Grice e Gaetani: la ragione conversazionale e ’implicatura
convesazionale di Catullo -- APVD NEAPOLIM – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Martano). Filosofo italiano. Grice: “I like Gaetani, for one, he
is a duke – and kept beautiful gardens at Martano – he philosophised on the
‘ottocento’, as any philosopher from the Novecento would!” Figlio di Carlo, conte di Castelmola, e Giuseppina
Chiriatti. La famiglia Gaetani annovera oltre al ramo dei Castelmola, anche
quello dei Laurenzana, di cui si ricorda il Barone Di Laurenzana, esponente del
movimento radicale. L'insegna araldica dei Castelmola è costituita da uno scudo
forgiato di due strisce blu ondeggianti che lo attraversano in senso
trasversale. I G., prima Caetani, vantarono alcuni papi, tra cui Bonifacio
VIII. Il padre, Carlo, avvocato, fu
ripetutamente eletto tra le file dei radicali nel Consiglio comunale di Napoli.
Da Napoli attiene, fino a tutta la Grande Guerra, alla cura del patrimonio
fondiario in Martano, acquisito dal matrimonio con Chiriatti. Questa infatti si
era trasferita a Napoli dopo l'uccisione del facoltosissimo padre Paolo,
nell'ambito di una torbida vicenda che vide infine coinvolta la madre di le quale
mandante, assieme al prete Mariano, dato che i due erano in tresca. Diviso il
patrimonio tra le due figlie Giuseppina e Paolina Chiriatti, e la madre stessa,
vennero iniziati i lavori di costruzione del palazzo Chiriatti-G.. A Palazzo
Chiriatti-G. la famiglia venne a dimorare mentre man mano la gestione delle
fortune familiari passava in capo a G., che si impegna in un'ardua opera di
bonifica e di razionalizzazione colturale, culminata con l'acquisto di diversi
macchinari ad alta tecnologia. E però proprio il malfunzionamento
dell'attrezzatura finalizzata all'estrazione dell'acqua dai pozzi, bene
capitale nelle aride campagne della zona, a determinare l'infiacchimento del
capitale di famiglia e il progressivo indebitamento verso il Banco di Napoli,
che culmina con la fine del fascismo.
Frattanto G., che si fregia del
titolo di duca, a seguito del matrimonio con la duchessa d'Ascoli, Leopoldina,
si dedica alla FILOSOFIA, mentre, del resto, ha a ricoprire la carica di provveditore
a Potenza. La sua filosofia e ispirata dalla Francia, della che e un grande
amatore, nonostante il fascismo e nonostante la sua adesione al regime, che ad
un certo punto ne impedì la circolazione in Italia. Crociano, segue lo schema
tracciato dal maestro, mentre l'ultimo ricordo della natia Martano e un canto
dedicato alle tradizioni grike, di cui raccomandava appassionatamente la
conservazione e il culto. Nei giorni
furenti che precedettero il Referendum istituzionale appoggia in pubblici
comizi la Monarchia, e per questo paga dazio dovendosi allontanare all'indomani
del voto e rifugiarsi in Napoli, tutto teso negli studi letterari. Altre saggi:
Villon (Napoli); “Un carteggio inedito di F. Bozzelli (G.), L'Aquila, Masseria,
Martano (Lecce); “Un bilancio letterario” (Roma); “Per onorare un maestro: il
Torraca, Napoli); “Catullo” (Roma); L'Ottocento” (Napoli); “La bancarotta del
rosso: commedia in tre atti (Lecce); “Per la venuta del Duce” (Lecce); “Bernardo
Bellincioni, Galatina (Lecce); “Il benedettino-cistercense d. Mauro cassoni nel
Tempio, nella scuola, negli studi (Lecce); “Ricordi di Croce” (Napoli); Vicende tipi e
figure del Casino dell'Unione” (Napoli); Napoli ieri e oggi: passeggiate e
ricordi” (Milano-Napoli); “Apud Neapolim” (Napoli); Fonti storiche e letterarie
intorno ai martiri di Otranto, Napoli. "Catullo" rimanda qui.
Se stai cercando altri significati, vedi Catullo (disambigua). Sirmione,
busto di Catullo Gaio Valerio Catullo (in latino: Gaius Valerius Catullus,
pronuncia classica o restituta: [ˈɡaːɪʊs waˈlɛrɪʊs kaˈtʊllʊs]; Verona, – Roma)
è stato un poeta romano. Il poeta è noto per l'intensità delle passioni amorose
espresse, per la prima volta nella letteratura latina, nel suo Catulli
Veronensis Liber, in cui l'amore ha una parte preponderante, sia nei
componimenti più leggeri che negli epilli ispirati alla poesia di Callimaco e
degli Alessandrini in generale. Il busto di Catullo presso la Protomoteca
della Biblioteca civica di Verona. Origini familiari Catullo da Lesbia,
dipinto di Lawrence Alma-Tadema. Gaio Valerio Catullo proveniva da un'agiata
famiglia latina che aveva contribuito a fondare la città di Verona, nella
Gallia Cisalpina; il padre avrebbe ospitato Q. Metello Celere e Giulio Cesare
in casa propria al tempo del loro proconsolato in Gallia[1]. Per quanto
concerne gli estremi cronologici della sua biografia, Girolamo pone l'87 a.C. e
il 57 a.C. rispettivamente come data di nascita e di morte e specifica che
appunto egli morì alla giovane età di trent'anni. Tuttavia, poiché nei suoi
carmi accenna ad avvenimenti che riportano all'anno 55 a.C. (come l'elezione a
console di Pompeo e l'invasione della Britannia da parte di Cesare[4]), si è
maggiormente propensi a ritenere che egli sia nato nell'84 e morto nel 54 a.C.,
dato per certo il fatto che sia morto a trent'anni. Trasferimento a Roma,
vita sociale e letteraria Trasferitosi nella capitale cominciò a frequentare
ambienti politici, intellettuali e mondani, conoscendo personaggi influenti
dell'epoca, come Quinto Ortensio Ortalo, Gaio Memmio, Cornelio Nepote e Asinio
Pollione, oltre ad avere rapporti, non molto lusinghieri, con Cesare e Cicerone;
con una ristretta cerchia d'amici letterati, quali Licinio Calvo ed Elvio Cinna
fondò un circolo privato e solidale per stile di vita e tendenze letterarie.
Durante il suo soggiorno prolungato a Roma ebbe una relazione travagliata con
la sorella del tribuno Clodio, tale Clodia. Clodia viene cantata nei carmi con
lo pseudonimo letterario "Lesbia", in onore della poetessa greca
Saffo, molto cara a Catullo e proveniente dall'isola di Lesbo. Lesbia, che
aveva una decina d'anni più di Catullo, viene descritta dal suo amante non solo
graziosa, ma anche colta, intelligente e spregiudicata. La loro relazione,
comunque, alternava periodi di litigi e di riappacificazioni ed è noto che
l'ultimo carme che Catullo scrive all'amata fu del 55 o 54 a.C., proprio perché
in essa viene citata la spedizione di Cesare in Britannia. Da alcuni suoi carmi
emerge, inoltre, che il poeta ebbe anche un'altra relazione, omosessuale, con
un giovinetto romano di nome Giovenzio. Catullo si allontanò, comunque, varie
volte da Roma per trascorrere del tempo nella villa paterna a Sirmione, sul
lago di Garda, luogo da lui particolarmente apprezzato e celebrato per il suo
fascino ameno, situato nella sua terra di origine e che per questo induceva al
poeta distesi periodi di riposo. Seguì Gaio Memmio in Bitinia: in quella
circostanza andò a rendere omaggio alla tomba del fratello situata nella
Troade. Quel viaggio non recò alcun beneficio al poeta, che ritornò senza
guadagni economici, come sperava al momento della partenza, né la lontananza
riuscì a fargli riacquistare la serenità perduta a causa dell'incostanza e
dell'indifferenza di Lesbia nei suoi confronti. Fu tuttavia una nota positiva
la visita alla lapide del fratello, in occasione della quale scrisse il Carme
(a cui si ispira in seguito anche Foscolo per la poesia In morte del fratello
Giovanni). Catullo non partecipò mai attivamente alla vita politica, anzi
voleva fare della sua poesia un lusus fra amici, una poesia leggera e lontana
dagli ideali politici tanto osannati dai letterati del tempo[6]. Disprezzava
infatti la politica di allora, dominata da politici corrotti che servivano
soltanto il proprio interesse: riteneva dunque che favorire l'uno o l'altro non
significasse niente di meno che aiutare l'uno o l'altro a perseguire il suo
vantaggio personale. Tuttavia, seguì la formazione del primo triumvirato, i
casi violenti della guerra condotta da Cesare in Gallia e Britannia, i tumulti
fomentati da Clodio, comandante dei populares, fratello della sua celebre
amante Lesbia e acerrimo nemico di Cicerone, che verrà da lui spedito in esilio
nel 58 a.C. ma poi richiamato, i patti di Lucca e il secondo consolato di
Pompeo. Una nota da sottolineare è il Carme 52 dove, per usare le parole di
Alfonso Traina, "il disprezzo della vita politica si fa disprezzo per la
vita stessa": (LA) «Quid est, Catulle? quid moraris emori? sella in
curuli struma Nonius sedet, per consulatum peierat Vatinius: quid est, Catulle?
quid moraris emori? Che c'è, Catullo? Che aspetti a morire? Sulla sedia curule
siede Nonio lo scrofoloso, per il consolato spergiura Vatinio: che c'è,
Catullo? Che aspetti a morire?» (Carme) Opera Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura latina Marco
Antonio Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum
Manutium, Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Liber
(Catullo). Il liber di Catullo non fu ordinato dal poeta stesso, che non aveva
concepito l'opera come un corpo unico, anche se un editore successivo (forse lo
stesso Cornelio Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera) ha
diviso il liber catulliano in tre parti secondo un criterio di tipo metrico: i
carmi, sotto il nome di "nugae" (letteralmente
"sciocchezze"), brevi carmi polimetri, per lo più faleci e trimetri
giambici; i carmi, i cosiddetti "carmina docta" d'impronta
alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci; i carmi sono gli
epigrammi ("epigrammata"), in distici elegiaci. Il mondo
poetico e concettuale di Catullo Il poeta Catullo legge uno dei suoi
scritti agli amici, da un dipinto di Stefan Bakałowicz. Catullo è per noi uno
dei più noti rappresentanti della scuola dei neòteroi, poetae novi, (cioè
"poeti nuovi"), che facevano riferimento ai canoni dell'estetica
alessandrina e in particolare al poeta greco Callimaco, creatore di un nuovo
stile poetico che si distacca dalla poesia epica di tradizione omerica divenuta
a suo parere stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla quantità
(in riferimento all'abbondanza dei versi di quest'ultima) piuttosto che dalla
qualità. Sia Callimaco che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli
antichi eroi o degli dei[7], ma si concentrano su episodi semplici e
quotidiani. Per giunta, i neòteroi si dedicano all'otium letterario piuttosto
che alla politica per rendere liete le loro giornate, coltivando il loro amore
solo ed esclusivamente alla composizione di versi, tanto che Catullo dichiara
nel carme 51: «Otium, Catulle, tibi molestum est:/otio exsultas nimiumque
gestis» «L'ozio per te, Catullo, non è buono;/ nell'ozio smani e ti scalmani»
(traduzione a cura di Nicola Gardini). Talvolta il poeta ostenta il suo disinteresse
per i grandi uomini che lo circondavano e che stavano scrivendo la storia:
«nihil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere» «non m'interessa, Cesare, di
andarti a genio» (carme 93), scrive al futuro conquistatore della Gallia. Da
questa matrice callimachea proviene anche il gusto per la poesia breve, erudita
e mirante stilisticamente alla perfezione. Si sviluppano, originari
dell'alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco[8], Teocrito,
Asclepiade, Fileta di Cos e Arato, generi quali l'epillio, l'elegia
erotico-mitologica e l'epigramma, che più sono apprezzati e ricalcati dai poeti
latini. Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè
"levigato") a riprova del fatto che i suoi versi sono particolarmente
elaborati e curati, le poesie raffinate e curate. Una delle caratteristiche
peculiari della sua poetica è, infatti, la ricercatezza formale, il labor limæ,
con cui il poeta cura e rifinisce i suoi componimenti. Inoltre, al contrario
della poesia epica, l'opera catulliana intende evocare sentimenti ed emozioni
profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando
pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e
tematica, in particolare come nel carmen, una emulazione del fr. 31 di Saffo,
come anche i carmina, ispirati agli epitalami saffici. Il carme, preceduto da
una dedica ad Ortensio Ortalo, è una traduzione della Chioma di Berenice di
Callimaco, che viene ripreso per mostrare l'adesione ad una raffinata
elaborazione stilistica, una dottrina mitologica, geografica, linguistica ed
infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo un carme di
breve durata può essere un'opera raffinata e preziosa. Svetonio, Vita di
Cesare Chonicon, ad annum Carme Carmi Secondo un'indicazione di Apuleio
nell'Apologia, la donna a cui si riferisce Catullo rimase vedova di Quinto
Metello Celere, sicché si può pensare a Clodia. Al riguardo si veda il carme. Nil nimium studeo, Caesar,
tibi velle placere nec scire utrum sis albus an ater homo. Non mi interessa affatto piacerti, Cesare, né sapere
se tu sia bianco o nero. Eccezion fatta, forse, per i carmina. Morelli, Il
callimachismo del carme 4 di Catullo, Cesena: Stilgraf, Paideia: rivista di
filologia, ermeneutica e critica letteraria Granarolo, Catulle Lustrum, Granarolo,
Catulle Lustrum, Harrauer, A Bibliography to Catullus, Hildesheim Holoka, Gaiu
Valerius Catullus. A Systematic Bibliography, New York-Londra Rapisardi, Napoli
Stampini, Torino Fleres, Milano Saggio, Milano Mazzoni, Bologna Quasimodo,
Milano Errante, Milano Arbela, Milano Cetrangolo, Milano Ciaffi, Torino Pighi,
Verona Mazza, Parma Ceronetti, Torino, Ramous, Milano Rizzo, Roma Corte, Milano
Mandruzzato, Milano Caviglia, Roma-Bari Amico, Palermo Chiarini, Milano Paduano,
Torino Canali, Firenze Natucci, Roma anche in formato Kindle Fo, Torino
Commenti Ellis, Oxford 1Riese, Lipsia Baehrens, Lipsia Friedrich,
Lipsia-Berlino Kroll, Lipsia Lenchantin de Gubernatis, Torino Fordyce, Oxford Pighi,
Verona Quinn, Londra Corte, Milano Caviglia, Bari Merrill, Boston Syndikus,
Darmstadt Studi Fedeli, Introduzione a Catullo, Roma-Bari, Laterza Ferguson,
Catullus, Oxford Schimdt, Catull, Hidelberg Corte, Due studi catulliani, Genova
Neduling, A Prosopography to Catullus, Oxford Braga, Catullo e i poeti greci,
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Roman Catullus and the Modification of the Alexandrian Sensibility, Hildesheim Wheeler,
Catullus and the Tradition of Ancient Poetry, Londra Moellendorff, Catullus
hellenistische Gedichte. in Hellenistische Dichtung in der Zeit des
Kallimachos, Berlino Rapisardi, Catullo e Lesbia. Studi, Firenze, Succ.
Lemonnier, Marmorale, L'ultimo Catullo. Napoli Pontiggia, Maria Cristina
Grandi, Letteratura latina. Storia e testi. Milano, Principato Kaggelaris,
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songs, Avdikos e Koziou-Kolofotia (a cura di), Modern Greek folk songs and
history. Catullo, Gaio Valerio, Treccani.it – Enciclopedie, Istituto
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Valerio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Gaio
Valerio Catullo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
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Humanities Institute. Modifica su Wikidata Opere di Gaio Valerio Catullo / Gaio
Valerio Catullo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica
su Wikidata (EN) Opere di Gaio Valerio Catullo, su Open Library, Internet
Archive. Modifica su Wikidata. Opere di Gaio Valerio Catullo, su Progetto
Gutenberg. Audiolibri di Gaio Valerio Catullo / Gaio Valerio Catullo (altra
versione), su LibriVox. Bibliografia di Gaio Valerio Catullo, su Internet
Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Modifica su Wikidata (EN) Gaio
Valerio Catullo, su Goodreads. Modifica su Wikidata Il Liber di Catullo
tradotto in italiano, su spazioinwind.libero.it. Il Liber di Catullo con
concordanze e liste di frequenza, su intratext.com. Le grotte di Catullo, su
smugmug. Scansione metrica del Liber di Catullo, su rudy.negenborn.net. La
Chioma di Berenice: traduzione di Alessandro Natucci, su digilander. libero.it.
Il carme 64: traduzione di Natucci (PDF), su classiciscriptores. weebly.com.
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Letteratura Categorie: Poeti romani Romani Nati Morti Nati a Verona Morti a
Roma Gaio Valerio Catullo Epigrammisti Valerii Poeti italiani trattanti
tematiche LGBTSalvatore Gaetani. Gaetani. Keywords: APVD NEAPOLIM, l’implicatura
di croce. Croce, Catullo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gaetani” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e Gagliardi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia marinese –scuola di Marino – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Marino).
Flosofo marinese.
Filosofo lazio. Filosofo Italiano. Marino, Roma, Lazio. Grice: “I like
Gagliardi; I spent some time with medics at Richmond, talking Greek! Anyhow, Gagliardi shows why the Angles prefer
physician – since ‘medicare’ is such a trick!” – Grice: “Philosophically
interesting bit is that Gagliardi applies ‘medico’ and qualifies it with
‘morale’!” Nasce a un feudo dei Colonna, nell'area dei Colli Albani, come
riferisce Moroni nel suo Dizionario di erudizione, e come riferito dallo stesso
G. nel in "L'idea del vero medico fisico e morale formato secondo li
documenti ed operazioni di Ippocrate" (Roma). In effetti, il cognome G.
esiste all'epoca a Marino ed è tuttora tramandato. E impegnato in ricerche morfologiche,
microscopiche ed anatomo-patologiche a proposito delle ossa, compiendo
importanti scoperte in questo campo. In “Anatomia delle ossa illustrata con le
nuove scoperte", Roma) descrive per primo la struttura lamellare delle
ossa. Inoltre effettua alcuni esami e ricerche comparative tra le ossa umane e
quelle del vitello. Descrive probabilmente per primo un caso di tubercolosi
ossea. La sua opera è piuttosto lodata, e l'“Anatomia” è ristampata. Fa importanti
studi sul "mal di petto". Filosofa sull'educazione morale. Da anche
ammonimenti contro i guaritori ciarlatani e forne alcuni suggerimenti
deontologici. Abita nel rione Sant'Angelo, presso via delle Botteghe oscure. In
questa strada, un suo servo è ucciso misteriosamente nottetempo. Durante le
villeggiature dei papi presso la Villa Pontificia di Castel Gandolfo G. ha il
privilegio di offrire la frutta al papa. Alessandro VIII gli conferì un titolo
nobiliare, ma non sappiamo quale. I suoi lavori, conservati nelle maggiori
biblioteche di Roma, rivestono un particolare interesse se anche duecento anni
dopo la loro scrittura, il vice-direttore dell'Ospedale San Martino di Genova, Arata,
da alle stampe una lettera inedita del G. sull'itterizia. Si ha svolto un
proficuo lavoro di ricerca su G., scoprendo anche una firma del medico in
margine ad un saggio discusso all'università La Sapienza. Altre opere: “L'infermo istruito nelle
scuole” (Roma); “Consigli preventivi e curativi in tempo di contagio dati in
forma di dialogo” (Roma); “Relazione de’mali di Petto che corrono presentemente
nell'Archiospedale di Santo Spirito in Sassia” (Roma); “L'educazione morale”
(Roma). “Come sopra l'influenza catarrale che presentemente regna in Roma e
Stato ecclesiastico” (Roma). Si veda l'annotazione di “Due baiocchi” in
"Castelli Romani", Bossi, Dell'Istoria d'Italia antica, Enciclopedia
Treccani G. Sterpellone, I protagonisti della medicina, Tiraboschi, Storia
della letteratura italiana, Lucarelli, G., Giornale de' letterati d'Italia, Ros,
La "Relazione de' Male di Petto" en el ambiente anatomo-clínico
romano, in Dynamis: Acta hispanica ad medicinae scientiarumque historiam
illustrandam; Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia,
Emiliani; Lucarelli, Memorie marinesi, Marino, Biblioteca Torquati, Ordinamento
universitario dello Stato Pontificio Tubercolosi ossea; G., TreccaniEnciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 1 te cose senza profondarvi in
alcuna di efse, ed allora appunto diverrete più capaci di fare maggiori
progressi, e tanto più se vi servirete per regolatore delle vostrej operazioni
di quel saggio avvertimento feftina lente. Esploro dunque con private
conferenze l'animo di ciascun di voi separatamente, per meglio accercarmi di
ciò, che vi fa bisogno, non potendo il medico dare ajuto al suo infermo s se
prima non avrà ben conosciute le cagioni del suo male, e spero in oggi; e
domani di potere ricavare da voi ciò, che sarà più necessario, ch'io sappia,
per meglio indirizzarvi. Ritiriamoci ora à fare il privato esame, per potere lunedì
prossimo dar principio alle nostre giornate. M Nella quale si mostra cosa
si ricerchi d'eljena ziale per efere Medico je ciò, che gli rechi
ornamento. Avveddi jeri dal vostro parlare; che non siete tutti voi di
genio uniformi, perche conobbi bene, che tal'uno di voi non restava
persuaso, e altri più; ò meno, s’appagavano delle mie ragioni, e riflettendo,
che ciò possa nascere dalla diversità delle vostre menti più o meno sublimi, e
animose. Quindi è, che prima d'inoltrarmi nel presente ragionamento, stimo
necessario di premettere una breve partizione delli vostri ingegni, a fine di
regolare ciascuno di voi secondo la propria capacità: Ecer tamente,
conforme nell'esterno non vi assomigliate trà voi, così ancora nell'interno
sarete differenti, cioè, che non ha ciascuno di voi la medesima capacità, e
apertura di merite; il medesimo talento, e spirito, la medesima memoria, e
ritentiva, e il medesimo giudizio, o perspicacia d'ingegno; onde, ciò supposto,
io non puo con la medesima misura, e regola mostrare à tutti voi ciò, che vi
converrà d'essenziale, è d'ornamento per potere diventare veri medici. Dunque
mi convenne necessariamente dividere l’essenziale dall'ornamento, perche l'essenziale
dove competere egualmente à voi, che fiete di mente più sublimi, che agli altri
d'inferiore capacità: L'ornameiro poi, perche non potrà competere egualinente,
nè potrà essere in tutti voi uniforme, bisogna regolarlo fecondo la
propria capacità, e genio di ciascuir di vois con pensare al modo, che possino
l'ingegni inferiori uguagliare per altra via ancora nell'ornamento li più
subliini; E ciò serve primieramente per dare un'ottima direzzione alle
menti di maggior capacità, in farli conoscere ciò, che si debba di elli
premettere d'essenziale, per poscia potersi avanzare in quello di più, di cui
saranno capaci. In secondo luogo perche non si confondano, & avviliscano le
menti meno sublimi, anzi per istruirle , & ani. marle insieme à fupplire
con l'Arte al di, fetto di Natura, Certo, che ognuno di voi deve avere il
medesimo fine, cioè di divenire Medico; Onde dovrà unitamente con gl'altri
incaminarsi per la medesima strada, e fino à tanto, ch'abbia conseguico il suo
in, tento ; Mà perche chi si trova in forze maggiori trà voi è portato
facilmente dal suo spirito ad uscire dalla careggiata, quindi è, che bisognerà idearsi
un caso, che dia un buon regolamento à tutti unitamente, che sarà il seguente:
Vi fia trà voi chi posseda in contanti due, chi trè , e chi quattro talenti , e
che voglia ciascuno per uso proprio fabricarsi una casa compita, che abbiad
d'avere il medesimno uso, e la medefima fruto struttura, certo è,
che li fondamenti converrà, che li facciate uniformi, il sopra terra dovrà
alzarsi eguale, le stanze doyranno essere di numero, e capacità consimili,
altrimenti non avrà la medesima struttura. In idearsi queste case non potrà
l'Architetto eccedere la spesa di due talenti, altrimenti non potria senza
indebitarsi compire la sua fabrica ,chi di voi hå che due foli talenti; Si
dolerà facilmente con l'Architetto chi ne hà d'avantaggio, perche non gl'abbia
delineato fabrica più sontuosa , à cui facilmente egli risponderà, è meglio,
che litalenti vi avanzinoy che manchino, perche li potrete impiegare in ornato,
e così la vostra farà più bella comparsa ; Sentendo questo voi, che avete soli
due talenti vi dolerete ancora coll'Architetto, che non vi rimarrà cosa da
spendere per ornarla , e perciò la voftra fabrica non potrà comparire bella al
pari delle altre, vi risponderà il medesimo, abbiate pazienza , che vi darò il
modo per far comparire vaga la vostra ancora al pari delle altre : Mă se per
vostradisgrazia spenderete li vostri talenti senza le buone regole
dell'Architettura, é voglia ognuno di voi farsi una casa à suo genio . Vois che
avete quattro talenti vorrete fare il doppio degli altri, vi profonderete più
del bisogno ne' fondamentis farece muri più larghi; l'alzerete più dell' altri;
con tutti li vostri quattro talenti Atenterete à copritla ; con che denari poi
la stabilirete? A che servirii la magnifiċenza della vostra casa , non
potendola in tutto compire per renderla usuale? Tanto peggio seguirà in
voi, che possedete meno, se nella vostra fabrica spetdeste più di quello; che
dovete je po tete; correreste pericolo di non poterla ricoprire, onde vi
rimarria affatto infruto tuosa, Altro inconveniente ancora potrid fascere
si nell'uno, come nell'altro caso, che saria di risparmiare ne' fondamenti
qualche porzione de’talenti per impiegarla nell'ornáto, iii questo modo le
vostre cafe fariano sempre in pericolo di rovina. $e , con tutta la sua bella
apparenzas fatta [ocr errors] ad imitazione di quei Mercadanti, che ciò
che hanno tengono in mostra , e questi sono quelli, che ben spesso si veggono
fallire. Questa fabrica , ch'ora vi hò ideato è appunto la Medicina
Pratica, la quale fi deve da tutti voi apprendere, e nella medema conformità,
affinche ne ricaviate un metodo di medicare uniforme, facile , e sicuro , e se
in apprenderla voi, che siete dotati d'ingegno più subliine degl'altri, vorrete
stendervi più in oltre delli vostri Compagni, vi confonderete con facilità con
tutto il vostro bel talento, perche fzcilmente il vostro spirito grande vi farà
divagare in quelle cose, che apprese in altritempi , che resivi più capaci,
meglio lo capirete, & adatterete al vostro bisogno. Șia per esempio, se in
questo tempo, che attendete alla pratica , vi venisse fantasia di leggere,
& imparare molti, e diversi liftemi, e li varj metodi di medicare, che Lono
nella Medicina , questo vi reccherà confufione, contenendo tanta diversità di
pensieri,d'ideese di modi con tutto che la 7 verità delle cose sia
una sola , onde con Fagione riferisce Lacuna, (a) ch'esclamava à suoi tempi
Galeno : Judicij veri difficultatem liquidò oftendunt tot , tàmque variæ
hærefes, quòt in Arte Medicâ reper riuntur; E tanto maggiorinente, che
quefti distogliendovi da quel bell'ordine, che voi avevate preso in offervare
l'andamenti de? mali con li vostri propri occhi, vi faranno acquistare una
pratica fimile alla vostra ideata fabrica, che non farà côpita, & in
conseguenza non ne potrete cavare quel profitto,che ne riporteranno li voftri
Compagni , li quali à cagione della maggiore attenzione, che hanno in
apprendere quella sola,non divertendosi in altro, se ne approfitteranno bene, e
la loro pratica sarà compita , e potrà avere il suo uso, giacchè al
parere di CICERONE (si veda): Affiduus ufus, uni rei deditus, die Ina genium ;
& Artem fæpè vincit ; Sicchè in questa parte eforto tutti voi à non applia
care ad altro , allora che prendete lame pra(a) Comment 1. Aphorism. 1.
ex Lecuno in Epit, Cicero pro Cornel. Balb. 1 [ocr errors] pratica,
che à quell'esercizio, che fate, eccettuatone alcuni tempi destinati per Ja
Notomia, e per la Boštanica, Perfezionati, che farete in detta, pratica,
& appreso, che avrete un metodo facile, e più sicuro di medịcare, allora
converrà di ornarla di altre cose, che abbiano correlazione con la Medicina ,
secondo il proprio genio, e capacità, con fermo proponimento però, che non vị
abbiano da distogliere dallo studio di er fa , nè da confondere ciò, che auete
con li propri occhi offeryato più volte, eţurto ciò, che avețe appreso per
ornamento non l'avrete da profeflare come negozio principale, altrimenti vi
distoglierà da quello , che avevate già acquistato dị buono nella - Medicina,
ma sopra di cio più diffusamente ne tratteremo in ap: presto Questą
praticą, appunto acquistatą, mediante le reiterate esperienze, e diligenti
osservazioni fatte intorno li Malati è quello , che fi ricerca d'essenziale nel
Medico , & oltre di questa ogn'altra cosa, che s’acquisterà di più gli
servirà d'ornamento maggiore: Che sia così,per consolazione di yoi, che siete
d'ingegni meno sublimi, yeniamo alle prove. La prima sarà con l'autorità
d'Ippocrate chiara , e testuale ; Dice dunque , egli:(a) Ars fane medica jām
mihi tota inventa ese videtur, quæ fic comparata eft, ut fingulas, da
consuetudines , temporum occasiones doceat. Qui enim hoc pactó Artis Medicæ
cognitionem habet , is minimum ex, fortuna pendet , fed & citrà fortunam,
çum fortunâ rectè eam adminiftrabit ; Firma enim eft Ars tota Medica , cjusque
prçceptiones , ex quibus conftat dr. Consistendo dunque tutta la Medicina
in sapersi ciò, che sia solito à farsi, e le congiunture de' tempi, nelle quali
fi deve operare, queste chi meglio di voi le potrà sapere, avendole con li
yostri propri occhi più volte osservate? e bastando ciò per bene medicare,
secondo la dottrina d'Ippocrate, sarete dunque , mediante la vostra buona
pratica, allora già divenuti Me(a) Hippocr. in lib. de loc. in
bom.nesa Medici; E fe poi desiderate sentire sopra ciò più chiaro parere
d'Ippocrate , legge. xe De decenti ornatu, dove così vi parla ; Sint cu in
memoria tibi morborum curatio. da harum modi, quo multipliciter, quomodò
in fingulis fe habent; bọc enim principium eft in Medicina , medium, &
finis = che sono appunto questi il costitutivo del. l'essenziale: Sia
all'oppofto tal'uno ornato di tut, te le scienze, nià che non abbia acquistato
ancora in Medicina una buona pratica , questi non si potrà dire con tutte le
sue scienze Medico pratico, perche non saprà ben mcdicare, e gl'accaderà per
l'appunto, ciò, che succederia ad un'insigne Geo. grafo se volesse viaggiare
senza la guida , queiti nelli bivj, ò trivj sbaglierebbe la strada , per non
averne la buona pratica , e con tutto , che possedeffe la situazione di tutto
il mondo, in un piccolo tratto di paese si smarrirebbe; Mà tutto questo con
Pesempj più chiari ve lo farò costare, Tralasciando di riferirvi un lungo
Catalogo de' Medici , che hanno scritto in fola sola Medicina
pratica, e che fiorirno con gran lode, mentre vissero, senza effere ornaci
d'altre scienze, perche lo potre te, volendo, con li vostri proprj occhi
rincontrare , leggendo i loro libri ; Vi riferirò solamente alcuni casi
accaduti à Medici, ch'avevano appreffo di noi molta ftima', per essere
versatiliminella buona pratica di medicare, e si poteuano annoverare trà
quelli, di cui parla, Ippocrate nel libro De Arte : Viri hujus Aricis periti ,
re ipfi lubentiùs, quàm vero bis demonftrant ; li quali vennero al cimento con
Medici di maggior grido di loro nelle altre scienze, e ciò , che ne seguì
. Gio: Giacomo Baldini ne fù uno di questi , il quale efsendo folamente
un buon Pratico, e dotato d'isperimentată prudenza , era per li fuoi pingui
guadagni molto invidiato da alcuni di quelli, che li riconoscevano in molte scienze
superiori di gran lunga à lui, s'abbattè egli una volta in un consulto con due
Medici delli più celebri nella facondia, 1 B с рiй e
più versati in molte altre scienze,e per tal cagione poco conto facevano di
lui; Ora questi avevano già premeditati li loro discorsi molto eruditi, à fine,
che meglio comparisse à tutta una nobile Udienza , che vi dovea intervenire, la
poca sufficienza, & infelice modo di di(correre del Baldini, furono sì
lunghi li sudetti eruditiffimi ragionamenti, e s'ina oltrarono tanto in cose
fuori del propofito, che in vece di dilettare annojarono tutta l'Udienza, &
avvedutofi di ciò il buon Pratico, in vece di gareggiare con loro
nell'eloquenza , fece un breve di. scorso, mà tutto indirizzato all'urgente
bisogno, conobbe meglio degl'altri il male, lo confermò con l'autorità puntuale
d'Ippocrate, fece il suo pronostico mortale, che si verificò in breve, venne
alla cura , propose alcuni rimedj, e terminò il consulto con applauso
uniuersale di tutta quella nobile Udienza , diccndo : : mo, che ha
discorso à proposito, e se ne partì tutto contento, e consolato.
Gio [ocr errors][merged small] 1 1 Giovanni Tiracorda già in
questo Archiospedale degnissimo Decano, che nella pratica Medica aveva quei bei
lumi, che felicirano le cure ardue , si abbattè in un consulto con un Medico
catedratico eruditissimo nelle lingue , c Greca in ispecie, nelle Matematiche,
ed ancora nella Teologia ; L'Infermo era Oltramontano y poco prima giunto in
Roma , che li ainmalaffe, ed in tempo di aria sospetta, il' di cui male fù
creduto dal sudetto eruditiffimo Professore eflere una febbre etica , e con
tali, erante ragioni s'ingegnava di provarlo in ispezie per il pollo basso che
aveá, che fariano per certo bastate à formarne liga gran ležzione in cattedra.
In tanto il buon Pratico Tiracorda penaya in fentire ciò, che conosceva non
potersi in modo alcuno verificare, e dovendo egli concludere , con breve
discorso fece capire essere il male del povero foratieri) una febbre maligna,e
di pelimo costume, che se presto,e validamente non era foc corso farebbe morto,
disse ciò, che con veniva B2 [ocr errors] veniva farsi con
sollecitudine, e l'esito funesto, in breve seguito , ne fù il Giu-
dice, chi di loro avesse meglio conosciu- to il male, Riferirò
per terzo ciò, che seguì ad Antonio Piacenti mio Maestro, la di cui
perizia nel ben medicare è nota , per via vere ancora molti, che furono da effo
ne’loro gravi mali bene assistiti, onde per essere io interessato , non
m'inoltrcrò di vantaggio in lodarlo, e lascierò, che facciano altri quella
giustizia , che le sue gloriose ceneri meritano. Questi ebbe occasione più
volte di trovarsi alsieme co' Professori di molto grido, per le varie scienze,
che possedevano, e vedevo, che il suo configlio, ò era feguitato, ò volendosi
fare diversamente per lo più si sbagliava; Accadde una volta nella cura
di un'Infermo, che pativa di un male graue di testa, creduto da esso procedere
da pienezza d'umori viziofi, che nel basso ventre dimoravano, c per ciò
gl’aveva proposto il dejettorio, che à ciò si oppose chi era versato più di
luiin altre scienze fuori della pratica medicinale, con il motivo, che
l'evacuazione glavria inolto pregiudicato. Stette egli faldo nella proposta già
fatta, quale fù esaminata da altri Profeffori, e conclusa: ed eseguita che fù,
l'efito moftrò d'onde procedeva il male, e chi l'aveva meglio accertato,
posciache mediante l'evacuazione ne rimnase libero. Due gran motivi si
poffono dedurre dalli riferiti casi, uno di confolazione per voi, che non avete
genio ; ò abilità all'acquisto di altre scienze, vedendo, che nella vostra
sfera pratica; abilitati che sarete , potrete ftare à fronte con quelli di più
letteratura di voi, purche abbiate prudenza , e giudizio in sapervi ben
regolare; e l'altro servirà d'avvertimento à voi d'ingegno più perspicaces che
desiderate apprendere tutto lo scibile, à non fidarvi folamente sù quello, ch'è
ornamento Medico, dovendo ancor voi poffedere Fondatamente, al pari degl'altri,
quella buona pratica Medica, ch'è la direttrice del ben curare, senza
[merged small][ocr errors] la quale sono inutili tutti gl'altri ornamenti:
Consolatevi però ancor voi, che bramate d'apprenderli : perche quando saranno
uniti alla buona pratica, vi ferviranno ancor'elli di scorta, e vi faranno
divenire eccellenti Medici, & in prova di ciò non vi mancano esempj di
cafile, guiti, che fanno conoscere quanto accrescano di chiarezza alle nostre
menti le Filosofie sperimentali, la Ģeometria, l'Aftronomia, & altre
scienze, che porfono avere correlazione con la Medici. na, mà per ora potrà
bastarvi l'oracolo d'Ippocrate allora, che scrivendo à Tel, Lalo gli notificò:
Geometria mentem acuit, e longè Splendidiorem reddit ; e nel libro de Aere,
Aquis, & locis ; Ad Artem Medicam Astronomiam ipfam non minimum, fed
plurimum poteft conferre ; Ben'è vero, che rari fono quelli, a'quali datum eft
adire Corintum , perche tutte queste cose averle , poffederle, e maneggiarle à
quel segno, che conviene, cnon più oltre non a ricerca minor prudenza di
quella, che aveva il Re Mitridate iu reggere un Coco [ocr errors]
Cocchio tirato da bravi , e numerosi de strieri, altrimenti andandosene tutte
in pampani , e fiori, che non legano, produrranno pochissimo frutto, quantuns
que fosse vaghiflima la loro prima ap. parenza. Sicché parmi d'avervi à
bastanza mostrato , che l'essenziale del Medico non consiste in altro, che
nella buona, e soda pratica acquistata mediante le re. iterate osservazioni di
ciò, che fiegua nelli progrefli de’mali, e quanto fiac. quisterà di più fia
tutto ornamento. E da questo si possono comprende reli gran vantaggi, che
necessariamente nel ben medicare, non solamente li Gio. uani Praticanti, &
Aliftenti ne riportano dalle continue offeruazioni , che fi fanno negli Spedali
ove sono numerosi gl'Infermi, mà ancora gli Profeffori primarj, che ivi
esercitano, potendo questi, mediante le reicerace osservazioni, che si fanno in
lunga serie di anni, acquistare molta perizia pratica , e franchezza ancora nel
medicare, conforme, che ogn'uno di esli ben se ne avvedeje lo confeffa. E
finalmente, acciocchè non resti quanto vi hò detto infructuofo,converrà, che
ora vi mostri come vi dovrete contenere nell'acquistare detta pratica tutti
assieme, e conformé, fi dovrà regolare ciascun di voi ; secondo la propria
capacità , in quello, ch'è ornamento, mà effendo questi più punti , che
meritano matura riflessione, bisognerà riportarli alla Giornata di domani,
venite però tutti, e voi precisamente, ch'avere più brio, e spici:o più vivace
deglalri preparati di sofferenza, perche sarà Giornata di attenzione, e
mortificazione infieme. [ocr errors][merged small] [blocks in formation]
Nella quale si fà vedere ciò, che dovre farsi da tutti unitamente per ben
confeguire una buona prática, e quello, che dovrà operare ciaschedino secondo la
propria capacità per uguagliarsi a' Comia pagni in quello , ch'è
ornamento. Mi : I dispiace nella Giornata
di jeri accennato, ch'oggi vi mortificherei , perche jacula prævisa minus
feriunt ; Mi persuado , che di già farete venuti preparati per sentire da me
rimproveri sopra li vostri poco lodevoli portamenti, da me più volte osservati,
mà abbiateci pazienza ò perche ciò G fa per voftro bene. Ditemi di grazia
à che fine venite in questo luogo pieno di miserie ? Frana camente mi
risponderete : A prendere la pratica di Medicina; e questa in che modo la
prendete yoi più disinvolti, & allegri , che mostrate d'esfere più
spiritofi degl'altri? Con paffeggiare per lo Spe. daledale, confabulando
trà di voi sopra le novelle di queito mondo? Questo non è il modo da prendere
pratica di Medicina, nella quale si richiede una fomma applicazione, mà più
tosto da divertirvi: Sappiate, che lo Spedale non è luogo da perderci
inutilmente il tempo in divertimenti, e svari, perche è ripieno di aria
infetta, chi non brama d'approfita tarsi non si curi dimorarvi , mà se ne vada
in aria migliore, e più amena di fta, che farà per lui più utile, e sicura , e
non mi faccia cestar bugiardo, poiche in cal guisa continuando, non folamente
daria à divedere che la Medicina sia Arte lunga , mà ancora, che non si possa
in conto alcuno acquistare, essendo questo tutto l'opposto di ciò, che da
principio vimostrai. 15 TMarcello disse, rimproverando li suoi foldati,
che non aveano fatto come e doveano, e poteano il loro uffizio: Mula ta
vidi Romanorum corpora, fed Romanum vidi neminem; e così ancora io potrò
direfin'ora di voi: Multa vidi discipulorum [ocr errors] corpora , fed
difcipulum vidi neminem ; Spero però, che conforme servirono di stimolo a' suoi
soldaţi le parole risentite di Marcello per fare, che superassero nel giorno
susseguente Annibale,cosi le mie moveranno ancora gl'animi vostri in ay. venire
ad operare con più attenzione, e fervore di prima scusandovi del passa
perche non sapevate ancora in che modo vi dovevate contenere ; Qual mutazione,
oltreche recherà à voi gran vantaggio , si perche più prestamente vi
sbrigherete, e con miglior ordine v’im. poffefferete della buona pratica
Medica, à cui devono indirizzarsi tutte le vostre operazioni , sarà ancora di
mia somma consolazione. Prima però di porvi à questo ftudio pratico farà
di mestiere, che possediate , oltre il buon costume, l'Istituzioni Me diche,
con le quali diverrete già iniziati à questo nuovo esercizio, essendo legge
d'Ippocrate di non doversi praticare altrimenti, ordinando egli (a) doppo
aver detto: (a) I* Hippocratis lige : detto: Institutionem à puero
fit moribus generofis , venendo alla Medicina pratica, Hæc verò cum facra fint
, facris hominibus demonftrantur, prophanis verò nefas priùsquàm foientiæ facris
initiati fuerint ; e facendo voi diversamente non potrete capire ciò, che vi si
presenterà d'offer= väbile, e s’aveste ancora appreso la cognizione de'mali ,
vi recheria quefta un sommo vantaggio, insegnando Ippocrates ( b ) che Qui
autem fignorum cognitio: nem habuerit is: folus ritè ad curationem aggredietur,
caso che nò procurerete , che sia questo il primo vostro studio, e lo farere ;
con discrivere in un libretto di memorie tutti li segni , che fanno venire in
cognizione di quel tal determinato male, con indicarvi quali sono li essenziali
; ex. gr. dell'Angina, dell' Epátiride &c. é quelli, che sono distintivi;
che fanno conoscere, se sia Colico, Ò Nefritico il male, se fia vera , ò falfa
gravidanza, e così proseguendo in tutti quei casi confimili, che hanno bisogno
di (b) la lib.de Media [ocr errors] [ocr errors] di qualche segno
proprio, che meglio li faccia comprendere , e tutto ciò è necessario à farsi,
perche attorno l’Infermo dalli segni si rinviene il suo niale , e questi sono
neceffarj d'averli à memoria, perche all'ora non si può ricorrere à leggerli
ne’libri, quando sareçe interrogati, che male quello sia ; Dovrete ancora
lasciare in detto libretto di memorie molto spazio di casta bianca in ciasche,
dun caso, doppo avervi descritti gl’accennati segni per notarvi ciò, che biso,
guerà in appresso, Acquistata , ch'avrete la cognizione de' mali più
frequenti, e che vagano in quella stagione, e questo in breve tempo lo potrete
fare , incomincierete ad osservare il modo, con il quale si curano , & in
quel medesimno libretto dove avrete descritti li segni , v.g. della Punfura ,
capitandovi d'osservare il detto male, verrete descrivendo la cura, e
mutazioni, che di giorno in giorno eslo anderà facendo, tanto in meglio, che in
peggio, con tutto ciò , che offerverece di riguardevole, mà succintamente
con qualche contrasegno indicativo,per non fare scrittura voluminosa. Di
dette cure da offervarsi contentatevi di prenderne poche da principio, e le più
facili , per poterle esattamente confiderare, e capire bene, quali in progresso
di tempo l'anderete moltiplicando, e scegliendo secondo vedrete meglio poterle
possedere , e comprendere; Avvertite però non caricarvenc troppo, nè di
tralasciarle, se non ne avete veduto l'evento felice, ò funesto , quale
noterere per meglio impoffeffarvi nelli pronoftici da farsi in casi consimili,
nelle congiunture, che vi si presenteranno . E tutto questo è coerente al
consiglio d'Ippocrate dato nella sua legge, ove dice : Ad bec longi temporis
induftriam accedere neceffe eft, quod disciplina veluti gravidata
felicitèr , & benè crescendo maturus fructus efferat. Lo studio, che
dovrete fare in casa sarà di leggere solamente dui, ò trèlibri pratici
de’migliori , che potreteavere si antichi, che moderni scelti dal Direttore
vostro Macítro, & in quelli procurerete rincontrare se ciò, ch'avete
osservato si uniformi alli loro sentimenti, e noterete, in che cosa consista il
di- . yario, per domandarne sopra ciò la cagione à chi sarà vostro Direttore
nella pratica, ò almeno alli Medici Affiftenti di detto Archiospedale, che sono
già pratici, de' quali ancora vi dovrete prevalere in molte occorrenze,
potendoli avere più pronti, e nel luogo istesso dove vi esercitate, Mà
perche le conferenze accrefcono fervore, e facilitano insieme li progressi, per
cagione dell’utile emulazione, e di sentire da? Compagni qualche cosa di più,
che talvolta non fi sapeva ; Quindi è, che almeno una volta la settimana vi
dovrete congregare tutti insieme per conferire ciò, che ogn'uno avrà acquistato
di più nel suo esercizio pratico, & à questa conferenza potria avere
qualche sopraintendenza il Medico Af fiftente di guardia, che deve
necessaria. mente [ocr errors] mente essere nello Spedale
permanente ; E quando sarete disposti à tal’utile esercizio non avrete da affaticarvi
in cercare luogo à propofito, conforme era neceffario prima, perche voi, che di
presente ftudiate avete avuta la sorte propizia, mediante l'animo generofo , e
magnitico di Monsig. Illuftriffimo Gio: Maria Lang cifi, cho con tanti suoi
incominodi, c con si considerabile spesa, à publico bene, hà stabilito sì
grandiosa, e nobile Libraria , ed in questo medesimo luogo, dove vi esercitate,
potrete ivi radunarvi, e fare con tutti li vostri commodi l'utilissime
conferenze , con quel di più, che ne potrete ricavare da'vn'abbon, dantislima
scelta di libri , che vi si custodiscono d'ogni scienza, & in particolare,
assai più numerofi d'ogn'altra in Medicina. Qual commodo fe l'aveflimu avuto
noi, che ora fiamo avanzati negl'anni, in nostra gioventù, quanto mai ci faria
stato grato; poiche per fare conferenze allora, bisognava andare in luoghi
privati à dare incommodo, e pure si face vano vano con
fervore conforme seguì int cafa del Dottor Girolamo Brafavola, dove ogni
Lunedì si teneva congreffo publico, e si leggevano un difcorso con due problemi
Medici, oltre le conferenze, che si facevano fopra altre materie, concernenti
la Medicina, è detto.congreffo continuò con fervore per molti anni , e con
profitto di chi lo frequentava. Talmente che tutta vostra la colpa fària se voi
ora che avețe derta commodità la trascuraste', non potendosi ciò attribuire ad
altro, e con vostra somma vergogna, che al poco desiderio, che aveste di
approfittarvi. Vi riuscirà più commodo di fare alcune diligenze intorno
alli Malati, che vi fiere scelti da offervare , prima della visita del Medico
Principale, che consor feranno d'interrogarli, con descrivere ciò, che vi
troverete di novità per essere sbrigati , e pronti nel tempo della visita,
nella quale sentirete voi ancora il polso à tutti gl’Infermi del Quartiere per
impoffeffarvi delle differenze di esia C e ciò e ciò farete
con qualche attenzione particolare, per meglio comprendere ciò che nel giorno
vi scorgerete differente dalla mattina , e nelle visite susseguenti, ciò, che
di divario dalle antecedenti, ed in ispecie se più , ò meno celeri, se più, ò
meno eguali , se più , ò meno duri, se più alti , ò più basli , e molte altre
differenze, che avete gia letre nel trattato de' Polfi, ed occorrendovi sopra
di ciò alcuna difficoltà , non abbiare timore di spiegarvi, e di dirlo à chi vi
sopraintende , perche da tutti con somma cortesia vi sarà spianata; Starete
attenti quando s'interrogano li Malati nuovi per rinve- ; nirne l'idea del
male, & offerverete il modo , che si tiene con quelle persone idiote, che
non sanno rispondere à ciò, che si domanda loro , & apprenderete la gran
pazienza, che bisogna averci, per potervene servire ancora voi abbattendovi in
Gimili Infermi idioti. Vi porrete à mcmoria quell'idea, che dal Medico
Principale farà stabilita à quel male, e pet non dimenticarvene la noterere
in un libretto conforme vien praticato da. gl’Afiftenti, con notarvi
insieme il no me dell'Infermo, e numero del letto, invigilerete in sentire , e
capir bene cutte le ordinazioni, che si faranno, con rincontrarne ancora li
suoi effetti, non trascurerete di sentire ciò, che si dice del pronostico del
male, e d'ogn'altra cosa concernente tal'infermità, ed in ispecie in quelli,
che vi siete scelti per osservare, e facendo yoi ciò, che vi hò decco , vi
assicuro , che quell'Arte, che Ippocrate chiamò lunga, la farete divenire più
breve di quello, che vi credevate, potendo yoi in tal guisa con facilità non
solamente apprendere il modo più sicuro di medicare , mà ancora la franchezza
del ben pronosticare, conforme insegna Ippocrate : (0) Eventa igitur per
experientiam cognita prædicenda, id enim gloriam adfert , c cognitu ejt.
facile. *Terminata , che farà la detta visita seguirete il Medico , che
vi conduce inpratica per osservare le visite, che sono per la Città, nelle
quali procurerete di fare le vostre osservazioni nel miglior modo , che vi sarà
permesso. Con il sudetto vostro Direttore, e Maestro conferirete tutte le
difficoltà, che vi occorrono, con animo però decerminato d'apprenderne li loro
documenti, essendo questi li semi di quanto di buono in voi germoglierà à
suo tempoo conforme disse Ippocrate nella sua legge : Doctorum præcepta feminum
rationem habent, non già di contradire con pertinacia à quello, che verrà da
esso detto, e risoluto, ed imiterete in ciò le Api, che succhiano il mele da'
fiori, è non già le Vespi, che pungono con li loro aculei colui, à cui si
approssimano. Credetemi, che la modestia, e li buoni costumi, l'attenzione, e
la docilità ne? giovani formano la base stabile di tutti li loro avanzamenti,
dove, che il mal costume, la pertinacia , la garrulità , e la petulanza affatto
l'atterrano, elanniçhilano. Nelli [ocr errors] [ocr errors] Nelli
tempi poi, che saranno prof fimi alle offervazioni anatomiche comincierete ad
alleggerirvi dalle occupa. zioni Mediche, per attendere con più fervore alla
Notomia, e procurerete in quelle vicinanze di trovare un'Indice delle
oftenfioni, che fi faranno , per istudiare preventivamente ciò, che pu- .
blicamente si dimostrerà, ed in oltre vi troverete presenti à tutte le
preparazioni delle parti, che si faranno in privato, non solo per meglio capire
, & impofseffarvi di quello , ch'avete letto, mà ancora per mostrarvene già
pienamente istrutti quando le vedrete publicamente dimostrare i Non
trascurerete , essendovi occafioni d'aperture de cadaveri, di trovarvi presenti
à quelle, e tanto maggior mente se avrete osservato li mali di quei poveri
defonti, e se non l'avrete visitati, procurerete informarvi delle loro infermità
, perche mediante tali ispezioni verrete meglio in cognizione del luogo
affetto, e di qualche cagione ancora di detto C 3 detto male,
e noterete in succinto nel vostro libretto ciò, che si farà rinvenuto in quelle
di considerabile , acciocchè vi resti memoria per prey aleryene à suo tempo. Ed
affinche meglio le possiate ritrovare , riporterete in un repertorio per ordine
alfabetico ciò , che offeryato avrete, tanto nelle cure de inali, esiti
de’madesimi, che aperture de' cadaveri, senza lasciare nè pure un giorno di non
notarvi qualche cosa offervata, e questo l'andrete bene spesso rileggendo, à
fine non vi scordiate di ciò, che una volta apprendeste. Quando si
faranno l'ostensioni bota taniche non occorrerà, che trascuriate l'altre vostre
applicazioni mediche,perche non richiedono queste quell'attenzione, ch'è
necessaria per la Notomia. E tanto più, che durano tutta una stagione, onde
basterà, che per tal'effetto Jeggiare qualche libro bottanico, e con
l'esercizio oculare ricontriate nell'Orto Medico le più usuali per meglio
conocerle , le quali per voi possono esse re [ocr errors] re
sufficienti con la notizia delle loro virtù.
Impiegato , ch'avrete il primo ane no, con fervore, in fare tutto ciò,
che fin'ora vi hò detto, ristrignerete poscia in una nota
tutti quei mali più essenziali à saperfi, che ancora non avevate
offer- vati, à fine , che capitandovi possiate in quelli continuare
li vostri studj, imitan. do quei Giardinieri, che vogliono
for mare un vago prato di fiori ; Questi colo tivano tutto quel
terreno, e con buona ordinanza vi dispongono li semi, à fine non vi
resti del sodo incolto, ove non nascono fiori , mà sol'erbe
campestri, e che li fiori, che nascono , non resting trà loro
confusi. Quando avrete già offervato ocularmente le cure de' mali
più riguardevoli, e frequenti, e quelle occorsevi di nuovo, l'avrete più volte
ancora rincontrate nelle cose essenziali, uniformi, e che possederete già la
Notomia, elsendo divenuti capaci di meglio discernere ciò, che fate, all'ora
converrà , che [ocr errors] vi applichiate à rinvenire le cagioni de?
mali , e non prima, perche essendo tante , e così diverse tra loro le cagioni
descritte dagli Autori in un medeliino male per la diversità di sì
numerosi sistemi, novamente inventati, che se Galeno à fuo tempo giudicò al
parere di Lacuna che : Judicis veri difficultatem liquido ostendunt tot,
tantæque variæ hæreses, quot in Arte Medicâ reperiuntur ; Che giudizio
accertato ne potreste formare voi ora , che sono cotanto più cresciute, prima d'essere
nella pratica bene istrutti? Oggidi li giovani sono così perspicaci, per non
dire arditi, che li raziocinj, che già udirono da’loro Maestri, quali come
buona femenza dovriano conservare, & aspettare, che con il tempo
crefceffero , conforme ordina Ippocrate nella sua legge: Tempus omnia hæc ad
plenam nutritionem confirmat, in vece di çoltivarli ora non li seguitano più,
& in vece di quelli se ne scegliono delli più vaghi, onde quando ciò abbia
da esfere è pur meglio, che l'apprendiate quandofiete divenuti più suficienti à
farlo, ed all'ora appunto, che sarete à pieno informati dell’idee de'mali,
delli loro sina tomi, del modo, che s’abbiano à curare, e dell'esito , che
possono avere, perche potrete allora con più sperimentato giudizio sceglervi
quel raziocinio intorno alle sudette cagioni morbose più adattabile degl'altri
al vostro bisogno: Sentite di grazia come al proposito ve lo infinua Ippocrate
: (d) Preclara enim res eft, quæ ex opere , quod quis didicit proficifcitur
oratio ; Écon maggior chiarezza in altro lạogo , (e) dove così parla : Ncque
priùs ad ratiocinationis perfuafionem quàm ad ufum cum ratione conjunctum
animum adhibere ; Ratiocinatio enim in eorum, quæ fenfu comprehenduntur
recordatione quadam confiftit ; ed in appreffo : Nullum ex his , quæ folâ ratione
concludun- , tur fructum percipere licet , verùm ex his , qua operis
demonstrationem habent, fallax enim, & ad errorem proclivis affeverario; Ed
operandosi da voi in questo modo, effendo già divenuti più abili, e capaci, da
un principio più accertato ricaverete un ražiocinio è certo , ò per lo meno
probabile, dove che facendosi diversamente con impoffeffarvi prima d'ogn'altra
cosa delli raziocinj in aria, e di bella comparsa, che possono con danno
notabile preoccupare le vostre menti, e quefti effendo Icelti da voi per mero
genio , fenza saperne il perche, vi faranno dedurre delle conseguenze, che vi
pareranno certe , ed evidenti, le quali in atto pratico le troverete diverse
das quelle ve l'eravate figurate; onde per acquistare pofcia la buona pratica
vi converrå deporli, conforme è convenus to farli da altrui, che se ne sono
ayveduri , per non continuare ne' loro pregiudizj, e sentite come à meraviglia
fi ritrovano costoro delcritti da Ippocrate: (f) Venuste enim cognitionis
intelligentia apud iftos sparsa ejš . Cum igitur hi ex neceffitate indocti
exiftant eos ad utilem *xercitationem cohortor . Mà veniamo all' esempio per
caminare con più chiarezza. S'idei il più bell'ingegno, che frà voi si trova,
che il tal male proceda da un' acido esaltato, è da un calore eccellivo, ne
dedurrà subitamente con la sua perspicacia , dunque và curato con gli alkalici,
ò con gl’attemperanti. Volesse Iddio, che ciò si verificaffe , non avreste per
certo bisogno d'affaticarvi tanto intorno l'Infermi per apprendere la vera
pratica , perche in questo modo diverreste presto Medici; Mà non è questo il
modo da caminare con licurezza, perche se quella cagione non è accertata farà
neceffariamente incerta ancora la conseguenza da quella dedotta , la quale potrà
talvolta produrre all'innocenti Infermi un nocabile danno, perche Gi tra{curerà
di far quello, che s’è osservato altre volte effer loro di giovamento per
andare in traccia à ciò,ch'è incerto, e so. lamente da noi ideato. Qual verità
udite con che chiarezza si ricava da Ippocrate:(8) Quidquid artėm artificiosè
di&tum ef(d) Hippide deciørd. (e) Id, in lib.de tracept 1
efem(f) In lib.pracept: eft, (8) Hippocr.de decobabitki [ocr
errors] eft , non autèm factum, viam, rationem artis expertem arguit.. Opinabile
fiquidem fine actione infcitiæ , nullius artis indicium eft ; Opinatio enim cum
præcipuè in Arte Medicâ, eâ quidèm utentibus crimini vertitur; His verò qui eâ
indigent exitium afferty fi namque fuis verbis perfuafi exiftim mant se
opus ex scientia profectum novisse, quemadmodùm aurum adulterinum igni
probatur,tales se ipfi etiàm produnt ; e ciò lo conferma ancora nella sua
legge, dicendo, che la sola opiņione ignorationem parit . Il modo dunque
praticabile più sicuro sarà di dedurre la cagione demali dalla già accertata
cura , osservata più volte profittevole, con que’lumi, che vi darà di più
la Notomia, e quando anche per questa strada non se ne rinvenisse la più certa,
non potrà nascerne quel pregiudizio già accennato , perche la cura anderà a suo
dovere, essendo fatta secondo le buone osservazioni pratiche; oltre di che
caminando voi con quest'ordine non vi regolerete con l'incertezza dell'opinioni
degl'uomini,ogni giorno variabili, mà bensi con la certezza delli giudizi di
Natura, sempre più accertati , come divinamente considerò Cicerone allorche
diffe : Hominum com. menta delet dies, naturæ judicia confirwsat. Quindi
è, che Pittagora non fenza cagione faceva tacere li suoi scolari sinche
aveffero compiti cinque anni di studio , perche voleva , che cominciassero à
parlare quando appunto capivano ciò, ch'elli dicevano , e veramente chi presto
parla non ha premeditato ciò, che dice, e chi non hà premeditato ciò, che dice,
parla à caso. Per conferma di quanto vi hò detto, ed à fine non prevarichiate
ora, che avere da me sentito dire qual potesse esfere il inodo facile sì, mà
non già sicuro, da prestamente liberarvi dall'intraprese fatiche, v'addurrò
altri sentimenti d'Ippocrate,da’quali non potrete discostarvi se vorrete essere
tenuti suoi veri seguaci, dice egli ( b :) parlando in termini difare progresso
nella Medicina : At vero in Medicina iampridem omnia fubfiftunt in eaque
principium , via inventa eft, per quam præclara multa longo temporis fpatio
sunt inventa, bu reliqua deinceps invenientur; Si quis probè comparatus fuerit,
ut ex inventorum cognitione ad ipforum investigationem feratur, Qui verò his
omnibus rejectis , ac repudiatis aliam inventionis viam ; aut modum
aggrediatur, to aliquid Je invenise jactitat, is cùm fallitur , tùm alios
fallit, neque enim iftud ullo pacto fieri poteft. Ippocrate dunque vuole, che
dalle cose accertate si passi all'investigazionc di esse,per meglio discernere
ciò, che in quelle non fosse ancora palese,mà non già, che dalle incerte si
pasli à fare al. cuna investigazione , dicendo chiaramente, che chi farà
diversamente ingannerà se stesso , e gl'altri, e tutto ciò vie. ne più
precisamente individuato redarguendo quelli, che dalle cagioni incerte ne
vogliono dedurre una certa cura, come si legge in appresso: At verò nunc ad cos
, qui novâ quadam ratione artem ex přo." propofita materiâ
investigant nostra revera tatur oratio fiquidem eft calidum, aut fria gidum,
aut ficcum, aut humidum , quod hominem lædit , & eum, qui rectè mederi
volet opporret calido per frigidum, frigido per calidum , ficco per bumidum,
& humido per ficcum opitulari . Exhibeatur mihi aliquis naturâ non admodùm
robuftâ , fed imbecilliore; qui triticum crudum, & inelaboratum edat ,
quale ex areà fuftulit, carnes crudas , & aquam bibat , ex qua victus
ratione non dubium eft quin multa , gravia fit perpeffurus. Nàm &
doloria bus conflict abitur, & imbecillo erit corpore, O ventriculus
corrumpetur, nequè vitam diù tollerare poterit . Quodnàm igitur ità affecto
præfidium comparandum Calidum nè , aut frigidum, an ficcum, an humidum?
Siquidem horum quodque fimplex eft. Namque fi quod lædit ab his ipfis eft
diversum contrario disolvere convenit , velut ipfifatentur - Eft enim
certifima, & evidentiffima medela , sublatis quibus utebatur cibis , pro
tritico panem exhibere , da pro crudis carnibus coctas, dj insupèr
vinum propi narly nare, neque fieri poteft , quin his commu: tatis
convalefcat ; e questa accertata cura come si è ritrovata , se non dal vedere,
che le sudette cose hanno altre volte conferito in simili casi? Seguitate
pure la strada calcata da' noftri maggiori, se non volere errare, per la quale
ebbe origine, e si è avanzata la vera Medicina, e questa è quella
dell'offervazioni, conforine chiaramente confessa Ippocrate.(i) dicendo : Neque
verò pigeat ex plebeis sciscitari fi quid ad curandi opportunitatem
conferre videatur , fic enim censeo artem univerfam coma moftratam fuiffe ,
quod fingula ex fine abi fervata, ad eadem aggregata fuerint. Animum igitur
adhibere oportet fortuit,e occafioni , qu& plerumque fe offert , quæque cum
utilitate, & lenitudine conjuncta eft, quàm cum sollicitatione, & forti
defenfione; e ricavate pure li vostri raziocinj dalle cagioni de' mali, dalle
cure à voi note, ed in quella conformità, che più vi appagano, che ottenuti in
questa guisa, se non fi) Hipp.praceptiones . [ocr errors][ocr
errors] non dimostrativi , faranno almeno inno- centi, non potendo recare
pregiudizio alcuno, e state fermi in tale proposito, per l'esempio
di più d'uno , conforme, che diceffimo, à cui è convenuto mutare li
raziocinj delle cure dapoi, che hanno osservato in pratica meglio
gl'andamenti de' mali, e non prima d'allora si sono accertati , che
l'opinione era assai diver- sa dalla verità, conforme nel suo sogno
ci fà conoscere Ippocrate, ( a ) non solo perche li comparvero assai
differenti trà di loro, mà perche la verità dimorava appresso
Democrito, che non s'inganna- va, e l'opinione trà l’Abderiti già
pre- giudicati, per la falla loro credenza, che Democrito
delirasse. Appreso, che voi avrete le cagioni ancora de'mali,
all'ora sarete arrivati à qualche perfezione maggiore , poten- do,
rotto già il silenzio Pittagorico, con fondamento parlare, e con
franchezza ancora medicare, resterà solo d'istruirvi in che modo si
dovrà contenere ciasche- duno (a) Hippo in epiß. Pbilope.2.
[ocr errors][merged small] D [ocr errors] duno di voi in ornare, secondo
la propria capacità ciò, ch'avrete acquistato tutti in commune. >
Parlerò prima con voi di mente fu. blime, e generofa, che vi pare un troppo
angusto campo la sola Medicina , onde per far conoscere a tutti la vostra
maggiore abilità, volete stendervi più oltre, ed all'acquisto d'altre
scienze,conforme nelle private conferenze apertamente diceste, ove tal’un di
voi mostrò genio grande d'apprendere le Mattematiche, altri l'Astrologia', e
chi per ornamento le Lingue straniere, & in ispecie la Grecaj e chi per
divertimento ancora l'erudizioni Istoriche i Mi dispiace d'aver sentito
dire, che trà voi yi fia chi lo faccia per genio grande, perche questo vorrei,
che tutto lo ponefte alla fola Medicina's qual dovrete profeffare, onde viva
pur sempre caurelato , e circospetto chi di voi hà fimit geniono che non
gli faccia perdere -Hamore à cid, ch'avrà dianzi acquistaso; perch'è solito,
che chi apprende congenio grande una cosa nuova, trascura
necessariamente ciò, che prima se non per genio , almeno per
impegno lo appagaya . Io per me non posso, nè devo op- pormi
à quanto deliderate, si perche è onefto , sì ancora perch'essendo
all'ora voi già divenuti Maestri vorrete fare à vostro modo ;
Vi dò solo questo conse- glio, che facciate regolare la vostra in
clinazione fempre dalla prudenza , e dal giudizio, e che non la lasciare
in tutta sua libertà, e facendo voi in questo mo- do non potrete
errare, perché le sudette virtù mai non permetteranno, che fi din
ftacchi dalla Medicina già appresa , nè che nel fare li nuovi acquisti
gli rubi quel tempo, già destinato per lei, e final mente faranno
in modo , che non l'ap- prendiate à quel segno di poterle pro-
feffare , mà per solo ornamento, e per poterne ancora voi
discorrere in quella parte , che possa servire alla Medicina.
Mà vediamo d'ajurare , e consolare insieme voi altri, che restereste
altrimena 1 [merged small][ocr errors][merged small] [ocr
errors][ocr errors] timesti, non solamente per la separazione, che faranno da
voi li vostri compagni, inà eziandio per la cagione di essa . In primo luogo
parliamo chiaro intorno a'vostri difetti , per dare à ciascheduno di essi il
suo rimedio , s'è possibile. Dilli s'è poffibile,perche se sarete affatto
inetti, & incapaci mutate mestiere, conforme hò fatto fare à qualcheduno di
simile inabilità, perche altrimenti vi affaticherete in darno fino , che
viverete , mà re, ò la vostra memoria apprende con qualche difficoltà ,
tenétela continuamente esercitata , che migliorerà, volendo Cicerone, (b) che :
Affiduus usus uni rei deditus, & ingenium, a artem fepè vincit ; ò il
vostro giudizio non è pronto , ajutatelo con l'attenzione, e vigilanza, date
tempo, che si farà, perche molte piante fioriscono prima, & altre sono più
tardive; ò il vostro discorso è alquanto infelice, e non siete pronti,
esercitatevi nclli discorsi publici , bene imparati à memoria, discorretela
continuamente con li vostri (b) Cicero pro Cornelio Balbo. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] vostri compagni più franchi di voi, fae
tevi animo, & abbiate forma fiducia , che il vostro timore cesserà.
Aspettate ora da me di sapere il modo, che dovre- te tenere per
adornare ancor voi l'ope- ra già fatta , à fine di non iscomparire
trà gl'altri vostri compagni, e con ragione. Già voi non vi curate
d'uscire dal- la Medicina , in questa dunque converrà trovare
l'ornamento, che sia adattato al vostro bisogno, e doppo fatta
matura rifeflione, non trovo miglior conseglio di quello, che fi
ricava da Prospero Marziano Medico di grand’ingenuità , all'ora ,
che ricercando la cagione, per- che li Medici antichi erano tanto
stima- ti, & onorati assai più di quelli, che vivevano à
suo tempo, egli fù di fenti- mento, che procedeffe ciò
per effer stati. glantichi versatillimi ne' pronostici, e non vi
sia discaro à sentire ciò, ch'egli diffe : () Cur prisci Medici tanti habiti
fint apud homines, ut non folùm primas in Ci. (c) Prosper Martian.
2.prediff. perf.23. e [ocr errors] D 3 Ciuitatibus, ac Regnis
tenerent , Regibus Principibusque imperarent , fed etiàm summus honos , Diisque
folis præstari folitus, Medicis tribueretur, admiranda enim circà agrotos ,
& præftitife, & prædixise eft. necessarium ; Sicut vice versâ mirum non
eft ifi nunc adeù vvilitèr tractentur, quando nèc in curando, nèc in prædicendo
quidquam spectabile pr&tent noftri, cum ea faciant tantummodò, a dicant ,
quæ ipfis idiotis sunt manifefia, & tamèn'artis pradantiam noftrorum
temporum continuò jaEtant imperiti , Medicinamque posteriores ditasse
profitentur , fed veniunt excufandi, eo quod antiqua thefauros adhùc non
percepere, quibus tota quidem Hippocratis do. Etrina plena eft; Verùm præfens
liber, [h.c. prædiétionum secundus ) adeò abundat, ur folus paupertatem, cu
miferiam artis noftrorum temporum indicare fufficiat, nam quis nostrum eft qui
centefimam partem eorum cognofcere poffit, qu& antiquiores Medicos
comunitèr prævidere confueviffe in hoc libro teftatur Hippocrates ; Sicchè voi
per fare spicco , & essere molto stimati nella [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] nella professione impoffeffatevi bene de!
pronostici d'Ippocrate , che uniti alla buona pratica acquistata , vedrete, che
vantaggi questi vi recheranno , & effendo stati ricavaci da molte
offervazioni uniformi, accadute in più secoli, non vi serviranno d'ornamento
inutile,mà bensi molto profittevolese necessario, e tanto maggiormente se
spoglierere ancora ciò, che v'è di migliore nell'Epidemj, ed in tutti gl'altri
divini libri d'Ippocrate , per mettervene à memoria più , che potrete , å
fine di serviryene secondo li i bisogni, che vi si presenteranno, e que
sto studio lo farete in quell'ore, nelle quali vi persuaderete, che li vostri
compagni le terranno impiegate all'acquisto d'altre scienzcacciocchè vi cresca
il fervore ad apprenderle con emulazione. Ornati, che sarete tutti nella
conformità, che s'è detto, ogn'uno di voi ne farà la bella comparsa ne
consulti, ed all'ora si conoscerà chi di voi avrà fatta i miglior
elezione del compagno, e si rina contrerà, che voi, ingegni, ch'eravatemeno
apprezzati degl'altri, per la voftra applicazione, e prudenza , certamente, che
non iscomparirete tra gl' altri di maggior talento di voi. Se il modo,
che vi hò proposto non farà buono, e profittevole trovatene altro
migliore,& acciocche lo possiate rinvenire più commodamente sia posto ogn'
un di voi in sua libertà di sceglierlo à fuo piacere. S'avete genio di studiare
prima della Medicina altre scienze, cosa ne feguirà facendosi, che non potendo
sapere ancora cosa vi possa bisognare vi converrà ftudiarle ex profeso, e se
l'avrete apprese con genio à quel fegno, che le pofliate profeffare, ciò, che
studierete in appreffo; con minor piacere , lo subordinerete alla prima, che di
già possedere. te, mà ne seguirà peggio ancora, che tutto farete meglio,
eccettuatone il Medico, conforme vi farò costare in appresso. Se il genio
vi porterà ad apprenderle insieme con la Medicina, che ne feguirà? Ciò appunto
, che accade à chi [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] in
un medesimo tempo getta in un camро semi diversi, e mescolati , e che ne
raccoglierà? Un frutto confuso, e quem sto ancora à voi potrà succedere, poiche
la bella ordinanza è quella, che facilita, e felicita le grand'imprese , dove
che la confusione le preverte , e le annichila. Inoltre s'avrete studiate
le Mattematiche, con gran genio , e studio profondo, e vorrete poi fare il
Medico niuna cosa di Medicina vi appagherà, cercherere in essa le dimostrazioni
evidenti, e non trovandole, che ne seguirà, se non sarete nella pratica ancora
versatiffimi? Che per temenza d'errare vi formerete un metodo di medicare à
vostro modo , con pochi rimedj, creduti da voi sicuri à non poter nuocere , e
semplici, come fono Occhi di granci, Stibio diaforetico, Sperma ceti, un poco
di Caffia , qualche ottava di Tartaro di Bologna, qualche Clistiero, qualche
bevuta d'ac. qua di Nocera , Oglio d'Amandole dolci, Sangue ircino preparato ,
Corno di Cervo filosofico, Giacinto bianco , e cofe [ocr
errors][merged small] cole simili, tutte sicure à non poter nuocere, & in
questa conformità vi regolerete tanto ne' piccioli, ne' gravi, che ne'
gravissimi mali. Questo è un modo sicuro, mà nell'infermità benigne, e
leggiere, non già in tutti i casi gravissimi, ne' quali è chiamato il Medico
per dare un pronto riparo, non già per complimento, per espugnarlo, ò almeno
per retundere la sua veemenza , e questo pretenderete di farlo con cose
innocenti? ch'è il medesimo, che dire con cose attività ? Queste dunque
adoprerete ne' bisogni inaggiori , ne' quali : Melius eft anceps experiri
remedium quàm nullum. Rimedi sicuri vi persuaderetç, che siano quelli, che non
possono fugare il male ? Questa sarà una licurezza inutile, mentre non rileva
il pericolo, sarà sicurezza, per chi assicura, non già per chi deve essere
assicurato , perche se in quefta borasca si sommerge la Nave,non è tenuto chi
assicurò al rifacimento del perduto, mentre che và tutto à danno
dell'aficurato. Un tal modo di operare lo di poca [ocr
errors] lo potrebbe ancora esercitare , chi non sapesse altro di Medicina ,
perche già ch'è sicuro non ci vorrà grand'arte per praticarlo, mentre l'arte
consiste in la. per conoscere ciò, che in un caso potrebbe nuocere, e
nell'altro giovare, e per questo effetto si chiama il Medico, onde essendo
gl'accennati rimedi sicuri, e non potendo nuocere à ch'effetto vi sarà bisogno
del Medico per darli? Oltre di che, per parlarvi ingenuamente, questo modo di
medicare è assai confimile à ciò, che fanno coloro , ch’imparano la scherma,
che per non offendere, nè effere offesi adoprano certe smarre senza taglio, ed
in vece di punta acuta hanno ivi un bottone di ferro foderato di pelle, ò
cottone , qual sorte d'arme sicura in tempo di pace, di ch'efficacia sarà
all?ora, che l'inimico ci affalisce con armi pungentiffime, lo potremo
offendere , à almeno difenderci da effo? Credo di nò con questa sorta d'armi
sicure, ci converrà per certo adoprare almeno armi eguali, e se saranno
superiori riusci. ranno [ocr errors] ranno migliori ; il fimile
appunto succederia quando il male grave alfalisse, se questo lo voleste
espugnare con l'accennati rimedi sicuri, combattereste seco con quell'armi
appunto senza taglio, e fenza punta, poco atte à fare validas difesa. E
non basterà in questi casi Parme sola , mà converrà saperla ben maneg. giare,
per fare que' colpi sicuri riservati a' soli Maestri dell'arte, quali come li
fapreste fare se mai non aveste maneggiate simili armi, volendovene talvolta
prevalere? Sò, che questa voce di medicamento sicuro, che non può
nuocere'è molto plausibile appresso alcuni, che la considerano
superficialmente, mà capita bene, è molto nociva , poiche nel bisogno più
urgente non è tempo di passarlela con cose di poca attività, richiedendo quello
ajuti maggiori , ò equivalenti alIneno ad esso, e tutto ciò, ch'è sicuro.
à non nuocere non basta per rimuovere ciò,che nuoce, onde se non
ammazzano direttamente possono almeno indirettamente nuocere, per la
cagione, che non sono sufficienti à rimuovere ciò, che puol’ammazzare.
Ippocrate,che conobbe tal verità assomigliò il Medico al Governatore della
Nave: questi appunto trovandosi in una borasca di mare cofa dovrà fare ? Deve
in primo luogo alleggerire la Nave, con gettar via ciò , che più l'aggrava,
acciocchè tando più galleggiante non venga ricoperta dall'onde; Voi già mi
capircte, onde non occorrerà mi spieghi di vantaggio, potendo considerare da
voi medefimi , che alleggerimento rechino a'corpi, che si ritrovano nella
tempesta del inale, eripieni di viziosi umori, si piccoli , e poco efficaci
medicamenti. Io non pretendo già porvi in difcredito li dettirimedj,
perche in qualche caso possono essere profittevoli : Per esempio ne' veleni
corrosivil'oleofi, ed in qualche altro caso ancora grave sono utilissime le
copiose beure d'acqua, e cose simili, mà che siano sufficienti questi
per per curare tutti li mali, dicovi apertamente di nò , perche in molti
mali gravi convengono altri rimedi più efficaci, conforme ordinò Ippocrate :
(d) V alentibus verò morbis, valentin natura medicamenta exbibeantur ; &
altrove : Extre. mis morbis extrema remedia optima funt. Anzi, che se si
tralasceranno da voi li più efficaci in quei casi, che competono per
sostituirvi questi più leggieridico, che peccherete d'omissione gravemente,
potendone nascere pregiudizj gravi alli vostri Inferini in trascurar ciò, che
li compete,per dar loro ciò, che non può recare profitto equivalente al
bifogno. E quando il solo differire un rimedio possa recare del danno, come
bene avvertì il divino Ippocrate : (e). Cum enim ab omni ante aliena fit
procrastinatio, tùm verò maximè in Medicina , in qua di. latio vitæ periculum
affert ; quanto maggiore lo recherà l'omiffione , essendo difetto più conliderabile
della dilazione Ne (d) Hipp de loc. in hom. (e)ld.in epift.ad Crat.
Nè per cimore d'essere tacciati di omiffione dovrete fare d'avantaggio di
quello , che fiete tenuti di fare, perche all'ora incorrereste in un'altro
errore , non inferiore al primo, mà come vidovrete in ciò regolare ve l'insegna
Ippocrate nel primo Aforismo in tal guisa: Seipfum præftare oportet opportuna,
& quit decent facientem. Se divenuti Profeffori d'Astrologia farete
ancora il Medico , non vi capiterà Infermo, che non vorrete alzargli las figura
del decubito, non gli darete ri. medj se non che a' buoni aspetti de' Pianeti,
e fuggendo li cattivi,cosa ne seguirà? Che perdendosi l'occasione pronta
d'operare, l'Infermo se n'andrà all'altro mondo à riconoscere più da vicino li suoi
malefici Pianeri, stanteche Occasio præceps, à quella bisogna , che
indirizziate tutta la vostra attenzione, oltre di che vi servirete d'una
scienza più incerta della Medicina per accertare ciò, che in essa crederete
fallace. E se ornati di tutte l'erudizioni Istoriche vorrete esercitare ancora
las Medicina per far pompa in quello, che meglio saprete , & è di vostro
genio, comincierete à discorrere con li vostri Infermi,ò con altri, che ivi si
troveranno presenti ab Urbe conditâ fino al tempo dell'Impero Romano, e con
vostro sommo piacere , il meno poi , che farete sarà di pensare all'Infermo ,
che avete avanti gl’occhi, à cui dovete dare ajuto. Iddio guardi, che
tal’uno di voi , ch'avefse più spirito, che prudenza, s'annojasse di far ciò, che
ho detto intorno l'osservazioni Mediche, e si volesse porre à fare il
Medico senz'avere acquistato un buon metodo di medicare, affidato solo in una
gran scelta di belle, ed efficaci ricette, questi sarebbe simile à colui, che
custodisce delle bellissime armi, mà non le så maneggiare, ed in conseguenza
caderia in uno delli maggiori errori, che si possino mai commettere nella
Medicina , cioè di divenire un gran Ricettante, e de' più validi, e
pronti ri مرور rimedi si Chimici, che Galenici, che avemo, e
non sapendo il modo d'adopee rarli l'applicheria à casa, con tutto, che fi
fosse ideato d'imitare un Capitano, che per conseguire la vittoria fi serve di
valorosi soldati, e questo modo d'ope, rare quanto possa riuscire dannoso, lo
lascerò considerare à voi, per quando farete divenuti già provetti ; solo
riflettete ora, che quel Capitano, che non sa comandare li suoi valorosi
soldati, in ve. ce di vittorie riceverà bene spesso delle sconfitte, e quel
troppo ardire indica ignoranza, come afferi Ippocrate: (a) Audacia verò, artis
ignorationem arguit : E in altro luogo :(b) At quod temerè fit nullo modo
fubfiftere videtur, sed nomen tantùm inane efle . Non riuscendo dunque
tanti altri modi ricercati da voi sarà neceilario,che seguitiate quello, che
v'è stato da me proposto, con il quale farete sicuri di abilitárvi à poter
divenire veri Medici E )quan(a) Hippocr. de lege. (b) Idem in lib.
de Arte,pro ftri fore inp Ver ner te, fo fe quantunque
fiatc trà voi d'abilità difu. guali, & in particolare per quel profittevole
uso, che potrete ricavare dalle diligenti, creiterate offervazioni fatte
intorno l'Infermi, non potendosi questo apprendere in altro modo , conforme
giudicò Ippocrate : (a) Usus namque, qui in fapientia , tùm in arte ei adjuncta
, doceri nequit ; e questo di quanta efficacia fia, sentitelada Cicerone: (b)
Aljungant ufum frequentem, qui umnium Magiftrorum precepta fuperaf. Mà
non vorrei, che tornaste ora à contriftaryi, voi, che fiete di natura
malinconici, parendovi forse troppo, quanto v’hò proposto per neceffario in
acquistare la buona pratica , perche se vorrete diyentare veri Medici, ed
eflere compresi nel minor numero di quelli, di cui parlò Ippocrate nella sua
legge così: Medici nomine quidèm multi, re ipfa perpauci , sarà necessario, che
facciate dal canto voftro ogni posibile, & à fine pro(c) Hipp.de
decenti ornatu . (d) Cicero 1.de Oratore . [ocr errors] proseguiare con
maggior fervore li vostri studj, vi mostrerò in domani quella fortuna propizia,
che vi potrà toccare in premio delle vostre virtuose fatiche. Venga pure chi di
voi la desidera ottenere, che gli farò conoscere quella forte, ch'è sempre
favorevole, non essendo soggetta à vicende, à fine, che di efla se ne
innamori. 1 [ocr errors][merged small][merged small] GIORNATA III.
Nella quale si mostra la fortuna , che deve defiderare, e procurare il
vero Medico , e la via più figura per ottenerla, A D un
gran cimento oggi m'espon in volervi mostrare la vostra buona fortuna,
posciache desiderandovela propizia, durevole, e senz'effere soggetta á vicende,
qual potrà essere mai questa fortuna sì prospera Quando nè le grandezze, nè gli
onori, nè le ricchezze, né le delizie, e piaceri,cose cotanto bramatç nel
mondo, la possono in cale stato costituire ? Appena è arrivato l'uomo alle
grandezze, od onori sommi, che questi cominciaio da bel principio à
contriftarlo, alle ricchezze, che l'infaftidiscono, alle delizie, e piaceri,
che questi ancora non gli rechino goja, e confiderabile danno: in somma si
scorge chiaraméte,che Nemo fua forte contentus. [ocr errors][ocr errors]
In conferma di ciò riferisce Ippon crare nella lettera scritta à Damageto , che
Multi fene&tutem exoptant, cumque cò pervenerint gemunt, nulloqae in fatu
firmâ mente perfiftunt . Principes, ac Reges privatum beatum prædicant ,
privatus Re. gium Imperium affe&tat , qui rem publicam regit, artificem
tamquàm periculi expertem laudat , artifex verò illum velut in omnia potentiam
exercentem. E pur questi quan to mai avranno desiderato fimili fortu. ne,
quanto vi ayranno faticato peč conseguirle, & ottenute , che l'ebbero,
punto ne rimasero contenti; Ela cagione di ciò fù, che questi andavano in
traccia della bell'apparenza della fortu. na fallace, non glà della di lei
sostanza ftabile , e quello, ch'è peggiore , la cer. cavano ancora fuor di
strada, conforme nella sudetta lettera fi legge: Rettam enim virtutis viam
puram , minimèque af peram, ac inoffenfam non cernunt ; Questa via dunque
bisognerà , che ancora vi mostri, acciocchè pofliate tutti ottenere il yoitro
intento, ed io uscire dal mio. E 3 cie [merged small][ocr
errors] [ocr errors] cimento con reputazione ; state attenti per non
isbagliarla, perche si tratta di fare acquisto di una fortuna stabile,eterna, e
non soggetta á vicende. Che il Medico debba essere foriu. nato non vi
cade ombra di difficoltà ; mentre , che se fosse diversamente, chi mai fi
vorria prevalere dell'opera di coPii, al quale la forte foffe contraria ,
Paveffe affatto abbandonato, e che non gli piovessero addosso da per tutto, che
infortunj, e miserie, da ogn’uno sarebbe certamente sehernito, e per necessità
gli converria mutar mestiere, sicchè è incontrovertibile, che Oportet Medicum
fe forfanatum Mà qual fia questa fortuna, che strada dobbiate tenere in
cercarla, e ciò, che dovrete fare per confeguirla , procurerò ora mostrarvi con
la buona fcorta d'Ippocrate, à fine non possiate sbagliare. Due sorti di
fortune fi ritrovano descritte da Ippocrate, (e) una delle quali (c) 110
lib.de loc:in hom. 1quali è quella, ch'è fuori di noi, & ope* ra
independentemente da noi, e l'altra, ch'è sempre con noi , & opera conforme
noi vogliaino . Quella, ch'è fuor di noi così apa punto egli la descrive
: Sui enim juris eft, Fortuna , nulli imperio paret , neque ad cujusquam votum
fequitur; qudla poi, ch'è sempre con noi l'accenna con dire : Mihi enim foli bi
fortunatè afequi , idemque infortunatè non assequi videntur , qui recte quid ei
malè facere fciunt , e dependendo il bene, ò male operare da noi, la for tuna
dunque, che da ciò resulta, da noi dependerà, e sarà questa per sempre
inseparabile da noi medesimi. La fortuna dunque, ch'è fuori di noi è
quella, ch'è affatto cieca , e non considera il merito di chi benefica, ma dà à
chi più le aggrada di vantaggio ancora di quello, che il beneficato da ella
sappia mai desiderare : Talvolta ad un Contadino avvezzo å zappare la terra, fà
discoprire un tesoro; capace à farlo divenire molto ricco, con tutto, che
le sue 1 E 4 fue brame fossero di pochi soldi; Ad un?
altro ancora più miserabile farà conseguire una grazia nel giuoco, che lo
toglierà per sempre dalle sue miserie, e tutto ciò proviene-, perche vuol fare
à suo modo, giacchè Sui juris eft, nulli imperio paret L'altra poi; che
risiede in noi, è quella, che secondo, che la trattiamo ella ci corrisponderà,
se la vorremo propizia , se variabile, fe peffima, propizia, variabile ; e
pelima ancora l'otterremo, conforme da ciò, che Ippocrate c'insegnò li puol
dedurres & ancora dall'esperienza di coloro , qui rectè quid, vel malè
facere fciunt, giornalmente vediamo. Certamente, che la prima fortuna non
è quella, che deve essere desideratiz, e procurata da voi, che non dovete
zappare la terra , nè tampoco dilettarvi del giuoco, ed anco maggiormente ,
ch'effendo cieca, forda, e per non dispensare à dovere le sue grazie ingrata
ancora , questa non deve effere defiderata da voi, che dovete conseguire il
premio per giu Aizia, stizia , ed à quel segno, che vi si deve
; Oltre di che la sua sola istabilità bafte, rebbe per farvela
odiare, dovendo voi defideíare una forte stabile, e permanen-
te; per non provarne le di lei vicende, Esclusa dunque la prima
forte, neceffa- riamente dovrete contentarvi della se conda;
e tanto maggiormente, che la potrete regolare à vostro piacere.
