una via , quando bene si vegga ch'essa non possa condurre se non alla negazione assoluta di certi fatti i quali essa scienza dovrebbe bensì spiegare ma negare giammai, ove non volesse, come Alessandro fa del nodo gordiano, non sciogliere ma tor di mezzo, negandole, le difficoltà. Pertanto quando il sistema del Locke ebbe passato lo stretto e ſu giunto sulla terra a lui ospitalissima della Francia, non fu chi non gli facesse buon viso, e venne accolto non già siccome quegli che giunge nuovo in terra straniera , ma come un antico amico che dopo lunga lontananza si riduce in patria. E veramen te sua patria era per esso quella del Cartesio. E' si dice che ogni idea cerca per per sua natura di venire ad atlo ed es ser messa in pratica. Or se ci ha filosalia al mondo, de la quale si può affermare che abbia raggiunto il suo scopo, è certamente quella della sensazione. Conciossiachè la rivoluzione di Francia si argomento di rifare la civil comunanza secondo quelle dottrine, e tulto un paese e una nazione no bilissima per amore di quelle fu veduta pronta ed apparec chiata a rinunziare un bel giorno alla sua istoria , alle sue tradizioni, alle sue antiche grandezze e alle passate glorie . Concessioni senza fallo enormi , ma pur logiche , e per le quali può dirsi che Marat, Danton, Robespierre e gli altri fossero gli estremi e più conseguenti discepoli di Locke, di Condillac, di Voltaire e d’Elvezio; sebbene al fatto siasi veduto ove quelle teoriche peccassero, e come è pur mestieri di tener saldi certi altri e più antichi principii , chi vuol conservare in vita le umane società. Tale si era lo stato delle cose in Francia quando l'ITALIA legata oggimai a' destini della politica straniera, cerca ezian dio fuori di sua casa una filosofia bella e fatta, e potè leggermente trovarla, siccome l'abbiamo descritta in Francia dove come in un nuovo Eden, cercammo l'albero della scien za e della verità, benchè il frulto che ci regalo fosse morta le per noi, come quello che fini di distruggere ogni germe di forza e di natio vigore nella patria di Gregorio VII e di ALIGHIERI Vero è bene che la filosofia della sensazione non può dirsi che in Italia fosse stata accettata ciecamente e compiutamente , ma pur tuttavia ebbe abbastanza di forza per insinuarsi nell' universale, e produrvi certa maniera di debolezza morale che è l'effetto della mancanza d'ogni idea più elevata e più generosa. Ma comunque avesse avuto fra noi gran numero di ammiratori e di adepti, pure, le più alte menti italiane non si piegarono ad ab bracciarla compiutamente ancorchè non avessero saputo di scostarsene del tutto. Solamente più tardi e quando già quel la filosofia incomincia a venir meno nella sua stessa patria, si videro comparir tra poi i saggi di COSTA (si veda), di GIOIA (si veda) e del napolitano BORRELLI che a quel le dottrine più da presso si accostavano; tre menti temprate in modo da non intendersi come abbiano potuto nascere nel la patria d’ALIGHIERI, BUONARROTI, E VICO.  I due ultimi – GIOIA e BORRELLI -- scrivendo in una lingua a mezzo barbara , intendevano l'uno di spandere e divulgar nell' universale la parte più positiva della logica del Condillac, e l'altro di rianimare le teoriche del Cabanis , mercè qualche dottrina , già forse combattuta e dimenticata, del Locke. D'altra parte il primo, dico COSTA, purista ma pedante in letteratura , crede che la medesima lingua che era servita ad ALIHGIERI per narrare i tre regni misteriosi della morte, e descriver fondo a tutto l'universo; la medesima lingua che era servita a MACHIAVELLI per disvelare i segreti della politica, e a VICO per dividare il passato e l'avvenire , e far la Divina Commedia della vita , siccome ALIGHIERI avea fallo quella della morte; polesse impunemente esser condotta a raccontare le lepide trasformazioni della celebre statua, che a forza di odor di rosa dovea tornare uomo, come quella dell'antico Prometeo, mercè la fiamma del sole. Tolta per tal modo al pensiero l'originalità e l'indole nazionale, la letteratura di rimbalzo dovea sentire i cattivi effetti dello stato morale del paese. Già essa avea perduto la sua antica grandezza al XVII secolo, la sua fulgida stella era tramontata, e quel soffio divino che ne' secoli prece cedenti avea animato le nostre lettere parea si fosse ritira to dal cielo dell'Italia in mezzo alla corruzione che invadea d' ogni parte. Per la qual cosa il XVIII secolo , trovatici in queste condizioni, ci polè facilmente vincere, chè la strada era fatta, aperta la breccia , e agevolmente si potea una cor ruzione sostituire ad un'altra, un nuovo ad un antico vizio. Allora si giunse perfino a sostenere che l'italiana era quasi una lingua morta la quale non potea più bastare ne alle nuove esigenze, nè alle nuove idee del secolo , nè agli andamenti più svelti e più liberi del pensiero moderno, sic chè bisognava al postuito rifarla, provvedere che ringiova nisse e sopperire alla sua manifesta povertà. Non è chi ignori come CESAROTTI  si e il massimo campione di questa infelicissima scuola, e come con questo scopo dettò certo suo trattato che intitolo: Saggio sulla filosofia delle lingue. Se non che giunta la cosa a questo estremo punto , bisognava di necessità che , secondo il corso ordinario degli umani eventi, ritornasse indietro. E già nella Francia in un altro ordine di cose una maniera di reazione era incominciata , concios siachè l'opera dell'impero può affermarsi non essere stata altro che una possente reazione contro gli anni prossima mente passati, e una ricostruzion di quello che negli eccessi della rivoluzione stato era distrutto e che pur meritava di esistere. In ITALIA, strana cosa ! questa reazione incomincia DALLA LINGUA. Già poco innanzi PARINI, ALIFIERI, e qualche altro aveano incominciato a levar la voce contro la servitù dell'imitazione straniera, ma poichè il male non era an cor venuto a quel punto estremo a cui le cose um ane deb bono arrivar per ritornar indietro, le loro parole furono im produttrici di effetti immediati in su le menti de' loro con temporanei, perchè le parole eriandio de' più grandi uomini non possono riescir proficue ove non trovano gli animi ap parecchiati a riceverle, e la pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in vero quando le cose furon più mature, del le voci men possenti di quelle che ho citate poterono ope rare ciò che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa cile nell' universale. Vero è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi alla corruzion generale furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del tempo e regalati, per più derisione, de’titoli di pedanti (che forse erano) e di pu risti . Ma tutto fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da onorar qualunque eroe, e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare che costoro, non si credendo che i paladini delle parole, combatteano veramente, senza pur sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero, e, se eran pedanti, significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro le pretensioni della filosofia. Duraya giá da alcun tempo questa reazion grammaticale contro la letteratura allora corrente , quando dalla remota Calabria s' intese risuonare una voce , che protestava contro la filosofia del senso e le sue eccessive pretensioni. Colesta da voce era quella di GALLUPPI, rapito pur testè alla scienza a cui avea consacrato religiosamente la sua vita. Per ben giudicar questo filosofo è d' uopo distinguere esattamente ciò che egli ha negato da ciò che ha affermato, cioè la sua polemica col sensualismo dal suo sistema. Con ciossiachè il suo vero merito si è quello d' essere stato il pri mo in Italia a sentir la necessità d' una filosofia più ampia opporre alle minute investigazioni di Condillac, di Tracy e degl’altri di quella scuola. Cotesto è il vero merito di GALLUPPI, e PER QUESTO SOLO GLI E DOVUTO UN POSTO NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Vero è che le sue armi sono il più delle volte domandate alla scuola scozzese, o eziandio à quel medesimo Locke che era il vero padre delle dottrine le quali egli volea combattere; ma cotesto non diminuisce nè il suo merito, nè l'obbligo che la filosofia italiana gli dee avere. Medesimamente egli si è il primo che abbia in cominciato a divulgare fra noi il nome e il sistema di Kant, e comunque non manchi chi sostiene che egli me desimo non fosse giunto a penetrare compiutamente in tutti i misteri e gli andirivieni e i tragetti della psicologia kan tiana , pure è cosa indubita che egli si fu il primo ad occu parsene seriamente. Certo è, come innanzi vedremo, che altri è riescito meglio di lui nell'investigar la mente del filosofo prussiano e nel misurar tutto il valore e le possibili applicazioni di quelle teoriche, ma certo è pure che il vanto di essere stato il primo,eziandio in questo, non può negarsi al calabrese. Quanto poi al suo proprio sistema composto in parle dalle teoriche del Locke e in parte da quelle del Reid [CITATO DA H. P. GRICE, “PERSONAL IDENTITY” – Mind, repr. PARRY], non credo che volendo esser giusti si potrebbe parlarne con alcuna ammirazione. Conciossiachè debolissima è la sua psicologia , e quasi nulla l' ontologia, la quale egli spesso non sa distinguere da quella, e sì confonde stranamente le quistioni che all'una e all'altra scienza si appartengono. Più confusa eziandio è la logica, che egli discerne in logica pura e mista ovvero applicata, mercè della qual distinzione che in niun modo non saprebbe sostenersi, è riescito a trattar della prima delle pure forme del raziocinio, e ad ammassar nella seconda un gran numero di quistioni di psicologia e di ontologia, che non sapea come allogare altrove. Non parlo dello strano metodo con cui movendo dalla logica pura e passando per la psicologia e l' ideologia, giunge alla mista, perchè quello in cui mostrasi chiaramente tutta la debolezza delle sue teoriche, è l'applicazione che pure si argomenta di farne alla morale e all'estetica. Nell'estetica , per esempio, di cui si occupa sol di volo a proposito della teorica della volontà , senza punto curarsi de' più alti problemi che in essa si possono discutere, s'in trattiene a sostener l'opinione , un po' veramente troppo vo luttosa, che il bello può esserci rivelato dalla sensazione del tatto non altramenti che da quelle della vista e dell'udito, quasi non fosse chiara la differenza che è tra certi sensi più altaccati alle necessità della vita e però men nobili, da certi altri che servendo meno immediatamente al corpo son più liberi, e, se così può dirsi, più spirituali . Del resto e' si può dire che GALLUPPI non ha veramente una certa teori ca sul bello e sulle arti , ovvero se pur l'ha , dubito forte non sia quella del Blair e SOAVE, autore di un'intera enciclopedia d'istituzioni elementari per l'educazione della povera gioventù italiana, filosofo, matematico, grammatico, relore, novelliere, moralista e SOMASCO, che per molto tempo continuò e continua ancora in gran parte, ad infestar co' suoi libri, i seminarii, i licei e le scuo le italiane. Quanto poi al suo sistema sulla morale e sul di ritto, GALLUPPI non può dirsi che siane uscito più felice mente che nelle altre parti della sua filosofia, e chi volesse prendersi giuoco di lui potrebbe leggermente qui, come al trove, trovarlo ad ogni pagina in contraddizione con sè me desimo. Non son molti anni passati che il nostro filosofo in cominciò a pubblicare per le stampe un'istoria della filosofia , ma sembra che per mancanza di soscrittori l'edizione non potesse andare innanzi , sicchè dovette smetterne il pensiero, e l'opera morì ia sul nascere. Se in questa, come nelle altre cose, l'induzione è buona, e si può indovinare che la scienza non vi abbia perduto gran fatto; chè l'autore vi fa cea mostra d' un'erudizione non molto riposta. E' mi ricor da fra l'altro che nell'introduzione tentava ancora egli un'in terpetrazione del mito di Prometeo, e giunse per non so che strane congetture a persuadersi che il celebre prigioniero del Caucaso si era un anticore dell'Attica, che aveaprima insegna to a quelle genti i primi rudimenti di agricoltura e sopratut to la coltivazione del grano. Davvero mi sembra enorme non veder altro che questo in Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di Mercurio , per comando di Giove e per decre to immutabile del destino, e mi sembra più che enorme di struggere il più profondo mito dell'antichità , e conver tire il figliuolo di Giapelo in un mietitore, con una rovinosa metamorfosi che trasforma di botto il capo d'opera del teatro di Sofocle in poco più di un'egloga. GALLUPPI e chiamato a dettar lezioni di filosofia nella regia Università di Napoli, e la scelta del governo fu facilmente accompagnata dagli applausi unanimi di tutti , imperciocchè si aspettavano cose grandissime da un uomo la cui riputazione potea dirsi gigantesca tra noi, e sul cui merito tanto più si giuraya, in quanto niuno avea ardito di dubitarne o di esaminarlo seriamente. Ma ora dopo se dici anni di esperienza deve esser conceduto di affermare che l'aspettazione pubblica è stata delusa, ed anche il suo insegnamento non ha condotto a nulla di durevole. Quale si è in fatti la scuola che egli ha fondata? quali le verità che ha dato a svolgere a' suoi scolari ? quali applicazioni si son potute fare della sua filosofia al diritto, alle arti, alla politica, all'economia ed alle scienze naturali ? Per me io tengo che una filosofia la quale non è feconda di applicazioni di ogni maniera, e che si condanna a restare nel circolo delle quistioni puramente psicologiche, non meriterebbe il super bo nome a cui aspira, e più presto dovrebbe aversi quello di logomachia di scuola. Or tale si è quella del professor napolitano. Però non dee arrecar maraviglia se le sue parole uon hanno avuto un eco, se il suo insegnamento è stato per duto, e se, fra tanti discepoli che han frequentato la sua scuola, non ce ne ha pure uno di cui si possa dire: costui conti nuerà l'opera del maestro ; chè nessun'opera il maestro ha incominciata, nessuno scopo si era prefisso, e niente vi ha di più inutile che le parole da lui pronunziale per sedici anni sulla cattedra. Non ricorderò che di volo i nomi di MANCINI, TEDESCHI, GRAZIA, e WINSPEARE. De’quali i due primi , siciliani, non possono dirsi, e sopratutto il primo, che seguita tori , ma nè interi nè profondi, dell' eclettismo, e, poveri non meno di erudizione che di potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due scolari che non si ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo , calabrese di patria, è un antico militare che ha finito per consa crare i suoi giorni alla filosofi, ed ha, già sono qualche anni passati, dato fuori per le stampe un'opera in cui intende a richiamare in onore e Locke e la filosofia dell'esperienza, ma pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do vrebbero allontanar le conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto, e che agli occhi degl' intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter l'autore, a sua insaputa , in con tradizione con sè medesimo, e l' un principio del suo siste ma in opposizione con l'altro. WINSPEARE (si veda), giureconsulto di rinomanza in Napoli, si è ancora egli rivolto agli studi della filosofia, e come frutto delle sue meditazioni pubblica “Saggi di filosofia intellettuale”. La sua “Introduzione allo studio della filosofia” contiene un compendio dell' istoria di cotesta scienza da Talete in fino al Kant. I suo “Dizionario della Ragione” e un dizionario di filosofia che si propone lo scopo di fermare per sempre le parole della scienza e il loro significato, affine di renderne il valore così certo e indubitato come è