In trè modi dunque potrete fabri- carvi
la vostra fortuna, ò buona , ò va- riabile , ò peffima , se la vorrete
buona , dovrete operar bene, conforme v'inse gnò Ippocrate
nel detto libro in tal gui- la : Fortunatè enim affequi eft rectè
facere, hoc enim, qui fciunt faciunt , ed allora cià
otterrete , quando scaccierete affatto da voi li vizj, e
farete in modo, ch'ella sem pre ammiri le vostre virtù, e si ponga
in soggezione, quando anche non voleffe, di operare
a'vostri vantaggi. Se poi la bramerete variabile, fatela
conversare con le vostre virtù, e con li vostri vizj,
che imparerà dal diverso modo d'opera re, che li pratica trà
esli ad effere variag bile [ocr errors] 2 1
; bile ancor essa. Qual modo l'indicd ancora con dire : (f) Ego verò fi
omnibus modis ditefcere voluiffem ; cioè se per via di virtù, e de vizj
avesse voluto fare fortuna , non ad vos decem talentorum gratid, fed ad magnum
Perfarum Regem proficiscerer ; con che fece conofcere ancora l'incostanza di
detta fortuna, rimirandosi ella ben {peffo istabile, sì in quei fervigj, che
dependendo dalla volontà di molti con la sola virtù non s'acquistano, come bene
speiso l'esperimentano i Medici condotti; che nelle Corti, ove trà molti altri
la provorno tale Seiano e Bellisario.Se poi vorrete farla divenite pellima,
consegnatela in potere de' vostri vizj, che apprenderà da questi i loro pessimi
costumi , e perima certamente diverrà, ed udite con quantas chiarezza ve lo
dice egli nel libro sopracitato : Qui enim non reftè quid facis, non
fortunate afēqui poterit? quum reliqua , que æquum eft facere non faciat.
Talmente, che la vostra buona fortuna, the voi do! (f) In
epif.Abderir. Hippo dovete procurare è quella che proviene dalle vostre
buone, e virtuose opere, c questa l'avrete propizia, e ftabile fino, che
vorrete , effcndo subordinata al vostro sapere, e volere, giacchè al parere
d'Ippocrate nel luogo sopracitato, effa fi può felicemente conseguire, da chi
sda e vuole: Et facile eft ipfam felicitèr alle. qui, fi quis fciens uti
velint, d'onde faa cilmente n'è nato quel detto: Virtute dua cey comite
fortuna. Non basterà però d'avervi ciò brem vemente accennato, per
potervi cons sicurezza determinare il modo , che dov vrete tenere in procurare
questa buona, e tanto desiderabile fortuna, perche ciò, che vi hò detto fin'ora
, non è sufficiente à farvi capire in che maniera vi dovrete contenere ,
allora, che sarete Eper porvi in viaggio per cercarla, e ciò, che dovrete
fare nel progresso di quello , 6 quanto di felice ne potrete riportare dalla
vostra lunga, ò breve navigazione, onde sarà necessario, che per meglio
esaminare li sopr’accennati punti, che cifiguriamo d'essere già presenti al
porta dell'imbarco , e che nel fare detto viaggio mi serva della seguente
ideata maniera per iinitare ancora in ciò Ippocrate, che dovendo andare a
trovare la sua fortuna in Abdera, conforme udirete in appreffo, ancor egli vi
si porcò per mare, ed in una nave non presa à caso, mà scelta da lui con molta
cautela,come si legge nella lettera prima scritta à Damageto, che comincia :
Cum apud te Rbodi ejem Damagete, navem illam vidi , cui Solis infcriptio inerat
, quæ mihi perpulbhra , puppi probè, idoneâ carinâ inAructa , muliaque transtra
habere vifa eft, tu verò eam comendabas c. cam ad nos mitrito @c. E tutto ciò,
non senza gran mistero, mentre circospetto, e con il buffolo da navigare avanti
gl’occhi deve viaggiare chi cerca la fortuna, e deve per tale effetto
scegliersi un bastimento sicuro. Questo Porto è appunto il luogo , da
dove s'intraprende, il camino verso il Tempio della felicità, ove dovrete
por. ancora tarvi 1 tarvi, per conseguire la buona
forte a. e queste trè navi sono già qui allestite per ogn’uno di voi, che
voglia fare il sudetto viaggio , converrà , che à vostro piacere ve ne
scegliate una di esse, mà prima , che facciate tal'elezione , nella quale
facilmente potreste ingannarvi, fentite da me un breve ragguaglio di tali
bastimenti, del loro modo di viaggiare, de pericoli, che s'incontrano, e dell'
esito, che si hà della navigazione in ciascheduno di efli. Mirate colà à
finiftra, quella si chiama la nave del Sole, ivi la Prudenza regge il timane,
la Giustizia invigila al buffolo , la Fortezza regola l'antenne ela Temperanza
sopr'intende al tutto: ivi non risiedono altro, che virtù,e tutte attente alli
loro assegnati ministerj. Per entrare in questa si ricercano due requiz fiti, e
sono i Attestato di abilità, e provę di buoni costumi , altrimenti chi n'è
privo, non vi fi può imbarcare. L'altro bastimento, che stà alla deftra ,
li chiama la nave di Giano, questa hà [ocr errors][ocr errors] hà
parimente buoni Piloti, che sono le accennate virtù, che regolano la nave del
Sole, mà vi è solamente di male, che vi si trovano alcuni vizj, e tra questi vi
è il proprio interesse, la Politica,la Menzogna, l'Adulazione, il Secondo fine,
vestiti tutti di Zelo, ela Malizia, che s'infinge tutta umile, in somma vi sono
con le virtù mescolati li vizj, che per dimorare insieme con esse conviene loro
di stare molto circospetti, e tramutati in altri sembianti, e per entrare in
detto bastimento, non si ricerca altro attestato, che dell'abilità. Il
terzo poi, situato nel mezzo, che fà sì bella comparsa, si chiama la nave
felice : ivi al timone presiede la Malizia, al bussolo sopr’intende l’Inganno ,
lw vele si maneggiano dall'Astuzia, la Maledicenza,e l'Impostura consultano
continuamente trà esse cose gravi, la Lussuria , la Gola, con tutti li vizj
consimili festeggiano , ciripudiano tra loro, ed allettano chiunque vedono- ivi
approfsimarsi ad entrare nella loro nave, dicen do [ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors] do à tutti: Per entrare quì trà noi non si
ricercano tanti requisiti; qui non serye abilità, li buoni costumi non
s'apprezzano, basta, che abbiate genio à gustare de’noftri piaceri, che subitamente
vi ammetreremo, e condurremo in un trata to al porto della felicità. Vado
vedendo, che tal'uno di voi è portato dal proprio genio di eleggerli questa
nave, che ha il nome felice, con tutta l'apparenza di prosperità, senza pensare
più oltre, conforme:(8) Magna pars hominum eft, que navigatura de teme peftate
non cogitat. Mà riflettete bene à ciò, che fate, poiche non bisogna tosto
fidarsi di quel bel nome, e di quella prima vaga comparsa, conviene ancora ri.
flettere al fine, che può avere una simile navigazione, che ora vi
spiegherò. Si ftaccherà questa nave dal porto con allegria, mà nel
viaggio incontrerà molti pericoli , perche non è regolata dalla Prudenza, e
quantunque la Malizia , e l'Inganno facciano quanto pollo [merged
small][merged small][ocr errors] no, (g) Sexeca de
Traxq.Anims.sapoll. 1 no, acciocchè non si sommerga, nulladimeno
questa non potrà sfuggire il passo dell'Ignominia , che stà situato un buon
tratto di camino prima di giugne. re al porto della felicità, (dove bisogna
neceffariamente arrivare per ottenere la buona forte) si rimira ivi uno scoglia
grande, ove è la residenza maggiore di tutti li vizj, hà nella sua estremità,
ver, so il sudetto porto alzate due gran colonne, ove è scritto : Non plus
vltrà, affinche sappiano tutri li vizj, che fino colà possono giugnere , mà che
più oltre è vietato loro il passare. Approdata, che sarà detta naye al sudetto
scoglio, è su, bitamente visitata , e ciò, che di viziosa ivi si trova, con
tutti'li viziosi , e vizj loro viene arrestato, non potendo anda, re più oltre
simil pefte , cosa di buono vi potrà mai essere dove fono tanti vizj,
consideratelo voi? Onde farà necessario, che tutto ivi rimanghi in potere de'
vizj. Che faranno all'ora quei miserabili, che s'imbarcarono in fimile
navę, renduti schiavi de'proprj vizj ; qual fortunaspropizia avranno ritrovato,
quando, che la loro pessima ancora l'abbandonorà, per non restare ancor essa
schiava ed il tormento maggiore, che avranno, farà di rimirare con li propri
occhi tra, passare quelli, che navigano ne i bastimenti del Sole,e di Giano
ancora,fe chi viaggia in questa fi farà regolare dalle virtù ; oh che cattiva
elezione avreste fatto mai se aveste condesceso al vostro genio ! come vi
trovereste, che farele in fimili miserie , privi della libertà, e della forte?
Plinio ciò predisse faggiamente, dicendo, ( a ) che Habet has vices conditio
mortalium , ut advere fa ex fecundis , ex adverfis secunda ne 2
cantur. Sicchè fuggire, per quanto potete, i simili imbarchi , che vi
conducono, non al porto della felicità, mà bensì à quello ?
dell'ignominia , e delle miserie ; onde bisognerà, che vi scegliare è la
nave del ? Sole, ò quella di Giano per giugnere ti al desiato porto della
felicità, per ri, F tro(a) In Panegir. at Trajan. [ocr
errors] 2 [ocr errors] trovare la vostra buona fortuna Il proprio
genio vi farà inclinare talvolta d'entrare più costo in quella di Giano, con la
quale crederete di poter ritrovare una miglior fortuna, à questo non mi
opporrò, perche dove vi è la Prudenza , c la Giustizia, sc farete à lor modo ,
con tutto, che vi siano vizi ancora, questi non potranno molto nuocervi; Mà
prima di entrarvi, sarà bene, che sappiate il viaggio, che fanno, si questa , à
cui vi porta il vostro genio, che quella del Sole, che voi poco gradite, e che
tributo portano sì l’una, che l'altra al Tempio dell'Eternità, affinche meglio
fiate informati di tutto, prima , che vi determiniate all'imbarco.
S'incaminerà con prospero vento la nave di Giano verso il porto della felicità
, incontrerà nel camino varie tempeste , mà la Prudenza, e la Giustizia, che la
regolano, le opereranno senza il disturbo de’vizj, le supereranno tutte con la
loro buona condotta; capiterannó molte, e varie occasioni assai vantag
giose, [ocr errors][ocr errors][ocr errors] giose, se n'approfitterà più
, ò meno chi farà ivi imbarcato , secondo, che si consiglierà con li vizj, ò
con le virtù, fe darà orecchie a’yizj , & in ispecie al proprio interesse,
gli dirà, che tutto può fare, fe alla Giustizia , se non quello , che deve,
ch'è convenevole, e giusto, arriverà all'accennato passo dell'ignominia si
fermerà per iscaricare ivi tutti i vizj, con tutto quello, che di vizioso fi
ritrovi nella ricerca generale, che ti farà della nave, e se per disgrazia di
chi ivi s'imbarcò, Coffe ftato guadagnato da? vizj, e fossero questi in detto
viaggio divenuti arbitri della sua volontà, resterà ivi tutto l'acquisto
fatto,come cosa proveniente dalla loro viziosa industria, e quel, ch'è peggio,
ne seguirà del mifero passeggierofatto schiavo, ciò, che successe à chi navigò
nel bastimento felice, le povere virtù con l'infelice forte abbandoneranno chi
le tradì, chi le vilipese, e se n'andranno altrove à ritrovare chi meglio le
tratti. Succedendo poi diversamente, è cie l'in [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] F 2 [ocr errors][ocr errors] l'imbarcato abbia fatto tutto quello
che gli fu suggerito dalla virtù fattosi il sudetto espurgo, e lasciati ivi
tutti i vizj, proseguirà la nave il suo viaggio verso il porto della felicità,
dove appena giunta, che si scaricherà tutto ciò, che fi porta al Tempio
dell'Eternità, e lo presenterà la Gloria avanti il Tribunale della Giustizia
eterna, che ivi à tal'etfetto presiede, domanderà questa, se quel tributo, che
si offerisce sia stato in alcun tempo inescolato con robbe viziose , &
inferce , risponderà la Gloria , che quantunque fia venuto accompagnato da'
vizj, nulladimeno, che sia Rato già espurgato à bastanza nel pallo
dell'Ignominia, dove tutto ciò, chew d'inquinato vi era , fù lasciato assieme
con i vizj; non basta, risponderà la Giuftizia, è tributo, che ha avuto
comercio una volta con cose infette, non deve andare à dirittura al Tempio
dell'Eternità, fi consegni al Tempo , che gli faccia fare una lunga , e
rigorosa quarantena onde bisognerà aspettare la discrezio [merged
small][ocr errors] ne del Tempo, quando le vorrà eternare! Il viaggio
poi, che fà la nave del Sole , è bensì più adagiato , perche que fta non naviga
à tutti i venti, hà delle tempefte , mà le supera, perche la regge la Prudenza;
non fà grandi acquisti, mà fono sicuri, perche li regola la Giustizia, nel
passo dell'ignominia non si ferma punto, perche non hà seco li vizj, che la
facciano trattenere per il loro sbarco, giugne finalmente al porto della
fesicicà, non avendo quanto si porta per offerta avuto in alcun tempo comércio
con cose infette, e viziose , appena presentato dall'Umiltà senza pompa avanti
il Tribunale della Giustizia, che questa fubitamente ordinerà , che si
trasporti tutto al Tempio dell'Eternità , eflendo cose pure, e non sospecte
d'inquinamento alcuno, e che fi registri ancora trà gli Eroi il nome di colui,
che l'offerisce, ed ecco la sua fortuna divenuta già stabile, ed eterna, per
goder’ancor'effa i favori dell'Eternità. AveteAvere già sentito il tutto,
ora siete in istato di deliberarvi, e di prendere quel partito , che vorrete
per consiglio mio, imbarcatevi pure nella nave del Sole, se avete tutti li
requisici necessarj, che sono abilicà, e buoni costumi, e se ne siete privi,
procurareli pure à tutto costo, perche farerc più sicuri di portare
offerte , fe non molto considerabili, alimeno sincere, ed affai gradite
dall'Eter nità, se lo farete di controgenio : Durum eft confcendere navim
; sappiare però, che è un quieto vivere, dove l'ainbizione non perturba la fantasia,
l'ira non rode il cuore, l'invidia non consuma le mi. dolle, la superbia non
accieca , e dove finalmente tutti gl'altri vizj non possono punto nuocere,
ftantechè non vi dimorano, l'ingresso vi parer à duro, mà il rimanente vi
riuscirà felice, e quando non aveste altro motivo di sceglierla, vi doyria
animare å farlo , che Ippocrate per andare in Abdera à cercare la sua forte non
fi fervi della nave felice, nè di Giano, mà benisi di questa del Sole, e
la : CO- . [ocr errors][ocr errors] comendò non solo prima
d'averla provata, mà molto più dapoi, dicendo; (b) Cui cum Solis figno, etiam
fanitatem apponito cùm re verâ , prospero numine vee la fecerit . E certamente,
che prospero numine ancor in questa si navigherà per, essere regolata dalle
sole virtù. Se poi sarete risoluti di cercare la vostra forte sù la nave
di Giano, procurerete almeno di non navigare à curti li venti, e terrete
frenato il vostro inte. resse,acciocchè quando la Giustizia non potrà navigare
, esso non ordini il disancoramento, e che quando la Sincerità vorrà operare,
allora l'Adulazione non la turbi, e finalmente difautorerete tutti li vizj, che
ivi ritroverete, e li porrete in catena , come tanti schiavi, altrimenti sotto
specie, ed ombra di virtù v'inganneranno sempre: Fallit enim vitium fpecie
virtutis, umbra. Operando voi in questa maniera, acquisterete più gloria,
che se navigate nella (b) In 1.6 2.epift. ad Damagetum. F4
[ocr errors] nella nave del Sole, perche vi farete saputi ancora difendere
dagl'inimici domestici , e la vostra fortuna restando ammirata del vostro inodo
d’oprare , vi sarà molto propizia , e gli darete voi medesimi stimolo
d'invigilare à vostro favore, vedendo , che operate per eternarla; sappiate
però, che in tutto il tempo di detta navigazione, vi converrà stare vigilantissimi
, e non meno di quelli, che passeggiano sopra precipizj, mà à far questo hoc
opus : bic labor eft. Da queste trè figurate navigazioni, comprenderete
non solo ciò, che nel corso di vostra vita vi potrebbe accadere, mà il modo
ancora di schivarne ogni finiftro, che fosse valevole à ritardarvi l'acquisto
della buona fortuna , perche se voi da bel principio vorrete darvi in preda a'
viziosi piaceri , che progreffi mai potrete fare ? E che fortuna prospera
potrete conseguire? Ed incominciando una volta à gustare le viziose delizie ,
non avrete più palato capace di assaporare il nettare delle vir tù;
[merged small][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] tù ; la malizia, l'inganno
, e la frode vi sosterranno sino che gl'è à grado , mà alla tine avendo
conseguito ciò, che bramavano da voi , vi lasceranno cadere, anzi forse ajuter
anno, come fanno l'infidi compagni, nel precipizio maggiore delle miserie, nel
quale ritrovandovi, di chi vi dovrece lagnare? forse che della vostra mala
sorte innocente , quando, che voi medesimi ne licte stati glautori. La vostra
fortuna non ha mancato , ella troppo hà fatto per esservi propizia, ambiva di
favorirvi, mà voi all'ora la tenevate lontana, perche credevate, che il
trovarvi in delizie, in ispafli, e viziosi divertimenti, fosse il miglior
negozio, che potreste mai fare : E se talvolta v'infinuava la strada delle
virtù con qualche stimolo interno , voi la rigettavate con dispreggio , onde
meritamente esclama contro costoro Ippocrate : (c) Indoetus autèm qui eft , quomodò
fortanatè affequi poffit? Si quid enim etiàm affequatur, non Memorabilem fanè
fucceffum babebit ; Qui enim (c) Hippode locis in bom. 3. A
3 [ocr errors] cnim non rectè quid facit , non fortunate affequi poterit
, quum reliqua , quæ æquum et facere, non faciat;cd altrove :(d) Ego verò ut
fortuna quidem quavis in re non nibil tribuo , ità certè cenfeo malè à morbis
curatis , ut plurimùm adverfam fortunam contingere ; e nell'epistola à Damagero
così dice, parlando di simili sfortunati viziosi: Eorum res adversas
derideo,eorum infortunia intento rifu excipio. Veritatis enim instituta
violant. Se poi vorrete seguitare la strada di mezzo, e mantenervi amico
delle virtù senza discostaryi affatto dalli vizj, e questa con tutto sia meno
pericolosa, non è molto sicura , perche quantunque in essa farete più
ricchezze, stante il fecolo corroto, il buon nome non l'acquisterete stabile, e
di lunga durara, edin conseguenza incostante farà la vostras fortuna ,
inercèche tutti quegl’artifici usati, quelli difettucci d'adulazione di qualche
bugiòla à tempo, e di quelle mormorazioncelle coperte, di quel zeloaf(d) De
Arteaffettato, e giustizia con il secondo fine, modi più tosto appresi da
Correggiani ozioli, che da buoni Maestri, scoperti , che saranno dagl’uomini di
stima , e di senno, questi vi perderanno quel concetto, che prima avevano di
voi. Oltre di ciò, che vita mai infelice sarebbe la vostra, dovendo servire à
due Padroni Deo, Mammona : Deo, ch'è il Protettore delle virtù, & Mammona
de' vizj: Nemo poteft duobus Dominis fervire , Deo, Mammond . Mà dato
ancora il caso, che vi riusciffe di farlo, che vantaggio ne ricavereste mai,
mentre le dolcezze dell' ingenuità ve le amareggierà l'adulazione, quelle della
giustizia ve le dissapo, rerà il proprio interesse, quelle del zelo
l'attolicherà il secondo fine, vivereftę continuamente inquieti , stando sempre
vigilanti, che non si scoprissero li vostri difetti, perche vorreste passare
per ingenui , e non sareste , per giusti, e prende reste ogni arbitrio contro
il dovere, con qualche cosa di vantaggio -; ficchè il partito più sicuro farà
di vivere lontani da, 1 da'vizj, e starsene con le fole virtù
; perche quantunque le ricchezze non vi pioveranno addosso da per tutto, nè
l'aura popolare vi porterà molto in alto, con tutto ciò quel buon nome, quel
buon concetto, che formeranno di voi gl’uomini sensati, non vi sarà mai tolto,
durando sempre stabile ; perche è fondato sù le vostre virtù, permanenti sù il
vostro onore immutabile, che est Splendor virtutis , come S. Ainbrogio negli
Officj asserisce. Onde voi operan+ do bene otterrete la sorte stabile, conforme
ve lo predice ancora Ippocrate, (e) dove così parla : Fortunatè enim affequi
eft re&tè facereshoc autem qui sciant faciunt , e d'avantaggio, viverete
con una somma tranquillità d'animo,perche goderete tutto quel gran dilettoyche
apportano le virtù a' loro seguaci, non potendosi ciò per altra via conseguire,
mentre: (f) Semita certè=Tranquilla per virtutem patet unica vitæ ; nè per
questo non istabilirete la vostra casa, anziche 1 le). Deloc.in hom. [f]
Juvenalis forira 10: me ز meglio degl'altri, e per due
ragioni, la prima, per avere fatto li voftri acquisti onoratamente con le fole
virtù; l'altra poi, perche il mondo non è così spopolato d'uomini, che amano, e
seguitano le virtù, quanto da alcuni si crede, effendovene di molti, onde voi,
che se guitare questa buona via ò sarete pochi, ò numerosi ; se pochi, viverete
bene, perche da molti Tarete stimati, fe poi į farete numerosi, converrà,
che li viziosi ancora , ch'avranno bisogno dell'opera vostra
s'accommodina alli vostri retti costumi. Caminando dunque voi per la via
delle fole virtù , potrete senza fallo conseguire la vostra buona sorte, e por
trete allora dire çon ragione : Nos te, Nos facimus fortuna
Deam, coloque locamus • Dove che caminando voi diversamente,
appena vi sarà permesso il poter dire : Nos facimus fortuna Deam ,
mundos que locamus, Stan [ocr errors] Nos te , Stanteche
appena sù l'aura popolare iftabile, in tal caso, la potrete appog. giare,
nella quale non si curò punto Ippocrate di fondare la sua fortuna, come da più
motivi si ricava, c primieramente, da ciò, che scrisse egli à Democrito,
manifestandogli, che dal volgo, disprezzatore delle buone opere, aveva ricayato
più tosto riprensione, che onore, con che fà credere, ch'egli non procurava có
compiacergli da cattivarselo, affinche aveffe detto bene di lui, e l'avesse
onorato, perche la sua politica solo consisteva, in operare, conforme si
doveva, ed in far ciò, che solamente era decente al vero Medico, conforme fi
spiegò nel primo de' suoi Aforismi in tal guisa : Se ipfum præftare oportet,
quæ decent facientem; e ciò in termini prù preciâ l'individua affai meglio in
altro luogo , (8) dove così dice : Neque verò gratiam, qua tibi homines
demerearis subtrabo , cum fit Medici præftantia digna , eorum autem, que per
Instrumenta adhibentur, & de mon (8) Hipp in lib de
præcepto monftrationis eorum, quæ fignificant , reliquarumque ejusmodi
memoriam adeffe oportet, quod fi vulgi tibi audientiam comparare voles, id non
valdè gloriosè insti. tuas , neque tamen cum ostentatione portia. câ fiat,
industrie enim impotentiam arguit, neque certè probo induftriam multo labore
partam in alium ufum transferri , quod per Se fola ut eligatur grata fit ; Inanem
enim fucı laborem cum ambitiofà oftentationes tibi impones. In oltre tal
verità si ricava ancora , dall'aver egli ricusato il servigio del potentiffimo
Rè Artaserse, mentre certa cosa'era, che se avesse desiderato d'acquistare
l'aura popolare , non doveva egli ricusarlo, poiche ritrovandosi in un tal
posto, senza dubbio alcuno tutta la Persia saria corsa ad onorarlo, niuno
averia potuto più dir male di lui per tema di non incorrere nell'indignazione
del Rè potentissimo Artaferse, onde con averlo ricusato dà à divedere, che egli
non fi curava punto di dett'aura popolare, nè delle ricchezze, e fortuna, che
dacssa provengono, conforme apertamente fi spiegò nella lettera scritta alli
Abe deritani, dicendo ivi: Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluifem viri
Abderia tæ , nè decem quidè m talentorum gratiâ ad vos venirem, fed ad magnum
Perfarum Regem proficiscerer , ybi &c. E per far conoscere meglio à
tutti, ch'egli non caminava per la via dell'aura popolare, nè delle ricchezze,
mà bensì per quella della sola virtù volle portarsi in Abdera , folainente per
visitare, e trattare con Democrito, e questo perche lo faccffe lui medesimo lo
confesso, dicendo : (b) Eum autem gravibus , firmis moribus ele præditum
intelligo ; talmente, che stimò egli fortuna maggiore quella, che sperava
ottenere con trattare con un'uomo di questa sorta , per apprenderne da esso
qualche buon dor cumento, non solamente de i dieci talenti offertigli
dagl’Abderiti,inà ancora di tutte le ricchezze, e grandezze insie: me della
Persią, & udite con quantan chiz (h) in etir. Abderit. [ocr
errors] chiarezza lo dice : (a) Rex Perfarum nos ad fe vocavit nefcius mibi
potiorem of fapientiæ , quàm auri rationem . E finalmente , acciocchè
meglio comprendiate , che quanto v'hò detto intorno alle trè strade, che vi
sono per cercare la fortuna, o qual di queste dobbiate scegliere, s'uniformi
sempre più con i sentimenti del gran Maestro, confermiamolo ancora con
l'accennate trè vie di cercare la fortuna , contenute in detta lettera.
Primieramente con il quomodocumque ditefcero ci addita un bivio, cioè tanto la
strada, che conduceva in Persia , à fare acquisto di cesori, e grandezze
considerabili, che quella di Abdera , che allettava all'acquisto di dieci foli
talenti ; La prima di queste egli non la ftimò à proposito, perche conduceva in
paesi barbari, inimici, e dove vi era la peste ; La seconda nè tampoco , perche
dubitava, che quel vizio dell'inte, resse, que' dicci talenti, avessero possuto
rendere servile, e schiava la sua virtù, G cosa (a) Hippo in epiß.
Denetr. cosa fece egli per battere su'l sicuro, fi fabricò la terza via,
espurgata da ogni vizio, e prima d'incaminarti per essa la descriffe in tal
guisa all’Abderiti: Mihi verò ad vos venienti , non Natura , neque Deus argentum
promiserit . At nequè vos [viri Abderite] per vim obtrudite, fedlia berè artis
liber â elle finite operâ . Qui autem mercede operam fuam locant, hi fcien.
sias, tamquàm ex priore libertate manci. pio dantes , fervire cogunt . Oh
Ippocrate, se questi tuoi documenti fossero stati mai dati à rivedere à quel
Quinto Petilio Pretore Urbano, à cui pervennero in mano i libri del dia
finganno composti da Numa Pompilio , certamente che,ò l'averia fatti brugiare,
conforme che fece quelli, o pure ti averia fatto quel favore , che fecero gli
Abderiti al suo Democrito, che lo dichiarorno pazzo, e fi faria servito come
Precote delle seguenti cognecture per dichiararti cale, primieramente avrias
dedotto contro di te, che tu per portarti da Democrito, da cui non potevi
sperare bene alcuno, perche appena aveva un Platano, che lo difendeffe dal
Sole, ed un sedile di pietra, dove potesse sedere, mostrasti smoderato
desiderio d'andarvi, conforme costa nella prima lettera scritta à Damageto ,
dove così dicit Navem ad nos mittito , fed fi fieri poteft, Hon remis , fed
alarum remigio instruct amo res enim, eu amicitia urget. In oltre, che
per benc andare in Persia , dove, oltre offerte sì grandiose , eri
tanto desiderato da un Rè potentissimo, cu fosti prontissimo à rie cusar la
chiamata , conforme costa nella lettera da te scritta ad Hiftano, senza
riflettere , che quel potentissimo Rè poo teva distruggere la tua Patria per
tua cagione. Chi dunque procura , ed effettua con tanta sollecitudine, ed
anfietà una cosa, che non gli può recare profitto alcuno , e ricusa con
altrettanta prontezza ciò, che gli può moltissimo giovare, senza considerare
ciò, che può sopravenire di male dal ricusarla ; certamente, ch'egli si può
condannare per pazzo. Saria stata però troppo ingiusta que [ocr errors]
quefta sentenza di Petilio , quando l'avesse cosi pronunziata , poiche per
condannare un'uomo savio per pazzo, prio mierainente si ricercano più rilevanti
prove di queste : in oltre bisognava dargli le sue difefe', in cui deducesfe lc
sue: ragioni prima di condannarlo, nelles quali faria stato dedotto,
primieramente, che non sussisteva in fatto, che da Democrito non se ne poteva
sperare bene alcuno, costando dall'Ippocratica confeffione , quanto mai di bene
egli ne ficavasse , ch'è questo: (b) Tum ego Democrite præftantisime
magna hofpitalitatis tud munera mecum in Co reportabo, cùm multa me fapientia
tua admonitione compleveris. Prçco enim tuarum laudum rem vertor, quod natura
humana veritatem inveftigasti, a mente complexus es; Acceprâ autem à te mentis
curatione discedo ; La grand'ansietà dunque di andare à fare simili acquisti,
non era indizio di pazzia, ma bensì di somma prudenza , di sommo giudizio. Che
poi per noneffere andato in Persia foffe censurato a torto è chiaro, mentre non
avendo alcun bisogno di quanto gli poteva da ciò risultare, conforme egli
confesso: (c) Nos vietu, veftitu, domo, omnique read vitam neceffariâ cumulatè
frui ; Perfarum autem opibus uti , nequè mihi æquum eft; non doveva esporsi di
andare à fervire popoli barbari , ed inimici, e quanto erano maggiori
l'offerte, che gli faceva. no , tanto più lo costituivano loro schia, vo. E
quando vi fosse andąco, cosa mai averia riportato? Oro, argento, onori sommi, e
grandezze, e quetti potevano paragonarli all'acquisto, che fece, con Democrito,
di dottrina, e faviezza di mente maggiore? Ed essendo egli andato per curare
uno creduto pazzo, per cagione di quel medesimo ei ritornò più savio, e più
dotto di quello, che era prima ; e da ciò fi può dedurre quanto mai bisogna
stare cautelato à dichiarare pazzi coloro che non sono potendo queIti tali
talvolta illuminare ancora i Savja L'or(c) In epif. Hylani. [ocr
errors] L'ottima dunque di queste trè ftrade fi scelse Ippocrate , per
acquistare la sua fortuna, e Pottenne profpera, stabi. le, ed eterna i poiche
fino, che il mondo durerà, la fua fortuna ancora sarà ri. fplendente; per
questa voi dunque vi dovete indirizzare le volere effere suoi veri seguaci, e
questa ancor meglio la scorgerete, dapoi, ch'avrere nella Giornata di domani
udita la gran deformi. tà de' vizj, ed il danno grande , che possono apportare
questi al Medico, che caminasse per quella via , giacchè conto traria juxtà fe
pofira magis elucefcunt , GIOR [blocks in formation] Nella quale si
tratta delli vizj , mostrando quanti pregiudizi poffona apportare al
Medico , e le in lui alcuni di esli pana fcufabili , almeno quelli, che
sembrano Ermafroditi. [ocr errors][merged small] Na dura , ed ardua
Provincia og gi intraprendo per voi, dovendo parlare contro la corrutela
del tempi, ' lati, e contro uno stile già invecerato , con tutto ciò
bramando voi sapere da me il vero per non ingannarvi, dirò con Seneca ; (f)
Quaramus quid aprime fa&tum fit, non quid ufitatissimum, & quod nos in
poffeffione felicitatis eterna conftituat, non quod vulgo veritatis peffimo
interpreti probatum fit. Vorrei potcre scusare ancor io li vizj, conforme
fanno quelli, che li rimirano solamente mascherati con gli abiti delle virtù à
fine di consolarvi, sc cofa G4 [merged small][ocr errors]
[ocr errors] 104 Dell'Idea del vero Medico. cosa difficile vi sembrasse mai il
poteryene affatto spogliare. Per esempio ricoprono la bugia con il manto della
prudenza , e dicono, ch'è prudenza di celare all'Infermi la verità, perche ciò
fi fà per loro bene , acciocchè non si contristino maggiormente del male, che
foffrono. Gli adulano ancora talvolta se defiderano qualche cosa , che non
competa loro, con tutto, che possa molto nuocere, sotto pretesto d'aver carità,
ed à fine, che vietandola non s'inquietino maggiormente, e così vanno
ricoprendo molti altri vizi per renderli familiari, e meno deformi . Mà perche
hò promesso di parlarvi con chiarezza, e fincerità, non potlo, nè devo
adularvi. Li vizj li dovrete cenere per vizj; e le virtù per virtù : Li vizj, e
le virtù le dovete considerare , come due linee p2rallele, che non possono in
alcuna delle loro particombagiarli, come due contrarj diametralmente opposti,
che non possono tra loro convenire; Dovete con. fiderare li vizj come mostri
spaventofi , che che avvelenano con l'alito chiunque ad effi fi
avvicina , come dunque ardin, Tete d'accostarvi ad essi per ricoprirli?
Mà conceduto ancora , che si poteffero mai travestire, ditemi di grazia,
viaggiorefte voi con una comitiva di ladroni, benche fossero travestiti in
abito di gatantuomini, caminereste sicuri di non effere offesi da essi, con
tutto, che fossero sì civilmente adornati a Certamente mi risponderece di nò:
Tali apa punto fono li vizj, poniamoli addosso quelmanto, che volemo, e questo
non facendoli mutare il loro perverfo costume, sempre vizj saranno, sempre
nuoceranno di molto ; E siccome li Leoni, e le Tigri per quante carezze loro fi
fac ciano mai deporranno la fierezza, cosi ancora al parere di Seneca: Vitia
nun, quàm bona fide manfuefcuniş trasmutateli pure in che sembiante volete,
anzi, che essendo questi travestiti , faranno de danni peggiori, perche non
potendosi conoscere per vizj à prima vista, non li potranno subitamente
scacciare da chiKabborrisce, onde ancora trà questi ayeriano all'ora maggior
campo libero da machinare le loro infidie, ed acciocchè meglio putiare scoprire
li loro tradimenti, contentatevi, che ve ne descriva qualch’uno di quelli , che
nel Medico fono più decestabili, e nocivi, con pers mettermi che non servi
quell'ording solito à praticara da chi tratta di esli , perche essendo
fregolati non meritano di effere trattati con buon'ordine, ba. standomi solo di
farvi capire la loro deformità, c quanto erano mai da Ippo, crate odiari, e
creduti nocivi al vero Medico, mentre giudicò essere parte di buona Medicina il
saperfi:(8) Qua faciunt ad demonftrandam incontinentiam quæftuofam, &
fordidam Professionem ixexplebilem habendi fitim , cupiditatem, de traditionem,
impudentiam , fiquidem iftas Spectant ad eorum cognitionem dc.e non già à fine
di seguitare , må bensì di fug. gire fimili diferci. La bugia, inimica scoperta
del ge nerc (g) De decenti babita. nere umano, come tratta li suoi
fidi re. guaci & Li separa, scoperti che sono, dal publico, e privato
commercio de viventi, fà, che niuno presti loro più fede, gli costituisce
infami, e li pone il più delle volte in evidente pericolo di vita, facendoti
publicare ciò, che non fù mai verità, e questa come si potrà scusare nel Medico
in ispecie, in cui ella è reato più grave, che non è in altri Profeffori, sì di
Legge, come ancora di Teologgia, e che ciò sia, veniamone alle prove, Dica una
bugia il Procuratore al suo Cliento gli potrà pregiudicare nella robba, venendo
talvolta à perdere mediante quella la sua lite ; La dica un Teologo, che abbia
di già prevaricato, à chi è da lui diretto nello spirituale, gli farà perdere
l'anima ; La dica il Medico al suo Ammalato, gli farà perdere la robba, la
vita, e l'anima insieme , ed ecco l'esempio chiaro: Dica il Medico al suo
Infermo, il di cui male si avanza : Lei stia di buon'animo, che la sua infer.
mità non è di gran momento , li segni non [ocr errors] nonsono
mortali , Ella guarirà , fi fidi di me, viva pure sicuro, e riposato ; mediante
questa bugia l'Infermo non pensa a' casi suoi, non aggiusta le partite dell'
anima, che premono tanto, non fà téItamento, non dinunzia li suoi crediti, è
ripostini segreti, non accresce diligenze, acciò la sua cura sia allistita da
Me. dici più esperti, si avanza tanto in un tratto nel male, che si sopisce, o
sų aliena di mente, resta incapace à fare cosa alcuna di proposito, e se ne
muore, ed ec che ha perduto la vita , la robba, e l'anima ancora, se per
ispeciale grazia di Dio non fù illuminato à pentirsi de' suoi peccati prima ,
che diveniffe incapace à poterlo fare, e questi sono trè reati nati da una sola
bugia, la quale benche dete ta à fine di sollevargli lo spirito, in vece di ciò
gli hà cagionato un'improvisas morte, per lui così svantaggiosa. Dis spongono
le leggi, che li delitti sono maggiori, e più qualificati, quando li
delinquenti ne hanno commessi numero maggiore, è della medesima fpeçie, ò
CO, equivalenti, ficchè calcolandosi mag. gior numero di tali reati nella
bugia del Medico, che in quella del Legista, e del Teologo, in conseguenza
viene , che è più grave delitto la bugia nel Medi. co , che negl'altri due
sopr'accennati Profeffori. In oltre se il Medico, per persuadere al suo
Infermo, acciò prendesse con maggior fiducia il rimedio da lui propostogli,
affermasse, che quel medesimo avesse giovato ad altrui, e ciò non fosfe vero ,
rincontrandosi poscia la verità, in che discredito rimarria ape preffo à cui
disse tal menzogna, certo è, che non lo terria in avvenire più nel numero de'
veri Medici, mà bensì di parabbolani,de' quali Ippocrate cosi disse: (h) Virtutis
apud ipfos modus eft , id quod deteriùs eft, mendacii enim ftudium exercent ; e
parlando de' Medici menzogneri così disse: (i) Quapropter veritate nudati,
omnem improbitatem, ac ignominiam ing duunt. L'adulazione è vizio, che
s'infinua dol(h) In epiß. Domag. (i) Dedec.bablik, dolcemente, e
con galanteria , è un veleno , che fi beve fraposto con un'apparente netrare, e
questa parimente nel Medico cresce in qualità di reato, posciacchè dica
qualsifia altro Adulatores à taluna, ch'è deforme, non meno di aspetto, che
povera di abilità.: Voi Giete una bellissima, una compitissima , egalantiffima
Giovane, fiete eccellente in molte cose; nelle quali non avete chi vi fuperi ;
le darà compiacimento bensi con formo suo diletto, ma non l'ucci derà ; Dica il
Medico ad una sua Infer. ma, che desidera gustare un grappolo di uva: V. S. ne
puol mangiare un poco , perche bisogna condescendere qualche volta al desiderio
dell'Inferma , quod face pit nutrit , lo faccia pure liberamentes Se la povera
adulata Inferma lo farà, non folamente vi averà compiacimento, e diletto per
allora , mà poscia potrà ancora morire per tal cagione, non è quem sto caso già
da me inventato, mentre si legge in Ippocrate seguito nella figlia di
Eurianatte, che per aver gustata l'uvale crebbe non solo notabilmente il male,
mà se ne morì, dice egligdoppo di avere narrato, che l'era sopragiunta la
refrigerazione delle parti estreme il delirio: (1) Ifta autèm ut ferebant ex
deguftata uva huic contigerat ; potrete dunque voi nel Medico scufare l'adulazione
omicida per conciliarvi la grazia dell'Infermo ? Risponderà Ippocrate
certamente di no, perche dice egli in termini precisi dell'adulazione nella
regola dal vivere: (m) Is velut res horrenda vitari debety a gratia vitanda per
quam unitas deperit. E non solamente è reato gravissimo nel Medico
l'adulazione in ciò, che riguarda la regola del vivere, mà ancora nel
prescrivere medicamenti . V'incontrerete in molte contingenze, nelle quali
gl'Infermi , ò glastanti proporranno riinedi, ed il più delle volte quegli, che
non saranno à proposito, in questi casi avvertirete bcnc à non adulare il genia
di chi li propose', mà doverete fare ciò, che il bisogno richiederà, e non
altri menti: (1) Epid.lib.3./46.2.egroting (in) Do pracipe. [ocr
errors][ocr errors] per adula menti: Conforme ancora, se venendo
proposto da altri Medici ciò, che non vi parerà essere profitcevole
all'Ammala- to, in tal caso non dovereste zione tacere, e lasciar
correre ciò, che fù proposto da altrui , mà bcnsi con tut- ta
civiltà addurre li vostri motivi, cra- gioni, che avete in
contrario, à fine venghino esaminati,essendo questo l'ob- bligo de
veri Medici, conforme Ippo- crate insegnò, dicendo: (n) Qui quid-
quid do&trinâ acceperunt in medium profen & facultate
dicendi utuntur , ad gratiam comparati, & pro gloria,qua indè provenit
decertare parati,doctrinam fuam ad veritatis lucem repurgantes.
Dell'Ateismo vizio esecrando non ve ne saria d'uopo parlarne , perche egli è
cosi repugnante, che chi hà uso di raa gione mi pare assai difficile vi poffa
in effo cadere, con tutto ciò, perche certe proposizioni, che sparse, e
feminate alle volte fi ritrovano in alcuni libri, che vengono da lontani paesi,
potriano alle menti (n) De decohabitu. runt , 1 0
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] inenti di voi, che volete volare troppo i
alto,recare qualche disturbo, non istimo superAuo di dar loro sopra ciò
qualche luine, à fine stieno più circospette, e cautelare, e
particolarmente nel sentire certe proposizioni dirette à ridurre le
operazioni animaftiche alla sola machi26 na, e struttura del corpo fatta
dalla na tura, con sì mirabile artificio, guarda tevene pure da
queste , perche hanno de l'ateismo nascosto, e tenete fermo, che en vi voglia
sempre un primo Movente di . ftinto, e separato dalla struttura, perche
de quantunque la detta struttura fia necef. faria alli moti interni, ed
esterni , nulla- dimeno senza il primo Moyente, che è l'anima
rationale nell'uomo , cessa ogni li moto regolato, come si scorge chiara.
mente ne' cadaveri, ne' quali con tutto, che rimanga la mirabile
struttura , sepa- rata ch'è l'anima dal corpo iyi
ogni mo- le to regolato finisce. Nè
solamente nel leggere ciò , che viene scritto converrà stare cautelati, e
circospetti, mà ancora in quello fi sente [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] riferire intorno alle pazzie di coloro , che, per essere
reputati di singolar dottrina , tralasciorono di credere ciò, che dovevano,
perche non capacitava le loro meni materiali, se non ciò, che con li propri
occhịrimiravano, ò palpavano con le loro mani, contro de' quali Sant' Agostino
fortemente inveisce, chiamanı doli uomini di carne. Spero dunque, che per
quanto leggerete di male in questo genere , ò sentiFete dire, non diventerețe
così pazzi , che vi vogliate assomigliare alle bestie , Je quali, in ciò, che
riguarda il dare un minimo contrasegno interno d'eternità, punto non
s'assomigliano all'uomo,mentrechi mai di effe ha saputo ritrovare il modo di
scolpire, ed intagliare l'effigie brutale di alcuna della sua , ò d'altra
fpecie, come seppe inventare l'industria umana? ed ancora in durissime pietre ,
per conservarla visibile, tale quale appunto ella fù vivente, per secoli
innumcrabili? e ciò donde è proceduto ? se non da quell'interno desiderio ,
che l'uo ) [ocr errors] Puomo hà in fe fteffo
d'eternità. L'Ira è un vizio, che deforma li suoi seguaci, li quali
conforme diffe un sayio Letterato, molto da me stimato, eriverito, fe questi li
potessero rimirare nello specchio , allora, che sono nel suo furore, yedendosi
divenuti così deformi, e trasfigurati in mostri,odierebbono,non solamente cal
vizio , anziche se medesimi; Modo tenuto dalli Spartani,che per fare concepire
orrore all'ubriachezzas conduccyano li loro figliuolini in certo tempo
dell'anno, nel quale fi concedeva libertà d'ubriacarsi, in luogo publico ,
affinche questi vedessero , che deformę spettacolo cagionava tal vizio, per
concepirne in avvenire di esso maggior spavento . Voi dunque per meglio
apprendere à che segno dobbiate tenere lontana da voi l'ira, non accaderà velo
moftri con parole , essendo di maggior efficacia , che rimiriate con li vostri
propri occhi , in chi si trova adirato, più al vivo una tale, c tanta
deformità, giacchè: H 2Segnius irritant animos demiffa per
aures [ocr errors] Quàm quæ funt oculis subiecta fide "libus,
E così comprenderete meglio ancora , se tal vizio sia tollerabile nel Medico,
che deve avere sempre l'animo compofto , conforme comanda Ippocrate de Medico :
Eum quoque spect are oportet, ut animi temperantiam excolat, non taciturnitate
folùm , verùm etiam reliquâ totius vita moderatione , quod ad illi comparandam
gloriam plurimum affert adjumenti ; e più chiaramente, ancora lo comanda in
altro luogo, (a) dove dice: Ne quid perturbato animo facias ; Ed è la cagione
appunto di ciò, perchè il Medico, che deve invigilare con somma attenzione alle
cure de' suoi Infermi, non deve avere la mente turbata, per poter meglio
discernere li partiti megliori, e più profittevoli, che dovrà prendere à prò de
fuoi Malati, ed à tale effetto Ippocrate comanda, che sia incombenza del
Medi co (a] Inlib de decora. co il sedare litumulti, ordinandoli ef
pressamente:(6) Tumultus verbis caftiges, G ad omnia fubminiftrandi te
prome ptum adhibeas. [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Converrà però prima in voi medesimi se mai
foste dall'ira predominati, che sediate li vostri interni cumuli, per poter
muovere più facilmente glaltri con il vostro buon'esempio ad imitarvi. Mà
vi sono alcuni Iracondi, che credono essere cosa nociva alla salute il
ceprimere in un subito li loro primi moti, onde per tal cagione lasciano termin
nare il loro corso : Mà quanto questi s'ingannino lo fà vedere Ippocrate con
dire :(c) Ira contrabit , cor, pulmonem in fe ipsa, din caput, & calida ,
bumidum; il qual testo Vallesio così la spiega : Ira eft furor fanguinis circa
cor c. hinc fit ut fervente Sanguine,cor , pulmo , & caput calefcant
, & repleantur. Nimirùm fanguis fervore tumet, & venas, arteriasque
tumefacit, fed ob vebementem calorem, qui illis in locis eft, co
contrabitur ubi[b] Dodec.hab. [c] 6.Epid.fe5.4., [merged
small][merged small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors] H 3 ubique fanguis. Undè fit, ut multis ob iram
oculi, du vene frontis intumefcant, & tota facies rubore suffundarur , eo
tempora pulfent , & caput doleat , quin do febris fuu perveniat . Si
persuadono dunque questi, che gl'accennari danni che cagiona l'Ira à parti sì
principali, sia più vantaggio di pazientarli, che di rimuoverli? Onde non
dovrete in conto alcuno farvi dominare dalla collera, e non solamente per
quello che riguarda la buona direzione della cura, mà ancora li vostri proprj
avanzamenti, stanteche quel povero Infermo pur troppo annojato dal suo male ,
avvedutofi, che ancor voi gli accrefcere moleftia, adirandovi per ogni piccola
cagionc,se ne disfarà facilmente per non potervi più soffrire. La
Superbia nella Medicina à che segno sia deforme riflettetelo in Menecrate Medico,
che insuperbito forfe per effergli alcune piccole cure riuscite felici, ed ayer
sentito dire, che Esculapio, in quei tempi rozzi per tal cagione fù annoverato
trà Dei, egli volendolo su pe [ocr errors][ocr errors][merged
small][merged small][merged small] perare, scrivendo ad Agesilao Ř è de
Spartani ; pose nella soprascritta : Ager filao Regi Menecrates Juppitèr ; gli
calzò bene però la risposta, che gli fù data da quel saggio Rè in tal guisa :
Menecrati Medico Agefilaus Rex mentis fanitatem; nè fù ciò sufficiente per
reprimnere la sua superbia , mentre riferisce Leone Sansio, (d) che : Eo
furoris in hoc genere delatus eft , ut quofcumque liberaffet à morbo
jurejurando anté sanitatem rcceptam adıētos , Jecum deindè benevalentes
adduceretistatis temporibus tamquam fervos; atquè jatellites, eâ tamen
lege, ut alius quidèm Herculis insignibus indutus ; alius Apollinis babitum
gerens ; alius Mercurii perfonam fuftinens , alius aliumi mutatus in Deum,
Menecratem, utpote Jovem Optimum Maäimum Dii minorum gentium sequerentur. Onde
converrà, che la teniate lontana da voi , per non essere stimati pazzi, e
maggiormente quando vi troverete nell' auge delle vostre prosperità , perche
allora la superbia molto vi potria nuocere, fc [d] In Florid.9.prafat.
[merged small][merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged
small][merged small][merged small] H 4 se foste da efla dominati, allora
vi sforzeria à distaccarvi dalli vostri più antichi, e cari amici, solamente
perche vi conobbero prima, che le vostre fortune incomincialfero : E pafferia
ancora più oltre allora il suo ardire, fe ella potesse dominaryi à suo modo,
meiltre vi faria prendere tal compiacimento di tutte le vostre, sì grandi, che
picciole opere, come se fossero singolari, e da niun'altro fattibili à quella
perfezzione, che voi fatte l'avrete, senza permettervi punto d'indugiare å
formarne concetto, con forine far fi deve delle cose proprie , almeno fino a
tanto, che dal tempo fiano tolte dalle mani dell'Adulazione, e pofte in quelle
della libera sincerità, à fines che doppo averle ben confiderate dia loro il
suo giusto valore, secondo il quale , e forse meno deve stimare le cores
proprie, chi si trova in prosperità di fortuna , per goder egli il favore
dell'adulazione. Onde in tutti gli stati , e maggiormente in quello di
prosperità, nel quale sarete più oiservati da tutti doveteseguitare l'ottimo
conseglio d'Ippocrate , (e) che dice : Medicum urbanitater quamdam fibi
adjunétam babere convenit, affinche possiate effere da tutti tenuti cortesi,
umani , e senza superbia. La defiftimazione, ed il disprezzo del compagno
è un vizio dependente dalla superbia, onde develi dal vero Me dico abborrire,
al parere d'Ippocrare: Ne superbus , do inhumanus videatur ; E tanto più , che
deve essere d'animo modesto, e cemperato , di ottimi coitumi, umano, e giusto,
conforme egli giudicò nel libro de Medico : E se il Si. gnore diede à voi
maggior talento degl' altri vostri compagni, perche nel coufronto, che ne fate,
in vece di ringraziarlo, mostrate più tolto di biasimarlo, con dire, che
difetraffe in non fare uguale à voi chi è d'inferiore capacità di voi, potendo
il disprezzato rispondervi : Ipfe fecit nos, & non ipfi nos; Dunque, che
colpa è la mia 2 E non avendo voi ragione da dotervene meco, prendeteveland
con Tel Dedec.org. [ocr errors] con chi mi hà fatto ; sicchè fuggire
pure fimil vizio, che può ancora paffare più
oltre,inentre da quel disprezzo,da quel- la disistimazione
nascendone il discredi- to del vostro compagno, chi sà, che
non vi facessero divenire pessimi Medici, fer- vendovi di
caloccasione per procurare qualche servigio di colui, che fù da voi
posto in discredito? Olère di che;chi fos- te mai di simile viziosa
natura disprez- zeria ancora bene spesso quelli piccoli mali, che
in breviffimo tempo possono divenire giganti con non piccolo disca-
pito della sua esistimazione. Qando mai potessero
fcufarsi, che non credo , in alcrui li vizj spettanti alla gola,
che sono la crapula, e l'ubriachez- za , nel Medico sempre faranno
molto condannati, perche dovendo egli gior- nalmente opporsi a'
defideri depravati de' suoi Infermi, con ordinar foro las dieta,
come mai potrà persuadergliela, se non gli darà egli buon'esempio?
Fa- cendo più profitto questo di qualunque ragione, al parere di
Seneca, che vuole, che [ocr errors] 1 [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] 20 che (f) Longum iter eft per præcepta,
bre ve, & efficax per exempla. E se poi de' la vostri disordini ne
fossero stati spettatori in li vostri Infermi, come mai potreste per
fuader loro il contrario, di ciò, che voi seco faceste? Se volete dunque essere
ub bediti fiate fobri, e tali certamente dooi vrete essere, se non
vorrete essere peg{ giori de' bruti stessi, perche conforme riferisce
Ippocrate:(g) Sitit quidem Aper, oli sed quantum aquæ appetit, Lupus vero
di. laniato quod Je se obtulit necesario alimento, quiescit; Mà quando
tutto ciò non vi bastasse vi doveria far abborrire que fti vizj la sola
rifellione, che questi poffono ó abbreviarvi la vita, ò per la meno
rendervela penosa, fino, che viverete. co Non essendovi cosa nel mondo
più nociva della Lussuria, chi potrà mai scue farla negl’uomini, quando, che la
vedianio sì moderata , e sì ben' regolata dal solo istinto di natura in quasi
tutte le bestie prive dell'uso di ragione , alla riserva folainente di alcune
poche , trà quali (f) Epift.6. [5] In cpif.Demag: [ocr errors][ocr
errors] ti [ocr errors] quali vi sono quelle , che più s'assomis gliano
all'uomo, che sono li Scimiotti, e Gatti mamoni, rare volte li bruti à
confusione de' sensuali fi veggono do. minati da detto vizio, se
non sono proffimi à quei tempi destinati dalla natura, per la moltiplicazione
della loro fpecie, solamente il Lussurioso è più brutale di effi , che non ha
in ciò hà in ciò tempo determinato, essendo in ogni tempo dominato dal
suo vizio, che lo consuma , & annichila, conforme riferisce Ippocrate : (b)
Ep annorum quidem temporum ordo terminus eft brutis ad choitum, at homo
perpetuò insano libidinis aftrostimulatur. Qual'estro infano di libidine
faria più , che in altri detestabile nel Medico, fe non lo sapeffe reprimere
con la sua continenza , posciacchè dovendo egli giornalmente conversare con
donne conforme avverti l'istesso Ippocrate:() Et omni horâ mulieribus ,
virginibus illi occurrunt; Sicchè Iddio guardi, ch'egli non corrispondesse con
tutta fedeltà à quella (h) In epift.Damage (i) De doc.ork
[ocr errors] per ca. quella somma confidenza , à cui gione della
sua profeflione; viene am- meslo, diverria ogni suo trascorso reato
gravillimo, sì proprio, che della pro- fellione isteffa , talınente, che
l'innocen- te Medicina ancora ne faria calunniaca. Onde voi, che
desiderate far molti pro- grelli in essa , dovrete vivere lontani,
e detestare simil vizio ; Altrimenti perde- reste ogni speranza di
fare un minimo progresso in effa ; Converrà dunque,che fedelmente
offerviate il seguente giura- mento d'Ippocrate : Juro &c.fed
castam, bu ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm ætatem meam
perpetuò præftabo. Ecercamente, che non dovrete fare diversamente,
sì per li vostri avanzamenti, che per profitto delli vostri Infermi, mentreche,
come mai potreste applicare con attenzione alli vostri vantaggi, alle cure de'
vostri Infermi, se le vostre menti in quel tempo divagassero altrove, e fossero
distratte in linili oba brobriosi pensieri ? Confido dunque,che con la vostra
prudenza, e temperanza [ocr errors][merged small] nonnon sarete per
cadere in simili reati , che sono detestati da putti, per essere mancamenti
commessi in mestiere di buona fede, conforme è la Medicina,
L'Ingratitudine è vizio ancor esso detestabile, per essere aborrito ancora
dalle fiere, essendosi osservata tal’una di esse aver usata gratitudine al suo
benefattore ; mà questa sarebbe ancora più detestabile, se nella Medicina
seguisse , che lo Scolare si mostrasse ingrato al suo Maestro, mostreria
certamente, è una natura molto perversa, ò di aver perduto l'uso di ragione,
mentre qual gratitudine mai potria egli sperare, che non l'usò à cui tanto era
tenuto, quali progrefli mai potria fare, allontanandosi da chi gli porge la
mano per sollevarlo, e promoverlo? Credo,che un simile yizio, Ò Giovani
generosi farà sempre lontano dalle vostre menti, conforme deve stare dalla
mente di chi spera divenire Maestro, per il motivo di non aver à ricevere il
fimile contracambio da' suoi Scolari, che stimolati dal suo mal'esempio
faria facile facile loro riuscissero essi ancora ingrati.
Quindi è, chę Ippocrate per esimere li suoi Şcolarida un fimile
obbrobriofo ar- tentato gli faceva obligare con poliza e promettere
con giuramento le seguenti cose: Juro , & ex fcripto Spondeo
planè obfervaturum, Præceptorem quidem , qui me hanc artem edocuit
, Parentum loco ha- biturum , eique cùm ad viftum, tùm etiàm
ad usum neceffaria , grato animo communi- çaturum, & fuppeditaturum,
ejusque poftea ros apud me eodem loco 9.quo germanos
fratres, eofque, libanc artem addifcere volent,absque mercede, fyngraphâ
edoctu [ocr errors][ocr errors][merged small] rum &c. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Da un'altra poco inferiore ingratie tudine
spero vi guarderete voi, che ambite avanzarvi per la via delle virtù , & è,
che se sarete da qualche vostro come pagno fatti chiamare à dar consiglio, ò in
loro assenza sostituiti à curare tal* uno de' suoi Malati , non tramerete
contro loro insidie , per subentrare in sua vece , stanteche tal’enorme
ingratitudia ne, non è usata, fe non da quelli, che sono ignoranti, e che
diffidano per la buona via delle virtù potersi avanzare ; e per tal cagione si
servono di quella del vizio ; Onde con ragione consigliava Ippocrate al Medico
à non prevalersi delli Softituti ignoranti , ftanteche de’loro errori ne resta
debitore colui, che li propone, in questo caso però non ne re, steria punto
debitore, poiche pagheria il mancamento commesso con la sua elpulfionc , &
affinche non abbiate da ri, cevere fimile ingratitudine v'iinpegnerete quanto
meno potrete di promovere ignoranti, e maliziosi , 34 0 fono
e € L'Invidia, che per lo più proviene dalla mancanza di ciò, che
fi desidera, è da altri si vede possedere , come la po. trere seguitare senza
condannare voi stesi inabili à potere conseguire ciò, che bramate , avendolo
potuto ottenere un' altro vostro compagno, questa non vi avyedete, che vi fà
dichiarare da voi medesimi da poco, e codardi ? Onde impiegherete aflai meglio
tutto quel tenipo,e pensieri,che malamente li spregano [ocr errors][ocr
errors] in invidiare il bene altrui, con cercare di conseguire ciò, che desiderate
, per le sue yie proprie, & oneste, e credetemi, che questo vizio non regna
se non negli animi vili, e codardi , trà quali voi, che avete abilità, e
spirito vi dovete vergognare di esservi annoverati,e tanto maggiormente, che
questi viziofi furono da Democrito giudicati ancora stupidi, ed
ignoranti,allorche ad Ippocrate disse:(a) Et certè fufpicor pleraque in Arte
tuâ aut per invidiam, aut per ingratitudinem palàm contumeliâ affici ; & in
appresso dice , Cum fint ignorantes , quod melius eft dama nant , calculoruin
enim fuffragia stupidis attribuuntur, nequè ægrotantes fimùl ap probare
volent, neque ejusdem Artis focii bi teftimonio confirmare , cùm invidia
obfter Gr. Veritatis enim nulla eft cognitio, nei què teftimonii
confirmatio, Ed è certamente cosa assai difficile, i che li seguaci di
simil vizio poffino con tenersi nel semplice desiderio di ciò, che da
essi è invidiato, senza passar più oltre [ocr errors] ne (a) In
epift.Damaget. in procurarlo ancora , e con modi ignominiofi, anziche si
serviranno talvolta della calunnia, e dell'inganno, per confeguirlo, e vi pare,
che simili maniere fiano degne del vero Medico rationale ? Quando Ippocrate (b)
giurò, che : Medicum ratione utentem, alterum numquàm invidiosa calumniaturum?
Mà che siano modi praticati solamente da quelli, che Forensem quæftum fectantur
, trà quali non faria convenevole, che voi fofte annoverati. Mà acciocchè
possiate mantenervi lontani da simile obbrobrioso yizio, sarà necessario, che
vi dia alcuni utili avver. timenti, che sono: Vedendo yoi avanzare qualche
vostro compagno nellinegozj,è cosa nacurale,che fentiate dentro di voi un certo
stimolo, che incomincicrà da principio a farvi contriftare,e questo sarà
appunto il primo seme, che insinuerà dentro di yoi l'invidia per farvi divenire
suoi seguaci, di questo, affinche efla non trionfi di voi, è servitevene
disprone per avanzarvi ancor voi, con imitarlo, se il detto vostro
compagno opererà conforme si deve, ò di remora, fe vedrete ,
ch'egli si avanza per la via del vizio, ed in tal caso, con
riflettere solamente, che à voi non conviene d'in- vidiare ciò,
ch'è disdicevole al vostro onore, detto seme verrà in un tratto di-
Itrutto. In oltre sappiate, che non do- vete rimirare solamente
l'efteriore com- parla, che fà il vostro compagno, mà ancora
dovrete rillettere à quanti disag- gi, che talvolta soffrirà egli per
effajalle fatiche eccellive,all'inquietitudini grane di, alla
scarsezza del tempo, ch'egli hàg che gli toglierà ancora il riposo
necessa- rio, le quali cose se tutte le rifletterete , certamente
in vece d'invidiarlo , più tosto lo compatirete, e direte con Vir-
gilio : Non equidem invideo miror magis. A tempo di
Seneca vi era un certo vizio vagabondo, chiamato da lui Core curfatio, che
necessitava li suoi scguaci andar girando continuamente per las I 2
Città [ocr errors][ocr errors] Città allo sproposito cercando li negozi
senza aver prima determinato nella loro mente quali, mà solamente quei, che à
ventura si presentavano loro d'avanti, e questo tal vizio lo descrive
per un'inquieta dapocaggine, un perdimento di tempo, con non altro
profitto,che d'una certa stanchezza di corpo,acquittata per tanto girare ora in
quà , ora in là. Galeno, conforine egli riferisce nel principio del suo
merodo , fù da alcuni di quelli, che pareva, che l'anassero più degl'altri ,
stimolato fortemente à seguitare questo vizio, dicendogli, che se non
tralasciava d'essere tanto indagatore del vero, e non si accomodava allo stile
di quel tempo, d'andar girando tutta la mattina, à visitare per complimento li
Signori, e la sera d'andare à cenare seco, non saria stato amato, nè averia
contratto le loro amicizie, riferendolo appunto in tal guisa : Me verò ex iis ,
qui me unicè diligere funt visi, nonnulli fæpè increpant , quòd plus justo
veritatis studia Jim addiétus , quafi nec mibi ipfi ufui , niec
ipfis [ocr errors] [merged small][merged small][merged small][ocr
errors][merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors]
ipfis in totâ vità fim futurus , nifi, & ab hoc tanto veritatis
indagande studio defi- ftam, da manè salutando circumeam ,
vefperi apud potentes cænem. His enim artibus tum amari , tùm
amicitias conci- liari, tùm verò pro artificibus haberi
&c. Ed in tanto non volle egli condescende- re à
farlo, perche la giudicò per cofa impropria di chi era seguace di
ottimo Maestro, soggiugnendo in appresso da- poi averne
commendato alcuni di que- fti : At horum nemo , nèc mane
potentium fores ipfos falutaturus , nè vefperi cænatu- rus
frequentabat , fed ficut Hefiodus cer, cinit : Namque
alium ditem cernens cui deeft, quod agatur : Ipfe
folum vertit tauris, & semina ponit. Onde
fuggirete ancora voi simile vizio, se desiderate d'essere veri seguaci
d'Ip- pocrate. La Pertinacia, e lo spirito di
con- tradizzione sono due difetti nel Medico di sommo rimarço, e
non si possono per con [ocr errors][ocr errors][merged
small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] I 3 conto alcuno in lui
scusare ; se vi contaminasse mai il primo, vi costituirebbe ignoranti,
cogliendovi quella bella proprierà, che hanno li Dotti, ch'è : Sapientis eft
mutare confilium ; vi faria anche di peggio,che vi costituirebbe simili alle
bestie, perche farebbe divenire ancor voi incapaci di ragione , e perciò
venendo esclusi dal commercio degl'uomini savj cosa fareste infectaci di simile
vizio? Se poi, che Iddio je me liberi fofte invali da quel 'cattivo spirito di
contradizzione y guai alli vostri Infermi, perche venendo loro proposto da
altri ciò, che si deve, e voi non volendo, che fi eseguisse , mà più tosto in
vece di quello , altra cosa contraria, come anderebbe l'a cura facendosi à
vostro modo, se foste ancora pertinaci? Ippocrate insegnò à questo propofito
ciò che si debba Fare, e che ne risulti di male facendosi diversamentc , &
è:(0) Neque fanè indecorum fuerit fi Medicus in rei præfentis anguftiâ , circà
agrum verfaturz imperitiæ etiam tenebris circumfufus , alios quoque accerfiri
jubeat, quo communi confilio , que in rem agri sunt disquirantur, & illi ad
præfidiorum facultatem operas fuas confoTint; e cosa ne seguirà seregneranno
trà di essi questi vizj? De eo munimini ambitiosè contendere, se ipfos ludibrio
exponere, Sicchè voi , che sperate divenire veri Medici Ippocratici, vi
converrà tenere lontani da voi tali vizj, che tanto vi potriano
pregiudicare. etiam [C] Hipp.præcept. L'Avarizia fù talmente odiata
da Ippocrate, che se avesse potuto l'averia del tutto sbandita dal mondo,
poiche scrivendo à Crateva erbario famofiffimo de' suoi tempi, così appunto gli
manifeftò il suo desiderio : Quod si Crateurs amaram pecuniæ cupiditatis
radicem excindere poffis , ut nulla ejus reliquia extent, hoc probè teneto,
quod unâ cum hominum corporibus , etiàm malè affeétos purgaremus, fed hæc
quidem in votis habenda : Tanto scrisse Ippocrate, con tuttoche non gli fossero
ancora giunti à notizia li documenti di Demnocrito , cheportandosi poscia alla
sua cura in Abdera da lui medesimo sentì , trà quali vi fù questo contro
l'avarizia: (d) Quinàm enim Leo aurum defolium in terrum abdidit? Quinàm Taurus
, alienum ufurpandi cupiditate , ad prælium impetu quodam delarus eft &c. e
con ragione così esclamava Democrito scorgendo l'uomo caduto in tal vizio
peggiore de'bruti. Quanto mai cresca la deformità dell'ayarizia in chi è
avanzato negl'anni sentitelo da Cicerone:(6) Avaritia senilis vituperanda eft
maximè : Poteft enim quidquañ effe abfurdius , quàm quo minus via restat , eò
plus viatici quærere? Mà più d'ogn'altro la saria obbrobriosa nel Medico
, perche essendo stato da Ippocrate dichiarato fimil vizio per male più grave
della pazzia, cgli farà tenuto non solo di crederlo tale, mà ancora di
medicarlo, onde se in vece di far ciò lo procurasse, ecustodisse in femedesimo
con diletto , in qual trascorso egli incorreria? E certamente più grave,
e me [d] inefiß.Damag. [e] In Cat,Maior. [blocks in formation] e
meno scusabile faria, che in ogn'altro, per non aver egli apprezzato li
documenti d'un tanto Maestro, che sono li seguenti: (f) Miserabilis sanè eft
humana vita , quòd ad eam totam intolerabilis are genti cupiditas, velut
hybernus flatus pervaferit, ad quem morbum infania graviarem curandum , utinàm
Medici umnes potiùs concurrerent. E lo dimostra in termini precisi altrove , ()
dove così saggiamente consiglia : Neque verò exigenda mercedis cupiditate duci
oportet, nifi ut ad artem edifcendam tuos inftruas , fuadeoque nè in eo
inhumanitèr nimis te geras, fed & opum affluentiam, & facultates refo
picias, interdùm gratis cures , itaùt memoris gratitudinis potiorem,quàm præfentis
existimationis rationem habeas. Quòd fi thofpiti, vel egeno largiendi occafio
se te offerat his , vel maximè fuccurrendum eft. Qui enim erga homines humanum
fe exhibuerit, is artis amore teneri censetur. Cofa dirà l'Avaro , & altri
viziosi leggendo, tanti ottimi consigli, dati loro da Ippo crate? [f] In
epif. Senar. Abderit. [5] Inlibede prai: [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] crate 2 Mi persuado; che quello appunto , che diffe Quinto Pecilio
Pretore Urbano, riferito da Livio, allorche ebbe terto li libri di Numa
Pompilio, che erano stati tanti secoli sepolti : Se fe eos in ignem coniecturum
, perche , dos legi, fervarique non oportere; e questo perched non per altro,
perche egli era Pretore, e non gli compliva, che altri sapessero , che molte cofe,
ch'egli faceva erano mal fatte , poiche que' libri altro non contenevano, che
di rimuovere ciò, che non era ben fatto, e ciò, ch'era sommamente pregiudiziale
al popolo, trattandosi in quelli De diffoluendis falfis religionibus.
Questo vizio certamente non farà scusato da chi è di mente sana , nè da chi ben
riflette à quanti disaggi mai soggiacino li miseri Avari senza potersi sapere
ad utile di chi lo faccino. In beneficio proprio certamente che nò, poiche non
altro, che travagli ne ricavano dal cumulare, che fanno ; A prò degli Eredi 2
nè tampoco, perche se potessero immaginarsi , che gli Eredi volessero
go [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged
small] godere con ispendere liberamente, priveriano fubitamente dell'eredità,
fic. che di questi solamence Padrone ne rimarrà l'avarizia , inentre per
sodisfarla esi cumulano , c questa , che ne farà di tanti avanzi ? facilmente
non sapenda servirsene li consegnerà al lusso, affinche disipandoli in un
tratto ne impingui altri Avari. Ippocrate odiava il lusso grandemente, à
segno , che compose un libro contro di effo, ch'è appunto quello De Decenti
ornatu , nel quale non solamente incarica à Medici di fuggirlo , mà dà ancora
per cagione del lusso il modo di distinguere li veri Medici da Parabolani, de
quali ultimi parlando, così dice: Si enim conventu facto ambitiofa, e quem
fuofâ fuâ profeffione decipientes in urbium circulis verfantur, Quos ex veftitu
, cum cæteris ornamentis, quis cognofcere poterit, quin etiam quò fumptuofiùs
ornati fuerint , cà majori odio adversandi , ab eis, qui eos confpexerint ,
fugiendi ; dove de veri, e buoni Medici cosi ne parla : Quia bus
[ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] bus non ineft exquisitus,
nequè cariofus ornatus, qui fe fe excultus venuftate, cu frugalitate, non tam
ad fuperfluam curiofitatem,quàm ad optimam existimationem, prudentiam, e animi
moderationem compararunt , ad inceflum verò eo femper sunt habitu ; Sicchè dal
Medico seguace d'Ippocrate devesi fuggire il lusso per quanto gli preme la
propria riputazione ; certe mode straniere, e galanti non gli competono , come
si legge (b): Peregrie nus cultus immodicus calumniam tibi com. parabit .
Tiberio s'ingannò, allorche propoftofi in Senato di proibire il gran luffo di
quei tempi, essendo egli di sentimento contrario, persuadendoli, che in
lasciarlo correre à briglia sciolta, da se medefimo si faria stancato, e perciò
disse : Nos pudor , divites satietas, pauperes egestas in meliùs mutet; qual
vergogna ne' suoi {moderati succeffori punto non si mirò mentre in Nerone si
vidde à che segno s'inoltrasse il lufto. Mi persuado però,ch'egli si volesse
ingannare per altro fine politico, mentreche girandosi dal
lusso continuamente la ruota della fortuna , gli compliva più di
vedere tante muta. zioni di stato ne' suoi sudditi, che disau.
torato chi li cagionava, e tanto mag- giormente che avendo questo
vizio un dominio tirannico s'uniformava al suo governo . Tiraneggia
per verità il luffo li suoi seguaci , mentre l'impoverisce e vuole
eliggere da tutti gradimento di quanto male fà loro. Ordina , che
dalla Persia , e dall'Indie sia trasportato un drappo non più
veduto , forza li suoi sem guaci à prenderlo ad ogni maggior co-
ito, e fà, che oltre il gran dispendio ringrazjno quel Perfiano,
quell'Indiano ancora, che lo portò, perche appagò il loro desiderio
, li quali ne resteranno fa- cilmente ammirati, non meno di quello
ne rimanesse Tacito , allorche li Romani per abbassare gl’animi dell’Inglesi,
li fe- cero assuefare à molti costumi loro, e da essi non più
praticati, e l'appresero per foimo favore , mà ben se ne ayvide Ta-
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] cito del fine, che in ciò si aveva
dicendo: (i) Que humanitas cenfebatur, cùm efet Species fervitutis. L'Infedeltà,
e Fellonia sono vizi confederati, e detestabili in ogni qualità di Persone, mà
più d'ogn'altro nel Medico, posciache ogn'uno ciò, che ha di più prezioso, che
sono la vita, e l'onore glielo fida; Onde se csso mancaffe, à cui gli prestò
tanta fede, che gastigo mai li potrebbe trovare de' maggiori, che lo potesse
punire à bastanza , avendo commesso un reato di fimil forta, un mancamento di
buona fede ? Sicchè odiateli pure simili vizj esecrandi, conforme l'abborriya
Ippocrate, non volendo insegnare la Medicina à chi non aveva giurato prima sù
tutte le Deità ciò,che segue, cioè: (1) Nequè cujusquam precibus adducturus ,
alicui medicamentum letale propinabo , neque hujus rei author cro , nequè
simili ratione mulieri pellum subdititium ad fætum corrumpendum exhi
bebo, (i) In Vita Agricola. 11) In lurejuri Hippocr.
[ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] bebo, fed caftam, ab
omni fcelere puram, tùm vitam , tùm diatem meam perpetuò præftabo . Sicchè con
ragione, e con giusti motivi verrà escluso chi mai in fimili vizj cadesse
dall'effer vero Media co, e degno seguace d'Ippocrate, Non è piccolo
difetto nel Medico l'essere troppo curioso di quelle cose , che non fanno al
suo mestiere, conforme tra l'altre sono li fatti domestici de' suoi Infermi;
onde da tal vizio ye ne dovre. te aftenere,perche tal curiosità vi potria
tenere distratti da quel negozio, à cui dovete principalmente applicare, ch'è
il ben dirigere le cure de vostri Infermi, come y'astringe il giurainéro
d'Ippocrate,ch'è questo:In quafcumque domos ingrediar , ob utilitatem
Ægrotuntium intrabo. Mà di più di questa ancora può efa fere viziosa la
troppa curiosità delle cose moderne, e peregrine, e particolarmente ne' Medici
giovani, che non pofsedono ancora la Mcdicina à quellas perfezzione , che fi
richiede ; onde da questo vizio v'asterrete , sì perche vi fa [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] ria divagare inutilmente in cose,
che ancora dal tempo non sono state ben digerite , come ancora vi terria lontani
da ciò, che farà necessario di fare, cioè d'impossessarvi bene di quanto è
stato da molti secoli confermato, à segno, che diverreste periti nelle novità
incerte, rimanendo inesperti nell'accertate da lungo tempo , quali poscia
sentendole vi giugneranno nuove ,. sopra di che mi riporto à ciò, che disli
nella secondas Giornata , nella quale mostrai, come vi dovrete regolare per
divenire Medici. Solo ora vi foggiugno quello, che à questo proposito ne dice
Ippocrate, ed affinche meglio discerniate tutto il vizioso, per tenerlo lontano
da voi: (m) Multæ namque ad ambitiofam quamdam operam comparat& videntur ,
ea videlicet , qua de nulla re utili quaftiones agitant ; E quali siano le cose
utili nella Medicina, lo spiega in appresso soggiugnendo : Priusquàm verò ad Ægrum
ingrediaris , fac cognitum habeas quid agendum fet ;. ple(m) De
dec.org. che pleraque enim non ratiocinatione , fed au» dia
xilio indigent : E se ciò non fosse chiaro ida à sufficienza passiamo al
libro De Fractua cioè ris, dove parlando de' Medici , qui sao da
pientiam fibi falsò arrogant , così chiaracha mente dice : Verùm enimverò multa
hoc stil modo hac in arte æftimari folent. Quod la enim peregrinum eft , nèc
dùm conftat an en utile fit, confueto, quod jam norunt utile elle anteponunt
, quodque ab ufu communi day abhorret ei, quod eft probè cognitum ; e non evi
vi sia discaro di sentire quanto mai à ci proposito redarguisce Ippocrate
coloro, ei che vanno cercando le belle idee : (a) ei Hujufmodi igitur ,
ubi præellem non tàm de vi curandi ratione cum illis conferrem, verùm, m ut
auxilium ferrent audactèr peterem : Veo d. nuste enim cognitionis intelligentia
apud eito istos Sparfa eft , cum igitur , bi ex necesitait; te indocti
existant, eos ad utilem exercitaci- tionem cohortor, ubi prçceptorum cognitione
.: deftituuntur. L'Ozio padre di tutti li vizj, se non t; lo terrete
lontano da voi, vi potria farperdere tutto ciò, che di buono aveste mai
acquistato; Egli è capace di farvi nauseare le virtù , d'arrestarvi nel mezo
della vostra carriera, d'abbatęrvilo spișito , e finalmente di trasfigurarvi in
quella mostruosa figura, che più sarà di suo genio, e sențite appunto, come ne
parla Ippocrate di questo pessimo vizio: (b) Quod enim otiofum eft , nilque
agit ad improbitatem viam affectat, ad eamque rendit ; Talmente che per
divenire voi yeri Mcdici, dovrete fuggir l'ozio , deftruttore d'ogni yostro
bene; c per ciò farç, vi dovrete ancora astenere dalle frequenti musiche, dalli
ridotti de' Novellifti, e da altri consimili divertimenti, ne? quali non si
puol'acquistare altro, che dį pascere inutilmente la curiosità, ed il proprio
genio , e ciò con ragione fi puol giudicare tempo perduto, perche profitto
alcuno da essi non se ne ricava. Gran infortunio sarebbe della Me.
dicina, quando v'entraffe la Malizia à corteggiarla, avendo questa già
impa rato (h) Dedecenti babits, [ocr errors] rato adimitare
tutte le bạone virtù con finzioni soprafine , ed in che guisa, ne parleremo più
diffusamente in appresso; Solamente ora vi avvertirò, che se tal? uno di
yoi reftasse mai inferrato da fimi31 le vizio diyerrebbe subito uniforme à 1
quei Medici descritti da Ippocrace :(9) Qui quidem Perfonarum, quæ in
Tragediis producyntur maximè fimiles esse videntur ; mentrechę farebbe
tante comparse difi ferenti, quante gliene dettasse la sua madi lizia nelle
congiunture à lei opportune , ci mà come termineria la tragedia lo moAd stra
Ippocrate chiaramente doppo aver N avvertito, che Orium , ignavia mali
tiam quærunt, soggiugnendo: (d) Hi enim - Sunt, qui fora frequentant ,
ruditate, ac Ti infcitia sua imponentes, & circulis Civita tum
verfantes ; Talmente che per non cheffer yoi posti nel numero di
Parabolani necessariamente vi converrà fuggire , afe e detestare fimil
vizio . Il timore, e l'ardire , con tuttoche K 2 sem- (c) In
Hippocratis lege. (d) Hippoer.de dec. habitu. [ocr
errors][ocr errors] 2. [ocr errors] sembrino trà di loro contrarj,
nulladimeno vengono molto biasimati da Ippocrate nel Medico, dichiarandoli in
lui per segni viziosi d'ignoranza, dicendo egli : (e) At verò imperitia malus
eft thefaurus , malaque opes reconditæ iis, qui ram tùm opinione ipfi, tùm
revera possident fecuritaris animi, du lætitiæ expers, timiditatis, &
audaciæ nutrix; Ac timiditas quidem impotentiam , Audacia verò artis ignorationem
arguit. Perloche non di potrete nè segúitare, nè scusare, nè anco sotto lpecie
nel primo di circospezzione, e nel secondo di spirito, perche diversi sono trà
loro il timore, e la circofpezzione, l'ardire, e lo spirito . Il timore vi farà
perdere l'occasione pronta , che vi si presenterà di operare per non faperla
voi conoscere, ma non già la circospezzione, che nasce dal poffe dere molto
bene ogni danno , ed ogni profitto, che ne poffino risultare da ciò, che voi
farete, onde questa vi renderà folamente per breve tempo irresoluti, e
fino (e) Hipp Text. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] e fino a tanto,
che averete bilanciato il bene, & il male, e conosciuto, ch'avrete quale
delli due prevalga , sarete prontissimi esecutori di quanto avrete deliberato.