quello delle matematiche, e distrugger così alla loro sorgente le quistioni e le difficoltà che lacerano da tanti secoli il seno della filosofia. Imperciocchè e' sembra che l'autore ha per ferma la celebre opinione di quasi tutto il XVIII secolo, e che ora alcuno non oserebbe di sostenere, esser cioè le più profonde quistioni filosofiche niente altro che controversie di parole, sicchè, fermato bene il valore di queste, abbiano quelle immantinente da cessare. WINSPEARE traduce i “Nuovi Saggi” di Leibnizio, dove da un vero modello della LINGUA FILOSOFICA ITALIANA, ancora così povera tra noi (non credano i lettori che io esageri), pro ponendosi di più di venir mostrando ne' suoi comenti quello che ci ha di buono e quello che ci ha di vieto e di rancidu me metafisico nelle pagine del filosofo tedesco. Ancora qui non fo quasi che ripetere le modeste parole dell'autore. WINSPEARE expone il sistema del Reid. E qui immagini il lettore il sistema del filosofo scozzese, che non suole esser creduto, ch' io mi sappia, de'più oscuri ed astrusi, esposto compendiosamente dal nostro barone, in un gran volume in quarto; chè questa è la dimensione dei suoi fratelli già venuti alla luce. Secondo WINSPEARE e' non ci ha che due uomini al mondo a cui la scienza abbia veramente da essere obbligata; e di costoro il primo visse , già sono trenta secoli passati, in Atene, e l' altro nacque in Iscozia. Questi due uomini sono Socrate e Reid . Solo il Leibnizio potrebbe esser terzo tra costoro, ma egli è troppo lordato di metafisicume per essere accettato interamente dall'illastre giureconsulto ; e però, come è detto, e' si propone di purgarlo. Salvo adunque il greco, lo scozzese e il tedesco, così purificalo, tutti gli altri uomini che han consacrato la loro vita alla scienza e che son giunti a rendere immortali i loro nomi, voglionsi tenere comepericolosivisionarii, i quali ovvero s'ingannano per difetto di giustezza di mente, ovvero si lasciano strascinare dalla loro immaginativa. A purgar la scienza da questi malaugurati sogni è sopra tutto ordinata ľ opera del WINSPEARE. Innanzi di lasciar Napoli non posso trascurar di ricordare il nome di un uomo, forse poco conosciuto altrove, e che eziandio tra noi non risuona molto, ancorchè il meritasse . Ma in tutte le cose la fortuna è signora, ed anche per giun gere alla gloria è necessaria certa maniera d'impostura. Co stui è COLECCHI, il quale, sendo già profondo matematico, allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si potè star contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in quella vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella filosofia che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e a ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. COLECCHI sa penetrarvi così addentro , che quasi le fece sue proprie, e spesso osò modificarne alcune parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che egli ha acquistata col suo autore, ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto la voce a sostener che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in sieme le loro dottrine. Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente da altri dubitare seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della filosofia del Kant, e l' uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e l'altro dove distingue la parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen ze, quella cioè che da' sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine ; cominciando egli dal porre come fonda mento del suo sistema che tutto il sapere incominci con l'esperienza ma non tutto da quella derivi. Cotesto è forse il più importante e il più vero di tutti i principii kantiani , comunque sia assai più antico della critica della Ragion Pura. Leibnizio, fra gl’altri, avea già insegnato l'anima escir dalle mani del Creatore con tutte quante le idee necessarie ed assolute, come quelle che compongono la sua propria essen za; ma che, oscurate e quasi sepolte sotto il peso della ma teria , han bisogno che l'esperienza venga a discovrirle e quasi a far che lo spirito se ne avveda, benchè da quelle non derivino. A questa guisa appunto lo scultore, se una figura fosse impressa da natura nelle parti più interne d' una pie tra, ove questa tagliasse e levigasse, non sarebbe egli autore di essa figura , ma si cagione che quella fosse manifestata. E, assai prima del Leibnizio, la medesima dottrina può tro varsi insegnata da altri più elegantemente e con maggior di sinvoltura. Platone nel suo nobilissimo dialogo del Fedone, nel quale narra, come tutti sanno, della morte di Socrate e delle cose da lui discorse con i discepoli e con gli amici in nanzi di ber la cicuta , dimostra siccome è nelle nostre menti un' idea prima dell' uguaglianza (autò pò trov ) così astratta e generale che non si può in niun modo confondere con l'idea di duecose qualunque che sieno eguali insieme, come due pietre, due leyni o altro. Perchè dove quella è tale che noi sempre allo stesso modo la concepiamo e di necessità non possiamo comprenderla altrimenti col pensiero , questa per contrario è mutabile , sendo che il fatto quotidiano ne mo stra che quelle medesime cose , che pur ieri ne pareano uguali, ne sembrano altra volta disuguali, senza dire della differenza de' giudizii de' diversi uomini, a cui le stesse cose appaiono diversamente. Onde egli conchiude l'uguaglianza assoluta non si dover confondere con quella delle singole cose a cui questo attributo ci sembra di convenirsi. Le medesime cose Platone dimostra del bello , del giusto , del vero e di altre cosiffatte idee, che non si possono confondere con gli obbietti sensati, a cui si trova che solo per contin genza alcuno di que' modi di essere si può attribuire, e che sono come un debil raggio di quegli eterni tipi che sopra di esse cose mutabili vengonsi a riflettere, e che di quelli solo per accidente partecipano ( METÈYouTQ ). Se non che que sti obbietti mutabili e contingenti son come lo strumento per cui mezzo l' anima giunge ad aver coscienza delle idee , sendo che, ogni volta che le cose uguali, belle, vere e giuste le son mostrate da' sensi, si vengono risvegliando in lei itipi eterni a quelle corrispondenti, i quali pur erano in lei ab eterno, ma si vennero oscurando il giorno che ella, lasciata la sua celeste dimora, discese nella prigione del corpo la tal guisa, secondo il divino Platone, il sapere è solo ricor danza, e l'apparare è ricordarsi. L'altro punto principale della filosofia del Kant, e pro prio a lui solo, si è la teorica della ragione che egli tiene per subbiettiva e inetta a farne conoscere altro che le appa renze, e non mai la sostanza delle cose. Teorica d'importanza principalissima, come quella da cui dipende il sapere se l' uo mo ha diritto a credere di poler giungere alla conoscenza di qualche verità , ovvero se, condannato a vivere fra illusioni e apparenze, dee rendere immagine del cane della favola, il quale credea un altro cane da lui distinto la sua propria immagine che vedea riflettuta nelle onde del ruscello. Chi concede questo punto al Kant, gli dee conceder tutta la sua filosofia e dee esser tenuto per kantista, siccome io affermo di COLECCHI, quali che fossero in parti secondarie le loro di vergenze. II COLECCHI pubblica un gran numero di articoli su di versi subbietti di filosofia speculativa e morale che poi ha raccolti in due volumi col titolo di quistioni filosofiche, ove assai spesso prende a combaltere GALLUPPI, e se il faccia con buon successo, e se gli avvenga sempre di riportar facile vittoria sul nemico èinutile il dirlo. Conciossiachè il sistema slegato e debole del filosofo calabrese mal potrebbe resistere a colpi serrati della dialettica del suo avversario. A questi due volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni estetiche, di cui mi riesci di aver le