L'ardire poi per essere temerario vi porterà con violenza ad operare , onde non
vi farà diftinguere quando ve ne dobbiate servire , dove, che lo spirito , che
vi rende perspicaci, & accorti, Ve. lo farà ben capire , quando fia tempo.
opportuno di farlo, conforme egregiamente avverti Ippocrate : (f) Temeraria
namquè proclivitas, do promptitudo,quam. vis valdè fit utilis, despectui eft ,
at confiderandum quando bis uti liceat. L'Odio è un vizio, che trà li
maggiori può divenire il primo, quando fi stenda fino alli ultimi confini della
sua iniquità, cioè alli benefizj ricevuti, pafsando allora à quell'esecrando
reato , che solamente trà gl'uomini regna, esfendone le bestie più fiere
esenti, conforme da tanti esempj registrari nello Istorie si può comprendere,
& in ispecie di (f) In lib.de Medica [merged small][ocr
errors][merged small] K 3 [ocr errors] [ocr errors] di quel fiero Leone ,
che nell'Anfiteatro Romano il' véce di divorare il suo Beriefattore condannato
ivi ad bestias, lo difese dalla violenza delle altfc, mà quellos che si rende
più considerabile, si è, che alle volte' , quanto č maggiore il benefizio,
tanto più viene perseguitato dall'odio, giacchè al parere di Tacito: (g)
Beneficia coʻusquè leta sunt , dùm videntur exfolvi poffe, ubi multum antevenere
pro gratia odium redditur; Darebbe l'animo à voi non dico di seguitare' vizio
sì obbrobrioso, e ripugnante' ad ogni in il pretesto del naturale di chi
lo segue , inclinato a farlo, per non potersi moderare. Senticenc però prima
d'impegnarvi à ciò, cosa ne diffe ad Ippocrate, quel grand’amatore della
giustizia Democrito:(b) Plerique' verò quæ natur& hoc adSéribentes
Benefactorem odio' habent, co parům abeft ut indignè ferant fi debitores effe
puténtur , fed eu pleriquè artis ignorantiam in se ipfis habeotes, a
imperiti (g) Annal. lib.4. [h]. Epiß. ad Damageexiftentes, id quod meliùs
eft purgant intero stupidus enim fiant suffragia. Talche il
solo sospetto d'essere infetti da un fimile vizio, vi renderia
incapaci per sempre di quanto voi bramate conseguire. Quanto
mai sia difficile d'esprimere tutte le trame dell'ingarinoz ed
impostu- ra, sentitelo riferire da Ippocrate in tal guisa : (i)
Difficile eft multorum malorum machinatricem folertiam verbis exprime-
re, cum eorum fit infinitas quædami din bis cum dolofis conimentis prava
mente in- ter le conversentur; apud eos autèm virtu- tis modus
habetur , quod eft deteriùs; men- dacia enim amant, do in bis fe
exercent, voluptatis ftudium extollunt; legibus mini- me
parentes a Certamente che meglio non fi poteva da Ippocrate
esprimere l'inganno vizio tanto diletto da' maližiofi Impostori, mentre da
questi li modi più improprj, che si praticano sono credati per loro virtù , nè
fi seguita da efi altro studio, che della menzogna, nè fi atten de (i) In
epist.Domaget. [merged
small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] K 4
1. avendo de ad altro, che à piaceri,
e diversi- menti, fenz'alcun timore di gastigo. Le tristizie di
costoro non si pofsono mai à bastanza esprimere, stanteche,
fingen- dosi questi Mcdicis con modi improprj. accreditano li loro
medicamenti , non punto di rossore ne di servirsi di testimoni
corrotti, che con menzogna: attestino il gran giovamento, che das quelli ne
ricevettero con tuttoche non se ne fossero mai prevaluti, nè di ripromettere
ne' mali incurabili quella certa salute, che non è in potere de' Medici,
, quantunque espertislimi , il farla conseguire ; In oltre giudicano
graviffimi, e inortali tutti quei mali, benche di sua natura leggieri , purche
rechino aglo Infermi qualche apprensione, affinche credano questi esfere stati
mediante la. loro virtù risanati , e d'avantaggio , per non essere riconvenuti
d'aver errato ne? pronostici, parlano con doppio linguag. gio , à tal’uno
diranno, che quel tale Ammalato deve necessariamente morife,& ad altri, che
deve infallantemente mie [ocr errors] rllanare, per avere pronto si
nell'ano, che nell'altro evento chi contesti la loro, fimulata perizia in
sapere ben prevedere gl’esiti de' mali; Milantano in oltre costoro i loro
grand’arcani, con i quali fi vantano d'avere refuscitato molti, già fatti spediti
da Medici. Solamente dico. no con verità, che in mano loro niuno. muoja, perche
ridotti che li hanno in: pessimo stato di salute, abandonano li loro Infermi,
non potendoli più lusingare con le solite false speranze di salute, de' quali
prima fi servivano per ifmugnere le loro borse. Per inantenersi poi in
creditozli pongono forto alte protezioni, e sfuggono d'incontrarsi con Medici
dotti, ed esperti, non porendo ftare à fronte con chi ben sa discoprire la loro
ignoranza . Al divino Ippocrate furono note alcune di queste verità, mentre
egli (1) così ne parla : Qui igitus in ignorantia profundo fubmerfi funt , ij
prædicta ( cioè l'operare con ingenuità) minimè percipiunt , cum Medici nomine
iz digni [] Intib.præcepat [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] 'digni re ipfà comprobent ; quàm repente evetti fint , fortune
tamén egentes per die vites quofdam ex anguftiis emergunt viri- que
es éventu nominis celebritatem adepti &c. ed in appreffo : Qui certè
ad curatio- nem non accedunt ; ubi vident miserabilcm effe
affectionem, c ejulatibus plenam, alio- rum-Medicorum congreffum fugiunt;
e in altro luogo: (m) Qui igitur eos reprébena dunt qui viltis à
morbo manus non admo- vent , non minùs adhortantur ad ea fufci-
pienda , quæ attingere fas non eft ; quàm que fas eft , in eoque apud eos
qui nomine tenus Medici sunt admirationem fibi conci- liant , ab
artis verò peritis ridentur. Mà crescerebbe più oltre ancora
l'iniquità di costoro, quando ; che unisfcro alle loro male arci l'ippocrisiaj
conforme che più volte si è osservato' ins ral'uno di essi,che postosi adosso
un'abito di fimulata penitenza, e' čutto umile con li seguenti artificj
procurava di maggiormente accreditarli. Introdotto, ch'egli era clandestinamente
in qualche cura (m) in lib.de Arte, čura, doppo di aver fatte
molie insolite, ed affetrate offervazioni intorno all'Ammalato, cosi
incominciava à parlare : Io coinpatisco infinitamente li Signori Medici, che lo
curano s perche questo è un male'assai oscuro , e difficile à ben curarsi, non
essendo ciò da cutti, fin qui scorgo , che hanno fatto tutto quello , che
sapevano", nè io drdisco di biasimare ciò, che fino ad ora harino fatto,
perche quest'abito ; che porto in doffo non mi permette di dir male del mio
prosimo, nè di togliere la riputazione à Profeffori cotanto accreditatie tanto
maggiormente, che quando anche non foffe ftato fatto a fuo' dovere ciò, che si
è fatto sin’ora', non siamo più in tempo d'impedirlo, dico bene , che io
peccherei mortalmente, se non' dicelli libera.. mente ciò, che debbasi fatie in
avvenire, questo male à conto mio và curato in tal guisa : Primieramente gli si
devono dare i tali, e tali' rimedi , e dipoi develi fare in questo modo, e ac
fi opererà diversamente, io mi protesto che questo poveroInfermo se ne morirà
quanto prima ; e lo. vedrete con vostro cordoglio. É fe tal
uno degli astanti più prudente lo prega- va d'abboccarsi con li Medici
della cura, à fine di comunicar loro questi suoi sen- timenti, ei
ricusava tal congresso, con pretesto , ch'essendo odiato da tutti
li Medici per la sua ingenuità, e dottrina non fariano mai
condescesi à quanto di buono egli avesse proposto, onde , che
reputava non solamente superduo tale abboccamento , må ancora non
pratica- bile da un suo pari, che deve,per l'umil- tà, che
profetava, effere injinico delle difcordie; onde avessero pure fatto
ciò, che ad esli pareva , e piaceva , bastando- gli d'aver
accennato il gran pericolo, ed il modo insieme più sicuro da sfuggirlo
per mera carità di giovare à quel povero Infermo così aggravato , non già
per in- teresse alcuno, da cui egli n'era lonta- nisiino. Infinite
confusioni cagionarono simili parole pietose in più cure , stante-
che tal’uno de' più creduli, che vi si tro- vorno presenti, diffe : Sentiste
, con che [merged small][ocr errors] modestia parlava quel
sant'Uomo, se non fosse così scrupolofo, oh quanti errorici averia discoperti,
commesli da' noftri Medici ignoranti in questa cura ! Si vede però, ch'egli
intende, perche hà fatto certe osservazioni particolari intorno all'Ammalato,
che non le abbiamo vedute fare da' noftri Medici. Ed altri di più consigliavano
à licenziare tutti li Medici per farlo curare da esso folo, per-. fuadendofi,
ch'egli l'averia certamente guarito . Quali danni ne riportino li poveri
Infermi da costoro, che Medicorum congreffum fugiunt,gli espresse assai bene, e
con pochissime parole Ippocrate nel sopracitato libro , dicendo ivi; Ægroti
verò dolore conflictati in utrâque improbia tate natant ; cioè in quella dell'ignoranza,
e dell'inganno di simili viziosi Impostori. Quello però, che reca non
ordinaria meraviglia si è, che il popolo più volte caduto à dar fede à fimili
viziosi Impostori con danno notabile, & evidente della propria falute
ritorna di bel nuo nuovo a creder loro , & à restarne insieme
nuovamente deluso, conforme ancora che con tutto abbiano questi nociuto à
molti, niuno contro di essi dell'offesi ne fà risentimento , e la cagione di
ciò / non puol'essere altra, che godono questi quel vantaggio, che hanno le
donne di mala vita, da cui ne s'allontanano molti, che da esse furono
danneggiati, nè alcuno contro di esse ne fà rilentimento proporzionato al male
ricevuto', e ciò cre. do, che segua sì nell'uņo, che nell'altro caso,per la
vergogna,che ogn’uno di essi hà di manifestarsi con atto publico per imprudéte,
onde perciò pazienta,e ţaçe. E finalmente se per disaventura un fimile
yizio contaminafle mai il Media co dotto, ma politico, oh quanti danni ancor
peggiori di questi apporteria à molti, posciacchè inestandosi al ben radicato
sapere l'inganno , e l'impostura , che frutti velenosi mai produrrią unas
fimile pianta ? e nocenda questi senza effere creduti nocivi, non solamente trà
l'idioti , mà ancora trå li più cautelati, e cir. ) ) e
circospetti troveriano lo smaltimento, c per non diffondermi più oltrc, dirò
solamente che il Medico dorco, e politico, quando che fosse divenuto Impostore,
avendo egli perduto la sua ingenuità diverrebbe allora non solamente tiranno
de' suoi Infermi, facendo loro arţificiosamente credere , che da esso depende
lą loro falute, anziche la vita isteffa , e che non poțriano nè pure un momento
di più yiyere, quando si allontanassero dal suo consiglio,& ajuto,mà ancora
di tutti gli altri Professori ingenui , potendoli conculcare à suo piacere per
prevalersi egli delle frodi somminiftrategli dall'inganno, alle quali non
potendo contraporre le proprieşper esserneprivi,conviene loro cedere , per non
sapersene schermire, giacchè Års luditur Arte. Fuggite dunque yoi, che ambite
di mantenervi ingenui, e divenire veți Medici fimil vizio, e voi, à cui specta
d'invigilare alla publica salute. Non tantum tollerate nefas hanc tole
lite peftem. Ded [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr
errors] Del miserabile vizio dell’Ignoranza poco sarà d'uopo parlarne, sì
perche vi è già nota la sua deformità, sì ancora perche vi vedo incaminati à
gran passi per la strada della sapienza,solamente vi riferirò per vostra
consälazione, affinche prestamente ne diveniate veri possessori di questa, ciò,
che Ippocrace à questo proposito insegnò, con una bella somi glianza ,
& è: (n) Non alitèr enim ac Miniftri , & Miniftræ in domibus
tumultuantes, ac ceriantes , fi quando de repente eis hera adfuerit, attoniti
conquiefcunt , fimilitèr etiàm reliqua animi cupiditates malorum, hominibus
funt administre, at ubi fapientia in conspectum fe dederit, tanquàm mancipia
reliqui affe&tus difcedunt. Insegna parimente Ippocrate nell'iscoprire li
seguaci di tal vizio il modo da conoscere li Medici ignoranti, mà di ciò non
devo parlarne, perche il mio fine è diretto à detestare li vizj , fenza andar
cercando li viziosi. Non però tacere devo il gran danno, che questi
apportanoalla povera Medicina riferito da Ippocrate irel principio della sua
legge in tal guisa : Omnium profectò artium Medicina nobilisfima, verùm propter
eorum , qui eam exercent ignorantiam c. omnibus artibus iàm longè inferior
habetur . Finalmente con la Maledicenza terminerò io ancora di dir male
de vizji questa è un vizio assai incivile, perche opera sempre contro li buoni
costumi, e contro la civiltà , questa certamente non si dovrà seguitare da voi,
venendovi da Ippocrate tanto proibita nel libro : De Medico, che in tal guisa
incomincia: Hoc fcripto Medico imperamus, eo dicimus, dove tra l'altre cose,
che coinanda vi sono le seguenti: Ut animi temperantiam excolat , non
taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquâ totius vitæ moderatione , bom nis, ac
honeftis fit moribus, & æquus in omni vitæ confuetudine fe præftare debeat
; Le quali cose come le potrete osservare, essendo maledici ? Ed affinchè
meglio comprendiate quanto il ben moriggerato Ippocrate odiasse questo vizio,
passia L mo [ocr errors] mo à rillettere ciò, ch'egli dice
nel libro De Arte , il quale comincia così : Non nulli turpitèr in
sectandis artibus artifi. cium suum collocant , neque id,
quod facere Se credunt meo quidem judicio obrinent , sed
Jue scientia oftentationem faciunt aci E poi soggiugne : Qui verò
ea, quæ ab aliis sunt inventä inhoneftorum verborum arti- ficia
contaminare contendit , nequè quida quàm corrigit, fed à
peritis inventa, apud imperitos traduçit . Is fanè prudentice exiftimationem
tueri velle non videtur , fed potiùs naturam fuam, aùt ignoratiam nem malitiosè
prodere : Solis enim artium ignaris, hoc opus competit, qui ambitiofiùs quidem
contendunt , neque tamen improbie tate suâ ullo modo præftare poffunt, ut
aliorum opera, vel recta calumnientur , vel non recta repræhendant : Eos igitur
, qui in alias artes hoc modo invadunt,coerceant, fi poffint , quibus hæc cura
eft, quorumque id intereft. Vedete voi à che segno odiava il divino Ippocrate
li maledici, che voleya , che fossero ristretti , essendo indegni di convivere
tra uomini di ono. re [ocr errors] [ocr errors] re. Crederei, che
quanto hà detto cosi chiaramente , & al propoliço Ippocrate vi pofsa
bastare per odiare un limil vizio, e tanto maggiormente se rifletterete, che
quanto voi direte di male degli altri, altri ancora ne potranno dire di voi ,
ficchè parlate bene degl'altri, Ò tacete Țacerò ancor Ia per non
nausearvi di vantaggio nel descrivervi la laidezza di tutti gl'altri vizj,
sperando , che ciò, che vì hò detto di questi pochi,pofsa baftare, per farvi
prendere odio a tutti gli altri, ed à quel segno , che li viziofi lo porteranno
facilmente alle virtù, qual? odio pero spererei, che in un subbito deponessero
į viziosi , se spogliati per pochi momenti d'ogni loro difetto, si aboccaflero
insieme con effe, allora cofa disebbono sentiamolo da Seneca; (a) Quidquid
opravi inimicorum execrationem puto ; Quidquid timui Dii boni quantò melius
fuit , quàm quod concupivi cum multis inimicitias gefi, & in gratiam ex
odio res L 2 dii (a) De Vita beata cap.2. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] dii buc. quid aliud quàm telis me opposui dc. Avere inteso come parlerebbero bene li viziosi se
avessero la forte dili berarsi da? loro difetti solamente per breve tempo,
approfittatevene dunque voi, giacchè per sempre, se vorrete, potrete effere di
mente capaci di conoTcere la loro deformità, e fuggirla. Mà quando mai credeste
per cosa molto difficile di potervene affatto spogliare, fate almeno, che con
le vostre virtù vi si fra. meschi solamente tanto di vizioso, quanto
communemente si tollera nell'oro di lega bassa , c non più , che non arriva ad
avvilirlo, nè à fargli perdere il suo vago Splendore. Passerò ora alla
seconda parte per esaminare se li vizj ermafroditi si possino alıneno tollerare
nel Medico. Per vìzio ermafrodito intendo quello, che dalla malizia , e
dall'inganno viene talmente trasmutato in virtù, che difficilmente si potrà
discernere, se prima non si scoprono le sue parti vergognose, che و
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] che fino ad ora non hanno
sapuco, ne potuto ricoprire. Sia per esempio, se la malizia,e l'in-
ganno vogliono , sono capaci di trasfi- gurare così bene la
superbia in umiltà, l'iniquità in zelo di giustizia , che
diffi, cilmente senza l'ajuto del disinganno , che
scopre le loro vergogne , li potranno distinguere. Nel prino caso
si serviran- no facilmente de' seguenti artificj. Da-
rete à suo tempo voi un'opera alla luce, ò vi riuscirà felice
la cura di un male grave, è cosa facile, che ne abbiate del
compiacimento interno, e questo avvan- zandosi più del dovere, è facile
ancora, che palli à farvene qualche poco insu- perbire, di
quell'opera, di quella bella cura, cosa faranno la malizia, e
l'ingan- no per farvene affatto insuperbire ? Ri. copriranno la
piccola vostra superbian con il manto dell'umiltà , & in
congiun- tura, che sentirà lodarvi gl'insinueranno in tal guisa à
rispondere : Questo non so- no cose degne di lode, sono bagattelle,
non meritano d'essere lodare da un Vir: L3 tuofo suo pari, sono parsi di
un debbole ingegno ; Chi sentirà si limili risposte resterà sorpreso da üná
tanta umiltà, ed állora maggiormente s’infervorirà dilo darvi, entrerà nelli
meriti della causazed allora appunto avranno compito il loro negozio,in farvi
maggiormente insuperbire, che cosa converrà fare per iscoprire le vergogne alla
in ascherata superbia , per conoscere se quella umiltà sia stata vera ; ò
fimulata; bisognerà ricorrere al disinganno, che la scopra. Aspetterà questi
facilmente la congiuntura proposito, & in vece di lodaryi dirà tutto
quello, che la finta yostra umiltà aveva già detto di voi, con qualche par,
ticolarità di più, che sarà vera , sì perche il disinganno non mentisce; sì
ancora perche i chi è capace d'insuperbirli, non essendo di gran prudenzaś può
in qualche cosa trascorrere ; Allora sentendosi la superbia toccata sul vivo
lacererà in un tratto il bel manto dell? umiltà, e da se medesima mostrerà le
fue vergogne rispondendo : Come ! non fono [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors] ز sono cose degne di lode? sono parti di un
debbole ingegno sono bagáttelle? sono tutte cose d'eterna memoria ;
voi non le capice, perche liete un'ignorantë. Che ne dite ? questa
è quell'umiltà, che una volta parlava così bene; è forse scu-
sabbile nel Medico avendo questa un naturale si fraudolento? Mi persuado
, che ora, che la conoscere ; non la scuse- rete, anzi la
biasimerete più costo. Nel secondo caso se venisse in pen-
siero à tal’uno, che Iddio non voglia, di promovere al
servigio d'un'Ipocondria- co da lui curato qualche suo
amorevole, mà dovendosi rimovere chi attualmente lo serve, e
competencemente bene, sen- za l'ajuto della malizia, e
dell'inganno.». non si poiria ciò effettuare. Questi cacci-
vi vizi per servirlo, che cosa faranno ? procureranno di
vestire l'iniquità con abito di zelo di giustizia, e che diča
à quell'Ippocondriaco, ch'è vero, che viene servito
bene da quel suo Ministro, mà che premendogli tanto la sua salute,
il suo zelo, & il suo obligo richiedono [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] gli procuri sempre li
suoi vantaggi, ed in ispecie trattandosi di propria salute, e di salute, che
gli premetanto, per 12 conservazione della quale il Signor Tale foggetto nel
suo mestiere unico, che non hà pari, saria veramente à propofito , mà non per questo
è dovere di far perdere il pane à chi lo ferve, si dice solamente, che lo
sappia , che vi è chi lo servirebbe assai meglio, caso che capitasse mai
congiuntura ; Fatti, che hà l'iniquità questi projetti ad un'Ippocondriaco, che
non brama altro, che vivere, con tutto quel di più di male, che sentirà
dire per altre vie di quel povero galantuomo, che lo
serve,procurate da chi vuole lubentrare; Credete voi, che non si
effettuerà fimile tentativo dall'iniquità? Forse prima di otto
giorni farà espugnata la Piazza, perche tanto si batterà, che si farà
brec- cia, e vi si porrà dentro, e di sì bella impresa ne trionferà
la sola iniquicà. Voglio, che sia vero , che il Ato ne sia capace,
má vediamo un poco se il fine è stato retto, e se il zelo digiu- stizia
1 che il propo [ocr errors] [ocr errors][merged small] stizia ne fù
egli il primo motore? Chi avrà procurato simile ingiustizia , certainente, che
non sarà molto eccellente nel suo mestiere, perche chi è tale, è ancora giusto
, e prudente, dunque ve ne saranno de' più esperti di lui. Ciò supposto
procuriamo, che il disinganno ne faccia le sue diligenze, e questo facil. mente
farà infinuare al sudetto Ippocondriaco, che giacchè hà megliorato nella
mutazione di quel suo Ministro, procuri ancora di mutare il Medico , e ne trovi
un'altro megliore di quello, che ha presentemente, e piacendogli
tal'insinuazione, cd effettuandola, cosa dirà colui, quando si vedrà fuori del
servigio? fi lamenterà forsi del torto, che gli ha fatto, avendolo tanto tempo
ben servito ? mà di chi si lamenterà? dovrà dolersi di se medesimo, perche gli
è stata fatta quell' ifteffa giustizia , ch'esso hà procurato foffe fatta
altrui; Dà dunque a conoscere chi operò in questo modo, che non ebbe per fine
il zelo di giustizia , perche questo non gli è piacciuto, mà forse ne
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ebbe [ocr errors][ocr
errors] ebbe qualchedun'altro di quelli, che low no chiamati secondi fini, cosa
ne dite voi di questo vizio ermafrodito & vi pare di poterlo scusare nel
Medico; e se ve ne fofreche non credo ; tal’uno trá efi to scusereste forse ?
Io per me lo scuserei nella forma appunto , che diffe di fimili viziofi
Democrito ad Ippocrate: (b) Cum igitur tot indigenas; e miferas ánimas videamus
quomodò eorum vitam ejusmodi intemperantja deditam ludibrio. non bao beamus
2 Molte altre frodi,tramåte dalla malizia, e dall'inganno potrei orá
riferirvij fe non dubitäsli, palesate; che fosseros che tal’uno ( di voi non
dico , che siete di ottima inclinazione ) sentendole riferire se ne potesse
abusare; onde in ciò procurerò con Tacito più tosto Artem oblivionis , quàm
memoria. Avete già udito la gran deformità de' vizj, il danno, che
apportano a'suoi seguaci, ed il non doverfi seguitare ; nè fcufare in conto
alcuno , che possonofervirvi di motivi efficacissimi per tenerli lontani da
vois purche non si siano di già radicati ne' vostri cuori, nel qual caso faria
necessaria la gran Medicina proposta da Ippocrate per isvellere affatto li
vizj, ch'è la seguente: (C) Equidem omnes animi morbos vehemences(che sono
appunto i vizj) insanias reputo ; cùm opiniones quasdam, da vifa rationi
fufcitant, ex quibus fanéscit s qui per virtutem repurgatur.Preparerò dunque
per la Giornata di domani la sudetta Mediciija,dalla quale se ne avrete bisogno
rimàrrete certamente sanatis casos che nò, preservati almeno da fimili
infezioni, in avvenire . Venite tucci, che vi aspetto con desiderio ; perche
sarà Giornata di molto profitto quella , in cui si parla delle virtù.
[ocr errors][merged small] [blocks in formation] Nella quale. fi discorre
dell'acquisto delle virtà, e del bene , che apportano al vero Medico , e se
alcuna di effe fi poffa in lui cenfurare non Vanto mai sia
infelice, e miferabile la condizione umana,lo dimostra. 110 non
solamente li vizj,mà anca. ra le virtù, posciacchè li primi,che tanto nuocono,
spontaneamente in noi germogliano, e le seconde, che sono così utili,
senza reiterare fatiche, & una lun. ga , & industriosa coltura si
acquistano. Appena nasce l'uomo, che in lui subitamente l'ignoranza si
manifesta, e quel primo vagito , che dà n'è il primo contrafegno , mentre non
ne sà ancora il perche egli lo faccia : Cresce, ela malizia fi scopre, l'ira, e
la gola si manifestano ; S'inoltra nella gioventù , e la lussuria si risente, e
di mano in mano , che gl’anni fi avanzano, li vizj tutti un dop
[ocr errors][ocr errors] doppo l'altro fi veggono germogliare; Con
ragione dunque disse Democrito : (d) Totus homo ab ipfo ortu morbus eft
; e ne assegna la cagione : Talis enim ex materno cruore Sanie
permixto promicuit Infelice , e miserabile dunque condizio ne
umana, che per fare acquisto di ciò, che l'è nocivo, punto non hà
d'affaticar- si, perche spontaneamente li vizj li fan- no
possessori di noi, essendo concepiti, e nascendo con noi medesimi, e
questa è la cagione, perche erunt vitia donec homines, dove, che
per ottenere ciò , ch'è di nostro sommo bene dupplicate fatiche si
ricercano; La prima delle quali consiste nello svellere da noi le tanto
im- poffeffate radici de vizj, e l'altra d'an- dare à poco à poco
introducendo in sua vece li semi delle virtù, e ciò non basta,
perche conviene ancora di cuftodirli fino à tanto, che siano assicurate bene
le loro radici, per non essere dove sono se, mentari suolo nativo.
E perche ò lante virtù spontaneamente ancor voi, ccon quel(d)
In epi.2.Damaget. [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr
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quella medesima facilità non germoglia.. te in noi per renderci felici?
Conosco, che voi fiere un'attributo divino, ma non per questo, vi dovęte tanto
sdegnare di unirvi con noi, che siamo creati ad im. magine, e fimilitudine di
Dio, conosco ancora, che per ricevervi li richiede abitazione espurgara da ogni
iminondezza, pura, e proporzionata à voi, e se per questa cagione voi state
lontane da noi, la colpa non sarà la vostra, mà bensì di noi medesimi, che
siamo quelli, che vi impediamo l'ingresso, e che ritardiamo si gloriofe
conquiste, che ci possono rendere beati, con trascurare ciò, che voi
richiedete Oggi sì, che voglio far prova di voi per conoscere à che segno
liano gli animi vostri generosi, e se avere ancora acquistato l'uso di ragione
, potendo, se vorrete, ciò che si trova d'infelice in voi commutarlo in
prosperità, e ciò, ch'è disgrazia in fortuna: Accingetevi pure, se ne sarete
sprovisti, all'acquisto delle belle virtù, se ambite divenire Semidei,
dicendo apertamente Ippocrate, (e) ches Medicus Philofophus Deo &qualis
habetur ; e cosa voglia intendere per Medici Filosofi lo spiega divinamente in
appresso, cioè quelli, che habent , quç faciunt ad demonstrandam
incontinentiam, quatuoSam, ac sordidam profefionem, inexplebilem habendi fitim
, cupiditatem , detraa &tionem, impudentiam ; che sono per l'appunto quelli,
che seguirano le virtù , ed hanno in abbominazione li vizj. Sbandito
dunque , che avrete da voi ogni vizioso inquinamento, e perciò renduti più
capaci dell'acquisto delle eroiche virtù, proporrò in primo luogo ciò, che
concerne alla Religione, come quella, ch'è la suprema di tutte le virtù, &
ancora la loro base fondamentale, in cui sono appoggiate tutte le altre.
La Religione quanto debba essere àc cuore al Medico, sentitelo da
Ippocrate: (f) Hactenus igitur cum sapientia, communionem , eorumque etiàm
plurima habet Medicus, nam & Deorum cognition [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][merged small] дет (C, &f) Hippode $65.0TMnem ipfe
potiffimùm animo complectitur , cumque aliis in affe&tibus , & casibus
Medicina multum Deos colere comperitur duc. e tutto ciò lo afferisce dapoi di
avere insegnato, che nella Medicina vi era ancora: Superftitiofi metus
aversatio preAantia Divina . E non solamente à benefizio vostro ciò converrà ,
che facciate , mà ancora à prò de' vostri Infermi, perche venendo ogni bene dal
Cielo , nelle vostre più gravi, e pericolose cure converrà , che non vi fidiate
della vostra fola perizia, mà ancora, che supplichiate Dio, che vi assista con
la sua santa grazia à bene indirizzarle; qual pio sentimento si ritrova ancora
descritto in Ippocrate, e dato à coloro, che disprezzando gli ajuti Divini , fi
raffidavano solamente ne' loro incantesimi, à cui cosi parlò risentitamente;
(8) Quos contrafacerc decuerat, facra facere nimirùm , & precari , ad
Templa deducere, Diis fupplicare ; e sotto dice: Maxima ergò, fceleratisima
peccata Deus expiat , dapu rificat (g) De morbo facro.. rificat
tuteláque noftrâ existit ; e non imitando voi la gran pietà di tanto Maestro
come potrete essere annoverati trà suoi seguaci ? A questa viene in
seguela la Prudenza , la quale è una virtù al parere di Democrito riferito da
Ippocrate, che non solamente fà conoscere, e bene distinguere il prasente, mà
ancora fà prevedere il futuro: (a) At folus hominis sensus recta intelligentia
eminùs splendescens. Quod præfens , & futurum eft prævidet; E questa è
quella, che toglie ogni confufione, e libera da qualunque pericolo chi la
poisede : Qui enim hæc ipsa prudenti cogitatione difponunt , ii & facilè
liberantur , meum risum fubleuant ; E questa non si può ottenere senza prima
rimovere da noi tutti quei vizj, che prevertono la nostra mente, trà quali li
principali sono l'ira , la superbia , l'avarizia , l'invidia, e l'inganno, li
quali sono tutti capaci di farla prevaricare, e renduta che sarà per la
mancanza di M que(a) Epist. ad Damag. [ocr errors] questi
quieta, e tranquilla , la Prudenza con maggior facilità si potrà
acquistare. Senza questa bella virtù, regolatrice di tutte le buone
operazioni, non pensate di potere esercitare la Medicina, perche come vi
potrete regolare senza effa , allorche v'incontrerete in Maláci indiscreti, e
disobbedienti, in mali simulati, in controversie con altri Profeffori, ed in
tanti altri emergenti, che vi possono giornalmente accadere, in quali laberinti
vi trovereste? in quante confufioni, se non aveste la scorta della Prudenza,
quali inquietudini provereste se foste privi di sì bella virtù ? (6) Non poteft
effe vita jucunda, à qui abfit Prudentia , come disle Cicerone; Cni possiede
detta virtù hà quanto di buono poffa mai desiderare, ftanteche (c) Nullum Numen
abest fi fit Prudentia. Quindi è, che Ippocrate fino, che visse non
solamente fi fece regolare in tutte le fue operazioni da questa virtù, come
nelle sue memorie si scorge, mà consiglia li suoi seguaci , e comanda loro
insieme à non discostarsi punto dal suo patrocinio, insegnando ancora il modo
per acquistarla, conforme da moltislimi suoi documenti potrete comprendere ,
de' quali ve ne riferirò quei soli, che sono registrati nel libro De decenii
habitu , dove doppo aver descritto il vestire positivo del Medico accreditato,
soggiugne : Qui se fe, ex cultus venuftate , frugalitate, non tàm ad fuperfluam
curiofitatem , quàm ad optimam existimationem, prudentiam, e animi moderationem
compararunt; e passando à ciò, che deve provedersi di necessario con(b)
5.Tufculon. (c) Juven.fat.10 per il suo mestiere , lo avvertisce,
che sia prudente in farlo, altrimenti : Horum penuria mentis inopiam, at
detrimentum affert ; Vuole anco in appreffo, che usi prudenza in prevedere ciò,
che può avere di bisogno j'Infermo, che non operi con animo turbato, che sedi
le confusioni, e li tumulti, che sgridi l'Infermi disobbedienti,l'intimorisca ,
mà insieme con prudenza, che Blandè eos excipiendo, consoletur , confor
[ocr errors][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] me ancora, che avverta di non
li prevalere di Sostituti imperiti, affinche de' loro mancamenti non resti esso
debbitore, e quelli , che opereranno in tal guisa cosa acquisteranno? Gloriam
tùm apud majores, tùm apud pofteros fibi comparabunt; e finalmente insegna il
modo di conseguire con facilità la sudetta virtù, soggiugnendo : Qui etfi non
multarum rerum cognitionem habent , earum tamen ufis afliduo prudentiam
affequuntur . Apprendercla dunque ora, che fapete il modo facile per
conseguirla , caso,che non ne foste proveduti à sufficiene za , per imitarlo
anco in questa. La Giustizia, una delle altre virtù principali confifte,
al parere di Galeno , di dare à ciascheduno ciò, che gli compete: (d) Naturæ
iustitiam in eo confiftere, ut quod unicuique competit distribuat ; E. questa
non la potrete acquistare, se da voi non terrete lontana l'iniquità, con turti
li suoi vizj feguaci, che sono le passioni, l'adulazione, ed altri, che operano
tutto il contrario di ciò, che alla Giustizia piace. Il bene, che
apporta detta virtù è dupplicato, perche non fo- lamente benefica
chi la riceve , mà an- cora, chi l'esercita; chi la riceve ottiene
tutto quello , che deve desiderare, e conseguire, e chi l'esercita non
puoles- sere censurato à ragione, perche le sue operazioni saranno
sempre regolare con giustizia, e tutta quella giustizia, che si fà
, si riceve ancora da altrui, in ciò , che riguarda gli proprj
avanzamenti ftanteche (e ) Fundamentum perpetud coe mendationis,
famæ eft juftitia, fine qua nihil effe poteft laudabile.
Meritamente dunque compete al giusto di fiorire co- me la Palma :
Juftus ut palma florebit, perche conforme la Palma quanto è più
caricata di grave peso, tanto maggiore mente sormonta , così ancora il giusto,
quanto più fi procura deprimerlo, tanto maggiormente viene
inalzato. Questa eroica virtù non solamente
viene incaricata da Ippocrate al Medico [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][merged small] M 3 con (e) Cicero
i.de Offic. con precetti, dicendoli : (f) Æquum autem in omni vitæ
confuetudine se preo ftare debet ; e ne assegna la ragione, fog. giugnendo: Cum
omnibus in rebus multum fit in justitia præfidii; mà ancora fù da lui medesimo
seguitata, conforme in tutte le sue memorie si può rincontrare, trà quali per
non dilungarmi, riferirò solaméte ciò,che si legge in una lettera da lui
scritta al Senato di Abdera, nella quale dicc à tal proposito : Ego verò fi
omnibus modis ditefcere voluiflem viri Abderita , nè decem quidem talentorum
gratiâ ad vos venirem , fed ad Perfarum Regem proficifcerer , ubi Urbes tote
opibus humanis refertiffime occurrissent; e ne assegna la cagione, perche ei
non lo fece foggiugnendo: Regias autèm opes ignominia mihi futuras, opulentiam
Patria inimicam reportaffem, quibus circumaffuens Urbium Grecia deftructor
exifterem ; Antepofe dunque Ippocrate à sì confiderabiliffimi proprj vantaggi
il publico bene, fù dunqu'egli perciò disinteressarissimo,e come tale (t)
De Medico. [ocr errors] tale fece conolcere à che segno amava la giustizia,
non potendolo chi veramente l'ama con prove più demostrative far costare, che
con quelle dell'essere di. finteressato. Custodire dunque la Giustizia
co. me pupilla delli vostri occhi , perche questa è quella , che vi può rendere
feli. ci, non potendoyi mancare cosa alcuna, quando la vostra mente sia giusta,
come viene espresso in due versi esametri scol. piti sopra la Porta Romana di
Marino mia Patria, Feudo Nobile dell'Eccellentiffima Casa Colonna, che sono:
Hic tibi tuta quies, do que cupit odia virtus. Defisietquè nihil, fo mens
non deficit equa , Infeparabile dalla Giustizia deve effere la
Fortezza, pofciacchè non sempre li potrebbe eseguire ciò, che la prima dispone
senza l'autorità della seconda. Ippocrate diede la legge conforme fi avevano da
regolare gl'Infermi,mà ordinò ancora al Medico fuo Esecutore, che M
4 che in caso di trasgressione de' suoi Malati fi armasse di fortezza per
farla eseguire : (8) Eumque à fuis cupiditatibus deterreat, bu fimul quidèm cum
amaru- , lentiâ vehementèr increpet . E questas virtù come s’acquista ? con
togliere da noi ogni timore, ogni pufillanimità, con invigorire lo spirito, e
rendere l'animo pronto, & obbediente ad eseguire ciò, che li viene dalla
discrera Giustizia ordinato'. Doppio bene parimente ne nasce mediante la
sudetta virtù ; Il primo è , che sono sicuri gl'Infermi curati da chi è giusto
di non essere adulati, ponendosi da essi in esecuzione tutto ciò, che loro
compéte, e non di vantaggio, e l'altro è, che chi la possiede ne riceve stima ,
erispetto,ponendo in sogezzione coloro, con quali si tratta . Örnatevi
dunque voi ancora di quefra neceffaria virtù, dovendo nelle occorrcoze
resistere alli'defiderj dopravaci de voftriInfermi, male avvezziin sanità
ز [ocr errors] à cra (5) Hippode decenti ornatu , [merged
small][merged small][ocr errors] * crapulare giornaliente , e dovendo
opporvi à ciò, che fuor di proposito ver- rà motivato dagli aftanti, come
potreste resistere, se non foste armati di fortezza, e costanza ,
neceffariamente caderefte nell'adulazione con danno sì della loro
Calute', che della vostra riputazione ; oltre di che con pochi
contradittori vi abbatterete , perche conoscendovi di quell'animo
descritco da Orazio ; Juftum ; tenacem propofito virum. Non
Civium ardor prava jubentium, Nec vultus instantis T yramni: Mente
quatit. Per loro quiete più di uno vi lascierà stare senza recarvi
moleftia . La Temperanza è quella virtù, che frena li noftri (moderati
desiderj, e li restrigne dentro i limiti dell'onesto , e ci rende finalmente
padroni di comandare à noi stessi ; Quindi è, che Democrito, fiinproverando
coloro, che hanno defiderj smoderati , (h) disse : Et cùm multis dominare
velint , fibi ipfos imperare ne queunt : (3) Hipp. epif.Damag,queunt ;
Senza questa bella virtù nelle maggiori prosperità non si puol godere di quelle
e Alessandro il Grandes appena ebbe notizia, che vi erano più mondi, che
subitamente si concristòs e perdette tutto quel contento, che forli aveva ris
cavato dalle coniquifte di più Regni , perche gli crebbe subitamente il delide,
rio ambizioso di fare maggiori progrefli. Come s’acquisti questa virtù
linsegno Seneca s ( b ) con dire : Sani erimus , cu modica concupifcemur, fi
unusquisque se numeret , metiatur fimul corpus , fciatquè hec multùm
capere, nec diù pode ; Nihil tamen æquè tibi profuerit ad temperantiam omnium
rerum, quàm frequens cogitatio brevis avi, a bujus incerti, quidquid facies
refpice ad mortem ; Octima Media cina, e degna veramente di quel gran Morale
per moderare i nostri sfrenati desiderj. E con ottimi sentimenti ancora si
ritrova registraro in Ippocrate in tal guisa: (i) Quod fi quis omnia , quæ
facit pro viribus mente verfaret, vitam ab omni cafu (h) Epif.94. (i)
Inepif. Damago cafu immunem fervaret, se ipfe probè non fcens, fuam
ipfius concrétionem apertè intelligens, cupiditatis ftudium in infini, tum non
extenderet, fed naturam divitem, & omnium alumnam per ea, quæ abundè
suppetunt, sequeretur. Quemadmodùm autèm optimus corporis habitus affectionum
periculum denunciat s lic magnus rerum fucceffüs lubricus eft. Elsendo
dunque tanto utile questa virtù, quanto è desiderabile la propria felicità, la
dovreté bramare, e procurare insieme, e non solamente per vostro proprio bene,
ma ancora delli vostri Infermi; perche se sarece immersi profondamente nelli
vostri fmoderati desiderj, avrete la mente sempre così distratta da quelli, che
à tutt'altro penserete, che à ciò, che possa essere di profitto agli Ammalati,
e se pure lo farete, farà cog mence stanca, per breve tempo, e di paffaggio,
doveche avendo roli delide, rj onesti, questi poco vi affaricheranno la mente ,
onde avrete campo di applicare con più attenzione alle cure, e da [merged
small][ocr errors] [ocr errors] inferioris che eravate al negozio, divers sete
superiori, alleggeriti che ne farete, con notabile vantaggio di chi si
prevalerà dell'opera vostra. E tanto maggiormente, che l'offervanža di si
bella virtù non fù solamente incaricata da Ippocrate a' suoi seguaci,
comandando loro:(2) Eum quoque Ipe&t are oportet, ut animi temperantiam
excolat, non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquả totius vite moderatione
Quòd ad illi comparandam gloriam plurimum affert.adjumenti ; Ed altrove: (m)
Bonum Medicum minimè impellit ut fuam atilitatem quærat , verùm ut potiorem fuæ
existimationis rationem habeat ; Itaques longè satiùs eft à morbo fervatis
exprobrare, quàm perniciosè habentes emungere ; Mà di più per darci esempio la
volle egli medesimo religiosamente osservare, po. sciacchè chiamato dal Rè
Artaserse, e con che promesse !.(n) Auri igitur quana fum volet, reliquaquè
quibus indiget effuse ei (1") De Medico. (m) De precept.
(n) Ix epift... Hellefp.Præfee. 6110 ei exhibeto, di ad nos
mittita, cum Perform rum enim optimatibus eodem erit honore; Şicchè la promessa
confilteva in ricchezze, commodi , & onori à quel fegnio, che ne ayeise
potuto defiderare, cosa rifpo e il modeftiffimo ? (0) Quàm celerrime refcribe,
nos vietu, veftitu , domo, omniquè re ad vitam neceffaria cumulatè frui; Pere
sarum autèm opibus uri neque mibi fquum eft; E scrivendo à Demetrio
manifesto anche meglio la sua moderazione, di, cendoli: (P) Rex Persarum nos ad
fe vocavit nefcius mihi potiorem effe fapientiæ , quàm auri rationem; Chi altro
farebbe itato di animno sì moderato in fimili congiunture, che ad una chiamata
di un Rè potentissimo, alle offerte sì grandiofe si fosse potuto contenere con
quella moderazione Ippocratica di ricusarle? Ne crediate, che Ippocrate non
considerasse li vantaggi , che ne poteva riportare, perche in congiuntura, che ricusando,
per non rendere schiava - la scienza Medica delle venalità, li dieci talenti
offer [ocr errors] tigli (0) In epift.2. Hystania (p) In
epift.Demetr. . tigli dalli Abderitani per la cura di Democrito ,
così loro rispose :(9) Ego verò ja omnibus modis ditefcere voluiffem viri
Abderit , ne decem quidèm talentorum gratiâ ad vos venirem, sed ad magnum
Perfarum Regem proficifcerer, ubi Ürbes tot& opibus humanis refertiffimæ
occurriffent dc. divitiæ non funt pecuniæ undequaquè comparat&; Magna enim
sunt virtutis facra , quæ à juftitiâ non teguntur , Jedin apertum fe
proferuntur. Ex morbis quajtum non facio. Sono tutti questi esempi, che
provano un'eroica moderazione di animo, una somma temperanza, e se è vero ciò,
che riferisce Seneca, (r) che Platonc, ed Aristotele ricavassero più profitto
dalli costumi di Socrate, che dalle sue parole. Questi del nostro Ippocrate
sono tali, che possono bastare à togliervi dalIa mente ogni (moderato desiderio
per farvi divenire seguaci di sì eroica virtù , come è la Temperanza, ed allora
potrete con essa ridervi di quelle vagheapparenze di felicità da alcuni tanto
apa prezzate, consistendo tutte in fottilidima superficie, mentre dentro di se,
non altro contengono, che incommodi. Un legno dorato fà una vaga apparenza,mà dentro
di se, non altro nudrisce, che molte tarle , che lo divorano, nè vi G2 discaro
à sentire ciò, che ne dice Seneça: (S). Et cum auro teita profundimus quid aliud , quàm mendacio
gaudemus ? Scimus enim fub illo auro feda ligna lati. tare buco omnium istorum,
quos incedere altos vides bracteata felicitas eft , infpice , e disces fub iftâ
tenui membrana dignitasis quantùm mali lateat . Sicchè la vera felicità non consiste nell'esterna
apparenza , non nella superficie vaga, må bensì nel godere internamente una
tranquilla calma, che dalla bella apparenza esterna più costo viene turbata,
che dotta. Hò cercato, come si fuol dire , per mare, e per terra un
ritratto al naturale della verità pro per
farvelo vedere, mà non l'hd 17 Epiß.115. 1
1 l'hò potuto ritrovare à proposito, perche, chi l'hà dipinta con il viso
coperto, chi dentro un pozzo al bujo, chi l'hà profondata anco più bassa, onde
non sapevo come fare per farvela vedere , non troyandola delineata in formas
ostensibile . Mi venne in pensiero diricercare in Ippocrate , fe in occasione,
che fù per curare Democrito l'avessi à forte potuto vedere nel suo emi
abbattei per l'appunto nel sogno, che egli fece prima di andare in Abdera , nel
quale al vivo descrive la Verità , ed in quella guisa appunto, che gli comparve
in sogno, (t) ve la descriverò ancora io. Gli parve di vedere, nel primo
spuntare dell'Aurora una bella Dea alta, e risplendente, ornata positivamente,
e senza pompa , li suoi occhi risplendevano come dui scintillanti stelle, ed
avendolo preso per la mano lo conduceva per la Città di Abdera à passo lento, e
finalmente nel disparire, che fece ella gli disse , ch'era la Verità , e che
nel giorno pozzo, se(1) Is Epift.P hilop. 3 [ocr
errors][ocr errors] seguente lo aspettava da Democrito do. ve dimorava.
Meritano veramente molte circo. stanze di questo misterioso logno d'efservi
interpretare; La prima delle quali è la sua maestosa bellezza, e questa denota,
che la verità è degna di essere da tutti amata; La seconda il suo ornamento
positiuo, e senza pompa significa, che non hà bisogno di francie, nè di altri
abbellimenti superfui ; La terza, li suoi occhi risplendenti mostrano , che
ella abbia necessità di buona vista, dovendo vedere , e ben discernere li vizj,
che la perseguitano; La quarta, con il prendere per la mano Ippocrate fà
comprendere, che non vuole contraere amicizia con gente di cattivo
costume, perche bene li avvedeva, che appreffo ad Ippocrate non si accostavano
nè la bugia, nè l'adulazione ; La quinta il condurlo à palli lenti inferisce,
che chi vuole andare accompagnato con la verità non deve caminare in fretta, mà
adagio , come faceva Ippocrate. La festa il dire, che lo N
aYC [ocr errors] averebbe aspettato da Democrito, dove ella dimorava,
significa, che non ama le grandezze del mondo, ne vuole fare la fua comparsa,
se non in quei luoghi , dove alla è conosciuta , e rispettata con fchiettezza,
e sincerità. Obella Dea, se questi sono li voftri fentimenti, date à
divedere , che voi fiete troppo folitaria , modesta, e circospetta; E perche
non frequentate luoghi più magnifici, e non vi fate vagheggiare publicamente ?
Forse, che temete di faziare chi vi rimira con il vostro afpetto, conforme fù
detto di Poppea Sabbina bellissima Dama de' suoi tempi, per non farsi vedere in
publico , che col viso coperto ? E finalmente , perche non conversate con
persone di sfera inaggiore de poveri Filosofi, con quali domesticamente voi
trattate? Sapete come risponderà facilmente la Verità: lo son contenta di
ftarmene così solitaria, perche fono troppo odiata , sentendomi dire da per
tutto : Veritas odium parit ; ed io, che abborrisco di soggiacere à
quest' [ocr errors] odio, per vivere quiera , e tranquilla , son forzata
nel mondo à ftarmene folie faria ; Solamente nel Cielo godo ogni libertà , ivi
sono amata da tutii, ivi sono il Caduceo di eterna pace, e fapete per. che ?
Perche ivi l'Invidia non mi perseguita , l'Adulazione non mi tradisce,
l’Iniquità , è la Malizia non mi possono punto nuocere, come dunque posso io in
Terra liberamente conversare , senza pormi à rischio di perdere quanto ho di
buono, quanto ho di pregiabile, ch'è ciò, che dico. Se io comparisle da per
tutto, non potrei fare di meno di non incontrarmi bene spesso con miei iniqui,
e fraudolenti persecutori, e se questi, che fanno tante prede mi guadagnassero
con lodare la inia bellezza, e mi facesseroprevaricare , non farei più virtù,
onde per mantenermi tale, quale devo essere sono forzata vivere in folitudine
con il mio bene accostumato Democrito. Avrete da quanto vi hò descritto
sin'ora compreso non solamente la bele N 2 lezzalezza della Verità
, mà ancora li suoi divini costumi, onde fi accinga pure ogni uno di voi à
sposarla , perche cosa più bella , ed utile di questa non potrete ritrovare, e
tanto maggiormente, ch'è affai facile à potervi fortire una simile ventura,
bastandole , che finceramente l'amiate, che farà tutta vostrą. Vi avverto però,
ch'ella è gelofillima, ondę vi converrà per conviverci in pace odiare la
menzogna, l'adulazionc, l'iniquità, e l'inganno, altrimenti vi perderefte in
un'istante la sua grazia. Mi perfuado , che lo farete di cuore, perche
Ippocrate , ch'ebbe la sorte, come dilli , di rimirarla una sola volta , ccome
in sogno, ne restò così invaghito di ella, che fino, che visse l'amò
fedelmente, à segno di esporsi ad evidente pericolo di perdere tutto il suo
acquistato concetto; Posciacchè nella cura di colui, ch'era avvezzo di vivere à
suo capriccio, e perciò facilmente fù ferito in testa, confesso candidamente di
averlo curato male, dicendo , ivi : Hoc me latuit [ocr errors]
latuit sectione opus habere , deceperunt aux sèm me future.(a) Biasimerà
taluno di quelli che amano più la loro estimazione, che la Verità questa tua
confeffione publica ò Ippocrate, trattandosi di un'errore di questa forta , c
tanto maggiormente, che niuno ti forzava à palesarlo, e ti diranno : Dovevi
pure prevedere, che la maledicenza avrebbe fatto contro di tè quanto poteva per
iscreditarti, à cui egli rifponderia facilmente, se vivesse, non mi dà
faftidio, che si mormori di me, purche io non tradisca la Verità, hò voluto
lasciare quest'esempio,acciocchè li miei seguaci non cadano in simile errore, e
segua pure contro di me quel male ne så seguire ; Sapete, che danno ne hà
riportato Ippocrate da simile confessione ? Due elogij frà gl'altri, capaci à
renderlo glorioso per tutta l'eternità, che sono li Teguenti: Cornelio
Celso così ne parla di questo fatto : (b) A futuris fe deceptum effc (a)
L16.5.Epid <grot.-7. (b) Lib.8.cap.4. N 3 effe Hyppocrates
memoriæ prodidit , more fcilicèt magnorum virorum ; & fiducian magnarum
rerum habentium; Năm tevia ingenia ; quia nihil habent, nil fibi detrahunt;
magno ingenio, multaque nihilominùs babituro convenit etiàm fimplex veri errò:
ris confeffio; præcipuèque in eo ministerio , quod utilitatis causâ pofteris
traditur, ne qui decipiantur eâdem ratione ; qua quis antè deceptus eft.
Quintiliano ancora lo commenda in tal guisa: (c) Hyppocrates clarus in Arte
Medicâ videtur honeftifimè fecife , dùm proprios quofdam errores confeffus eft
, boc fine , nè posteri peccarent. Certamente, che non avrebbe riportáte
tante lodi Ippocrate, se avesse tenuta celata tal verità, e se non avesse
confessati li propri errori, non li darebbe tanta credenza à ciò, che
dice. Dunque animateyi voi ancora à ree guitare un sì glorioso Maestro, e
non remete dalla Verità , che sposerete , doverne riportare alcun svantaggio, anzi
te (c) Lib.z. cap.8. [ocr errors][ocr errors] tenete per
infallibile di poterne voi ana cora ricavare glorie immortali. Il
difensore maggiore, ch'abbia la Verità è il Disinganno, egli è quello, che
discopre ciò, che si fà contro di essa, che impiega ogni sua attenzione , &
efficacia à suo prò, non prendendosi alcuna soggezione de' vizj, anco maggiori,
in manifestare le loro iniquità; Hà finalmente tal possanza, che qualunque
Verità più occulta la rende palese à tutti Niuno senza il di lui ajuto sarebbe
capace d'avvertire alli proprj errori ; onde converrà se vorrete seguitare la
Verità paffare con esso lui ancora buona corriso pondenza , rispettarlo, e
farvelo vostro amico di confidenza ; Vi avverto però, che se vorrete veramente
confederaryi con il Dilinganno, non dovrere effere ostinati, nè pertinaci nella
vostra opinione, perche altrimenti nel meglio vi abbandonerà , onde converrà di
farvi regolare in tutto da lui , e vedrete come vi favorirà nelli maggiori
vostri bifogni. Se non si fosse fatto regolare Ippo: crate da questa
eroica virtù, come mai fi sarebbe potuto avvedere del sopr’accennato errore, e
d'altri, e proprj, e del Medici suoi coetanei , che egli riferisce ; Certo è,
che se fosse stato pertinace nella sua opinione il Disinganno non gli avrebbe
fatto conoscere la Vericà qual' era , & in ispecie nel caso di
quell'Ancella di anni dodici, nella quale ei confessò,:(d) Hoc cognitum eft
rectè fe&tione opus habere , fecta eft autèm non velut opportebat , fed
quantùm reli&tum eft , pus in ipso factum est ; Et in questo confeffa, che
non fù fatto il taglio à suo dovere . Nel male di Eupolemo, chi gli averia
manifeftato:(e) Hic videbatur biberari pofle, fa unicâ amplå feftione fectus
fuiffet ; E perche non si fece ? Mortuus eft. Conforme ancora nel caso di
quell' Uomo quafi leproso, (f) che andando al bagno di acqua solfurea guarì dal
male,che aveva, mà morì poscia Idoprico per la retrocesfione del primo; E di
Scamandro, (8) à cui gli accelerò la morte un potente folutivo, come avrebbe
possuto dire : Videbatur plus temporis fubstinere potuille. nisi ob vim
pharmaci; E nel figlio di Teoforbo :( 6 ) Huic exulcerats est alvus fortitèr à
magnâ pharmaci vehementia , moru tuus eft autèm tertiâ die poft potionem ;
Nella moglie di Antimaco , à cui : (i) Datum eft potu Elatherium vehementius ,
quàm opportebat, pou mortua eft circà mediam noctem; In quell'uomo Eubeo, (i)
il quale:Cùm bibiffèt pharmacum expurgans fres dies purgabatur, e mortuus eft ;
E nel caso di Artandro, (m) il quale : Sanus erat à catapotio extinctus eft ; E
finalmente in quello di Trinone , (n) lasciando di riferirne altri : Cùm ad
nervum fanè parum medicamentum erodens fuiset adhibitum, opistotono mortuus
eft. Dunque queste utili memorie, che noi leggiamo in Ippocrate tutte le
dovemo al Disinganno, che gliele fece cos nofcere. Ovirtù così sublime, perche
ancora non consigliaste tanti altri Profeffori eccellenti, che scriveffero
ancor esli con questa Ippocraticà ingenuità nello scoprire li propri errori à
pofteri; Quanto bene averia apportato à noi simile verità; Hanno scritto; è
vero, molo te mirabili osservazioni, mà hanno ancora con quelle più tosto
cantato li loro trionfi, che compianto le altrui sventure. Fate almeno, che li
secoli venturi godano di questo bene , & à voi toccherà di ereditäre ò
Giovani ingenui questa purità di scrivere Ippocratica ; se vi uniformcrete
conforme egli fece alli consigli del vostro disinganno: yemo (g)
Epid.lib.5.&gr.15. (h) Ep.lib.5.&gr.17. (1) Ep. lib.s. agr.18. (1)
Ep.lib.5.agro3s. (m) Lib.s. agr.42: (a) Lib.gi .gr.74 7 La
Vigilanza à che segno sia neceffaria nel Medico , ne dà non piccolo contrasegno
il sagrificio, che bramava Esculapio del Gallo, fiinbolo della vigilanza,
volendo facilmente quell'antico Nume della Medicina far capire a suoi seguaci
ciò medianto, che desiderava da essi, più d'ogn'altra cosa , la vi
[ocr errors] ) [ocr errors] vigilanza, e con ragione, stanteche nella
Medicina : 60 ) Occafio præceps; occafio in que tempus non multum ; E se à
prenderla quando si presenta , non li fà con atten zione è cosa facile di
perderla , con dia scapito di ciò, che si poteva ottenere in vantaggio
dell'Infermo ; Quindi è, che Ippocrate dà titolo di ottimo Medico à colui solo;
che prevede le cose future, dicendo :(p) Medicum prænotionem adhibere optimum
effe mihi videtur ; Prenoa scens enim , & prædicens apud ågrotos, da
prafentia, & præterita, & futura ; E questo non già per altra via ,
che per quella della vigilanza , si può ottenere. Per conferma di ciò fà
à proposito la somiglianza, che apporta Ippocrate (9) del Medico con il
Governatore della nave, che si ritrova in tempeita, à cui non conviene già
dormire per non sommergersi insieme con il suo baltimento trà l’onde; Ed in
verità yi converrà essere nelle vostre cure molto circospetti, e
vigilanti, non (0) Hipp.Præceptiox. (9) De veteri
Medio. (p) Di Prenot. non essendo sufficiente la fola vostra
pea tizia , mentre che al parere d'Ippocrate: (r ) Bonis autèm Medicis
fimilitudines pariunt errores , ac difficultates; E cresce maggiormente à tempi
noftri tal neceffità per cagione della separazione, che ha fatto la
Medicina dalla Cirugia , e Farmacia, perche fe allora baftava una parte di
vigilanza , dicendo il detto Ippocrate : Nec folùm feipfum præftare oportet
opportuna facientem, verùm, e agrum, affidentes de exteriora, a' quali dovendo
invigilare il Medico, acciò non trascurino di fare ciò, che da esli si deve,
ora maggior obligo gli corre di dupplicarla per questa nuova aggiunta. Nè
vi riferirò, per perfuadervi ad essere vigilanti, l'esempio, che ne diede in se
stesso Ippocrate, per non avervi à ripetere tutto ciò che abbiamo di esso,
mentreche non fi legge nelle sue opere cosa che non denoti una somma
avvedutezza, una grandissima vigilanza , & in ifpecie ne' suoi pronostici,
ne'quali fi puol (r) Epid. lib.6.dift, &: puol dire con
ragione, che ancora de Bercore collegit aurum , onde spero , che con
rincontrarle ocularınente à fuo tema po, sempre più vi crescerà lo stimolo di
efsere vigilanti, e tanto maggiormente ne sarete, quando in quelle leggerete, (che
: Vigilantia verò &c. ad vitæ boneftatem refert . Majorem enim apud alium
fibi gratiam conciliat, fi ad artem traducatur , eique decus, ob gloriam
comparat ; & in appresso: Bonus Medicus vigens ipfus artis opifex
nuncupatur. Della Vigilanza è compagna inseparabile, e fedele la fatica ,
la quale per essere opposta all'Ozio padre di tutti li vizj, li può chiamare
madre di tutte le virtù, e questa nella Medicina è cosi essenziale, che senza
essa è impoflibile di poterli acquistare, esercitare, ed ampliare , A voi
dunque, che desiderate essere veri Medici converrà accingervi à triplicara
facica. La prima vi servirà per fare acquisto della Medicina; La secon
dada per impiegarla nell’efercizio di effa , ela terza finalmente per lasciare
degną memoria di voi in ampliarla à quel fegno', che vi farà permesso dal
vostro ingegno. Già della prima ne fù discorso nella seconda Giornata,
nella quale fù moftrato ciò, che si debba fare per conseguire la buona pratica
; mi resta fola. mente ora da soggiugnervi, che quella sola non può bastare per
farvi vivere ripofati , e senz'altra briga , ftanteche quantunque, fia
sufficiente per potere esercitare la Medicina, nulladimeno per essere ancor voi
annoverati trà Proferfori più esperti, e capaci di dare più accertati consigli
vi converrà infino al fine di voftra vita faticare in fare sempre nuovi
acquisti, restandoyi tuttavia molto da apprendere, sì per incontrarvi alle
volte in mali non più osservari, conforine Celso avvertì , dicendo : Sæpè vero
etiàm nova incidere genera morborum , che per essere la Medicina scienza sì
va#a, che niuno fin'ora ha potuto scoprire li suoi ultimi confini, nè
Ippocrate, nd tampoco Esculapio, che ne furono l'Inventori , conforme egli
confessa ingenuamente :(t) Ego enim ad finem Medicinæ non perveni, etiamfi iàm
fenex fim, nequè enim ipfius Inventor Esculapius. Quale appunto debba
essere la seconda fatica nel professarla, così ve la descrive: (1) Crebro ægrum
invife diligentem considerationem adhibeas, ut iis, qui decepti sunt per mutationes
accurras; Facilior enim tibi cognitio fuppetet , fimula què te promptiùs
expedies • Instabilitèr enim moventur quæ in humidis confiftunt. Questo testo è
così chiaro , che non hà bisogno di dichiarazione maggiore, ris' chiedendo da
voi Ippocrate nell'esercizio pratico la fatica unita alla vigilanza, e facendo
voi in questo modo vi assicura, che minori brighe avrete, perche presto
tirarete à fine ciò, che facendo con trascuraggine vi apporterebbe maggiori
incominodi, La terza fatica è arbitraria, e viene fo(t) In Epif.Democt
(0) De decenti babiru. [ocr errors] folamente abbracciata da quelli
fpiriti investigatori, che hanno unita la vivacità dell'ingegno alla prudenza,
e questi per il desiderio , che hanno di eternare li loro nomi, riescono
in tale opera profittevoli, de' quali credo , che frà voi ve ne farà caluno
abile, dal quale spero non si ricuserà fatica sì gloriosa,abbracciata, e
consigliata insieme da Ippocrate, dicendo: (*) Nunc verò ea , quibus summo
studio prudentes incumbere debent, partim quidèm à majoribus excerpta, partim
verò etiàm nunc per nos inventa ad te fcripfimus. Nè delista taluno di
voi, che sia abile à sì gloriosa impresa d'effettuarla per vedere impallidito
di volto, emaciato di corpo, & invecchiato prima del tempo chi abbracciò
fimile fatica; posciacchè da quell'emaciazione di corpo, da quel pallore di
volto, e dal comparire più vecchio, ch'egli sia, gran benefici ne hà ritratti
che sono,maggior vivacità di mente , senno, e prudenza. Mà (x) In Epif ad
Reg.Demetr. [ocr errors] Mà quando ancora da tal gloriosa cagione ne
risultasse qualche fisico svantaggio, fi bilanci qualsia peggiore, se quefto, ò
pure quello, che ne proviene dall'ozio; e si vedrà senza fallo, che l'oziofi
non solamente sono soggetti ad infermità peggiori di quello fieno gli ftudiofi,
mà ancora , che terminano più presto la loro miserabile vita , onde non è
prudenza il temere ciò, che può recare minor danno per andare in traccia à ciò,
che ne può recare maggiore, e con lo svantaggio di più, che à prò
degl'affaticati Letterati stà sempre preparata un' eternità di gloria, dove,
che à danni de gl’oziofi una perpetua ignominia. Non mi stenderò di
vantaggio in esaminare le altre virtù , che restano perche vi si richiederia
più tempo di una sola giornata, e tanto più , che poffedendo voi le già
descritte vi si renderanno famigliari tutte le altre; Solamente del più bel
frutto , che producono le virtù , ch'è il buon costume, non sarà fuori di
proposito oggi parlarne , stante che che questo da Ippocrate viene
stretta. mente incaricato al Medico , per farvi conoscere insieme à che segno
egli lo profeffava . Il buon costume è un'abito essence ziale per la vita
civile, acquistato solamente da chi poliede un'aggregato di moltiffime virtù',
trà quali risplendong la Prudenza, la: Sincerità, la Gratitu, dine , l'Umiltà,
la Discretezza , la Bez nedicenza , l'Urbanità, e la Conyenienza, e questo
abito deve essere continuato, perche fe la Superbia , l'Ira , l'Ambizione,
& altri vizi di fimile perversa natura l'interrompono, il buon costume
passa fubitamente in cattivo, Chi hà la forte di poffederlo è ricchisiino,
mentre hà un tesoro, del quale quanto più ne fpende , tanto più resta in
capitale ; Per csempio, chi hà il buon costume di lo-, dare, non solamente non
riceve alcun discapito dalle lodi, che dispensa, mà n'è perciò egli ancora
lodato. Devesi nondiineno usare prudenza in non eccedere molto con affettazione
ne' buonicostumi, ftantęche alle volte, quando sono soverchiamente adoperati, e
con affettazione nauseano, & in vece di apportare del bene,fanno del male,
e tanto maggiormente, quando ciò viene regolato da qualche secondo fine, nel
qual caso la lode istessa può essere nociva, e perciò ebbe à dire Tacito ;
Peffimum inimicorum genus laudantium. A che segno sia necessario al Medi,
co il buon costume, mediante il quale viene colta ogni ambiziosa contesa, lo
dimostrò Ippocrațe doppo di aver fatto , conoscere la necessità , che vi sia di
consultare con altri Profeffori li mali oscuri, soggiugnendo : (a) De eo minimè
am. bitiosè contendere , fe ipfos ludibrio exponere; Pofciacchè fimil maniera
non è propria de' Medici racionali, mà solamente di quelli triviali, che :
Forenfem queftum fectantur , conforme egli dice in appreffo. Nè solamente
il mal costume pone in discredito chi lo esercita , mà passt O 2
per [a] De Præcept, و 'per causa sua ancora nell'innocente Medicina
la calunnia ; L'esempio è chiaro : Contrasteranno due Medici tra di loro
acerrimamente, se fi debba, ò no dare un'orzata in un male acuto, se debbali, ò
nò colare,fe prima debba darsi, ò doppoi il seccimo giorno, e se sia
praticabile ayanti, che il male sia terminato, le quali essendo questioni
inutili, e come fi fuol dire , di lana caprina , perche con l'esperienza fi può
rincontrare se ne posfa feguire quel gran danno, che si figura chi contradice,
onde finili contese non poffono à mio credere autenticare al che
l'imprudenza, e mal costume di chi le promove, e picciol male recheriano, se la
colpa di ciò restafse trà li foli Artefici altercanti, il peggio è, che ne passa
alla Medicina la calunnia; Quest'esempio non è stato inventato da me,
ritrovandofi descritto da Ippocrate così bene, che non vi recherà punto di noja
il sentirlo riferire : (b) Que igitur ignorantur bee funtó quanam de causâ in
morbis acutis, quidam Medici toto vita tempore in Ptifanî non colatâ exhibenda
perfeverents rectè fe curare existiment; Quinàm etiàm omni ratione contendunt',
ne ullo modo hordeum æger devoret , quoad indè magnum fecuturum detrimentum
exiftiments morbis (b) De ration. Tic.in morbiacut. tro,
verùm per linteum excolantes ejus fuccum porrigunt . Horum etiam nonnulli ,
nequè Ptisanam craffam , neque succum exhibent, ubi quidem dùm feptimum diem
eger attigerit , alii verò dùm in totum morbus judicatus fuerit ; E ciò, che da
simili altercazioni ne fiegua l'esprime in tal modo : At verò Ars tota magnam
quidèm apud vulgum calumniam fubftinet , ut nullam omninò Medicinam efe
exiftiment a kquidem in acutis morbis, in tantùm inter Te diffentiunt Artifices
, ut quæ alter exhi. bet, veluti optima reputans , etiàm mala alter
exiftimet. Due ingiurie vi farei nel medesimo tempo , se pretendesli
d'insegnarvi il buon costume: una saria di riputarvi male accostumati, che
per ļa Dio grazia non siete, e l'altra di credervi stolidi, ed
incapaci di ragione , per non esservi approfittati di ciò, che vi disli,
detestando quei vizj, che costituiscono il mal cos ftume. Continuare di
buon'animo á fuggire li vizj, e seguitare queste virtù, che vi hò mostrato, e
non dubitate , perche Hi vostri buoni costumi in breve diverranno ottimi, &
acciò possiate conseguire con più facilità fimil sorte vi rappresenterò alcuni
costumi eroici d'Ippocrate, li quali vi potranno fervire di norma in moltissime
vostre occorrenze , che vi si presenteranno facilmente à suo tempo. Egli
fù così esemplare nell'offervanza degli ottimi costumi, che non sò fe trà
Medici ( alla riserva di quelli dia chiarati già Santi) ve ne sia stato, ò ve
ne sia di presente , chi lo possa uguagliare La Pietra del paragone per
cono. fcere se il costume sia ottimo sono li onori, ftanteche honores mutant
mores , onde quando l'onorato non cambia li fuoi costumi in peggio per cagione
dell? onore ricevuto's tenete pure per certo, che ) che il
suo costume sia ottimo. E la ca. gione di ciò è, perche con gli ottimi regna
l'umiltà in grado eroico, e dove è questa , la fuperbia non s'accosta, fa.
pendo per esperienza, che inutilmente impiegheria ogni sua fatica, e la
superbia è quella, che perverte il buon co. stume , mà contro l'ottimo non fi
ci meriti, ) Che Ippocrate abbia ricevuti onori fommi non
trovo fi controverta da ale cuno, mentre fù chiamato dal Rè potentiffimo Serse,
con promesse di ciò, che egli avesse saputo desiderare, oltre di costituirlo
Magnato della Persia, fù cre duto ancora, che discendeffe dal Dio Esculapio,
che fosse in grazia del Rc Demetrio', e di molti altri Potentati, e finalmente,
che ricevesse dagli Ateniefi onori maffimi, non solo umani, mà ancora divini
effo vivente, come costa per Senatus Consulto, ch'è questo : Ut igitur conftet
Populum Athenienfem Græcis femper utilitèr confuluife , utquè dignam pro
meritis Hyppocrati gratiam referat, decrevit Poo 0 4Populus ut is
magnis mysteriis ; Hor fecùs at Hercules Jovis filius publicè initiaretur, O
coronâ aureâ mille aureorum coronaret tur. Coronam ipfam Quinquatribus magnis
in gymnico certamine pręcone proclamante, omnibus Coorum liberis liceat
non fecùs às Atheniensium Athenis pubertatem ageres quod coram Patria
ejufmodi virum proCreavit, Hyppocrates verò, ut Civitatis jis re, victu in
Pritaneo toto vita tempore donetur. E questi commi onori qual mücazione
produsero ne' suoi costumi? niuna appunto, mentre non furono capaci di farlo
insuperbire, come fi legge nella sua lettera , che scrisse già divenuto vece
chio à Democritó : Et ego fanè plus repræhenfionis , quàm honoris ex arte mihi
confecutus videor ; Vedete quanto stimava l'onori maslimi, e se s’infuperbivad
punto di quelli, credendoli inferiori ad una picciola riprensione , dico
picciola, perche delle grandi non n’era capace un’Ippocrate . Più gli premeva ,
per quanto li può congetturare dalla mede fima lettera, la cagione delli
ònori,mentre mostrava di dolersi, che eisendo diyenuto già vecchio non era
potuto ancora giugnere à tutta la perfezione dell' Arre; volendoci forsi con
questo far conofcere, che non sono tanto pregiabili gli onori, quanto è la
cagione, che li produce, ch'è la virtù , la quale dipende tutta da noi, doveche
gl'effetti di quella dipendono dall'altrui volontà; Avendo dunque Ippocrate
resistito à non fare alcuna mutazione nelli suoi buoni coftumi in tanti, e tali
onori ricevuti, è contrasegno evidente, che foffero arri. vati al grado
dell'ottimo , nel quale solamente, come fi è mostraro, sono im.mutabili li
costumi. Che vi sia stato à luo tempo, ò dapoi fino al presente chi
abbia.conseguito limili onori, non se ne ritrova memoria, per quanto fia stata
cercata, onde non hà alcun'altro Medico avuto occasione, doppo di lui di
mostrare ugual costanza del suo buon costume in fimili prosperità; Ricevendo dunque
voi onori, faprece [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] con l'esempio di
un tanto Éroe, confora me vi doyrete contenere affinche le prosperità, che ne
risultano da esli , non vi facciano, conforine appunto fecero prevaricare li
antichi Romani, che fusono ne' primi secoli della Repúblicas esemplari in
bontà, mà avanzandoli pom fcia nelle ricchezze andavano declinando , e
finalmente nell'auge delle loro felicità, e grandezze da buoni divennes ro
cattivi , onde con ragione esclamò Tacito : Felicitate corrumpimur. Mi
di{piacerebbe però sommamente,che simili sventure si verificassero in voi,
perche goderei vedervi tutti esemplari, e degni imitatori d'Ippocrate, non
solamente nella dottrina, mà ancora negli ottimi costumi Mi rimane per
totale conferma del mio intrapreso assunto di corroborare con altri esempi ciò,
che hò proväto con le ragioni ancora. Il primo de'quali sarà di farvi
vedere, con quanta civiltà egli scrise de gli antichi intorno à quelle cose che
effi 11011 [ocr errors][ocr errors][ocr errors] non sapevano, e che
furono dalla sua induftria inventate . Dice egli intorno la regola del vivere :
(c) Alii quidem aliud ättigerunt, totum verò nes unus quidem adhùc ex his , qui
antè extiterunt ; Neque tamen eorum quisquam reprehendendus , quòd invenire non
potuerint ; quin potiùs Jaudandi omnes'; quod quædam inveftigao tione aggreffi
fint ; Neque ergò que recta dieta non funt argüere decrevi , fed his , qué
abundè funt cognità affentiri in animo habeo ; quæ igitur ab iis , qui antè nos
fuerunt reétè di&ta funtzde bis fieri non poteft fi alitèr ferihatur, ut
reétè fcribam, quæ verò non rectè dixerunt fi ea quidem , quod ità non habeant
redarguero nihil profecero ; E cosa abbia fatto in questo caso lo dice in
appresso, cioè: Que non rette fuerint cognita aperiam; Quin etiàm qua corum
nultus , qui antè me fucrunt explicare aggreffus eft qualia fuerint demonftrabo
; Ed altrove con chę prudenza ne parla:(a) Sed nequè de victus ratione
quid quàm [c] Dx viftus ratione lib.i. [d] De ratione vitus
in grutis. [ocr errors] quàm effatu dignum veteres fcriptis
tradiderunt , eamque , quamvis magna res fit, omiserunt s Varia tamen morborum
fingua lorum genera , multiplicemque eorum divid fionem non ignorarunt quidàm.
Avete of servato con che creanza , con che giua stizia; e con che prudenza ne
parla un' Ippocrate de' suoi Antichi, scusandoli in ciò, che non seppero, e non
pregiudicandoli punto in seguitare, e confeffare ciò, che di buono efi dissero;
Si è praticato questo buon costume da alcuni de' noftri Moderni verso li
Antichi? Mi pare di leggere, per dire il vero, più tosto il contrario, anzichè
mi sono avveduto, che taluno di efli há palleggiato con tal fasto invidioso
dace sopra quelle gloriose ceneri, che ne sono rimasto molto scandalizato,
rifettendo, che Ippocrate con li suoi Antichi diversamente faceva, nė vi
riferirò da vantaggio per non farvi nauseare di ciò, che essi ancora hanno
fatto di bene .; Per fecondo vedremo, come egli fi portò in quelle cose,
che lo toccavanoal vivo. Gli pervennero à notizia alcune predizioni
(e) credute da Prospero Mar. ziano suo Espositore accurato, Astro-
loggiche, che appresso gli Egizj si prati- cavano in quei tempi, che
erano alli Greci ancora ignote, le quali non li pia- cevano,
mentre disse : Egnautèm hujuf- modi vates effe nolo ; e con
ragione, per- che gli pervertevano ciò, ch'egli con
tanta diligenza aveva ricavato dalle proprie offervazioni intorno
alli prono- stici de' mali, e che aveva appreso dagl'
altri, e pure con questa modestia si con- tonne : Prædictiones
Medicorum referun- tur permultæ tùm præclar& , tùm
admira- tione dignæ, quales neque equidèm prædixi,
neque quemquàm, qui prædiceret, audivi; e cosi destramente se
ne liberò senza contradirle . Questa maniera sì dolce
non è stata già praticata nel giugnere à notizia tante belle
invenzioni Anatomi- che ; contro la circolazione del sangue
cosa non fù detto mai? Senza possedere un'ottimo costume non
fi può lodar ciò, che (e) Lab.2.Prædi&ionum [ocr errors]
che perverte un'abito fatto da lungo tempo, e che si è praticato per lunga
serie di anni. Per terzo riferirò comę egli firegelaya quando era
necessitato à palesare qualche errore commesso. Questo lo faceya senza
individuarne l'Autore, ece cettuatone li proprj, li quali publicamente
confessava , come già fentiste, parlando del disinganno, e questo, da chi vien
praticato Solainente d'Ippocrate fi racconta fimile ingenuità, & in caso
ancora, che abbią apportato laws morte, Per quarto finalmente per far
trionfare la sua gran bontà riferirò il giuramento, ch'egli fece, che nella
Medicina à suo tempo non vi era alcun Medico razionale, (f) che non fosse di
buoni costumi, e questo giuramento, chi lo farebbe à tempi nostri ? Onde
bisogna neç ffariamente confeffare, che unico fia stato Ippocrate non solamente
nella dottrina, mà ancora nell'ingenuità de' co stumi; [f] In lib.de
præcept, [ocr errors][ocr errors] ftumi ; Sicchè con ogni giustizia li
com. pere il principato nella Medicina, che egli da tanti secoli pofliede.
Dovrete yoi dunque per essere tee nuti degni, e veri suoi seguaci non folaa
mente abbracciare,& uniformarvià ciò, ch'egli scrisfe in Medicina , mà
ancora ftrettamente osservare quanto nella morale si debba fare, ftimando forG
il buon' Ippocrate più necessarj li buoni costumi al vero Medico, delli suoi
Fisici docu. menti, mentre questi li lasciò in libertà di ciascheduno di
seguitarli, mà li primi con giuramento forzava tutti ad offer. varli
esattamente, obligandoli a giurare di essere grati, di vita incolpabili, onorati,
casti, giusti, modefti, pudichi, fedeli , e di somma segrerezza , e sentite
sotto che pena l'obligava: Hoc igitur jusjurandum , fi religiosè obfervavero,
ac minimè irritum fecero , mihi liceat cum fummâ apud omnes existimatione
perpetuò vitam felicem degere's & artis uberrimum fruEtum percipere , quod
fi illud violavero, pejeravero , contraria mihi contingant ; E
quan [ocr errors] E quanto mai il buon costume nel Medl att
[ocr errors] mente si può comprendere da ciò, dice nel libro
Di lege : Quifquis enim Medicine scientiam fibi vere
comparare volet eum his ducibus voti fui compotem fieri
oportet natura, dottrina , moribus generofiss è chiunque di questi
ne farà privo, come uomo profano, diverrà im-
meritevole gli sia dimostrata una scien- za sì facra ,
conforme e la Medicina, soggiungendo ivi : Hæc verò cum sacra
fint , facris hominibus demonftrantur , pro- phanis verò nefas,
Sono dunque, secondo la mente d'Ippocrate , effcnziali nel Medico le
virtù morali , e nientemeno di quello fieno li documenti Fisici, ed in
conseguenza ancora come tali apporteranno necessaria- . mente un commo bene al
vero Medico , non potendo esser tale, se non ne farà ornato à sufficienza,
conforme in termi. ni precisi più diffusamente lo dimostra lo stesso Ippocrate
nelli libri De Medico, © De Decenti ornatu, e nel libro De Pre و (
9 ceptionibus , ove affinche non se ne possa dubitare l'attesta con prova
legale, cioè mediante il suo giuramento, ch'è questo : Hoc namque jurejurando
affirmare audeam , Medicum ratione utentem , alterum nunquàm invidiosè
calumniaturum, fic enim animi impotentiam prodit. Verùm id potiùs faciunt , qui
forensem quastum seEtantur . Sicchè per essere veri Medici razionali
dovrete essere ornati di virtù , e non contaminati da’ vizj , conforme sono
quelli, che per essere meri mercenarj non meritano il titolo di vero Media co ,
quantunque fossero nelli documenti Medici versati ; e perciò saggiamente egli
nel libro De Lege asserisce: Non folùm verbo , fed etiam opere Medici existimationem
tueri oportet; ch'è quanto dovevo mostrarvi nella prima parte. Se poi
alcune virtù fi poffino giuftamente censurare nel Medico, che è la seconda
parte del mio discorso, in qualche caso crederei di sì, conforme con un'esempio
riferito da Ippocrate brevemente vi farò vedere. P TutteTutte le
virtù hanno un fine retro, e se fi lasciano operare à tutto loro potere
s'inoltrano con tanto fervore, che da alcune di esse in vece di ricavarné
profitto , se ne riporterà del danno, La Giustizia, & il Zelo, tra le altre
, fe si cferciçano con sommo rigore, & à quel segno, che arriva la loro
autorità. Quefte sono capaci di porre cutto il mondo in sconcerto, e perciò
diffe Salomone:(+) Noli effe juftus multùm; onde è necessario unirlo alla
civiltà per renderle fruttuose.Simili fconcepci appunto potrebboro giornalmente
accadere nella Medicina, fe il Medico si voleffe fervire della sola Giu.
ftizia, del solo zelo con quell'Inferma male avvezzo in fanità à fare à fuo
modo , allorche trasgredendo alla regola di vivere,fosse da esso con tutta
giustizia riprefo, & afpramente sgridato di tal’erróre, cosa se ne
ricaverebbe di profitto da çal giuftiffima,mà indiscreta riprensione? Se non
che, ò l'Infermo facesse peggio in; (1) Ecclef.cap.79 1 [ocr
errors] in avvenire, e che senza alcun profitto perdesse ogni çispetto à chị lo
riprese, ed in questo ca fo giustamente il Medico verria censurato, perche non
si servi in fare una simile riprensione del prudens ziale consiglio
d'Ippocrate, (a) che dice ciò, che deve fare, doppo di averlo afpramente
{gridaco,& è : Simulque cum commonefaciendo , & blandè excipiendo
consoletur ; & altro ve dice : Condonandum aliquid consuetudini ; Quel poco
di dolce, che gli porgerà doppo l'amaro della riprélonę opera tato di bene che
faràche la Giustizia usata divenga profittevole , Il ţimile pariinentě ne
seguirà se voi, con zelo poco discreto , vorrete riprendere taluno , che sia
ricaduto in mali venerci ; questo tale, quanto più lo [griderețe , tanto peggio
farà , bisogna dolcemente che gl'infinuate , e gli facciate capire il danno ,
& il pericolo, che gli può sopravenire da fimili ricidive, le miserie, la
morte penosa inevitabile saranno quelle , che, inlinuate con gius [ocr
errors] (a) In lib.præcept. [ocr errors] dizio, lo potranno più
facilmente perfuadere di fuggire simili errori, perche questi motivi restano
impressi per lungo tempo nella mente , mà le gridate, che passano presto in
oblivione , riescono infruttuose, perche sentendosi con animo irritato , non
s'apprendono quanto: fi dovriano . Molti altri esempi potrei apportarvi, mà
credo , che li riferiti pollino essere sufficienti per farvi capire tal verità
; Volete dunque, che le vostre virtù non fiano censurate , accompagnatele, e
non le fare operare fole, e fate appunto conforme si suol praticare con le
donzelle vistose à fine non si mormori di loro che accompagnate con altre donne
più provetre , e prudenti possono trattare in privato, e comparire in pliblico
senza taccia. Mi persuado che li documenti, le ragioni , e gl'esempj d'Ippocrate,
che vi (hò addotti fin'ora, saranno senza fällo sufficienti a farvi incaminare
per il retto fentiero delle virtù , il quale spianato in tal guisa , fe à
caluno di voi paresse tut tavia [ocr errors] tavia
disastroso, non occorrerà s'affati chi di vantaggio, perche per lui non
fa. ranno à proposito le virtù, e per tanto se ne viva pure à suo
bell'agio con li suoi vizj diletti, nè occorrerà, che in do- mani
quivi si presenti, perche voglio in avvenire parlare solamente a quelli,
che hanno generosamente determinato d'ab- bandonare affatto li
vizj, e seguitare le sole virtù. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][ocr
errors] G. I Ô R N Å TA V I. Nella
quale s'accenda il modo di prévalerfi del consiglio delle virtù
contra l'infidie. de vizj, affinchè il vero Medico poffan godere
una vita iranquilla , e lasciare di se doppio morte una gloriufi
memoria : [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] On mio
contento non ordinario vi vedo oggi, prima del solito , quì tutti
preferiti; posciacchè averidoviderto nel fine della Giortiada di jeri, che chi
nơn s'era già determinato di seguitare le fole viétừ, non occorreva ch'oggi
forfè venuto; temevo che almeno quelli , che gliscorgevo più pensoli degli
altri, foffero mancati; Mà vedendo quì ancor voi, e più ilari , e disinvolti
del consue. to, è chiaro contrafegno, che le vostre menti, che si ritrovavano
nelle Giornate passate ambigue, non sapendo ancora à che partito appigliarsi,
abbiano già déterminato di seguitar le virtù, avendo jeri gustato, e meditato
in appressoquanto di benc da elle ne possa risultaa re; Onde tutto il giubilo
interno; che voi ora provares non nasce da altro, che dall'essere divenuti
padroni del vostró volere. Spero dunque, che tutti inGeme äverere avuto la
medesima forte d'allontanarvi affatto da' vizj, e di confederarvi con le sole
virtù, e queste fatele ora padrone dispotiche della vostra voz lontà, e non
temere de viżj , che fuor di voi fi ritrovano , che possano essi punto
nuocervi, con tutto che vi tramaffero continue insidie per lo sdegno concepi .
to contro di yoi's che ve ne siete da efti affatto allontanati , perche farà
curau delle virtù il difendervi: Vi säria gran timore quando questi inimici
teneilero tuttavia assediato il vostro cuore, e fiorreffero liberamente
d'intorno alla voftra volontà ; Allora sì che tion potreste fidarvi delle loro
insidie , ftanteche in tal caso le virtù non potriano affiftervi. Vivete dunque
cautelati á non tradire. voi stesli orche ne fiece liberi; e questo seguiria
facilmente quando apriste qual [ocr errors] che segreta porta , per dove
poteffero i'vizj dentro di voi tornare. Per altro faccino pure
fuori di voi quel più , che possono s che punto non vi potranno
danneggiare.L'esempio l'abbiamo chiaro ne i Romani, che fino ch'ebbero Annibale
nell'Italia stiedero con ragione molto mesti, ed affitti per il timore delli
gran danni , che poteva loro apportare, mà appena partito, sollevorno lo
spirito, con tutto che proseguisse à molestarli, e di niuna cola elli ebbero
più spavento, che della guerra intestina, la quale alla fine fù cagione , che
perdelfero la loro libertà. Parerà oggi discorso superfluo il mio,mentre
voi avêdo in abbominazione li vizj;ed essendovi dichiarati seguaci delle virtù,
potrete con la guida di esse consigliare più tosto gl'altri, che aver bisogno
di Direttore, con tutto ciò perche non avete à bastanza ancora acquiftato Puso
di prevalervi di effe , non vi farà infructuoso il sentire da me in compendio
quel bene , che à suo tempo, ed [ocr errors] [ocr errors] in tutti i
vostri maggiori bisogni , questo vi apporteranno , potendo ciò ancoras fervire
per confermarvi di vantaggio della vostra lodevole risoluzione. E cominciando
prima dalla Religione, che con puro cuore profeffate , poiche Non fi
comincia ben se non dal Cielo ; Qucfta non solamente vi darà lume, e vi fervirà
di scorta per quello che riguarda l'eternità, mà vi configlierà di fare fempre
uniti con le virtù, facendovicon chiarezza vedere la deformità de' vizj, e li
gran danni che apportano; Quindi è, che neceffariamente la fapienza deve ftare
unita con la Religione, conforme diffe Lattanzio : Homines ideò falluntur ,
quòd aut Religionem fufcipiunt omissá Sapientiâ , aut Sapientia foli student
omissa Religione , cum alterum fine altero non poffit effe verum ; Oltre di che
vi farà conofcere meglio di che forta d'amici avrete da fare elezione, perche
fe vi abbattete con taluno di coloro, che sono affatto increduli di ciò, che
non veggono, v'in [ocr errors] [ocr errors] finuerà, che questi non sono
à proposito per voi , che ci trattiace quanto porta il mero bisogno ; ma non
più oltre, perche questi sono tenuti da Sant'Agostino per tomini carnali ,
dicendo ; In homine carnali tota regula intelligendi est consuetudo cernendi
quod solent videre credunt ; quod non folentznon credunt; conforme ancora, che
fuggiare ogni altro vizioso , è che v'intrinfechiare solamente con chi è
seguace delle virtù, e finalmente vi terrå fempre circospetti in non prestare
fede à ciò,che leggerete, ò sentirete dire; che poffa in qualche parte
alienarvi dal suo vero sertimento Non ritrovandovi ora in istato di
potere profeffare la Medicina , per non essere totalmente esperti in essa , vi
converrà cercare ottimi Direttori, nella di cui elezione consigliandovi con la
Pradenza , v'insinuerà, che vi appoggiate -à quell'appunto, che descrive
Cicerone in tal guisa : Eft igitur adolescentis majores natú vereri, ex iisque
deligere optimos, e probatisimos , quorum confilio , atque au
auctoritate vitantur : Ineuntis enim ætatis, inscitia ferum conftituenda da
regenda prudentiâ eft. V’insinuerà d'avantaggio la giustižia come vi
dovrete contenere per acquistarvi il loro affetto , che sarà, oltre l'accennato
ossequio, di esser loro fede li, e schiecti z di moftrarvi sempre pune è
tutali, obbedienti, e diligenti in tutti li affari, che v'insporranno,
perche operando või in questa guisa, non solamento v'istruifanio con tutto
l'amore, må vi loderanno da per tutto, dalla quale preventiva commendazione
germoglieranno à suo tempo li principi delle vostre fortune', e troveretegià
spianata la ftria da de voftri progreni s állorché principierete à
medicáre. Intraprendendo con questi felici principj l'attual'esercizio
della Medicinás allorche' già farete divenuti esperti , non pafferă lungo
tempo, che molti di prevaleranno dell'opera vostras & allora appunto li
vizj vi comincieranno à muoa vere guerras e Vinvidia farà la prima ämoà
molestarvi. Questa già da bel principio vi aveva fissato adosso li suoi maligni
sguardi , mà non prima di vedervi avanzati si muoverà per suscitarvi contro li
suoi seguaci, e le comanderà, che spargano da per tutto, che fiere troppo
giovani , che non avete ancora pratica sufficiente, e che dicano con finto zelo
: Oh poveri Malati, che si pongono nelle voItre mani, se questi guariscono
seguirà per miracolo, non per la vostra perizia, e se vedrà, che ciò non basti
per arrestaryi ne' vostri progrelli, invigorirà allora li suoi comandi, e farà
disseminare dalli medesimi, che siete veramente infelici, mentre quanti Malati
vi capitano, tanti ne muojono, e che non sanno capire , come siano così pazzi
coloro, che vi chiamano. Sentendovi calunniare à torto in tal guisa, cosa
dovrete fare? Non altro, che consigliarvi con la Prudenza, e con la Giustizia,
che vi favoriranno assai bene : primieramente vi esorteranno a non prendervene
alcun fastidio, perche è affai migliore la vostra forte و
sorte , per essere invidiati , che non è quella delli vostri calunniatori , che
non hanno chi l'invidj, mà appena tal’uno, che li compatisca. Vi consiglieranno
poscia à non prendervela con quei miseram bili , e vili esecutori dell’Invidia
, perche operano come suoi schiavi, non già come uomini liberi, e se foffero in
loro libertà opererebbero come voi, che aba borrite simili iniquicà. Vi
consiglieranno bensì à mortificare l'Invidia in questa forma, cioè, di
contraporle la vostra umiltà, quando d'Invidia vedrà, che voi non siete ricorsi
alla vendetta rarne il suo ajuto, mà in sua vece vi servite dell'Umiltà,
resterà talmente forpresa, e confusa, che si vergognerà in avvenire di
ciinentarsi più sola con voi, avyedendosi di non potervi abbattere ; mà cosa
farà per non cedere? Si unirà con il Dispreggio, e con lo Sdegno per
necessitarvi à ricorrere alla Vendetta. Questi vizj baldanzosi comanderanno à
qualchuno de' suoi petulanti seguaci, cine vi faccia una mala creanza, e vi
mo per implom desti senz'averne data occafione, in queIto caso ricorrete
subbitamente per consiglio alla Prudenza, che vi farà capire, che di
tal'ingiuria , non ne doyete chiedere fodisfazione dalli seguaci del Dispregio,
e dello Sdegno, perche quei, che seguitano questi yizj , come imprudeņti, sono
ancora pazzi, & į pazzinon essendo capaci di discernere ciò che fạnno, non
sono tenuti di renderne conto; Contro li principali dunque, & autori caderà
il vostro sdegno , e questi, come vi consiglierà che li mortifichiace ? Non già
con la vendetta, perche questo appunto desidereriaạo che faceste, cioè, che
ricorreste ad un'altro vizio, che vi tradise, e cogliessę nel mezo per forzarvi
å rendervi à loro discrezione, inà bensì con la sola sofferenza tanto da essi
temuta per il grandanno, che loro apporta, & affinche lo facciate con
aniino generoso vi riferirà li seguenti casi. A Diogene Filosofo Stoico,
mentre stava disputando particolarmente della collera , gli fù da un protervo
giovane fpu Sputato in faccia , sopportò egli il tutto
piacevolmente , e da savio, e solo disse: Io non vado veramente in collera , mà
non lasciò però di dubitare , fe in questa occasione doveffi farlo.
Catone mentre staya difendendo una causa ricevette da Lentulo giovane seditioso
ua folenne sputacchio nella fronte, egli si nettó, e rasciugò la fronte , &
armato di una gran sofferenza, solo diffe: lo affermarò à tutti, ò Lentulo, che
fi gabbano quelli, che negano, che tù abbi bocca. Rifettendo voi dunque
all'ingiuria maggiore della vostra fatta ad uomini di tanta stima, & al
modo, che si conțennero vi si renderà più facile l'esecuzione del confimile
ripiego propostovi dalla prudenza , mediante il quale avvedutosi il Dispregio,
e lo Sdegno, che in vece di quocervi vi hanno accresciuto ftima appresso tutti,
desisteranno ancora eff di più moleftärvi, vedendosi dalla vostra sofferenza
delusi, e vinti, Arriverete al fior degl'anni avan. [ocr errors] zati già
ne' commodi, & in conseguenza con più lautezza nudriti. Allora vorrà
facilmente la lussuria cimentarsi con voi, e per farvi qualche danno
considerabile, vitenderà molte insidie , vi farà trovare occasioni pronte;
procurera, che siate con vezzi, e lusinghe adescati; Allora cosa farere?ftate
faldi,perche sarà contro voi questa una gran guerra, mentre non avrete campo in
quel punto preso di consigliarvi con le virid, ftanteche : Vinum, &
Mulieres faciunt prevaricare Sam pientes., come ben diffe Salomone. State
faldi, che è pur troppo vero, che molti si sono arrenati per questa cagione nel
meglio de’loro avanzamenti : Vi converrà dunque procurare di prevenire
l'infidie della lussuria, e non aspettare di cssere prevenuti da effe , e
questo lo farere , quando sarete prossimi à quel tempo con chiamare à consiglio
generale turte le virtù per risolvere cosa sia efpediéte,che facciate,ò di
accasarvi,e con chi, ed in che tempo, ò di continuare lo Aato libero,e con che
cautele maggiori,La Prudenza, e la Giustizia vi con figlieranno facilmente à
prender mor glie, con il motivo gịultiflimo,che quel la vita, che da voltri
genitori riceveste con voi non si estingua, mà che per la conservazione della
propria specie law propaghiate ne posteri, ed à buon fine ancofa, che non
abbiate tanto da impazzirvi nella vostra vecchiają à cercare l'eredi, conforme
ad alcuni, che non mai fi cușorono del titolo di padre è accaduto; La sola
difficoltà si rifringerà allo sciegliere chi faccia per poi , perche la
Prudenza, e la Giustizia vi vorranng consigliare diversamente da quello si
pratica in alcuni luoghi, dove il folico di cercare chị abbią dotę groffa
, chi sia bella, e fpiritosa; la Prudenza non vorrà, che cerchiate questo, in
primo luogo, mà bensì, chi sia di buoni natali, di perfetta faļute, e di ottimi
costumi, ¢ ben’educata ; e con ragione, perche non deve essere affare di minore
impostanza l'accasarsi, di quello, che sia di fær compra di un cavallo; e se
per comprare un [merged small][merged small][merged small][ocr
errors] [merged small][ocr errors] un cavallo ( che non riuscendo buono fi può
subitamente dar yia) fi ricerca in primo luogo la buona razza, fe fia fano, e
se abbia vizio'alcuno, perche nel pro- : vedersi della compagnia inseparabile
non si hanno da fare fimili diligenze Sicchè trovato che ayrete chi abbia le
condizioni sudette stringete, senza più indugiare , il vostro matrimonio, con
quella dote, che avrà, senza ricercarne d'avantaggio, che farete un'ottimo
negozio, perche quattro faranno le doti, che prenderete, una sola apprezzata ,
e trè inestimabili , per non effervi prezzo, che le uguagli', e saranno, la
buona nascita,la salute, e gli ottiini costumi, con la buona educazione, &
avvertite à non fare diversamente , per non cadere nella sventura di Socrate,
che fi abbatte in una inquietisima Santippa. Circa il tempo in cui lo dovrete
fare viconsiglieranno, che non lo facciate nè troppo giovani , nè croppo
vecchi, mà bensì nell'età virile, ed allora appunto, che ayrete stabilito
un'assegnamento suffi ciente 1 [ocr errors] ciente per
il inantenimento della vostra fameglia, e non prima , pèrche si
ricerca fenno, e cominodica per effere, buon Pa- dre di fameglia.
Non troppo giovani, per non distogliervi da vostri studj, ed
avanzamenti, ne' quali non sarete anco- ra bene stabiliti , nè troppo
vecchi, per non lasciarli, se avrete figliuoli, troppo immacuri, e
senza avyiamento, e per non foccombere ancor yoi fotto il peso del
matrimonio prima di quello , che fareste vivendone disciolti ,
conforme à tanti è accaduto , Şe poi voi adurrete alla Prudenza
, e Giustizia li seguenti motivi, che avete esimervida simile
legame, che sono; ò che già vi è nella vostra fameglia, chi sia atto à
sostenere un simil peso, ò che dubitate , che la moglie, e l'educazione
de'figliuoli vi possano distogliere dalla voftra professione, qualche altro
inotivo à voi folamente noto non crediare, che yi forzeranno già à farlo, vilascięrano
in tutta yostra libertà, vi consogneranno bensì alla Fortezza, e Tempe
Q: per [ocr errors] ranza, } ranza , acciocchè vi
consiglino, e prestino ajuto in caso, che la Luffuria vi fa. ceffe qualche
violenza . Il consiglio, che quefte virtù vi daranno sarà facilmente, che siate
circospetti, ed appena , che vi sarete avveduti di qualche laccio, che yi
tenderà la Lussuria di troncarlo,e prima che vi poniate il piede, che siate
fempre cautelati nel parlare , ę fentendo qualche parola equivoca, l'interpreciate
sempre à favore dell'onestà, né la crediate detta per voi, che ricevendo
qualche cortesia insolita, la crediate fatta solamente per isperimentare la
vostra modestia, e non ad altro fine , onde la cancellerete subitamente, acciò
la rimembranza di quella non turbi la vostra fantasia ; Che vi moftriate sempre
sostenuti più tosto, che galanti in certe occasioni di confidenze, dalle quali
con bel modo procuriate di liberarvene , che da certi luoghi sospetti,se ne
potrete fare a meno, ne stiate lontani, & andandovi, procuriate efservi in
ore, che vi fieno altri, perche al parere di Seneca : Magna pars
peccatorum tollitur fe peccaturis teftis alibi Aat(a); ed ivi non
vitrattenjate più del bisogno necessarios e sempre con discorsi
serj, ed uniformandovi alli consigli della Fortezza, e Temperanza
non diffidate punto della loro allistenza nelli maggio si vostri
bisogni, che dureranno lino à tanto. che sarà in auge il fervore
della vostra gioventù . Il vizio della gola vorrà aticor'egli
fare tutti li suoi sforzi contro di voi in decto tempo più profpero di
vostra vita, per vedere se vi potesse adescare; e cofa
farà a comanderà facilmente à qualche- dano de' suoi ricchi feguaci
, che facen- do uno de' fuoi sontuolillimi pranzi, o
cena; conviti ancor voi; considero , che vi troverete in quel
punto preso incri- garislimi, perche rifletterete allora ,
che le ricuserete tale invito , sarete' tenuti per
uomini incivili, che non gradite li favori, e cortefie, che vi fi
fanno; fed l'accetterete,metterere ad un gran risico
Ja vostra temperanza , onde vi converrà (*) Episi 11.di
questo ancora chiederne preventivo Consiglio s. per aver pronto il suo fano
imedio per quando vi capitaffe il bio fognb. si Consigliandovi
preventivamente con la Prudenzás.per sapere in che modo allora vi dovrete
contentere, sarà facilesi chievi dica;;che se viritroverete in luoo ghi dove
sia solito, e che frequentemente li Medici fiano convitati, & intervenghino
in fimili bancheteis. non ricusate tali inviti s perche quelle cose, che sono folite',
nou recanto alcuna aimniirazione, non facendosene caso,basterà solamente; che
yi sappiate regolare con giadizio in non pregiudicare di molto alla
vostra consueta fobrietás perche nuocerestu e è più li denti nel
masticare , che la gola nell'inghiottire si e diportandovi in tal guisa,la gola
avrà poco guadagnato con voi; Sepois dove voi dimorerete , non fosse in uso, mà
solamente, che di rado li Medici v'intervenissero con modo al fai civile,
che lo ricusiate pure,non man.. candovi legittima scusa, mentre ò la vo(tra
complessione non assuefatta à fimili disordini, ò qualche cura riguardevole,
che avrete in quel tempo, queste vi potranno efiinere onestamente da qualunque
taccia d'inciýiltà . 03.15 Sò che vi appagherete di tal distinzione saviazfatta
dalla Prudenza, effendo. voi capaci di riflettere , che dove i Mea dici
ricevono spesso simili correfie fono molto stimati, ed in conseguenza i loro
difetti non sono con tanta attenzione norati da tutti, come l'opposto segue
dove di detta stima si penuria. E certamente l'esperienza hà fatto
vedere, che nel secondo caso, quando li Medici si sono voluti azardare à fimili
cimenti, se ne sono poscia pentiti, ftante che, ò per non essere cosa solita ,
ò mediante la curiosità di vedere in che modo si regolavano coloro, che tanto
biafie mano la crapula, hanno ritrovato iyi molti spettatori de' loro
portamenti, che li hanno posti in qualche suggezio. R 4 [ocr
errors] ne, he', mediante la quale ; se hanno procutato di contenerli
nella sobrietà, hanno. fentito de'motteggiametitizñiehte da effi graditi, e se
hanno disordinato, gli sono giunti all'orecchie certi sussurri della's fervitů
z che diceva : Il buon Medico che biasima tanto li disordini , egli troppo fà
peggio di noi, andiamo à credere cið, ch'egli dice; Se poi taluno di elle fia
restato gabbato dal vinos non hà troVato già chi l'abbia seusato ; conforme
fece Seneca a favore di Catone; impuitato di fimile vizio, dicendo, che non
poteva essere, che un Catone fi ubriacasses mà quando che ciò fosse stato vero,
in un Catone fimile vizio faria passato in virtù . Mà non si sono già
pentiti quelli ; the civilmente ricufarono fimili inviti, mentre fattisi capaci
coloro, che desideravano di vederli crapolare; dalli giusti motivi apportaci
per iscusa, rimasero più tosto edificati, che disgustati da fiinili repulse, ed
in segno di ciò ne diedero in avvenire attestati di maggior ftima: Ne
ро [ocr errors] [ocr errors] potrei di questi efempj riferire alcuni a
mà, per non dilongarmi troppo , ftimo bene di tralasciarli . Sicche, per
vincere la gola , il partito più sicuro sarà di fuga gire l'occasioni pronte di
crapolare con un'onesta ritirata , conforme la Prudene za configlia :
Stabilito che avrete il vostro itato à quel fegno che potrete ; non solo per
decentemente vivere , e mantenere con decoro la voftra casa j mà ancora con la
vostra economia accrescerla commodamente; allora l'ingordigia , e l'infariabia
lità di cumulare vi comincieranno & muover guerra, e quello, che farà più
formidabile con apparenze vantag: giofe v'infidieranno alla vita , mentre vi
Itimoleranno, e vi violenreranno infieme ad accettare tutto ciò che vi si pre
fenterà davanti , e fe quefto non bastera à renervi nottése giorno occupati, vi
ftimoleranno à procurarne de' nuovi fervigj, e certainente non per altro fing,
che per distruggere in breve il vostro inzia dividuo con una eccelliva fatica,
con una 1 250 Dell'Idea del vero Medico. una continua
inquietudine di animo,con una perpetua schiavitudine, credute tutse dal Mondo
pazzo per felicitàe per prosperità di fortuna Cosa dovrete dunque fare
per rimuovere da voi un sì evidente pericolo di vita, che vi sovrasta 2 Vi
converrà certameute prenderci rimedio prima, che questi nemici facciano breccia
nel vostro cuore., e parlamentino con il vo. ftro desiderio, perche altrimenti
con lo fplendore dell'oro li guadagneranno, ed il suo rimedio ficuro farà, che
quando ' non ifta concento di ciò che hà, e vorrà procurare cofe
maggiori, di consigliarvi tosto con la Prudenza, che questa facilmente lo
quieterà con dirvi : Cofa bramate d'avantaggio a non avete, più di quello vi
bisogna rimirate quanti altri, che hanno accor essi egual merito alvoftro, sono
più attempati di voi, e pure non sono così ben proveduti, come voi fiere:
Ditemi, che tempo avete , che vi avanza , quando appena ne resta tanto ,che
basti per lo studio necessario's e pery il bisognevole riposo ? E quale
di questi due tempi vorrete impiegare nelle cure di più, che deside rate
confeguire ? forse il primo ? La Giustizia se'ue sdegnerà per non esser vostro:
Forse il secondo, che è cutro vostro & come potrete vivere s fapendo voi,
che: Quod caret alterna requie durabile non eft. Riflettete attentamente, che
lo le pioggie curte cadessero sopra pochi campi, in vece di ravvivarli, e
rendera li più fécondi , opprimeciano più costo quanto di verde li ricopres e
che la gran Providenza ,che saggiamente opera, dispensa il publico bene à prở
di cucţi; facendo, che il Sole non per pochi, mà bensi per tutti risplenda', c
finalmente che le taluno vorrå soverchiainente cam ricare il suo stomaco, anco
di dolcissimo cibo , gli converrà ben spesso soffrire aspri dolori di ventre.
Risplende molto l'oro, må riflettere ancora , ch'è più' grave di qualunque
altro metallo , onde neceffariamene ammaffarne di molto non si può
G può senza restarvi affatto oppresli id Breve sotto il suo grave peso, o per
la meno perderci la propria libertà; Quindi è, che faggiamente Curio ricusò
da'. Sanniti tutta quella gran quantità di oro, che gl'avevano portato 5
dicendo foro, che esso credeva cosa più gloriosa il poter comandare à chi
molt'oro possedeva , di quello che fosse il possederne di molto ; volendo in
tal guisa farci ca. pire, che non si poteva cumulare oro in: gran copia, e
mantenere la sua libertà. Il mio configlio dunque è, che freniate il vostro
defiderio, acciò non bramjata nè pure una cura d'avantaggio di quel le, che
potrete commodamente reggere, e tanto maggiormente, che quefta voce Cura
appresso li Latini non significa altro, che Briga, è travaglio, ex eo quod cor
edat, dw excruciet, delle quali conviene ayerne folamente tante,quante baftino
à poterle fofferire, e non più , verificandosi in esse più, che in ogn'altra
cosa quel detto: Ne quid nimis . Sentitene però il parere della Giustizia per
res go: [ocr errors] golarvi fino dove vi potrete stendere;
per non incorrere nella caccia d'insa- ziabili. Voi sarete
facilmente rimasti per ora appagati di quanto vi avrà detto
la Prudenza, à segno, che non vi curerete sentire altro
conseglio, con tutto ciò per convenienza almeno sarete
tenuti,aven- dovi ciò la sudetta incaricato, di sentir-
ne il parere della Giustizia , intorno al vostro regolamento, e con
tale occasio- ne vi potrete consigliare ancora sopra un certo
ripiego, che facilmente il vo- ftro desiderio visuggerirà, cioè di
all.com gerirvi de’ servigi antichi per proveder- vi
de' nuovi di maggior vostro profitto, e minor briga, il quale non
lo dovrete porre in esecuzione senza l'approvazio- ne
della Giustizia. Esposto , che avrete a questa fanta virtù ciò, che
bramate sapere, ella cortesemente y'insegnerà ciò, che dovrete fare intorno al
vostro regolamento, che sarà di misurare in primo luogo le vostre forze , &
il tempo, che vi resta libero, [ocr errors] e poi l'impiego , che vi si
presenta, e se rincongrerete le misure proporzionate trà di loro , accettatelo
pure, senz'alcun timore della taccia d'insaziabili; Vi suggerirà però, che
stiate bene oculati in prenderne le dette misure à suo dovere, affinchè non
reftiate ingaonati, perche . altrimentiaffatto infructuofo riusciria il fuo
configlio,ed acciocchè non segua un tale errore, vi darà lei medefima dug meze
canne, una delle quali la troverete molto scarfa, e l'altra affai vantaggiosa;
con la prima yi ordinerà, che miluriate le voitre forze, & il tempo, che vi
ayanza ; con la feconda l'impiego, che vi li presenta, e prendendo voi le
misure in questa guisa yi assicura la Giustizia , che non potrete errare. Doye
che facendoli da voi diversamente, tutte le altre meze canne , che adoprerete ve
le porgerà il yostro desiderio fatte à suo modo, e saranno tutte yantaggiose di
molto quelle, con le quali misurerete le vostre forze, & il tempo, e
scarsiffime quelle, delle quali yi servirete per misurare l'occasio
ni, [ocr errors][ocr errors] ni , e questa è la cagione de? sbagli, che
fi prendono contro il volere della Giuftizia , c per due capi, (primieramente,
perche chi misura in cal guisa erra per abbreviare la lunghezza di fuá vita ,
divenendo omicida di fe medesimo, sì ancora per il danno,chie nc poffono
riceveré alcunische ad ore affai incongrue, ed à mente stracca gli cocca per
fimilisbagli essere curati. In glçre vi dirà apertamente, che non dovrere
in conto alcuno disfarvi delli servigi antichi per prenderne de' nuovi in fua
veće, perche non avete alcuna giusta cagione di farlo , anziche facendolo,
mostrereite una somma ingratitudine in abbandonare chi in temро de'
vostri bisogni vi fù grato , e chi vi favori ne' vostri avanzamenti, non con
altro motivo, che de' yostri maggiori vantaggi ; se poielli, senza alcuna
vostra colpa, fi alienaffero da voi , in questo solo caso, perche volenti nan
fit injuria, lo potreste fare senz'alcuna taccia d'ingratitudine; e së
esercitaste la Me256 Dell?idea del vero Medica, Medicina in certi luoghi
lontani, dove alcuni li prevalgono di un Medico fino à tanto, che lo vedono
incominciare à far negozj, ed allora se ne disfanno per prenderne à proteggere
un altro : İyi basterebbe pazientare un poco, che vi li presenterebbe
l'occasione di poter: lo fare, mà dove ciò non li costuma vị convien’essere
grati, e costanti, fische sarete capaci di medicare, Con tutto che
resterere per qualche tempo appagati di quanto vi hanno consigliato la
Prudenza, e la Giustizia perche il vostro desiderio yerrà conținuamente
bersagliato daļli sudettį ab. bominevoli vizj, sarà necessario, chcimploriate
l'affiftenza della Fortezza , e Temperanza , acciò perseveriare sempre Itabili
nell'offervanza di detto consiglio, & il maggior bene, che dette virtù vi
potranno apportare, sarà d'infinuaryi diverse istorie di coloro, che per essere
Itati insaziabili, nel colmo delle loro credute prosperità sono mancati, eche
infelice memoria di esia ne fią rimasta trà noi [ocr errors] و
[ocr errors] noi, mentre chi ha lasciato la sua fameglia appena slattata ,
senza indirizzo, a senza guida, chi intricata la sua eredità , per non aver
avuto tempo in vita di ben'impiegare li suoi avanzi; chi, doppa fofferta una
lunghissina, e dispendiosa infermità, acquistata per li suoi grans Strapazzi ,
appena hà lasciato tanco, che bastasse al suo funerale; e finalmente cosa sia
stato detto di tutti doppo morti, cioè, che non'ınericavano d'essere compatiti,
perche erano morti per colpa loro, avendo voluto abbracciare troppo, e più di
quello, che potevano reggere, çon tutto quello, che la maledicenzą gradita, e
senza timore alcuno så inventare di peggio contro i poveri des fonti,
Impresli, che avrete sì spaventosi esempj nelle vostre menti, con la
riferfione, che il simile seguirebbe in voi, fc cadefte in tali errori, non
temeţe più , che il vostro disiderio possa essere superato da simili vizj ,
perche questi gļi serviranno di un gran freno , R Nelle Nelle
vostre maggiori prosperită l'Adulazione ancora vi farà doppia guerra la prima
confifterà in ispargere di voi più lodi di quelle , che meriterete, per
risvegliarvi contro l'Invidia , quando fi foile mai adormentata, mà trovandovi
già premuniti de' buoni avvertimenti dativi dalla Prudenza, non vi potrà punto
nuocere in questo primo asfalto, e se uniręcę alla fofferenza una profonda , e
fincera umiltà, supererete l'Adulazione, el'Invidia nel medesimo tempo,
Màvedendofi da voi la maliziosa Adulazione fchernita , adoprerà tutte le sue
frodi per violentarvi ad essere suoi seguaci , e per farvi divenire per forza
Adulatori, come farà mai ? Sentite bene; Pren. derà l'occasione di qualche cura
grave, nella quale intervengano molti parenti, & amici dell'Infermo, e vi
farà da queiti porre in angustie di diventare Adulatore per forza,
per li seguenti impulsi : Vi dirà taluna di esli , questo male si aggrava,
perche non gli fate applicare quattro vefficatorja se ne morirà senza
questo [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small] questo
rimedio, e la colpa farà tutta yostra, che trascurate un rimedio sì efficace.
Un'altro vi dirà: perche non gli date una buona Medicina da tirare giù ? lo
volete lasciar morire senz'ajuto? ayver, cite, se muore , fentirere, che si
dirà di voi, à me basta di avervelo avvisato. Vi sarà ancora trà essi chị vi
ayyertirà, che se gli cavate sangue morirà certamente, perche non gli conviene;
e d'avantaggio vi dirà , che se lo cayerere lo amazerete, e derro male farà per
appunto un'infiammagione interna , nella quale non conviene ciò, che viene
proposto , e gli sarà necessario quanto viene ritardato. Vedete in chę angustie
, in che laberinţi vi troverefte, se non aveste la Prudenza configliera ?
Imitercste senza dubbio, ò quel Medico, à cui un tempo fà , fù suggerito da
un'amico dell'Infermo , in un caso simile , un certo riinędio, dicendo, che lo
proponeva , perche cra esso ancora mezo Medico ; A cui alquanto alterato gli
rispose: & io son tutto Medico , conviene dunque, che la mecà ce [ocr
errors][ocr errors][merged small] fi: 28 公
1 da al tutto; Io, che sono tutto, non voglio che si dia , non si deve
dunque dare; O pure quell'altro, che ritrovan. dosi in un fimile intrigo»,
doppo aver dette le sue ragioni , senza profitto, rifpose : Giacchè loro
Signori ne fanno più di me, facciano loro la cura , e se ne andiede via, mà ciò
non lodandolo la Prudenza, sentirete dunque da lei , in che forma vi dovrere
regolare. Sentendo riferire da voi questo fatto la Prudenza disapproverà
molta, che chi non è Professore, ardisca così francamente di proporre, ed
escludere quelli rimedj, che in mali sì gravi danno molto da pensare alli
medesimi Professori provetti, e che pongano à cimento li onorati, con modi si
violenti, di diventare Adulatori, e facilmente in tal guisa vi consiglierà:
Dite le vostre ragioni à chi bisogna, con animo composto, e questi, ò fi
appagheranno di quelle , ò nò, se ne resteranno fodisfatti, rimarrà già
terminata la controversia , e potrete fare liberamente à voftro modo, se poi
persisterahtio ancora ostinati nella loro opis nione , allora suggerite, che
tratrandosi di un male sì grave con tante controverfie, desiderate nella cura
di avere altri Professori compagni per meglio risolve. re ciò, che si debba
fare ó e procurate, che con sollecitudine ciò segua y acciòcchè la lunga
dilazione non pregiudichi all'Ammalato, e che ne consulti siano presenti
coloro, che fuscitorno le controversie , affinche sentano con quante
circospezioni sono serviti gl'Infermi, ed ancora se avranno qualche cosa di più
la poffano dedurre à tutti. Facendo voi à modo della Prudens za, non
dovete avere più timore di prevaricare, perche la Fortezza vi assisterà, c
consolerà insieme , l'assistenza sarà di non farvi prendere in questi casi
certi : dannosi ripieghi, che sariano , in vece de' vefficanti d'applicare li
senapismis di un purgante , dare un leniente, ed in tanto d'andare differendo
la sanguigna , facendovi conoscere, che l'operare in questo modo non è da
Medico, mà bensi [ocr errors] 9 [ocr errors] da Adulatore, e che
quancunque questi tali nelli funesti eventi fieno dall’Adulazione tenuti
indocenti, e difefissorio però dalla Giustizia creduti rei di gran colpa s con
tutti quelli, che ne diedero l'occasione, e vi confolerå parimente la Fortezza
con dirvi: Si poffono chiamare tempi felici nella Medicina li presenti, non
vedendoli ora l'Adulazione premiata à quel segno, che era ne' tempi di Galeno,
nè la lincerità così vilipesa; Allora trionfavano li Medici Adulatori, erano
ricchi, e potenti gerano stimati , e riveriti, ogn’uno facęya à gara di fayòrirli,
eli onorati, sinceri, e docti se ne stavano abbandonati, derisi, evilipeli, e
se non fosse stata la mia grand'alistenza,che prestavo loro , nè pure úgo ne
sarebbe rimasto di efli, anzi Galeno isterlo, che non avesse prevaricato per
quanto venivano violentati dall'Adulazione :' So, che presterete fede à quanto
vi dico, mà volendovene accertar meglio di quanto fuccedeva in quei cempi
leggere ciò , che Galeno riferisce nel primo del suo [ocr errors]
me. [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr
errors][ocr errors] metodo, che appunto è questo: Eoque jure fit cum ægrotare
cçperint Medicos advocent , non quidem optimos į utpotè quos per Sanitatem
noscere nunquam ftuduerunt , fed eosy quos maxime familiares habent ; quique
ipfis maximè adulentur , qui du frigidam dabünt; si banc popofcerint, lavabunt
cùm juferint; a nivem; vinum= que porrigent poftremò quidquid jubebitur
mancipiorum ritu facient &c. itaque non qui meliùs arten callet ; fed qui
adulari aptiùs novit apud iftos magis in pretio eft , buic omnia plana's
perviaque funt , huic ædium fores patent ; hic brevi efficitur dives,
plurimùmque poteft &c. Quali violenze oggidì sono cessate , mercèche hanno
imparato molti à proprie spese à non commertere più la loro vita in mano
degl'infidi Adulatori, e perciò essendo mancati per loro l'impieghi, e li gran
guadagni, che in breve facevano,è mancato ancora quel grand'impulso, che vi era
à dover effere Adulatori per essere adoperati, e tutto questo mi costa
per essere io la Fortezza, che affifto à quei ز e. lig a fe ne be
he ni dy 112 to 5, 10 generofi spiriti,che abborriscono l'Adulazione ,
& abbandono quei vili, che se le danno in preda Se poi non bastasse
all'Adulazione d'avervi fatto violentare da parenti, ed amici, mà volesse ancora
farvi forzare dall'Infermo isteffo à divenire suoi fem; guaci , in questo caso,
fatte che avete le diligenze propostevi dalla Prudenza; e. che mediante quelle
egli non resti appagato, la Giustizia non vi violenterà già à continuare il
servigio, vi forzerà bensì à non divenire Adulatore , onde in questo caso, con
tutta civiltàs procurerete ( quando l'Infermo' non deliri) di consegnare ad
altri ciò, che non fà per la vostra riputazione ; ben’è vero, che questi sono
casi rarissimi avendo molte altre cose da penfare l'aggravato Infermo, che di
voler'essere adulato, con tut per farvivedere, che ve ne sia stato
qualcheduvo, che abbia desiderato di cllcre adulato fino alla morte, viriferirò
la presente istoria : Una persona di qualità cospicua, molti anni sono,
dovendosi pro to ciò [ocr errors] [ocr errors] provedere di
Medico; ne scelse uno tutto di suo genio, ed avendolo participato al suo amico
di confidenza ; questi in vece di rallegrarsene seco se ne condolse, dicendogli
apertamente, che poteva fare meglior'elezione , essendovene tanti più esperti
del già eletto 3 replicò à questo: Lolo-sò beniffimo, mà hò voluto pren derne
uno, che faccia à mio modo ancora quando mi trovo ammalato, perche io non poffo
Coffrire quel Medico, che allora mi voglia forzare à fare à suo modo, gli
rispose saviamente l'amico : Signore, chi fà à suo modo quando ft benes:
conviene , che faccia à modo del Medico quando ftà male, non poffo lodare la
sua elezione, con tutto che sia di suo genio, perche si tratta di Medico, à cui
si consegna la propria vita, non già di un servidore di mera comparsa ; che
poco importa di che abilità egli sia, mà non paffarono molti anni, che detto
Signore cadde inferino di lunga , e fiftidiosa malacia, che terminò finalmente,
per essere vissuto à suo inodo in un'ascelfo interno, espurgava della marcia
per feceffo , la vidde l'isteffo Infermo, che diffe, non farà marcii , må bensì
il pangrattato, che hò preso questa mattina lo domandò al suo Medico, che gli
rispose per dargli gufto, quello appunto & Signore, e con quel pangrattato
se ne mori, adulato sempre fino al fine della fua vita. L'Iniquità, e
l'Inganno confederati , nôn porerido più Toffrire, che voi godiare quella bella
tranquillità interna per cagione delle vostre virtù, vorranno ancora effi con
le loro frodi adoperare ogni sforzo possibile per turbarla ; ed in fare ciò vi
toccheranno facilmente nel più vivo, inolestandovi in qualche cosa di vostra
somma premura , e doppo di aver consultato trå fe più danni,risolve, ranno alla
fine di farvi perdere il servigio di quelli, che vi sono più á cuore, € tanto
si adopereranno,e con tanti mezi s'ingegneranno, che finalmente gli riufcirà
ciò, che bramavano i onde voi, senza faperne il perche , e senza averne
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alcuna occafione , essendosi con in? sidie segrete proceduto , all'improviso vi
troverete esclusi da quel servigio da voi tanto prediletto. E che farete
allora? vi dolerete forse con la Giustizia ; che siete stati licenziati à torto
? Avvertite , che facendo in tal guisa imitereste Santippa, che si doleva della
morte di suo marito , perche si faceva morire å torto, à cui il sapience
Socrate rispose : E che desideravi forse, che io foli fatto morire à ragione ?
questa appunto è la mia gloria, che sono fatto inorire à torto. Sicchè alla
Giustizia non vi cooviene ricorrere, må berisi dapoi che fi sarà alquanto
calmato quel senso, che neceffariamente vi avrà apportato una nuova ingrata, ed
improvisa, dovrete ricorrere alla Pradenza per riceverne il suo configlio à
fine di poter più spedicamente restituire all'animo vostro quella bella calma,
che dall’Iniquicà, e dall'Inganno gli era stata rubata : La Prudenza
senrendo da voi tal novità vi consolerà certamente, ftate al [ocr
errors][merged small][ocr errors] allegri, dicendovi , che questa è una's
grazia, che vi fà la Divina Providenza, facendovi capire , che vi dovete
alquana: to staccare da ciò, che nel mondo vi è più caro , per confidare
solamente in lei, che non mai hà abbandonato chi fedelmente la serve. E di che
vi dolete? forse perche perduto avete un servigio à voi caro ve ne restano pure
tanti altri? com- .. partite tra questi il vostro affetto, che così non avrete
fatta perdita alcuna potendone del vostro amore ricevere da molti maggior
ricompensa di prima, ò pure (che sarà meglio ) questo vostro amore non gradito
dagl'uomini accrefcetelo à Dio, che vi recherà molto maggior profitto di quello
, che vi rendeva prima. E se veramente amate di cuore quella casa, che avete
perduta g non vi dovete contristare della perdita vostra , mà bensi della sua ,
avendo lasciato voi, ch'eravate già istrutti da tanto tempo nelle complessioni,
e mali di chi ivi conviveva per prenderne uno affatto novizio , che prima , che
ne qa divenuto 1 capace à quel segno, che voi siete, vi vuole del
tempo affai, & in tanto come anderà? e poi se questo nuovo eletto fù
complice ancor'egli nelli segreti trattati dell’Iniquità, e dell'Inganno , che
bell. acquisto , che averà fatto, prendendo uno di simili costumi in vostra
vece , che fiete uomini di onore, talche non voi, mà chi vi lasciò hà occasione
d'afAliggersi, perche danno à se stesso feçe, non à voi, che per essere esenti
da questa briga ne ricevere sollievo ; chi è pari. mente entrato in luogo
vostro , se pur? egli è complice, come disfi , ayrà molta occasione da
contristarsi per la finderesi, che gli resta di non avere operato come dovea, e
per il timore, che un giorno il fimile possa succedere à lui ancora.Quietatevi
dunque , giacchè rammarico alcuno non vi resta d'averli mal serviti, con questa
ferma fiducia, che in quel sito ( come tante volte è accaduto ) da dove la
malvagità, e l'inganno hanno tolto à viva forza un virgulto , la Giustizia vi
pianterà un vago, e glorioso lauro con [ocr errors] con questo motţo
;Ųno avulo splendidior non deficit alter; molto di più vi potrei dire, se non
lo riputaffe superfluo, poiche gl’animi vostri ben moriggeräti con pochi motivi
si sodisfano, e li calma. no, allorche vengono da accidenti im. provisi
turbati, Udifte come vi consolo bene la Prudenza, e con che fortį motivi
, li quali fe li cerrețę impressi nelļe vostre menti, quantunque vi giungano
simili accidenti in avvenire, punto non vịcontristeranno, avendo questi forza
di disporre gl'animi vostri à foffrirli coftantemente, ed in conseguenza di
fare, che li sudetti vizj delle loro iniquità non trionfino. L'Ambizione
yorrà ancor'effa nell' auge delle vostre fortune tentare, fe potesse fare
con yoi quaļche acquisto; s'ingegnerà di porvi nella mente idee grandiofe ,
viftimolerà à molte imprese, con pretesto di rendervi a' pofteri gloriofi : Per
esempio , fe y'insinuerà di comporre qualche vago sistema di Medicina, qualche
nuoyo metodo di medicare , à qualche altra cosa non pensata , nè tencat fin'ora
da altri, e voi ricorrere subbita. mente alla Prudenza per consiglio, e vedrete
come v'indirizzerà bene ; intorno à nuovi sistemi, e metodi di medicare vi farà
questo dilemma: O ve ne sono trà gl’inventari de' veri,ò nò; Se ye ne sono,
perche non li seguitate? che cosa yolete cercare di megliore della. verità? Se
poi non vi è cosa ancora accertata in quelli, avendoyi per tanti secoli
frayagliato una infinità d'uomini dotti, cosa yi persuaderete di fare di
vantaggio ? non vi avvedete , che indarno faticherefte ancor voi, senza speranza
alcuna di gloria, e se pure la conseguiste saria per pochi momenti; Il sistema,
ed il metodo corrispondono al tutco, e quando questo non regge , e non
suflifte, è se. gno evidente, che le fuc parci costitutive fono difertose;
Impiegate dunque ogni voftra fatica in accertare , e rendere palese qualche
parte di esli, che vi avvedrere, che sia oscura, ò che manchi, la quale benchc
minima , nulladimeno una gran gloria vi apporterà, allorche l'averete
accertata, e rinvenuta , e lascierete tali imprese grandi a' pofteri , che fi
renderanno più facili a'medesimi, ale lorchè acquistate, saranno maggiori
notizie delle loro parti costitutive,di quel, le ve ne fieno al presente; E per
non effere creduți imprudenti scegliere di queste le necessarie , come avvertì
Cicerone, (a) dicendo : Alterum eft vitium, quòd quidàm nimis magnum
gran ) ftudium , multamque operam in res abfcuras , atque
diffaciles conferunt , eafdemquè non necesarias; e quelle ancora, che sieno
proporzionate alle vostre forze, come insegnò Orazio :(b) Sumite materiam
vestrisqui firibitis aquam. Viribus , & verfate diù quid
ferrere cufent Quid valeant humeri. E
perciò vi consiglierà la Prudenza d'impiegarvi in yostra gioventù intorno į a'
ritrovamenti Anatomici , Chimici, of[a] Primo de Officiis. (b] De Arte
Poetica. osservazioni Mediche e d'altre cose utili, che
richiedono ayvedutezza di mente, buona vista , afsiduità , pazien-
za, e sanità, e questi accertati, che sono incontrovertibili, rimangono
per fem- pre, e vi dissuaderà in detta età di dare alla luce
trattati di nuovi modi di inedi. carc,essendo allora appunto come i
frut- ti fuori di stagione, che non hanno tutta la loro
sostanza, dovendosi ciò maturare nell'età avvanzata, e colma
d'esperienze pratiche , dal che si può dedurre la ca-- gione,
perche talvolta ne’libri,che trat- tano di pratica , alcune cose, che vi
fi ritrovano non si verificano punto, e ciò proviene , perche
furono descritte da Medici , che non avevano ancora tutta
l'esperienza necessaria per meglio accer- tarle. Vedendo
questo vizio di non avere { potuto nella vostra persona fare alcun
guadagno, vorrà far prova, se per l'amore, che portate à qualche vostro
figliuolo vi potesse far prevaricare, e vi anderà suggerendo à poco a poco, che
avendo S voi [ocr errors][ocr errors] voi de' buoni
Protettori, gli procuriate, mediante il loro ajuto, qualche titolo nobile ,
qualche carica onorifica superiore alla vostra condizione per inalzarlo, e
dargli insieme attestato del vostro amore, e benche questo non cada nella
persona vostra direttamente, con tutto ciò, venendo procụrato da voi, tanto
sarete tenuti consigliarvege con la Prudenza, anzi con la Giustizią-ancora , e
consigliandovi con queste virtù vi diranno concordemente, che il maggior benc,
che voi potrete fare a' vostri figliuo, li sarà, il procurare con ogni maggiore
judustria , che divengano capaci , e meriteyoli di dette cariche, di detti
titoli, che così, con poco ajuto de' vostri Protettori, potranno à suo tempo
conseguire ciò, che sapranno desiderarc, e gloriosamente, venendo loro ciò
conferito à cagione del proprio mcrito, ed operando voi in tal guisa ,
l'Ambizione nonpotrà trionfare di voi; trionferebbe bensì, quando che voi
usaste violenze in procurar cose, delle quali non ne fossero [ocr errors]
me [ocr errors] meritevoli, nel qual caso ancora quanto farete loro
ottenere sarà per l'appunto consimile à quel titolo nobile, e speciofo, che si
legge nel frontispizio di qualche libro, à'cui la materia rozzamente, senza
dottrina in esso trattata non gli corrisponde, che in vece ne formi concetto di
esso chi lo legge, e considera, lo muoye più tolto al risos e perciò resta in
un cantone derelitto, senza che alcuno più lo consideri, L'Avarizia con
duplicato pretesto di zelo vi assalirà ancor'effa, ftantechę se non avrete
figliuoli, ò nipoti y’infinuerà, che facciate degl'avanzi più che potrete, à
fine di stabilire qualche degna, e grandiosa memoria di voi à prò de' posteri;
fe poi gli averete, li facciate ancora per lasciarli più commodi, ed in questo
frete bene circospecti, poichè Fallit enim vitium fpecie virtutis ,
du umbra; Onde appena, che in voi fentirete certi impulli, certi stimoli
infolici di cumulaà tali effetei, consigliatevi con 13 S2 PruePrudenza, e
con la Giustizia, le quali vi faranno capire ciò, che dovrete fare , c vi
diranno facilmente intorno alla memoria grandiosa, che meditate di
lasciasciare, essere meglio, che la lasciare ale quanto meno magnifica, e senza
alcuno ajuto dell'Avarizia, che grandiosa con viziosi avanzi, perche tutto quel
di più, che mediante il vizio l'accrescerete, in vece di apportarvi gloria , vi
recherà ignominia , e che rispetto al cumulare di vantaggio per li figliuoli, e
nipoti non lo facciate, perche quello lascierete loro di più,acquistato con
Avarizia consumerà ciò, che avrete onestamente acquiftato, in oltre che voi
siete tenuri di lasciar loro tanto, che li bafti à potersi avyanzare ancor'essi
nelle virtù, stante che : Haud facilè emergunt quorum vir
tutibus obftat Res angufta domi . : E v'infinueranno d'avantaggio, che
Ippocrate v'insegnò' chiaramente à tal proposito ciò, che dovete fare,
dicen dovi [ocr errors] [ocr errors][merged small] dovi: (a) Neque
verò exigende mercedis cupiditate duci oportet , nisi ut ad artem
edifcendam tuos instruas; E che quando gli averete duplicato, ò
triplicato ciò, che fù lasciato à voi, e vi bastò per di- venire
virtuosi, sarete giudicari da tutti per buoni Padri di fameglia, e che
av- vertiate bene, che certe ricchezze, che superano la propria condizione,
e per altro non bastano à mantenersi in altra sfera superiore ,
sono pericolosissime, perche à cui fi lasciano , volendosi trat-
tare quefti d'avantaggio di quello, che compete loro, preftamente le
dißiperan- no, conforme l'esperienza quotidiana lo dimostra
ben? fpeffo , per non volere questi tali ad altro impiego applicare
, che à quello dello dispendioso diverti- mento, non
servendo ftrertiffimi Fide- commiffi , nè altri legami inventati
per impedirlo; ftanteche nella medesimais conformità,
che da'viventi si passeggia sopra li sepolcri de’defonti, cosi
ancora per l'appunto si passa sopra le loro vo- [ocr
errors][ocr errors] lon(a) De pracept. S 3. 278 Dell'Idea del vero
Medico. lontà, e che quello, à cui dovrete invia gilare più d'ogn'altra cosa
farà, di lasciarli virtuosi, ben’educati, e con buoni avviamenti, che allora ,
quantunque li lascierete con mediocri commodi, da se medesimi potranno divenire
ricchi, e con questo vantaggio maggiore , che quelle ricchezze, che da se
medesimi fi accumuleranno , non già le disliperan10 , conforme bene speffo in
quelle , che si ereditano succede. Ponderate bene questi consigli, e
servitevene, se volete in tutto abbattere l'Avarizia. Incominciando voi à
porre il piede nella vecchiaja , à cui conviene di cedere, ve ne avvedrete
facilmente, quando che non potrete con quella facilità di prima reggere le
voftre solite occupazioni , ed allora cosa farete? Non altro certamente che di
consigliarvi con tutte le virtù, che v'indirizzinó per qual via dovrete
caminare acciocchè voi , li quali sarete utili alla Republica per la lunga
esperienza, che avrere, possiate più lungamente giovarle. La [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] La Prudenza, come Maestra di tutte le altre
virtù vi dirà, che non è convenevole d'abbandonare tutti quei fervigj di
coloro, che da voi per lungo tempo ne hanno ricavato del profitto nella loro
salute , ed anco lo sperano in avvenire, per la fiducia , che hanno in voi,
efsendo in istato ancora di potere ben'oprare , nè tampoco parte di elli ,
perche faria molto odiofa una tale vom ftra parziale risoluzione ; onde voi non
potendo disfarvene, per non sentire ilamenti dei vostri clienti, vi converrà
perfare di andare sostituendo qualcheduno, che vi poffa alleggerire almeno la
fati ed acciò abbiate facilità in eleggerlo, vi apporterà le trè malime
sostituzioni , che il mondo tutto rimirò nel primo secolo della commune falurcs
cioè : La prima, che fù fatta da Augusto in persona di Tiberio ; La seconda da
Galba in quella di Pilona ; e la terza da Cocceo Nerva in quella di Trajano; ed
in tal guisa facilmente v'istruirà , dicendovi : Nella prima Augusto ebbe
una $4 pelli [ocr errors] pessima intenzione,inentre scelse
un soggetto di reprobi costumi; un Tiberio ben noto per la sua iniquità, ed al
sostituente più di ogn'altro, stanteche: (6) Comparatione deterrimâ fibi
gloriam quafavisse . Nella seconda vi fù ottimo fine, perche fù eletto un
meritevole, solamente si mancò ne i mezi , e di questo ne fù cagione l'avarizia
di Galba, giacchè:(c) Confit at potuiffe conciliare animos, quantulacunque
parci jenis liberalitate, c perciò ebbe l'esito infelices Nella terza
finalmente tutti li requisiti furono ottimi, non vi fù punto di vizioso sì nel
principio, che ne i mezi, e fine , e perciò fù gloriofiflima. Queste , benche
fie00 state sostituzioni maflime, nulladime‘no possono servire di norina ancora
nelle picciole, mentre dalla prima ne ricaverete, che vi sarà che vi sarà
poco bene accostumato; chi farà vizioso non meriterà di essere da yoi eletto ;
Dalla seconda ne dedurrete, che chi elegge deve stare lontano dall'avarizia, e
non esser punto do[b) Tasit. Annal lib. 1. [] Tacit.
Hia.Jib.1. redominato da questo vizio, se brama, che tutto vada
felicemente ; Sicché la terza, in cui concorrono tutte le buone condizioni farà
quella , che si dovrà imitare da voi per fare una degna elezione,mentre non fù
già eletto da Cocceo Nerva Trajano per cagione di parentela , nè di {moderato
amore, che gli portasse , mà bensì per il suo merito, e per la bontà de' suoi
costumi, e non ebbe già per fine principale di gratificare l'eletto, mà
solamente coloro , che doveano effergli. fudditi, e perciò riuscì un'ottimo
Imperatore, e felicissimi tempi furono chiamati quelli del suo Impero. Non
intendo già per questo di consigliarvi d'abbandonare li parenti, gl'amici, e
quelli, che più d'ogn'altro ainate, perche ciò non saria ragionevole, anzi vi
dico, che fiere tenuti à preferirgli ad ogn'altro eguale, ed anco qualche poco
superiore à loro, conforme vi ordinerà la Giustizia isteffa , vi avverto
solamente, che non vi serviate della parentela, dell'amicizia, e dell'amore per
inicroscopio, acciò ز [ocr errors] vingrandischino di molto il
soggetto, che prendete di mira per sostituirlo, altrimenti v'ingannerete , e
chi lo mirerà fenza questi microscopj se ne avvederà molto benes conforine
capirete anco voi istelli rimirandoli fpassionatamente ins fimile forma : E' ud
verso affai trito; mà però che cade molto al proposito quello, che dice:
Quifquis amat ranam, ranam putat effe Dianam; E la cagione fiè, perche
l'amore non solamente så ingrandire il merito , mà ancora så ricoprire li
difetti degl'oggetti amati. Se farere dunque voi la vostra elezione con
rimirare li soggetti calig quali realmente sono 1109 alterati, per quali vi
pofsono parere, non solamente sarà questa gradita , e profitcevole, mi eziandio
riuscirà per voi gloriosa , conforme seguì à Cocceo Nerva, à cui la maggior
gloria , che gli fia rimasta trà tante altre è quella ; di aver'egli saputo eleggere
un Trajano per fuo successore all'Impero , e solo da questi ogn'uno [ocr
errors] ora comprende à qual segno giugnesfero la sua prudenza , il suo
giudizio, e la sua integrità, ed essendo questi documenti della Prudenza per
appunco coerenti à ciò, che Ippocrate c'insegna, cioè :(d) At verò imperitis
nunquam quidquàm procurandum committes. Sin minùs ejus, quod malefactum eft
vituperium in te recidet &c. non potrete da esli punto discoItarvi.
Palliamo ora all'incunbenza, che dovrà avere questo vostro sostituto, il quale
essendo da voi scelto di buoni cos stumi, e dotto, caminerà in curto fecon: do
la vostra direzione, onde profitcevole in conseguenza sarà , à cui l'avrete
proposto, perche ne riceverà da esso un servigio alliduo, animato dal vostro
prático configlio, e di questo ve ne prevalerete da principio ne'casi più
leggieri, per poi, fecondo che v’andrete inoltrando negl'anni, avanzarlo
ne'.gravi, con questo però, che abbiate l'occhio arrento al servigio, con
visitare ancor voi di quando in quando gl'Infermi, per diriga gerli meglio con
li vostri più accertati consigli , e facendo voi in questo modo non solamente
non avranno fcapitato punto li voftri Infermi, anzi che più toito acquistato ,
restando loro tutto il voAro consiglio come prima con l'afiftenza maggiore del
giovine sustituito, che da voi , mediante le vostre occupazioni, non lo
potevano esiggere, e precisamente nelle ore più fastidiose, e tutto questo
benefizio sapete perche lo riceveranno, ftanreche il sostituto fù scelto da
voi, e da voi non preso à caso, mà bensì capato trà li buoni per il migliore,
dove che se fosse stato preso per via di raccomandazioni, e senza la vostra
dependenza , non caminerebbero le cose così felicemente, poiche sdegneria tal
da voi independente sostituto caminare con le yostre direzioni, volendo
far'egli à suo modo, e non saria picciolo favore,quando ve lo facesse, in caso
di qualche controversia , di non ispargere da , che voi siete vecchi
rimbambiti, e che quan; [d] De dec.orn. non [ocr errors] non
fiete più capaci di medicáre, per iscreditarvi con fimili menzogne, e da ciò
qual vantaggio se ne riporteria à prò degl'Infermi, se non che una confusione,
una inquietudine continuata , ponendosi in dubbio talvolta à chi de* due fi
dovesse prestar maggior fede, se al giovane petulante, e scostumato,ò al
vecchio, benche ingiustamente vilipeso; Con ragione dunquc Ippocrate inveisce
contro costoro, che per vie indiretre si avanzano, dicendo: (e) Quàm repentè
evecti fint, fortunæ tamèn ægentes per divites quofdam ex anguftiis emergunt
utrique exi eventu nominis , celebritatem adepti, & in pejus ruentes luxu
diffluunt , quæ in arte nulli rationi reddende sunt obnoxia negligunt ac.
In questo proposito il Disinganno, che hà il cuore sincero vi scoprirà un'altro
pregiudizio delli massimi , che corrono trà alcuni , che non sono nella
professione versati, quali credono per cosa utile nelle cure le controversie,
edissenzioni trà Medici, e dicono, che essendo trà essi discordi, si scopra
allora meglio la verità, confondendoli da quefti tali ciò, ch'è disputa
virtuofa , utile anzichè neceffaria , dalla diffenzionc, e discordia superflua,
e viziosa, nata dal mal costume . Il Disinganno vi scoprirà il tutto, e vi
dirà: la disputa neceffaria è quella, che risulta da qualche indicazione dubbiofa
per meglio discernerla, e questa trà Professori esperti, e di buoni costumi
termina prestamente ; perche seguitandofi da elli solamente il configlio
megliore, in un subito si accertano, le quali ragioni , e quali motivi
prevalgono, se gl’affermativi, ò pure li contrarj, ed à megliori concordemente
si appigliano ; Dovechè la diffenzione, e difcordia , che proviene dal mal
costume, che per lo più viene fomentata da puntigli, e germoglia da picciole
occasioni, non solamente è molto dannofa , inà perche si yà al cattivo, non mai
viene affatto terminata,stanreche in simili contenzioni = Qui velit ingenio
cedere nullus eriti [ocr errors] erit ; ela cagione di ciò n'è,
perche tutto proviene dalle volontà discordi,che non amano di unirsi assieme, nel
qual caso lę ragioni più valide, li motivi più evidenti, ò non appagano, ò non
si vogliono capire, à segno , che alla fine annojarifi del troppo altercare, in
vece della decifione letteraria fi passa qualche volta all' obbrobriosi
improperj, senza ricavarne altro profiețo, che : Şeipfos ludibrio exponere ,
come insegnò Ippocrate , (f) € questo è per appunto quell'ideato bene', che à
prò degl'Infermi se ne riportą da fimili contese, sicchè non v'è altra strada,
che quella della concordia, à cus uniteci il consiglio già propostovi dalla
Prudenza, & approvato dalle altre virtù entrando voi nella vecchiaja, se
bramate con vantaggio,e profitto de' vostri Infermi alleggerirvi dalle fatiche,
nel qual caso trovădoyi aggravati dall'ostinata Discordia , la Giustizia non vi
obligherà à paziétare di vataggio,mà farete, che ogn’uno si serva pure à suo
piacere , (6) Lib. de Praçept. [ocr errors] Inoltrati, che poi
sarete nella vecchiaja , che ve ne avvedrere pur troppo, se non vi vorrete
lusingare, dalla notabile mutazione, che proverete in voi da quello ,
ch'eravate una volta, poiche le forze del vostro corpo languiranno, il vostro
perspicace ingegno, la vostra. gran memoria, la vivacità del vostro fpirito, il
discorso così spedito non si scorgeranno più quelli, che già furono, rincontrandoli
ogn'uno molto mutati. In tale stato inevitabbile, cosa vi converrà fare? Non
altro certamente, che d'imitare quei celebri Pittori, che per non perdere quel
glorioso nome, che per lo passato aveano acquistato, allorche si avvedono, che
i loro pennelli non sono più à dovere regolati dalla tremolante mano li
sospendono per trofei delle loro opere già fatte, e terminano in questa guisa
gloriosamente il loro mestiere. Seneca assomigliò faggiamente la
vecchiaja alla nave, che comincia per la sua antichità à scomporsi,
dicendo: Quem 12 [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] Quemadmodùm in Have, que sentinam trabit uni rime , aut alteri
obfiftitur : Ubi plurimis locis laxari cæperit , q cedere,
fuccurri'non poteft navigio dehiscenti : Ità in fenili corpore
aliquatenùs imbecillitas fuftineri , c fulciri poteft, ubi tamquàm
in putri ædificio omnis junctura dilabitur , Odùm alia excipitur ,
alia difcinditur cir- cumspiciendum eft quomodò exeas . E po- tendo
egualmente la detta nave, che il vecchio, pericolare nel suo
consueto viaggio, converrà dunque ad ambedue prendere il sicuro
porto per prolungare più, che sia poflibile il suo essere. Mà
questo distaccamento vi parerà il più duro, il più difficile di qualunque altra
cosa, che averete emendata in voi sino à quel tempo; sì perche quest'impotenza
insensibilmente se ne verrà ayanzando, onde in un subbito non ve ne potrete
avvedere, e forse non prima di allora , che voi sarete renduti affatto inabili
per la repugnanza grande , che hà Pumana natura à dichiararsi inabile, come
ancora, perche non godendo più T quel е quella bella
perspicacia di mente, quella pronta risolutezza di prima, non saprete così
bene, come una volta, scegliere, e prontamente eseguire li buoni consigli della
Prudenza, e se il buon'abito fatto non vi ajuterà allora à fare tal
risoluzione, infingardamente procrastinando di giorno in giorno ad effettuarla
, farete più tosto voi prevenuti dalla neceflità, di prevenirla ; Sicchè prima,
che voi abbandoniate li negozj; elli averanno lasciato voi's Quindi è, che per
non cadere in fimile obbrobriofa miseria converravvi, per ben consultarla, nè
d'afpettare allora , che la vostra mente farà notabilmente deteriorata, nè, per
eseguirla, quando sarete molto proflimni al non potere più operare, e quanto
queste risoluzioni più generosamente intraprese saranno , tanto più
gloriosamente, e facilmente vi riusciranno, nè crediate , che un simile
distaccamento, con tutto che la nostra natura vi repugni , lo sia impoflibile à
farsi, mentre lì è veduto praticare da più d'uno , e trà gli altri dalMedico
Romolo Spezioli , il quale nel colmo delle sue prosperità, doppo un lungo
servigio della Regina Cristina di Svezia , di gloriofiflima memoria, che
continuò finche ella visse; doppo essere ftato Medico Pontificio della santa
memoria di Alessandro Ottava, incaminatosi già per la via Ecclesiastica,
proseguì questa, e lasciò affatto nell’auge delle sue occupazioni, e della sua
età con generosa risoluzione, contento di ciò che aveva acquistato ,
l'esercizio della Medicina , nè alcuno de' suoi clienti si è potuto dolere con
ragione di lui, perche li abbandonò è vero, mà
per servire folo à Dio, che con quanta esemplarità egli lo
faccia , offenderei non solamente la fua modestia con riferirlo, mà temerei
ancora, con fargliene molti encomj, che non restaffe à bastanza appagato chi
con occhio fincero giornalmente rimira le fue degne operazioni. Nè devo
in questo proposito paffare sotto silenzio il ritiro , che fece Antonio
Piacenti di felice memoria, mio di T 2 let [ocr errors][ocr
errors] lettissimo Maestro, avendo voluto egli tra le altre fue virtù, per
compimento della sua gloria collocarvi questa ancora del bel distaccamento dal
mondo,e nell' istabilirlo mi disse, che lo faceva per prevenire la sua
inevitabbile impotenza, ftimando , che il prevenirla fosse cosa più vantaggiosa
, che d'effere da effas prevenuto per gl’esempj, che aveva offervati in alcuni
, che quantunque decrepiti, e finemorati, con tutto ciò non vollero lasciare di
fare il Medico' più per rendersi ridicoli appreffo li giovani, che punto non li
compativano, che di effere a' suoi Infermi profittevoli, e con ammirazione di
tutti ponevano à pericolo quel buon concetto , che avevano fino allora
acquistato, per un tenuiffimo, c miserabbile premio, del quale non nc avevano
alcun bisogno, per essere già divenuri molto ricchi. Sicchè per isfuggire
simili sventure vi converrà d'andar pensando in tempo opportuno, e quando
ancora sarete con fegtimenti vegeri, à questo buon ritiro, c fino
[ocr errors] la e fino da quel tempo appunto, che.co“ mincierete ad
alleggerirvi le fatiche, perche ciò, che la Prudenza allora vi consigliò fù
tutto preordinato à questo effetto, e la prima diligenza, che vi converrà fare
sarà di agiustare li yoftri affari domestici in quella forina appunto, che
fogliono praticare quei saggi viandanti, che devono sempre stare allestiti per
passare in remotislimi paesi, e che non possono indugiare punto, allorche sono
ayyifati per partenza. Questi tengono sempre pronto ciò, che fà di
bisogno per il loro viaggio, si aggiustano le loro puntuali rimelle , e poi
danno la sopraintendenza generale di ciò, che possedono à chi fedelmente lo
custodisca, ed à tal ministero eleggono un proprio figliuolo,se farà prudente
economo,e fenza vizj,altrimenti un'estranco di provata fedelcà, economia, e
prudenza . Dato un buon fefto , che voi averen te alli vostri affari
domestici in tanto, che anderete vedendo se caininerà tutto à vostro modo , per
poterlo emendare, [merged small][ocr errors] [ocr errors] fe in qualche
cosa difettasse, à fine di non avervi più da inquietare intorno ad csso ,
fupplicherete le virtù, che vi configlino , e preftino il loro ajuto, in questo
penultimo paffo, che dovrete fare, le quali avendovi sempre affiftito per lo
paflato, certamente che non vi abbandoneranno nel meglio, ed allora appun
che vi trameranno infidie la fastidiofaggine, l'impazienza, il sospetto,
l'incostanza, l'amore proprio, con il soverchio timore di ciò, ch'è
inevitabbile , vizj tutti, che aspettano il quando voi farete languenti non
meno di corpo,che di mente, per dominarvi à fuo modo ; nel qual compaflionevole
stato cosa fareste mai di buono, se non ayelte le virtù consigliere?
Queste divideranno facilmente il loro conGglio in sette parti; La prima farà il
quando lo dovrete farê; La feconda il come ; La terza dovë ;La quarta con chi ;
Quinta;con che preparamenti; Sesta, cosa dovrete allora fare; Ela settima, che
cosa fuggire. Primo, ز Primo ; circa al quando, vi dirà la
Prudenza, che allora appunto facciate il vostro distaccamento, quando che
proverete sensibile il peso degl'anni, che la memoria vi anderà notabilmente
mancando, e che fentirete la fatica, benche allegerita, molto molesta , ed
averete allora giusto motivo di pensare solamente à voi stessi , senza più
indugiare à farlo. Secondo, intorno al come lo doyrete fare, vi
consiglierà la Giustizia di usare ogni maggior civiltà possibile in licenziarvi
da tutti quelli, che si prevagliono di voi, con far loro conoscere, che fino à
tanto, che avere potuto, non avete risparmiato nè fatica, nè incommodi per
servirli bene, ma ora, che vi sono mancate le forze, il solo buon'animo, che vi
resta, non lo credere sufficiente per li loro bifogni, e che li confoliate
insieme, che avendoli già voi proveduti di soggetti non inferiori à voi ,
potranno essere da questi in avvenire affai bene affiftiti; Ne
seguirannofacilmente varj atti di reciproca tencrezza, mà fate, dirà la sudetta
virtù, che questi nè vi distolgano dalla risoluzione già fatta, nè vi pongano
in qualche forta d'impegno d'averla in qualche loro occorrenza, ò
imprudentemente da ritrata tare , ò mancar loro di parola. Terzo, nè vi
consiglieranno già , che vi scegliate qualche solitudine remota per fare il
vostro ritiro, mà bensì un'appartamento assolato della vostras casa, nel quale
vi sia minore strepito, anzichè vi dissuaderà la Prudenza, se aveste mai
qualche pensiero d'allontanarvi dal. la Città, d'effettuarlo, per li seguenti
motivi, perche ne' piccioli luoghi non potrete ritrovare tutti quei commodi, nè
godere di quei vantaggi, che nelle fole città vi sono, dove il governo risiede,
la civiltà, e la convenienza rcgnano, doveche al contrario questi mancano, ò
almeno scarseggiano, oltre il correre rischio di penuriare di molte cose,
s'incontrano facilmente de' disguki, à cagione della poca cognizione,
e civiltà, che ivi li suol praticare , & in ispecie con quelli,
che la dottrina, & il valore l’inalzò, essendo perciò molto
dall'inciviltà odiaci, e benche Scipione il Grande nel suo, non tutto
volontario ritiro in Linterno; (perche lo fece per accomodarsi alla
necelli:à di quei calun- niosi tempi) avesse la sorte di essere
stato venerato da molti uomini facinorofi,che ivi accorsero per
ainmirarlo, è stato egli quasi singolare in questo, mentre altri
furono assai diverLamente trattati, trà quali basterà riferirne uno
solo,mirabbi- le per l'accidente, che vi
s'incontro. Venne volontà nel secolo passato ad un' Officiale maggiore di
guerra,doppo molsi illustri fatti felicemente occorsili, di ritirarsi alla sua
picciola patria, già dia venvto vecchio, per godere ivi la sua quiete. Mà
appena giontovi , che incon minciò ad essere deriso, e beffeggiato da quei
rpstici abitatori; Ditali impropri trattamenti se ne rammaricava il valo, roso
vecchio, mà per non prenderla con tanti, andava disimulando. Si suscita.
[merged small][ocr errors][ocr errors] tono in questo mentre alcuni principj di
guerra, ed ecco all'improviso Inviati con sacchetti d'oro, che andavano cercando
quel merito così vilipeso da quella rustica progenie, allora quel meritevole
prendette spirito, e per mortificare li suoi persecutori fece spandere quell'
oro alla vista di tutti, che ammirati attoniti, e confusi ebbero occasione di
ravvederli del loro errore ; mà se quell' oro non compariva , il merito ivi non
già risplendeva. Mà perche avanzandovi nella vecchiaja non potrete sapere
à che segno la vostra salute si di corpo, che di mente vi potranno reggere ;
Quindi è, che per compire faggiamente il corso di vostra vita, le virtù
vi consiglieranno à sceglicre chi potrà essere à proposito per voi, allorche
vorrete vivere solamente à voi medefimi, tanto in caso di felice, che di penosa
vecchiaja , e facilmente yi diranno la Prudenza, e la Giustizia : fceglietevi å
tal'effetto un Direttore spiricuale de' più dottia e discreti, che vi
COR [ocr errors] conservi vivi li yoftri abiti virtuofi. Una amico fido,
e prudente, che vi suggerisca ciò, che dovrete operare, caso che, ve ne
dimenticaste , che sopraintenda.a’ vostri interessi,acciocchè non fieno
trafcurati,per negligenza di chi li maneggia. Un parente amoroso, e
disinteressato, per supplire all'amico, e dare anco soggezione à chi vi serve,
ed un servidore abile, che vi allista con carità , amore, e discretezza, e
questi non basterà , che yeli siate scelti, mà dovrete ancora mane tenerveli
ben’affetti, altrimenti disguftandoli con voi , vi troverete intrigati a, e
sappiate la cagione del disgusto de' trè primi, quale potria effere ;
l’incommodo, senza loro utile, delle frequenti visite, e brighe continue per
voi, mediante le quali annojari , fi potriano facilmente alienare da voi;mà per
rimediare à quefto, non dovrete fare altro, che di fervirvi della potentissima
efficacia di qualche cortesia usata loro si che, se ve ne farà d'uopo, cambierà
in un tratto ogni più dura fatica in ispasso", ogni noja in ز
piacere, ed ogni più grave disaggio in dilettevole divertimento ; caso poi, che
non ve ne fosse molto bisoglio, diportandovi voi con esli grati , essi ancora
verso di voi saranno più diligenti, aslidui , ed affezionati : Munera , crede,
mihi placant, bomines que, Deosque ; E renete pure per certo , che
favolosi sono quei casi, che di alcuni Gentili fi raccontano, che tutto elli
facevano per puro amore, e che l'incommodo maggiore degl’altri era da questi lo
più ricercato; Mà però con il servidore abile, che dovrà stare affiduo con voi,
per tenerlo contento, vi converrà praticare due modi, uno privativo, che
consisterà in non maltractarlo nè con fatti, nè con parole, dovendo voi, che
avrete bisogno di lui, acquistarvi il suo amore, e facendo voi diversamente, in
vece di guadagnaryelo , più tosto lo perderefte, quando che ve qe portasse : E
vero, che difettando egli, lo dovrete correggere, mà pero con maniera umana,
con farglicapire'il suo fallo, non già con ingiuriara To, e caricarlo di
strapazzi, perche venendo trattato da voi in tal guisa , cosa ne seguirà ? O
che vi abbandonerà nel meglio, e voi come rimarrefte? O continuerà a fare
peggio di prima, e voi cam fa avreste acquistato ? E l'altro positivo, che
consisterà in fargli capire, che voilo amate di cuore, e non per solo vostro
vantaggio , mà come fosse un vostro figliuolo, e che ciò sia, lo crederà allora
appunto quando si vedrà trattato bene da voi, comandato con discretezza, c
meglio di ogn'altro glielo farà capire , quando si vedrà regalato da voi con
giudizio , e questo regalo non consisteria in altro, che di usargli
un'amorevolezza pecuniaria , à proporzione del vostro potere, ogni anno nel
vostro giorno natalizio,con promettergli negl'anni venturi sempre di
raddoppiarla, e questa, con tutto che sia una gran cosa in apparenza, voi, che
sarete avanzati negl’ anni, la potrete ufare con più generosità de' padroni
giovani,che sperano di cains pare lungo tempo, & al servidore gli sarà
grato à segno, che non lascerà cosa, che possa giovare à farvi vivere più
luagamente, che non la procuri. Avrà fempre timore , che non vi disgustiare ,
che non patiate , & allora appunto lo avrete già interessato nella vostra
vita, e nericaverete un'ottimo servigio. pare Quinto, oltre li
preparamenti neceffarj già da voi fatti per sostentamento, e
sollievo del corpo, vi consiglieranno facilmente, & in ispecie la Fortezza
, à farne ancora degl'altri per l'animo, non meno necessarj de primi, e questi
saranno di proyedervi di molta sofferen ed ilarità, che facilmente ve ne
bifogncranno , acciò non venga turbata la vostra bella tranquillità di animo,
che goderere, santeche trà mali familiari dell'inoltrata vecchiaja yi fi
annovera quello ancora della fastidiosaggine, e questa non con altro rimedio si
puo curare che con l'abbituara sofferenza ; E perche danneggiano ancora
di molto pell’età avanzata la malinconia, & il di za ,
[merged small][ocr errors] disgusto; Quindi è, che per tenerli lone tani, vi è
d'uopo dell'ilarità , mediante la quale solamente diverrete ad essi
superiori. Sesto , parerà forse cosa impropria à chi udirà , che voi come
Medici provetti possiate avere di bisogno allora del parere altrui
intorno à ciò, che dovfete, ò non dovrete operare, mà fe ben rifletterà , che
non mai fù nocivo ad alcuno il caminare con il consiglio della Prudenza, e
della Giustizia in ispecie, cambierà facilmente parere , e tanto maggiormente,
che niuno in caufa propria puol'essere competente Giudice e più precisamente in
quella età, in cui tutto ciò, che abbiamo di meglio, allora languisce; Le virtù
luderte vi diranno à tal proposito, che non crediate già,che il vostro ritiro
abbia à servire per totale riposo del vostro corpo, 8c acciocchè se ne stia
affatto ozioso, & infingardo, perche passereste in tal caso, da un'estremo
vizioso all'altro, senza profitco alcuno, essendo questo egualmente
nocivo dell' dell'anrecedente, perche, come ben sapete, consistendo
la vita nel continuo movimento de fluvidi , che dentro il nostro corpo si
aggirano , & ancora, che questo venga agevolato dalle pressioni musculari ,
sicchè ogni qualvolta cefferete di muovervi, non avendo tanta forza li muscoli,
in istato di quiete , di propellere , neceffariamente seguirà , che detti
duvidi lentamente scorreranno, e più d'ogn'altro ne' vecchi, impoveriti de'
spiriti, onde in conseguenza ne verrà, che la vira iftelsa ne riceverà del
danno notabile, mancandole ciò, che se le deve , per il suo più necessario
prolongamento, oltre di che ne' vecchi cade un'altra necessità particolare di
doversi muovere, & è, perche tendendo eli alla ficcità, li loro tendini, e
legamenti, atti più dell'altre parti à contraerla , cessando di moverli si
possono irrigidire à segno, che impediscano loro affatto il poter più camminare
, conforme più chiaramente fi scorge in quei vecchi, che à cagione di qualche
loro [ocr errors] indisposizione per lungo tempo forzata-
mente giacciono in letro, li quali, ben- che abbiano superato quel male,
che li teneva al riposo, nel volere camminare si accorgono di
non poterlo più libera- mente fare come prima. Il sudetto ritiro
dovrà servire bensì per riposo, e calma della vostra mente, già stanca
per li so- verchi pensieri, la quale non dovrete', nè potrete
quietare con renderla affaito oziosa , mà bensì con contracambiare
quei di già nojosi con altri più ameni , ! quei cotanto laboriosi, con
altri, che non la stanchino di vantaggio, mà più tosto la ricreino,
conforme in appresso diremo. Mà ritornando al moco
, che vi competerà di fare , questo sarà appunto quello, (vi
dirà la Giustizia ) che altrui di età avanzata voi avrete
consigliato, cioè di farlo in tempi sereni, & aria ri. scaldata
dal Sole, non già irrigidita del- la notte, & allora appunto, che il
vostro stomaco ayerà digerito il cibo, con que- fta avvertenza di
più, che avvedendovi di non potere continuare l'esercizio, a quel segno di
prima, lo modererete, non tutto in un tratto, ma bensì à poco à poco, finche vi
poniare in una regola di poterlo continuare, senza voftro disaggio, & à
quel segno , che lo stimerete necessario , e ve lo permetteranno levostre
indisposizioni, che soffrirete, & acciocchè sia continuato per quando non
potrete uscire à cagione de' tempi fred. di ventofi, ò umidi,lo farete in casa.
Solevano à tal'effetto una volta li vecchi praticare l'esercizio chiamato
dell'attacco, che conGsteya in istringere con le mani un certo ferro foderato
di corame, che era conficcato in due lati prossimi ad un'angolo della stanza,
all'altezza di un'uomo, al quale attaccati , non solamente si distendevano , mà
con maggior agilità ancora movevano faltellando li piedi, modo appreso forse da
Eumene, che ritrovandosi assediato, per avere più agili li suoi cavalli, caso
che gli fosse convenuto fuggire, in un modo assaiconfimile a questo li
esercitaya, mà fù nel fea secolo passato già dismesso
tal'esercizio, con molti altri neceffarj alla salute,e non se ne sà
comprendere altra cagione, se non perche, non erano commodi, stan-
teche strapazzavano il corpo', il che fi congettura dal vedere , che da
allora in qua non si è aèreso ad altro, che à cerça- re questo
commodo, fe pure commodo si potrà chiamare ; (soggiugnerà la
Pru- denza) ciò, che incommoda la salute ; Commodo si potrà dire
una carozza,che posi shule Molle con cignioni lunghi, che non
isbarta punto, allorche le sue ruote urtano ne' faili, per chi foffre il
inale di pietra nella vellica, per chi parisce bru- ciori di orina
, per una giovane gravida, folita di abbortire, perche ò non posso-
no soffrire lo sbattimento, ò è loro no- civo; onde :
conviene , che facciano conformc è loro permesso; Mà per un giovane
sano, à cui lo sbattere gli conferisce alla salute, af-
sodandogli la sua buona complessione commodo non si deve chiamare,mà
ben- si incommodo, perche presto glicla in- [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] ز [ocr errors] 0 el [ocr errors]
.com commoderà. A questo proposito vi riferirò un caso terribile di un
Cavaliere, il quale à cagione di propria commodità non moveva nè pure un dito,
se non gli era accompagnato da chi lo serviva, fi faceva fino imboccare, quanto
mai egli era commodo ; onde lo conduffe la sua pazzia à diventare un tronco,
mercechè volendo una volta muovere un braccio, non lo poteva più fare,un piede
nè tampoco , e come un ciocco gli convenne vivere, se pure quello vivere
li [ocr errors][ocr errors] poteva dire, Dall'esercizio corporale
ritorniamo à quello della mente, la quale, conforme dicemmo, non la dovrete stancare
di vantaggio con cose laboriose ayendo voi à tal'effetto bramato, e procurato
il vostro ritiro, mà nè tampoco converrà di tenerla affatto oziosa, acciocchè
non ritorni à coltivare le specie antiche, non sapendo, che altro fi fare. Nel
principio del vostro distaccamento, come vi suggerirà la Prudenzala terrete
occupata in diverse cose, con il suo rin par [ocr errors][ocr
errors] partimento dell'ore più proprie ad esse. Ne darete alcune agl'esercizj
fpirituali à prò dell'anima vostra , secondo il configlio del vostro
Direttore,qualche altra servirà per l'esercizio corpcrale, e le rimanenti alla
quiete della mente faranno da voi destinate in due maniere , cioè, con leggere
, ò sentirlo , e con il riposo; Li libri da leggere, proprj per tal'effetto,
già ve li sarete scelti , allorche vi preparaste per il ritiro , e si può
supporre, che saranno inorali, prediche, vite più esemplari de' Santi, e cose
confimili, e se vi sarete serbato qualche libro Medico, questo facilmente non
tratterà di altro, che del regolamento della vecchiaja, e del modo conforme si
possa più agevolmente ella sopportare , & inoltrandovi finalmente nella
penosa vecchiaja, non troverete maggior refrigerio, e sollievo, che di
uniformarvi in tutto nella volontà di Dio, e se giornalmente farete qualche
meditazione sopra la morte, vi recherà questa del vantaggio , perche divenendo
perciò superiori [ocr errors] ad effa, non vi potrà punto contristare,
allorche da vicino la scorgerete venire, e tanto maggioripente se meditandola
rifletterere, che se ne viene per togliervi dalle miserie, e collocarvi in
un'eternità di bene, essendo voi vissuti con le buone direzioni delle virtù,
non già con le lufinghe fallaci de vizj. Settimo, finalinente, diranno le
vir. tù , se volessimo rammentarvi tutto ciò, che non è convenevole, che ora
facciate inolto averelimo da dirvi, solamente alcune cose vi avvertiremo, nelle
quali potreste facilmente cadere . La prima delle quali sarà , ( se vorrete
caminare con le buone direzioni della Prudenza ) che avendo voi una volta per
giusti motivi risoluto di lasciare la Professione, non mai più dovrete
pentirvenç, e ritornar di bel ouovo à profeffarla», se non in quel caso
impossibile, che voi cựngiovenifte, altrimenti facendolo acquisterefte ritolo,ò
d'instabili , imprudenti, ò per la meno di superbi, potendosi da ciò
.cognetturare, che allora non lo facesteper impotenza, mà bensì per
isdegno concepito per non vedervi stimati à quel segno, che
bramavate di essere. La seconda, se vi venisse mai volon- tà di
mutare, senza giusta, & urgentili- ma occafione , il vostro già
fatto tefta- mento, mà solamente per motivo di me-
gliorarlo, che non lo facciate, vi comanderanno la Prudenza, e la
Giustizia in conto alcuno, mentre questo saria uno
delli maggiori infortunj , che vi poteffe allora accadere,
perche se quello , che avrete fatto in tempo , ch'eravate con
sentimenti più vegeti, ora non è di vo- stra sodisfazione ,
come potrà fodisfarvi l'altro fatto da voi , dapoiche vi siete
ritirati, à cagione di debolezza , non nie- 110 di corpo,che di mente la
quale entre- rà prestamente, per essere in quella età
sospettosa nella casa della dubietà, mà ritrovandofi ancora
languida , e piena di timore tosto le sembrerà un laberinto,
non sapendone rinvenire la strada das uscirne, e perciò la sera
penserà ad una cosa, e depofta quella, la mattina ad un'
altra, [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] V 4 altra, oggi farà di un genio, e domani facilmente
di un'altro, e durando per qualche tempo così incostante, non folamente si
confonderà, mà s'inquieterà ancora ; onde quel tempo, che avevate dato alla
calma del vostro animo , in questo modo glielo rubbereste per darlo alla vostra
inquietudine , fenza ricavarne un minimo profitto, perche se pure giugnefte à
fine di stabilire la vostra ultima disposizione, sarà questa assai peggiore
della prima, e se non arriverete à compirla , l'inquietudini riccute, che
giovamento viaveranno apportato ? E quanto dette virtù vi hanno ordinato,
l'esperienza pur troppo l'hà fatto vedere, mentre chi nel suo ritiro hà avuto
simile tentazione, non solamente è vissuto inquietissimo tutto quel tempo, che
aveva destinato alla sua quietc, mà hà fatto una nuova disposizione del suo
avere così intrigata, così confusa, che hà dato di fe molto da dire. In niun
tempo si deve andare in traccia dell'ottimo, essendo questa distruttivo del
bene, mà [ocr errors] 1 mà in questo stato meno d'ogni
altro nel quale è molto espediente di dare orecchie à ciò, che si
legge in Tacito, ed è : Confilium , cui impar erat fatu per- mifit
; E certamente, che quando siete meno capaci di risolvere, è pur
meglio, che lasciate correre ciò, che faceste di vostro genio
quando eravate più atti, che di mutarlo divenuti meno sufficienti
ancora ad emendarlo. Vi pregiudicherà per terzo ancora di
molto la troppa curiosità, & in ispecie de fatti domestici ,
come ben vi avverri tirà la Prudenza, perche più d'una vol-
ta sentirete cose tali, che vi turberanno notabilmente la vostra
quiete,& affinche dal non ricercarli fi scanzi ogni pregiu-
dizio, fate., che quel vostro amico, quel vostro parente, de' quali da
principio parlammo, gli diano il suo rimedio, ci pensino
essi, che meglio di voi lo faran- (no , e senza inquietudine vostra. E
caso poi, che la necessità portaffe di farvenc consapevoli
sfuggano per quanto si può di dirvelo di sera , per non togliervi
0 [ocr errors] il riposo della notte. La quarta intorno à
ciò, che dovrete fuggire in caso di qualche incommodo abituato, che da soverchi
anni procedere , la Giustizia, e la Temperanza vi diranno : Ricordatevi, che
una volta in altri non l'avreste curato, mà folamente mitigato; onde non
facciate, che la molestia , che vi recaffe vi stimoIalle ancora à divenire
carnefici di voi medesimi , con pretendere di farvelo curare, conforme à più di
un Medico avanzato negl’anni è accaduto , per esserfi voluto esporre al taglio
della pietra , quantunque ad altri così avanzati in età non l'averiano
consigliato.Questa penfione , che Iddio hà posto sù il gran benefizio della
lunga età che vi ha conceduta , vuole, che da voi fi paghi, altrimenti il
fudetto benefizio mancherà prestamente 5 Limnolesti pruriti esterni , li
bruciori d'orina , le vigilie frequenti, che bene spesso ne' vecchi accadono ,
fapete pure, che non vanno curati con rimedi eradicativi, mà mitigar ben
fi de [ocr errors] 1 [ocr errors][ocr errors] devono con cose
anodine, trå quali il latte , amico de vecchi asciutti hà il
primato , e per essere ancora egli il pris mo querimento, che si prende,
non è disdicevole , che non venendo à cagionc del soverchio sonno
ritardato, sia ancora Pultimo, conforme praticò con profitto Fabio
Mafsimo nella sua età decrepiti. Per quinto
avvertimento vi con- verrà stare molto circospetti per non
cadere in certi errori, che li vecchi li stimano sussidi
dell'età cadente, ftante- che provando languidezza di forze fi,
portano con desiderio (moderato à pre- valerli de’yini più
generosi, e di altri più fpiritosi liquori , intorno a' quali
vi ricorderà la Temperanza, che sapete pure quanto di male
apportino alla in- languidita tefta , all’inaridite viscere, e
quanto di solfo communicano alli ni- trofi fluvidi, ed in conseguenza di
che danno essi siano , che voi ben lo sapete, onde in
vece di questi vi servircte più ļosto del perfetto cioccolato , de'
buoni brodi, de' vini gentili, e delicati, c di altri liquori
consimili, presi con moderazione, e con questa distinzione , che effendo taluno
di voi grasso, & avendo disposizione al soverchio sonno prenderà spesso il
cioccolato la mattina, nel doppo pranzo , ò di sera il caffè , ò il the, è la
bollitura di salvia , sc poi sarà dimagrito , e sottoposto à vigilie, las
mattina frequenterà più tosto un brodo con la fetta del pane ivi bollita, e del
cioccolato se ne servirà qualche volta doppo pranzo immediatamente, conforme
ancora in vece del thè, e del caffè ricorrerà all'uso della bollitura dell'orzo
abrustolato, resa grata con qualche odoroso liquore, all'emulsioni fatte in
brodo , con semi di meloni , in particolare fe farà molestato da pertinaci
vigilie. Per fefto , fuggite ogni sorta di be vanda gelata, vi diranno la
Fortezza, e la Temperanza , quantunque la moleIta fete, che alle volte suole
travagliare li vecchi vi rendesse ansiosi di effe, perche sapete pure quanto
danno vi po triano [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] triano recare, & in vece di queste servis teyi
delle bevande attualmente calde , che vi smorzeranno con più facilità
la sete per quella cagione à voi nota, che sciogliono li liquori
caldi più facilmente quei fali, che titillando le papille del gusto
non solamente le costringono, mà recano ancora aridità à tutta la
mem- brana interna del palato , & esofago in- crespandola à
guisa di carta pecora, e questi con il liquore caldo vengono più
facilmente sciolti, & ancora le parti ina- ridite con più prontezza
fi distendono, doveche dalle gelate ne segue l'opposto, e per
questa cagione tali acque sono consimili à quelle , che Quò
plus sunt potæ , plus fitiuntur aqud; E perciò non si sà capire per
qual cagio- ne in particolare ne' vecchi sia stato dif- messo il
bevere caldo tanto praticato dagli antichi Romani , e tanto
maggior- mente, che dall'abuso di dette acque gelate ogn'anno ne
seguono delli casi funesti, coine ben sapete ; Dal soverchio
bere, 7 bere, con tutto che non sia gelato, ve no asterrete
ancora, effendoyi noto quanto di male possa apportare alli stomachi
debilitati dagl’anni, potendo non sólamente inlanguidire li fermenti digestivi,
mà opprimere insieme preventivamente quel calore, che stà per finire.