bozze di stampa per le mani, poichè il libro non potè veder la luce . Cotesta estetica, come tutto il sistema del nostro filosofo, è quella me desima del Kant; un deserto di astrazioni senza mai incon trare un'oasi ove lo spirito possa alquanto rinfrancar le forze. Egli è quasi che inconcepibile come quel divino rag gio che domandiamo bellezza, e che risplende misteriosa mente nelle volte de' cieli e negli occhi delle fanciulle , pos sa esser materia su cui s'innalzino de' formidabili edificii di aride astrattezze , con le quali è al postutto impossibile di dar pure una spiegazione del bello e dell'arte, alla guisa che è impossibile di trovare il mistero della vita nel cada vere, o quello della luce nelle tenebre. Mentre questa fortuna si aveano in Napoli le discipline filosofiche, nelle altre parti d'ITALIA non mancarono di essere, ove più e ove meno, splendidamente coltivate, e in que sti ultimi tempi videro levarsi chi di gran lunga si lasciò in dielro i Napoletani. In Italia è succeduto al nostro vivente un fatto il quale è in manifesta opposizione con quello erasi veduto finora nell' istoria della nostra filosofia, la quale in fino dalla più remota antichità , ha avuta nel mezzodì della Penisola un' indole diversa che nel settentrione. Colà il razionalismo ha dominato , qui la scienza ha più presto incli nato al positivo e alla pratica; quasi queste due diverse ten denze della filosofia si fossero geograficamente diviso il terreno. E in vero mentre nell'una parte venivan su LA SETTA DI CROTONE  E QUELLA DI VELIA, nell' altra la sapienza etrusca s'introducea in ROMA, che può dirsi il paese per eccellenza della politica, della guerra e della legislazione. Vero è che in processo di tempo i due estremi si andarono ravvi cinando, e l' idealismo si accostò al suo contrario e quindi risultò l'indole vera della FILOSOFIA ITALIANA, che è insieme speculativa e pratica , come quella che domanda i principii ma non dimentica le applicazioni, e , se intende di levarsi. sino al cielo in su le ale della speculazione non perde però di vista la terra. Se non che è innegabile che non ostante il ravvicinamento di queste due maniere di filosofare, pure la differenza non fu mai cancellata del tutto, e i filosofi del mezzodi restaron sempre più razionalisti, e più pratici quel li del settentrione; testimonii VICO e BRUNO da una parte, MACHIAVELLI e POMPONAZZI, per non citarne in fioiti, dall'altra. Ora al nostro vivente, come dicevo, il fatto inverso si è veduto avvenire, chè i filosofi Napoletani non si son saputi dipartire dalla psicologia, e quelli della più alta Italia hanno ardito di sollevarsi infino all' ontologia ; quasi il coraggio delle ardue speculazioni, venuto meno a noi, si fosse rifuggito appo gli altri. E questi sono SERBATTI, ROVERE, e GIOBERTI. SERBATI ricorda in certo modo i nostri buoni filosofanti delle scuole, i quali chiusi fra le mura di un chiostro, alternavano la vita fra la preghiera e la meditazione, e vedeano scorrere in silenzio i loro giorni senz'altro pensiero che quello della chiesa e della scienza. Così il no stro abate, pievano di un piccolo villaggio in quel di Novara, si è dedicato tutto quanto alla religione e alla filosofia, con una fede e un' anbegazione che ricordano altri tempi ed altri costumi . Egli era già conosciuto per altri scritti di filosofia speculativa e di diritto pubblico e naturale, quando pubblica per le stampe una sua opera sull'origine delle idee la quale per la profondità delle dottrine, per la forza della dialettica e per l'erudizione non comune di cui è ricca nel fatto dell'istoria della filosofia, e massime della scolastica, merita bene di essere allogata fra le più importanti che in questi ultimi anni han veduto la luce. Gran danno che sia di faticosa lettura per l'abbondanza non felice e del lo stile e delle parole. Il problema che l'autore principalmente discute in questo suo saggio è quello onde è travagliala tutta la filosofia, e che più specialmente occupa la moderna, dico la questione della realtà della conoscenza. Gran cosa è veramente cotesta che molesta siffattamente la scienza. Noi siam circondati anche a nostro malgrado da una tur ba infinita di diversi obbietti ordinati quale alla soddisfazio ne de' nostri bisogni , e quale a render lieti o miserevoli i pochi giorni che dobbiam passare su' lagrimosi campi della terra , che pur tanto amiamo ed a cui niente non ci avrebbe da legare. Or chi mai ha dubitato della realtà di tutte queste cose ? Certo se a taluno venisse talento di farlo e di dubitar seriamente se esista la donna che egli ama, l' inimico che odia , le catene che legano i suoi piedi o l'oro che brilla nella sua scarsella, e' non si dubiterebbe pure un momento di di chiararlo mentecatto, e condurlo di presente all' ospedale dei matti. Or la filosofia si è condannata di buona voglia a du bitar di queste cose e ad ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe stimar folle un uomo agli occhi de' poveri di spirito. Nè è da credere peròche vengada modestia questo dubbio della scienza, anzi è figliuolo della superbia. Conciossiache la filosofia non vuol già conoscere le cose alla guisa medesi ma che gli altri uomini, ma si bene rendendosi ragione e chie dendo una spiegazione possibile di tutto che l'uomo pud sa pere. Quindi è addivenuto che essendo gli obbietti esterni parte della conoscenza, la si è imposto il dovere di non cre dere diffinitivamente in essi, o almanco seriamente dubitar ne in fino alla dimostrazione. E però si è messa con una calma edificante a discutere la questione di sapere se ci ha niente che esista fuori dello spirito. Soventi volte le armi le son mancate per provar quello che volea sapere, e allo ra più presto che essere incredula a sè medesima o infedele alla sua divisa , ha consentito ad accettare il nulla con una rassegnazione da disgradare un anacoreta, e a conchiudere che il genere umano s'inganna visibilmente allorchè crede alla realtà delle cose. O alliludo! Or l'opera di SERBATTI è precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta quistione, a cui egli giunge incominciando da una rassegna istorica de' varii sistemi antichi e moderni che su lo stesso problema si son travagliati, i quali tutti esamina con gran sottigliezza e con mirabile profondità ed erudizione. Di scute da prima la quistione dell'origine delle idee nella mente; quistione strettamente legata con quella della realtà della conoscenza, e fa vedere in una maniera non tolta da altri, come i filosofi di lutti i tempi sono andati errati in questo , o per eccesso o per difetto , dappoichè alcuni non vollero riconoscere alcuna idea primiliva nello spirito, ed altri cre dettero di vederne in maggior numero che veramente non sono. Lontano dall'errore degliuni e degli altri, SERBATTI ni ne ammette sol' una, cioè ľidea dell'essere, forma uni versale de' nostri pensieri, idea primitiva e necessaria dello spirito, la quale non ne suppone alcun'altra prima di sè, ma bene da tutte quante le altre è supposta, come quella che alla loro formazione è necessaria. Or su questa idea riposa la realtà delle conoscenze, sendo che essa rinchiude il con cetto dell'esistenza, anzi è l'esistenza medesima ; per suo mezzo noi possiamo giungere dal mondo de pensieri a quel lo dell'esistenza, da’concetti a’fatti. Non io qui intendo di difender l'una ovvero l'altra opi nione, ma poichè mi propongo solo di raccontare, non posso tralasciar di riferire una opposizione cheè stata fatta alla teo riea detta di sopra. Quale si è la difficoltà arrecata in mezzo dagli avversarii della realtà? Noi non sappiamo le cose, e'di cono, ma sì le idee che ne abbiamo; o come si passa all' obbietto da quella rappresentato? su qual ponte si supera la distanza che è da un'idea ad un fatto ? Or la vostra idea dell'essere, si è opposto a SERBATTI, non è punto diversa dalle altre, e indarno vi dibattereste a dimostrare che è di differen te natura; e, se è vero, come è, che la è generale e necessa ria , non è però vero che a differenza delle altre idee di que sta medesima natur, sia di per sè stessa obbiettiva e atta a porci in relazione con le cose reali . Sicchè l' antica quistione non è stata per voi risoluta , anzi rimane tultavia intera, potendosi opporre all'idea dell' essere le medesime difficoltà che alle altre idee, non ostante i vostri sforzi per sostenere il con trario . Vero è che l'autore, dopo cinque faticosi volumi, con una rara, non so se io dica superbia o modestia , dichiara che non è leggiera cosa l'intendere la sua dottrina , e che egli in vano si è studiato, per l'impossibilità della cosa , di esser chiaro e intelligibile. Non tacerò che a taluno è sembrato di vedere nell'opi passa dall'idea e nione di SERBATTI una pericolosa teorica da cui agevolmente si può sdrucciolare nel panteismo. Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a tre cose; la primache siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate dal suo autore, e che se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti mamente si possono far discendere dalle sue opinioni, certo pon indugerebbe pure un momento a ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar troppo le parole le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in un'altra a certi estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui regolarmente non si potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica che può divenire per que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto. Ultimamente non bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio universale, e che troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le opinioni; e se è vero che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure strano vederlo sem pre e da per tutto. ROVERE pubblica in Parigi il “Rinnovellamento dell'antica filosofia italiana.” Oltre al nome dell'autore che già risuona nella nostra penisola, cotesto titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione dell'universale sul saggio di ROVERE. Conciossiachè si credette di vedere certo orgoglio nazionale , e quasi una bella virtù cittadina nell'idea di richiamare in onore e in vita la nostra antica filosofia. La ste rilità pedantesca de' nostri filosofi non avea fatto escirle loro scritture dai limiti della scuola, e privatili così d' ogni maniera di popolarità in un paese in cui gl’uomini consacrati specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi, perchè levi gran grido nell' universale un saggio di materie così speciali. Ma questa difficoltà ROVERE riesci a superar felicemente. Or vediamo qual sia la sua idea. I filosofi italiani non solo sono slati primi nell’ordine del tempo a incominciar la guerra contro la scolastica, da cui poi dovea venir fuori la filosofia moderna, ma ancora sono entrati innanzi agl’altri per la profondità e dottrina con la quale seppero eziandio trovare il vero metodo con cui unicamente le scienze speculative possono giungere a glorioso porto, riconducendole all'osservazion della natura, da cui le astrattezze della scuola aveanle allontanate; metodo di cui la filosofia moderna mena gran vanto come della più bella delle sue invenzioni, e della sola armecon cui sipossa giungere alla scoperta della verità. Ancora fecero di più, e non contenti ad indicare altrui la strada che si ha da tenere, si posero animosamenle in quella, e ri ducendo ad atlo il pensiero del loro metodo , riescirono a crear de ' sistemi a niuno secondi di quanti ne’tempi posle riori si son veduti venir fuori. In questi sistemi certamente molte cose sono da rigettare, molte da correggere e da mo dificare, ma molte sono eziandio accanto alle prime, le quali meritano ben altra cosa che dispregio e noncuranza. La filosofia moderna avrebbe da studiare attentamente in quelli per tirarne tutto il buono che vi è , e far tesoro delle altis sime verità che soventi volte han costato a' loro scoprilori la libertà o la vita . Sopratutlo gl ' Italiani non dovrebbero lasciar perire sotto a' loro occhi la grande opera incomin ciata da' loro avi con tanto ardire e potenza di mente, anzi dovrebbero alacremente continuarla , e in vece di tener die tro astraniere filosofie e trapiantarle siccome piante di al tro clima della loro patria, dove mai non potrebbero alli gnare siccome frutto indigeno e nazionale, bisognerebbe che si adoperassero a tult' uomo di richiamarli in vita e risve gliar la nobile tradizione d'una scienza pur nata fra essi. Le altre parti del saggio di ROVERE  son destinate a svolger la vera natura di questo metodo, che, secondo lui , è quello dell ' osservazione , il quale a molti può parere non acconcio a condurre la scienza là dov'essa dee pervenire , e che a me sembra egli confonda troppo con i procedimenti I delle scienze naturali. Ancora ne viene mostrando l' applicazione a parecchie quistioni speciali , che egli si studia di risolvere seguendo per lo più le orme de' nostri antichi filo sofi. Per menon esaminerò sino a che punto i grandi filo sofi italiani del risorgimento abbian seguito il metodo di os servazione, siccome ROVERE l' intende, nè se questo me todo, sì utile d'altra parte alle scienze fisiche, sia sufficiente alle metafisiche, chè cotesto mi menerebbe lungi dal mio pro ponimento e getterebbe in quistioni che non ho in animo di discutere ; solo dirò qualche cosa del proposto risorgimento della nostra antica filosofia . L'idea di ROVERE si è di ri chiamar in vita tra noi le nostre tradizioni filosofiche, per chè la scienza si abbia nella penisola un tipo veramente ita liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato che ogni pae se ha da natura una particolar fisonomia,per la quale si di stingue da tutti gli altri, e che siccome è impossibile di can cellare del tutto così è vil cosa di non rispettare come up dono della Provvidenza, e di non custodir gelosamente come un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa differenza d'indole si mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni popolo, negli istituti e nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un modo speciale di vedere e d' intendere e di rappresentarsi le cose. Gl’obbietti sì del mondo fisico che del morale, si possono giustamente chia mar poligoni, in quanto che ciascuno ha molti diversi lati, e può , rimanendo sempre il medesimo, esser considerato in mille guise diverse, e produrre, secondo queste diversi tà , mille diverse impressioni. Or quanlo più le cose posso no essere variamente riguardate, tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di ogni popolo di spaziarsi e mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per esempio, esercita vastissimo impero, perchè quella abbraccia tutta la vita , nè ci ha cosa che possa esser considerata sotto più diversi aspetti che la vita umana e i suoi infiniti accidenti, da cui ogni letteratu ra direttamente sorge, facendo ritratto dalle più intime qua lità di essa vita . Per contrario poi quanto meno di realtà è negli obbietti che cadono sotto la considerazione e l’opera dello spirito, e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si viene a restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi, appena se ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali, occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo , dell'uomo e delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gl’Italiani e per i Tedeschi d'intendere i medesimi veri, di considerar gli stessi fatti generali, sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra. Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese o tedesca , dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale, dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a’faiti ed è quindi più sperimentale o empirica; differenze che trovandosi nell'indole della scienza, mostrano che ci abbia da esserne un'altra corrispondente nell'indole delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na zionalità della filosofia, sendo però necessario di far due os servazioni su tal proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un intero isolamento scientifico, ovvero credere che ogni idea straniera possa esser contagiosa e opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na zionale. La verità non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la terra, nè è proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il genere umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob bligati di riconoscerla per tale, ove che la sia , e di abbrac ciarla e farle plauso e festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte e sicuro di sè medesimo, le darà a sua insaputa quell' atteggiamento particolare, e quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo dell'indole di uno o di un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni consiglio su tal proposito dee tornare quasi inu tile, e che quindi debba riescir vano il raccomandare ad un popolo di custodir la sua nazionalità nella filosofia. Basta es sere veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori arsene per avere untipo da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non avvedendosene, in tutte le parti della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se un paese è debole e corrotto, se già ha perduto la sua indole nativa, i consigli de'dotti saran vani, perchè avendo quelloperduto la suaoriginalità nelle al tre cose, non gli sarà possibile dicustodirla nella filosofia più presto che nella letteratura , nella politica e nelle arti. Del resto ho voluto dir queste cose più presto a proposito di ROVERE che contro di lui perchè nè l'uno nèl' altro de' due rimproveri gli si può fare. Quanto poi all'idea d' incomin ciar la scienza ove l'hanno lasciata i nostri maggiori, certo GL’ITALIANI d'oggidi avrebbero ben torto di dimenticare i no bilissimi lavori de'loro padri e le dottrine onde hanno splen didamente arricchito la scienza , ma è da vedere se per far questo si convenga rinunziare a tutto quello che lo spirito umano ha scoperto in processo di tempo, perchè non è ve rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi lavori per tre se coli e più. Credo che non sia questa strettamente l'opinione del nostro autore, ma domando se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua. Eccomi finalmente arrivato a quello de' filosofi italiani no stri contemporanei che è giunto ad ottenere una fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io parlo di GIOBERTI, il cui nome da qualche anno risuona univer salmente dall' uno all'altro estremo della penisola. Quindi è che ciascuno si è creduto in diritto di dar la sua opinione e il giudicarlo a sua posta , onde egli si è trovato esposto a’più contraddittorii giudizii , alla più inetta critica , alle noiose esagerazioni del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida ammirazione. Quanto a me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si lasci volenlieri ac cecare all'odio e all' amor di parte, a' nuovi ed a' vecchi pre giudizi, dirò franco il mio parere per un uomo di un merito grandissimo, quantunque io credo che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben giudicare, e che di lui meglio i posteri che i contemporanei potranno portar sentenza, perciocchè intorno a molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i suoi nuovi schiarimenti e la prova del tempo. Intanto per por tare in fin da ora un giudizio più o meno esatto di quello che egli è, sarebbe mestieri di esaminare sottilmente il suo yalore come scrittore, come filosofo e come politico. Io, se condo il mio istiluto, non posso toccare che pe' generali della due prime parti e quasi niente della terza . Come filosofo, GIOBERTI appartiene senza fallo alla no bilissima schiera de’ BOTTA, de’LEOPARDI e degli altri che in questi ultimi tempi han cercato, ritirando la lingua italiana a'suoi principii, di renderle l'antico splendore, la forza, l'e leganza e la vivacità che ammiriamo ne'nostri grandi scrit tori de'secoli passati, e che le aveano negato la fiacchezza degli animi e i pregiudizi comuni del secolo XVIII e de’pri mi anni di quello in cui noi viviamo, e che ancora regnano appo la maggior parte de’filosofi di cui innanzi è discorso, la cui lingua, e più ancora lo stile, si penerebbe a crederlo italiano, e si direbbe compassionevole, se la pretensione non non lo rendesse più tosto ridicolo. COSTA può dirsi il primo che in questi ultimi tempi tratta di filosofia con correzione di lingua ed eleganza di stile, ma oltre a questi pregi, non si può dire che abbia nessuna di quelle doti che co stituiscono il grande filosofo. La medesima cosa può affer marsi di ROVERE la cui lingua è pura, lo stile esalto ed elegante. M invano si cercherebbe altro nella sua prosa. SERBATTI, senza aver nè l'uno nè l'altro di questi pregi, è di una tale abbondanza, che e'si potrebbe comodamente ridar re alla metà i volumi delle sue opere senza chiedergli il sa grifizio pur d'una idea. Tull'altra cosa è di GIOBERTI nelle cui pagine si trova ben altro che purezza ed eleganza sola mente; qui è ricchezza smisurata, nobiltà e vera eloquenza, tanto che si potrebbe citar de'passi da valer come modello da imitare. Conservando il tipo originale e l'antica grandezza della nostra lingua, e’la tratta pur tultavia come la lingua d'un popolo che è ancor vivo, che ancora ha uno splendido posto nel mondo, e che forse a nuove e più luminose sorti è destinato da Dio. Chè nella nostra penisola accanto a quelli che nel fatto della lingua si lasciano andare ad ogni maniera di novità, ci ha degli altri che per paura di corromperne la natia purezza, non si vorrebbero allontanare da' limiti del trecento, e si spaventano d'ogni innovazione, come se fosse morta la lingua parlata da ventiquattro milioni d'uomini. Niuno di questi rimproveri non può farsi a GIOBERTI, a cui niente manca per esser giustamente allogato tra i filosofi di prim'ordine. Pure non saprei negare che, sia effetto del l'ardente immaginativa, sia naturale impazienza e difficoltà di contenersi , si abbandona talora un po’troppo alla sua ine sauribile abbondanza, sì che si sarebbe inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi aleun poeo declamatorio. Non su che spirito di sofisma viene talora segretamente a turbarne l' ordinaria chiaroveggenza, per modo che per volere aver troppo compiuta vittoria de' suoi avversarii e spingerne le opinioni alle più lontane e assurde conseguenze, scaglia con tro di essi ogni maniera di opposizioni e di ragioni e di ar gomenti, della cui perfetta convenienza si potrebbe talora dubitare. Ma questo non giunge ad oscurare per niente gli altri pregi grandissimi che sono in lui. Dalle cose che abbiamo così brevemente discorse intorno alla presenle filosofia italiana, si può vedere come i nostri filosofi, attenendosi strettamente solo alle questioni psicologi che, ovvero non osando che modestamente occuparsi di quelle di altra natura, si son tenuti lungi da' più alti problemi ontologici sull'origine, l'essenza e le leggi della realtà , quistioni in cui risiede tutta la grandezza e l'importanza della filosofia e che l'hanno sollevata a un sì alto posto nel l'antichità e nel medio evo. In questi ultimi tempi i Tedeschi sono stati i primi ad avvedersi che la scienza si era messa per vie troppo ristrette , e che per renderle il suo antico valore bisognava senza più ricondurla sul terreno che altra volta avea occupato , da cui le modeste pre tensioni della psicologia l'aveano scacciata, e in cui solo potea incontrarsi con quelle quistioni che più potentemente importano al genere umano, e riacquistar così la