L'esperienza dimostra chiaramente , che le piante annose inaffiate à suo dovere
si conservano, mà soverchiamente più preftamente mancano, Per settimo,
v'avvertiranno la Prudenza, e la Giustizia di non porvi in una regola rigorosa
di vivere, con il motivo della moderazione del vostro esercizio consueto ,
perche la natura già affuefatta da tanto tempo à quella quantità di nutrimento,
vedendolo tutto in un tratto notabilmente scemare ne riceveria incommodo
considerabile, costando pur troppo per esperienza , che alcuni vecchi,li quali
l'hãno voluta tanto ristrignere preltamente sono mancati. Quello, che dovrete
praticare sarà di guardarvi da certi cibi di dura cozzione, di cattiva
qua qualità atti à poter nuocere , per altro nella quátirà l'anderete
moderando con occasione, & avyedendovi di non poterla ben diggerire, allora
l'anderete scemando, mà però lentamente, accioca chè non riesca molto fenfibile
derta mutazione, perche è cosa evidente, che allora appunto, che i vecchi
allentano di mangiare , poco resta loro di vita. Peggiore di questo ancor
saria, se cadefte in quella opinione tanto dangosa , che per vivere fano sia
neceffario di prender cose, che non facciano escrementi, mà che con l'odore
delle vivande, con qualche brodo di sostanza, si possa meglio , e con più
salute campares di quello si faccia con tante altre cose piene di parti
escrementose, perche la Datara vuole fi camini per le sue strade ordinarie, vuole
da tutti egualmente efiggere ciò, che brama . Quell'incommodo, che vi reca nel
restituire le feccie ella sà per quali fini lo faccia , non è à caso. Non
n'elimè già Alessandro Magno dal suo fetore, conforme che li suoi Cor
teg teggiani adulandolo dicevano , perche ella non sà cosa sia signoria,
e grandezza fà che la morte (a) Æquo pulsat pede pauperum tabernas,
Regumque Turres. Per tre gran benefici la natura volle , che vi fossero
li tanto odiati escrementi: Primo, perche dentro di noi si facilitassero
mediante queste tante digeftioni, che vi si fanno , conforme l'esperienze
chimiche ad evidenza lo dimostrano, in tante digestioni fatte con il Fimo, e da
quì rifletcete quanto s'ingannino coloro, che procurano anziosamente à forza di
tanti reiterati purganci star-, ne senza; Per secondo, che nell'uscire che
fanno impari à conoscere ogn’uno se stesso, à che segno debbasi insuperbire chi
dentro di se conserva fimili fetidillime materie; E il terzo per convincere chi
non credesse il primo, con farlivedere quanta fecondità questi rechino alli
terreni sterili, che colsuo beneficio divengonono fertiliffimi , talche
erroneaè à priori quell'opinione di potersi nudrire con cose, che non abbiano
escrementi, conforme ancora tale à pofteriori si dimostra per essersi veduto
chi l'hà voluto praticare divenire un marafino, che in breve fini i suoi
giorni. Per ottavo , & ultimo finalmente, ch'è forse il più forte di
tutti, vi diranno le virtù : Guardatevi da quelli trè gran persecutori de'
vecchi, che sono, la caduta, il catarro, & il corpo soverchiamente lubrico
; La caduta , voi sapere molto bene, che per due gran motivi è nella vecchiaja
più dannosa, che in altre etadi, sì per essere li vecchi di mi. nor vigore, e
li più facili à terminare la lor vita , ritrovandosi arrivati allo scorto di
effa , sì ancora, perche cadendo come un tronco ciò, che viene loro percoffo
riceve colpo pieno, non venendo riparato dall'agilità delle mani, nè dallo
scanzo della vita , come segue ne' giovani di maggior agilità di loro, onde per
evitare una simile fventura dovrete andare sempre con il vostro bastone,
ne fa [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] farere come
alcuni, che l'abboriscono per mofrar braura , quando braura più tosto sembreria
l'ayere in mano il bastone di comando"; onde non senza mia stero fù
chiamato da’ Latini il bastonc della vecchiaja Scipio, & il prendere
Sufcipio. L’occasioni di prendere li catarri à che segno le dobbiate
fuggire, l'efperienza altrui ve ne fece maestri, (vi suggerirà la Temperanza)
mentre osservaIte, che chi li espose all'aria rigida, chi ftiede in luogo
soverchiamente caldo, chi disordinò in cibi grossi, come sono il formaggio,
legumi , & alrre cose consimili furono da essi moleftati, converrà dunque à
voi ancora fuggirli, se non avrete quell'erronea massima, che ebbe quel Medico,
che disordinava molto, sù la fiducia, che niuna cosa gli potesse nuocere,
dicendo, che li Legislatori non sono soggetti alle leggi, mà gli convenne
soffrire la morte immatura per questa sua falsa credenza; e finalmenre quanto
dobbiate stare cautelati, per non incor rere 1 rere nella
foverchia lubricità di ventre, non occorrerà vi sia suggerito, sapendo i
da voi medesimi, che l'abuso de' dolciu mi, cde'frutti producono fimile
indifposizione. L'irascibile ancora spesso in, citata con l'abuso de' cibi
caldi per accrescere pungoli alla bile , quanto la poffino rendere frequente
nell'età avanzata lo sapete assai bene, con tante altre cagioni, che farà
superfluo viliano ram, mentate. i Essendo voi dunque nel corso
della vostra vita camminati sempre con le dii rezioni delle virtù, avete da
sperare fer mamente di potere incontrare una gloriosa morte, perche esse
in quel vostro estremo bisogno, più che non fecero in é altri,vi
assisteranno; La Prudenza vi farà soffrire ciò, ch'è inevitabile, con
animo generoso ; La Giustizia sperare quel pre7 , mio, che sarà dovuto
alle vostre gloriose opere ; La Fortezza vi darà cuore da refiftere
intrepidi ad ogni patimento più duro ; e finalmente la Temperanza vi consolerà,
con farvi vedere, che trà X 2 quel [ocr errors][ocr errors] ز
quelli molti , che vissero, pochi ne giunsero all'età voftra ; onde voi, che
avrete sempre dato saggio di tanca moderazione, come potrete non contentarvi di
essere già vissuti à bastanza, potendo con intrepidezza dire : Vixi, quem
dederat curfum for tuna peregi; Sicchè felice sarà la vostra morte ,
& invidiabile da tutti , nè crediate che fiano per abbandonaryi queste
doppo morte , perche allora più che mai saranno inseparabili da voi,posciacchè
quando ancora eravate viventi si poteva dubitare, che potefte essere, ò nò,
prudenti, giusti, forti, e temperari, perche in realtà potevate dare occasione
à dette virtù d'alienarsi da voi, mà doppo morte, che tal cagione finì, non si
potrà più dire di voi, che prudenti, giusti , forti, e temperati non foste,
ficchè resteranno allora da voi eternamente inseparabili le vostre virtù. E chi
mai rimarrà doppo morte più glorioso di voi? forse il ricco? questo no, perche
le sue ricchezze già al [ocr errors] Ja morte, allora
passarono in altri, non sono più fue; Forse il potente ? nè anco,
perche la sua grandezza è rinchiusa allora den- tro la sua urna ,
& il suo potere è diven- tato un niente; Forse chi ottenne fingo-
lari prerogative di natura , come sono la somma bellezza, salute , e
robustezza di corpo? questi nè tampoco, perche quelle già furono, e
non sono più doppo restando un nulla , giacchè : Quod fuit,
non eft pro nihilo reputatur . Solamente dunque chi vive seguace
del- le virtù può sperare di ritenere ancora per se doppo morte
quanto gadè in vi- ta, e fù suo proprio , con tutta quella gloria
imınortale, che acquistò chi visse virtuosamente, de' quali parlando
Ip- pocrate (*) così diffe : Quique hac viâ incedunt gloriam tùm
apud majores , tùm apud pofteros fibi comparabunt, ch'è quan-
to dovevo mostrarvi. Ed eccoci giunti al fine della
festa Giornata, e convenevole sarà di ripo- sarci,farci, in
venerazione di chi creò l'Universo, giacchè egli ancora requievit die Septimo
ab universo opere , quod patrarat , do benedixit diei feptimo , &
fanétificavit illum [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] X
3 (-) De decenti babita , è à priori (2) Horat.Carnr. odc 4
fa. dicom (e) Hipp.de
Pracepticx. fo quan (1) De
pracept: fione [d] Epidem.lib.5. @grot.28. ex Valefio. [e] Epid.lib
5. ægrot.7. (f)
Epidilib.5.>.g. ap(4) In epift. Abderit. (r) Epift.6.
rano (d) In Comment Hipfoer. de Fraft. fers (b) 18 epiß.
Damogit, alla (a) In epif Philop. K per(a) In
lib.præcepto ch' Th. In
lib.de pracept: fprone [b) De preception. Set era
(b) In 2.epiji. ad Domeg. 1 F 3 i [ocr errors]
fare 1 (h) Hippocr. de veteri Medico C2 pra(c) De
decerti babits. In. Morale, DE'FIGLIUOLI e Medica
DEL DOTTOR DOMENICO GAGLIAR DI Divisa in due Parti. PARTE PRIM A
Sopra l'Educazione Morale. DEDICATA ALLA SANTITA'DI N.S. INNOCENZO XIII,
Neglectis urenda filix innascitur agris Hor. Sat. 3. lib. I. In
ROMA, MDCC XXII. Nella Stamparia di Pietro Ferri alla Minerva.
Con licenza de'Superiori . [blocks in formation] [ocr errors] sien
L Titolo gloriofifsimo di Padre Universale , it quale viene fo lamente
attribuito all'Altissimo Merito di Voltra Santità , mi rende più a
3animoso à consagrarle la prcfentc Opera sopra l'educazione de'figliuoli
Morale, e Medica, con ferma speranza , che Ella comc zelantissimo amatore del
buon costume non solamente la riceverà sotto il potentissimo fuo patrocinio; ma
le farà di vantaggio godere gl'effetti della sua somma clemenza ; mercecche non
permetterà già qucsta, che rimanga infruttuoso ogni qualunque suo documento
profittevole allo stradamento de'figliuoli per farli divcnire amanti dellc
virtù, cd aperti nemici de' vizj, essendo tal desiderio appunto il maggiore che
possa avere un'ottimo Pan dre; mente dal principio del suo
Gloriofiflimo Pontificato ha fatto la S. V. colle operazioni più gloriofe
conoscere al mondo tutto; vedendosi tanto il suo Paterno Zelo, quanto la sua
somma beneficenza indiri, zati folamente al giusto, ed all' onesto, gastigando
i 'rei , c premiando i meritevoli: conforme appunto costumarono tanti
Santillimi Pontefici suoi Antca natì di gloriofiffima memoria. Talmente che
l'Eroiche Virtù in V. Beatitudine essendo ereditarie, si trovano profondamente
radicate,e queste di fimin le natura debbono neceffaria, men, a
4 zarsi, seppure l'ottimo potranno sormontare. i Nè lì veggono nell'
Antichissima , c Nobilissima Famiglia de Conti ereditarie l'eroiche virtù
dc'suoi Maggiori nei foli Sommi Pontefici ;. mentre risplendono questo ancora ,
in tutti gli altri, c. con applausi universali; cssendosi veduti do. po la
dcgnissima esaltazione di V.B. al Trono Pontificio, nc' più a Lei congiunti di
Sangue la medesima nioderazione di animo, ed affabilità princicra ; assegno
chc,non senza ammirazione,fan ben conoscere a tutti, che le presenti felicità
non han na a gli animi generosi, e forti, in cui regnano abituate
l'Eroiche Virtù. In tempi dunque felici, o fortunati,ne'quali la verità
svelata pud comparire avanti al Principe , godo la forte di presentarle
prostrato à Santissimi Piedi di V.B. e consagrarle inficmc qucfte mie fatiche,
diret. te non ad altro, che al publico bene; mostrando queste a Padri di
faniglia,non folamente l'obbligo loro, ma cziandio il modo più facile
d'indirizare benc i proprj figliuoli, affinche non divengano elli viziosi per.
turbatori della publica quie te. ritevole dell'efficace Patrocinio
del Principe, essendon'egli di essa vigilantissimo Custode: Contribuendo dunquc
alla felicità del Principato la buona cducazione de'figliuoli , como cagione
della publica quicte; affinchè là S. V. possa godere tutta quella lunga serie
di anni felici , che ardentemente le bramo con ogni maggiore offequio la
supplico à volerlo rendere degno del suo Supremo Patrocinio, potendo questo
accrescere alle sue prove, e ragioni momento di forza bastevole a renderle più
convincenti nel ripulire gli animi rozi,dano, e baciandole i Santillimi Piedi
con profonda venerazione mi umilio. Di Voftra Beatitudine Omilifs,e
fedeliss. Suddito Domenico Gagliardi. AL C On rilevanti
motivi ho intrapre so lo scrivere sopra l'Educazione de' figliuoli :
primieramente, perchè leggendola Sacra Scrittura ho con chiarezza conosciuto
l'obbligo grande col quale da essa viene aftretto ciascun Padre ad educar bene
i propri figliuoli; ordinando l'Ecclesiastico al 30. Curva cervicem ejus in
juventute, fu tunde latera ejus, dum infans eft, ne forte induret, Ego non
credat tibi, Er erit tibi dolor anime . Doce filium tuum , E'operare in illo ,
ne in turpitudinem illius offendas; e trovandomi molti figliuoli era anch'io
compreso nel numero di questi . Incominciando dunque a cercare qual modo foffe
il migliore , per sodisfare a’mici doveri, benc mi avvidi alla prima, ch'era
d'uopo conosce per congetturare meglio ove le proprie inclinazioni li
aveffero portati . In feguela di questo considerai, che indarno si sarebbe
affaticato ogni qualunque ben’esperto educatore, se l'educando difetrasse nella
esatta regola del vivere, quantunque fosse dotato dalla natura di un'ottima
indole ; mercecche il nudrimento , eccedente in quantità, e qualità, potrebbe
cagionargli internamente tal moto inordinato negli spiriti, che fosse capace di
togliere alla sua mente quella limpidezza neceffaria a chi ha d'apprendere la
buona educazione . Si avanzò più oltre la mia mente coi suoi pensieri,
cominciando a meditare se co gli ajuti medici, allorchè già introdotto negli
educandi l'accennato interno sregolamento, si fosse potuto questo calmare; c
con molti lumi ricevuti da Ippocrate, ove tratta de Aere Aere ,
Aquis , EX Locis , arrivò a comprendere, che potevano queste giovaredi molto in
tale occasione. Accertatomi per le fudette rifleffioni, che l'educazione
de' figliuoli poteva trattarsi da un Medico provetto, appartenendo appunto ad
ello più che ad ogni altro il conoscere i temperamenti, donde nascono i
naturali, la regola del vivere, ed il modo di calmare gi’interni moti
inordinati de’fluidi, mi accinsi a tale impresa, non potendomisi addoffare da
critici, che io abbia contravenuto al documento, che insegna Orazio nella sua
Arte poetica a chi brama di scrivere con profitto, cioè: Sumite materiam
veftris qui fcri bitis æquam Viribus , & versate diu quid
fer re recufent, Quid valeant humeri. E per corrispondere con attenzione,
grandezza dell'argomento intrapreso, formai alla prima la seguente partizione
di effo. Divisi primieramente la presente Opera in due parti, cioè in
Morale, c Medica, affinche con facilità maggiore ti riuscisse di apprendere
quanto scris vo trovandolo non confuso. Nella prima Decade troverai
descritti molti avyertimenti, che dò, acciocche chi voglia accasarsi; possa
provederli di ottima moglie; nè ti paja ciò fuori del nostro proposito ; perchè
se non si abbatcerà in una moglie prudente, ed onesta , duc gran mali riceverà l'educazione
de' suoi figliuoli; il primo de'quali sarà ereditario dicendol’ ArioIto:
Di vacca nascer cerva non vede sti, Ne mai colomba d'aquila, nè
figliaonefti E l'altro poi come potrà queste ajutarti ad educarli bene , fe non
sapràche cosa sia la buona educazione, per non averla mai in se medesima
sperimentata? Laonde conviene conchiudere, che la base fondamentale della buona
educazione consista in iscegliersi una ottima consorte; ed avendola trovata, fi
danno parimente molti documenti utili per mantenerla costante nel suo buon
costume ; ed inoltre si mostra di quai modi si doverd fervire avendo sbagliato
alla prima nel provedersi di effa , affinche molto minori divengano i suoi
infortunj. Nella seconda Decade principia. 1'Educazione Morale de figliuoli;
ed in questa scorgeranno i Padri di famiglia quanto siano tenuti d'invigilarci,
e quali inconvenienti nascono dalle loro era, [ocr errors] zio la
similitudine de campi, nc'quali fa vedere di che pregiudizio sia questa, dis
cendo: Neglectis urenda filix innascitur agris E che le Madri non
debbansi abu, fare dell'amore verso i figliuoli, essendo questo trascorso molto
nocivo allawi buona educazione, a segno che, se molti non avessero avuto
l'asilo materno per esimersi da gastighi, averebbero depofti quei vizj,percui
poscia divennero infelici . Troverai parimente documenti facili, e
profittevoli, de quali potrà ogniuno feryirsi sccodo le diverse loro
inclinazioni per educarli. E perch'è il compimento della buona educazione
l'istradarli a ciò, che doveranno applicarsi, quindi è, che si tratta ancora
del modo, col quale si doveranno provedere i figliuoli secondo gl'impieghi,
de que quali si conosceranno meritevoli ; e dandosi il caso per
lorosventura, che i genitori morissero, trovandosi elli di tenera età, si
propone ciò, che pare conveneyole a farsi in simili calamitose cótingenze:e'
per non lasciare poi in abbandono i poveri, che non ponnoricevere tutti quegli
ajuti da Macstri conforme possono avere i figliuoli de'bene Itanti, fiè pensato
anche ad essi per dare un ripulimento più universale contro vizj,essendo tal
semenza in tutte le condizioni degli uomini perniciofiffima per la
Republica. Quattro sono gli interlocutori ideali della presente opera :
Sempronio giovane molto accorto, il quale brama d'istruirsi; Mecenate , e
Publio prudenti direttori, ed il Medico provetto , per dilucidare alcune cose
appartenenti alla Medicina. Mi fono servito di Publio ammogliato per la
sperienza grande, chc che si trova colui, il quale per molti an ni
è vivuto in tale stato: di Mecenate sciolto da tal legame, periscoprire quel di
più,chenon può eslere noto, a chi hà moglie,rimirando le cose più sincere chi
si trova in disparte, enon ha abbagliato la vista dalle proprie passioni.
Inoltre raccontando Publio cioca chè costumavası fare in tempi meno rilassati,
farà maggiormente conoscere la differenza de'correnti, & additerà ancora il
modo, che si potrebbe tenere per emendarli,quando questi discordafsero molto da
quelli . Nè potrà dolersi alcuno di quanto io con tutta sincerità procuro di
darti a notizia; essendoche conforme il Medico non può trovare il rimedio
opportuno al male se non forma l'idea giusta, con esaminare esattamente la
natura, cagione, e gli effetti di esso, così ancora nel ritrovare isimedj ai
vizj, che sono mali dell'animo b 2 caca [ocr errors] è necessario
sapere precisamente la natura, le cagioni, e li cattivi effetti di esli ; oltre
di che, non parlando io in particolare di alcuno, ma solamente in
generale diciò, che è detestabile, non si potrà dolere di me se non chi da se
medefimo conoscerà d'essere macchiato di tali difetti,come a tale proposito
disse S. Ambrogio ne'suoi serm.pag.102. Ego non de omnibus loquor Etc. ego
neminem nomino : conscientia fua unumquemque conveniat. Averei potuto
ancor darui la feconda parte; ma per maturare meglio alcune cose contenute in
essa ci è d'uopo di maggior tempo, c per iftabilirle ancor con provo più
convincenti; ti baa Iti per ora un picciolo abbozzo di ella affinchè poffi da
questo comprendere il progresso da me tenuto per compire una educazione più
generale . Quattro sono i punti Medici prinche convenga nel tempo, che sono
già cipali, che si tratteranno nella Decali de terza, in ordine
alla buona educazione; il primo fiè quello , che deesi fare per vantaggio di
essa, prima di concepire figliuoli: Il secondo, cioc [ocr errors]
in ito lif [merged small][merged small][ocr errors][merged
small][merged small] per cola [ocr errors] concetti, e dimorano
nell'utero materno; il terzo che far si debba, dati che sono alla luce, e
finattanto, che dura la loro pucrizia: Il quarto finalmente, ciocche convenga
allorchè sono in età, nella quale dee in effi manifestarsi l'uso di ragione ,
indugiando questo. Nel primo si farà vedere assai difficile il potersi
avere figliuoli di buona indole, e docili , se tra marito, e moglie regneranno
continue discordie; se faranno l'uno, o l'altra di essi dediti all'ubriachezza,
ed alla crapula; con dimostrare loro donde ne provengala cagione; oltre le
sperienze dimostrative di ciò. b 3 Nc [blocks in formation]
[ocr errors] Nel secondo, che non debba una deviata madre tenere la medesima
vita, che faceva , prima di concepire; con mostrarle ancora gl' incomodi che
può ricevere ella medesima, ed il feto, che porta riell'utero, per tal cagione,
e quanto possa venire danneggiata la buona educazione da questo. Nel
terzo si farà conoscere , dati alla luce, di qual latte debbano nutrirsi, e
qual regola in cffi debba tenersi, allorche saranno slattati, per deprime. re
quel principio , che si scorgesse avvanzato in loro a danni della buona
educazione; e qual cuftodia abbia d'aversi di esli , affinche non divengano di
cattiva complessione, la quale sarebbe molto pregiudiziale alla buona
educazione, E finalmente nel quarto , vedendosi questi ne' buoni
documenti morali non fare progressi, fi esamina sela sero avere pofsanza
tale da deprimere, o innalzare alcuni principj in esli, o foverchiamente
assottigliati, o più del dovere sopiti; mediante i quali ne nascesse ostacolo
alla mente nell'apprendere, e ritenere i documenti necessari, e questo sedebba
farli con ajuti più efficaci mostrandoci anche Orazio, che Incultæ pacantur
vomere sylve. Nella quarta Decade poi troverai dieci ragionamenti sopra i
vizj, e le virtù, con esaminarsi ancora ifrutti di ambidue ; e servendo questa
come di una appendice all'opera, goderà il vantaggio di efsere trattata con
ragioni, e documenti filosofici, medici , morali, e naturali, secondocheayerà
d'voро di essi ; & intanto si sono queste materie poste nel fine ,
per non dilungare troppo i ragionamenti, potendo ciò renderli tediosi; ed
essendo per altro neceffario il farc: ben comprendere a tutti quanto di
buond, o cattivo nasca dalla buona, o cattiva educazione; doveva questo non
trattarsi solamente di passaggio, conforme si era già fatto nelle antecedenti
conferenze; ma farfene bensì particolari ragionamenti a parte per dimostrarlo
con più di chiarezza, potendone da ciò risultare un infinito bene;
conciosiacosache fàconoscere chiaramente il nostro Ippocrate nella risposta,
che diede agli Adderiti, essere feliciquei Popolizi quali ben sapeano, che la
loro sicurezza non consisteva nelle alte torri,cd in altre materiali
fortificazioni;mà bensì nella bontà de Citradini,e ne'loro prudenti
consigli:spiegandosi ivi : Beati profectò funt populi , qui sciunt bonos viros
suaesse munimenta, nonturres,neque muros, fed fapientum. vi. rorum sapientia
confilia ; É venendo interrogato Socrate nel convivio de'sette fa
fapienti di Platone, qual fosse la più ben munita Città, egli rispose : Que
bonos viros habet . Quale la più felice : In qua præfe&ti focietate
conjunguntur: E finalmente qual fosse la migliore di tutte, egli disse: In qua
plurima virtuti premia proposita sunt . Nè può di ciò dubitarsene, insegnandoci
l'oracolo della Divina Sapienza al 6. Multitudo fapientum fanitas orbis.
Spero finalmente, che saranno ricevute queste mie fatiche con animo benigno da
quei, che sono amanti delle virtù, e se faranno vilipesc da chi ha già fatto
l'abito di āteporre i vizja queste,verranno da essi più costo a loro mal grado
onorate; riputandole di pregionó dissimile a quelle cose solite da essi a
pofporsi; mi basterà, che fiano grate a chi possiede il buon costume, ed utili
a chi brama di acquistarlo, perchè gid sono divenuto capace , che nel mondo
erunt vitia conec homines; con questa diferenza solamente del più, o del
meno,nè io pretendo di vantaggio. Vivi costante nel bene operare per continuare
ad essere felice, e far conoscere agl’infelici viziofi colla tua tranquillità
di animo meglio le loro mi serie. Si videbitur Reverendissimo Patri
Sacri Palacii Apoftolici Magiftro. N. Barcbarius Episc. Bojanen.
Vicefg: APPROVAZIONI. Etta, è considerata del si gnor Dottore
Domenico Gagliardi , intitolata l’Educazione de figliuoli morale ; o medica ; per
commissione dei Padre Reverendiffimo Gregorio Sel. Seri Maestro del Sagro
Palazzo Apoftolico; non ci hò trovarà cosa vervna , chic fia contraria alla
Fede, o clic offenda i buoni costumi . Con verità bensi poffo; c debbo
attestare; che una tale opera per mio sentimento è degna di uscire in luce,
perchè oltre l'effere or: nata di scelta crudizione, e di soda dottrina ; può
essere molto fruttuosa ; ed al publico, ed al privato, spiegandosi ia essa con
dotta; e giudiziola chiarcze [ocr errors] za la maniera di ben educare la
prole, affare di somma importanza , come è ben noto a chi non hà cicco
l'intendimento, ed offuscata la ragione. Cosi ne giudico ; c francamente mi
persuado, che altrimente non ne giudicherà chiunque col leggerla dalla forza
del vero G conoscerà obbligato ad approvare con giusta lode il zelo ben
commendabile, e con eso l'erudito , e saggio faperc del chiarissimo autore, che
per la publica utilità non hà ricusato di addosCarG acl colmo delle sue Mediche
applicazioni una cale fatica, che ben lo palesa non meno versato negli studi
più propri della sua professione, che negli altri, per cui sono degnamente
accreditati i più celebri per fama di erudizione. Io Fra Tomaffo Maria
Minorelli de'Pre dicatori Maestro di Sagra Teologia, « Bibliotecario
Cafanastense Per P Er commissione del P.RñoGregorio
Selleri Macstro del Sagro Palaze zo Apostolico avendo letra , e confiderata
l'opera dell'Eccellentiffimo Signor Doctor Domenico Gagliardi , intitolata
L'Educazione de figliuoli morale,e Medica, non avendo trovato nella medesima
mala fimc repugnanti alla nostra Santa Fede, ed alla bontà de costumi, nè
discordanti da i buoni fondamenti della nostra Professione di Medicina la
considero degna di publicarli con la Stampa questo dì 20. Gennaro 1722.
Michelangelo Paoli IMPRIMATUR. Fr. Gregorius Selleri Ordinis
Prædica corum Sac.Palat. Apoft. Magift. Delle Conferenze,
PSopra l'elezione della Moglie , e sue condizioni più essenziali. Sopra l’età più propria, epro.
porzionata di accasarsi ; e quale sia svantaggio maggiore, farlo prima del
tempo convenevole, 9 nella vecchiezza : Dove la mostra,in che cose
faa esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj; e quali jvantaggi nascano
dalle disuguaglianze in queAte. Sopra gli antichi costumi, pras
ticati appreffo alcuni Popoli per la generazione ; ę se sia più vantaggioso lo
scoprire scambievolmente i propri , corporali difetti , prima di
sposarsi, o l'occultarli. Nella quale si mostra , in che modo si maritino
le belle , le ricche , ę le deformi quantingue povere. Nella quale si esaminano piut
distintamente i pregiudizi, che risultano dai matrimonj fatti senza
l'intervento della Pruden74.Sopra i difetti , e le virtu delle donne. Come si debba regolare l'uomo colla moglie
scelta di ottime qualità. Come si debbano regolare i saggi mariti
con le mogli imprudenti , e viziose .
Sopra i ripiegbi prudenziali , che debbonsi prendere in diverse
occorrenze dalle mogli saggie , incontrandosi in viziosi, ed indiscrefi
mariti, Sopra l'educazione Morale
de'figliuoli, Nella quale si mokra, che co Ta sia edncazione , cui
appartengo piid di ogni altro; e sefia necessario luogo particolare, ove debba
farsi . Intorno a quello , che
debbas farsi da Genitori per educar bene i figliuoli . Intorno all'uffizio, e qualita dell’Ajo, e
dei Maestri . Sopra l'educazione
delle Pin gliuole, Sopra l'etd
opportuna d' apa prendersi le scienze, ed il modo più facile per
accer tarsi delle particolari inclinazioni de'figliuoli . Sopra gl' impieghi , che do vranno
darsi da saggi Padri a figliuoli ben’educati, e dotti. Come debbano i
Padri rego larsi nel provedere i figliuoli ingnoranti , e
viziosi. Sopra il modo di ben
collacare le figliuole. Sopra
l'educazione de Pupil li : e come debba ciascuna portarsi verso i suoi
Genitorį defonti, Sopra
l'educazione de'figliuoli poveri, e donde venga questo danneggiata .
539 [ocr errors] Sempronio , (
Mecenate . [ocr errors] Sem. Engo talmente af frettato da
mici cogiunti a prender moglie, che non mi lasciano vivere, sti molandomi
giornalmente di farlo; a segno che, per non poterli più sentire, sono in
necessità di compiacer loro : solamente due core mi ritardano; e fono
l'educazione de figliuoli, che possono nascere,e la cura, la quale fi dec avere
di esli, efsendo in ciò inesperto ; per altro mi trovo già pronto a consolarli
: istruitemi, Mecenate, in queste, potendo voi fare due beneficj in un
tempo;cioè, d'istruire me, econsolar' efli, che tanto bramaDo le mie nozze.
: А Mer. Mec. Mà questa moglie,ci è già scelta approposito
per voi ? Sem. Ci sono tante giovani oggidi belle , galanti , e ricche,
che essendo anche io giovane,e commodo di beni di fortuna la posso scegliere a
mio genio, e fodisfazione in brevissiino tempo. Mec. Però non sò se tutte
queste belle , galanti, e ricche, faranno per cala voftra,leggendo in Ateneo
che: demens eft , qui oculis uxorem accipit : come fece appunto Monimo il
quale , avendo sposata una Giovane , senza ricercare prima i suoi costumi,
divenne infelicillimo marito; c dolendosi della sua {ventura con Olimpia madre
di Alessandro, lo riprese della sua trascuragginc, usata nello
sceglierla. Sem. E che ! la dovrò prendere forse deforme , scoriese, e
povera ? Mec. Neanco questa farebbe al caso voftro. Sem. E chi
dunquc doverò prendere? Mec. Una's clic lia donna di propo,
fito, Sem, [ocr errors][ocr errors] Sem. E quelle, che sono
belle , egalanti, sono donne ancora di propofito. Mec. Mà non tutte buone
per voi. Sem. Quali saranno quelle, che voi Itimate buone per me?
Mec. Quelle appunto, che sapranno softenere con senno, e con prudenza la metà
del peso della casa, e dell'educazione de figliuoli; onde quando voi la
tropaste di queste qualità avercre risparmiato la metà del penfiere
dell'educazione, e cura de figliuoli; e queste sono appunto quelle Itimate
appropolito da Plauto, in Stiche, ove dice: UI per orbem cum ambulent
Omnibus , os obturens , ne quis meritò maledicat fibi. Essendo queste
ornate di tutte quello desiderabili prerogative, descritte daw Seneca in
O&avia. Probitus , fidesque conjugis , mores, pue dor placeant
inarito. Sem. Io credea , foffe fufficiente, che ja moglie sapeffe far
figliuoli, c chou ogr’una di queste fosse a propofito.Mec. Per farli, lo credo
ancheio, ma non già per educarli bene, e per adempire quanto dee' una vera
madre di famiglia; essendo che per far questo liricerca, che sia dotata di
senno e di prudenza' : vi avvedete voi ora del vostro errore, e che come si
suol dire, ponevate il carro avanti i buovi, con istruirvi nell'educazione de'
figliuoli , senza sapere ciò, che ci vuole per iscegliersi una buona moglie: e
se v'incontrasto in una imprudente, garrula, e contenziosa, à che vi gioverebe
il sapere educar bene i figliuoli, se quanto di buono voi operaste, ella
sarebbe capace distruggere colla sua imprudenza, e garrulità ?, allor sì che
fareste caduto in quella fyentura descritta dal Poeta Saririco : Semper
habet lites, alternaque jure gia lectus In quo nupta jacet, minime
dormia tur in illo . O.pure vi abbatteste in una, che fosse di quella
natura superba, descritta dal me. desimo, la quale dicesfc; Нос [ocr
errors] voluntas ; Imperat ergo viro. In questi casi educate bene i
figliuoli se potere . Sem. La bramerei savia, e prudente, ma vorrei, che
foffe anche gentile, e galante ; perche le donne di fattezze grossolane non mi
sono mai andate a genio. Mec. Se questa sarà sana , e prudente non ci hò
cosa incontrario, ma se poi colla sua gentile, e delicata complesfione ci fosse
unira qualche indisposizione di animo, e di corpo, il che suole alle volte
accadere, non vi consiglierei a farlo. Sem. E perche ? Mec. Vi porreste
in tal caso a pericolo di fare una cattiva razza; eredicandog da figliuoli non
meno il bene , che il inale di effe ; ed hò sentito da Medici, che più dalle
Madri, che da i Padri questo si ritragga, per il nutrimento dato loro quei nove
mesi, che li portano nel ventre nè fi può fperare, che [ocr errors]
A 3 che dal seme velenoso del nappello nasca un giglio, o una rosa: non
sarebbe poco, quando meno velenosa germogliasse quella pianta , che dee ello
produrre : e poi voi, il quale vi dilettate de cavalli, dovreste sapere per
isperienza, che quelli nati da cattiva razza, riescono i meno generosi; e
perciò dovete anche riflettere, che il limile poffa seguire negli uomini, come
lo descrisse Orazio. Fortes creant ur fortibus , du bonis : Et in
juvencis, eft in equis patrum Virtus : nec imbellem feroces
Progenerant aquile columbam . Sem. In maggior confusione di prima ora mi
trovo, sentendo da voi , lian neceffario ancora di scegliere una donna savia, e
prudente per moglie; onde, per liberarmi da tanti guai, seguiterò le vostre
orme, e viverò libero da questo legame anche io, e dicano ciocche vogliono i
miei parenti. Mec. Non fatedi grazia, Sempronio, questo sproposito,
Sem. [ocr errors][ocr errors] Sem. E voi perche l'avere fatto ?
Mec. Non aveva allora la sperienzas d'adesso ; nè mi abbatiei in consigliere
sincero; e sappiate , che mi sono pentito più volte, e particolarmente
avanzaadomi negl’anni, di averlo fatto. Sem. E per quali motivi?
Mec. Perche non anderei tanto lambiccandomi il cervello in cerca del mio erede
(briga dolorosa dell'età avanzata) se avesli figliuoli. Sem. Essendo voi
tuttavia robusto, farefte anche in tempo di farli. Mec. E che vi dispiace
forse la mina robustezza, che me la vorreste far perdere? non sono più in
tempo di farli; hò procurato finora di non esser ridicolo, & ora più del
passato son tenuto di farlo, e voi mici varrefte far diventare per cantare di
me forse ciocchè disse il Taffo di Vincilao : Vincilao, che sì grave , e
faggio innante Canuto pargoleggia, e vecchio amants : Queste risoluzioni,
Sempronio , deona fare in gioventù , per poter vedere i suoi figliuoli
bencincaminaci prima di mori. re, essendo che a me potrebbe succedere ciò che
dice Plauto: Poft mediam ætatem, qui ducit uxorem, Si eam fenex
prægnantē fortuitò feceris , Quid dubita's quin fiet parasū
nomen puero . Poftumus? Sem. Dunque saranno ridicoli tani vecchi,
che si accasano,e con giovanette anche belle? Mec. Io non debbo entrare
nei freci altrui, debbo bensi pentire 2 cali miei, ora che ho il pieno uso di
raggione, acquistato cò gli anni; ma questi sono discorsi fuori del nostro
proposito, dovendo voi risolvervi a prender moglie , per non avervi a pentire
poi ancor voi di non averla pigliata ; e per ciò dovere farvi ora istruire in
quello, ch'è necessario per fare un ottima elezione. Sem. E da chi?
Mec. Da colui, che la seppe far ottima , e perciò gode vita felice , e
tranquilla.Sem. Ma io non vorrei, Mecenate mio, palesare alero , che à voi il
mio interno; perche sapete pure qual vento spiri oggidì, che si van cercando id
fecti alcrui per mantenere allegre le nostre notturne assemblee, laonde di
scoprendo le mic debolezze ad un'altro, sarebbe cosa facilissima si divulgoffero
fra molci. Mec. Viverenino in tempi infelicissim mi, re in Citcà si vasta
la secretezza re. gnasse in me solamente, Sem. Mà non potreste voi solo
istruire mi in cucto , essendo vomo di molta fperienza nelle cose del
mondo. Mec. In teorica potrei darvi molti avvertimenti, ma in cose
pratiche nors posso consigliarvi ; perche essendo io sciolto da limil legune,
no ho avuta occasione di approfittarmi in tal faccenda. Sem. Oh quanto
mira meglio colui, il quale stà in disparte, i difetti dongeschi di quello
facciano i mariti! e come giudice spassionato , quanto li distingue anche
meglio! Mec. Voi sapete quanto vi amo, u per: perciò non lascierei
cosa alcuna, che non facessi per consolarvi; mà conos . cendo io, che meglio
potreste essere iftruito in tutto coll'intervento di chi averà navigato
felicemente molti anni per questo gran mare , perche vi amo, dico questo ;
potendo egli molte cose aver conosciute in atto pratico,alle qualinon possono
giungere le mie teoriche. Sem. Se lo giudicare necessario bisognerà farlo
: ma chi sarà ral'consigliere? Mec.Ci sarebbero Publio Roscio,che per lo
spazio di quaranta tre anni, e vivuto in pace con sua moglie. Massimo
trentanove anni parimente, senza contendere,e Silvio Paterno trentadue;ora
sceglietovi, chi volere di questi. Sem. Oh bene avete trovati i parenti
più prossimi à Noè, che sono in questa Città ! quai consigli mi potranno dare
questi vecchi decrepiti, che non firicordano del seguito nel dì avanti; e poi a
tempi loro non usandofi le galanti maniere constumate oggidì, a che mi
fervirebbono i loro ancichi consigli , non pra. praticabili a tempi
nostri? Mec. Tutte queste eccezioni, che da. te loro sono in vantaggio
vostro; per, che, se non si ricorderanno quello , che udiranno da voi, niuno
risaprà i fatti voftri , e se, senza tante galanti maniere di oggidì, fi
feppero far amare dalle loro consorti, insegnando a voi i modi, da loro tenuti,
ci guadagnerere molto in saperli, e se non siete ancora informato della
capacità de’vecchi, apprenderes la da Ovidio, Jura fenes norint , dow
quid liceata que , nefasque, Falque fit inquirant, legumque exa.
mina servent. E da Cicerone , il quale, de Senectute, così parla del Vecchio:
Non facit en que juvenes, at verò multa majora, meliora facit ; non enim
viribus , aut ves locitate corporis res magne gerantur , fed confilio ,
authoritate , fententia , quia bus non modo non arbari , fed etiam auga. ri
senectus folet. Laonde faggiamento l'Ecclef. al 25. dico ;- Corona fenun muba
ta peritia : Sem Sem. Sceglietene dunque uno di quefti a vostro
genio, e quello, che conoscerete più approposito per il bisogno mio. Mec.
Publio sarebbe più al caso, per. che quantunque egli meno si ricordi delle cose
presenti, conforme sono tutti i più vecchi, ha felicissima memoria nel ricordarsi
delle passate:e poi avendo numerola famiglia, e così bene accostuinata , saprà
anche istruiryı nella educazione di essa. Sem. Attenderò dunque con
anfierà i consigli di Publio; ma faprà istruirini incio, che riguarda la cura,
che si dec avere per conservare la prole con buona falute Mec.
L'esperienza, avuta in molte cõgiunture ad esso accaduce lo averà facilmente
renduto capace, a darvi qualche buon consiglio in questo ancora; ma non già con
tanta esattezza cõforme farebbe chi foffe profeffore di Medicina. Sem.
Sarebbe dunque bene u’interveniffe uno di questi; c difcegliere tra periti il
migliore Merg. Mec. Il vostro Dottore è pratichiffimo, avendo avuti
molti figliuoli, è anche ingenuo , e sò che vi ama di cuore, onde migliore di ello
non saprei sccglierlo. Sem. Così è: or ditemi, come doverò contenermi
nelle nostre conferenze? Mec. Domanderete quando si presenterà
l'occasione tutto quello, bramate di sapere; e non vi vergognate di fare anche
quesiti di poco rilievo ; perche non facendoli, rimarrete con perplessità in
molte cose. Sem. Come si farà per informare Publio,che al Dott. parlerò
io modelimo' Mec. Sara inia cura d'informarlo di tutto, e già che siamo
di primavera potremo portarci al mio giardinetto, contiguo alle mura della Citrà,
ove come disse il Petrarca: Non palazzi , non teatro , e loggia ,
Ma in lor vece un abete , un faggio, un pino, Fra
l'erba verde , el bel monte vicino , Levan di terra al ci el nostro
intelletto , E faremo ivi due volte la settimana le nostre conferenze.
Sem. Mà non sarebbe meglio, per approfittarmi prestamente , il farle tre volte
? Mec. Vicompiacerò anche in questo, purche le occupazioni degl’aleri lo
permettano ; ma voi, Seinpronio, averete già dato luogo nel vostro cuore a
qualche oggetto, perche bramate sapere con sollecitudine se quefto ci abbia da
rimanere,viconsiglierei però quádo ciò fosse, a spogliarvene prima, per
applicare tutto il pensiero a quella, che converra à yoi, & alla vostra
casa , che vientri per meglio stabilircela , Sem. Non sono
determinato ancora, quantunque abbia posto l'occhio in più parti, onde posso
facilmente spogliarmene affatto, e starò con anfietà attendendo l'avviso del
giorno, in cui si darà principio alle nostre conferenze. DECADE
PRIMA CONFERENZA PRIMA Sopra l'elezione della Moglie, e fue
condizioni più ellenziali. Mecenate , Publio, Sempronio , e Medico.
Mec. O notificato à Publio ciocchè voi bramate da esso, il quale vi
copatisce a maggior segno; posciache egli ancora si trovò in un fimile
laberinto,allor che dovea prender Moglie, comc jeri appunto mi disse, e da lui
medesimo sentirere ora con vostra confolazione. Pub. Quantunque anch'io
venifli Atimolato da mici Genitori ad accasarmi andavo nulladimeno téporeggiado
d'effettuarlo;perche apprendeva fosse schia vitudine grande la vita
cognugale, ma la ritrovai, per verità, assai diversa das quello, che io mi avea
figurato ; & efsendo stato sempre mio costume, anche da giovane di
regolarmi col consiglio d'uomini favii , c provetti, mi portai da un di questi
mio amico, che non aveva alcun interesse in cal affare, per consigliarmi seco ,
fe dovessi risola vermi a prender moglie, il quale uditas ch'ebbe tale
proposta, cortesemente mi disse: figliuol mio è tempo ormai , che vi risolviate
di farlo ; perche avendo voi già l’età di venticinque anni poiere esser capace
d'indrizare una donna per la buona strada , quantunque aveste sbagliato in
isceglierla nelle cose meno essenziali, e sappiate, che l'uomo savio bene
spesso fa divenire la moglie non dissimigliante da lui , siccome l'imprudente
donna precipita l'uomo poco avveduto : figuratevi alla prima di dover navigare
per un vasto oceano dover essere voi il nocchiere, che guida la nave :
sappiatevi ben regolare nelle [ocr errors] e di [merged
small][merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] nelle tempeste, per non sommergervi ;
prendetela sana, ben accostumata, e di buon parentado, non vi lasciate
abbagliare dalla bellezza, dote, e nobiltà; e risolvetevi ; perche quanto più
differirete, altrettanto inaggiore sarà il morivo di pentirvi della tardanza:
raccommandatevi al Signor Iddio, essendo che: A Domino autem propriè uxor bona
, come disie Salomone; procuratela giovane, nè tardate di vantaggio. Sem.
Quanto mi consolo , che vi siete ancor voi trovato in fimile laberinto; e son
sicuro, che perciò compatirete le mie debolezze. Pub. Vi comparisco a
maggior segno figliuol mio , fatevi però animo ; perche quantunque paja la vita
conjugale alla prima di un gravissimo peso, quando però questo viene portato
concordemento d'ambedue, riesce molto leggiero, an. zi foare'; e tal fortuna
l'hò sperimenta. --ta io medelimo. Sem. Vi abbatteste à caso in sì buona
compagnia, o pur faceste preventivos [merged small][ocr errors][ocr
errors] diligenze per isceglierla 2 Pub. Le feci certamente esatciflimus
per non operare da balordo ; perche se per provederci de' cavalli, cani, anzi
di vili giumenti si fanno efatte diligenze', acciocchè siano sani , edi buona
rizzi; quattro maggiormente sono neceffario queste nello provedersi di moglie,
come puntualmente si trova registrato in Tcognide, Canes quidem, a afinos
querimus , • Cyrne, dequos Generofos, cu hec quisque vult ex bona
progenie Sibi parare ; uxorem aurcm ducere malam Ex mala progenie non
curat 1. Vir bonus ; modo fibi pecunias multas 1offerat. * Sem. E qual
modo teneste in farle? - Pub. Avendo posto l'occhio ad una Gentildonga
modesta,non diriguale alla mia condizione, & in età nubile, miraccomunaadai
di cuorc al Medico , che fa. Noriva la mia casa , acciocchè avessesavesle ben
Dell'Elezione della Mog. 19 procurato di accertarsi della sua salute ,
avvertito à non ingannarsi, per non ave. re a fare ancor esso la penitenza del
suo fallo; posciache se fosse stata mal sana, dovendola curare, briga maggiore
gli averebbe apportata; senza speranza di premio straordinario ; per esserne
egli Itaro la cagione, che fosse entrata in inia casa; ciò però dilli per
ischerzo. m Sem. E detto Medico, come lo potcs va scoprire, se non l'avesse
avuta ini cura ? Pub. Penetrò tanto, che mi bastò , Sum. Com'egli
fece ; Pub. Avendo confidenza col suo Speziale, segretamente cercò
nel di lui libro maltro, se vi era descritto alcune medicamento, servito per
effe lei, e non trovandovi cosa di rilievo, mi disse : ftiamo bene di salute,
perche none, si è mai purgata . Sem. E leu fosse fervita di qualches
altro Speziale? Pub. Questo non si costumava di fare in quei tempi tanto
allo Speziale, quanto al Medico. Una volta, ch'essi erano ftati ammessi, fino
alla morte continuavano, ed'eravamo per ciò ben serviti; imperciocchè con molto
amore effi s'in. tereflavano ne i nostri vantaggi,conforme comprenderete da
quanto soggiungerò. Non si appagò già l'affezzionato Medico di questa fola
diligenza usata', mà volle far di vantaggio, e fu d'abboccarsi col Dottore, che
medicava in quella casa,introducendo seco discorso sopra la poca salute, che
godevano alcune giovani, ch'egli curava, attribuendone la cagione di ciò al
poco esercizio, ch'esse facevano ; e di poi passò à domandargli, di quali
rimedij egli si prevaleva per conservare in salute quella , che doveva appunto
essere la mia futura fpofa, la quale in appareaza mokravas essere più sana
dell'altre; cui replicò, ch'avendo ella sortito un ottimo temperaméto, no aveva
d'uopo dell'opera lua, & in segno di ciò nel mal de vajuoli da ella
sofferto appena cgli vi fu chiamato nel oel fine', tanto la natura
le fu propizia , che senza alcuno ajuto medico fece il fuo corso felicemente; e
con questa seconda diligenza mi accertò della buona salure, ch'ella
godeva. Sem. Questo favore toccherà à voi, Dottore, di farmelo...
Med. Non mi ponete di grazia in Gmile intrigo ; perche non essendo io si
avveduto, non vorrei errare nello scoprire gli altrui difetti : e poi se îi
desse il caso, che io avelli curato quella giovane, l'onor mio n'anderebbe di
mezo , discoprendovi la verità delle cose con, fidateini. Sem. Della
vostra avvedutezza punto non dubito: e poi porrò la mira a qualcuna, che non
fia medicata da voi; onde non mi contriftate col recufare di f.2vorirmi ;
perche altrimenti sarete voi cagione, che io non prenda moglie, noa potendomi
fidare meglio di alcun altro in questo, se non di voi. Med. Per servirvi
la vedrò, considererò il suo temperamento, e fisonomia; B 3
mà mà tante altre diligenze, praticate per Publio, non vi prometto di
firle; perche ora non si costuinano più molte cose, che si facevano
allora. Sem. L'usanze buone non si debbono dismerrere mai, io mi dichiaro
con voi, non per ischerzo, come diffe Publio , mà con tutto il fenno: che se
non sarà fana , toccherà à voi di curarla senza fperanza di ricompensa ,
succedendomi per colpa vostra tale sventura'. Mega Vorrci, Sempronio, che
mi mostraste qual privilegio voi avere più del Dottore di dismettere l'usanze
buone; essendo ch'è pur usanza buona riconoscere col dovuto guiderdone il
Medico, il che voi volete disinertere', obbligandolo di più ad osservare
quello, che fa per voi. Sem. Lo dicevo per animarlo, 20ciocchè lo
facesse con più fervore: non già tutte le cose, che si dicono si fanno.
Mec. Questo però non è già premio , che animi, mà bensì minaccia , che
avvilisce più costo ; olore di che non è già ben ܪ
ben fatto di proporre con tanta franchezza ciò, che non si vuole
praticare, Sem. Non parliaino più di ciò; palliamo al costume ; questo in
che dee cons Giftere, avendomi voi significato, non essere necessario, che la
moglie lia garbata, e galante? Mec. Cerra cofa è, che il buon costume
della donna, non dee coolisterer in questo, mà bensì in aver cura delle casa,
in saperla ben reggere, e gover: nare di cui parlando ne? ;suoi Proverbij
Salomone diffe : Confickeravit. Jemitas domus fue , panem otiofa non comedia Ed
il Nazianzeno nei suoi documenti che da alle vergini, così dice Neque domibus
cxternis olideas , neque menfis. Ed altrove contro le donne più del doc
yere ornate, così parla . Mos eft mulieribus [res pretiofa] domi
manere [ocr errors] Plurimum, & divinis alloqui sermonibus Telaque ,
fufoque ( hoc enim munus eft mulierum)Ancillis opera distribuereservos vitare
, Labiis vincula ferre, oculis,atq;genis: Neq; pedē
exirà vestibula Sepè babere; E Menandro comico greco così dice , Intus manere
mulierem oportet oportet :: Bonam, egredientes autem foras nullius
pretii sunt . Sem. Come scopriste, Publio , che fosse di questo costume la
vostra Conforte? Pub. Avevo in quel tempo un servitore molto affezionato,
& insieme accorto, diedi ad effo segretamente l'incombenza, che lo aveffe
scoperio ; e fi pora tò egli così bene, che in brieve fui informHo
ditutio. Sem.' E come fece? Pub. Conduffe, ove questi sogliono
ricrearsi, un certo fuo conoscente, il quale da molto tempo serviva in quella
casa, e dopo d'essersi insinuato avvedutamente appresso di lui,introdusse
discor. so, come è lor costume, sopra le stravaganze de padroni, &
interrogato, che l'ebbc de cractamenti, che riceveva dal fuo suo,
passò alla giovane, di cui ne diffe un infinito bene, con individuargli alcune
particolarità, le quali denotavano forfe savia, c prudente . Sem. Questi
come poteva essere apa pieno informato delle qualità della gior vane, non
trattando in quei tempi lei padrone con servitori? Pub. I servitori in
ogni cempo sono ftati curiofillimi di scoprire i fatti de'padroni, & anco i
più segreti', come ava vertì Giovenalc. Scire volunt fecreta domis, atque
inda timeri. E siccome sempre vi è stata qualche affezionata corrispondenza tra
essi, e le donne di servigio, onde per questa via, ciocche effi nonodono, ne
offervano, lo penetrano : nè è stato mai possibile, che le donne di servigio
ili fiano astenute dal'non palesare i difetti del: le padrone , almeno a questi
loro favo riti, per mostrare con elli confidenza. Sem. Vi bastò quefta
sola notizia ? Pub. Procurai in oltre rincontrarl24 da più parti prima di
crederla ; pofçiag che che udito efferii da quella casa partita
disguitata una donna , fecidiella prenderne inf rmazione, la quale
contesto le medelime cose,che dette aveva il servitore; ed essendo uniforine à
questo notizie il publico conceito, che di essa fi aveva nel vicinato, mi
appagai del suo buon costuine ie non feci altre dili. genze intorno à questo.
ni Sem Manon sarebbe stato ineglio vi foste informato da qualche Uomo das
bene? Pub. Non lo stimai neceffario , avendo rincontrato da più parti il
medesimo: e poi per dirvela giusta , chi è buonio non è curioso d'investigare
gli altrui difecii; ed anco sapendoli si guarda molto bene dal
publicarli..." Sem. Il vostro Ulisse, Mecenate, sa, rebbe
approposito per iscoprire gli altrui difetti in Mec.. Ma non in questo
affare, perche egli cicala troppo: si ricerca in tale affare chi sia destro, e
serio , che compri, c non venda. Sem. Sem. Palesatemi ora , Publio,
qual modo usaste nell'informarvi della prosapia della vostra Conforte ?
Pub. Vi era in quel tempo un certo sfaccendato investigatore de' fatti altrui,
il quale andava curiosamente cercando le memorie delle antiche famiglie negli
Archivi ; cui feci parlare dau un'amico, è che mostraffe desiderio, tanto delle
notizie della mia famiglia, quanto dell'alcra, con fargli promertere un
convencvole riconoscimento per le sue fatiche'; e per verità in brieve tempo
d'ambidue pose in chiaro quanto circa ad un secolo a poteva tro. vare, e
seorgendo verificarsi ciocchés aveva detto della mia, prestai fedes à quanto
aveva ritrovato dellal, tra; e vedendo, che fiftava quasi del pari tanto nel
bene, quanto nel male's non ini curai fare diligenze di vantag. gio'intorno a
questo ancora potendomi bastare. Sem. Dunque quantunque sapeste, che in
quella viera qualche eccezione, non [ocr errors] [merged small][ocr
errors] non ne faceste caso? Pub. Mà se vi era questa nella mias ancora,
come potevo farne caso, do. vendoci ne' Matrimonj servare uguaglianza.
Mec. Credete forse, Sempronio, che tutti noi descendiamo da Cerari, e che per
non interrotta serie di molti secoli le nostre famiglie siano state sempre
illuftri? Se li potesse ora ritrovare la de. scendenza vera degli Arsaci; e
Tolomei, oh quanti di questi si troverebbero esercitare arti vili, e forse core
peggiori ancora . lo per tal motivo no mi fon punto curato di far ricercare
dell'albero della mia casa , se non l' ulcimo secolo ; e tanto maggiormente,
che un mio amico, il quale si mostrò più curioso di me, bramandolo di due ,
dopo di avere speso di molto in ricercare i fatti de'suoi antenati; vi trovò
alcune cose, che forse nulla li piacquero, o fece tralasciare l'opera:solamente
queIto guadagno vi fece, che non milançava più la sua nobiltà , come prima.Som.
Di avere però l'albero della sua casa lo stimo neceffario, affinche i
posteri seguirino i loro illustri maggiori. Mec. Lo credo anch'io , mà
però non conviene farne publica mostra , se uon cui averà trà suoi ascendenti
chi abbia goduta la Sovranità, mediances la quale degnamenre merita la
preminenza sopra tutte le altre una sì illustre famiglia. Potrei riferirvi à
questo proposito ciò, che fece un saggio Prencipe, cui fu presentato l'albero
de'suoi antenati; lo rinirò egli ben bene, & essendoli avveduto , che
l'adulazione vi avca innestare alcune cose ideali, lo fè piantare profundamente
in una fund Villa, atfinche da quello germogliaffed l'albero de'suoi
descendenci più glorioso, essendoche lo fc piantare ivi ad onta dell'adulazione. Med.
Licredo anche utili detti albe. ri per prova della salute goduta dagli
asccadenti ; posciache se il Padre mori ottuagenario , il nonno parimente in
età decrepita , conforme anco l'atavo, ed il tritayo, sarebbe questa una
provas grande della perfetta falure in quella famiglia; e tanto più se questa
si proyaffe ancora per parto delle donne; dove che se fossero morti giovani, e
vi foffero regnati tra eli mali creditarj, farebbe far un cattivo negozio,
d'incftare a piante si cattive la propria. Sem. Riuscirà ora cosa
difficile à potersi sapere i difetti del casato, col quale dov.erò apparentare,
per non esserci più quegli avveduti indagatori dei difetti altrui. Mec.
Non dubitate, perche non ci è questa penuria ; sono stati, e saranno sempre nel
Mondo niolti, a quali premono più i farti altrui , che i proprj, ricavandune da
ciò notabile guadagno ; basterà essere loro grati, perche di quc sto vivono ,
per altro ne troverete molti: e poi ci sono ora tanti manoscritti, e libri
anche stampati, i quali trattano delle nostre famiglie, che vi si renderà più
facile di quello, che credete, à Caperlo giusto ; Sc però non averanno,
tore scritto con passione, clivare; il che si difeerne facilmente, non
potendosi mai celare questi canto , che non si scuoprano. Sem. In questo
supplicherò voia favoriemi, avendone già pratica di molte ; Ini mette solamente
pensiere il mor do di scoprire ciò, che accennò il Dor concernente
all'età , che fieno viyuti, & alla loro falute, ed in questo ancora vi
prego , Dottore , che mi ajutiate. Med. Questa non è incombenza di
Medico, dovendo egli cercare i vivi per 'risanarli , se sono infermi ; ma ai
morti qual bene potrà apportare, ricercandoli? Sem. Apporterete à me il
bene, le non lo farcte a defonti, con trovarmi moglic , che descenda da
famiglia sana, ed in conseguenza ancora a miei descendenti. Mec. Il
Dottore ha da fare, non gli date questa briga ; vi voglio inícgnare io il modo
per uscoprirlo; posciache, fc [ocr errors][ocr errors] se la
famiglia, colla quale voi volete app arentare, sarà illustre, e di antica pro
fapia, ci saranno tante lapidi sepotcrali,ove son descritti i fatti degli
ascendenti , ed ivi troverete anche gli anni, che questi vissero; se poi
saranno famiglie moderne, l'invidia farà palese più di quello, che bramerete
sapere di cfle , ritrovandosi ricche. Sem. Passiamo ora all'età più
propria d'accasarsi. Mec. Voi,Sempronio, vorreste essere in un sol
congresso istruito di tutto; riferrete di grazia, che Publio è vecchio, ed il
Dottore ha le sue occupazioni ; non ci abuliamo della loro sofferenza.; e poi
non è già vostro vantaggio di far lunghe conferenze, perche meno a apprendono
li troppi documenti, di quello si faccia udendone pochi per volta; differiamolo
dunque alla seguente Conferenza. Conferenze sopra l’età più propria, e
proporzionata di accasarsı ; e quale fia svantaggio maggiore, farlo
prima del tempo conyenevole, ò nella vecchiezza. [ocr errors][ocr errors]
Sempronio, Publio, Mecenate, e Medico. [ocr errors][ocr errors]
Sem. 01, Publio , che avete avuto fortuna nel vostro accasamento, ditemi
di grazia: in qual'età cravate,quádo prédeste moglie? Pub. Appena
io avca terminato l'anno. vigelimo quinto. Sem. E la vostra sposa qual’età
avea? Pub. Era allora appunto entrata nel vigefimo. Sem. Perche non la
prendeste prima?Pub. Perche non mi pareva di avere acquistato ancora turto quel
conosciméto necessario per far passaggio a detto stato. Oltre di che trovando
scritto questo Sacramento per ultimo, ftimai bene d'effectuarlo dopo l'età
stabilita da conferirsi il Sacerdozio, per non errare. Sem. Ma prendono
pur tanti moglie prima di questa età? Pub. Da ciò forse deriva , che
molti fi lagnano ancora di essersi accafati ; ed è cola facile, che per non
sapersi in quell'età iinmarura regolare con giudizio, e prudenza , incontrino
più disastri, che consolazioni, Sem. Dunque avendo i vecchi più
fperienza, senno, e prudenza de giovani converrebbe aspettarsi a farlo fino
all' età fenile. Pub. Per altri motivi però, apportati da Euripide , non
si dee aspettar tanto, dicendo egli: Et nunc juvenes adhortor
omnes, Ne in senecture nuptias celebrantes [ocr errors] Vix liberos
procreént;nec enim voluptas eft, Sedres inimica mulieri fenex
vir, Ed altrove, Amarus juveni uxori fenex maritus. Sem. Sono
però accaduti à rempi noftri cafi felici ne’vecchi sposati con le
giovani, ed hanno avuto prole. 3 Pub. Questi matrimonj bisogna , che
riuscissero assai infelici anticamente;podi sciacche di Omero racconta Erodoto
į nella di lui vita, che sdegnatoli egli con tro alcune donne,che
sacrificavano à Co. rcre in un trivio, imprecase loro questo o gran
male. Audi flavi Ceres precor, hoc mihi perfi ce votum: Hanc
numquam juveni matronam junge I marito, Sed tremulo fit nupta feni , cui
vertice cani Fundantur crines, E non avendo saputo augurare loro
infortunio peggiore di questo;qual felicisà dunque potranno essi godere?
Potrà [ocr errors][ocr errors] effere tal volta, che le donne di oggidi
fieno divenute più savie di quello fossero allora; o pur,non trovando alcune di
esse mariti giovani fi contentino di quelli, che possono avere , senza
contristarsene punto; se pure non è qualche caso singolare questo da voi
riferito, il quale non è sufficiente à formare Aato. Sem. Bramerei in
primo luogo sapere da voi , se debba essere uguale l'età dell' uomo à quella
della donna, per servare in tutte le cose perfecta uguaglianza? Pub.
Appunto per cagione di proporzionata uguaglianza , non debbono essere ambidue
di consimile erà, perche deesi, come ben'avvertì Euripide regolar questa dalla
durazione della fccondità , non dagli anni, dicendo egli. Malum eft juvenem
uxorem adolescenti conjungere. Diuturnior autem eft marium vigor,
Fæmineum verò corpus citiùs puberta. sc deftituitur . Sem. [ocr
errors][ocr errors] Sem. Quefta differenza di età in che doverà consistere, e
quanti anni doverà avere più l'uomo della donna? Pub. Sopra questo
particolare ini persuado, che non si possa dare certa, c determinata
regola;contutto ciò potrà dire il Dottore, quello ch'egli ne senta. Med.
Aristotele pone la fecondità dell'uomo fino all'età di 70. anni, e quella della
donna sino à 50.jma perche ora forse sono le complessioni deceriorate, e perciò
non si osserva, se non di rado giugnere à questo termine, voglio in ciò
regolarmi con quello , che piu } frequentemente suole accadere,il quale
appunto è; rispetto all'uomo incirca al 60.anno; & alla donna intorno al
40. talmente che nello spazio di 20. anni, confifterebbe detta fecondità
di più o nell'uomo che nella donna.Ciò ftabilito, ogni qual volta nou
trapali in detrá - proporzione il triplo l'età dell'uomo sempre farà in
uguaglianza g rispetto al sempo di poter generare; purche non C 3
VCI yenga variata da qualche indisposizione morbofa. Sem. Sicche
dunque un uomo di 40. anni farebbe- nell'uguaglianza, prendendo una giovane,
che ne avesse venti? Med. Così è: uscirebbe bensì da calc proporzione, se
la prendesse di 14.anni; poiche trovandoli la donna nell'età di anni
34.avendone il marito 60. sarebbe già divenuto sterile sei anni prime di
effa. Sem. E se la donna fi accalaffe in età maggiore di quella del
marito , che ne potrebbe seguire da ciò? Pub. Le riuscirebbe certamente
pii facile di fare à suo modo; imperciocche non prendendosi quella soggezione
del marito , che suole apportare di più l'anzianità, disporrebbe, tụtto à fuo
piacere; ed Iddio guardi,che la diffcrenza degli anni foffe tale, che il marito
le potess’essere figliuolo, allorsi, che lo vor. rebbe tenere, e regolare da
subordinato in tutto à se medesima : e poi è da riflet. tersi, che
difficilmente inducendoli ladonna, se nő è molto stimolata dal senso, à
congiungersi in macrimonio con ginvani di tanta disparità; onde in questo caso
soffrirebbe il povero marito per molti capi penc considerabili: solamente
la gelosia, che ne potrebbe ella avere gli i recherebbe tormento grando; olere
di chc, comc vuole Leonide, sarebbe senza prole, e senza moglie,
posciacche egli dice: Conjuge nec frueris, nec frueris
fobole . Sem. Io , che non voglio tanti guai, la bramo più giovane di mie; mà
diremi, Dottore, qual'è l'età competente della donna,per cffer moglic?
Med.La giovane può prendere marito allor'appunto, ch'è atca à concepire , effédo
divenuta già dóna;c può succedere questo alle volte nell'età di 12. anni,
altresì di 13., 0.14.3 e più tardi ancora ; onde in detço tempo porrebbe
divenire sposa. Mes. Sarebbero però quelle di 12., 0 13.anni spose
immature; e non só quanto potessero riuscire buone mogli; poi
che [ocr errors][ocr errors] C 4 che lasciando la conliderazione di
do. versi queste scegliere uno stato nel quale conviene perseverare fino alla
morreu, cd in conseguenza averebbero bisogno di più maturo senno per fare detto
passo: e senza riflettere a tanti disaggi, che ponno incontrare nei primi
parri; doinando, come si sapranno bene regolare col marito, e nell'educare i
figliuoli? Med. Hò considerato anch'io queste difficoltà; mà dall'altro
canto è da riAettersi ancora, che prendendoli così giovanette ; si possono ind
rizare, come li vuole; ed abbiano l'esempio nelle piante, le quali allorche
sono tenere, con facilità grande le poisiamo piegare a nostro compiacimento ;
mà non già questo accade allorche sono indurate VIRGILIO (si veda) parlando di
domar la gioventù, dice, che nell'età più tenera con più facilità
succeda. viamque infifte domandi, Dum faciles animi juvenum, dum mobilis
ætas. Mec. Io mi maraviglio, che. voi co [ocr errors] me [ocr
errors] me Medico non vi opponiate 'a maritag: gi di età si tenera, potendo
meglio di chi non è vecfato in medicina conoscere il danno, che possa apportare
alle cenere giovani similc mutazione di stato Med. Non vi maravigliare di
questo, perche noi circgoliamo nel modo di vivcre colle consuetudini de?
paefi', insegnandoci il nostro Ippocrate, che: dandum fit aliquid regioni,
& confuetudini; e non per questo, che qualche.caso liano seguito funesto,
debbong esse variure, essendoche cziandio consimili cali fe, guono nelle più
adulce, pericolando queste ancora ne parti. Mec: Lasciamo le consuetudini
dan parte, e dicemi di grazia, se inariterelte una vostra figliuola in età si
tenera? Med. Ci penserei alquanto, & anderei procrastinando il
trattato, fin tanto che li assodasse un poco più negli anni; c tanto
maggiormente, se non fosse ben complessa; poiche non vorrei, che nel cominciare
si prestamente à far figliuo. li, quello, che dovesse andare in suo [ocr
errors] crc [ocr errors] crescimento, G.deviasle altrove..' Sem. Si
differiranno facilmente quefti maritaggi, per non ispropriarsi della dote, e
voi alori Medici, che fiete renuti alquanto interessati, forse per ciò
differirete di effettuarli. Med. Non fiamo però sì ftolidi, che non
riflettiamo, che la dilazione non paga debito, e che questo fodisfacendosi
fpedicamente ci libera da cravagli di doverlo pagare. Sem. Qual'età voi
realmente credere più propria da prendersi marito? Med. Se la giovane
goderà prospera falute, mi persuado , che intorno al vigelimo anno lia la più
convenevole ; le poi foffe gracile, si potrebbe anche in. dugiare qualche anno
di più, per meglio ftabilirsi; purche non paffalse il vigefimo quinto;
ftantccche facendoli talri. soluzione di accasarsi, per godere prole
sufficiente alla conservazione della fami. glia , ciè d'uopo di figliuolanza,
che fopraviva, e ci fiano ancora de'maschi , e ciò nello spazio di 20. anni di
fecons [ocr errors][ocr errors][ocr errors] dità si può commodamente ottenere.
Semi Talmente che, chi bramasse di avere più numerola figliuolanza,gli
coverrebbe prendere una giovane di 15. anni? Med. Per istabilire bene la
sua casa, non fi dee solamente procurare il nuinero defigliuoli, mà ancora la
robustezza, e vitalità de'medefini; e questi,co. me vuole Aristocile nella sua
politica, nascendo da padri giovanetri, sono di poco vigors, almeno i
primogeniti, i quali fogliono per lo più accafarsi. Quindi è, che TACITO (si
veda), ove parle de'costumi de'Germani, dice; che tras essi le vergini fi
maricavano già adulte, cche perciò passasse ne'figliuoli la robustezza dei
genitori. Sem. E l'età dell'uomo più congrua di accasarsi, quale sarà
? Med. Quella appunto, che si contiene erà lo spazio di 25., 30 anni; quando
ciò da altro impedimento non venga ritardato. Mes, Lo credo anch'io, che
da molte cagioni potrà essere ritardato: im. percioche, se averà egli
impieghi,i quali richiedono applicazione grande, e non si troverà
sufficientemente proveduto di beni di fortuna, per sostentare la famiglia; fe
non goderà salute competente; se in casa averà molte sorelle, e madre in
particolare, che fosse donna risentita, in questi casi doverà indugiare a
farlo, fin tanto almeno, che si troverà in istato più opportuno, non essendo
convenevole porli sotto ad un giogo di questa forta con simili impedimenti
svantaggiosi alla quiere conjugale. Semi Vorrei sapere, quali danni
risulterebbono, s’io tardasli a prender moglie fino alli anni 35. Mec. Se
voi tarderete tanto, temo, * che non la prenderete più, e per ducor motivi:
primièramente perche trà tana to facilmente' vi potreste deyiare, cd
abbattendovi in qualche donna scaltrita, saprà ben'ella distorvi da tal penfie
ro con le sue arti; e guai a voi, le fi af fomigliaffe questa a quella donna
impu dica,descritta da Salomone al 7. dc' suoi Proverbj, la quale ;
ornatu meretricio prçparata ad capiendas animas; e con quali artificj !
victimas pro faluse vovi, hodiè reddidi vota mea ; idcirco egreffas fum in
occursum tuum, defiderans te vin dere , e reperi ; intexui funibus lectulum
meum , ftravi tapetibus pietis ex Ægypto, aspersi cubile meum mirra, a aloe br.
E poi trovandovi in quell'età, farà facile, che comincierete a rifertere sù
l'incertezza di poter'invecchiare, e facilmente direte ; come anderebbe allora
la niiafamiglia séza’l mio stradaméto;qual pensiero , se non vi distogliesse
affitto, vi renderebbe almeno irrisoluto nell'effettuarlo; onde farc à mio
modo, risolvetevi, e non procrastinate di vantaggio: perche altrimenti vi
seguirà cioco ch'è accaduto à me medeliino, che mi fono invecchiato senza
successione. E sapere, che diranno di voi le donne, elsendovi avanzato negli
anni? Questi è vecchio, che ne vagliamo fare? E perciò converrà allora,
volendola prendere, accommodarvi a chi troverete, con le condizioni che da
ella vi saranno date; dove che adesso farà a vostro modo quella , che vorrete
prendere. Sem. Questo certamente sarebbe svantaggio grande per me; laonde
non bisognerà perderci teinpo. Pub. E tanto più sollecitamente vi
risolverete,sentendo li pregiudizj grandi, ricevuti da cui tarda moltó a pren.
dere moglie,i quali sono anche maggioridi quelli, che possono accadere à chi lo
fà prima del tempo. Sem. Quali sono, Dottore, questi Matrimonj fatti
prima, ò più tardi del dovuto tempo? Med. Li preventivi sono; se un
giovanetto fi accasaffe in età di 15.9 16. anni; e li tardivison quelli, che si
fanno, allorche tal’uno è divenuto già veça chio, Sem. Quali danni
apporterebbe ad un giovane lo accafarli di 15. anni? Med. Questi
accompagnandosi con, una giovanetta coetanea , non saprebbe [ocr errors]
regolare le sue operazioni; c s'egli in quello primo fervore fregolato
pregiudicaffe allo proprio individuo, quanti svansaggi ne riporterebbe? E
qual'indi. rizzi sarebbe capace di dare a suoi figliuoli, avendo egli bisogno
di chi lo dirigeffe? E stando tuttavia in crescimeto, defraudandofi questo per
il diyiamento della miglior parte del suo sanguc iinpiegata nella troppo
sollecitas generazione, come potrebbe convertirli in suo beneficio ? Oltre di
che noll possono fperarsi frutti perferti da simili piante, le quali non sono
arrivate an. cora alla loro perfezione, Pub. Aristotile nel 7. della sua
Politica fà sopra di questo un'ottima riflerfione ; cioè, che fimili figliuoli,
che pajono quasi coetanei a Padri, poco rispetto portano loro, querclandofi
sovente sopra il governo della casa contro di efli. Med. Ci sono però
alcuni cafi, che debbonsi eccettuare dall'accénata regola , e tra questi sono
quelli unichi , cd [ocr errors] ed antichi rampolli di qualche
illustre, e ricca famiglia, che per non vederlas estinta , fi procura in età
tenera di accafarli. Siccome ancora, se si vedesse un giovanetto ben complesso,
che comincialle a deviarhi, non avendo chi lo tenesse a freno;onde per non
vederlo precipitare , converrebbe accasarlo , senza indugiare di vantaggio ; ed
in questi casi li doverà prendere un'altra inisura , competendo loro piu tosto
una saggias giovane, che avesse qualche anno di più di loro, affinch'essa
regolaffe alcune operazioni concernenti alla salute , potendo la moglie saggia
molto adoperarfi in fimili affari. Sem. I poveri vecchi allorche foffero
robufti, perche non potrebbero divenire fposi anch'elli? Med. Perche,
conforme dice Euripide. Sed, aut feneétus Veneri valere jubet; Aut Venus
senibus molefta eft. Onde per tal
cagione si accelerarebbero la inorte, çssendo anche potenti, e ritrovandosi
inabili a questo, si contristerebbero per molte cagioni:primiera- mente
per essersi accinti ad un'impresa, nella quale non riescono abili
perlochę verrebbero anche derisi,e beffeggiati da giovani, e per
non vedersi corrisposti dalle loro conforti con quelle maniere
cortofi, ch'elli vorrebbero, e final mente per essere privi della
bramatas. prole, come descrive VIRGILIO (si veda): Nec dulces natos,
Veneris nec prçmian noris. E vi parc,che questi poffano vivere
con- tenti? Con ragione dunque Blepirone appresso Aristota ne
diceva: -Heu, mihi infeliciis qui senex. cxiftens duxi
uxorem. E Menandro esprimendo le fvcnturc de?. vecchi amanti, così
fayella: Nurde miferius poteft daramante Seine, Hifi
alius fenex amans; Nam , qui frui cupis rebus , à quibus
Propten tempus, quomedò ille non mi Jerefte), 06.01.10
D Mere [ocr errors][ocr errors] arasiit Mec. Ia questo
li credo infelici anch? io, leggendo in Catullo: Er fenis amplexus culta
puella fugit. Ed in Arenco ciocche disse Teognide, ch'è appunto. Sero
Viro juvenis uxor magna calamiras. Cymba fine anchora, effractisq;
Tudensibus. Pub. Udite ciocche dice Plauto di questi: Tum capire cano
amas fenex nequif fime? Si unquàm vidiftis pictum amantem, bem
illic eft. Ed OVIDIO (si veda), ch'era informatiffimo de' genj delle donne di
quei tempi, così ebbe a dire: Que bello eft habilis , Veneri quoque
convenir , stas ; Turpe fenex miles, turpe fenilis amor. Quos petiere
Duces annos in milise aforit Hos petir in focio bella puella viro.
Laonde, qnando a vecchi venitfe in fantasia di preader moglie, a
configlino con 2 con ORAZIO (si veda), il qualc dice:
Intermiff - Venus diu Rursùs bella moves:parce precor precor, : Non fum qualis
eram. Sem. Riceveranno questi certamente, prendendo moglie , svantaggi
affaimag. giori di quelli, che incontrano i giovanerti? Med. Senza fallo;
posciacche questi, crescendo loro con gli anni il senno, u la robustezza, vanno
incontro al tempo migliore ; dove quelli sempre più u precipitano nel più
miserabile: or re dere voi, Sempronio, che danni apporta il diffrire
tanto lo accasamento Mec. Ho conosciuto però un vecchio, il qual, essendo
caduto nelle reti di Venere, piangeva dirottamente la sua sventura; e volendolo
io confolare, persuadendomi, che li lagnasse dell'errore commesso; cgli mi
rispose : oh che fallo hò commiffo io a non prendere moglic, quando era
giovane! poiche fe valoroü so mi son portato nell'età inaridica della un
vecchiezza , quanto più farei stato nel , [ocr errors] 2 la verde
giovenile? Gli replicai però: guai à voi, se in quel tempo foste stato così
dedico à fimilc piacere; posciacche vi averebbe farro inyecchiare prima del
ecinpo; dicendoli dell’ainor lafcivo. Ef juvenis juvenes, qui facit ille
fenes. E per meglio illuminarlo gli apportai l'iscrizione sepolcrale di
Menelao, ch'è questas Inter opus medium lafcivå mørte for lutus; Hic
fitus eft , dom init jam Menelaus bumum; Qui blande. Veneri visa
facraverat Haud aliter vitam ponere juffus eraf. Sem. Or ditemi: questa
uguaglianza come dec essere nelle altre cose? Pub. L'esamineremo in
appresso. [ocr errors] [ocr errors][merged small] CONFERENZA
[merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dove si mostra,in che cose sia
esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj; quali svantaggi nascano dalle
disuguaglianze in queste. Sempronio; Publio , Mecenate's Medico. M
[ocr errors] Sem. I persuado, Publio, che non essendo seguite trà voi,
clas voftra conforte, al. tercazioni,e discors die, averece goduta la
sorte di una perfectisfima uguaglianza in tutte le cose. Pub. In tutte è
impossibile poterlos ottenere ; bafta solamente , che difuguaglianza non sia
nelle più esenziali, nelle quali certamente fui fortunato,ef. fendo di
verificato in me il Proverbio di Salomone: Qui inuenit mulierem bonam, invenis
bonum : du auriet jucunditatem à Domino Sem. E queste quali sono?
Pub. La prima è il genio buono uniforme in ambidue: e questo non potrete
credere, quanto mai trà noi foffe reciproco; poicche, quanto io volea,senza
repugnanza alcuna cra grato anche ad effa ; ed in quello poteva immaginarini,
che fosse stato di sua sodisfazione, ci concorreva anche la mia, à segno, che
delle nostre volontà, sen'era formata una sola ; onde di noi con ragione si
poteva dire, ciò ch'è registrato nell'Ecclesiastico al 25.,ch'è grato à Dio, ed
à gli uomini: Vir, & mulier benè fibi confentientes . Sem.
Sicche dunque se vi potevate immaginare, che avesse deliderato un, bell'abito,
ò una nobile Stufiglia allas inoda, voi l'avereste compiaciuta
prontamente Pub. Non desideravano le mogli queAte cose in quei tempi,
ne'quali non costu. [ocr errors] costumavano; bramavano bensì di
avej re provisioni abbondanti di lini, cana pc, e cottoni per farne
lavorare copio se biancherie ; di vedere fatte le provi. i sioni à tempo
debito , di quanto bisogna per servizio di casa cutto l'anno; di avere otrimi
maestri per istruire bene i figliuoli; e servitù fedele, e benc
accoltumata. Sem. O tempi felici: non poteva io essere nato allora! Pub.
Ed io vorrei trovarmi giovane in questi coll'uso di ragionc, cd esperienza, che
godo: Sem. E la seconda quale sarà? Pub. Che questo genio uniforme
fi ftabilisca sopra le virtù cristiane, e morali in primo luogo; c di poi in
tutto le altre cose utili per lo stabilimento della casa,cd in queste è stata
veramente seinpre singolare; imperciocche vedendo, che bramavo di sodisfare
all'. obbligo, che corre ad ogni benestante, di sovvenire i poveri, essa ancora
facea le sue parti con mia somma consolazio D4 ne; ne; e nel
rimanente vedendomi artento agli affari domestici, s'ingegnava per quanto
poteva, di sollevarmi in molte cose; talmentecche hò sperimentato in me ciò,
che diffe. Appollonide: Certè inter homines Non aurum , non regnum, non
divitia. .. rum luxus Voluptates tam eximias prebent, Quam buni marici, &
uxoris pia Volunt as jufta, & legitimè affecta. Sem. Lo credo
anch'io[facendo voi cosi]che potevare godere una perpetua felicità. Pub.
E voi ancora la potrete godere, se farete il medesimo. Sem. I tempi
calamitofi , ne'quali siamo , non lo permettono. Pub. Se dipenderà da
tempi, converrà avere pazienza ; perche farà irremcdiabile; mà se dipédeffe poi
da voi,senza fallo potrete porvi rimedio: or'vediamo,da chi dipenda. I tépi
calamitofi dāneggiano co carestie, pestilézcguerre, terremuoti,c tempeste ; c
queste non effens 20 [ocr errors] effendoci ora crà noi, come
possono corbare il regolamento della propria casa? Onde vedere, che dipende da
noi', non da tempi ; dunque à torto vi lagnate de'tempi ; essendo voi , non
cfli l'origine della vostra infelicità; e se poressero questi parlare ,
direbbero in loro dif colpa: voi ci calunniare à torto, per ricoprire i vostri
mancamenti; perche vi piace tale modo di vivere, e vi dilet. ta,
quanrunque ne moftriate un'appa. rente rammarico. Sem. Si pratica oggidi
fare diversa. mcate d' allora i conviene accomodarli ai più: bisogna averci
pazienza. Puh. Questo è un pretesto peggiore i dell'antecedente; perche
voi conoscere, che fate male; ed avere la cognizione, che non facendolo
fareste felice; porche dunquc lo fate , dipendendo da voi il farlo, ò non
farlo? Ohcecità ! volere piuttosto effere imitatore di chi voi conofcete; che
faccia male, che di quellig che operano bene; e poi, se voi dite che ci vuole
pazićza,perche vi lagnate? Som. [ocr errors][ocr errors] Sem.
Operavano allora cutti in questa forma? Pub. Io non andava cercando, se
vi era caluno , il quale diversamçare operaffe ; perche volendo prendere
l'esempio da chi lo faceva ; questi solamente rimiravo, per imitarlo.
Mec. Sempronio mio, non vi avanzate più oltre in questo, perche Publio. vi
convincerà di vantaggio; e vi farà anche conoscere, che i vecchi non sono
storditi, conforme alcuni credono; efsendo che al parere di Plutarco;la mente
in vecchiaja ringiovenisce. Sem. Vi è altro trà le cose neceffarie. da
fervarli uguaglianza? Pub. Nella ftatura ancora ci vuoly, se non totale
uguaglianza, almeno proporzione ; posciacche, se sarà la spora pigmea, ed il
marito gigante , se ne avyodrà ella ne'parti, ed in alere segrete occasioni
ancora ; laonde à questo proposito parla OVIDIO (si veda): Quam male inæquales
veniunt ad aran tra juvenci,Tam premitur magno conjuge nuptas minor. :
Sem. Sarebbe dunque bene prendernc prima le misure di ambidue per formarne una
giusta pariglia. Pub. Non è ciò necessario, nè conve. niente ; perche
coll'occhio ancora fi può discernere la notabile disuguaglia, za. Debbo ancora
avertirvi , che li rim cerca la proporzione de'beni di fortuna; ? perche
se vi apparentaste con gence mi lerabile, alla vostra casa coccherebbe il
mantenerla: altrimenti non vi sarà pace con vostra moglic; perche la vora rà
soccorrere di nalcolto, sc non potrà farlo palesemente. Sem. E la Nobiltà
dee entrare ancora essa trà le cose necessarie da ugu2 gliarli? Pub.
Questa uguaglianza non è ftia mata essenziale, secondo il sentimcnto i di
Platone, registrato nel tive del suo Regno; ovcper teffere la tela della
buo. na discendenza , cgli procura di moa strare, non ricercarli cosa più
effenzia, le [ocr errors][ocr errors][ocr errors] ke ne'maritaggi,
che d’innestare le virtù ; per esempio, al temperamento forte unire il
moderato : onde potendo questa unione formarsi con inferiori di condizione
ancora ; non si ricercheranno nè ricchezze, nè poffanza, nè altre credute dal
mondo vantaggiofe condizioni, per tesserla a suo dovere; come appunto lo fà
contesfare à Socrates; perche egli considera talc affare in ordine al bene
univerfale, non particolare di ciascuno ; persuadendosi, che congiungendoli in
tale forma, fi potesfc porre il mondo in migliore consonanza. Ed in conferma di
questo, cade in acconcio la bella concione , fatta dawa Camulejo Tribuno della
plebe l'anno 310. ab Urbe condita, la quale viene riferita da LIVIO (si veda);
e dimostra questa con vive ragioni tutti quei vantaggi, che possono apportare i
maritaggi scambie. voli trà nobili, c plebei alla Republica. Io però mi
persuado , che più decoroso fia, secondo l'apparenza del Mondo, fceglierla non
plebca. Mec. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. Voi dice benc , Publio ; malo colla nobiltà fosse
unito il mal costume scegliere te forte piuttosto una Meffalina, che una
ben'educara, c prudente plebea per vostra consorte? Pub. Questo poi nò ;
perche in tale caso mi perfuado minor caccia, porerne ricevere, sposando una
plebea , la quale col suo buon costume,.c fenno, in brieve tempo fi farebbe
conoscere non dissomigliante à quelle nate nobili; doveche la nobile
mal’educata, e viziola, degenerarebbe in plebea fenza fallo. Mer. Vedete
dunque, che la sola nobiltà non dee attendersi, mentre voi medesimo la
posponere al buon coftu. Sem. Vi sono esempj di nobili savj, che abbiano
sposate giovani ignobili? Pub, Molcillimi. Vifu Teodofio lin. peratore ,
il quale antepose la figliuola di un povero Filofofo à cutte le più nobili,
riconoscendola meritevole di tale grandezza , per la fua buona educazioac. Ed
Abramo che desiderò, volen do [ocr errors] 1 70
me. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] do prendere moglie? Uditelo das.
Ambrogio: Difce quid in uxore queratur : "Non aurum , non argentam
quafivis Abraham, non poffiones , fedt gratiam bons indolis : lib.i. de Abr. Sem.