vita e l'importanza primiera. Quest' obbligo la scienza deve indubitata mente a’moderni Tedeschi, quali che siano state le conse guenze a cui sono giunti. GIOBERTI ha tenuto il medesimo cammino, ma con mezzi alquanto diversi , ed è venuto a conchiusioni di ben altra natura. Anch'egli vuol giungere ad una scienza più compiuta che esca dalle aridità psicolo giche, e che, piena del senso della realtà e della vita, cerchi di pervenire alla causa prima e reale d'ogni causa e d'ogni fenomeno, riproducendo nell' ordine ideale della scienza l'ordine reale della generazione. Movendo dalla teologia cristiana, egli si è sforzato di ricondurre la scienza all' ontolo gia, in modo da conservarla d'accordo con la religione, e in vece di adoperar come i Tedeschi che fanno entrar la reli gione nella filosofia e vogliono col mezzo di questa spiegar la, egli, per opposto cammino, seguendo i più antichisistemi ortodossi, ha voluto sottomettere la filosofia alla religione, in guisa che fosse questa obbligata a riconoscer da quella ogni suo valore . Il suo punto di partenza è una formola sin letica, la quale, benchè d'accordo col Cristianesimo , anzi, appunto perchè è di accordo con esso, spiega l'uomo e l'universo e le loro relazioni con Dio, onde poi discendę ogni ordine d'idee e di fatti, il pensiero e la natura, le società e le civili istituzioni, la scienza a l'arte. Io non mi fermerò su’varii punti del sistema, nè sulle varic applicazioni che egli va facendo del suo principio, nelle quali dimostra una potenza di mente mirabile e delle conoscenze non punto ordi narie, ma non posso tacere che soventi volte, siccome è moda oggidì, si lascia strascinar troppo all'amore del sistema, e a certa smania di costruzioni a priori, le quali son certamente del dominio della scienza , ma che oggi si sogliono condurre fino all'esagerazione. Per questo rispello gli antichi mi pa iono ben superiori a 'moderni, perchè Platone ed Aristotile si occupano anch'essi di costruire l'universo a priori e per mezzo delle idee , ma sanno bene fermarsi alle generalità senza discendere a taluni troppo minuti particolari , i quali sfuggono alla scienza e non si possono senza esagerazioni far discendere comodamente da' principii generali. E chi sa se nell'universo , come nell'uomo, non ci ha un punto in cui l'impero assoluto della legge ha termine, e quello dell' arbitrio , del capriccio e dell'accidente incomincia? Certo è giusto di volere co' principii razionali spiegar le leggi e le generalità delle cose, ma è strano il pretendere di spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la cagione necessaria e razio nale d'ogni avvenimento, d'ogni legge, d'ogni fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni onda che la forza de'venti scaglia contro le rive, d'ogni foglia che la brezza dell'autunno fa. cadere dal ramo; allora si potrebbe ripetere il detto di Napoleone, che un brieve limite separa dal sublime il ridicolo. Vediamo ora qual sia la formola suprema e creatrice del sistema di GIOBERTI. Ogni filosofia, egli dice, la quale muova dalla nozione semplice e astratta dell'essere, dee necessaria mente smarrire la diritta via. Siffatla nozione, come quella che si può applicare al Creatore e alle creature, senza alcuna diversità, e che però nulla può produrre, conduce all'ipotesi d'una sostanza unica, cioè al panteismo. Ora la teorica del panteismo è falsa perchè non risponde a tutte le esigenze della scienza, nelle applicazioni non trovasi d'accordo con la vera natura delle cose, distrugge la morale, ed è contraria al cristianesimo che è la veritàperfetta ela parola stessa di Dio. Però è mestieri trovar modo di escire di questa peri colosa ipotesi, la quale ha potuto soventi volte sedurre le più belle intelligenze e i più profondi spiriti. Ove la causa che conduce al panteismo eziandio quelli che meno vi vorrebbe ro pervenire, chi ben guardi la troverà nel punto stesso onde muovono, giacchè la nozione dell'essere in astratto non può menare alla realtà. Per la qual cosa a fio di cansar l'errore , è d'uopo aggiungere all'idea dell'essere qualche altra nozione che sia nello stesso tempo primitiva e sottopo sta all'altra. Se non fosse primitiva rispetto al nostro spirito, non potremmo acquistarla altrimenti, essendo la nozione dell' essere di sua natura improduttiva; d'altra parte se non fosse sottoposta ad essa nozione dell'essere e quasi da essa ingenerata, e' si cadrebbe io un dualismo assoluto non meno assurdo dello stesso panteismo. Ma fortunatamente è facil cosa trarre l'essere dal suo stato astratto, considerandolo siccome concreto e creatore , perchè l' essere così conside rato rinchiude in sè l'idea di un effetto, cioè di un'esistenza che non fa parte della natura di quello , ma che essendo un libero prodotto della sua volontà, è legato con esso lui mercè il vincolo della creazione . Per tal modo e ' si avrebbe un sol principio da cui partirebbe lo spirito, cioè l'idea dell' essere puro e necessario che crea l'esistenza contingente, e questa verità-principio produrrebbe un principio-fatto, cioè la realtà dell'esistenza. Così l'autore invece di partire dalla nozione astratta dell'essere, è partito da quella dell'essere che per mezzo della creazione produce altre esistenze a lui sottopo ste, ed ha espresso il suo principio supremo con la formola: l'essere crea l'esistenza; e con questo mezzo ha evitato ilpan teismo, ponendo il concetto della creazione come il lega me fra l'essere assoluto e l'esistenze contingenti. Pur tutta via questo mezzo non è paruto a tutti soddisfacente; già non è mancato chi ha detto che il suo sistema era la teorica dello Schelling battezzata e fatta cristiana, ed altri altre difficoltà hanno arrecato in mezzo. Cone è egli possibile di costruire a priori una filosofia mercè diun principio il quale contie ne in sè un dato essenzialmente contingente e di fatto, quale è quello della creazione ? Se si considera l'idea della creazione legata di necessità con quella dell'essere, e allora si cade senza più nel pantei smo, o almeno nella sentenza assai vicina a quello della ne cessità della creazione; se poi si considera essa creazione come un fatto empirico e contingente, è impossibile allora di farla discendere dal concetto dell'essere, e dedurla da esso; anzi, essendo essa libera e volontaria, il principio si dovrebbe esprimere altrimenti, dicendosi piuttosto: l'essere vuol creare l'esistenza ; nel qual caso potrebbe domandarsi : chi v'insegna questa volontà dell'essere? domanda a cui è difficile di soddisfare senza cadere in Cariddi per evitare Scilla. Conciossiacchè se si risponde che l'insegna il fatto, la formola a priori è distrutta, e si cade in uo circolo vizio so , col quale si verrebbe a dire che l' essere ha voluto crear l'esistenza, perchè esiste, e che l'esistenza esiste, perchè l'essere ha voluto crearla . Se poi, mutando strada, si rispon de che non già il fatto ma la nozione stessa dell' essere rin chiude il concetto della creazione, e allora si giunge diritto, come inpanzi dicevamo, alla necessità di essa creazione. Non insisterò più a lungo su questa discussione, che, come tutte le altre , ho voluto toccar solo di passaggio, ma osser verò invece alcuna cosa sull'indole generale della dottrina di GIOBERTI. Nati in un tempo che è succeduto ad un altro di strani rivolgimenti ed inuditi rumori, e che ancora è in certo di sè medesimo e più incerto del suo avvenire , noi possiam dire di assistere al contrasto di due opinioni , le quali si disputano ostinatamente l'impero dell'intelligenza. L'una, che è la meno seguitata, è essenzialmente conserva trice, e non crede nè al presente nè all'avvenire, ma sogna caldamente il passato, i secoli scorsi e quasi il secol d'oro della favola. L'altra, che domina appresso l'universale, non ha fede che nel presente e nell' avvenire, dispregia e deride tullo quello che