Nella bellezza, ò deformità fi dovrà cercare proporzione? Pub. Qualche
forta sarà bene di procurarla ; perche , fe diforme sarà il inarito , c bella
la moglie, dirà ogni rivale, ammirato di questo; con Virgilio : Mopfo Nisa
datur, quid non fperemus amantes! ! Oltre di che in un continuo tormento
di gelosia fi ponc, chi la prende éon fimile disuguaglianza; e tanto
maggiormente , dicendo Giovenale : Rara eft concordia forma, Atque
pudicitia. 21 che viene anche confermato dal Petrarca in tal guifa : Due
gran nemiche erano insieme ago gionte: Bellezza, ed'oneftade Oltre di che
poi [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Fastus ineft pulcbris, fequitur
superbiaus formam. Sem. Nelle ricchezze fi dee cercare od
uguaglianza? Pub: Quella appunto , che fu detta i dell'ecà, cioè, che sempre
fiano ad una certa proporzione inferiori quelle della cala, con cui
volete apparentarvi, perche, come disse ben Marziale: Inferior Matrona
fuo fit, Prifce marito, 4 Non aliter fiunt femina,virque pares. Sem. Sc
uno volcffe prendere moglic in lontani paesi, e di diversi linguaggi,
indurrebbe questo disuguaglianza alcuna? Pub. Forse che si, quando non
s'incontrasse donna di gran fenno; perche il costume, e modo di vivere
differenti, prima, che si accomodino a quelli, che troveranno , possono fare
nafcere molti diffapori ; se pure potranno mai uniformarli; come ne dubitano
Emilio Probo: Non cadem omnibus funt honefta atque turpia, fed omnia majorum
inftitusis, judicant ; nemaque nibil rectum puosat, nifi quod patriæ moribus
convenit. Ed Ovidio così canto: Nefcio que nasale folum dulcedine cun
stos Ducit, immemores non finit effe fui. Beo'è vero però, che in quei luoghi,
fe Veducazione delle giovani fosse mi gliore di quella del vostro paese,
forse che potrebbe questa accrescere vantaggio a voi. Sem. Se il marito
farà dotto, indur. rà disuguagliáza l'effere la moglie ignorante Pub.
Anzi più tolo disuguaglianzas apporterebbc , fe fosse dotta, ed erudi-$perche
come vuole Giovenale; Non habeat matrona, tibi qua junctae recumbit Dicendi
genus, aut curtum fermones rotatum. Torqueat enthimema, nec
biftorias soins ? omnes, Sed quædam ex libris, non intelli. Ed udite, come dice l'Ecclesiastico di
ques [merged small][ocr errors] queste al 28. Lingua tertia mulieres vin
ratas ejecit, o privavit illas laboribus fuis; Qui respicit illam non babebis
rea quiem, nec habebit amicum in quo requieJoar. Mec: Posso a questo
proposito riferire ciò, che è accaduto a tempi noftri. Vi tù un dotto
Jurisconsulto, che aveva una sua figliuola, e volle addottrinarla nelle materie
legali,cd avendo acquistato detta giovane molta perizia in esso le
convennc,morto il padre, prédere, inarito, e si trova la povera giovane
talniente confusa nelle faccende domestiche, che si pentiva grādemente di avere
applicato allo studio, dicendo: che mi serve ora di sapere le leggi, non avendo
įmparato quello, che mi conviene fapele per governare la casa? Sem. Già fu
parlato della uguaglian. za, o proporzione , ch'essere dee tra l'uomo , e la
donna intorno all'età; ina se portasse la necessità , che un attempato unico
della sua famiglia dovesse prédere moglic, pornon lasciarla cftinguc:
E [ocr errors] re re, ditemi, Dottore, quale sarà l'età, se non
proporzionata , almeno più fe. conda della donna, con cui dovesse con.
giungersi Med. Quella, nella quale più facilmente li concepisce, ch'è tra
i venti, e li venticinque anni. Sem. Orsù Mecenate risolviamoci ambidue a
prendere moglie, potendo ogn' uno di noi provedersela della medesima ctà, e non
permettere , che la vostra famiglia si illustre fi cftingua in voi. Mec.
Crede essermi già bastantemente spiegato nella prima conferenza, ma voi non
avete capito le mic raggioni, tornando la seconda volta a configliarmi 'l
medesimo, con mostrare premura maggiore per la mia descendenza, che per me;
onde vi torno a dire, che nella mia età non è più convencvole lo aceafarli;
dicendo Euripide: Verùm fonecta jubet valere Cypridem, Et ipfa rursus
senibus infensa est venus. Quindi è, che Sofocle interrogato allorch'era già
vecchio s'egli esercitava [ocr errors] a più gli atti venerei: Iddio me
ne guardi diffe, che io mi sono guardato un pezzo fa da coresti, come da
una impetuofa, e violenta tirannide, Valerio Mallimo lo riferisce. Sem.
Io ne domando scusa, dichiza randomi non averlo detto a questo fine, Delidero
ora faperc i pregiudizj; EI che apportano ne' matrimonj le disus guaglianze; ed
in primo luogo; fe faranno di genio differenti tra loro. Pub. Dice
Salomone: Melius eft habitars in terra deferia, quam cum mulieu rerixoja,
litigiofa; onde vi potrete i figurare di vedere la casa piena di con
fufione, ove regnano genj differenti; pofciache ciocche vorrà il marito,
ve nendo ad essere disapprovato dalla moglie, onon fi effettuerà, o per
la meno I in qualche parte verrà variato, e que Ito medelimo darà
occafionc à discordie perpetue tra effi , fe il marito non averà la prudenza di
Giove, cui Giunone si opponeva sempre come vuoo le Omero, Dum
moliuntur,dum comitur annus est. Sem. Ed il rimedio per questo, quaEin le
farebbe? Pub. Lo diremo a suo tempo. Sem. Ho conosciuto marici alti
due palmi più delle mogli, e il doppio più i grossi, ne da questa
disuguaglianza ho veduto seguirne inale alcuno. Med. Ed io ; che fon più
vecchio di voi, ho medicato più d'una di questo nel tempo, che stavano per
partorire, ridotte a termine di morte, per non poter dare alla luce i loro
figliuoli, se non dopo alcuni giorni , e coll'ajuto del Chirurgo, e di
queste, alcune sono pei rite. Succederà a quelle di avere parto felice
che nella gravidanza avendo fi avuta inappetenza grande, il feto si sarà
poco nudrito; e perciò rimanendo picciolo, questi non averà ftentato ran
to nel uscir fuori; o pure la cassa del o corpo della madre, con quanto è
neces sario, per rendere meno difficile il parto , sarà stato in queste
proporzionato al bisogno. Ma preventivamente alcu [ocr errors] ne di
queste cose non costumandoli ri. conoscere tra noi , conforme appresso alcuni
popoli li faceva, e perciò, per esimerki da tal pericolo, conviene riAeterle
prima del maritaggio, toccan. do questo a'padri di famiglia. sem. Sc un
bel giovane prendeffe per moglie una donna deformc , che male potrebbe ciò
apportare? Pub. Niuno, quando però foffe egli fodisfatto, e la donna
fosse prudente, e non l'avesse presa per cagione di grofsa dote; perche si farà
quest'invaghito delle sue rare qualità, ed averà egli facilmente appreso da
Salomone ne' suoi Proverbj, che: Fallax gratia, e vana eft pulcritudo: mulier
timens dominum ipfa laudabitur. Sem. E se il motivo di prenderla foffe
Itata la dote Mec. Seguendo per lo più simili deliderij in giovani, i
quali penuriano di beni di fortuna, la pace tra essi dyrerebbe lintanto, che la
dote foffe in picdi: mà appena consumata questa, allo. ra 1
[ocr errors] racomincierebbero reciproche doglian. ef ze; quelle del marito
sarebbero, diri. trovarsi vicina la moglie deforme, e della donna di non
vedere più la sua dote, Caduceo di pace tra di loro. Sem. Dandosi però
vincolata , ciò non potrebbe seguire. Mec-Non si può ottenere questo in
limili disuguaglianze ; perche vogliono tali sposi libero il danaro, per
vincolarsi cili colla deformità della moglie, finche dura la doce. Sem.
Non so capire perche s'abbiad d'apparcntare con casc men facoliose ; perche
questo apporterà. svantaggio nella dote. Pub. Ma però quiere maggiore, ove
entrerà limile sposa; perche quella giovane, la qual’esce da una casa, ove con
gran laurezza viveva, difficilmente potrà acomodarli alla vostra, ove 1101 i
potrete con quel fasto trattarla; onde da ciò ne nasceranno amarezze
continuc; o pure (arece forzato, volendola consolare, ad impoverirvi
prestamente. E4 Sen. of [ocr errors] Sem. Il prendere
una moglie nata in paesi lontani potrebbe forse recare gran vantaggio ; perche
non avendo parenti vicini, sarebbe più ossequiosa al marito, nè lo
disgusterebbe, e ciò farebbe felicità grande. Pub. E voi credete, che 'l
Padre fia sì sciocco, che non penserà ancora di raccomandarla à chi lia
d'autorità , acciocchè le assista in caso di bisogno? c quando avesse cgli
difetrato in questo, credere voi, che chi parte dal suo pae. sc, sia così
insensata di non sapere col suo ingegno trovare chi la protegga in un suo
urgente bisogno? Qual patrocinio cal volta sarà molto più autorevole; ed
efficace di quello, potesse ricevere da suoi congiunti: non v'invaghite di
straniere, se non in caso, che mancare sero donne del paese, ove voi
dimorate. Mec. Sono andato più volte rifectendo, che non sarebbe forse
svantaggio lo sceglierla , non dico da paesi remoti, ma da città convicine, e
mi ha mosso que in questo pensiero Giovenale, con dire Malo
Venofinam , quam te Cornelia [ocr errors][merged small] Grascorum , fi
cum magnis virtutibus be affers Grande supercilium, & numeras in dos
be te sriumphos ; id Perche queste riescono più docili, eve nendo
in città più nobile, gradisco no ?: quanto si fa loro, più delle proprie cita
tadine, e fogliono ancora eslerc meno dedite al luflo, Pub. Vi sono le
sue difficultà in queste i . ancora . Imperciocche Carone, con e tutto
che fosse uomo sì faggio, quanti di guai ebbe con la sua moglie Acrorias I
Paola, quantunquc povera, e nata in ¿ un villaggio ? fu questa superba, vio2 lenta
, e debole di mente. Laonde a tal propofito S. Girolamo lib. 1. in
Joviniznum diffe; Nequis putet si pauperem dy xerit fatis fe concordie
providili &c. E bij maggiormēte ora che il lusso ha polto il piede da
per tutto; ne crediare che vorranno vestirc con minore pompa delle E
2 Fu [ocr errors] Junonem autem non adeo accuso, neque irafcor,
Semper enim mihi consueta eft impedire quidquid intelligo, Sem. Ma quale
rimedio ci sarebbe in questo caso per fuggire le discordie? Pub.
Conoscendo' voi il costume di vostra moglie, che sia di contradirvi, come
espresse Terenzio, Novi ingenium mulierum Nolunt ubi velis, ubi
nolis Cupiunt ultro. In questo caso ordinate tutto l'opposto di ciò, che
bramare, per esser ubbidito. Sem. E se avesse poco fervore nellas pictà, e
trascurassc alquanto gli affari domestici, scorgendo quancunque suo marito
attcntiffimo a tutto? Pub. Sarebbe segno, che avesse altre cole, credute
da essa di premuras maggiore di queste , che le andasse. ro per la mente;
perche non si trascurano affari si rilevanti, se non da quel. le, di cui disse
Terenzio; ciccadine, se non s'incontrerà in savie, c prudenti. Sem. Mi
piacerebbe di avere una moglie, la quale mi sollevasse con qualche storietta ;
perche dunque il fatirico dice: Nec historias feiat omnes? Pub. Perche,
con sapere le donne molte storie, essendo cosa facile il poterG abusare di
qualcuna di esse, niun vantaggio vi apporterebbe; e sappiate che ci sono libri
molto lascivi, i quali non comple in conto alcuno, che da esse si leggano,
confessando tal verità Ovidio medesimo quantunque fosse impudico, con dire:
Eloquar invitus, teneros no tange poetas, Summoveo dores impius ipfe meas.
Callimacum fugito non eft inimicus e mori, Er cum Callimaco tu quoque Coe
noces . Carmina quis potuit tutò legifeTibulli ? Veltua, cujus Opus , Cintia
fola fuit ? Quis potuit lecto durus difcedere Gallo? Er mea, nefcio quid,
carmina tale fo E [ocr errors] [ocr errors] E poi due cose non si
possono fare: die vertirsi nel leggere, e reggere la casas; e dovendo a
voi premere la secondands ( conviene ch'essa abbandoni la prima ; ¢
sappiate, che Giovenale dice a questo proposito Quis ferat uxorem,cui conftent
omania? Mer. Plutarco però dice, che sarebbe di profitto al marito
d'istruire la moglie nella geometria, ed in alire cores o dottrinali, ed
onoratissime ; perches ď allora si spoglierebbe affatto delle leg.
gierezze, e vanirà de pensieri, e si aAterrebbe dal danzarc, Pub. Che la
moglie s'istruisca nei buoni documenti morali, e di pietà da mariti è cosa
ucile, e lodevole; maw, che s'impieghi ad apprendere la geomei tria ,
quando fi trovare inadre di più fi: gliuoli, non so come le potesse
riuscire avendoli d'intorno , per lo strepito ch' delli fanno; se poi fi
allontanaffe da elli, ecco che l'educazione loro anderebbe a male.
Sarebbe ciò solamente tollera. bile in una donna itcrile, avendo servis
tà tù sì buona, della quale si potesse ad chiusi occhi fidare, per
divertirsi con tale scienza, c passare la noja che le recherebbe il trovarsi
senza figliuoli; per altro se abbiamo d'aspettare, che las geometria tolga la
yanità donnesca, regnerà questo difetto per sempre nelle donne : e poi la mia
moglie, che nulla sa di geometria, odia la vanità, ed i balli; dunque possono
fuggire detti vizi quelle ancora, che non sono geometre. Sem. Vorrei
sapere distintamente, che cosa fia questo matrimonio; perche dovendomi accasare
bramo di esserne informato, per non operare alla cieca in così rilevante
materia? Mec. L'udirete da me nella venturas conferenza. CON
[merged small][ocr errors][ocr errors] Sopra gli antichi costumi ,
praticati apprello alcuni Popoli per la generazione; e se sia più
vantaggioso lo scoprire scambievolmente i proprj corporali difetti ,
prima di sposarsi, o l'occultarli. Mecenate, Sempronio; Publio e
Medico. i Mec. On mi ftéderò molto nel riferirvilan. tichissima
libertà de? Greci, nè tampoco l'incestuoli modi de' Persiani, praticati
ne gli atti conjugali, per non contaminare le vostre orecchie; mentre i primi a
guisa di bestie moltiplicavano, conoscendo i figliuoli solamen te
te le loro madri, comme scrisse Tzetzes Iftorico Gracorum priùs mulieres
per Greciam, Non quemadmodum nunc, conjungebantur legitimis viris,
Sed inftar jumentorum mifcebantur omnibus volentibus; Erant igitur unius
naturæ tunc filii, Sobas agnofcentes matres, non patres, Ed i secondi non
avevano orrore di esse. re figliuoli, c mariti, come riferisce Catullo,
Nafcatur magus ex Gelli, matrique nefando Conjugio, con discat Persicum
aruspi cium, Nam Magus ex matre, donato gigne tur oportet
i Si vera eft Perfarum impia religio. Sem. Ma il Cielo
lasciava impunici fi effecrandi delitti Mec. Non già; perche, come si
ricaya dal fudecco Tzetze furono mediante il diluvio puniti, dicendo egli in
appreffo.a Poft illud , quod in Ogygis tempore inci. dit
diluvium , Cecrops acceffit ad Aibenas Gracia, Has Ashenas cū
vocaffet ex Soi Ægypti, Cum multis aliis rebus commoda vis Gracia;
Tùm lege conftituit mulieribus nuptias 5 legitimas, 1M Ex quibus filii
cognoverunt duos pa rentes. Anzi per farvi conolcere, che la natura
stessa abborrisce l'incestuosi connubj, vi posso apportare molci csempj de
bruti, tra quali, non solamente il camelo lo ha in orrore, uno de' quali
ammazzò il suo cuftode , che lo ingannò a coprire la madre, appena avvedutofene,
coine riferiscono Aristocile , ed Eliano; ma PLINIO (si veda) ancora racconta,
che nellad campagna di Rieti vna cavalla avvedu tasi di questo,
immediatamente si prei cipitasse, e Varrone fcriffe, che un ca vallo per
la medesima cagione faceffe tale impeto contro il suo armétiero, che
l'uccidcffe:e dell'elefante raccora il me deliof desimo avvenimento
Lirense. Sem. Ma come faceano a riconoscersi i figliuoli da'
Padri,avendoli cosi confufamente generaci; Pub. Appreffo alcuni Popoli,
allorche i figliuoli aveano compito il quinto anno, quei, che più li
assomigliavano a gl’incerti padri, erano tenuti da essi per loro
figliuoli; come racconta Stob. Ser. 42. Sem. Quanto è stato peggiore il
mondo in quei tempi di quello fia oggidi ! Mec. Se voi sapeste il
rimanente, ftu. pirere anche di vantaggio. Sem. Eche, vi sono state altre
scelleratezze ancora? Mac. Contentatevi di non udire altro per ora ; e
lasciate simili notizie , per quando farete più proveito : passiamo aderlo a'
tempi incno infelici. Ristabilito, che fu il matrimonio, s'introduffe da alcuni
popoli il contratto della vendita delle loro figliuole, cioè da' Greci, Traci;
Aliri, Arabi, Indiani, ed al, tri, come da Tiraquello nelle sue leggi
COS [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] conjugali
si racconta, e Sofocle intro- o duce le donne, che cosi favellano fopra
dició: Ubi verò ad pubertatem hilares pervenimus Pellimur foras,
atque divendimur Procul à Diis patriis, a parentibus, Alia quidem
peregrinis, alia barbaris. De' quali parlando Pomponio Mela riferisce, che:
proba , formof&que in pretio erant. Sem. In quei tempi saranno stati
con: ienti i padri, nascendo loro figliuole , e non già mesti, conforme ora
sono, che debbono dotarle, mercecch'essi allora ne ricevevano utile grande;
oltre I di che saranno state anche molto più cu stodire queste mogli a
caro prezzo com prate di quello si faccia ora, ch'effe b con grosse doti
comprano noi; poiche offervo, che se un cavallo ci costa molK to, abbiamo
somma premura di esso. Mec. L'interessati padri può effere, di che lo
faceffero, ma non già i buoni, che le amavano, e perciò riflettevano,
F [ocr errors] ancora, che se non portavano dote le loro figliuole, non
acquistavano, ovc foffero entrate, dominio alcuno. Ele mogli fi ftimano c
rispettano ancor adeffo da giusti, e saggi mariti , per questa modelima cagione;
e poi quelle, che portano grosse doci fanno ben farli portare rispetto anche
da’mariri non favj , dicendo Giovenale : Intolerabiliùs nibil eft, quam
fæmina dives. Dicendo ancora Cleobulo appreffo Stobeo: Si babebis uxorem
ditiorem , aut nobiliorem, dominos habebis , non affines. In oltre si costumava
da altre nazioni ancora comprarsi dalle mogli i mariti; conforme fi ricava da
Virgilio; Teque fibi generū Thethis emas omnibus undis. E Boetio, nel
lib.z. de Commenti alla topica di Cicerone, così parla. Tribus modis uxor
habebatur, usu,farre, & coemptione; fed confarreatio folis Ponsificibas
conveniebat; quæ autem in mamum per coemprionem conveperat , hæc [merged
small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] mater familias
vocabatur &c.; Sem. Si è costumato in alcun tempo, che non fa corsa
tra contracnci dote ale cuna ne’inaricaggi? Mec. Nelle leggi di Solone,
Licurgo, e di Platone fu stabilito questo ; ben è vero però, che la sperienza
has fatto conoscere, che fuccedevano più di rado i matrimonj , per non effervi
il suo fuflidio dotale ; essendocche pochi vi erano', che volessero
soccomettersi al grave pero di essi, senza il follievo della dote; onde
vedendoli dan ciò risultare notabile danno alla Republica, LA PRUDENZA ROMANA ftabilì
con leggi le doti,da consegnarsi alle figliuole , per sostentare non solamente
li peli del matrimonio, ma per allettare maggiormente ancora, mediante effe, gl
uomini a prender moglie, come disse il Satirico, Veniunt à dote sagitsa. Pub.
Erano certamente troppo pregiudiziali fimili leggi, dalle quali lcfcludevano le
dori; c perciò Aristotilo discordò dall'opinione del suo Macftro Platonc
provando ne' suoi Problemi, che fia cosa obbrobriosa prendere moglie indotata;
e che sia anche gran pazzia di colui , che lo facefle , dovendo egli riflettere
al peso, che se gli accresce: onde sopra di ciò interrogato Anafsandro, cgli
'rispose; che sarebbe divenuto servo certamente colui il quale bisognoso
prendeva moglie indotata; perche in vece di se solo, dovea alimentare più
persone. Quindi è, che con somma prudenza fu risoluto nel Concilio Arelatcose;
che non si dovesse fare matrimonio alcuno senza dotc, como riferisce Fontanella.
Sem. E' stato costumato da nazione alcuna il prendere più d'una moglie nel
medesimo tempo? Mec. Anzi tuttavia dagl'infedeli fi pratica ; ben è vero però,
che tra eli le mogli sono trattate , come schiave, tenendosi racchiuse, e guai
a voi, Sempronio, se vi fosse permesso più di unas moglie , allora vedreste in
che travagli maggiori vi porrebbero le donne , che go [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] godono la libertà, ond'è stato fantisfimo il
provedimento, che unica fia la conforte. Sem. E da chi ebbe origine, questo
matrimonio in fimile forma? Pub. Dal grande Iddio; posciacche, crcato
Adamo, formò Eva, e glicla died'egli medesimo per conforte; onde ad iinitazione
di questo gran matrimonio dce ogni fedele contentarsi di una's fola compagna, e
di rispettarla ancora, conforme fece il primo marito, il quza le allorche la
ricevette per sua sposas, così disse : Hoc nunc os ex ossibus meis, caro de
carne mea , hæc vocabitur virago, quoniam de viro fumpta eft : quamobrem
relinquer homo patrem fuum, a matrem, adbarebit uxori suæ, derunt duo in
carne una; e da ciò comprendere, quale ftima li debba fare della propria
moglie. Sem. Ma tornando alle doti, queste da principio in che quantità
furono ftabilire ? Mer, Non fu allora ciò determinaco, ben [merged
small][merged small][ocr errors] F 3 ben è vero però, che in appresso,
essendo divenute ecceffive, furono stabilite in una certa quantità, secondo le
condizioni delle persone; e particolarmçate nei domini, ben regolati. Sem.
E questo viene offervato? Mec. Qualche volta, ma non sempre; fentendosi
assegnate a caluni in fommas più considerabile degl'altri,quantunque fiano
della medesima condizione Pub. Mi piacerebbe lo stabilimento fiffo,
secondo lo fato delle persone, ma da che proviene questa inosservanza?
Mec. Dal lusso accresciuto, il quale effendosi anch'esso posto tra le spese
necessarie per il sostentamento matrimoniale, viene anche considerato per tale
da chi dee accasarsi ; e perciò dice, tanta dote io voglio, per pocer fare
quello, che si costuma dagl'altri. Pub. Qnando io preli moglie, e per
qualche cempo in appreffo , & contentava ogn’uno di ricevere competente
dore; perche questo lusso di oggidi non non vi era. More [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Mec. A tempo ancora, che vivevas Gnco Scipione,
le doti parimente erano molto proporzionate al vivere di allora , ascendendo la
più pingue, quale ebbe Magulia, che fu chiamata las dotata, a cinquecento mila
affi, come riferisce Valerio Maffimo. Sem. Non erano dunque si tenui les
doti ascendendo a tanta somma. Mec. Avvertite Sempronio, che gli affi non
erano già scudi; ma solamente ogo’uno di essi arrivava appena al valore di
quattro de' noftri quattrini di rame; onde turci icinquecento mila afli
formavano la somma di circa quattro milas fcudi de' noftri; e poi le più
frequenti erano di dieci mila asli, come ebbe Tacia figliuola di Cesone , il
quale non era ignobile, e cal somma appena ascendeva a scudi ottanta,
Sem. Ma da che proveniva, che corressero doti si tenui in quei tempi ?
Mec. Non da altro, che dal non efservi lusso, Sem. Ma perche non si pone dal
Principe [ocr errors][merged small] F4 cipe sopra di ciò LA
PRAMMATICA? Pub. Perche aon ci è bisogno in queIto della sua
autorità. Sem. Come non ci è bisogno? Pub. Ditemi, Sempronio, se voi
poteste senza l'autorica del Principe far cosa, che fosse anche di sua
fodisfazione, vi sarebbe bisogno della sua autorità per farla? Sem. Non ci
sarebbe certamente di uopo di essa. Pub. Or ditemi, s'è in voftra libertà,
nel farvi un'abito, spenderci 50. ò pur 100. scudi, ed in una carrozzas 500.Ò
1000. in questo vi astringerà forfc il Principe alla spesa maggiore? Sem.
Certamente, che no; Pub. Perche dunque non lo fate confiftendo in qưesto
la PRAMMATICA? Sem. Perche gl'altri non costumano di farlo. Pub. Or
dunque domandate a questi, che pongano efl'LA PRAMMATICA, non al Principe, il quale non comanda, che fi
ecceda gel lufto, Mec. A questo proposito essendo ftato supplicato TIBERIO (si
veda), a porre moderazione all'eccellivo lusso, che correvad in quel tempo,
egli negò apertamente di farlo, dicendo come riferisce Tacito: Pauperes
neceffitas, divites fatietas, Nos pudor in melius muter; onde da ciò
comprendete , che noi siamo i padroni di prendere quelle misure, che più ci
aggradano nei nostri trattamenti; & udite da TACITO (si veda) medesimo,
come mai lo espresse al vivo nel secondo de' suoi Annali: Cur ergò olim
parfimonia pollebat? Quia sibi quisque moderabatur : non ritrovandoli Gneo
Fabrizio, e Quinto Emilio, che un tondino, ed una saliera di argento, per
servirsene nei sagriticj; per altro tenevano da se lontano ogni luflo, conforme
fecero ancora i Publicoli, i Curj, i Scauri, & altri valoroG uomini, i di
cui pensieri non si aggi. rayano già intorno alle ricchezze, ma bensi agli
onorevoli Consolati alle me. ravigliose Dittature, ed ai Trionfi, per çimagcre
immortali nella pofterità: cos me [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] me riferisce Valerio Malimo : Sem. Hò capito a
bastanza, e conofco, che il mancamento viene da noi. Notificatemi ora, Dottore
, quali sono questi difetti corporali delle donne, i quali voi meglio degli
altri conoscerere: Med. Non posso servirvi in ciò, ele sendo che quanto sò
di occulco, non, debbo palesarlo. Mec. Il Dottore è compatibile in questo,
perche s'entrasse egli in disgrazia delle donne, potrebbe dire di aver finito
di fare il Medico; imperciocche, comincierebbero queste a dire, che tutti di
suoi infermi muojono, e perciò sias sfortunatissimo nel medicare, e di
vantaggio sia un vecchio stordito, che non sappia ove si abbia la testa; e
sapere purc, che queste muovono gl'animi colla loro eloquenza più di Demostene;
onde lo porrebbero in una totale defiftimazione, non facendoli scrupulo alcuno
di far ciò quanrunque fosse di pregiudizin grande a professori, il dicui merito
effe non sanno conoscere, per vedersi [ocr errors] [ocr errors][ocr
errors] da effe anteporfi gl'adulatori a questi. Med. Non è questo il
motivo, che mi ritarda il palesarli, ma bensì, l'avere io qualche segreto di
cal’una, che si trova con qualche imperfezione, onde non vorrei , che mi
credesse manca. core di fede , figurandofi, parlaffi di lei: per altro, non mi
ritarderebbe già di farlo quello, che voi avete accennato; perche, se dicessero
mal di me, diverrei Medico fortunato, essendo che non medicando, non mi
potrebbe morire alcuno, e per questo riposo ancora goderebbe la mia mente
tranquillità maggio [ocr errors][ocr errors] re. Mec. Queste sono
belle rifleffioni, ma però ad ogn'uno piace l'effere adopera to, e questo
senza protezione difficile mente si conseguisce. Med. Piacerebbe a me
ancora quan. do ciò non distruggeffe il mio individuo; e cercherei ancor io
queste pro- tezioni, quando accrescessero dotčrina; ma non potendo le
stelle cramandare i quci benigai inguda, ch'effe non hanno onde
onde per tal cagione mi persuado, che queste ancora non potranno addottrinare.
Voi conoscere il mio naturale ; di grazia non diciamo altro. Sem. Se non
diremo altro, non termineremo la nostra conferenza, ed io rimarrò senza essere
istruito. Mer. Vi consolerò io , ch'essendo già vecchio, niū fastidio mi
prédo delle doglianze feminili, non curandofi esse più trattare meco. Vi
persuaderete forse, Sepronio, che tali difetti personali occulti sieno cose
grandi , essendo, che il Dottore ricusò palesarveli? questi non sono altro, per
quanto mi vado immaginando, che un poco digobba, la quale viene ben uguagliata
da buftini ripieni nella parte mancante . Sono qualche palmo di giunta
ne'calcagni, per potere coparire al par delle altre ; qualche piaghetta,ò
fistola occulta,o ferore di naso, ò di bocca ; ò pure altro impedimento,
mediante il quale si rendono infeconde: Ma non crediate già, che tutte le donge
abbiano fimili imperfezioni, effendo [ocr errors] do solamente alcune
poche queste così imperfette. Pub. E' certamente curioso quel
caso riferito a tal proposito da San Vincenzo Ferrerio nei suoi
fermoni. Aveva un giovane sposato una donna, la quale gli parea di
giusta ftatura, rimase poi cgli quando la vide porsi a letto manca-
ta in un momento per metà. Dubito da principio, che gli fosse stata
cambiata, mà miratala bene in viso, si avvide effe. re la medesima
, onde stimò bene dirle, cosa avesse fatto dell'altra metà della
sua persona ; l'accorta non fece altro, che mostrargli le sue pianelle, ò
trampani per la loro grandezza, che appun- to allora si era cavati, i
quali non erano inferiori all'altezza della base di una colonga. Sem.
Fra tutte l'accennate imperfec zioni, niuna mi darebbe maggior faItidio del
fecore del nalo, ò della bocca; perche io, che sono dilicato, non potrete
credere , che avversione ciò mi recherebbe; onde di questo , prima difpofarla,
voglio ben'accertarmi in vicinanza tale, che possa scoprirlo io medefimo. Pub.
E che ? forse temete, udendolo per relazione altrui, d'incontrare las bontà di
quelle donne, che redarguite, perche non avessero palesato il fetore della
bocca de loro mariti, effe rispofero ; che credevano , che tutti gl'uomini
odorassero in quella forma? D.Hier. in Jovin. Sem. Come si potrebbe fare
per isco. prire quefti difetti corporali occulti? Mec. Doverebbero
palesarsi reciprocamente alla prima, altrimenti, essen. do il matrimonio un
contratto, vi farebbe inganno, ciò non facendosi: E fe nei contratti delle
compre de' schiavi, ò cavalli, quando la frode fi scuopre, esli si possono
riscindere, così mi persuado, che sia in questo, cadendo-yil'inganno in cose
essenziali alla fecondità; oltre poi, quando non si poteffc riscindere , quante
occasioni daranno di perpetui disturbi tra di effi fimili diferti.
Sem, [ocr errors][ocr errors] 3 Sem. Şi è dato mai il caso, che
siang palesati questi prima delle nozze? Mec. Molti esempj ci sono, e tra
gli alori, quello di Crate Filosofo Teba. no, cui portando grand'amore
Hipparchia, la quale aveva non inferior genio col FILOSOFO, che colla sua
doctrina , onde richiedendolo per marito, che, fece egli ? si scoprì il dorso,
cmostrolle la sua gibbosità; e di poi posto in terra il maorello, bastone, e
tasca , che 2veva, le disse: Signora, queste sono tutte le mie supellectili, la
mia defor mirà già l'avete veduta, onde considerate seriamente ciò, che fare
per non. avervene a pentire. La saggia donnarei plicogli, che aveva già
sufficientemen te proveduto ogni bisognevole, e confiderata ogn'altra
cosa, e perciò credeva, che più bello di lui, e più ricco non fosse nato al
mondo; onde che l'avesse pure condotta dove voleva, come sua moglie . Ed il
simile fece ancora nel discoprire la sua gibbofità il Padre di Sergio Galba a
Livia Occellina Daman mol per mo molto ricca, è bella, per non
ingannarla. Sem. Bisogna, che queste non credersero deformità
svantaggiosa la gobbas de’loro mariti , perche hò osservato i figliuoli di
cocefti molto diritti , e belli; mà vorrei sentir riferire qualche caso di
donna, che avesse scoperto all'uomo i suoi difetti. Pub. Vi fu una
giovane bellissima amata teneramente da un Gentiluomo, il quale avédola farta
chiedere glie , fi scusò ella di non poterlo compiacere, onde da simile ripulsa
s'accese di desiderio maggiore, per averlas; mà che fece la savia giovane,
vedendo , ch'egli non defifteva ? gli fe intendere, che lei medesima gli
averebbe palefata la cagione, per la quale ritardava di condescendere alle sue
brame, e c011"certato il luogo, ed abboccatisi insienie gli scoprì il suo
petto, e felli vedere un canchero , ch'aveva in una zinna, dicendogli,Signore,
questa carne, ch'è incominciata ad incadavcrirli voi amato [ocr
errors][ocr errors] ta [ocr errors][ocr errors][ocr errors] canto! Rinase
egli confuso nel rimira, re tale spettacolo, il quale frenò in gran parte
quell'ardente amore, che le portava's desistendo in avvenire di farla più
importunare. Sem. lo credea , che le donne non fossero facili a scoprire
i loro difetti, sarauno però rari questi esempi: Mec. Il simile credo
anch'io, e da ciò facilmente oasceranno molte contese cra mariti, e mogli ,
d'onde provengono i divorzj, e fe li palesaffero alla prima scambievolmente i
loro difetti, forfe che non seguirebbero; posciache essendune ainbidue consapevoli,
non li pom trebbero allora dolere, se non di loro medefimi. Sem. Perche
non si potrebbero fare ri. conoscere ambidue prima del matrimos nio per meglio
accertarsene? M26. Questo ripiego fu disapprovato, quantunque lo aveffe
proposto Platone; onde che fi dirà apportandolo you?' Evi pare, che l'oneltà lo
debba permettere? Appena le leggi Romane antiche tolle. G [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] 98 Conf. 4. Dec. prima il rarono una tale ricognizione nell'uomo,
proibendola efprenainente nelle donne: e re Platone aveffe osservato cioccheri
feriscono Plinio, e Solino, che i cadaveri delle donne galleggiano sù l'ondes
con il ventre all'ingiù, e degli uomini all'opposto, cercamente, che averebbe
appreso dalla natura il documento di doverte, trattare con maggior onestà,
vedendoli naduralmente risplendere un non fo che di modestia in eile, anche
dopo morte. 1. Pub. A questo propofito lessi in Plufarco, con mią grande
ammirazione, ciocch'egli racconta di quelle Vergini Milelie, le quali ,
divenute pazze a cagione d'influenza peftifera,che ivi vagava, erano forzate
dal loro delirio a morire appiccare, e questi spectacoli giornalmente fi
trimiravano nella Città di Mileto ; fenza che le preghiere, e le dagrimé de'
genitori potessero impedirli; solamente il contiglio di un Savio porè
rimuoverlig. e fu di procurare con decreto del Senato, che tutte quelle,che si
sospendessero in avvenire , forfero esposte nude in nezo alla piazza a vita di
ogniiuno:Indusfe nella fancatia di cucina te le giovani tale spavento, ufc4to
sopra di ciò l'editto, che manco affatto Porrido fpettacoto, aftenendoli
age'unas in avvenire di farlo ; perche concerioz per cola assai peggiore
perfere veduta ignuda , benche morta, che vestica ap. piccata . Med. Due
altri fatti poffo riferire anch'io di donne savie: Polisena fu unas di queste,
di cui così ne parla Euripi de, At illa jam moriens tamen
Multum providit , ut honeftè caderet . Celaretque', que celare oculos
virorum oportet i Ed Ovidio ancora, nelle sue Metamorfosi, così
dice della medesima , Tunc quoque cura fuis partes velare, pudendas Cum
caderet, castique decus fervare; pudoris ; E l'altra fu Olimpia madre di
Alessan dro il Grande, che trovandoli proffiina alla morte, con i propri
capelli, e vefti ricopriva ciocche l'onestà non permetteva - Acimirasle
scoperto . Sem. E chc G farà delle belle, delle ricche, e delle brutte, e
povere ancora , come troveranno queste marito? Mes, L'udirete in
appreso. [ocr errors][ocr errors][merged small] [ocr errors][merged
small] [ocr errors] Nella quale si mostra, in che modo si maritino le
belle, le ricche, e le deformi quantunque povere.
Mecenast , Sempronio, Publio, & Medico. Mec. A lunga
sperienzando che hò del mondo, grá cose mi ha fatto conoscere intorno a matrimonjoli
qua, li per essere contracti, come fu detto, hò scoperto in effi ancora i
suoi scnsali , conforme fono negli alori trafichi. In quei fatti a doves re de
quali già parlammo hò offervato sempre mezana la Prudenza, la le non già di
approveccia di alcuna fensaria per se medesima, come sogliono qua,
praticare gli altri sensali dc' matrimo. nj. Sem. Quali sono questi
altri? Meci Amore, l' Ambizione, e las Bugia. Sem. Che fofle Amore
sensale Ò, 'mezano de' natrimonj' lo sapevo anch? io; ma questi alori mi
giungono nuovi; e come mai l'Ambizionc potià trattare i matrimoni? Mec.
Vi sarà una giovane brutta ral. volca , e povera , c perciò Amore l'averà
abbandonata'; ma perche si trove rà umfratello, che si potrebbe avanzare nelle
armi, ò nelle letrere, che farà l'Ambizione? li metterà a trattare il di lei
matrimonio, e con motivi si efficaci darà ad intendere , che da quel mari.
taggio, ne risulteranno vantaggi tali a prò di quel giovane, cui la propong,
che lo porranno in grandezze, edonorificenze molto considerabili in breves
tempo. Sem. Ma non li avvede, ch'ella è de forme Mero Mec. In
questo l'Ambizione s'inge. gnerà di non fargliela comparire tanto brocca con
mostrarli, che ci sono tante più deformi di effe, le quali pure hanno trovato
marito; e di poi gli caricherà tanto le specie dell'apparence bene futuro, che
arriverà ancora, quantunque. fyfle brutiifiina a fargliela comparire vaga a
segno, che lo farà divenire diella amante. Sem. Ma questi sarà impazzito,
se non diftinguerà ciocche a leoli esteriori si fa palese. Mec. Credere
forse voi,che solamen. ce Amore faccia impazzire gli Orlandi? l'Ambizione
ancora è capace di farlo; e questa appunto è la sensaria, ch'ella brama: cioè
di vedere fuori de'suoi sen. rimenti anche gli uomini savj, e talvol? ta quelli
ancora , che si stimavano capaci di dare ottimi consigli ad altri. Sem, Ed
Ainore, che fensaria ritraer da? suoi maritaggi? Mes. Non altra ; che di
vederli in brieve tra di loro disgustati, essenda,che come si luol dire per
proverbio; chi per amore si prende, per rabbia li lascia. Sem. Ela
Prudenza, che ne ritrae di sensaria? Mec. Di vederli con perfecta pace tra
elli, di sentirli dire con Ausonio trai di loro : Uxor vivamus , quod viximus',
dove teneamus, Nomina, qua primo fumpfimus in than)lamo: Nec ferat
ulla dies, ut commutemur in Ævo, Quin juvenis tibi fim, tuque
puellas mibi. Sem. Questa per verità è un'ottima fenfaria, che
volentieri si può pagare da curti,e con fomino diletro.Ma palliamo ora
all’Avarizia ; com’enera questa nei matrimoni, vedendosi introdottas oggidi
tanta pompa , e splendidezza in elli, che pajono più costo trattari', u
regolati dalla prodigalirà sua nemica. Mec. Cosi non ci cotraffe: vedrete
una giovane non solamenté bructa, ma [ocr errors][merged small] anche mal
sana , ricca però affai: e chi mai [poserebbe questa , con cucce le sue
ricchezze, se l'Avarizia non trattasse il suo parenrado ? Sem. E come mai
ella opera ? Mer. Si porrà d'intorno ad un bel giovane, ma povero, e
gl'infinuerà, che quel partito potrebbe farlo divenia re molto riccbi e gli
riempirà la testad fcema, che si ritrova, di molte, ei molte migliaja di scudi;
dicendogli , che potrà allora godere, e stare allegramente; e susurrandogli
qualche altra cosecca di più alle orecchie, lo farà fare in tutto, e per tutto
a suo modo; fenza che gli amici lo possano più rimuovere con tutta la rectorica
di Cicerone, e l'energia di Demostene. Sem. Questi ancora mi sembra un
paz-s zo. Ben è vero però, ch'è caso raro, effendoci fatto divenire
dall'Avarizia i posciache i suoi seguaci non buttando il loro non sono tenuti
pazzi; conformea potrà contestare il Dottore', che conos sce, che cosa fja
pazzia, Mede [ocr errors] Med. Cilono però diverse specie di questo
male; laonde se non sono di quefta fpecie di di:Sipare il loro gli Avari sa-,
ranno di qualche altra; mentre alcuni di essi, per non ispropriarli del danaro
, divengono tiranni di se medefimi i ed inoltre, quanti Avari vi sono stati,
che per leggiere cagioni hanno dato la morce a se incdelimi , e quetti di
riputere: voi forse savj? e tornando al caso proposto, à me pare, che per
avarizia coftui spreghi il meglio, che si ritrovas, ch'è appunto il fiore delli
suoi anni, spofando una donna mal fana, e brutta Sem, Che sensaria mai può
guadagnare l'Avarizia in far questo? Mer Ella spera di potere acquistare tanti
seguaci di più, quanti poveri arricchisce per questa via, essendoche quando
erano poveri, non potevano: cflere Avari, perche non avevano mo-> do da
cumulare i dove che arricchiti poffono averlo. Sem. Mà come potrà avanzare?
dicendogli, che faute, che avesse il pa. ren rentado, averebbe
goduto, e sarebbe ftato allegramente , e questo non si può tare da quelli , che
vogliono cumula Meo. Voi non capice il parlar equivoco dell'Avarizia ;
ella non già intende il godere , e stare allegramente dispendiofo , ma bensì
quello di cumulare , creduto da efla , e suoi seguaci piacere, e contento
maggiore di tutti gli alori"; è ben vero però, che in questi cali rimane
ella fovente delusa ; posciache i giovani dislipano tanto in tali occalioni,
che bene spesso si pente l’A. varizia di esservisi ingerita. Semi
Com'entra la Bugia ne'matri. monj? Mec. In quanti se ne fanno, senza le
direzioni della Prudenza essa vuole-ingerirsi, e per un verso; d per Palero ci
vuole avere in questi la sua parte. 7 Sem. Si dice però communemente, che
la Bugia abbia le gambe corte, onde fi fcoprirà, e non potrà perciò fare
breccia. diri Mele 1 Mec. Non è così perche non opera già
sola. Se Amore per esempio trarre. rà un parentado, essa pronta vi accorre, e
si affatica tanto per fare apparire quel. la giovane , per cui si tratta ,
savia, prudente, e di abilirà: ò quel giovane di costumi angelici, e di abilità
sommas; quando per verità farà tutto l'opposto. Sem. Mà quelto in brieve
si può scoprire. Mec. Prenderà ben ella il contratempo, e quando vedrà
che i genj, mediante Amore, saranno cominciari as collegarsit, allora, ciocche
ella dirà , sadà creduto per vero; nè fi pafferà più oltre per iscoprirlo,
quantunque fosse falfifsimo: lo fomina in tali occasioni la Bagia si affatica
tanto; che arrivò as dire un Filoloto, che s'ella non si ri-, mescolaffe à
questo segno si troverebbe per certo il mondo.più spopolaco notabilinente
Sem. E come ? e perche ? Mec. Popolandoli il mondo, median-> te i
matrimonj, quando questa non aju.taffe à farli, oh quanti di meno ne le
guirebbero! Onde per mancanza di effe molto fcemerebbe ; talmente ch'essad lo
mantiene cosi popolato . Sem. Non credo però; che abbia tanta parte in
essi, quanta voi dite. ) Mec. Ed io credo di vantaggio ancora;
imperciocche dicemi: nel mondo, quali sono più numerosi, i buoni, ò i
carrivi? Sem. Questo calcolo non so chi l'abbia fatto : ti dice bene da
pertutto, che gran parte in esso vi sia di cattivi. Men E credete voi,
Sempronio, che questi trovassero moglie, se la Bugiai non ricoprisse i loro
vizja: Sem. Io credo di nò; Mec. Dunque non facendosi tutti questi,
che danno considerabile apporterebbero alla popolazione del mond? Sem.
Ditemi, che fensaria ella riceve? Mec. Non altra, che di trionfare
allorche li scuoprono gl'inganni da efsa orditi; e li prende sommo piacere
del lc de discordie, e dissensioni, nate da ciò tra in
arirari. Sem. Oh che razza di gusti deprava Mic. Quéli appunto sono
i piaceri, che li prendono i vizj, non confiitendo in altro, che nel vedere
precipitato chiunque dura loro fede, e perciò non iè bene di prevalerli,
Sempronio, della opera loro in conto alcuno. Semi Mirpersuado, che la Prudenza
non tratterà fimili mariraggi, onde pochi faranno quelli, nel quali effa s'in.
trometterà : per efeinpio, se sarà bella da giovane, lascierà trattare il
suo pa. rentado ad Ainore, ed effa fi discolto. rà. Mec. Non è così
; perche la Prudenza non è già tanto indiscreta, che odj la bellezza, c fe
vedrà, che colla beh - lezza ci fia unica anche l'onestà, ed il buon
costume, li tratterà , e concladerà infieme; ma quando poi fi ávvedesse, che
colla bellezza, questi non ci fossero, allora ne lafcierà la libertà ad Amore ,
che le marici a suo piacere : Sem. Mà ci sono elempj di queste belle
accasate dalla Prudenza? Pub. Tanti appunto, quante donne helle hanno
mantenuta la fede illibata) ai loro mariti; e di queste Plutarco ne riferisce
molte, parlando delle donne illuftri į confessando ancora l'Ariosto nel canto non
esservene stata mai pea nuria di esse, con dire: E di fedeli , e caste ,
e faggie , e forti Stare ne fon, ne pur in Grecia, e ithead
[ocr errors] Roms, Ma in ogni parte, ove fra
gl'Indi, gl’Orti Dell'Esperidi il Sol spiega la chioma; Delle
quai sono i pregi, e glonor mortis Sì ch'appena di mille una
finoma, E questo perche avuto hanno a'lor tempi I Scrittori
bugiardi, invidi , ed empji. lSem. E nci maritaggi con ricche doti s'ingerisce
mai la Prudenza , effendo disuguali di condizione ? Mes. In questi ancora
, quando ritrova, che amili ricchezze fono venu te te per vic
oneste; descritre così da Sene's ca de Vila beat a cap.2 3. Nulli detractas,
nec alieno fanguine cruentas , fine cujufquam injuria parias , fine fordidis
quæstibus, quarum tam honeftus fit exitus,quàm introitus, quibus nemo
ingemifcat , nifi malignus. E non scorgendo di mal cofume chi le poflede, li
conclude ancora; perche come mostró Platone į non induce disuguaglianza
disdicevole las fola disparita di condizione. Sem. Quale farebbe questa
disugua. glianza disdicevole? Mec. Sarebbe appunto, se un nobile, per cagione
della gran dote, volefse sposare l'unica figliuola map educa. ta di un vile, e
sordido arcista; l qual matrimonio non solamente darebbe da dire a molti, ma
ancora per lungo tempo sarebbe privo di potere conversare con uguali, chi
prendesse una fimile Spofa, Sem. Vi fuschi di Te in fimile congiuntura,
che de mormorazioni solamente per qualche tempo duravano, mà chc
che le grosse dori rimanevano per sem., pre; io però non sono di genio si
vile. Méc. Credo, che voi manterrete il decoro di Gentiluomo,má replico
bensis a colui, che punto non lo consideras :: che i figliuoli ancora
riinangono per : seinpre di somiglianti inclinazioni, e co. ituini; essendoli
osservato in molii, che hanno voluto canto digradare dalla lo-> ro
condizionc, con prendere per moglie giovani mal nate , e di poco buon co->
itume', 'credirarsi da loro descendenti » gonj vili, c plebej; cosa alai più
dannoia, e pregiudiziale, di quello sieno le mediocri picchezze nelle famiglie
ile luftris onůc perciò il poeta Satirico conrra di questi disle, Scilicet
expectas, us tradat mater boSo do neftosigilom Aut alios mores, quam quos
babet? E quell'altro anche canto Infequitur leviter filia matris iter...
Olere diche certi matrimonj fatti con tanta disparità di condizione, se non,
averà prudenza la moglie , riescono ang che infaufti a mariti; come provò
Fulvio, il quale avendo sposato una Ichigvå, fu dalla medeliina tradico,
denunziando ove egli era nascosto, csendo tra i proscritti in tempo del
Triumvirato. Sem. Vorrei anche sapere, fela Prudenza tratti marrimonj didonne
brurce, e ditettofe. Mec. Questi ancora maneggia, quando ci trova il suo conto;
cioè a dire che quella da voi creduta deformità non pregiudichi a fare
figliuoli, nè alla pace doinestica. Sem. Io mi perfuado, che la brut.
tezza poffa ritardare 'ambidue ; perciocche, come si potrà amare una donna deforme
e non amandoti questa, come li potranno avere figliuoli, ed esserci la pace
domestica di Mec. Dovete sapere , Sempronio ; che due bellezze sono nelle
donnc ; una delle quali è di fola apparenza, e perciò viene detta eftcriore, e
l'altra inter, Da, la quale risicde nell'animo: la pri. [ocr errors] ma
si rende inanifesta ad og i uno, che Ja rimira; la seconda poi, quanto più si
nasconde tanto maggiormente risplende'; quale di queste due voi bramerefte,
Sempronio, che avesse il primo luogol nella vostra sposa ? Sem. Quella ,
che porelli vedere, we godere insieme. Meci Questa sarebbe lefterna , che
per breve tempo la potreste vedere, er godere ; essendocche prettamente fier
nisce, venendo da' Poeti assomigliatas alla rosas Collige virgo rofas dum fos
novus, o nova pube's, Er memor efto, ruum fic properare tuum. Ed
altri: Rofa viget breve tempus, fi autem pra terierit Quærens
invenies.non rofas, fed fpinas. E Seneca dinle Anceps.forma bonum
mortalibus , Exigui donum breve temporis, U velox celeri peide
laberis: H 2 8. Ed [ocr errors][ocr errors] Ed il Petrarca ancora
così ne parla Questo noftro caducong fragil bene, Cb'è vento ed
ombra , ed ha nome beliade. L'altra bensì, effendo radicata
nell'ani. ino, non languisce in alcun tempo; anzi che in certe contingenze fa
vedere quanto opera in conservare la pace domeftica. Vi potrei a questo
proposito addurre molti csempj; ma quello riferito da Enea Silvio della moglie
di un celebre Medico Sanesc fa al nostro propofito. Questa era molto deforme ,
nulladimeno, per le fue rare viciù, l'amaya suo marito svisceratamente,
chiamandola la sua buona Ladiç; ed appunto d'onde possa ciò nascere lo spiega LUCREZIO
(si veda), dicendo: Nee divinitùs interdum, Venerisque sagittis,
Deteriore, fit ut a forma muliercula ametur; Nam facis ipfa fuis interdum
fæminar factis Morigerisque modis, cu mundo corpore cultu Ur fucile
insuefcat fecum vir degere vitam. Sem. Ma effendoci l'efteriore, perche
non potrebbero ancor'acquistare 1.1 bellezza interna coll'industria
de’lo"ro mariti? Moc. Onanto siete buono, Sempronio, che vi volete
affaricare in merte, re "il giudizio, ove non sia ; e non sapite, che
fin'ora non è bastato l'animo ad alcuno di porcelo: bisogna pregare Iddio, che
non vi abbarciate in caluna, che penurj di effo; perche altrimenti è tuito
tempo perduto quello, che s'impiega per farlo entrare, ove non sia. Pub.
Sempronio procurare di grazia di stare cautelato; perche questa bellezza
esteriore, che voi tanto bramare, fi uniforma alle volte a quella dei tempi degl'Egizj,
ch'erano belli di fuori, e e brunti al di dentro : oltre di che apprendere
questo utiliffimo documento da S. Girolamo : non facilè cuftodisor, quod omnes
amant, O in quo totius popu. li vosa fufpirant; e canto maggiormente,
[ocr errors] H 3 .te, che il Nazianzeno la chiama : temporis, & morbi
ludibrium : Santamente, dunque l’Ecclesiastico dice: Ne respicias in muliere
speciem, nec concupiscas mulierem in fpecie. Scm. Coinc fa la Prudenza a
conosce. re, che questo giudizio vi lia, ove law bellezza non regna? Mec.
Lo comprende ben ella allorche rimira una giovane modesta , circospetra nel
parlare, non curiosa, ftabile, attenta, ed applicata a fare ciocche dee; onde
la reputa perciò giudiziosa; mà le poi la scorge incostante, disapplicata,
curiosa', garrula , c vana , que. Ito le basta per crederla imprudente, c non
fi prende penfiere alcuno di essa. Sem. Ho udico raccontare più volte,
che alcune giovani pri na di maritarsi fieno ftatc tenute per giudiziose, e
prudenti, ma che poi fattefi (pose sieno diveoute l'opposto di quello, che
dianzi erano reputate , per avere sciolta labri. glia a tutti quei vizj, che
tenevano ce.Mec. Bisognerebbe con esattezzas esaminare, per colpa di cuilia ciò
provénuto, se di effe, o de i loro mariti; u se fi rincontraffe , che avessero
in ciò peccato i mariti, sarebbero esse degne di compaffione, dovendo come
subordinate regolarli secondo quello, che a medelimi vedranno operare; potendo
ancor esse scusarfi, come fecero le don. ne Ebrce allorche furono riprese,
perche fagrificavano nell'Egitto, le quali dillero: Numquid fine noftris viris
fecimus? fer:. Sem. Come Opera la Prudenza per concludere fimili
matrimoni? Mec. Primieramcnte con fare riflettere al giovane, che brama
di accasar fi, quale sia il fine principale del matrimonio, cioè per
ottenere figliuoli, o che questo non fi orriene mediante los bellezza, ma bensì
per la sanirà del corpo;: onde che non debba quell'anceporsi a questa ; ficcome
ancora cons fare confiderare i danni, che potrebbe qucla bellezza ofteriore
apportare [ocr errors][ocr errors] mariti, li quali provò appunto Uria
per la bellezza di Bersabea ; ed Abramo uomo saggio per isfugirli, che cosa
facelle, avendo Sara per moglie, donna. belliffima , allorche dovea andare in
E. gitto, e fu , Gen. Novi quod pulchra fis mulier, & quod cum viderint te
Ægyptii di&turi funt : uxor illius eft, interfcient me, o te refervabunt :
dic ergò obfecro te, quod foror mea fis &c.: Eche quando simili infortunj,
non accadersero per cale cagione, potrebbero per altro succedere dicendo
Leucippo:che la bellezza sia una saetta, la quale ferisce con maggiore velocità
di quellow, che viene scoccata dall'arco : e Ciro che debbali più temere
questa, del fuoco, il quale non offende in qualche distan. za conforme fa la
bellezza; insegnando l’Ecclefiaftico al 9. Propter Speciem mulieris multi
perierunt , & ex bac concipifcentia quafi ignis exardefcit : oltre di che
gli farà ben capire, che non solamente,egli viventesquefta polsa danneggiarlo ,
ma cziandio clinto che sarà , c CON [ocr errors] con qaciti motivi
lo ani nerà a scize glierti per inoglie più costo la laggine, che la
bella. Sem. Mà come dalla moglie belles potrà strapazzarli il maritu
defanto? Mec. Lo comprenderete dal seguente avvenimento riferito da
Petronio Are bitro. Dimorava in Efeso una Matrona, non meno bella, che stimata
da tutti di fomma pudicizia; ed essendole morto il inarito, non solamente
dirottitfunamente lo pianse, mà, accompagnatolo al sepolcro, delibero volere
ivi termic nare la sua vita con esso; nè fu porabile, che i parenci, anzi il
Magistrato stesso la potessero rimuovere daral penfiero. Già sofferri. avea
cinque giorni di rigorosa astinenza, quando un sol. dato, il quale cuftodiva
alcuni cadaveri de ladri, ch'erano stari, giustiziati vicino a quel sepolcro,
si avvide di notte, che usciva un cerro lume da unas contigva casetta , ed
udiva insieme ivi piangerl; vi accorse , cd animalo vi entro, e calato che fu
dove si piangeva, ap [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Conf. Dec.
prima appena vedute due donne'appreffo ad un cadavero, sen tornò in dietro a
prendere la sua poca cena, e ritornato che fu, cominciò a consolarle con
offerire loro quel poco di ristoro, che feco portato avea. La più addolorata ,
la qual'era la sudetra Matrona non mostrò punto di gradire le cortesi
esibizioni del feldato, anziche più costo'raddoppiava ischiamazzi con svellersi
i capelli, e percuoterfi maggiormente il perto : non si perdette egli di animo
per questo , ma fi accosto all'altra, ch'era la fervente, offerendole
cortesemente il vino, che avea ; ed ella non fi moftro canto ritro. fa;
posciache'riftoroffi con quello, e guftò ancora il cibo'; ed indi si pose ad
efpugnare la pertinacia della sua padrona, e tanto le leppe dire, che alla fine
la vinse, eristoroffi anch'ella. Vedendo il soldato, efferli renduta in questo,
passò più oltre', e coll'ajuto della fervente gli riusci di prenderla per
moglie, non dispiacendo alla vedova l'aspetto del fudecco giovane ; ¢ ciò fu
concluso frete [ocr errors][ocr errors] frettolosainente .
Dimorarono tre gior- ni in decto sepolcro i sposi, uscendo appena di
noite tempo il soldato a provedere ciocche faceva d'uopo per alimca-
tarsi tutti. In questo montre da' parenti degli appiccati fu portato via uno
di quei cadaveri , ed avvedutofene il sole dato lo palesò alla sua
fpofa tutto contristato ; dicend le, che non era coaveniente di aspettare la
sentenza del giu- dice , essendo egli incorso nella
pena di vita , per la sua trascurata custodia ; on. de che gli
avesse pure preparato il luo. go per fepelirlo allieme coll'altro suo inarito,
essendo egli già disposto a darli la morte . Ciò udico, la compaffionevole
donna rispose: non sia mai, che io abbia da vedere due de' mici carifli.
mi mariti, defonti nel medesimo tempo; desidero più costo appiccare il inorto,
che di perinettcre, che il vivo perisca: deh prediamo questo cadavero,e
collo? chiamolo, ove manca quello del ladro. Ubbidi prontamente il
soldaco ; e nel di seguente cucco il popolo f maravi. Conf. s. Doc. prim.
gliò, coine inai quel njorto, così teneramente pianio, fosse stato posto sopra
un paribolo: Sem. Talmente che saranno tutte finzioni quei gran pianti, e
schiamazzi, che fanno le donne vedendo morti i mariti? Mec. Per lo più
cosi credo anch'io ; perche, non avendo queste la prudenzas virile, con
faciliià grande fi pongono as piangere, ma noui tono già così gli uo.
mini. Pub. Voi mostrato di non avere letto Filostrato in Sofijt.: il
quale raccontas ciò, che fece Erode il Sofista nella morte di sua moglie, ch'è
questo appunto. Non si contentò egli di averla pianta dirottilmamente, stando
anche sopra terra, ma volle continuare a farlo tutto il rimanente di sua vita :
e come se le inura della sua casa pocessero essere as parte del suo dolore, le
fè tutte vestire di bruno, e la sua casa fu dall'alto al barlo così bene
dipinta a color nero, chu rendca gränd'orrorc: inoltre volle, che tutti
quei, ch'erano al suo servigio fof. sero mori, o per natura, o per arte: cgli
stesso si fè cignere co’carboni il vol. to, per portare ancora in fronte la di.
visi del suo dolore. Tutti i suoi mobili anche i piatii, e bacili', ne' quali
li lavava crano neri . Passò del tempo in questa bizaria, senza volere udire
alcu. no di quei, che volcano persuaderlo a cambiare risoluzione. Lucio, che
gliera amico, gli aveva più volte parlato di questa materia, mà senza frutto;
allas tine una sola parola di scherzo lo guada. gnò. Le sue serventi lavavano
un giorno alla fontana certe rape; le vide Lucio , e domandò , fe quelle
doveano servire per la tavola del loro padrone, il che affermarono; se ciò è
cosi disse Lucio ; riferitegli da mia parte, ch'egli fa un gran torto alla sua
moglie, e che non dee mangiare rape bianche in casas vestita tutta di nero ;
onde che si era infinitamente maravigliato , com' egli non riparasse a cosi
grave disordine, dovendo il suo bere, cd il suo mangia. [merged small][ocr
errors][ocr errors][merged small] TC re essere vestiti come lui di
gramagliw; ed a queste parole cominciò ad aprire gli occhi, per vedere, e
riconoscere le sue stravaganze, e questi era pur Filosofo non già donni! Sem.
Iftruitemi di grazia meglio sopra i matrimoni, fatti senza l'intervento della
Prudenza, per non cadervi. Mec. Nella: ventura conferenza vi consoleremo.
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] 100,
avendola me CONFERENZA Nella quale si esaminano più distintamente i
pregiudizj', che risultano dai matrimonj farci fenza in l'intervento
della Prudenza. Sempronio, Publio , Mecenate © Medico OL
Uanto mai mi ha contriftato la storia riferita della cru. dele donna di Efe.
fo glio considerata . Pub. Non bisogna sgomentarsi, Sempronio , per fi
lieve cagione ; perche. primicramenre chi fa , le veridico lia tutto ciò , che
in esta si racconta parendoini molto inverisimile , che li di lci parentis cd
amici l'avessero del cute [ocr errors] to cata, avendo, oltre i
natali, Giulio s Conf. Dec. prima qualche concerto maggiore, per lo
sviscerato amore mostrato verso suo marito; oltre di che, chi potrà mai
credere, che una donna, i dopo efsere stata cinque giorni, con tanta attinenza,
poreise pensare , non che effettuare ciò , che fi lppone facesse : e poi,
quando' realmente fosse ciò foguito , vi posso riferire moltissini esempj
dimogli fedeliflime, le quali o per vero dolore sono morte, quando videro i
loro consorti estipfi, è dettero chiari atteftati del loro fincero, e costante
amore. Laodamia fù una di queste, la quale mori di cordoglio sopra il çadavere
di Protesilao fuo marito, ucciso da Etrore. Ed Artemisia a che segno amò le
ceneri di Mausolo suo marito , che fin volle, stemprate tolle sue lagrimc, dar
loro ricetto nel suo corpo ingojandole a poco a poco! 'E finalinente, per non
diftendermi di vantaggio nel riferirne inolte altre: Peponilla moglie dime
riferisce Xitilino, sotto l'Impero di Vespasiano, aon visse nove anni con suo
marito dentro un sepolcro, ove diede la vita a due figliuoli? e questa lo tenne
lontano dal supplicio, per quanto le fu permesso, non già ve lo mandò? Sem.
Tutto va bene; ma però, che una donna, dopo tante lagrime sparse per suo
marito, l'abbia esta condannato al patibolo, mi pare grave, e detestabilc
facro; posciache, se non amava quel cadavero, à che fine bagnarlo di tante
lagrime? e se poi l'era ficaro, come mai ebbe tanto cuore di fare un' atto si
crudele contro di esso, feuzan averle data occasione alcuna? Mec.
Quell'iniqua fantesca fu la cagione di tanta fceleratezza; impercioc" che
la povera padrona, dopo cinque giorni di dolorofa inedia sofferta, non
trovando dalla morte pietà alcuna in voler porre fine ai suoi cordogli, e
vedendosi imporcunara dalle preghiere di essa s’induffe à prendere quel poco
diria ftoro', offertole non già da pareoti, che I l'ave [ocr
errors][ocr errors] l'avevano abbandonata, mà bensì da un cftranco, che fu la
ruina della sua réputazione, perche chi d'altrui preode, se Iteffa vende.
Sem. Mà come! nc anco dentro il repolcro è sicura la pudicizia, ed allas
prcfenza del marito defonto! Mec. Diceva il Re Filippo, che non era
inespugnabile quella fortezza, ove fusse potuto entrare un mulo carico di oro;
e voi credere sicura una donna bella, guardata da una sola fancesca in luogo
remoto? quando trovandofi già languida è affalita da un soldato armato, giovane
bello , ed avvenente, ristorandola col cibo, adulandola, e lusingandola insieme
con dolci parole. A queIto proposito cade in acconcio il proverbio di Salomone.
Mulierem fortem quis inveniet? E tanto inaggiormente, quando il marito giace
estinto, e perciò nè può correggerla, nè punirla. Sem. Queste ragioni non mi
appaga. no punto, onde per non avere a cadere in fimili infortunj , bramerei
che voi con [ocr errors][ocr errors] con la vostra solita ingenuità
mi scopriIte molti altri pregiudizj, che potrebbero nafcere , non avendo la
Prudenza parte uc'maritaggi ; e perche avete voi conversato molto in yostra
gioventù, vi sarere incontrato facilmente in, più contrasti nati tra i mariti ,
e mogli. Mer. Gli hò uditi certamente fpefso riferire, e letti ancora; e
quantunque non li abbia provati, per essere vivuto libero, con tutto ciò sono
appicno informato di molciffimi avvenimenti in fimili materie. 1 Sem. Or
dunque, in quelli fatti per opera d'Amore, senza intervento della Prudenza ,
che vi avere offervato di inale ? Meo. Ne hò veduci tanti di questi
principiare bene, ma poi cambiare in un tratto la bella apparenza, ed allas
fine rerminare infelicemente ancora. Sem. Come cominciali bene, e poi
mutarfi? fe: Chi ben comincia , bà la metà dell'opra? Mec. E pur
così è seguito ; impera cioc [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors] I 2 ciocche alla prima, in quel fervor
di afferro, la sposa era tenuta in pianta di mano; ma appena intiepidito questo
de qualche lieve cagione mutava faccia il tutto, e quel grand'amore in breve
pafsava in noja, ed alla fine questa si avanzava al dispregio. Quindi è che l’Ap.
piense disse: 174 Ef modus , dulci, nimis immodera ta voluptas Tædia
finitimo limite semper babet : Cerne nouas fabulos rident
florente colore Piet a, velut primo vere coruso at bumus, Cerne
diu tamen bas, hebetataque lumina fleetas, Et tibi conspectus nausea
mollis erit. Pub. Voi, Sempronio, avete lascia. to il meglio,
cioè, Non si comincia ben se non dal Cielo. E credete, che facendosi il
matrimonio per opera d'Amore senza l'intervento della Prudenza, sia esso
cominciato dal Cielo? Sem. E perche no, avendol per fine la la
conservazione della propria specie? Pub. Il fine è fanto, ma il da voi
proposto mezo, per conseguirlo , non è buono;non dovēdosi ricorrere ad Amore
per farci conseguire una buona moglie, ma bensì a Dio, conforme c'insegna
Salomone : Uxor prudens à Domino · Sem. Per quali motivi si avanzano di
poi al dispregio? Mec. Per molti ; lasciando in disparte l'interesse della
dote (molto tenue per l'ordinario nelle donne belle) promessa, e per lo più non
pagata; che suole frea quentemente turbare la pace domeftica: Il primo de'
quali è il dominio, che vuole acquistare la donna bella sopra il marito;
imperciocche come vuole Mcnandro : Superba res eft pulchra mulier: E
pretenderà per giustizia di poterlo efiggere mediante il favore , che gli hà
fatto di prenderlo, essendofi veduta vagheggiare da tanti altri, che la
bramavano per inoglie. Il secondo sarà la gelolia, che apporterà tra loro una
continua guerra. Sem. Come la gelosia, essendosi pre . fi per amore? Mer.
Amore medesimo , che li uni, per prendersi di elli diletto, s'ingegnerà di
suscitarla; e per promoverla, ba. sta, che faccia concepire ad un di effi un
minimo sospetto di essere passato in altri quell'affetto , ch'egli godeva
intiero; non essendo altro la gelosia al parer di CICERONE (si veda), che :
Ægritudo, 6x quod alter quoque poriatur co , quod ipse concupicris, e come
questa operi uditelo dal Taffo N'arde il marito, e dell'amore al
fuoco Ben della gelosia s'agguaglia il gelo, E va in guifo avanzando
a poco , a poco Nel tormentato petro il folle zelo, Che da ogni uomo
l'afronde in chiuso loco; Vorria celarlo a tutti occhi del Cielo. Sem.
Mà questa Publio potrebbe anche nalcere, quantunque la Prudenzas avesse avuto
parte in detto matrimonio, Pub. Difficilmente, essendo che aves reb
[ocr errors] rebbe ella saputo scegliere una donna saggia , che avesse colte
fiınili ombre, quando fossero nate nella mente del marito, senz'occasione
alcuna , e che non fosse ella stata capace di suscitarvele. Sem. E come
potrebbe far questo una donna? Pub.Con fuggire ogni eccesso di vanità;
insegnando S. Crisostomo nell’onilia 21. al popolo: Ornatus Zelotypia
fuSpicionem ingerere folet; cd in appresso, che ; modeftia ornatus omnem
improbar fufpicionem expellis, omni autem vinculo formius conjugium
conciliat. Sem. Vi sono casi seguiti di donne, ch'abbiano usata tanta
prudenza? Pub. Certamenre , che ve ne sono molti antichi, e moderni
ancora: tra gli antichi , la moglie di Focione, di Trajano , & Alpolia
moglie di Ciro, e di Arcasserse, e tra moderni. Madama di Chantal, come scrive
il Padre Cordier uclla sua famiglia Santa, fu unan di quefte; posciache ella
non G vede.rs giammai meglio vestita, che quando [ocr errors] doveva
trattenersi col marito; se doveva egli andar fuori, e fare qualche viaggio, non
orna mai il suo corpo, che quando cia di ritorno : le fu detto un
giorno, troyandofi lontano da molto teippo il Barone suo marito: Madamas ogn'un
crederà, ch'abbiate vendute le vostre velti, ed i vostri ornamenti, voi non li
fate più comparire, come se dubitafte, che da alcuno dovessero esservi rubati:
non mi parlare di questo rispose ella , pofciache gli occhi , a' quali devono
piacerc,sono cento leghelungi di quà. Riferisce anche il medesimo, che la
Ducheffa di Gandia Vice-Regina di Catalogna avesse una somma modederazione nel
yeftiré, non curandosi di portare abiti di fera, nè con oro. Una delle sue
confidenti prese parimente un giorno ardire di così favellarle: Madama di altro
non discorre per tuttas questa città , che della riforina de' vostri abiti,
pare', che sempre voi diveniate di minor condizione di quella, fiecc Aata; più
vi fi accrescono beni di for [ocr errors][ocr errors][ocr
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fortuna, meno ve ne service ; cui rispose:2 ine non dà il cuore di portare nè
seta, nè oro, quando il mio marito vas sempre ricoperto di un'aspro cilizio, ed
in questo anche riflettere, quanto operi il buon'esempio del marito, per
frenare la vanità donnesca. Sem. E quelli, che tratta l'Ambizione senza
l'intervento della Prudenzas, che fine fortiscono? Mec. Pellimo, stante
che, non verificandosi punto quanto s'era da essa promeso, li riinane con
moglie deforme, ed indotata; e di vantaggio ancora, è con molti figliuoli sulle
spalle; ed alle volte ancora privi di elli', senza speranza di poterli
ottenere, per la poca falua te di fimile consorte. Sem. Se vi avesse
avuto mano la Prudenza, come si potevano fuggire queste disgrazie? Pub.
Avcrebbe con maggiori cautele questa consigliato, cfaininando atcentamente, che
fondamento potevano avere le milácate speranze; ç rinvenute le [ocr
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le acree, ed insuffiftenti, averebbe dilsuaso più costo, di effettuarlo; ò per
la meno nella dubietà di cffe averebbe assicurato meglio le buone qualità
dellas donna, affinche'andando le speranze a male, fosse piinasto questo di
certo: di aver una donna prudente in casa,la quale quantunquc povera, come
vuole Salomone. Sapien's mulier edifcat domum fuam. Ne averebbe già permesso a
Tiberio, che avesse sposato Giulia, las quale oltre il disprezzarlo, come non
uguale a lei; ci faceva lecito di vivere a luo piacere; conforme riferisce
Tacito nel primo de' suoi Anoali. Ne tampoco Silio averebbe sposaro Meffalina,
vivente Claudio, se la Prudenza vi forse intervenuta:nè già di Claudio
Mellalina sarebbe stata conforte. Sem. E li matrimonj fatti dalla solas
Avarizia, che danni possono apportarc? Mec. Maggiori di quello, che vi
potrete mai perfuadere; posciache in tali casi non li sposa già la giovane, mà
bensi la dote i mercè che : veniunt à dote;di fagitta ; onde considerare voi,
come ella ella sarà trattata dal marito, e che amoal re le porterà;
quando l'affetto non è inndi dirizzato alla moglie, ma bensì tutto
alinero interesse; ed avvedutali effa di E essere posposta ad una cosa
inanimatas, che dirà, e farà mai, troyandosi ricBt ca? Sem.
Bisognerà ben, che soffrá , I ftia focto l'ubbidienza del marito 1 Mec. Voi
fempronio non avere letto Anafsandro, e perciò parlare in cal # guisa ,
il qual dice, Si quis pauper pecuniofam uxorem 1 Duxerit, non uxorem, fed
dominam habeti [ocr errors] Cujus eft famulus, de feruus; E
credete forse, che quancunque pajano fortunati coloro, che prendono grof. u se
dori, realinente siano sempre? Oh quanto sono infelici ! come conobbs o
anche Menandro con dire: Quisquis uxorem unicam heredem cupit
adfcifcere Divitem ,is vel irasis pænamluit Diis, Vel inf. lix effe vult
s-sub nomine fortunati. Sem. Gran cose si dicono da questi poeti, che fono
favole; lo vedo, che le grosse doti arricchiscono le cafe. Meca Li poesi
son chiamati Vates da’ Latini, qual voce significa anche indo. vino, ed in
questo ho osservato, che per lo più l'hanno indovinato; oltre di che tra efli
vi sono stati Filosofi celebri. Io non nego, che qualch’uno prendendo groffe
doti Gi sia potuto arricchire; essendosi però incontrato con moglie saggia; mà
quanti li fono finiti di fpiantare per questa medesima cagiore, elsendosi
abbattuti in mogli imprudenti? Sem. E come ciò può accadere, prendendofi
quantità grande di danaro in fimili matrimoni? Mec. Per questo medelimo
segue;po. fciache addolorato diceva Demenao. Argentum accepi; dote imperium
ven didi. Laonde, comandando esse , sono capaci di darli fondo, con
difsiparlo in bre ale fon ve tempo; ed eccovi appunto il guadagno,
che si ricava da effe. Sem. Questo però seguirà , quando di incontreranno
mariti, che non sapranno farG ubbidire. Mec. Porrà accadere agl'altri
ancora dicendo Giovenale; Intolerabilius nihil eft, quam fæmina EI
dives, i Ed andare a cozzar con queste ? andate le a riprendere; ed
affinche Gate meglio informato ; udite ciocche dice a questo &
propofito Artemone, fazio, ut fcias Quid periculi fir dotata mulieri
convi cium dicere. Si potranno con facilità maggiore reg. gere bensì
quelle, che non averanno portata dote, come si ricava da un detto greco: Sponfa
indotata non habet libertatem, fiuè audaciam loquendi. Sem. Questo ardıre
lo potranno avere forse le belle. Mec. Lo hanno le brutte ancora re
[ocr errors][ocr errors] fa [ocr errors] saranno ricche, e superbe , come
vien riferito da Gellio , Me miferum, qui Corbulam duxi , & talenta
decem Nanam , mulierculam, cubitalem, cujus Superbia adeò intolerabilis
eft! Sem. Ed in che cosa potrà gettare il fuo la moglie, dovendo essere soggetta
al marito? Mec. Chi è ricca, come abbiam detto, non vuole stare soggetta
ad esso; onde vorrà spendere a luo modo: se vedrà, che una sua uguale condurrà
tre servitori, ella per la sua grossa dore, pretenderà condurne sei, bramerà
anche gli abiti di inaggior valuta; Carrozze più nobili, e suntuose s e vorrà
effe. refrattara in tutte le cose con magnificenza superiore alle altre; e se
il marito non si troverà commodo di farlo, elibirà cfla medesima la sua dore,
per fupplire a quanto bisogna; e durando molto que, fta vita , anderà in malora
la dore , con tutto il capitale del inarito. Or vedete, che fortuna s'incontra
nel prendersi grof. [ocr errors][ocr errors] is grosse doti, e che
svantaggi ne riceveranno da questa anche i loro figliuoli. Sem. In questo
io vorrei mostrare spirito, e farla fare a mio modo. Pub. Vi voglio
riferire un caso a quefto proposito assai curioso; Una certas giovane, che si
trovava ricca dote, la prima sera , che cenò col suo marito , non volle gustare
cosa alcuna, e ftando in tavola molto contristata, le fù domandato ; da che ciò
provenisse , e qual occasione la rendeffe così meftas,' ella rispose; come
volete, che io man. gi, se non vi è l'uomo nero, che ini ser1 va in
tavola ; e non hò piatti d'argen , proporzionati alla dote, che hò
portata : il marito le rispose, che nel giorno seguente averebbe fatto trovare
più d’un uomo nero, i quali l'avercbbero servita , come desiderava : fec'egli
comparire nel tempo del delinare due mori ben neri, acciocche la servislero,
s'icfierà per tal cagione la giovane a segno, che si levò di tavola , e
nacquero da ciò infiniti disturbi tra di elli,onde vedete voi, Sempronio, che
vantaggi risultano dall'essere risentito in fiinili contingenze: bisogna pregar
Iddio, che la moglie ricca, sia ricca anche di senno, aliriinenti la casa andrà
in malora , quantunque avesse portato il doppio di dote. Sem. Hò udito
sempre dire, che las metà della dore non si possa alienare, e che li
fidecommiffi rimangono sempre in piedi; come dunque potranno seguire
l'accennati dilapidamenti? Mec. Il lusso però oggidì hà usurpato il
privilegio di poter alienare ogni reliduo dotale, e di svincolare ancora ogni
più stretto fidecoaimiffo Sem. Mà in che modo? Mec. Si fingono pericoli di
case, che stanno per cuinare, e per tal cagione di toglie ogni più stretto
vincolo, posto sopra i capitali: mà passiamo ad altro, perche questa è materia
molto lagrimevole. Sem. Talmente che a derro vostro re alla moglie
ricadesse quaich'eredità; con [ocr errors][ocr errors] converrebbe
rinunziarla, per non incorIf rere in fimili fventure ? Mec. Muta faccia
il cafo ; perche la moglie, ch'è vivuta qualche anno col marito, trovandosi
molti figliuoli, ed a vendo già passato quei primi fervori del. le nozze , ne'
quali si spende molto, non averà genio più a dissipare, ed effendosi assodata
nel governo della casa, se pur farà qualche sfarso di più , sarà con i
moderazionc , e proporzionato al suo Itato, Sem. Or io ho capito, come si
abbia da scegliere la moglie, che sia di tutto proposito; cioè nè povera, nè
riccas, e che abbia più cervello, che bellezza, acciocche non si abbia da
dire di essaie : quello mi fu raccontato una volta, che dicefle la
scimmia , effendo entrata nella bottega di un arteficet, che lavorava modelli
di cera, ove prendendo nelle inani una bella cesta, dopo di averla ac
carezzata, e baciata, mettendo den| tro di essa la mano, c trovatala vota
gridò: Oh che bella gefta, mà de manca il cervello ! K Pube
[ocr errors] Pub. Or sì, che voi la capite per il suo verso; e scegliendola di
questa forta allora sì, che farere forçunato, e potrete dire di avere presa una
grandislima dote, conforme è succeduto a me: evi voglio raccontare ciocche ini
seguì nel tempo , che io era sposo : mi fù domandato da un mio, amico, che dote
io avca ricevuto, e trovandomi sodisfatto delle buone qualità della mia
compagna , gli rispofi ; che credeva di aver ricevuto cento mila scudi ; rimase
egli ammirato , sapendo, che io non eras folito di milantare le mie cole, nè
fimile dote fi costumava allora, folamente mi replicò: in che corpi li avete
ricevuti? cui soggiunfi, in contanti dieci mida, ed in giudizio il rimanente ;
egli di pose a ridere; cd io non ho avuta sin ora occasione alcuna di
contristarmi di ciò. Sem. Desidererci ora sapere, che altri miali, poffa
apportare la Bugia, concludendo etsa il matrimonio? Mec. Se lo-traria di
passaggio, non suolo apportare danni molto conlidera 1 i bili; mà
se poi s'interna nelle cose cffenziali, guai a chi si fida di essa; pofciache
se ricoprirà i mancamenci d'una donna impudica a segno, che quel povero uomo,
che la vuole sposare, la creda una casta Penelope; effettuandolo diverrà
infelice; e se vorrà fare com parire le ricchezze dello sposo affai e
maggiori, s'ingegnerà ben ella di pro: curarlo, e con infolite maniere :
che non ha fatto a giorni nostri in fimile afa fare! e arrivata fino a fingere
le note dell'avere, nelle quali vi erano regiftra ti molti crediti
fruttiferi, senza il no* i me de? debitori; con pretesto, che si celano
questi, perche , essendo fiignori di qualità, non volevano essere
nominati; e nebanchi ancora non è arrivata a fare apparire grosli depositi
in faccia di Tizio, i quali erano mere imei prestanze, che nel dì
susseguente tor navano a credito di Sempronio suo vefo posseditore?
Sem. Bisognerà dunque vivere molto caurclaro'nci trattati de
matrimonj,per K 2 non [ocr errors] non essere dalla Bugia
tradito sin Mer. Udite di più : se una poverad giovane sarà ingannata da
esla's facendole apparire il suo futuro sporo ricco; che tenga carrozza; si
trovi las cafa ben fornita di preziose suppellettili, a segno che le faccia
credere che quel partito sia una gran fortuna; cadendo. vi in effettuarlo, in
un tratto si avvede. rà, che il cutto fù mera apparenza; pois che appena
consumato il matrimonio, sparisce il palazzo incantato di Armida, e li cavalli,
o carrozza tornano al fuo padrone; e per vivere conviene dar di mano alla sua
dore, trovandosi il mari10 fpiantato. Vi voglio raccontare una storiella, nella
quale scoprirete l'astuzia usata da uno di questi miserabili,che con inganni
giunse a sposare una ricca giovane. Se ne stava egli nel giorno fta. bilito per
le nozze penlierofo , e mesto, a segno che la Suocera si mofle a domandargli
cosa egli aveva; cui replicò, che certamente non aveva cosa alcuna ; fco.
perte, che furono di poi le fue miseric,G dolse leco la medesima, ch'era statas
da esso ingannata ; replicò il ribaldo: fignora lei si ricorderà benissimo,
che's io le diffi nel tal giorno, domandando i mi cosa io aveva, che
niente le replicai? che occasione dunque ella ha da dolerlei dime , se le
palesai la verità, con dirle', che nulla avea. Sem. Accadono questi
cali? Mer. Cosi non accadeffero, anzi ve ne sono de'peggiori
ancora. Sem. E quali sono? Mec. Volendo la Bugia accasare un
giovane deviato, che farà? comincie. rà a lodare il suo buon costume, la
sua modeftia, a fegno, che lo farà compa0 rire in iftato
d'innocenza cadendo las povera fpofa a credere questo, tuttaa
allegra acconsentirà, non solamente al matrimonio, mà sicuramente
ancoras converserà seco; non dico altro, che in breve diverrà un
cadavero, median- tc i quel malo;-col-quale l'averà mal
concia. Şom. Sono vesiquefi cali, Dottore? Med K 3
Med. Accadono, e non di rado;quando però liamo avvisati in tempo, diamo loro il
suo rimedio ; ma allorche il malfattore vuol fare da Medico., la finisce di
stroppiare con quei secreti, che talvolta averà egli in se medelimo provati , i
quali applicati in una compleffione gentile, essendo rimedji mercuriali,
potranno in vece di giovamento apportarle danno notabile. Pub. Questi
pregiudizj tempo fà non seguivano; imperciocche, se allora cal uno cadeva in
fimili mali, îi faceva prima curare , e risanato, ch'era perfertamente prendeva
moglie. Sem. Talmente, che questa Bugia ne matrimoni cagiona danni molto
confiderabili, ond'io procurerò di tenerlas lontaga allorche tratterò il mio
accalamento. Mec, Bisognerà, che stiáre però molto avvertito; posciachc
comparirà travestiça; e sotto specie dį verità per ins gannarvi. Sem, Io fona
un bell'umorcänon cres derò 1121 N derò allora
all'istefa verità, per non di ingannarmi, giacche la Bugia fi vestu dei suo
manto. Mec. Alla verità conviene prestarlo d fede in ogni tempo, mà
però vi è il modo da discernerla, quando cssa sia pura , ò simulata. Sem.
E come? Mec. Quando voi vedrete ingrandire le cose assai più di quello ,
che fieno ve. risimili, ivi ftà nascosta la menzogna, e datele la tara di due
terzi meno di quello vengono rappresentate, che così di poco sbaglierete. E se
vedrete poi in alcune altre ufarsi artificj, c diligenzu u maggiori, di
quello, che convenga, per farvele credere, e voi togliete tre terze parti
a ciò, che fi dice, e credete solamente quello , che rimane, che così
l'indovinerere. Sem. Dovendo io prendere moglie poco fastidio mi prendo
dei difetti de gli uomini , vorrei bensì sapere quei i delle donne,
da' quali doverò guardarini. K 4 Mer. [ocr errors] Mec. Nella
ventura Conferenza farete istruito in questi. Pub. Bisognerà fargli
conoscere ancora le virtù di esse, affinche fappia difcernere quali siano le
buono. [ocr
errors][merged small][ocr errors][merged small] CONFERENZA VII. Sopra i difetti, e le Virtù delle donne.
Sempronio , Medico , Mecenate e Publio , M Sem. I
persuado Dottore, che niuno meglio di voi conoscerà les imperfezioni delle
donne , effendo voi meglio di ogni altro informato de' naturali, e
tempera menci loro. Med. Secondo il parere di Democri. to, le povere
donne soffrono , per cam gione dell'utero, seicento mali di più degli uomini ;
come si legge nella lettem ra da esso scritta ad Ippocrate', over Sexcentum arumnarum
mulieri auctorSem. Io non voglio sapere da voi li mali dell'utero, ma bensì
quelli dell'animo, non quelli, che sono ad effe di moleftia, ma quei che
possono altrui ancora nuocere, conforme sono i loro vizj. Med. Di questi
ogni uno, che per qualche tempo le abbia trattate , ne può effere bastantemente
informato . lotor110 poi al temperamento delle donne, vi poffo ben dire, che
una volta fu promossa questa gran disputa ; qual foffe più caloroso, l'uomo , ò
la donna, e dipoi essersi molto dibattute le ragioni dell'una, e dell'altra
parte, fu detto, che quando la donna non fia di temperamento più caldo di
quello dell'uomo , non si possa mettere in dubio che non sia più callida di
esso ; cioè a dire più astuta Pub. L'aluzia però, quando non è maliziosa,
c fraudolenta, non entra tra i difetti deteftabili; dicendo Teren. zio in
Andria i Aftutum fallere difficile eft. [ocr errors] [ocr errors]
201 [ocr errors][ocr errors] Onde questa può ftimarsi avvedutezžas,
Jodata dall'Ecclesiastico al 19. Aft ut us agnoscit fapientiam. Mec.
Nelle donne però farà sempre detestabile, non essendo quefte fcarse
di malizia, e d'inganni, al parerc di Se1 neca in Hippolyto :
1 Sed dux malorum foemina , d fcelerum artifex, E di Plauto in
milite: Quid pejus muliere ; atque audacius? Quid? Nibil. Ed
ARIOSTO così ebbe a dire di effe Non siate però tumide, efastofe +
Donne per dir,che l'uom fia vostro figlio," Che dalle spine nascono
le roje, E d'una ferid'erba nafce il giglio. Importune', Superbe , e
dispettose Prive di amor; di fede , e di consiglio; Temerarie ,
crudeli, inique, ingrate, Per peftilenza eterna al mondo nate.
Pub. Piano di grazia , Mecenaco; cliente perche parlando in tal guifa',
correcc pericolo di essere lacerato dalle donne come fucceffe ad
Orfeo, di cui parlaw Platone dell’ACCADEMIA ne' suoi simposj. CONVITO. Per
tal unas, che sia stata cattiva tra effe , con questo vostro modo di parlare
cosi generale, pregiudicate a tante illustri femmine degne di eterna memoria,
anzi che as vostra madre medefma, e con essa a voi ancora. Leggere,l e opere di
Pisana, è di Marinelli, che troverete ivi, quanti più iniqui, escellerari
uomini vi sono stati, che donne; onde ci comple stare cheri; e tanto
maggiormente, che le donne cattive, fono appunto come le vipere, le quali, sc
non vengono compresse, o con altri modi irritate, non mordono già , nè
avvelenano; ina gli uomini perverfi, non sono già così, assomigliandoli al lupo
quel detto greco: homo homini lupus: da cui non giova punto l'allontanarsi;
perche ello va cercando di danneggiare. E parliamo con tutta sincerità; avete
voi veduto mai alcuna donna andare di. predando i. paffaggieri per terra, ò per
mare, conforme, fanno gli uomini E giacche avere apportato l'ARIOSTO con
[ocr errors] 1 [ocr errors][ocr errors] tro di esse, perche non riferite
ancoras el ciò, che dice a loro favore? che apporDe tai nella conferenza
quinta, ch'è appunto: E di fedeli , e caste, Saggie, e forti State
ne fon ne pur in Grecia, e in ROMA; ti Ma in ogni parte , ove fra gl'Indi,
6 "gl’orti Dell'Esperide il fol spiega la chioma, Delle
quai sono i pregi, e gi’onor morti, Si ch’appena di mille una fi noma,
E questo, perche avulo hanno a lor sempi Iscrittori bugiardi,
invidi , empj. E finalmente doverebbe bastare ciocche dicono Socrate, e Platone
di esse per frenare la lingua di chi ne dice male, 1 cioè, che sono
capaci molce di effe d? amministrare la republica ancora. Mec. Bisognerà
dunque credere, che le donne non abbiano difetti, per non pregiudicare a
qualcuna, che tra esse fia ed Itata buona? Pub. Io non pretendo difendere
les cattive , ma fulamente cancellare lo buone del numero di queste, nè
voglio fcu 1 scusare i vizj, chc insidiano le donne ; ma se
le Virtù non isdegnano di accompagnarsi con effe, come posso tenerle çelate in
pregiudizio di cante? e precisamente di quelle di cui l'Ecclesiastico. ne fa
gloriosi encomj,chiamandole : Lucerna splendens ; columna aurea super bafes
argenteas ; fundamenta æterna: Laonde , Mecenate, non dobbiamo in conto alcuno
dir male delle donne; poffiamo bensì censurare quei difetti, che le
perseguirano; perche facendo in tal guisa non fi potranno dolere di noi le
buone , le quali non danno a' vizj ricerto; no tampoco, se taluna cadeffe a
darglielo, farà contro di noi risentimen. 10 alcuno, per non dichiararsi da se
medelima viziosa : e regolandoci con que. Ita norma faremo conoscere, che non
odiamo le donne, ma bensì quei vizj, che da loro medefimc debbonli odiaren come
loro capitali nemici. Sem. Iftruitemi dunque, Mecenate, sopra questi
vizj, scorgendovi molto informato di effeMec Di alcuni ne fono informato; ma
cutti tutti io non li so: perche mi fido' guro che siano tanti appunto, quanti
so. i no i caratteri Cineli: vi posso riferire li più principali , che
doverebbe fapere ogni marito, per potersi ben regolares scorgendoli nelle
mogli. Il primo di questi è la Vanità, la quale ha un gran i seguito di
altri vizj, a se fubordinati, mà cominciamo ora da questa, che die ď poi
parleremo degli altri. Sem. Che cosa è precisamente, ed in che consiste
questa vanità? :) Mec. Credo, che fia un vižio, tanto in esse, quanto
negli uomini effeminati, diretto a procurare ftima maggiore, che competa loro
in genere di bellezza. Sem. Spiegatevi di vantaggio affinche possa comprendere
meglio quanto avete detto. Mec. Ciocche dilli mi pare chiaro, con tutto
ciò mi spiego più diffusamente, e dico: che se una donna, ò-un uomo effeminaco
deformi procureranno pre all prevalersi di superfui
abbellimenti a fine di comparire belli, pretendendo das ciò ricevere stima
maggiore nel concetto delle persone intorno alla loro bel. lezza. Questi
saranno vani. Sem. Dunque le belle non saranno vane, non avendo d'uopo di
fienili abbellimenti. Mec. Ponno cadere queste ancoras in detto vizio ;
quando paresse loro di non essere tanto belle, che abbiano a rapire il cuore di
tutti, e perciò effe credessero colla vanità di potere diveairvi a quel
segno. Sem. Come fono numerose le donne di questo genio? Mer. Poche
sono quelle, che non lo abbiano ; la moglie di Publio è tras quefte, che odiano
la vanità. Sem. E che! la vostra moglie, Publio, non si ornava, come le
altre , quando è giovane ?: Pub. Si ornava in quella forma, che io
desiderava, a fine di compiacermi, non già per fare pompa di fa con altri. Sem.
[ocr errors][ocr errors] 1 1 Sem. Come vi contenevate per firla di
perseverare in cotal guisa? posciache a alcune per breve tempo
incominciano a farlo, mà dipoi vedendo le altre , che fi adornano,
b-lasciano trasportare dal i mal costume anch'efle Pub. Avevå ella fomma
venerazione alle fentenze de' Santi Padri, ed affinche meglio le comprendeffc,
l'erano da me spiegate : onde adducendole sopra ciò quella bella sentenza di S.
Cipriano, che dice: Non eft pudica, qua affeet at animum altorius movere, etiam
Jalva corporis caftitate ; fi afteneva ella perciò dal vestire con pompa,
dovendo uscire di cafa, Sem. Se faceffero tutte cosi, andrebbe la maggior
parte assai positivamente vestira ; imperciocche li mariti per non u
ispendere, non direbbero già loro, che fi ornassero, e studierebbero
giorno ,' notte fentenze contro la vanità. Mes. Che male ciò apporterebbe
loro 2 Sem, Non altro, che si farebbe di ef fe oggidì poca ftima; essendo
che, chi non fa la lụa comparsa, come le altre, non è punto contiderata. Mec. E
te taluna la faceffe con inde. bitarti, chi sarebbe di queste due più
considerata , la yana, ò la modefta? Sem. Certamente quella, che più di
ornaffe, perche niuna và cercando, come questa comparsa si faccia , effepdo
molto noto quel detto : Unaè bibe'as, quaris nomo, Sedopor. tet babere.
Mec. Si cercano, come anche voi diceste, più i fatti altrui oggidi, che i
proprj; onde per questo motivo yi ammetto, che sarebbe più considerata la ya-na,
che la modefta; e poi quando quefti non si cercassero, non credo già, che i
mercanti vogliano donare il loro; onde dipoi,che averanno aspettato un pezzo,
forzati a domandare giudicialmente il loro nelle publiche udienze vi pare, che
possa stare celato? ell'essere conf. derata in questo modo, vi pare, che posla
apportare decoro, ò vituperio? Pub, [ocr errors][ocr errors]
d Pub. Senza queste vostre rifellioni, di forma cattivo concetto delle
vane solamente a rimirarle, şi era ornata Thamar c deposti avea gli abiti
yedoyili più modefti, e Giuda quando la vide i in quella forma, che
concerto ne fè di effa? Suspicatus eft efe meretricem: Genef. vedere
dunque yoi, Sempronio, come sono considerare le vane da parenti anche più
congiunri? Sem. Dicemi, che altro pregiudizio apporti questa yanicà? Mec.Quando
esce fuori de’suoi limiti, hà due altri vizj, che per l'ordinario
noll'abbandonano, e sono la prodi. galità, e l'impudicizia Sem. Sono
queste certamente due peflime compagne, le quali possono apportare gran male,
infidiando alla roba, ed all'onore; mà è seguitata da alţri vizj? Mer. E
più correggiata la yanità das cu efli, di quello sia un Generale di esser
cito da 'suoi Officiali, posciacche 120 fuperbia, l'invidia, il dispreggio,
l'ineganno, con molti altri di questa perversa natura, a vicende la servono,
onde chi è vana, è anche superba , invidiosa , dispreggiatrice, e fraudolenta,
tramando sempre inganni, e frodi. Pub. In conferina di questo, diffe S.
Crisostomo. In Gen.fim Homilia. A corporis cultu innumera frunt mala ,
arrogantia, que intus nafcitur, defpectus proximi, faftus spirisus, animą
corruptio, voluptatum illicitarum fomes &c. Sem. Questa vanità fino a
che segno potrebbe tollerarsi nelle donne? Mec. Sarebbe certamente
indifcreto quel marito, che non tollerasse alla moglie giovane una mediocre vanità,
quantunquc da questa fi poffa facilinente fare passaggio alla grande ; dee
bensi per tema di ciò egli ftare vigilante, affinche non trascenda questa i
suoi limiti, li quali le vengono prefissi dall'onesto: e lidee questa tollerare
ancora, affinche s'inducano alcune più facilmente a pren. dere marito. Pub.
Sant'Agostino riprese rigorofa men [ocr errors] [ocr errors] mente
Eudicia per voler andare troppo ncgletta nel vestire, e le fè incendere, che
averebbe dimostrata umiltà maggiore con ubbidire a suo inarito , che a vestirsi
di panno vile, per lo spirito di contradizione , esclamando il Santo :
quid absurdius, quam mulierem de bumi. I li vifte fuperbire ? Sem. Come
li conoscerà, che questa trascenda i limiti prefilli dall'onesto a Mer.
Allorche una donna vorrà ricoprirsi di gioje, e di oro, e quello è peg.
gio, senza riflettere se le sue entrate lia- no sufficienti a poter fare
tante spele, venendone di ciò ripresa da Ovidio poe- ta lascivo,
dicendo: Quis pudor eft cenfus corpore ferre Juos? Ed
altrove. Gemmisque auroque teguntur Omnia , pars minima eft ipfa
puellae fui. E Properzio dice anche di più. Matrona incedit
cenfus induta nepatum Pub. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] L 3 Pub. Seneca nella Benef. dice ancora : Video uniones non
fingulos fingulis auribus comparatos; jam verò exerci14 aures oneri ferendo
funt ; junguntur interje, & infuper alii binis fupponuntur Non faris
muliebris injania viros fubjegerat , nifi bina ar terna patrimonia auribus
fingulis pependisent. Ma meglio di ogni alero S. Ambrogio : De Nabut. Ifrael.
cap.s. lo fa capire . Dele&tantur compedibus mulieres dummodo auro ligentur
non putant onera effes fi pretiofa funt: non pusant vincula efi, fi in iis
shefauri corufcant : delectant de vulnera, ut aurum auribus inferatur, do
margarita depen. deant c. E finalmente conchiude . Non parc unt dispendio, dum
indulgent cupidisati. Laonde fantamenre dice l'Ecclefiafte; Averre faciem tuam
à muliere compta. Sem. Må se sarà nobile, non potrà fare di meno,
quantunque le sue rendi. te foffero tenui, di non ornarsi pomposamente,
vedendolo praticare da chi è mcno дobile di ella. Mece [ocr errors]
Mes. Ditemi per cortesia, forle che questa sua nobiltà, senza danaro, potrå fodisfare
il costo di tante pompe? Sem. Mi perfuado che nòsmå pare una certa cosa,
il comparire meno delle alo tre, alla quale, chi è nobile non si può
accomodare. Mec. Anzi queste , per fár comparire maggiormente la loro
nobiltà, non doverebbero soggettarsi a cose vandag per far conoscere inlieme,
ch'essa rin fplenda assai più dell'oro, e delle gioje. Sencite, ciò che diffe a
tale proposito la saggia moglie di Focione ; come riferisce Plutarco nella di
lui vita. Şi trovava un giorno questa illuftre Dama ins conversazione di altre
donne, ornate tutte pomposamentes vi fu chi le disse: perche non era venuta
essa ancor adornata come le altre, cui rispose: che le bastava per ornamento la
virtù di suo marico, al che non seppe che replicare la più curiosa, e vana
delle altre. Pub. A questo proposito dice Aristocile, che il buon
ornamento nelle don ne', non debba già consistere nella pompa, mà bensì
nella modeftia, e nel modo onesto, e decente di vivere ; il quale fu da Aspasia
praticato, come riferisce Eliano , quantunque ella avesse avuto per
mariti due gran Monarchi; cioè Ciro, & Artafferse, ciò non ostante fi feppe
ella così bene guardarc dalla soverchia curiosità, e pompa, che recò am
mirazione a tutto l'universo. Elodando PLINIO (si veda) la moglie di Trajano,
non seppe apportare fatto più glorioso di queIto a suo favore: che di efferli,
come donna mantenuta sempre lontana dallas vanità superflua. Sem. E se
l'entrare fossero sufficienti, potrebbe dirsi vana una, che trascendeffe i
sudet i limiti? Mec. Se la vanità non fosse unira col. la prodigalità,
forse che in questa, se non trascendeffe molto, sarebbe rollera bile, ma il
vizio della prodigalità non le permetterà moderazione alcuna; posciache:
Prodiga non sentit pereuntem fæminas fenfum. E poi credete voi, che'l fine, per
cui fi orna a quel segno, fia sempre onesto? non lo credetre già Seleuco, quel
gran Legislatore de'Locri, il quale fè quefta legge; che non fosse permesso ad
altre donne di ornarsi pomposamente, se non a quelle che volevano amoreggiare,
e fare anche di peggio; e sappiare , che, fù questo un gran rimedio contro la
vanità; posciache divenne quel Dominio per qualche tempo modeftiilimo, spor
gliandosi le donne delle loro fupes Aves pompe. Quindi è, che da saggio padre
operò Lisandro, come riferisce Plutara co, con rimandare a Dionilio tiranno le
preziose vefti, che aveva mandate in dono alle sue figliuole, con tutti gli
altri ornamenti; con fargli incendere; che averebbero più tosto tali ornamenti
viruperato le sue figliuole, in vece di or. narle. Sem. E le ricchissime,
che non soggiacciono al pericolo d'impoverire,perche non poffono fare tutto
quello sfara fo, che bramano? 1 [ocr errors] tutte Mec. Non
tutto quello, che si può, è convencvole a farli. Giovanna di Navarra consorte
di Filippo il Bello, trovandosi in Burges, mortificò molte Dame, che andarono a
visitarla con abiti sontuofiffimi, dicendo loro. Credeas effere in questa città
io solamente la Reging, mà ne trovo mille. Pub Chi brama servirsi bene
delle proprie ricchezze, non dee impiegarle per fodisfare le sue voglie,
ed in cose superflue; dee ancora pensare and quelle, che sono maggiormente
necef• farie, che ornano l'anima, come insegna S. Cipriano dicendo : locupletem
te effe dicis e utere divitiis , fed ad bonds are tes; divitem te fentiant
pauperes &c. Sem. Se taluna fosse deforme , potrebbe ornarli più
dell'onesto per comparëre bella e Mec. Faccia pure quanto può la deforme,
che fempre scoprirà di vantage gio la sua deformità; e guai a quelles, povere
damigelle, che vi harno a conbattere, perche rimirandofi allo fpero [ocr
errors] chio, deteriorare più costo con quelli abbellimenti,
che li pongono, si per- suadono, che per difetto di effe ciò deo
tivi', non sapendo bere addattarli, ed a questo proposito cosi
parla Giove- nale, Quid Pfecas admifit , quænam eft
culpa puella Si tibi difplicuit nasus tuus? Sem. Consideriamo i
sarti quanti rimproveri riceveranno di vantaggio Mer. Vi fù uno di questi
gli anni scorfi, che avendo portari alcuni abiti ad una ricca, e deforme, ed
allorche se li provava , diffe, che non erano ben fata ti; perche non le stavano
bene al viso ; quel povero uoino vi ebbe un pezzo fof. ferenza, må alla fine le
disse: Signora io gli ho fatti a misura della sua vita , alla quale vanno
benissimo, non già del suo viso; onde questa non è colpa mia , mà deila natura,
se non stanno bene ad effo. Sem. E le brutte, è belle, che siano
adoperando i bellectiglo fanno per vanitá a Moc. Mec. Questo certamente è
molto dubioso; posciache, se lo fanno per essere stimate più belle,
s'ingannano, mentre ogni uno, che le rimira, le tienes per copie mal dipinto,
non già per ori . ginali, e voi sapete ; quanto lieno più timati gli
originali delle copie, quantunque pajano ben colorite; e poi quel mal odore,
che tramandano quegli unguenti posti sul viso, come le possono rendere amabili?
ed udite Plauto, come ne parla, Vei fefe sudor cum unguentis fociavit
illico, Ibidem olent, quafi cum una multa jura confundit coquus, Quid
oleas , nefcias ; nifi id unum male olere intelligas. E Giovenale così
dice: Interea fæda aspectu , ridendaque's multo Pane tumet facies, aut
pinguia popeana Spirat, hinc miferi vifcantur Labra marici. Ed in
appresso; Tal Tot medicaminibus, coctaque filiginis Offas
Accipit , & madido, facies dicetur anni ulcus? E guai a queste
se intervenissero al giuo, .co, che inventò Frine, riferito da E rasmo lib. 6.
Apophtegn.pofciache si troverebbero confufe, e mortificate. Ef sendo ella in
conversazione di donne; tra quali ben si avvide effervene non poche bellettate
, introdusse il giuoco del1e penitenze, uscendo a forie chile doveffe
comandare; e toccando a lci, ordinò, che fosse portato un gran carino pieno d’acqua,
e che ciascuna dovesse ja varsi il viso, come ella faceà ; 'non poterono le
altre scufarfi, effendoli'impegnate ad ubbidirç, e ne seguì da ciò tal
metamorfofi,che li domandava il nome ad alcune non riconoscendosi più per
quelle , ch'erano prima. Pub. Bisognerebbe , che leggeffero S.Ambrogio :
Examer. per illuminarsi, ove dice: Deles picturam' mulier, f vultum tuum
materiali candore,oblinius, fi acquifito rubore perfundas : ila la pi&tur a
via, non decoris eft ; illa pi. Eura fraudis , non fimplicitatis eft ; illance
pictura temporalis eft, aut pluvia, aut Judure fergiiur : illa pi&tura fallit,
de ripit, ut neque illi place as , cui placere de laderas , qui:nielligit
non tuum, fed alicnum effe, quod placeas, & tuo displiceas auctori , qui
vidiet opus fuum efl deletun; ed apporia inoltre, lib.i. de Virginibus, un
dilema affai calzante a questo propofito, dicendo, fepulchra es, quid
abscomderis? fi deformis, cur te formosam effe mentiris? neç tud conscientia,
nec alieni gratiam erroris habitura? Şem. Lo faranno çalvolta le bruite
per ricoprire ļa ļoro deformità. Mes. Quanto s' ingannano queste;
posciache in vece di ricoprirla più costo in tal guisa la rendono palese a
tutti; cfsendo che non potendo mai fare in modo, che non si conosca ciocche di
più del naturale si sono poste sul viso, das Joro medesime si discuoprono per
defore mi, çon pregiudizio anche delle bells, Şe [ocr errors] [ocr
errors] se ciò facessero; perche saranno queste ancora credute di ayere difetti
tali, che abbiano d'uopo di essere ricoperti; E se poi la deformità proveniffe
dall'improporzione delle parti, che non è male da biącca, come la potranno
rimcdiare? posciache converrebbe in tal calo inventare il modo da profilare
mcglio il naso, ristringere la bocca, e di slargare la fronte, ed a questo non
potendo ațrivar esse senza maggiormente deformarli, perche dunque li pongono a
garreggiare col Divino Artefice, che così le formò per fini a lui ben
ooti? Sem. Hò udito però, che quelle, che cadono in fimile errore, sia
impoffibile, che possano più aftenersi dal non farlo, e queste in che modo le
coayincereste Publio? Pub. Sono certamente infelici quelle donne, che non
piacciono a se medefime, come disse S. Cipriano , de Bon. Pud. femper eft
mifera, que non fibi places qualis eft. Onde queste difficilmense potranno
convincerli; con tutto ciò, quan: Tollens ergo quando' mai
godessero un momento di mente tranquilla , domanderci loro, se amano più la
bellezza dell'anima, è quella del corpo, e dicendomi, come è più verifimile ,
ch'amino più quella dell'anima , apporterei loro ciocche dicc S. An:brogio: in
Examer 6. cap. 8. ergo membra Ch ifti faciam membra meretricis? Abfit,
quod fi quis adulteret opus Dei; grave crimen admittit , grave eft enim crimen
, ut pures, ut melius te bomo , quam Deus pingat . Grave eft , ut dicat de te
Deus, non cognofco 16lores meos , non agnofco imaginem meam, non agnofco
vultum, quem ipse" formavi, Rejicio ergò quod meum non eft , illum quare,
qui te pinxit , cum illo habeto confortium , ab illo fume gratiam, cui mercodem
dedifti. Quid refpondebis ? ed udite ancora quanto lo detefta S. Cipriano de
Habit wirg. Manus Deo inferunt quando illud, quod ille formavit,
reformare, transfigurare contendunt , nefcientes quod opus Dei eft omne
quod nafcitur:Diaboli, quodeumque mutatur ac, tu te exi, Jimas impunè
Laturum tam improbare meritatis audaciam Dei artificis offenfama Ut enim
impudica circa bomines, du inn cefta fucis lenocinantibus non fis ,' corruptis,
violatisque, qua Dei funt péjor adultera derineris dc. Sem. Quelle, che
fi bellettano, mi persuado certamente, che non averanno uditi gliaccennati
sentimenti di queisti Santi; perche in verità, sc riflettes sero attentamente a
ciò , che questi di cono, fi alterrebbero dal farlo; mà vor: rei sapere in
oltre da voi, Dottore, se pollano queste lordure, che si pongor Ho le donne sul
viso, essere di nocumento alla loro salute? Med. Sono senza dubio molto
dannosi; perciocche se il tingerfi solamenrei capelli ha apportato a molte la
mor- to, come riferisce Gal. de comp.medic. fec. locos , cap.3. de tinet.capil.
oye dice: Non folum enim in periculo verfatas fape frio -fæminas ; fed mortúas
ex perfrigeratione capitis per hujufmodi pharmaca induéta , Ed Aczio parimeate
afferisce di averne vedute morire alcune per tale cagione apoplettiche, e
tabide; quanto più facilmente potranno es. fere danneggiate da cosmetici , ne'
quali entra il solimato? E posso io asserirvi di avere veduta più di una di
queste divenute , ò asmatiche, ò apopletriche, à paralitiche, ò idropiche in
érà proverra; senza poi quel danno, che suode recare in gioventù a tutte , ne'
loro denti ; e gignive; nè preftino fede a coforo, che fabricano belletti,
quantun. que dicano di averli fatti fenza folimato, poiche le gabbano.
Sem. Si che dunque aon gioveranno ne per l'anima, ne per il corpo? Mas come si
doveranno regolare i poveri mariti , fe queste fi oftinaffero in voleres tutte
le cose alla moda 2 Mer. Io non farei altro, che spiegare loro i seguenti
vèrsi di Properzio ar. vocato di effe : Quid juvat arnato procedere vitta
ca pillo Et tenues Cos vete movere finns? Aut quid orontea crines
perfunderes mirra? Teque peregrinis vendere muneribus? Naturęque
decus mercato perdere cultu? Nec finere in propriis membra nitere
bonis estir's Ed altroye: Nunc etiam infectos demens imitance
Britannos Ludis, o caterno gincta colore caput, E soggiunge : Ut natura
dedit, fic omnis recta figura, Turpis Romano Belgicus ore colar E Plauto
ancora, che pone in derisione queste tante variazioni di mode : dicendo
in Epidico Quid ifta ? Quo quotannis nomina in In veniuntur noua Tunicam
rallama tunicam spilam Linteulum, Cæcisium, Indosiatam, Palegiatam.
Calšbulan, aut Crocotulam. er. Pub. Allai meglio facente, Mecenate,
a fare intendere loro ciò che dice San Cipriano dihi de babitu Kirginum ;
ovewi . Ceterùm fi tu te fumptuofiùs cumas, per publicum notabiliter
incedas , oculos in se juventutis illícias', fufpiria adolefcentum poft te
trabas , concupifcendi libidinem nuFrias, peccandi fomitem yuccendas, ut fi
ipfa non pereas, alios tamen perdas, velut gladium te, du venenum videntibus se
prabeas * excufari non potes , quafi mente cafta fis, do pudica s redarguit te
cultus improbus id impudicus ornatus , conforme lo fa conoscere Aufonio in
Delia, od ei Delia, nos miramur ,'eft mirabile, quod tam Diffimiles eftis
ruque , fororque túa ; ?> Hæc habitu casta, cum non fit caffats videtur, Tu
preter cubium nil meretricis habes. Cum
caffi nores sibi fint , buic cultus honeftus, Te tamen, cultus damnat,
caftus cam. Sem. Parfando ora all'ira , queltas noir mi pare, che
abbia tanto dominio i nelle donne, quanto negli uomini, aven do
[ocr errors] do veduto adirati più questi, che quelle alcune volte, che mi sono
abbattuto seco in Gimili contingenze. x Mec. Non doverebbero certamente
le donne adirarfi ; pofciache divengono allora talmente deformi , che più non
si riconoscono , .quanto mai li erasfigurano; onde avendo effe in orrore la
deformità, doverebbero anche odia. re la cagione di essa ; Ma yoi , Sempro,
nio, le averete facilmente trovate in bonaccia, non già in tempo di furore ; e
perciò dite, che vi pajono gli uomini più colerici di esse; fe però vi foste
abbattuto nel vedere adirata Ja moglie di quel povero, Grammatico riferito
lepidamente da Ausonios diversamente para lcreste ; mentre di essa cosi dice:
Anma', virumque docens, atque arma virumque peritus. Non duxi uxorem ,
fed magis arma do 1 Namque dies fotos y Botafque ex ordine ! noctes.
Liribus oppugnat a, meques meumque Ata [ocr errors] M 3 giam
! Atque , ut perpetuis dotata à Marre duellis risin Arma in me
follit , nec datur ulla quies: Jamque repugnanti dedam me, wide
nique victum Jurget ob hoc folùm, jurgia quod fuOltre di che Salomone, che non
'mentisce, dice ancora: non eft ira fuprà iram mulieris. Sem. Non saranno
però ofinate les donne, che averanno i marici più rifenciti di effe , e non
tanto buoni, come era il sudetto Grammatico? 0:0, Mec. L'oftinazione alle
volte liavanza tanto in effe , che le rende incorre. gibili, come comprendercte
ancora dal feguente avvenimento riferito dal Poga gi. Vi fu una di queste» che
dopo ave. rc ricevuto moltisms bastonate da fuo marito, non potendola far
ritrattare dall'ingiuria, che gli facea, chiamaadolo pidocchiofo,la calò anche
nel poz .30, fin tanto che poteva parlare sem.. pre [ocr errors]
pre fu percinace nel medesimo disprego gio ; finalınente, avendo anche la te.
ita fommersa nell'acqua, colle unghie de deti grosli soprappoftę gli faceva
cenno di quello , che averebbe colla voce pronunziato, se avesse potuto Oltre
di che il vizio della vendetta facilmente di collega con esse, dicendo:
Giovenale: Vindicta Nemo magis gaudet, quam femina. Sem. Le finzioni,
e le menzogne and che segno s'internano acll'animo dona, nesco? Mec. Nelle
donne scaltrite più affai, che nelle milense: Ben è vero però, che se
s'incontreranno in mariti accorti, apporteranno loro gran danno le proprio
finzioni, e menzogne; come appunto seguì alla moglie di Teodofio à allas quale
avendo egli donato un pomo di eccessiva grandezza, volle ella gratifi care con
esso uno de principali Signori della corte, il quale due giorni dopo mandollo
in dono all'Imperatore; quantunque mostrasse apparentemente di gradirlo n'ebbe
per ò egli intern rammarico;perloche essendo cornato dipoi dall’Imperatrice,
domandandole, se riteneva più quel bel pomo; gli rispose, che lo aveva
mangiato, ed avendola pregata, che avesse fatta matura riflessione a quanto
diceva, ella ostina. tamente confermava il suo derto; allora l'Imperatore per
convincerla lo fè portare in sua presenza, ele disse: Voi Giete una finta donna
; ne mostrò in av. venire feco più confidenza. Sem. Hò uditi con molto
mio rammarico i difetri donnefchi; consolatemi ora voi, Publio, con riferirmi
le Virtù delle donne, ed in ispecie qvelle, che ponno apportare profitto alli
mariti. & Pub. La Prudenza, e l'Amore Gince. ro sono le principali virtù,
che debbono risplendere nelle mogli. Sem. Ma di queste Virtù sono capaci
Je donne? Pub. Non può dubitarf di ciòyinenero le le ftorie non
solamente profane, ma faa cre ancora lo confermano, e presentemente vediamo
anche risplenderé mole cisime di effe con fimili virtù. Sem. Perche
duaque fi dice tanto ma le delle donne Pub. La cagione di ciò la trovo in
Euripide, il quale dice: Miferrimum eft muliebre genus , femel Nam ,
quæ peccant etiam immeritis Dedecorifque funt mulieribus, communicant
vituperium, Mala non malis, Ma questo, e un abuso grande, ed in. giusto
posciache contro di noi altri uomini non si costumà addollarsi a' buon il
vituperio de' cattivi, e qual ragione dunque vuole, che ciò militi contro di
effe ? Ovidio però le difende da tale in. giusta maledicenza con dire:
Parcite paucarum diffundere crimen ist Spectesur meritis quaque paella
fuis. Sem. Voglio credere che donnes prudenti vi siano ffate ayendo
udita rasa omnes: raccontare molci saggi farci delle Porzie,
Cornelie , Paoline, e Paoline, e di altre; Mà di queste , che con amore
sincero abbianoamato i loro mariti vorrei udirne riferire qualche altro csempio
per meglio accertarmene. Pub. Vi posso fodistare in questo picnamente, e
principiando dal grande, e fincero amore', che mostrarono a loro mariti
carcerarile donne Spartane;men. tre queste andando a visitarli li ferono
vestirc de iloro abici, ed effc rimasero carcerate: pafferò poi a riferirvi,
ciocche fè Cabadis Reina di Persia, la quale parimente liberò suo marito
carcerato con vestirâ ella de' suoi abiti, e rima. nere priva della sua libertà
, c vita ancora · Riferisce parimente il Tarcagnota un fatto molto riguardevole
a tales proposito. Avendo ottenuto per capi. tolazione di uscire solamente le
donne dalla città di Vespergia cariche di quello, che più loro piaceva,
abbandonando queste oro, e supellectili preziose, she avevano, trasportarono
sulle spal. le [ocr errors][ocr errors] le i loro più congiunti. Ed
udite finalmencé un esempio singolare dell'amorce sincero di una saggia Regina,
riferito dal Padre Cordier Roberto Re della gran Bertagna si trovava ferito con
una laetta velenata , fu giudicato da’Medici per unico riinedio il farla
succhiare da cui avesse voluto esporre la propria vita, per salvare quella del
Re; la Regina sua moglie fi mostrò prontislima di farlo, ma non voleva in conto
alcuno il Re permetterle, che si esponesse a tal pericolo. Chę fè l'amorosa
moglic ! aspetto, che fosse addormentato, ed allora appunto, sciolta la ferita
, succhiolla intrepidamente, e con tanto felice successo, che rifano il Re,
senza riportarne nocumento alcuno l'amorosa Consorte. Sem. Persevereranno
queste prudenti, ed amorose consorti semipre nella. medesima forma? Pub.
Se faranno i mariti prudenti in faperle bene diriggere, lo fåranto, come
udirete nella seguente ConfeTenzi. CONFERENZA Come si debba regolare
l'uomo colla moglie scelta di ottime qualità. Sempronio,
Publio, Mecenase , e Medico M Som. perfuado, chief
sendo la giovane di ottimi costumi,non civoglia grandparte nel regolarla,
po sciacche da se mca delima sapra ben governarsi. Pub. Non è già
così , Sempronio ; quantunque sia buona, ci vuole anche attenzione in reggerla
, affinche non divenga cattiva , perche conforme fi dice, che prendendo marito,
muci sta10, può anche cambiare costume; im, [ocr errors] L2perciocche il
corso è di molti anni, é fi dee navigare in un mare, nel quale s'incontrano de'scogli,
e continuando la metafora, descrittami da quel vecchio, che la donna sia la
nave; questa quan. tunque non abbia difetto alcuno, da se fola, e senza chi la
indirizzi, a fola di: screzione de' venti , che sono i suoi pen• ficri, non può
giugnere al defiato porto della felicità , onde conviene, che l'uomo faccia da
nocchiere, e non dor ma; quantunque fia bonaccia. Sem. Infegnatemi, dunque come
do. vrò regolarmi, per non errare? Pub. Potrò riferirvila direzione del la
quale io fteffo mi sono servito, eve: drete, fe questa vi aggrada. Sem.
Avendola voi posta in esecuzio. nc felicemente, poffo fperarne anch'io
profitto. Pub. Ebbi alla prima quest'avverte11za di non addomesticarmi
seco in ecceso fo, ma solamente, quanto bastava per -farle conoscere, ch'io
l'ama, c perciò la rispetta, ferviva, ed oporava s mà mà çon tenere
sempre un tale qual den, coroso fuftegno. Procurava in oltre, ché non
iscopriffe il mio debole, c per fare prova del suo afferto, di quando in
quando, mi facea da essa scorgere penberolo, ed alle volte ancora alquanto
mesto: non li assicurava ella di ricerca. fc la cagione di ciòs solameore dopo
qualche giorno, faccosi animo, mi diss fe: Signore, yorrei vedervi allegro,
comc debbono essere i spost ; fe poffo io sollevarvi in cosa alcuna, eccomi
pronta': comandatemi, ed indirizzatemi che non ricoferò di obbedirvi. Mi senti
a tale corcese offerta immediatamente giubilare il cuore, e le rispoli con
faccia ilare : Signora viringrazio delle obliganti esibizioni, che voi mi fate,
u vi afficuro , che me nc prcvalerò, avendomi molto sollevato con questo voftro
corcese parlare : E guitai immediatamente di quella confolazione registrata
nell'Ecclesiastico al 26. Gratia mulieris -Sedula delectabit virum fuum,
copaiba ljus impinguabit. Sem. 6 [ocr errors][ocr errors] Sem.
E se fosse entrata in sospetto , che voi non l'aveste amata? Pub. Questo
non poteva crederlo perche, come diffi, la rispetta, cd onora con particolare artenzione;
cd essendo ella prudente, ben fi avvedeva, che della sua persona era
sodisfattiffimo; sospetta bensì, come mi riferi dipoi, il che da altre
cagioni ciò veniffc; u con bel modo tanto fè, che alla fine un i giorno,
dapoi avere presa meco confia denza maggiore, interrogandomi sopra ciò,
seppe da me la cagione de' mici turbati penfiori; cioè: che questi dcrivavano
dal timore, che io aveva di non cffere ancor baltantemente capace di cducare
bene i figliuoli, e di non sapere mantenere fino alla morte il reciproco
affetto coniugale a quel segno, che fi dovea. Sem. Che rispofe ella? Pub.
Con volto ilare mi replicò, che a questo dovea anch'effa contribuire la sua
parte , ic perciò ca ayefli pur deposto la metà di detti pensieri, ch'erano
tuoi. Sem. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se vi aveffe
risposto; penfiamo ora a darci bel tempo : figliuoli non po abbiamo quando
quefti nasceranno Gi farà, come li potrà, non ci contriftiamo ora di quello,
che non è presente. Pub. Non fi parlava così in quei rempi, ne' quali il
divertimento non erao anche divenuto affare creduto rilevan. te, ed essenziale,
che richiede sfe giornata intera ; era bensì creduco effenziale il provedere
quanto faceva d'uopo, ed il prevedere ciocche poteva fuccca dere. Sem. Vi
manrenne la parola data di sollevarvi , quando sopravenne il bisagno Pub.
Fè anche di vantaggio, pofcix che fcoperto ch'ebbi il suo buon animo, un giorno
così le parlai: Signora mia, voglio, che camminiamo di buon conia certo in
reggere la casa ; abbiamo tansto assegnamiento, che può bastare as Amantenerci
nel nostro stato decorosamente ; pofliamo tenere tre fervitori, due per lei, ed
uno per mc , una ser [ocr errors] vente, ed una matrona, ed avere
la noftra carrozza, che serve ad ambiduc; of dividiamo ora l'incumbenza:
voi pen+ ferere alla tavola, alle biancherie, ed io al rimanente;
dell'esazioni voglio ne fiare anche voi consapevole per vom ftro
governo ; ficcome ancora dell'esito, per caminare di buon concerto tra
noi nello spendere: debiti non voglio ne facciamo, nè avanzi
considerabili fino a tanto, che abbiamo l'assegnamento fiffo , c non
amministriamo tutte le rendite; e basterà, che solamente poniamo da parte
ogni anno qualche cosa, per fupplire alle stagioni fterili, alle
ritardate rescoffioni, ed alle spese straordinarie, per non ritrovarci allora
bilognosi di danaro: All'educazione de'figliuoli penseremo concordemente, allorche
Iddio li manderà. Sem. Ed essa accettò queste brighe? Pub. Anziche mi
ringraziò; mostrandofi contentissima, per averla pofta a parte del
governo. Sem. E se aveffc risposto; io non vo- glio ingerirmi in questo
affare ; pensateci voi, col maestro di casa; perche non voglio prendermi questo
tedio? Pub. Sarebbe stata troppo ardıca simile risposta in quei tempi, ne
quali crano molto rispettati dalle mogli i mariti , contentandoli vivere
subordinate ad effi, e non succedca già come dice l'Ecclefiaftico. Mulier si
primatum babeat, contruria eft viro fuo; perche qucfta maggioranza non la
godevano. Sem. Mà come riusciva in quelle cose , che le toccavano di
fare? Pub. A maraviglia bene; posciache aveva la matrona, ch'era donna
savia, e consigliandosi con essa lei, divenne in breve tempo espertisfima in
tutte quelle cose, che le appartenevano. Sem. Chi potrà trovare oggidi
quefta matrona non costumandosi più tal servigio? e poi quando anche si
trovassc, diventerei ridicolo, se prendesi, per servire mia moglie, la matrona.
Pub. Perche ridicolo? forse che fa. rebbe cosa mal fatta? Som. [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Sem. Non
dico mal facta , mà effendo in disufo , farebbe segnato a dito, chi
l'introduceffe. Pub. Mà da chi? forse da' savj, u prudenti? Sem.
Non credo da questi ; mà bensi da tutti quelli, che non costumano te.
nerla. Pub. Or io di questi non mi prendcrei soggezione alcuna; mi
dispiacereb. be bensì , che i savj biasimassero le mie operazioni; imperciocche
possono farvi altro dispetto costoro,che non son savj, che di non conversare
con esso voi? E che perdita da ciò riceverefte? ogni qual volta questo
provenga, non per cagione di cosa malfatta, mà più tosto decorosa, ed onesta,
che sono vantag. giose per voi ; nel qual caso efli li renderebbero meritevoli
della censura de' savj. Io vi poffo ingenuamente confessare, che se non fosse
stata in cafa mia la matrona, che avesse indirizato da pria. cipio la mia
consorte, non averci già goduta quella tranquillità di animo fpe [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] rimentata fino al presente; posciacche questa
matrona essendo nata civilmente, e così ancora trattata da me, dando alla mia
conforte buoni conligli, la istruiva ottimamente, e perciò non vi è stata
occasione alcuna di discordie tra noi; il che non sarebbe già seguito, se fi
fosse configliata con qualche donnas ordinaria, e giovane, da cui facilmente
pellimi consigli averebbe ricavati. Sem. Questa matrona itava al fervia
gio attuale? Pub. Quantunque fosse falariata, era però distinta dall'altra
donna, che mi serviva, e faceva molce cofe spontaneamente di più di quelle, che
le toccavano, per l'amore, che portava alla casa, ove sperava terminare i suoi
giorni; non costumandofi licenziare queste , fe non per cagioni assai gravi, le
quali raro volte accadevano ; e quando la Signora partoriva , essendo
pratichisimas; non li può esprimere , che aflistenza le presta in tutto quello,
lc occorre; ed in tempo di malattie cra singolare; 2 re; oltre di
che nell'educare bene i figliuoli, e le femine in ispecie, cra mol. to
eccellente, sapendosi far amare, a rispettare insieme: or vedere voi quali
danni ha apportato privarsi di effe. Sem. Mà perche è stato dismesso si
buon fervigio ? Pub. Io precisamente non lo sò, può essere, che sia noto
a Mecenate. Moc. Io ho udito riferire più voltes che queste volessero
fare troppo lezelaati, e perciò fi fia verificato in esse la favola di Efopo,
ove parla del trattata di accordo fatto tra il lupo, e la pecor ra,contro la
soverchia custodia de' cani; e per verità, vi erano alcune, di esse, che
facevano la guardia alle figliuolo più di quello , che facciano i cani alle
pecore; -mà questo non era motivo fufficiente per dismettere un servigio
cotanto utile al decoro, ed onestà dellas casa, conosciuto ciò, anche da
Tibullo quantunque molto lascivo, mentre egli consigliò: At tu casto precor
maneas, fanétique pue Aft [ocr errors] dorisa N3 Affideat
cuftos fedula femper anus. Sem. Come regalavate, Publio, fperso la vostra
sposa? Pub. Oltre le mancie solite del Natale, e del giorno mio natalizio,
che consistevano in dodici piastre per.volta, e quando si riscotevano grosse
somme, fempre qualche moneta di oro le davas, perche mi è piaciuto , ch'ella
'manegiafle danari. Sem. E che ne faceva. Pub. Quando arriva a
cumulare la somma di cinquanta scudi , creava un cenfo, e la metà del frutcabo
di effo dispensava a poveri, c fi verificava in lei ciò, che dice Salomone
delle donne savie: Manum fuam aperuit sinopi , & palmias suas extendit ad
pauperem , dell'altra si serviva per vestirdi:. ;1 Sem. E le fpilte non se
l'era riservate ne' capicoli matrimoniali? LifPubi Questo non costumava allora
non facendofi tanto consumo di effe,come 'oggidì, che liveste alla moda. Sem.
Eche a non fi vertiva alla moda in quel temposPub. Si vestiva all'usanza
propria det [ paese, quale era di non cangiare sì di sovente, quella, che
correva. Sem. Non è questa la vera moda, mà bensì quella, che oggi si
porta da paeli stranieri, ed indi a pochi meli, venen, done un'altra, la prima
non si usa più , perche le ultiine sono quelle , che dilectano, ed appagano gli
occhi . Pub.E degli abiti di vecchia moda anche in buono essere che fe ne
fa? Sem. Si esitano a quel prezzo, che fi trova, e con discapito
grandissimo, Pub. Come costa questo vestire all? ultima moda, perche io,
che vivo all antica, non ne sono in formato? Sem. Costa assai per verità,
essendo che bisogna pagare sempre di più del suo valore quel drappo di nuova
moda; mà ad alcuni ciò non da fastidio, perche i mercanti sono cosi cortesi',
che lo danno in credenza. ti ''p Pub. Questa , per parlarvi con tutta
fincerità, mi pare la vera moda diandare in malora; perche estendo sì
cari, Conf. Dec. prima ed il mercante volendo alla fine essere pagato, che
si farà allora, non essendovi danaro per sodisfarlo? Mec. Si mucerà paese,
e per verità quando questa nuova moda non era tanto in uso non si vedevano già
i galant' uomini, divenuti per essa miserabili, nè mutare paese, essendo per
loro poco sicuro quello, ove vestirono a tutta moda. Sem. Con chi
coversava la vostra fposa? Pub. Con i suoi parenti più proflimi , li quali
in giorni festivi, in occasione di male, ò di altri bisogni venivano as
visitarci, ed altresì noi con effi loro facevamo. Sem. Ma non recavano
noja fimili conversazioni Pub. Anzi erano di sollievo grandislimo;
essendoche i capi di casa fi ritiravano in disparte a difcorrere fopra gť
iatereffi domestici; consigliandosi tras loro, per meglio regolarti, nel far
colcivare la campagna, ne irinvestimenti da da farsi, e nel governo
economico della casa: le donne poi colli ragazzi, ftavano divertendosi tra
loro. Sem. Ed in che? Pub. Nel domandare, che profitto facevano i
figliuoli, che belli premj avevano avuti da loro maestri, e come fi portavano
le figliuole ne'loro lavori, i quali bene spesso portavano seco queste, per
farli vedere ; e ciò serviva per eccitar emulazione tra elli a portarli
meglio in avvenire, lodandosi, e premiandos ancora chi s'era portato
benc. Sem. In detto tempo a costumavad giocare? Pub. Questo non fi
fa, eccettuato, che in tempo di carnevalc. Sem. Si giocava alle ombre in
detto tempo? Pub. Questo si costumava; posciache ove si giocava, non vi
era Sole. Sem. Voglio intendere colle carte di fpade, bastoni, coppe, e
danari. Pub. Queste ne pur si conoscevano in quel tempo da esse, e se
l'avessero co no [ocr errors] nosciute, non averebbero giocato con
carre tantó-misteriose, le quali fanno vedere , che le spade, i bastoni, e le
coppe , malamente adoperate consumano tutto il danaro. Sim. Ele conedie li
udivano allora? Pub. Queste erano frequentare', ò'da curiofi forestieri, è
da paesani ožiofi per alcro le donne se n'altenevano; e se non era più,
che qualche rappresentazione facra, fatta di giorno, avevano rossore di
comparirvi. Sem. Eli passeggi si costumavano ins quel tempo? Pub.
Passeggiavano ancora, mà per essercitare iutto il corpo a beneficio della
salute , non già come si fa oggidi, per 'indolirli folamente la schiena , a
cagione di tanti inchini, che Gi fanno, fenza muovere un paffo. Sem.
Lecafe, come erano bene a dobbate Pub. Asai meglio', che non sono adesso,
rimirandovisi appcfi nelle pareti di effe akuni quadri di carte', ches
er [ocr errors][ocr errors] ga in erano le piante delle tenute, che
si possedevano,dalle quali & ricavava groffi ffimo frutto, ed allora non vi
era tanto luffo; poiche loro, ch'oggidì s'impie in apparenze superflue
d'indorature, e nelle vanità alla moda, fi ipendeva in quei tempi assai meglio
in compre diterreni, e di alcre cose fructifere. Ne si commettevano già furti
di piatti, fottocoppe , bacili, candelieri, ed altri vali di argento ; perche
questi allora. erano. assai meglio custoditi ; effendo pochi elli, che gli
aveano, e perciò di rado ancora venivano adoperati. Sem. Sapete Mecenate, che
mi crovo confuso a cagione di questo racconto fatró da Publio, riflettendo a
ciò, che sarebbe più utile , mà non lo potrò seguitare, per il diverso costume
introdotto oggidi; e dichiarandomi volere vivcre così, non troverò moglie;
dall' altro canto a seguitare il modo, che si tiene, sono arrivato a
comprendere , che è molto dannoso per cutti i verfi. Dunque che dovrò fare? Mec.
Di non isbigottirvi punto per qucsto. Scegliete voi il modo, che credece
migliore, e dichiaratevi pure apertamence , che questo volete seguitare e
troverete ciò non oftante moglie, u forse senza d'uopo di ricercare tanto al
minuto il costume; posciache quelles giovane,che si contenterà di essere
tratcata in questa guisa , sarà certamente fac via, e bene accostumata.
Sem. Mà se le altre non la vorranno trattare per non seguitare ciocche effe
fanno, come si troverà? Mec. Che pregiudizio risulterà a voi & ad effa
da questo, che farebbe la voftra fortuna? anzi voi medelimo lo do. vreste
procurare, affinche non la deviaf. sero dai suoi doveri. Sem. Or io così
farò, e dica ogn'uno ciocche vuole ; perche hò uditi molti mariti sospirare
frequentemente; da che provenisse questo, non lo só precisamente, sò bene, che
senza cordoglio non ti sospira . Or ditemi , che altro doverò fare per
mantenerla costante nel fuo [ocr errors] suo buon costume?
Pub. Nun altro, che di non darle al. cun mal'esempio, e di tenerla
continuamente occupata in devozioni; affari do. mestici; e nell'educazione de'
figliuoli; perche la vita oziosa è pessima, dicenda l'Ecclefiaftico: Mitte
illum in operationem, ne vacet; multam enim malitiam docuit otiofitas. Sem.
Come mi dovrò contenere intorno alla devozione? Pub. Le darete in questo
voi huono esempio, conforme richiede l'obligo voltro ; imperciocche tanto io ,
quanto la mia conforte cravamo favoriti dal medesimo direttore spirituale , c
trequentavamo sovvente le nostre devozioni; la sera poi colli figliuoli, e
servitù fi recitavano alcune preci, e li leggevano anco libri fruttuosi per
l'anima, ed in oltre da noi si sovvenivano bene spelso i poveri, e da ciò ne hò
ricavato quel bene, che si trova registrato nell'Ecclefiaftico: Mulieris bona
beatus Vir, numerus enim annorum illius duplex. Sem. In che altri affari
domestici la tenevate occupata? Pub. Effendomi avveduto, ch'aveya
desiderio di copiosa biancheria , ordinavo, che fossero proveduti nelle fiere
canape, lini, e cottone, é vedendole si rallegrava molto, e li faceva filare, e
reffere a suo modo; e ciò per verità la teneva impiegata qualche ora del giorno
, ingegnandosi ancor essa di filare , ò d'inaspare; e facendosi le bucate in
casa, rinnacciava a maraviglia, quanto ne aveva bisogno, affieme colla matrona
; ed io rimirandola cosi diligente ne godevo fommamente, vedendo verificarsi in
essa quella condizione ancora di donna saggia, descritta da Salomone: Quafivir
lanam, d linum, operara eft confilio manuum suarum. Sem. La conducevate in
Villa? Pub. In certe belle giornate lo praticavo; anzi che le faceva
vedere le nostre tenute, e tutti quegli stabili, che la casa godeva in
campagna, con istuirla ancora, sopra quello che si poteva fars [ocr
errors] fare di van aggio, per renderli più frutriferi; sopra di che ne
ricercavo ancora il suo parere, da poi che la vidi ben, informata di
tutto Sem. E qual bisogno avevate di configlio donnescovoi, che fiece sì
esperto in tali affari? Pub. Il prendere consiglio giova agli inesperti,
e non pregiudica mai a i pratici; e poi sapere voi il mio fine qual’ era:che,
se Iddio mi avesse chiamato a se prima di essa fosse riinasta informata. di
tutte le cose: e sappiate, che le povere vedove sono gabbate da loro miniftri,
quando non si trovano informace degl'interessi domestici; il che non legue già
allorche fanno ciò, che debbas farsi. Ne crediate già , che sia cosa im,
propria alle donne d'essere informate della campagna, ponendo tra le condizioni
di saggia donna Salomone anche questa: Consideravit agrum, a emis eum: De
fructu manuum fuarum planiavit vineam. Sem. Nell'educazione de'
figliuoli, che [ocr errors] che diligenze usavate Pub.
Eravamo tanto io, quanto essas attentiffimi a tutte le loro operazioni, per
poterli di ogni minimo difetto correggere da principio; eflendo che le piante
velenose fi svellano alla primas con facilità grande dalla terra,mà allorche
sono ben radicate v'è d'uopo di maggiore facica. E riflettendo che tanto si fà,
e quanta industria si pones per ridurre docile un cavallo da maneggio, mi pare
che questa sia più necessaria d'impiegarla a pro de' figliuoli, da quali
vantaggi maggiori si ritraggono senza fallo, che da cavalli. Sem. Come
viriusciva facile il correggerli? Pub. Per verità facilisimo, perche erano
docili; e questo beneficio l'hò riconosciuto dal buon naturale della madre, il
qual passò anche ne'figliuoli; scorgendoli bene spesso all'opposto i vizj de
genitori paffare ne' figliuoli ancora. Sem. Quale induftria usavate
nel di. riggerli ?un canto viera l'altarino con tutti li suoi Pub. La
prima fu d'istruirli nella pietà cristiana, e d'insinuarla bene ne'lo. si ro
cuori ; primieramente col buono esempio, e poi colle parole; ed era vely
ramente di consolazione grande il vede re quei figliuolini attenti, e
divoti nel fare orazioni ; e di poi, per meglio afficurarmi delle loro naturali
inclinazioni, aveva fatto preparare per divertirli varie cose in una stanza
spartata , ove in [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] arneli; sin altro l'armariuccio con certe armi di legno tinte, che
sembravano di ferro ; vi erano ancora in altra parte din versi giocarelli
puerili, ed altrove qual che libretto in una picciola scanzia ; c nelle ore di
recreazione li conducevo ivi, affinche si divertisfero. Quei ch'erano portati
dal genio all'Ecclefiaftico, correvano alla prima all'altarino, el ornavano in
quella forma į che l'ayeano veduto in chiesa; e ciò serviva per renderli
maggiormente attenti alla devozione: altri poi secondo le loro incli
O [ocr errors][ocr errors][ocr errors] na. nazioni si divertiyano,
coi libri, è colle armi,e di rado alcuni di efli li spas,
favano co i giocarelli; e stava attentiflimo osservando quelli, che
perseveravano nel medesimo genio; perche conforme averete ancora voi osservato,
non è fempre uniforme l'inclinazione de’ragazzi, e mi sono
finalmente accertato, che quelli, ove il genio li porta, sono
stabiliti in esso divenuti adulti, coltivavperò sempre le loro
inclinazioni, vedendole disposte al buono. Mec. Gli Archieli foleano
condurre i loro figliuoli ad una fiera, per comprendere i loro genj, e
quei, che vedeano desiderosi di provederli de' libri, li mandano
all'Accademia, quei poi, che aveano compiacimento a rimirare le armi,
li deftinavano per la guerra. Sem. E le figliuole,
che facevano? Pub. In altra ftanza fi syariavano,afliftite ò dalla Madre, ò
dalla Matrona,ove erano coscinetti, per commodo das cucire ; ferri da fare
calzette, piccio. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
Dell'Elezione della Mog. arr le conocchie, ecommode per filare ; e diverse
pupazzine vestite, ò da spose, ò da monache ; ed ivi ancora chi affifteva
loro', fcorgeva Vinclinazio ni, ch'avevano", rimirando a’quali di queste
cose le porta il genio; ed in fatti quella, che si fè monaca, non si divertiva
in altro, che in ispogliare, e rivestire la sua pupazzetta in abito da monaca,
e l'altra, che prendette marito , sempre giocolava colla sua pupazzetta vestira
da sposa. Sem. Felice coppia! non saprei anch' io abbattermi in simile
compagnia. Pub. La troverete anche voi cercandola, perche non è già
estinta nel mondo la razza di quelle di cui parlò l'Ecclesiastico. Mulier
fortis obleEtat virum fuum, de annos vitæ illius in pace implebit. Sem. Sì
bene, mà se per mia sventura m'incontrafí in una, che non fosse così buona; che
doverò fare in sal caso? Meca, L'esaminereino nella venturas [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] conferenza, nella quale
meglio anche apprenderete il modo, che dovrete tenere in, fare perseverare la
buona, costante nel suo lodevole costume avendola scelta per vostra
conforte, CON, the te CONFERENZA [ocr errors] Come si
debbano regolare i faggi mariti con le mogli imprudenti, e
viziofe. Publio , Mecenate , Sempronio , & Medico
Pub. O, ch' hò navigato lungo tempo per questo vasto Oceano degli
ammogliati, posso servire di fida scorta a voi,che doyete entrarvi. Le
maffime principali, che dovrete tenere sono queste : primieramente di operare
più col buono esempio, che con semplici parole, confessando Platone, ed
Aristocile che maggiore profitto fi ricavava da ciò, che si vedeva fare a
Socrate, che da' suoi morali documenci. Quindi è, che'Plutarco ne' suoi
ammaestramenti matrimoniali ebbe a dire: che non preten. da il marito di far
divenire la moglie buona economa , s'egli coll'esempio non le mostrerà efferlo
anch'effo: onde non recherà maraviglia, ciocche diffos Ovidio. Dum fuit Artrides una contentus
, illa, Caffà fuit, vitio eft improba fuftaus viri. Mec. L'esempio però di Socrate appresso la sua moglie
Santippe nulla giovava, Pub. Sapete perche ? Si abbatte il una donna
talmente pazza, che dovea più tosto essere legata colle catene, che ammonita
con esempi, e parole: mà di questo ne parleremo a suo tempo. Or proseguendo il
mio discorso; in secondo luogo deesi togliere ogn'occasione, che possa farle
cambiare di buona in cattiva, perciocche quantunque ottima da principio, per
trascuraggine del marito può divenire peffima, ed in che mo [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] modo uditelo da Euripide. Sed
nunquam nunquam [ neque enim, femel dicam Oportet prudentes, quibus
eft uxor, Ad uxorem in domibus accedere finere Mulieres, ipfæ enim
præceptores funt malorum. E che più ! Levina donna da
principio caftiffima per la libertà, che le diede suo marito
di andare vagando per il mondo , quanto , quanto si mutaffe mutasse ,
sentitelo da questo Épigramma. Cafta , nec antiquis cedens Levina
Sabinis, Et quamvis tetrico triftior ipsa viro, Dum modo Lucrino ,
modò fe permitrit Averno, Et dum Bajanis fæpè fovetur aquis,
Incidit in flammam, juvenemque fequuta, relicto Conjuge, Penelopes venit,
abiit Helena. E d'onde ciò avvenne, se non dalla libertà, che le diede il
marito ? Nè Mef- salina averebbe già commessa quella sì enorme
scelleragine di sposarli con Silio [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
publicamente, e nel palazzo imperia, le , fe Claudio Imperatore l'avesse
condotta seco ad Oftia; del qualc attentato parlandone Tacito arrivò a dire :
laborabit annalium fides; c credete forse , che se Ottone non avesse lodata a
quel segno la bellezza di Poppea Sabina sua moglie alla presenza di Nerone,
glie l'averebbe tolta? non già; ma il pazzo arrivando a dire, nel levarsi dalla
menfa dell'Imperatore, che se ne andavas lieto a trovare sua moglic stupore di
bellezza, a lui solo concedura, e desiderata da tanti, e volete chc Nerone,
udendolo non s'invaghisse di essa ? Sem. Averanno forse da tenerli chiu.
se le mogli per far verificare, ciocche disse il Satirico ? Pone feram choibe,
fed quis custodiet ipfos Custodesē cauta eft, & ab ipfis inci
pit uxor. Pub. Io non intendo dire questo, mà folamente di trattarle, come
diffe Tacito del popolo Romano , che: nec tam, tam [ocr errors][ocr
errors] fam feruitutem pati poteft, nec totam libertatem , cioè colla misura di
mezo, discreta, e giudiziola e finalmente conviene compatire molte leggiere
debolezze di effe con non farne calo, di quelle particolarmente, ove non si
scorge malizia, e cattivo fine; ¢ quando mai vi fosse d'uopo di rimedio, non
dee questo darsele in publico, nè con istrepito contenzioso, e riflettere a
ciò, che dice Plutarco; che Venere fù collocata dagli antichi vicino a
Mercurio, affinche con arte, ed avvedurezza, e non con violenza in tali
faccende li procedesse ; e lasciando il profano da parte, vediamo che rispetto
avesse a sua moglie il nostro primo padre Adaino : dipoi di avere detto, ch'era
una porzione di se medesimo; cioè: cara de carne mea; soggiunse quamobrem
relinquer bomo patrem fuum , & matrem, &adbarebit ukuri sud, do crunt
duo in carne una Gen. Sem. Questo però mi reca gran tercore, perche se Adamo
trattò così bere sua: sua mnoglie, ed erano nel Paradiso terrestre
; ne- ella poteva essere stata crea . ta da mano più perfetta, contuttociò
ingannò suo marito a segno , che tutti noi ce ne risentiamo, che farà dunque
una figliuola di essa in questo mondo? Pub. Fu fedotta però dal serpente,
allorche Adamo dormiva, onde apprendetene dà ciò questo documento: di non
dormire, quando vi sia il serpente, che tenti sedurre voftra moglie. Sem.
Mà qual serpente ci sarebbe, se io sposarsi una giovane, che da zitellas aveffe
dato sempre saggio di somma mo. deftia ; ed appena entrata in casa mias,
cominciasse a dire; voglio un'altro abito alla nuova moda: queste gioje non;
sono legate all'usanza; voglio lo scarabattolo, come hanno le altre mie
pari; qual ferpente la tenterebbe in questo caso, per farla parlare in tal
guisa? Pub. Sarebbero due non che un fojo, li serpenti; cioè l'eccessiva
vanità, e l'ambizione proprie ò insinuate,e quefti converrebbe
scacciarli,er. [ocr errors] Sem. Ed in che modo? Pub. Voi averece
già scelta la giova. CH ne nata da? savj, e discreti parenti, and
mutt quali avrete facilmente manifeftato l'animo voftro , in che forma la
vorretes trattare; accordandomi ciò, mi pare, cosa quasi impossibile, che una
giovane ben'educara possa alla prima avanzarsi Q a domandare
imperiosamente ciocche be brama; se pure non sarà stata mal con figliata;
da qualch’una poco prudente, i onde per ovviare questo, converrà, che
alla prima stiate attento di non farlas trattare, se non con quelle, che
voiconoscerere savie, e prudenti, delle quali potrete essere sicuro, che non
sarà configliata a questo; ò pure se voi medelimo nolle darete mal'esempio;
conforme a questo proposito avvertiscePlutarco, ne? suoi precetti matrimoniali,
oye dice; vir corporis ftudiofus, uxorem reddit la sciviori cultui
deditam ; voluptuofus amas, toriam, et libidinosam; boni, honestique
amator, modeftam, & honeftam: E sog. giugae di vantaggio; nè putes à
super, [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] mo, fuis ,
profusifque fumptibus uxorem temperaturam; fi te ad hæc omnia minimè
contemnentem confpiciat', quin potiùs auratis poculis , pietifqae cubiculis,
mulorum, & equorum phaleris gaudentem videat; non enim fieri poteft, ut à
mulieribus luxus removeatur, quo viri circumfluunt. Sem. Mà come farà
praticabile il pri se terrà visite publichce ove ogn' una farà a gara di
comparire con maggior pompa dell'alere? Pub. Se conoscerete, ch'ella
abbias la prudenza della moglie di Focione, di cui già parlammo,
permetteteglielo pure liberamente; perche farà della natura di quella , di cui
parla l’Ecclefiaftico al cap. 26. Mulier fenfata, tacita non eft immutatio
eruditæ animæ : mà per al. fro, se non farà di tal senno vi porrete ad evidente
cimento di essere forzato a tractarla meglio delle altre , e con pompa
maggiore, per esfere sposa novella. Sem. Ma queste non si potranno
fuggire; imperciocche lo potrebbero incon fra: [ocr errors] trare
inimicizie, ricusa adofi ; ò per la a meno li darebbe moito da dire à tuttaa la
città. Pub. Se non si potranno fugire, e voi permettetele.
[ocr errors] Sem. Mà facendolo poi bisognerà , che seguiti ciocche praticano le
altre. Pub. Non è da porsi in dubio. Sem. Consigliacemi dụnque, che
dovrò fare. Pub. Non mi dà l'animo. Sem. E perche? Pub. Perche
scorgo più volonterolo voi di queste visite, di quello che sarà la voftra
sposa, compiacendovi forse, che si vedano le vostre grandezze, e sono molti del
vostro genio', che mostrano in apparenza dispiacimento di tal cosa, che
internamente con ardenza la bra. mano; e fanno come diffe Tacito di Ti. berio:
Specie recufantis vebementiffime cupiebat. Sem. Mà è possibile, che non ci
siad mezo termine per isfuggire queste prime vifte, senza che rimanga alcuno
disgutaco? Pub. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][merged small] Pub. Si potrebbe questo trovare,ogni qualvolta però non
abbiate voi compia. çimento di averle. di Sem. E questo quale sarebbe?
Pub. Di condurre la vostra sposa fuofi della città in distanza tale, che non
rioscisse facile alle altre di venirla a visitare. Sem. E chi sà, se la
sposa fi contentasse di questo? Pub. Non vi contenterete voi; perciocche
una giovane bene accostumatas farà ciocche vorrete : toccate voi ora colle
mani, che i mariti sono per lo più arrefici delle loro ruine, e non le povere
mogli. Sem. Mà andando fuori, e poi tornando, faremo nei medefimi termini
di prima, rispetto à queste visite : Pub. Così credo anch'io ; pofciache
vorrete fodisfare allora al desiderio,che avere di riceverle; mà udite di
grazias, ciò che ne potrebbe nascere di buono da questa vostra lontananza dalla
città: Che intanto voi col vostro giudizio po tre [merged
small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] trefte istradarla in
modo, che non sarà poi facile, che diça , qucsto voglio, po: sciache
le potrete far ben conoscere i precipizi, che nascono
dall'ecceffivo lusso, ed i danni, che apporta l'ambi, zione;ed
averefte inoltre in quelto mentre, che dimorerete in villa , tempo op:
portuno d'istruirla ancora nella buona economia, la quale è l'unico
antidoto contro la prodiga vanità. Sem. Insegnatemi dunque, che
dovrò fare fin tanto che staremo in villa? Pub. Contratto, che
averete trà voi quel santo amore conjugale, le farete comprendere, che guadagno
abbia recato alla vostra casa l'efferyi portaticolà, e che per farle conoscere
, che voi non l'avete fatto già per avarizia , ma per esimervi bensì dalle confuloni,
u disturbi, che nascono da tante visite, e rivisite, che si costumano, donare
ad effa la metà di detta somma avanzatas; affinche ne faccia una soccita di
animali, ò la rinvesta a suo piacere, c commodo, e procurerete , che facendosi
detta foccita, non abbia questa disgrazia alcuna per più anni, con foggiacere
voi as quei discapiti, che l'inclemenza delle Stagioni potrebbero apportarle, e
vedrete in atto pratico y qual amore effa. porrà all'economia. Le prime
impresfioni sono quelle , le quali radicateli negli animi foftri tanto del
bene', quanto del male, difficilmente fi cancellano più, mentre che, Quo
fuerit imbut a recens feruabir odo rem Tefta diu. Sem. Questo
mi piace affaislimo; perche mi concilierà l'amore di essa, edonerò senza fare
discapito alcuno ; mentre ciocche dono, rimane in cafa; mi farebbe discaro
bensì, quando andaffe in börfá de mercanti: Mà se in progrefso di tempo
desiderasse qualche abito , come mi dovrò regolare? Pub. Dovrete
invigilare di provederla preventivamente di ciocche è necefsario al decente
ornato, secondo il voItro grado ; affinche non sia forzatas [ocr errors]
chiedervi cosa alcuna. Sem. Mà se ciò non ostante lo facesse, hò da
negarglielo? Pub. Se voi la scorgerete attaccatas, al danaro non glielo
negate , questo si, che in vece di spendere voi, date la moneta ad ella,
acciocche la spenda a suo modo, Mec. A questo proposito posso riferire un
caso accaduto. Venne voglia ad una donna civile di farsi una certa scuffia alla
moda; il di lei marito, ch' era accorto , non glie la negò; ben è vero,
che le diede il danaro nuovo di zecca per farsela ; ella cominciò à con, tare,
e ricontare dette monete, li le parvero assai belle, e perciò non
s’induceva à spenderle; le domanda į egli pallato qualche tempo, se fi
cras ancora fatça la scuffia; cui rispose, che non aveva potuto trovare
cosa appropo. fito; le replica: fatela quando vi piaci ce, perche il
danaro è vostro, e se lo Ha volere impiegare in altro, fate voi; mà ella non lo
spese già per goderselo. P Sem : [ocr errors] le qua
[ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse liberale ; che non fa. ceffe conto del
danaro ? Meo. In questo caso pariinente non mostrare renitenza in
sodisfarla ; dite bensì, che commetterete fuori, e farété venire merletti più
belli, e più alla moda di quei, che sono in città; perche intanto, ò le passerà
la voglia di farsela, ò si murerà la moda , come si vede giornalmente accadere,
e potrebbe anche darli il caso, che un giorno fi rendeffe capace di ciocche
disse Crate, FILOSOFO: che ornamentum eft, quod orhaf:ornat autem quod mulierem
boneftiorem reddit. Quindi è, che secondo quel detto greco: Mulieri
ornamentum mores, e non [ocr errors] durum Sem. E se le venisse
tentazione di porfi qualche manteca nel viso, per comparire più vaga?
Pub.Ciò non dovrete tolerarlo in conto alcuno riso.it Sem. Che averò da
fare? sgridarlas .forse, e mortificarla inleme Pub. [ocr errors]
fa Pub. Questo poi nd; pofciache me. no verrece seco alle brutte, meglio
semnot pre farà per voi, ed affinche possiate di in ciò regolarvi con prudenza,
vi rifeac rirò per convincerle dolcemente, cioc che dice Zenofonte nell'economico,
ch' è questo: Die mihi uxor, nonne hisce legibus matrimonium inivimus, ut quod
effet utrique faculsatum, invicem communica. remus? annuit illa . Jam ait , fi
poftquam tu tuam portionem bonæ fidei contulifes, ego pro veris gammis
fiétitias , prò auro puro, adulterinum darem, prò torquibus aureis vitrum auri
bracteis oblitum prò monilibus folidis , ligna 'auro, argen to, incruftamentis
obducta, num boni confuleres, aut judicares, me plus tibi contuliffe ; fi
talibus technis tibi imponerem, quam fi quod baberem', uti eft in medium
conferrem? quod illa excipiens , cave , inquit, ne mibi talis fis , neque enim
te ex animo amare pollem; quo audiio ille fic perrexit : atqui nos in hoc
potisimum convenimus, ut alter alteri corporum Noftrorum copiam faceremas,
quod P. 2 [ocr errors][ocr errors] h cum Pub. Nira
maltrattato ? cum uxor annuiset. Sum ne, inquit , tj bi gratior, aut
carior futurus, fi corpins boc, uti eft, nullo medicamento vitiatum Communicem,
an fi os,oculofque minio infestos tibi ofculandum preberem? At ego in. quit
uxor; minimum nunquam attigerim, neque fucatos oculos gratius, quam tuos
afpexerim . Et mihi , ait ille , puta mentem eamdem effe: nec tam mentito (quem
tu cerufit, fib:oque inducis) colore delectari, quam tuo nativa. Quo tam
commado sermone caftigata mulier abjecit omnia tectoria, formaque medicamenta. Onde
di questo convincentissimo ragionamento vi potrete anche voi prevalere per
ridurla a suoi doveri, senza contendere seco, Sem. E se diveniffe
fastidiosa, iraconda, e garrula, che dovrò fare? Pub. Tutto l'opposto di
quello, che farà lei, imperciocche altrimenti sarà la. casa vostra un continuo
inferno. Sem. Come si potrà praticare questo Pub. Non vi potrà fare
mai peggio di uxor. unda, quello, che faceva Santippe a
Socrate, e pure la sopportava, come viene dea scritto da Bigo poeta:
Ferendum eft Socratis exemplo quodcumque peregerit Xantippen,
fiquidem convitia multas moventem, Cum blando argueret, fædatus
defuper Nil nifi deterso, poft tanta tonitrua, dixit Vertice,
se pluviam non ignorante se quutang Sem. Bisognerebb’essere però Socrate
per sopportare tanta ingiuria. Pub. Cominciando ad operare da Socrate potreste
anche voi divenire simile ad esso ; posciache interrogato per qual cagion'cgli
sopportava tanti strapazzi ricevuti dalla sua insolente moglie, risponde: Cum
illam domi talem perpetior , infuefco, dw exerceor ,'ut ceterorum quoque foras
patulantiam, et injuriam facia liùs feram; laonde con sopportare l'in
giu [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] P 3 [ocr
errors] giurie della vostra moglie, diverreste Socrate anche voi. Sem. Mà
se fosse altera , ambiziosa di commandare, e non volesse fare ciocche dal
marito le veniffe ordinato Pub. Socrate sopportava questo ancora. Sem. Mà
voi, Mecenate, che non fieţe Socrare, che fareste? Mec. Vi posso riferire
ciocche fecero alcuni in fimili casi, e con profitto . Vi fu una certa vedova,
cui erano morti trè mariti, a cagione dei gran disgusti dati loro da essa ; non
trovava questas più alcuno, che la volesse prendere per moglie, un giovane alla
fine, sapendo ch'era divenuta inolto ricca la volle sposare; mà cosa fè questi?
ordinò, che fosse trovato il cavallo più indomito, che fosse nella città, con
ordinare al fuo cocchiero, che nella mattina feguente alle sue nozze lo avesse
fatto andare furiosamente per il cortile del suo palazzo, e che avesse di poi
eseguito puntualmente ciocche da esso gli fareb, be 1 be
stato comandato; in quella macci na il cavallo fè furie grandi; venne
cuole riosità alla sposa di vedere da che pro cedesse quel gran rumore,
che udivano in si affacciò alla feneftra, e nel medesimo tempo ancora vi
accorse lo sposo, il quale domandò al cocchiero , la cagione di ciò, cui
rispose: Signore, è unas beftia, che non si può domare, e perciò ogni giorno
farà il medesimo; allora egli comandò, che fosse trucidato, conforme
crudelmente seguì; la povera sposa rimase attonita da sì risoluto comando, c
voltatosi lo sposo verso di effa, le dice: Signora mia, quando le bestie non G
poffono domare è necessario di venire à queste risoluzioni : das dovero, che
mutò ella modo di vivere, e di leone divenne agnella. Vi fù parimente una
moglie assai disobediente, alla quale avendo ordinato il marito, che non fosse
uscita di casa ogni giorno, e tornata di notte, mà vedendo , che
colle buone non ricavava profitto alcupo; udite un giorno quello le fece
nel [ocr errors] P 4 tor tornare a casa : teneva'pronte le
forfici, e le recise i capelli, dipoi le disse : oh adesso andare fuori di casa
quando volete, che farete una bella comparsa: sapete voi, che se ne
aftenne, ed in avvenire fu più obediente a suo marito. Sem. Vedete voi,
Publio', che con mostrarsi risentito, si possono anco togliere i difetti
donneschi? Pub. Questi sono casi rariffimi, che felicemente riescano: I
più frequenti però fanno vedere il contrario. Nacque una volta competenza tra
il Sole e l'Aquilone, a chi di loro fosse riuscito più agevole, a togliere da
dosso il mantello ad un viandante : si adoperò con tuttas la sua violenza il
secondo, mà, ftringendoselo alla vita chi lo portava , non fu mai possibile
farglielo lasciare : cominciò dipoi il Sole, senza usare violenza, a
percuoterlo coi suoi continuati raggi ; refiftè egli per qualche spazio di
tempo; mà alla fine & spogliò non solamente del mantello, ma del giuppone
ancora; e da questa ápologo.com, pren: [ocr errors] i prenderete se
riesca più utile la violenob za , ò la piacevolezza continuata per ri
muovere i difetti donneschi: ed OVIDIO (si veda) che le conosce bene, così
canta. Define, crede mibi, visin irritare vetado Obfequio vinces aprius
ipfe tuo. Sem. E se fosse ostinata in non volere cedere mai, mai , allorsì
, crederei, che fosse d'uopo prevalera di quel rime dio contenuto in
questi due versi: Rendon più frutta donne, afini, e noci A cbi ver loro
ha le mani più atroci. Pub. E da cui apprendeste, Sempronio, modo sì
ingiusto, e villano das trattar le mogli? forse che dall'indiscreto Ercolano
Sanese? il quale, conforme racconta il Dolce nel secondo del. le istituzioni
delle donne, avendo comprati certi tordi , mentre li stava mangiando con sua
moglie, le diffe ; se aveva mai veduti tordi più grassi di quelli ; vi replicò
la moglie; ch'erano merli, mà, volendole far capire il marito, ch'erano tordi,
non fu mai possibile, crsendofi oftinata nella sua falsa credenza;alla fine,
dopo le contese, l'Ercolano fi avanzò a percuoterla col bastone, il quale non
tolse già la sua pertinacias; posciache in capo all'anno disse al marito, che
in quella medesima sera era Itata così malamente trattata per quei maledetti
merli, ch'egli diceva essere tordi; e convennegli fare l'anniversario ancora ,
con batterla nuovamente, come accadè in molti anni seguenti. Or vedere, che
profitto apportano le battiture alle donne pertinaci? Poteva l' Ercolano
crederli anche per storni; perche ciò non diminuiva loro già il sapore: mà, se
fosse egli stato sotto la censura di Catone, non averebbe certamente commesso
fimili attentati; imperciocch'egli voleva, che i mariti, che percuotevano le
mogli, foffero puniti col medesimo gastigo, che si dava a coloro,che rubavano
nei tempi dei loro Dei, come riferisce Plutarco. ES. Crisosto. mo nella umilia epift.
D. Pau. li ad Corinthios, così dice: Neque verberandam uxorem dico, abfit:
ultima nam [ocr errors] 201 [ocr errors][ocr errors] namque
ignominia eft non ejus qui verberatur , fed qui verberat &c. e dipoi,
vos viros illud admoneo , nullum fit tam magnum peccatum, quod ad
verberan- dum uxorem vos compellat , per lo che meritamente canta Guazzo: Offende
il Cielo se il santo amor discioglie Quel che con empia man baste la
moglie. Sem. E se si credesse impudica, li ha da fare da Socrate in
permetterglielo ? Pub. Questo poi nò : fi dee bene fare da Socrate in non
ingannarsi nel crederla cale, quando non fosse ; perche alle volte la gelosia
fà travedere le ombre per corpi; e fa credere, anche le menzogne rapportate da
uomini sceleraci per cose vere; ed udite a tale proposito questo prodigioso
fatto. Si trova al servigio di S.Elisabetta Regina di Portogallo un paggio di
ottimi costumi, u perciò da effa amato, di cui si prevale va per suo
elemofiniero ; fu questi ca* lunniosamente imputato appreffo al Re di
soverchia confidenza verso la sua pa. drona, ed anche reciproca di essa
verso . di [ocr errors][ocr errors][ocr errors] di lui; fu data
credenza alla calunnia ; onde il Re adirato fè ordinare ad un fornaciaro,
che avesse gettato dentro l'ardente fornace il primo paggio, che nel di
seguente gli mandava; comandò dunque all’innocente , che si portafíe colà; mà
perche udà sonare la campana di una chiesa, mentre era in viaggio, la sua
devozione lo spinse ad andare verso quella parte ove si trattenne in ascoltare
più messe qualche spazio di tempo; mà, perche il Reviveva impaziente di udire
il successo, ftimò bene inviarvi l'altro paggio calunniatore, il quale, essendo
arrivato il primo , conseguì il meritato gastigo, ch'era preparato per
l'innocente : ed arrivato poi il secondo portò al Re l'avvifo, di essere ftato
ubbidito; e risaputali poscia las cagionedal Re, perche fosse egli indugiato
tanto, ben si avvide della sua innocenza, e della giustizia di Dio. Viene
riferito dal P. Crodier. Sem. Mà corne potrò conoscere d'a. vere
occafione di dubitarne con fondamento? Pub [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] Pub. Se voi per esempio non ufafte a ad Jei tutta
quella fedeltà dovuta , ò pure se per cafî faceste conversare gioventù in
più vistosa di voi, e con tutta libertà; allorsì forse forse, che, se non
fosse più, che la carta Penelope, ne potreste alquanto dubbitare. Sem. Ed
in questo caso, che dovrei fare per correggerla , e gaftigarla ancora
bisognando?, Pub. Bisogna , ch'esaminiamo prima chi foffe il reo
principale in questo caso, se voi, ò essa? Sem. Sarà essa lei , perche io
voglio, che sia pudica. Pub. Voi volere, chefia, e fate ogni possibile,
che non lia. Sem. E come? Pub. Con darle primieramente mali esmpio
col vostro cattivo modo di operare; e poi con darle commodo di fare ciocche
ella vuole. Credetemi, Semipronio, che le donne,se non hanno il cattivo
esempio dato loro di mariti, ad ditficilmente s'inducono a far male,
Scn 3 d Sentite ciocche dice a tale proposito
Euripide, Stulla quidem fumus mulieres, non nego, Cum autem
infit hoc animis , peccat maritus Faftidiens connubia , imitari vult Mulier
viruń, co aliui parare ama fium. Ed operandosi in questa guisa, tutto
questo procede per colpa de' mariti, e sentitene ora il parere de' Santi Padri,
| Agostino così dice , de adult. conjug. Periniquum effe videsur, ut pudicitiam
vir ab uxore exigat, cum ipse non exhibeat , ed inoltre dice , ui quales
volumus uxores noftras invenire , ipfe nos inveniant , du fi intactam quærimus,
intatti fimus ; c Lactanzio, de vero cul. Exemplo continentiæ docenda uxor, ut
fe caftè gerat , iniquum eft enim, út id exigas, quod ipse præftare non poffis;
e poco in appresso, uxorem ejus qui circa corrumpendas alienas uxores occupatur
, exemplo ivcitatam, aut imitari se putare,aut vindicare; e l'uomo di Dio
Giob così parla, fi deceptum eft cor meum fue 2 per per muliere, a
fi ad oftium amici mei infi diatus fum , fcortum alterius fit uxor mea,
od fuper illam incurventur alii , e notare quella parola alii, che
denota, che non sarà un solo. Sem. Ma se per colpa mia non venisse, ed
ella fosse sì pazza , che volcsse trau dirini, che dovrò fare? Pub. Questo
sarebbe caso rarissimo, s poiche avendola scelta di famiglia onorata; non
facendole mancare cosa alcu. na, e non dandole veruna occalione di tradirvi,
sarebbe una grandiflima ini. quità , fe lo faceffe ; in questo caso dunt. que
da principio dovere stare vigilantes alla di lei custodia con fare molte caure
diligenze. Sem. E da che me ne potrò avvedere? Pub. In primo luogo
dal suo affetto til vero, che s'intiepidirà verso di voi, ef sendo che
questo non può portarlo a dụe gel medesimo tempo Sam. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse finta, come potrò di. stinguere
il vero dal fimulato affetto ? Mec. Con un poco di tempo ve ne av.
vedreste beniffino, con dirle, che volete fare un lungo viaggio con essa lei, e
cominciando a porre all'ordine ciocche fa di bisogno, per farvi conoscere
risoluto ; può essere, che da principio diffimuli, onde se vedrete, che in
progresso di tempo ella li contristi, almeno in assenza vostra , credere
pure, che qualche cattivo pensiere le va per las mente, essendo quaGi
impollibile , che chi hà simili attacchi, non si rammari. chi allorche dee
allontanarsi; e tanto maggiormente, quando non abbia avu. ta in altri tempi
repugnanza alcuna di viaggiare. Sem. Io che dovranno confiftere
l'accennate diligenze ? Pub. Principalmente in vedere, che fidata servicù
voi avete in casa ; posciache, se farà al vostro servizio qualcuno bizarro, che
faccia spese disorbitanti, di questi non vi fidate punto, che non
ten [ocr errors] di tenga mano, perche d'onde gli vengoo? no l'entrate da
spendere tanto, non ba stando la sola paga per far queste ? licenziatelo
dunque alla prima, e se il ma le da ciò procedeffe, tal volta potrebbe in
questo solamente bastare.In oltre sareb-'. be anche ben fatto,
sospettando voi dela la di lei fedeltà, d'intraprendere qualche viaggio ad
onefto titolo di devozio ne; con andare a visitare qualche Santi
tuario; ed in tale occasione le userere, delle cortesic più del ordinario, per
riscaldare quell'affetto, che si era inties pidito verso di voi; e fatela
girare un gran pezzo, che così le ritornerà il rens no, che aveva incominciato
a perdere; e voi sapete, Dottore, quanto bene può apportare il viaggiare in
questi casi. Med. Certo è, che allontanandoci da quell'oggetto, che turba
l'animo postro, può quefto più facilmcórc cálmarfi , conforme lo conobbe anche
Proper: zio dicendo: Unum erit auxilium mutatis Cinthia terris Quan 1
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Quantùm oculis, animo tàm
procul ibis. Amor. Ma per addurvi autoricà più propria vi apporterò ciò ,
che ne dice Cornclio Celso : Mutare debere regiones , fi mens redis , annua
peregrinatione effe jaDandos. Sem. Hò da farne alla prima risenti. mento,
cominciando a sospeccarne con fondamento Pub. Questa è materia molto
gelofa ; onde con prudenza grande doverà cratcarli, e con molta
circospezione. Mec. Così credo anch'io, rifetten. do a ciò, che dice
Ausonio: Toxica zelotipo dedit uxor maca ma wire. Sem. Mà se il caso si
avanzasse tant' oltre, che mi accertalli di tale misfatto? Pub. Due
rimedi ci sarebbero, un o legalc, cl'altro suggerito dalla somma
prudenza , o fancità, Sem. Lasciamo il legale; l' altro qualid? Pub,
Marc'Antonio FILOSOFO impera [ocr errors] bi tore prudentissimo diffimula,
come racconta Giulio Capitolino; il gran torto 1 fattogli da Faustina sua
moglie, dicenddo di esso: tantùmque abfuiffe , ut de cas ejufque
adulteris fupplicium ex lege fumeret, ut illos fibi non ignotos (gran
virtù in chi tutto poteva ) pra ceteris ad ve#rios honores, &
magistratus promoveret s du in iis Tertullum, quem cum ea prandena sem
aliquandò deprebenderat. E S.Paolo Eremita, come vien riferito da Socr. in
fripart. Historia. Avendo ritrovato la sua moglie adultera, che fec' egli. Nil
aliud , quam tacitè subrifis, jureque jurando affirmavit , fe nunquam cum ca
concubiturum , ad adulterum au tem; tibi, inquit , tam babeto, & cuma
1 difto adberemum abiit. Mec. Rimali sorpreso da maraviglia, Dottore,
quando lesti nel lib. de cap. util. ex adverfis, come mai il vostro Carda
no autore di esso ;' uomo sì celebre, vi abbia posto gli utili , che ne' possa
riportare il marito dalla moglie adultera; pour essendoche quanto da fimile
misfattorisulta , è tutto danno, e' vituperio. Med. Non parla ivi il
detto autore dell'utile onesto, e decorofo , mà bensi di quello, che si ricava
(per servirmi della frase di Tacito) Ex induftria facinorofa ; ed avendo egli
intrapreso l'affunto di ricavare da tutte le avverGità quell'utile, che ponno
dare, da questo non si poteva ritrarne altro che un vàntaggio viziolo e
detestabile chiamandolo egli medesimo:surpe auxilium. Sem. E se li
moftcafie gelola di me? Pub. Sarebbe segno, che molto vi amasse, nel qual
caso, facendole cono. fcere, che sono vani quei sospetti, che concepisce di
voi, che vivete, comes debbono i buoni mariti, farebbe colas facile, che
deponeffe tal gelosia. Sem. Ma se non vivefli offervantiflimo, ed andafli
in qualche luogo un poco fospetto, solamente per divertirmi , mà fenza fare
inale alcuno 1 Pub. Evoi tralasciate di andarvi,che così cesserà
ancora.la gelosia; altrimensi quel vostro divercimento xi.cofterà
са [ocr errors][ocr errors] caro , togliendovi la pace domesticas; e
rifertere di grazia allo spaventofo fuccesso seguito nell'isola di Lenno; ove,
le donne per gefolia z ch’ebbero, che i loro marici fi foffero invaghiti di
alcune belle schiave, congiurarono contro di essi talmente, che divennero
ftudiofamente tutte vedove in una notte: oltre di che, udite ciò, che dice
l’Ecclefiaftico al 26. Dolor: cordis , do luctus mulier zelotipa : : Sem.