non è nato pur ieri, e ciecamente crede al progresso infinito delle umane generazioni, al cammino dello spirito sempre trionfanle e vittorioso. GIOBERTI non può essere accusalo nè dell'una nè dell'altra estrema opinione, e il suo modo di vedere e giudicar le cose può dirsi essenzial mente conciliatore dell'antico e del moderno. Non egli du bita che lo spirito umano cammini , ma non crede che lutto quello ci ha di bene sulla terra sia nato ieri; nè dubita che lo spirito progredisca, ma non crede che ogni suo mo vimento sia un progresso; in somma il passato non è per lui unicamente l'antecedente cronologico del presente, o un ca davere senza vita e senza importanza, anzi egli vuole che se ne faccia altamente conto come di cosa che contiene in sè i germi del nostro essere presente, e che non venga punto messo in dimenticanza nelle nuove combinazioni si della scienza e sì della vita pratica. Nè punto diverso da questo è il principio delle sue opinioni politiche, nelle quali ammira il passato ma non lo crede bastevole a corrispondere a tutte le esigenze del presente , ammira il medio evo in tutto quello che ha di grande, di nobile e digeneroso ma pon vuole per questo la ricostruzione del castello feudale; vuol bene che la politica italiana sia degna del nostro secolo ma non chiama ugualmente degne del secolo tutte le utopie . Questi sono i filosofi italiani degni di essere ricordati da chi voglia tessere un quadro dello stato in che trovasi oggi la scienza fra noi . Il quale , come si può vedere, se non è da esserne troppo superbi, non è neppur tale da doyercene ver gognare, perchè accanto a nomi mediocri o poco maggiori della mediocrità, se ne trova pure altri , come quello di SERBATTI e GIOBERTI, degni di fare onore a qualunque tempo e a qualunque paese. Un'osservazione però sorge natural mente da tutto quello che finora abbiamo discorso, cioè che se ci ha de sistemi e de’ FILOSOFI ITALIANI, non ci ha però una filosofia o una scuola italiana da mostrar le dottrine domi nanti universalmente, poichè dottrine comuni veramente non ce ne ha, ma ciascuno ha le sue proprie , e nessuno giunge a diffonderle in modo da formare una scuola forte ed upita da contrapporre ad un'altra .La medesima cosa mi ricorda d'aver fatto osservare a pro posito del teatro , ove dicevo che ci ha bene de' drammi e dei drammaturgi in Italia , ma non un dramma italiano , da po terne indicare l'indole generale. Sarebbe lungo cercar le ra gioni di questo fatto , ma quanto a' sistemi filosofici, non può nascondersi che ciha un punto essenzialissimo in cui tutti o almeno i più importanti si accordano , e questo è l' essere ugualmente ortodossi e cattolici. I nostri antichi non erano generalmente così solleciti di trovarsi d'accordo con la reli gione , e spesso con le prigioni, con l'esilio e co' roghipa garono la pena del loro ardimento . Oggi in mezzo alla co mune eterodossia delle scuole moderne, e soprattutto delle tedesche , i filosofi italiani si studiano di mantener collegate amorevolmente la fede e il pensiero, la religione e la scien za , e compensano con la propria ortodossia gli errori de'loro predecessori , i quali signoreggiano oltremonti e trovano nuovi seguaci e arditi rinnovellatori massimamente nelle scuole di Germania . Certamente sarebbe cosa assurda il negare che la filosofia tedesca in questi ultimi anni abbia renduti straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare de'passi che mai non saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que' sistemi sono altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde applicazioni a tutti i diversi ramidel sapere e della vita , ma accettarli interamente come veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto per poi Italiani la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per sofferire qualunque maniera d'imitazione , senza che tosto ritorni in caricatura, ed al cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà e di vita , mal si convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de' Tedeschi, e la col trice di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di avvilupparsi. Oltre a ciò si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la filosofia tedesca , quando dopo tante pro messe e sì grandi rumori , si è mostrata inetta a fermar niente d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno , tace profondamente , e quasi non ha un'idea o una parola comuni per farsi intendere, e le scuole deboli e divise internamente o più non vivono o vivono di una vita che molto si rasso miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha ragione tut tavia di lagnarsi della loro impotenza e della vanità degli sforzi per esse fatti. Prima di conchiudere sentomi spinto come di viva forza a ricordare un nome, che pochi forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma che io non voglio tacere , solamen te perchè colui che il portava ora più non vive , e perchè al tra meno sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren dere. Io non so se le poche pagine scritte da CUSANI giungeranno a'posteri, e molto più dubito delle mie , ma de sidero che i contemporanei sotto i cui occhi potrà cadere questo scritto , sappiapo che fra’giovani che ora fra noi si oc cupano di filosofia nessuno forse fu fornito più di lui di mente veramente filosofica, la quale con più sodi studii e con la malurità degli anni avrebbe forse , anzi senza forse , dato frutti degni di vera gloria . Nè vorrei che di lui si giudicasse da quello che finora avea stampalo , perchè chi il conobbe può far giudizio sicuro di quello che un giorno avrebbe potuto fare se gli fosse bastata la vita. Non so altri che faccia bene e splendidamente sperare di sè , ma non dubito che fra tanti dovrà sorgere alcuno degno degli antichi e de' nuovi nomi , perchè giovami di credere, e i fatti mi confermano nella mia opinione, che la sacra fiaccola della scienza non sia , non che spenta, affievolita nella patria del Vico , del Campanella e di Giordano Bruno. Grice: “Gatti is a difficult one to catalogue – not at Oxford! He is a man of letters and action, by man of letters we mean Lit. Hum. And Gatti, being the snob he was, would rather be seen dead than referred to as merely a ‘philosoopher’ – He edited the Museo di FILOSOFIA e letterature – and his passion (if he had one) was Vico – and more, to criticse oters. He would not speak of ‘italian philosophy,’ but of ‘philosophy in Italia’! – He wrote on Rovere, and other philosophers – but he was always ready to grade them: “Genovesi, infinitely inferior to Vico” – Incredibly that this philosopher is talking the same lingo as Machiavelli or Dante!” – His exegesis of Vico is good – he refers to the Bruno, Campanella and Telesio as the celebrated triunvirato, and there are references to some obscure philosophers in his prose – about which he writes little to enthusiase his reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords: poetica, Vico, Filosofia Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane – il vico di Gatti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gaudenzio: la ragione conversazionale e il filosofo musicista – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He writes an important work on the theory of music that survives in parts. Grice: “And then I played the piano!” – Gaudenzio.

 

Grice e Gaudenzio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo italiano. The philosophical interest of his essays lies in his discussion of natural law, for which he borrows from the Porch. He argues that through the use of reason anyone can come to a knowledge of his moral obligations.

 

Grice e Gauro: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He appears to have been a pupil of Porfirio, who may have dedicated one of his essays to him.

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