Mà se pretendeffe poi,che io so. disfaccffi al debito matrimoniale di vantaggio
, che fosse convenevole, cho dovcrò fare? Pub. Avendola voi scelta di
buoni coo stumi, non avere da temere questo ; se pures non ile darete occasione
di farlo! Sem. E quale sarebbe questa ? Pub. Potrebb’essere il gran
confumo di cioccolata , e pistachiara, di rosolà, e vini generosi, e di altre
cose, che accendeffero il sangue , che si faceffe in casa vostra ; orde
basterebbe, che lo toglie te via; imperciocche, [ocr errors] Sine
Cerere , Bacco friget Venus. Sem. E se questo rimedio non baItasse?
Pub. Allor conviene ricorrere alla prudenza , con farle ben capire, che quello
sarebbe il modo da farla divenire prettamente vedova; e che per non farle
provare una così infelice fyenturas, dovete opporvi alle sue eccedenci brame. Mer.
Ad un certo marito, che si tro. váva spesso in fimili angustie, gligiovò molto
il fare l'astrologo, posciache non mostrava già di opporli a quanto deside,
rava la moglie, ma bensì le diceva , ch' cra d'uopo trovare prima
nell'Effemeri. di, se in quel punto G farebbe generato figliuolo sano; ed alle
volte le dava ad intendere, che sarebbe nato cieco, altresi zoppo, onde in
questo modo operava tanco, che li basta per indurre a fare a suo modo la
credula moglie. Sem. E se non volesse applicare a farai domestici, come
mi doycrò conteacre ? Pub. 7 [ocr errors][ocr errors] #1 Pub.
Bisognerà , che voi claminiace boy bene d'onde ciò provengà ;
pofciache, se nascesse per cagione di qualche indis1 posizione di
testa sopravenutale il non ad potere applicare i converrebbe, che voila
comparifte, cd in tal caso potrcbI be fupplire la matróna a quanto ad
ella spettava, 18 Sem. Si che dunque non potrò fare di meno di non
provedermi di questa matrona , potendonc avere bisogno grande di essa?
Pub. Questo non è da porta in dubbio, fe bramercte, che la direzione della
vostra casa vada bene, e non vorrete voi medefimo fare da donna, Sem. E se
non provcnifle dall'accennata cagiones Pub. Doverete anche informarvi, se
ciò procedeffe, perche qualcuno voftro favorito le volefle fare da sopraftante,
il che non sarebbe conveniente, ed in tal calo to doverefte ammonire a defi.
ftate, quando nollo vogliate rimuovere, ed allora vedretc, cho e Ha sarà
appli ciui 1 [ocr errors] cata, ò pure , se si divertisse ia
altre cose per dare sodisfazione a voi, ael qual caso non potrebbe applicare
alli facci domestici: per esempio, se vi veniffe voglia, che imparasse, a
sonare, a cantare, e ballare, ò pure qualche linguage gio straniero,
certamente, che non potrebbe ella applicare con attenzione a tante cose ; onde
mutando voi fimile pensiero la vedrete tornare attentissima alle cose
domeftiche, Sem. Mà se non vi fosse alcuna delle fudette cagioni, mà che
per il suo catcivo nacurale volesse inquietarmi con operare da pazza, che
doverò fare? Pub. S. Crisostomo insegna in questi casi gell’amilia 26.
epist. 1. D. Pauli ad Corinthios, che cosa si debba fare: cioè quello, appunto,
che pratica un buono agricoltore nel coltivare il sao campo, il quale, fe lo
conosce sterile, procura di ajutarlo con industria, per farlo divenire fecondo;
e non per questo, sem mentato che abbia ivi il grano, nafcendovi
dell'erbs.catcive, si duglefe. co, perche le abbia prodotte ; mà beni sì con
sofferenza grande le carpisce a po co a poco, senza danneggiare
punto quel seme di frumento, che ivi vede - germogliato. Or perche non si
ha dad praticare il medesimo colla moglie? fors' ella è meno meritevole
del campo di ricevere simili ajuti ? è forse il seme umano inferiore a quello
del frumento? ed udice ciò, che dice il fudeko Santo: quotiescumque aliquid
molefti domi contigerit, fi quid uxor peccaverit , confolare, cu noli marorem
augere Licèt enim omnia proiicias, nibil, moleftius continger, quàm non, babere
benevoham domi uxorem; licèt quodcumque dixeris peccafuni, nuha lum magis
dolendum , quam cum uxorlu Jeditionem habere. Quod fi inuicemones ra ferenda
funt , multo magis uxoris, fi pauper fi, noli exprobrare fistulta, noli ei
infultare ; fed efto modeftior. Etes nim tuum membrum et Garo una fa&i
cfis. Sed falta eft cbrid auracundai Igitus dolendum eft , nox irafcendum ut e
poi soggiunge. Quod fi vorberaveris [ocr errors][ocr errors] exafperabit
morbum; afperisas enim mare fuetudine , , non alia afperitate disolui
Sem. E sc le veniffe voglia di vedere tutte le comedie , andare a' festini , c
di frequentare tutti gli altri divertimenti, che doverò fare Pub.
Arendola alla prima assuefatta diversamente, come potrà venirle tale volonca ?
E quando in particolare averà più figliuoli, ò pure farà anche gravida: non li
potrebbe dare altro caso, che le faceftc mutare costume voi mcdefimo, divenendo
curioso , c vagabondo : mantenetevi costaoce nel ben operare i ch'ella ancora
persevererà nelles medefima forma; ed usatele ancora in quei tempi qualche
amorevolezza di vantaggio, per tenerla contenta. Mer. Questo lo credo
anch'io ben fatto, avendo conosciuto un certò marito , cui era discaro, che la
sua moglie, c figliuole fossero andate alle comedies & ad altre publiche
feste, mà che cosas egli faceva ? in cambio di questo, leroy [ocr errors]
o galava in quei tempi frequencemente, dando loro l'equivalente a quello,
che averebbe potuto spendere in fimili died vertimcoti; e quantunque ad
effe dispia cesse per allora di non andarvi, nulladi. meno vedendo quelle
insolite cortelier, si consolavano, e terminato poi ch'eras # quel tempo,
diceva la madre alle fi gliuole: nulla averemmo guadagnato di buono , se
fossimo state alle comedie, dove che da non averle vedute, ne ab. biamo
ricavato molto; e poi per verità erano una volta proibice alle donne certe
feste notturne, come da LIVIO (si veda) si rica che in compendio, e questo:
Viri per noctem fæminis, dousenere etati turpiter miscebantur . Qua nc comperts,
fuere S.C. fublata, din mulros animadverfum fuit. E Svetonio lo conferma nella
vita ancora di Octaviano Augusto Sem. Ditemi finalmente, se uno avefin se
pensiere di sposare una vedova, come du fi doverebbe regolare in diriggerla?
Pim. Se questa averà avuto un mari [ocr errors] Ate condizioni unite è
cosa difficilissima ,co saggio, sarà facile parimente, che un altro
faggio marito la poffa regolare, mà elsendo stata assuefatta di fare a sno -
inodo, non si potrà mai piegare a far diversamente : posciache una pianta
assodata con cattiva piega, non si può più addirizare. Io non consiglierei a
prendere queste per moglie,se non chi(quando fosse tuttavia in età di farlo) si
trovarfe molti figliuoli, e non avesse tempo d'invigilare attorno ad effi; e
che fosse pienamente accertato, che la detta vedova avesse dato faggio di somma
prudenza in casa del defonco marito; e che in oltre non avesse figliuoli
proprj, nè fosse più in iftato di farli, e li trovaffe prospera falute; mà chi
abbia tutte que di trovarla dall'altro canto non essendoci queste, si
prepari-pure a soffrire molti travagli, chi vorrà applicare a fimili matrimonj
, poiche queste fogliono effere troppo scaltrite. Sem. Vado riflettendo,
che molti di Q uesti buoni consigli non saranno prati [ocr errors] [ocr
errors] [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cabili
nei nostri tempi, onde se I ddio non ci provede , non sò come potremo più
softenerci in avvenire. Pub. Perche non sono praticabili forse che non
dipende ciò da voi? Sem. Dipende da me , mà è dura cosa di essere il
primo riformatore degli abusi. Pub. Non si fanno già queste riforme colla
corda al collo, come disponevano le leggi di Ligurgo; c poi non sareste già il
primo voi , essendoci i Curj oggidi ancora, ma questi non si rimirano già per
non averli da in mirare; onde questo sarebbe appunto quello , che vi doverebbe
animare a farlo: posciachei non volendovi gli altri seguitare, non
riferterebbero con attenzione a quello, che voi operafte. Sem. E nella
ventura Conferenza sopra clie fi tratterà? Pub. Bisognerebbe confolave
quelle povere mogli-faggie, che G abbattono in mariti viziofi, ed insegnare
loro coinc debbanfi contenere in simile sveninca.CONFERENZA Sopra i ripieghi
prudenziali, che debbonsi prendere in diverse occorrenze dalle mogli saggic,
incontrandosi in viziosi, ed indiscreti mariti. Sempronio, Publio,
Mecenate, € Medico. Semi mag Iferitemi, Publio, quali sono i
vizj,de' mariti cattivi. Pub. Questi sono molti, e forse non
minori di quelli delle mogli pellime : iinperciocche , fe farà egli
trascurato, da tal difetto ne verrà il precipizio di tutta la casa: se prodigo
peggio che peggio : se avaro, farà mancare ancora quello, che sarà necefsario:
fe fcapestrato, guai a quella povera moglie, che dovrà combattere
fe [ocr errors] [ocr errors] seco: se giocatore , fi porrà a pericolo in
una sola notte di perdere quan, to egli possiede : se lascivo, non li con.
tenterà dell'onesto: fe affatto impotente, poco amore per lo più suole avere
verso la moglie : sc goloso fuori dimo. do, oltre di soggiacere a continue infermità,
è oppresso anche da dobbiti. Or vedere in che miserie Gi troveranno le saggie
donnc in mano di costoro? E se per disgrazia fi abbattessero ancosa in taluno
debole di senno, che avesse appresso di se qualche servitore fcal. trito, il
quale lo dominaffe, c lo facesse fare a suo modo, oh quanti disaggi se
converebbe soffrire ! Sem. Come dunque li doverà regolare una donna
saggia , ed attenta col 04rito trascurato ? Pub. Con ama rlo teneramente,
quancunque fi avveg ga della sua trascurag. gine. Sem. E come lo potrà
fare? Pub. La prudenza le infinuerà di far. lo, per vedere , fe per questa
via lo po acres [ocr errors][ocr errors] réffe indurre ad essere
applicato,, perciocche, fe per sua sventura facefle il contrario, e cominciasse
a sgridarlo , certamente ch'egli si mostrerebbe assai più trascurato ; e
credete pure per co. fa certa, che colle buone più profitto ne ricaverà,
che irritandolo. Sem. E se vedeffe , che ciò non ostanu Te', continuasse
ad cssere trascurato , doyrå ella perfeverare in questo grand'amore? Pub. Senza
fallo ; anzi che, invece di scemarlo; più costo, glie lo dee accrescere; poscia
sche, se non sarà più , 'che'affatto iosensato, fi avvedrà alla fine, che lo
ama di puro caore ; ed accertatoli di questo, come potrà fare di meno di non
amarla anch'effo ? Platone, allorche gli fu riferito, che Zenocrate Two scolare
enipiamente parlaffe di esso, * *ffpofe : non essere credibile : ut quem
tantoperè amaret , ab eo invicem non di ligeretur; ed intal proposito
dice Sene• Ed Lpift.g. Ego tibi monftrabo amatorium Dane medicamente fine berba
, fine ullius 0 [ocr errors][ocr errors][ocr errors] er veneficæ
carmine; fi vis amari, amau. :l Ed udite anche ciò, che dice S. Ago stino
: Nulla est major ad amorem in vitai tio , quam prævenire amando. Sem. E
che le gioverà questo reciproco amore , quando le cose domestiche andranno di
male in peggio? Pub. Assai più di quello , che voi credete; imperciocche
quando sarà ac. certata di questo reciproco amore, ed informata insieme dei
disordini domestici, in certe congiunture, che le donne fanno prendere, lo
saprà con dolci maniere ben'effa illuminare. f Sem. Ed illuminato , che
fosse, se non sarà capace di operare di vantaggio, a che gli potrà
servire? Pub. A molte cose ; imperciocche prenderà ben' ella un'alera
simile congiuntura, e ne otterrà ciò, che saprà bramare; che farà appunto il
maneggio dispotico della casa: e vi pare, che questo amore abbia operato poco a
far. le spuntare tanto dominio? Sem. E se glie lo negasse? R
Pube [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub.
Non è possibile, che ciò faccia, se pon farà più che inumano. Sem. E se
fosse? Pub. Allora converrebbe prendersi altre vie, senza però scemare
punto del suo cordiale affetto. Sem. Queste quali sarebbero ? Pub.
Essendo egli trascurato sarebbe cosa facile, che potesse la saggia donna
trovare qualche buon canale fecreto,da far penetrare a chi comanda lo stato,
nel qual li trova quella infelice casa. Sem. Basterà poi questo , per
farlo divenire applicato? Pub. Oh quanto opera tale istanzas fatta da
faggia, e pudica moglie! si udirå all'improviso dichiarato unEconomo al
trascurato marito, e si verificherà in Jui il proverbio di Salomone: Qui
ftultus eft ferviat fapienti ; ò pure quell’al feruus fapiens dominabitur
stultis filiis : e recherà ammirazione, che non potrà penetrare, donde fia
provenuta tale istanza, non potendosi egli mai persuadere, che l'abbia
procurata la sofferentiffima moglie. Ed ecco rimediato a tutto
senza strepito, e concesa alcuna; non dovendosi a queste esporre le
fag- gie donne; conformc lo dimostra il sacrificio, che costumava presso
i gentili farsi 2 Giunone Dea delle nozze, cui non ardevano già le
vittime, alle quali non era stato prima levato il fiele, eget- taro
via , per denotare, che non debbano mai marito, e moglie adirarsi insieme. Sem.
Qualche volta però è riuscito alla moglie, che ha mostrato perto ,
di ottenere ciocche voleva da suo marito. Pub. Sì bene dal
marito prudente,mà non già dall'imprudente , e vizioso . Santipre non averebbe
già fatto fare a fuo modo , fe invece di Socrate foffe stato marito suo
l'Ercolano, di cui parlammo ; e ragionando noi ora de' mariti viziosi, e mogli
saggie, nulla gioverebbe a queste,il mostrare petto;anzi facendolo
doverebbero cancellarsi dal numero delle prudenti. mi Se fosse prodigo, come
ella si [ocr errors] dovrà contenere ? Pub. Oltre di amarlo, come
si è detto di sopra, dovrà guardarsi dal riprenderlo soverchiamente, e con modi
aspri per non irritarlo maggiormente; insegnando Plutarco, che l'austerità
della donna dee, come quella del vino , renderá giovevole, e grata , non già
amara, e dispettosa, conforme quella del. l'aloe. Sem. S'indurrà
facilmente la moglie, per goder ella ancora de' suoi fcialacqui, a non
riprenderlo. Pub. Non è così ; perciocche la donna faggia patisce fuori di
modo, nel vedere dilapidarsi la casa; anzi che procurerà di non goderli per
quanto può, u fi conterrà nel vestire pulita si, ma senza alcuna vanità;
mostrando Plutarco, che l'unico mezo per acquistarli la grazia del marito, fia
la vita esemplare, lontana da cutte le vanità superflue: cu quando il marito,
la volefie forzare a far diversamente, sarà capace di scusarfi con un santo
pretesto di divozione, dal [ocr errors][ocr errors] dal quale venga
moffa a vestirsi di unj abito votivo, cd accompagnerà ancor'a questo astinenze,
ed orazioni, per ottenere da Dio la grazia , che il marito fi ravvegga.
Sem. E le ciò non ostante, egli continuafle nella medelima forma , non sarebbe
pur ineglio, che godesse ancor essa, potendo in tal guisa dar gusto as suo
marito? Pub. Non lo farà essendo prudente; perciocche considererà , ch'
essendo due a dilapidare, più prestamente si darebbe fondo a tutto; mentre due
deAtrieri, che concordemente corrono al precipizio, poco indugiano a cadervi;
dove che, quando uno di essi è refio, lo può ritardare di vantaggio. Sem.
Sin ora però non iscorgo riparo alcuno. Pub. E credere voi, che il marito
, vedendola così ben composta, e così esemplare nella modestia, a lungo andare
non s'illumini? Quello esempio, çh'egli avrà continuamente avanti gli
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] occhi, sarà di tanta efficacia, che
finalmente lo farà rayvedere: ed udite ciò, che dice Euripide a cale
proposito: Domiperdam etiam virum probibet UXOR Bona, ci
conjuncta , fervat domum. Mà meglio ancora apprenderete tal verità da S.
Crisostomo in Joan. Homil. Nil potentius muliere bona ad inftruendum, &
informandum virum, quodcumque voluerit: neque tam lenitèr amicos, neque,
magistros , neque Principes patietur, ut conjugem admonentem , atque
consulentem. Habet enim voluptatem. quamdam admonitio uxoria, cum plurimùm
amet, cui consulit. Multos poffums afferre viros asperos, immises per uxores mites redditos,
& manfuetos; ipfa enim mensa, lector. E conclude:fi prudens erit, & diligens, omnes
vincot. Sem. Tutto questo bene si potrà ottenere, allorche avrà
dilapidato ogni cosa; ed à che le potrà giovare l'effersi tanto affaticata,
allorche averà ricevu., to il colpo facade? Pub. [ocr errors] Pub.
Non è così, Sempronio; perche se indugiass’egli molto à ravvedersi, non già
trascureranno i propri parenti ò pure colui, che aveffe con autorità
suprema a porgervi riparo, mossi dalla gran sofferenza della saggia
donna. Sem. Ma non sarebbe rimedio più speditivo, che intentasse la donna
il giudizio contro di esso, per farlo dichiarare dilapidatore? Pub.
Questo non farà mai chi è saggia; perche considererà molto bene, che dopo un
simile paffo non vi sarebbe più pace tra loro : e poi diciamola giusta, per via
di liti, se facesse il marito comparire, che in vece di effere dilapidatore,
fosse più costo economo, che cosa se li potrebbe fare? sapete pure, che i
raggiri non mancano. Sem. Quale sarebbe dunque il rimedio per ovviare
fimil male , quando colle buone non si potesse ottenere? Pub. Di porre
un'altra testa capace à governare bene la casa, in vece di quella, che
governava male, qual sarebbeappunto un'altro Economo, per fare verificare ciò,
che dispone l'Ecclesiaste: Servo fenfato liberi serviant. Sem. Io
bisogna, che parli, come la intendo: ho veduto alcuni Economi in breve tempo
arricchirsi con queste ainministrazioni; onde non vorrei, che simili economati
servissero di apparenza; mà che poi in sostanza le cose continuaffero nella
medesima forina ad andar male; con questa differenza solamente; che quello, che
si deteriora, non apparisca, passando nascostamente in borsa dell'Economo; il
che mi perfuado, che possa esser'errore peggiore del primo ; mentre facendolo
il padrone confumerebbe il suo; mà l'Economo fi apo proprierebbe quello
degli altri. Pub. E di quelli , che hanno amministrato con ucile
considerabile dell' economato, ne avete veduto alcuno? Sem. Di questi
ancora. Pub. E de' prodighi , chi avete osservato, che non abbia
dissipato tutto il fuo? Serg Sem. A lungo andare niuno. meh
Pube Or dunque complirà alla Republica, che vi sia detto economato; e 1
particolarmente, se la moglie sarà pruI dente, e non vorrà anch'essa approvece
ciarsi di qualche cosa; nel qual caso i non potrà già l'Economo fare
dispotica mente a suo piacere, avendo ch’invigi li attentamente
alle sue operazioni : 0 i poi se questi si arricchiscano, ponno far lo
con altri impieghi onoratamente, essendo uomini di somma abilità. Sem. Mà
non sarebbe meglio, che separasse la sua dote, e riconoscesse il fuo? Pub.
Queste voci di mio, e tuo non sonavano bene alle orecchie di Platone; e le
detesta Plutarco in bocca delle mogli, volendo che tanto il bene, quanto il
inale sia comune tra efli: ed io credo, che questa reciproca comunanzas fia
molco vantaggiosa per il marito; pera che se la moglie crederà per sue ancora
tutte l'entrate della casa, non ispenderà con tanta facilità queste in cose
sus per: [ocr errors] perAue , essendo le donne di natura
tenacissiine nello spropiarsi del proprio. Sem. E se foffe Avaro a quel
segno, che per ingordigia di cumulare moltoro facesse mancare il bisognevole
alla moglie, ed a' suoi figliuoli? Pub. Questo non dovrebbe farsi, e da
persone civili maggiormente, essendo padri di famiglia ; tanto per non dire
a’figliuoli mal'esempio , quanto perche dee l'uomo civile lasciare a posteri
gloriosa memoria di se medesimo; questa non si acquista già mediante l'oro
viziosamente radunato; perche non sarà più suo dopo morte, passando all' erede,
per lo più prodigo, il dominio di effo, il quale scialacquandolo ravviverà
bensì l'ignominiosa memoria dell'Avaro, che lo cumulò; dicendo ogn'uno allorche
lo vedrà spendere malamente in bagordi , crapole, e luffi: vedere dove và l'oro
dell'Avaro? onde à che gli sarà servito l'effere stato tiranno di se medesimo
nel cumularlo, e che bei vantaggi ne avrà riportato? Quindi è, che
non 0. non senza inistero fà da un'ombra del suo inferno domandare ALIGHIERI
(si veda) all'Avaro. Dicci, che 'l sai, di che sapor è loro 3 Mec. Se
l'avesse doinandato à Crasso, averebbe risposto francamente, ch'era molto
amaro amaro, come dice il Petrarca. E vidi Ciro più di sangue avaro
, Che Crafo d'oro, e l'un, e l'altro n'ebbe Tunto alla fin, che a
ciascun parves amaro. Mec. Fu data una bella risposta à colui, che
trovandosi presente al sontuoGislimo funerale fatto dal figliuolo generoso al
Padre zvaro, domandò ad un suo amico : che averebbe detto il defonto se fosse
risuscitato, ed avefle veduti tanti lumi di cera ardere nel medesimo tempo,
quando egli vivente, in casa sua, non pocea Coffrire , che più di una lucer, na
di olio ardeffe ; cui rispose : nullas certamente, posciache tuito s'impic-.
gherebbe in estinguere prestamente col suo fiato quei lumi, affinche non li
logoralsero di vantaggio; ayerebbe bensi [ocr errors][ocr errors]
mu mutato con sollecitudine il testamento; perche tal generoso erede non
gli sareb. be piaciuto. Sem. Vorrei sapere, che dovrà fare la povera
moglie, e come lo potrà amare, trovandosi priva del bisognevole? Pub. Ciò
non oftante conviene, che lo ami, lo serva, e gli faccia tutte le maggiori
finezze poslībili, con mostrarne anche piacere de' suoi sordidi avanzi,
fintanto che sarà divenuta padrona del suo cuore per regolarlo à suo
modo. Sem. E questo appunto egli defidererà; mà in tanto la meschina
patirà doppiamente, facendolo di contragenio. Pub. Abbia un poco più di
sofferenza; perche guadagnato, che avrà l'animo di esso, farà allora ciocche
vuole, essendoci moltissimi esempj di Avari fatti divenire anche prodighi dalle
mogli; onde quanto sarà più facile a renderli persuali, di dover fare le loro
convenienze: Mec. Si racconta dal Sabellico un ingegnosa maniera, della
quale si servi ladem faggia moglie di un Signore molto avatro. Questi per
ammassare quantità im mensa di oro, che si produceva dalle di miniere,
scoperte nel suo dominio, tei nea impiegati à tal opera tutti i conta
dini, che coltivavano la tèrra ; e perciò n'era nata grandissima carestia, per
la quale correva pericolo di essere tagliato in pezzi l'autore di essa, se las
iaggia moglie colla sua prudenza non lo aveffe illuminato. Questa dipoi di
csferfi ben internata nel suo affetto fè dan molti artefici formare coll'oro
tante vivande, quante n'erano necessarie in un sontuosislimo banchetto, e
perfezionare segretamente che furono , invitò fuo marito à definare nel suo
appartamento, e portatovig rimase egli ammirara allas prima, nel
vedere quel sontuoso imbardimento di vivande, tutte di oro, e fi persuade, che
ciò fosse itato fatto per ; una.vaga prima comparsa ; mà rimirane. do in
appresso, che non compariva a'.tro, che oro in varie forme di vivaride lavorato
, le disse ; Signora; e quan do do verranno le vivande da potersi
mangiare ? Replicogli la moglie, che trovandosi tutti li contadini applicati
alle miniere , non si attendeva più à coltivare la terra ; onde bisognava
accomodarsi à mangiare oro, perche de' soliti comestibili già si penuriavad
affatto ; fi avvide egli del suo errore , e fe dismettere tal lavoro per
attendere à quello, ch'era più neceffario, e dopo piamente utile per la
conservazione del suo individuo. Sem. Essendo il marito scapestrato , che
cosa dovrà fare l'infelice moglie? Pub. Arinarsi di' una santa sofferenza
con amarlo più, che sia possibile. Sem. Maltrattando però anch' ellas con
fatti, econ parole; non sò, come potrà continuare ad amarlo, e
fopportarlo. Pub. Non potendosi cimentare seco la saggia moglie, non potrà
farne di meno; perche altrimentine anderebbe sempre di sotto ; come
accenna OVIDIO (si veda) nei Fasti. Quid faciet? pugnet? Vincetur fæmina
pugnans. E parlando altrove d'Ipemnestra, le fe dire : Che deggio io far del
ferro? in che con viene Coll’armi una donzella 2 io più conformi Ho le
braccia, le man, la forza, ib cuore All'ago, all'apo , alla
conocchia, al fufo, Che all'armi crude, e bellicosi ferri . Laonde sempre
meglio farà à soffrire, 1 andandolo bensì illuminando a poco ad poco con
dolci modi, mediante i quali le fiere stesse depongono la loro crudel. tà; e
s'egli non averà un cuore più cru do di quello delleone , non incrudelirà
- certamente contro di essa, raccontando Plinio di questo animale : ubi
sævis, in viros, plus, quam in fæminas fremeres 1 veluti natura eum
docuerit mulieres mi tius, quam viros elle tractandas. E for tuttavia
perseverasse à rampognarla, si serva di quell'avvertimento, che
diero no [ocr errors] no i capitani di Ciro ai suoi soldati : che
venendo i loro inimici alla zuffa gridan. do , con silenzio gli avessero
accolti ; mà se tacendo, andassero efli ad inveftirli gridando; dal che ne cavo
Plutarco layvertimento, che debbano tacere le donne, allorche vedono i mariti
adiraci; quando sono mesti bensì debbano animarli, e dar loro sollievo con
affettuose, ed efficaci parole. Sem. Voglio credere, che la moglie
manierosa lo possa addolcire à fine, che seco non contrasti; mà fuori di casa
come lo potrà trattenere, che non prenda impegni di duelli, ò di riffe?
Pub. Quello , che seguirà fuori di casa, essa non potrà cercamente impedirlo,
essendoche non dee andargli appreffo; lo domerà bensì in questo caso
qualcun'altro, perche vexatio dat intellecium ; onde maltrattandolo qualcuno, ò
effo altri, in ambidue i modi potrebbe mettere giudizio; poiche, feri.
ceverà, oh quanti mutano vita dopo di avere fofferta qualche disgrazia confide.
[merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] derabile , e se offenderà
altri, il gasti. go ancora, che gli sovrasterà lo potrebu be far ravvederc
. Mer. Hò conosciuto molti di questi , che hanno perseverato qualche
tempo nelle loro stravaganze, e poi si sono domati, e particolarmente quei, che
hanno sofferte considerabili sventure. Pub. Alcuni di questi ancora si
ravveggono allor , che divengono padri di numerosa famiglia, crescendo loro il
pensiero di provederla , e particolarmente avendo molte figliuole ; onde non
dee mai la saggia donna disguItarsi con fimili mariti; dee bensì raccomandarli
al Signore , che li faccia ravvedere , ed abbandonando le vanità mondanc,
attendere al governo dellas sua casa più diligentemente, che sia poflibile.
Sem. Essendo giocatore, come dovrà regolarsi con esso lui ? converrà che lo
seguiti anch'essa per darli sodisfazione? Pub. Per andare in rovina
prestamente, cosi potrebbe fare. Sem. Forse che nò; perche tal volta perdendo uno,
vincerebbe l'altra, e maggiormente, che sogliono le donne vincere sempre ; onde
potrebbero andare le cose compensate, e senza veruno discapito. Pub. E se
perdessero ambidue, bella compensazione , che seguirebbe! Le donne possono
vincere con licurezza solamente quando si contentino di fares perdite
maggiori,terminato il giuoco, è prima di principiarlo; per altro sono anch'esse
soggette alle perdite. Mec. E curiofo,ciò che accadette una volta in mia
presenza : giocava un mio amico con una donna alquanto atrempata, ed avendo
egli carte superiori, io gli disli, che non le avesse scoperte, e fi foffe
fatto vincere, giocando con una donna. Questi mi rispose, che non las teneva
più per donna altrimenti, avendo passico li quaranta anni, mà bensì per
uomo. Sem. Or ditemi,
che cosa debbas fare? Pub. [ocr errors][ocr errors] [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Amare, e sopportare il marito, ed i suoi
difetti. Sem. Questa è la solita canzona; mà intanto in una notte
potrebbe giocarsi tutto il suo; ed allora che le averebbe giovato
l'amare, ed il sopportare? I. Pub. Dite voi dunque ciò, che dovesse fare
per darvi più opportuno riparo . Sem. Diricorrere, farqi sentire con
iftrepito, per impedire, che non potefse più giocare. Pub. Oh bene ! É
non sapete voi, che nitimur in vetitum ; onde questo sarebbe à appunto il
motivo di fargliene venire maggior desiderio di prima ; e se avesse
dismesso per lo passato il giuoco à meza notte, di farglielo durare in avvenire
sino à giorno, per fare dispetto all'imprudente moglie. Sem. Mà che dovrà
fare questa infei lice donna? Pub. Non altro, che sofferire , ed amare,
più che mai, ed udite ciò, che dise S. Ambrogio Sec. Offic. Quid tam
ino. [ocr errors][ocr errors] S 2 S [ocr errors][ocr errors]
inolitum , atque impreffum affe Etibus humanis, quam, ut eum amare inducas in
animum, à quo te amari velis? Sem. Penurierà la casa del necessario, non
si pagherà la servitù, i debiti cresceranno, le tenure deterioreranno, anderà
tutto da male in peggio, e questo sarà appunto il frutto del soffrire , ed
amare. Pub. Forse , che lo schiamazzo della moglie, quantunque giugnesse
à quel fegno descritto da Virgilio: Fæmineum clamorem ad. cæli fidera's
tollunt. potrebbe dare riparo à tanti mali? certo che no, mentre, come dicemmo,
diverrebbero maggiori. A tal pro- en pofito cade in acconcio la risposta , che
diede il Re Filippo à coloro, che lo fti- dic molavano à muovere guerra ai
Greci, i quali beneficati da esso sparlavano della sua real persona, che fu
quefta : Quanto peggio farebbero , se fossimo nemici la loro? Sem. Però
se io fosfi ne. suoi piedi, [ocr errors] non [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] non potrei essere così amoroso di un marito,
che procura di mandare la casa in malora. Pub. E che fareste dunque di
vantaggio? 50 Sem. Sei iniei parenti non mi volesseed ro dare
ricetto in casa loro, me ne sta rei in un appartamento separato, e pro.
1 curerei di non trattarlo più; perche, come si suol dire: occhio non
vede, cuor non duole. Pub. Sarebbe questa certamente una gran pazzia
conosciuta anche da Euiripide per tale; mentre egli fa dire ad Giunone;
non esserci altro rimedio più opportuno , di questo, per
riconciliare gli animi, che il conversare insieme , dicendo: Ho
disegnato a lunghi lor contrasti Ho giammai di por fine con un modo
Segreto, e nuovo a lor, unırli insieme. i Onde qual vantaggio
riporterebbe dallo ftare lontana dal marito, e di abbandonare affatto il
letto nuzziale, fe non di eternare le discordie? e se non sapete,
che [ocr errors] S 3 che cosa guadagna la donna , con fare la
disgustata, udirelo da Salomone: Qui confundit domum fuam poffidebit ventos ;
onde fi ritroverà alla fine colle mani piene di vento, e questo sarebbe appunto
tutto il guadagno, che averebbe fatto. Mec. Io, che in mia gioventù sono
fato amico di qualche giocatore , il qual faceva grosse perdite , in occalione,
che taluno di effi mi riferiva le sue sventure, non potevo contenermi di non
domandare, se la sua moglie n'era consapevole, e mi dicea, non avere potuto
farne diineno di non palesargliele, allora, che dovendo fodisfare la grossa
perdita già fatta , gli era convenuto più volte chiedere le gioje, per
impegnarle, non trovandosi pronto il danaro; cui replicavo : che schiamazzi
averà fatto ella trovandosi doppiamente disgustata; e rimaneva ammirato
nell'udire, che qualcuna di effe con prontezza grande glie le dava; e di
vantaggio mi riferiva, che non vi era già pericolo, che la trovasse colcata,
quando cornava quancunque avesse tardato molto; anzi, che con faccia molto
allegra li dava la buona sera, allorche lo vedeva comparire; e mirallegravo
seco dellas buona sorte, che godeva nelle sue sventure, essendosi abbattuto in
una sì prudente moglie; ne mi poteva contenere, avendo seco confidenza, di non
riprenderlo in tale occasione con dirgli: c voi siete sì crudo, che non avete
comparfione di farla ogni sera tanto parire: troppo fo, mi dicea egli; perche
se non pensasli ad essa talvolta, che mi trovo sotto nel giuoco,chi sà quando
lo avessi terminato, e che perdita maggiore avessi fatto; allicurandomi inoltre
che di tanti incomodi, che le aveva recati, ne averebbe avuta viva
rimembranzada à suo tempo, per farla godere, se soprayiyeva ad esso, pensando
di lasciarlas erede, non avendo figliuoli; conforme appunto è seguito ; onde la
sua sofferen· za , fu alla fine rimunerata . Sem. Ed in quei giocatori,
che avevano le mogli risentite, vi siete mai abbattuto? Mec. [ocr
errors] S4 Mec. In questi ancora, e domandan. do loro, che dicevano le
mogli allorche sapevano le loro grosse perdite, vi fu tra questi chi in tal
guisa mi rispose: il maggiore tormento, che io abbia allorche fo qualche groffa
perdita è di vedere inviperita mia moglie, cui chiedendo le gioje, per
impegnarle, me le hà sempre negate ; mà io l'hò mortificata con vendere altre
cose, ch'erano di sua somma fodisfazione ; affinche conoscesse, che io era il
padrone. Pub. Vedere dunque, Sempronio , quanto sia meglio soffrire in
questi casi, che fare risentimento; e voi Mecenate, di grazia cessate di dir
male più delle donne, avendo confeffato, che vene sono delle prudenti ancora
. Mec. Sono però queste di fimile natura rariffime, non contentandosi per
lo più le mogli di farli impegnare le gioje, e particolarmente à sodisfare per
le perdite fatte nel giuoco. Sem. Come debbonsi le mogli regolare, quando
scorgogo i mariti diviati a Pub [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] [ocr errors] mente, Pub. In niuna altra occasione si conosi
sce meglio la donna saggia , quanto in fi questa; imperciocche le tocca sul più
1 vivo; onde doverà adoperarvi cutta la prudenza poffibile per
divertirlo. Sine tanto, che il fatto sarà secreto, non dee darsene per intesa;
e se taluna lv rapportasse , che viene tradita da fuo marito , dee ella replicarle
con risentimento: ch'egli l'ama , e crede ferma che per questa cagione
non le possa fare un simile torto, dee però servirsi dell'avviso, per
rincontrare dalle mutazioni , che scorgesse in lui, tanto nell'affetto, quanto
nella stima verso di lei, se debba prestarle fede. Sem. Doverà dunque
lasciar correre trascuratamente, senza darci riparo , male fi considerabile,
una donna in particolare, che non gli da occasione alcuna di farle simile
torto? Pub. Ho udito dire da' Medici, che ci siano alcuni rimedi, che
sono peggiori del male, al quale si applicano ; onde non vorrei, che questo
fosse uno di quelli; palesatemi dunque voi qual credereste in questo caso
essere il suo rimedio più valido , quando non vi piacciano i più beoigni. Sem.
Di fuggirsene immediatamente in casa de' suoi genitori, con animo di non
tornare più da suo marito. Pub. Questo appunto sarebbe uno di quei peffimi
rimedi, posciacche dandofegli campo libero in avvenire di fare, ciò, che vuole,
accrescerebbe non folamente il male antico, mà ne produrrebbe, anche degli
altri, che sono las totale discordia conjugale, ed il divul. garsi da pertutto
ciò, che non è bene, venga publicato. Sem. Che cosa dunque ella dovrà fa,
per non morire accorata , dimorando in casa del marito ? Pub. Conyerrebbe
, in questo caso principalmente, ch'ella ben apprendesse quel consiglio dato da
Platone as Zenocrate, qual fù: che sacrificate alle grazie , per essere più
avvenente, che per lo passato; e così con dolci maniere [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] re [ocr errors][ocr errors] re potrebbe facilmente
conciliarsi il suo affetto ; dicendo Salomone che: Mulier gratiofa invenit
gloriam. E quali debbano essere queste dolci maniere ; non occorre, che mi diffonda
per istruirne le donne, cfsendone di effe maestre: diro solamente, che se la
palma, ch'è un albero insensato arriva, come vuole Plinio, à piegarsi, allorche
stà vicino alla sua palma femina , volete , che il marito ancora non si renda
alle piacevoli maniere di una saggia moglie? È interogata Livia Drufilla da una
Dama, perche faceva fare ad Augusto marito suo ciò, ch'ella volea; così
rispores : perche fo volentieri quello, che io conosco essere di Cesare in
piacere, e non ricerco i fatti suoi, come racconta Dione. Sem. E se
faceffe praticare per casas una sua qualche donna Atraniera, come la potrà
tollerare? Pub. Anzi la dee, per non irritare maggiormente l'animo di suo
marito, e farle corresie ancora, mostrando di non essere consapevole di cosa
alcuna ; conforme appunto fè Terzia Emilia moglie del maggiore Affricano, la
quale, non solament’egli vivente, diffimulò di fapere, che suo marito
amaya una fuas schiava, mà dopo la morte di esso las fè libera, e la diede per
moglie ad un suo liberto ; come racconta Valerio Massimo. Ed Omero riferisce di
vantaggio, che la moglie di Antenore aveffe egual cura di un figliuolo fpurio
di esso, di quello , che avea de proprj, per non disgustarfi suo marito.
Plutarco ancora racconta nel libro delle donne illuftri, che Stratonica si
prendesse il pensiero di educare bene i figliuoli di Dejotaro suo marito,
quantunque forsero nati da Elettra sua serya : oltre poi quello, che dice
la facra Genefi di Sara, ė di Rebech ab 16. & 30. Sem. Questo però
non lo porrà mai fare una moglie di spirito ; non potendo questa soffrire un
simile torto . Pub. Quefte, che hò riferite , avevano spirito, cprudenza;
ne mi persua [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][ocr
errors] deco, [ocr errors][ocr errors][ocr errors] derò, che possiate
darvi à credere, che - Olimpia madre di Alessandro il Grande lie non
avesse spirito, e pure questa, venendole rapportato, che Filippo suo marito era
talmente invaghito di una giovine di Teslaglia, che si credea communemente,
foffe ammaliato; volle conon scerla, ed appena veduta, che l'ebbe le disse :
Tecum enim philtra babes, quanto mai le parve bella ! e non fu questa picciola
finezza il dire ad una sua rivale, che rapiva il cuore di tuti. Mec. Io
so, che alcuna di queste per aver ricevute.cortesie obbliganti dalle saggie
mogli, sono fervite di mezane, per riconciliare l'affetto era effe,e i loro
mariti : altre poi, che hanno ricevuto strapazzi,sono state cagione di odj mag.
giori tra essi; onde seinpre hà giovato alle mogli saggic, di non inafprire
maggiormente la piaga con irritarla. Pub. Un'ottimo ammaestraméto vien
dato à queste da Plutarco, ed è di non allontanarsi mai dal marito, perche
facenda altrimenti, la rivale diverrà af for [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] soluta padrona, non solamente del letto mà
ancora della casa tutta, Sem. Mà durerà sempre questo disordine?
Pub. Non durerà, perche la prudente moglie saprà vincere col tempo las violenza
dell'altra, come ben cspreffe Ofeo Poeta: Capitur ergo ab infirmis
celer, Aquilamque brevi testudo vincit. E la testuggine appunto, essendo
Gimbolo della donna onefta, non recherà maraviglia, se questa ancora frenerà il
volo dell'aquila, con aspettare però l'occafione opportuna, la quale potrebbe
essere, allorche li fa dimora in villas, ove l'amica non fosse presente; ed il
maggiore argomento che potesse addurre per allontanarlo dall'amore impudico,
sarebbe appunto di fargli conoscere colle buone, il cattivo esempio, che ne
prendono i figliuoli; con insinuargli ancora,per giuoco,quel detto di una
pudica donna, tratta å forza dal Re Filippo: deh lasciami andare, gli disse,
per [merged small][ocr errors][merged small][merged small][ocr
errors][ocr errors] na, Il che tutte le donne , portata via la
lucer sono simili ; mà se poi imitasse quella prudenre Gentildonna
Sicilianad di cui fa menzione Lodovico Vives, nella Christiana fæmina,
quanto mai u lo renderebbe à se affezionato? Questas andava osservando
ciò , che facevano i servitori, che fosse al padrone marito suo più grato, e
quello ella facea di sua mano studiosamente; se bene talora con estrema fatica
fua, quello poi, ch'era di meno travaglio, fatica, e noja, comandaya à
servitori. Sem. Mà quando non fosse deviato altrove il marito, che cosa
porrà fare la i donna savia , à fine, che non ecceda con i essa lei in
pregiudizio della propria falute? Pub. La saggia donna non dovrà
mostrarsi renitente à fodisfare le brame di E fuo marito ; ben è vero però, che
dee'as 1 poco a poco, andargli dolceinente infio nuando il danno, che
potrebbe appor tare l'immoderata frequenza degli arti conjugali,
potendogli questi abbrevia Per que. re anco la vita con danni
notabili della sua famiglia ; e starà ben ella circospetta nell'ordinare
vivande, calorose per la mensa, ed ancora nel tenerlo lontano dallo
frequente uso del cioccolato, erosolì. Crescere res poset nimiùm
damnofa libido. Come vuole Ovidio . Sem. Prometteste, Dottore, di
mostrarmi sino à che segno poffa giugnere l'uomo in pagare il debito
matrimoniale senza discapito della propria salute. Med. Epicuro,
Democrito , Averroe, ed altri Filosofi ancora credettero, che sempre sia molto
dannoso l'uso venerco: Altri poi lo credono solamente, allora, ch'eccede i
limiti dell'onesto. Sem. Or io non voglio andare cercando malanni ; per
battere al sicuro mi contento starmene senza prendere moglie ; perche la
propria salute mi dee premere molto più della moglie. Med. Ditemi di
grazia , Sempronio, senza andare in collera: Voi che avete fpiriti generosi, fe
venisse un esercitoDell'Elezione della Mog. 289 per distruggere la vostra
patria, per salvare la propria vita, abbandonereste la difesa di essa é o pure
vi porreste ad evidente pericolo di morte per difenderla? Sem. Sarei un
gran codardo, quando l'abbandonaffi; dovendo per sua difesa porre à pericolo la
vita con tutte le mie sostanze Meda E per conservare la vostra specie, la
quale può difenderla ne' suoi bisogni, perche ricusate di farlo? non ponendo
già ad evidente pericolo, nè vita, nè roba , contenendovi dentro i limiti della
moderazione, esponendovi in tal caso solamente à pericolo di soffrire qualche
moderato, e breve disaggio: e se voftro Padre fosse stato di questo
sentimento come farefte voi [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
naro ? Sem. Converrà dunque farlo ; mind u questa moderazione nell'uso
venereo, in che doverà confiftere? Med. Primieramente in fuggirlo più,
che sarà possibile la state: dicendo Cel. co 10, aftate in fptum, fi fieri
poteft, abftinen., dum; e nell'autunno dice: neque autumno utilis venus
eft; nel rimanente poi dell'anno non abufandovene sarà sempre meglio per
voi, Sem. Mà da che potrò comprendere tale abuso? Med. Dalla
stanchezza, che riceverete dopo di esso, perseverando questa, per qualche
tempo, nella forina , che descriffe OVIDIO (si veda) di averla osservata in un
amante Vidi ego cum foribus laljus prodiret amator Invalidum referens ;
emeritumques latus, Sem. E cadendo io in questo, che rimedio averò da
praticare? Med. Aftenervene per qualche tempo, dicendo VIRGILIO (si veda)
nella Georgica; Nulla magis vires industria firmat Quam Venerem, cæci
fimulos aver tere Amoris, E di questo niuno meglio, che voi ne potrà
essere giudice s purche sia la voItra mente libera, e non preoccupatas
dall [ocr errors] [ocr errors] dall' estro libidinoso. Şem. E per
fuggire questo, qual ri# medio sarebbe opportuno ? Med, Il vitto
moderato, e la moglie - favia sono i veri antidoti per indurre moderazione
nelli cimenti di venere. Pub. Vedere dunque , Sempronio, quanto possa
giovare una saggia donnas nel fare prolungar la vita à suo marito ? prendetelo
dunque à buon fine, quan do la vostra moglie vi frenaffe in que1 fto,
facendolo per noftro bene. Met. Or io non vorrei starmene raffi, dato alle
donne sopra di ciò; perche affai di rado fi riceverebbe da effe tale
beneficenza;vorrei più tosto prendere l'efeinpio dai bruti, i quali, toltone
quei tempi prefisli loro dalla natura, non si ac. costano più alle
femine, nè tampoco ef: se appetiscono i maschi; ed udite come lo conobbe
bene Democrito riferito, Dottore, dal vostro Ippocrate nellas u lectera
scritta à Damageto; Anniversa riorum temporum ordo, brutis quidem
danimantibus coitus finem adfert, homo T2 verò [ocr errors]
[ocr errors] verò infano libidinis stimulo continenter agitatur. Sem.
Dandosi il caso, che il marito fosse impotente, ne viverà contristatas la
povera moglie di questo? Pub. Prescindendo dal rammarico, che averà,
trovandosi priva di figliuoli, credetemi , ch'essendo prudente, non fi prendera
di ciò fastidio alcuno;perche considererà ben'ella, che quel momentaneo diletto
è compensato da molti altri tormenti, che îi soffrono, non solamente nelle
cattive gravidanze, e laboriofi parti , mà quello, ch'è di travaglio maggiore,
nell'educar beoe i figliuoli , de' quali taluno alle volte riesce scapestrato
laonde se rifletterà à ciò che dice l’Ecclefiaftico. Utile eft mori fine filiis
quam impios habere, aidarà pace essendo priva di elli. Sem. Io conoseo
alcune di queste sterili, che non fanno alcro, che sospirare; eso che
volentieri introdurrebbero il giudizio del divorzio. Pub. Ed io conosco più di
una di que [ocr errors] 2 fte, fte, che si
trovano nella medefima nave, le quali stanno contentiflime, e pensano
perseverare col suo marito fino allas morte, quantunque sia impotente. E forse
credono quelle , che il tentare questo divorzio sia qualche delizioso
divertimento ? Sappiano, che converrà loro esporsi à prove, e recognizioni ,
che danno molto da cicalare per tutta la citrà. Ed inoltre, facendo ciò,
mostreranno ancora di essere libidinose,deliderando avere più validi mariti.
Sem. Mà coine ci potrà essere pace i tra simili conjugi? Pub. Se la
moglie sarà prudente, non i ci sarà discordia alcuna; perche vedenÛ dofi il
marito così impotente, procurerà per altre vie divertirla, se non fürà
del tutto disamorato. Sem. Mi persuado , che poco averà · da dolerâi la
moglie del marito goloso, quando però
faccia anche ad essa gufta10 re qualche delicata viyanda? Pub. Non è
così; perche la donnas prudente di questo fi rammarica al parodi tutti gli
altri difetti, essendo che fis mile vizio persevera per lo più fino allas morte
; onde con facilità grande può far impoverire; conforme si legge nell'
Ecclesiastico al 21. Qui diligit epulas in egeftate erit, qui amat vinum, Q
pin. guia non ditabitur. Oltre poi imali, che suole apportare alla
salute. Sem. Mà comc ci potrà dare rimedio ? Pub. Conosco anch'io,
che farà cola difficile il poterlo affatto rimuovere, mà la prudenza, e
l'ingegno donnesco potranno darvi bensì qualche riparo , con guadagnarsi
l'affetto del suo marito, il quale acquistato, se le réderà à poco à poco
facile à titolo di sanità, d'introdura, re qualche moderazione ia effo :
avvertali però, che la servitù rimanga in qual. À che parte compensata di
quegli avanzi della mensa , de' quali soleva partici; parne, altrimenti questa
per tal cagione sarà capace suscitare discordie traefo sa, e suo marito, con
inventare infinite menzogne, Sem. 11 [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] [ocr errors] Sem, Ed abbattendosi con mariti di la mente
debole, come hanno da fare per di rimuovere dalla loro grazia certi servis I
tori favoriti, che li dominano? Pub. La donna, che colla sua pru. denza
può giugnere à rimuovere dal cuore di suo marito caluna, che lo porfedeya
indebitamente, con quanta facilità maggiore potrà allontanare questi,quando
voglia abusarli della dilui grazia ; ed in ciò non occorre istruirla di
vantaggio, essendone espertissimas; basterà solamente accennarle , che faccia
passaggio delle cose leggiere, e nelle gravi norf operi con violenza grande,
per non porlo in impegno di sostenerlo ; mà venendo l'occasione opportuna in
qualche fuo trascorso rilevante, gli faccia conoscere, ch'ella non opera per
passione, ma bensì per suoi vantaggi. Sem. E se aveffe anche la Suocera
cartiva, la quale consigliaffe suo figliuolo à Itrapazzarla , che cosa doverà
fare? Pub. Di sopportarla , amarla, erispettarla , come costuma fare con
fuo [ocr errors] [ocr errors] marito; perche non nascono già per altra
cagione le discordie tra suocera, u nuora, che dalla gelosia , che hanno le
madri, che i figliuoli amino più le mogli ch'esse, da cui ricevettero
l'efsere Sem. Mà se ciò non ostante continuarse à fare il medesimo, non
sarebbe me. glio di metterla in discredito appresso il figliuolo, à fine che
non le desse più credenza? Pub. Questo non dee fare la donna saggia'; dee
bensì riflettere à ciò, che, fi costumava nella città di Lepidi in Affrica per
meglio imparare à soffrire. Racconta Plutarco, che ivi era costu che nel
giorno seguente alle nozze la sposa mandasse à domandare alla suocera una
pentola, la quale le venivad negara ; e questo si facev'à fine che, non G
sdegnafre, le in avvenire le avesse negato alcuna cosa. Sem. Converrebbe
ora discorrere fopra le stravaganze grandi, che nascono tra i marişi çattivi,
cle mogli peffime, [ocr errors][ocr errors] me, [ocr errors][merged
small] Pub, [ocr errors] Pub. Non è certamente neceffario parlarne ;
posciacche, à chi darebbes l'aniino di consigliare costoro, che sono incapaci
di ragione ? Bisogna, che tra loro si aggiustino, e fogliono per lo'. più
essere concordi', perche niuno di loro può rinfacciare all'altro i difetti,
elsendone ambidue colmi. Il danno è bensì de' poveri figliuoli , che non si
educano bene, tanto per l'esempio cattivo, che danno loro, quanto per la
direzione, della quale eli penuriano : ben è vero però, che quando questi li
avanzano alle discordie', non effendoci mezo capace à poterli più riconciliare
tra loro, solamente l'autorità del prencipe può impedire le rovine maggiori che
possono nascere per i dilapidamenti delle loro sostanze, 'à fine și non vedea
ce mendichi i loro discendenti. Sem. Sarebbe però un vantaggio grande,
che tutti i mariti catrivi prendesse. ro mogli (imili ad essi ; perche alloran
per i buoni rimarrebbero le buone solamente. Pub. Pub. Succede
frequentemente così , essendo questi portati dal loro genio ad amare simili ad
essi, secondo il proverbia : aqualis æqualem delectat, ý semper à fimili fimile
amatur. Il che viene confermato dal Nazianzeno, dicendo: Pulli quidem
pullis amici , coruique corvis , [ocr errors] Et furnis sturni ,
puro autem pretiofus. eft purus: Meglio però di tutti l'insegna
l’Ecclesiaste: Diligit fimile fibi , dow omnis homo fimilem fibi, omnis caro ad
fimilem fibi conjungitur, omnis homo fimili sui sociabitur. Onde se accaderà,
che una catciva giovane prenda un buon marito non sarà già di sua volontà, mà
verrà bensì sforzata da' parenti à farlo, e das quefto nc nascerà quello
appunto, che, dice l'Ecclefiaftico. Mulieris ira , o irreverentia , &
confufio magna: on- ; de guai à chi toccherà limile infortunio. Sem. Mà che
potrebbe fare chi li trovafle in simili miserie?Pub. Di prevalersi di quest'
ottimo consiglio, riferito.da Gel. in Sat.Menip. Vitium uxoris's aut tollendum
, aut ferens dum ; perche : Qui tollit vitium, uxorem commodiorem præftat , qui
ferte se fe meliorem facit. Sem. E cui riuscì il potere far questo in
core rilevanti ? Pub. Tra gli altri à Socrate; come ris ferisce Plutar.de
Choib. ira: il quale avendo seco à defináre Euridemo, quando nel meglio si alzò
in piedi Sancippe, e dopo di avere caricato di villanie socrate roversciò la
tavola in terra; onde Euridemo si alzò in piedi addolorato per partirli; cui
Socrate disse con gran Aemma: non accadè poco innanzi in casa tua, che una
gallina yolando fece l' isteffo ? e pure niuno vi fu , che li contriftaffe
disinile avvenimento; perche dunque voi ora lo fate 2 Sem. Non si è
parlato Gin'ora, come fì abbiano da regolare le povere donne per iscegliersi un
buon marito Pub. Nom dçe la donna sceglierli as suo suo
compiacimento il marito; mà bensì riceverlo da' suoi più congiunti, e di questo
ne parleremo nell'educazione de' figliuoli, mostrando le diligenze, che
doveranno farg da' padri å fine di provederle bene. Sem. Spererei di
sapere scegliere las moglie, ora che ini trovo in ciò istruito; mà sposata che
l'avefli mi troverei intricato nell'educare i figliuoli, quando Iddio me li
concedeffe, non avendo ancor appreso à bastanza il modo das regolarmi per bene
diriggerli. Pub. Nella seguente Decade tratteremo di questo. [ocr
errors][merged small] Sopra l'educazione morale de' figliuoli CONFERENZA nella
quale si mostra, che cosa sia educazione, cui appartenga più di ogni
altro; e se sia necessario luogo particolare,ove debba
farsi. Sempronio, Publio , Mecenate e Medico. [ocr errors]
Sem. N che consiste l'educazione? Pub. Nello svellere da gli animi
de' tcneri figliuoli tutti quei vizi, che spontaneamente germogliano in
elli, e nell inestarvi in loro vece i preziosi gerini delle virtù ; effepdoche,
come ben'er preffe VIRGILIO nella Georgica parlando degl'innesti ;
Pomaque degenerant , fuccos oblita priores, sem. Come! in noi
spontaneamente nascono i vizj! Pub. Non è da dubitarnę mentre nascono
molti vizj con noi medesimi insę. gnandoci il Profeta : Ecce enim in iniqui,
tatibus conceptus fum; du in peccatis concepit me mater mea; verità
conosciutas, anche da' gentili ; posciacche Orazio così scriffe: Nam
vitiis nemo finè nafcitur. Optimus Qui minimis ur getur . E Democrito,
che ; totus homo ab ipfo are fu'morbus eft ; ed inoltre, che secondo l'età in
noi germogliano i vizi propri di effe, i quali se non saranno a tempo dçbito
estirpaţi, quei della puerizia fivedranno adulti nelle altre età; ma vie peggio
ancora, che vedo verificarsi ciò che diffe Orazio nell'Odę 6. lib.3. cioè
i Ætas parentum pejor avis tulit Nos nequiores, mox daturos Pro ille
eft, Sopra l'educ. de figliuoli. 303 Progeniem vitiofiorem , E da ciò
comprenderece à che segno debba essere ora l'educazione più esatta di
prima. Mec. Ed io che soglio conversare spesso co' miei amici ho veduto
più di una volta, in occasione, che questi as. pertavano qualche visita di
soggezione, verificarli ciò, che dice Giovenale nella satira, Hofpite
ventura ceffabit nemo tuorum ; Verre pavimentum, nitidas oftende
columnas, Arida cum tota defcendat aranea tela, Hic lavet argentum,
vasa aspera fergeat alter, Vox domini fremit inftantis, virgam. que
tenensis. Ergo mifer trepidas ne stercore fæda cao ning Atria
difpliceans oculos veniensis amici, Ne perfufa luto fit porticus, tamen
uno Semodio foobis , her emendat fervulusE quel ch'è peggio ancora , che
vedo verificarli appresso alcuni ciò, che se gue: Illud non agitas,
ne sanctam filius omni. Afpiciat fine labe domum, vitioqae
carentem, Sem. Vi concorre altro alla cattivas Educazione, che la
trascuraggine ulata in non eftirpare à tempo debito gli ac GE cennati
difetti Pub. Potrebbero anche renderla peg el gior e i cattivi esempj
dati a' figliuoli, luz dicendo Giovenale nell'accennata satira. Sic
natura jubet velociùs, du citiùs nos Corumpunt vitiorum exempla
domeftica magnis Cum subeant animos auctoribus . Quali
cattivi esempi potrebbero a’proprj accrescere gli altrui difetti . Sem.
Mà come possono essere capaci in di cattivi esempi i teneri fanciulli non
distinguendo questi ancora il bene dal male? Pub. Pub. Dice Plutarco
nell'educazione de' figliuoli, che s'imprimono gli ammaestramenti in elli
conforme appunta fanno nella cerà molle i sugelli, e che perciò il divino
Platone saggiamente avertisce le balie à non raccontare loro favole di
ogni sorta , mà solamente u quelle, che ponno essere giovevoli al buon
costume;confermandoci ciò S.Ba, filio, il quale, scrivendo à quei
dellas città di Neocesarea, confessò loro di ellere debitore di una
buona parte della sua divozione alla nutrice, la quale, non
perdendo mai alcun sermone di GREGORIO (si veda), li serviva di molti belli
derti uditi da esso in tutte le congiuntùre, che se le presentavano
per imprimnerglieli benc nel cuore ancora tenero; laonde saggiamente
diffe Focilide: Mentre fanciullo lei, virtute impara, Ma oltre il
malesempio, pregiudicano anche ad elli molto le carrive insinua.
zioni, Sem. Ma questi mali esempi non sa. ranno dati già loro dai
genitori, quants [ocr errors] 3 ci [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cunque fossero viziosi; perche
vediamo i ciechi desiderare i figliuoli bene illuminati, ed i zoppi, che questi
liano liberi, e spediti al moto: ne tampoco infinueranno loro cose
cattive. Pub. Così appunto dovrebb’essere, e pure ciò non liegue;
posciache alcuni hanno voluto insinuare à i loro figliuoJini l'invecchiati
difetti da' quali esli erano contaminaci. Vi furono due di questi, di cui fa
menzione ENEA (VIRGILIO (si veda)) Enea Silvio libr. 1. comment.; che dediti
all'ubriachezza procuravano , appena slactati ch'erano i loro figliuoli, di
affuefarli al vino facendone gustare loro de' più generofi, che si trovassero;
ed uno fti, persuadendosi , che non averle il suo figliuolo bastantemente
bevuto vino di giorno, volle di notte, in tempo chc dormiva,farglielo ingojare
con un cannellino; mà perche sonnacchioso corceva la bocca ingiuriò aspramente
las moglie ; dicendole, che non era suo fi. gliuolo legittimo, per non affomigliarsi
ad esso, cui tanto piaceva il vino. E vi [ocr errors] ed uno di que
[merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] re [ocr
errors] recherà orrore il sentire di vantaggio bu quello, che riferisce S. GREGORIO
(si veda) di un li esecrando bestemmiatore il quale ingi nuava ad un suo
figliuolino di cinque anni di ritrovare bestemmie anche infoJite, e riferisce
ancora il gastigo, che da Dio ricevette per sì detestabile dclitro, Mec.
Mà senz' and are cercando gli antichi esempi ; non ci è stato à giorni noftri
un Padre, che premiava de' suoi figliuoli quello, che cimentandoli co i
suoi fratelli, rimaneya vittorioso nel d fare à pugni? cosa tanto crudele
, che non fi racconta già praticata da gladiatori ROMANI tra fratelli,
Sem. Le Madri però non saranno state così perverse nel mal'educarli, Pub.
Queste ancora sono state colpevoli di ciò; scrivendosi di Draomirad:
Principessa molto vana, che per colpa fua diveniffe Boleslao parricida, e
fratricida ; dove che il fratello Vinceslao educato da Ludimilla sua ava
molto fagi gia, e pia divenne un Sanco, come nela la sua vita si
riferisce; e da ciò comprendere quanco di profitto apporti la buona
educazione. Mec. Questo non è da porfi in dubio, scorgendoli anche ne
bruti profittevole; mentre racconta Plutarco, che Licurgo per fare conoscere
tal verità a? Spartani fè comparire due cani , uno de quali era avvezzato per
la caccia, e l'altro, dedito in tutto alla sua naturale inclinazione, non
attendeva ad altro, che à leccare pentole di cucina, e nel mede: simo tempo à
vista loro fè portare anche una lepre, ed un carino di broda : nel vedere il
primo fuggire la lepre li pose a seguirla ; e l'altro se ne andò verso il
catino; soggiungendo egli a’Spartani: così faranno appunto i vostri figliuoli
ancora , se saranno, ò nò istruiti. Quindi è che avendo Tolomeo Re di Egitto
domandato ad un Savio quale foffe las negligenza maggiore, che regnava tra gli
uomini, egli prontamente rispore : ch'era la trascuragginc nell'educare i
figliuoli, mercecche da questa infinitimali ne potevano nascere. Sem. Mà à chi
dev'essere più à cuore questa educazione? Pub. A coloro, cui dev'essa
maggiormente premere, che sono i genitori, e questi debbono con industriose, e
diligenti manière spogliarli d'ogni difetto, e d'andare ne i loro teneri
cuori giornalmente istillando il prezioso liy quore delle virtù, senza
desistere mai; essendoche, come avvertì Plutarco questa voce costume ,
pronunziata in lingua Greca, significa anche continuo esercizio, onde da ciò si
può comprendere che non ci vuole trascuraggine nell'educare i figliuoli.
Riferisce ORAZIO, le diligenze in ciò usate da suo padre; verso di lui lib. 1.
Sat. 6. che furono. Sed puerum est ausus Romam portare docendum; Ipfe
mihi cuftos incorruptiffimus omnes Circum doctores aderat , quid mulia?
pudicum, Qui primus virtutis bonos , fervavit ab omni Non folùm facto
verùm opprobrio quo que furpi. Santamente dunque ordina Salomone ne' suoi
proverbj : erudi filium tuum , do refrigerabit te, & dabit delicias anime
tudo Sem. Mà le saranno i Padri talmente occupati, che non abbiano tempo
das poterlo fare? Pub. Se averanno occupazioni più riLevanti di questa,
saranno compatiti, caso che nò, sono tenuti di farlo, e non facendolo meritano
la riprensione del vecchio Crate,qual disse;contro costoro: Dove andate
meschini, d voi, che nel cercare di farvi ricchi movete ogni pietra; e
nondimeno de' voftri figliuoli, a' quali lieto per lasciare le vostre facoltà,
vi prendere poco pensiero ; al che sog. giugne Plutarco, che questi operano in
quella maniera, come se alcuno governaffe bene le sue scarpe, e de i piedi non
fi curaffe punto. Or ditemi di grazias qual potrà essere l'occupazione più
riguardevole di questa ? Sem. [ocr errors][ocr errors] [ocr errors]
Sem. I publici affari, per esempio, oltre il decoro personale, i quali
ricercano somma attenzione, e si può dalli buona amininistrazione di questi
ricavarne molta gloria, e molto lustro, vantaggiosi ai figliuoli ancora,
onde perciò non potranno distrarsi per educarli bene. Pub. E questo
lustro, e gloria se si estingueffe nc'figliuoli mal educati qual i
acquisto averebbero fatto i Padri? Gli Ateniesi nelle feste di Cerere
faceano un misterioso giuoco, ed era, che comparivano avanti l'alcare quei
destinati ad effo à prendere ivi un luine acceso, qual dovea porgersi ad
un'altro, che in una decerininaca distanza lo stava aspettando, per consegnarlo
ancor esso ad altri, che in egual lontananza lo atrendevano: se il detto lume
si foss' estinto prima di giugnere all'ultima mera, era in libertà di ogni uno
beffeggiare colui in inani di cui si estinguěya. E Platone fu di se. timento
nelle sue leggi, che: gignentes, alentes liberos vitam tanquam 1
lampada alii aliis tradunt. Or figuratevi ancor voi, che questo splendore, che
voi dite debba passare ne' posteri; come rimarrebbe colui , che per la sua
malas educazione lo estingueffe? in che ludibrj egli li troverebbe venendo da
tutti, beffeggiato? e sapendosi, che vi ebbe colp’anche la poca applicazione
del padre in educarli, dirà facilmente qualcuno : quanto era meglio un poco
meno di luftro, mà più durevole nella sua descendenza. Mec. Da questo
dunque procederà, che alcuni figliuoli di uomini illustri sono di costumi tanto
diversi da efli , che pajono più tosto nati dal disonore, averanno quelli
facilmente difefcato nell' educarli. Pub. Plutarco ne adduce ancora un
alıra cagione credendo egli che i fi. gliuoli degli uomini illustri divengano
facilmente superbi, ed arroganci; e lo comprova coll'esempio di Diofanto
figliuolo di Temistocle, il quale solevas, dire ne cerchi, che tutto ciò, che
li fos se se piaciuto sarebbe anco al popolo d'A. tene piaciuto;
perche quello , che voleva egli voleva la inadre; e quello che la madre
Temistocie, e quello che Temistocle anco tutti gli Ateniefi. Sem. Credo
però, che più comparibili polfano essere le Madri se diferteranno in deira
educazione, essendoche alcune di esse hanno impiegato turte le ore del giorno
in adornarli, in ricevere, ò fare visite, in passeggi , ò conversazioni;
talmente che pochissimo tempo potrebbe rimanere loro di badare a'
figliuoli,quando non foffero diftrarte anche nel giuoco. Pub. Già sono
capace, che premono oggidi ad alcune più i divertimenti, che i propri
figliuoli. E vi pare, Sempronio, che debbanli queste scusare? Non averanno
certameote occasione alcuna di lagnarli , se faranno questi cartivas riuscita; perch'esse
vi hanno difettato non solamente colla trascuraggine, w cziandio col mal
esempio dato loro ies S. Girolamo scrivendo a Leta non diffgià, che foss'esfa
scufabile, dando a'figliuoli mal esempio, mentre così parla: Nihil in te, &
in patre suo videat , quod fi fecerit peccer. Sem. Non si potrebbe
supplire coiu Maestri, & Aij alla propria trascurag gine? Pub.
Si potrebbe in caso di necessità; mà però è assai differente l'industria,che
adoperano i propri genitori da quellas, che sia l'altrui, ed eflendo questa à
proporzione dell'amore , quanto maggiore sarà quella de' propri genitori, che
più di ogni altro li ainano? Si suol dire ingeniofus amor , e questo appunto è
quello, che li ricerca nella buona edu. cazione . Sem. Se dunque li può
supplire, saranno scufabili quei genitori, che sostituiscono in loro vece chi
lo faccia. Pub. Non per questo però debbonli affatto allontanare da efsa,
senza averci qualche sopraintendenza particolare, e non usando questa non si
potranno mai scusare, Mer. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Meg. Siete
Publio troppo rigoroso, e questo credo , che proceda , perche voi foste
l'educatore de' vostri figliuoli; mà non sono ora più quei tempi felici , ne'
quali si pensava di lasciarli più rosto ben educati, che ricchi; non sarà poco,
che abbiano ora i figliuoli un Ajo di ti. tolo , che non li lasci almeno
precipi. tare in tutti i vizj ; onde da alcuni, che sono arrivati a conoscerlo
a è trovato quel santo ripiego di porli nei seminarj, assai giovanetti, e prima
che la malizia fi avanzasle in elli. Pub. Or io non mi sono curato di
porre i miei figliuoli in questi seminarj; perche ho voluto fare a modo del
Profeta, il qual dice: Filii tui ficut novelle oliva. tum in circuitu menja
tuk. Sono questi seminarj fantissimi, istituci ostimi per ap: prendere il
rimore di Dio, mà oh quanto fà di più quel Padre amoroso , ed actento, quella
Madre faggia, e divora, in educarli in tutto , avendoli appreffo di loro ! e
questo ben lo conobbe Orazio ringraziando suo padre della buo V
è C. na sua educazione in tal guisa . Laus illi debetur,à me
gratia major; perche: obiiciet nemo fordes mihi. Mac. Voi aveste però la
fortc,, che vi furono i vostri figliuoli, tanquam novelle olivarum; perche, se
riflettiamo alli rami di elli, sono simbolo di pace , e tali appunto sono li
vostri ellendo dotati di ottimo naturale ; fe al frur. to, è vero
ch'essendo immaturo , inolto amaro, ma questo con industria diviene anche
dolce, ed il fimile è seguito in elli, essendo giovani; se poi final. mente al
sugo, che da' suoi frutti maturi si esprime, ch'è l'olio, questo non fà alcun
movimento, solendosi dire per proverbio : è cheta come l'olio , e contimnili à
questo sono anche i vostri figliuoli, contro de' quali aon si è senci. to alcun
richiamo fin'ora, e spero, che trovandosi già avanzati negli anni , cresceranno
sempre più in bontà: mà se in vece di novella olivarum Iddio ve li avelse dati,
come piante di mirto, questi non iftavano bene in circuitu menja tud.
Sem. [merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged
small][merged small][ocr errors] [ocr errors] Semi E per qual cagione,
producendo il mirto un fiore gratissimo ? Mer. Sì bene, mà però senza
alcun frutto, ed è pianta dedicata à Venere, e tra esli facilmente si annidano
i serpenti, e se fossero ftati di limile cattiva natura i vostri figliuoli,
Publio, come vi fareste contenuto con efli loro? Pub. Gli averei ben
domati io; perche più fieri de'Leoni non potevano già essere, e pur questi
coll'arre divengono mansueti, e vi assicuro, che non averei fatto da cerusico
pietoso; avendo appreso da Salomone il rimedio qual'è; nos li subtrabere' à
puero disciplinam ; fi enim percufferis eum virgâ, non morietur. Més. Sapete
pur, che Dione, con forme racconta Plutarco nella sua vita, per il soverchio
rigore usato , e fatto ufare, nell'educare il suo figliuolo, fu cagione, che
per disperazione cgli si precipitasse da una finestra: il rigore paierno non è
sempre moderato , per cagione, che il più delle volte questo parsa dal
soverchio amore, al foverchio deg no; e poi i Padri vorrebbero in un
tracto estinguere tutti i difetti de’loro figliuoli, e questi han d'uopo di
tempo preparatorio non meno, che le valide medicine, come fa il Dottore.
Med, Questo è veriflimo, perche dandoli un violento rimedio, senza prepa, sare
prima gli umori, danno maggiore potrebbe apportare ; quindi è che il noItro
Ippocrate c'insegnò: Corpora cum quis purgare volucrit oportet Auida facere
, Pub. Però se Neocle non avesse usato tanto rigore , con arrivar sino à
privare della sua eredità il figliuolo, certamente, che la Grecia non avrebbe
avu. PC to il gran Temistocle, il quale ritrovan. doli in tali angustic
ricavò dalla necefficà la virtù, essendo che bene spesso : veWatio dat
intellectum. GULE Mec. Questo esempio appunto fa conofcere, che sotto
padri tanto rigorofi non possono educarli bene i figliuoli ; fpc posciache
avendolo diseredato lo mandò ancora fuori di casa, e perciò averàalırove
trovato chi lo cducasse con più discretezza; e poi questo fu un bene per
accidente, il quale assai di rado rie. sce con tanta felicità, rimirandosi
dall' altra parte infiniti, che discacciati da' propri genitori , datisi in
preda maggiormente de vizj, terminarono infelicemente la loro vita negli
spedali, ò disperati, di trovare modo da vivere, presero il soldo militare, per
foftentarli in quel breve tempo, che vissero. Pub. Or io sono di questo
parere, che debbano i propri genitori educare i loro figliuoli; perche, se
saranno buoni, e docili, riuscirà facile l'educarli; re poi perversi, ed
ostinati niuno credo, che potrà usare diligenza, ed attenzione maggiore di
cfli: saprete pure quel che seguì tra lo scolare, ed il maestro, fingendo il
primo di studiare diceva sotto voce : tu credi, che io studj, e non istudio, al
quale sotto voce anche risspoodeva il secondo: e cu credi, che jo mi curi di
questo che nulla mi preme. Mec. Voi dite orcimamche, perche fete capace
di farlo, e fiete anche pru. dente, mà come pretendete esiggere
tutto questo da un Padre imprudente, e vizioso, il quale non rifletterà
punto à quel saggio documento di Giovenale registrato nella Satira
14. il quale è:Maxima debetur puero reverentia, so quid Turpe paras,
nec tu pueri contempferis annos, Sed peccaturo obfiftat tibi
filius infuns, Nam fi quid dignum cenforis feceris ira, Quandoque
fimilem tibi; te non corpore Bantung Nec vuleu dederit, murum
quoque filius, & cum Omnia deterius tua per veftigia
peccer. Pub. Allorsì, che converrebbe trovare chi foffe capace di farlo,
per la ragione, che Giovenale medefimo apporta successivamente nella Satira da
voi citata: Unde tibi frontem, libertatémque parensis Cum
facias pejora fenex? Wacuumque cerebro Jampridem capul huc venioja cucurbito
quçrat. Mà però, che l'educatore insieme coll' educando dimorassero in propria
casa. Mec. E se in casa propria, oltre il mal esempio, la laurezza del
vivere ritardassero i loro progressi? Pub. Confesso,che in questo caso
converrebbe mandarli fuori, ed in paesi anche remoti; acciocche il mal esempio,
e la trascuraggine grande de' genitori, colà non giungeffero.Mà è possibile,
che questi, a' quali non dev'esser cosa di maggior premura di questa, possano
as proprio compiacinento dare mal efempio a' figliuoli? e poi se non sono
prudenti, perche s'inducono à divenire Padri ? Certa cosa c,che i figliuoli mal
ducati non apporteranno loro altro, che confulione, dicendo l’Ecclesiastico al
22. Confusio pat.is eft de filio in disciplinato. Mer. Il mondo oggi
corre cosi, mol. ti sono. Padri di nome, e solamente perche li hanno generati ,
onde perciò con vie. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] X viene ricorrere ad altri Padri savj, u prudenti ,
che gl' istruiscano, e fuori del proprio nido , essendo ora gran parte de'
genitori divenuti imitatori de' corvi, è dello struzzolo, che gli abandonano,
non già delle aquile, che con tanta attenzione istruiscono i loro polli.
Pub. Polliamo dunque conchiudere , che se i genitori saranno capaci, e diligenti
nell'educare i loro figliuoli, niu. no meglio, di efli potrebbe farlo; e fe
nella casa paterna si vivesse, come conviene non sarebbe d'uopo cercare altro
luogo per educarli,potendosi con profit. to istruire in effa. Sem. Che
doverà fare il buono educatore, sia Padre, è estraneo, per isvellere da efsi i
difetti? Moc. Questo lo vedremo nella seguente conferenza. CON
[merged small][ocr errors] Intorno à quello, che debba farsi da'Genitori
per educar bene i figliuoli. Mecenate, Sempronio , Publio,
e Medico Mес. L peso maggiore, che abbiano i Padri , mi persuado che sia
l'educazione dei figliuoli s perche si tratta di navigare sempre contro
acqua, dovendo opporsi bene spesso alle loro cattive inclinazioni, e superarle
à forza d'ingegno; e si trovano alle volte torrenti si rapidi, che si rende
assai difficilc poterli alla prima superare. Sem. Non mi fono risoluto
fin ora di prender moglie; perche hò consideratoanch'io le molte difficoltà,
che s'incontrano in questi tempi à ben’educare i fi. gliuoli, ne' quali vedo,
che appenas slattati che sono, pretendono di fares à lor modo, senza avere
alcun riguardo à quanto viene ordinato loro da'genitori. Mec. Non vi
sgomentate per questo ; Sempronio mio, essendoci il suo rimedio , quando chi
sopraintende há prudenza, e la prendere, come li suol dire, la lepre col carro.
Vi dirò io sci avvertimenti generali, che vi potranno molto giovare, allorche
sarete Padre di famiglia ; nel particolare poi sarete meglio istruito da
Publio. Ed il primo farà; che tanto voiquanto la vostra con. forte diare loro
buono esempio. Sem. Ed in quali cose? Mer. In tutte; perche se voi
sarete in continue discordie con vostra moglie, come potrete correggerli,
quando mai foffero discordanti tra fratelli? se vorrete, che non disordinino
nel nutrirsi, come lo potranno fare vedendovi cra po [ocr errors]
[ocr errors][ocr errors][merged small] polare giornalmente se li bramerece
divori, come potranno essere, se non mostrerete voi coll'esempio, ciò, che
volete , ch'essi facciano 3 E scoprendovi tutti dediti agli spasli, e piaceri,
come pretenderece,che siano applicari allo studio, divagandosi ancor elli
collaa mente nel pensare di fare il simile quanto prima , per imitarvi? non
fate 10 una parola, che quel difetto, che volete da effi (vellere lo rimirino
in voi medeliini, dovendo voi imitare Agricola, quando fi portò al governo
dell'Inghilterra , allorche si trovava molto rilassata, il quale prima da se
medelimo cominciò à dare il buono esempio. Sem. Ed il secondo qual sarà
? Mec. Di trattarli ugualmente tutti, senza mostrare parzialità benche
minima verso alcuno. Sem. Che male potrebbe apportare questa parzialità
paterna. Mes. Infinito ; percioche usandola voi, non solamente darette
occasione di odio tra fratelli, ed ecco, che invece [merged small][ocr
errors] che il pre ce di svellere da esli i vizj gli accrescere. ste di
vantaggio, mà ancora, che il diletto sarebbe meno attento degli altri ad
approfittarsi de' vostri buoni docu. menti, persuadendosi egli, che'
compacirete i suoi difetti, per l'amore, che loro mostrate, e gli altri,dal mal
esempio di questo, che profitco farebbero? Igenitori debbono: imitare il Sole,
e la Luna , che risplendono ugualmente as benefizio di cutri: e sappiate che la
parzialità, che usò David per Ammone fu la sua ruina ; impercioche questa lo fè
divenire incestuoso, e quell'amore troppo tenero, che fè trascurare tal mi.
sfatto,incitò Abfalone à divenire fratri. cida; mancamenti tutti derivati dalla
connivenza paterna. Sem. Il terzo qual sarà? Mec. D'accomodare
l'animo vostro alla dolcezza, ed al rigore secondo le occasioni, che vi si
presenteranno. Sem. E queste quali saranno? Mec. Se voi li vedrete
attenti, e che & approfittino dei buoni documenti che [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] avete dati loro, in quel tempo sarà opportuna
la dolcezza; mà se poi vedrete, che trascurino, e diferčino, dovrete servirvi
del rigore per correggerli. Sem. In tutti i loro trascorsi mi dove. rò
contenere ugualmente severo? Mec. Ci sono alcuni difetti, de' quali non si dee
far caso, essendo prudenza alle volte non darsene per inceso; altri sì, benche
minimi in apparenza, non debbonsi lasciare impuniti : per esempio una tal
inavvertenza, nata più tosto da disapplicazione, che da disubbidienza è
compatibile; mà non già una benche picciola bugia , ò una finzione maliziosa
anche minna, dovendosi quefte con risentimento svellere affatto dow principio;
perche se prendono piedes non li svellono più; ed in correggerli di queste non
dovete usare il rigore alla prima, mà bensì colle buone far loro confeffare la
verità, e conoscere il mancamento, e dipoi con risentimento ainmonirli, facendo
loro capire , per quan. to sarà poflibile, la deformità grande [ocr
errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] di tali vizj, con
non perderli sopra quefti più di mira; concioliacosache come insegna
l’Ecclesiastico al 20. Mores hominum mendacium fine bonore: du confufro illorum
cum ipfis fine intermifione. Sem. Il quarto quale sarà ? Mec. Di
essere tanto voi, quanto las Madre sempre concordi in ammonirli; perche se un
di voi li coreggerà, e l'altra li vorrà scusaro, non solamente non fi
approfitteranno della correzione, mà prenderanno animo di far peggio, trovando
chi li difenda ; ed in questo errore fogliono cadere frequenteinente le Madri
con danno evidente della buona educazione; come par che l'accenni Salomone ne'
suoi proverbj al 29. Puer qui dimittitur voluntati sur confundit miirem suam :
ond'effe , per non cadere in questo, debbono imitare quelle faggio miatrone del
testamento vecchio tra le quali che non fece Sara per l'educa. zione d'Isac,
Rebecca di Giacob, od Anna di Samuele; siccome ancora Sansa Monaca, S. Celinia,
che fecero ofetime educazioni de' figliuoli, dilendo- ne da queste
nati un S. Agostino, un S. Remigio: tra le quali merita anche
di essere annoverata la pia, e zelance Madre di S. Andrea Corfini,
che non desistè giammai d'industriarsi Gintanto, che non lo vide di
lupo cambiato in agnello. Sem. Riferitemi ora il
quinto. Mec. Dovete parimente tener celato l'amore, che portate loro, ne
tampoco con quotidiani gaftighi far loro credere, che Giete disamorato affatto
verso di essi ; perche il soverchio amore li farà prendere troppa confidenza
con voi ; ficcome alli continui gastighi facendovi il callo,non li prezzeran
più. Quella correzione risentita, fatta à suo tempo, cou parole, che li
pungano, serve as molei di stimolo maggiore ad operare bene, più di quello che
facessero le sferzate. La scimmia, allorche si moftras madre sviscerata de suoi
parti,con troppo ftringerseli al lato li uccide, e questo segue per lo
soverchio amore, che por [ocr errors] porta loro, non già per
isdegno. Il destriero più generoso colle continue sferzate divien reftio.
Ordinariamente de Madri sogliono peccare di troppo affetto, ficcome i Padri di
soverchio rigore; e da ciò ne viene , che più amorosi li portano i figliuoli
verso le Madri, che verso i Padri, de'quali hanno bensì maggior timore.
Sem. Ed il sesto finalmente? Mec. Di non farli trattare in assenza vostra
con persone, che possano distrug. gere quanto di buono avere in esli inlinuato;
posciache debbono anche credere, che cutti abbiano da operare in quella forma,
che voi prescrivere, che elli vivano; e se per disavventura udiranno da qualche
malvagio consigliero maslime contrarie alle vostre, quanto male apporterebbero
queste infinuandosi in quelle tenere menti, e non atte ancora à ben discernere
qual sia il veleno, e quale l'antidoto. Ne vi starò sopra di ciò à riferir
esempj, perche di Umili miserie ne accadono giornalmentes [ocr errors]
E te, come voi ben sapere ; vi addurrà solamente ciò che si osserva in un
certo animale (come riferisce il Salier Hs: - Juppon:) che dimora in una
montagna del regno di Gotto nel Giappone, il quale è in grandezza, e
figura fimile al lupo; viene però ricoperto da un pelo morbidiffimo
al par della seta, e la sua carne è delicatissima al gusto; entra questo
animale bene spesso nel mare; mas se per sua sventura s'inoltra
molio in effo, diviene pesce, ricoprendosi di squame, de' quali essendone stato
presentato uno al Re di Gotto, che per metà era divenuto squamoso, e nel
rimanente conservava il suo morbidissimo pelo, fè ciò conoscere tal verità. Or
se il conversare co pesci può far divenire un'animal si morbido anch'effo
squamoso,che farà l'innocente giovanetto conversando cou cattivi? Che
apprenderà di buono da quel lacche vizioso? da quel cocchiere scapestrato, è da
altri viziosi? quando non facesse altro discapito, imparerà a correre, ò pure à
guidare land carrozza, oh che belle prerogative di un giovane nato per
governare, e reggere qualche parte del Mondo! Quindi è che rettamente ordina
l’Ecclefiaftico al 7. Difcede ab iniquo, & deficient man la abfte. E S.
Agostino scrisse che : fitcilius eft fortem stare in martyrio, quam in pravå
societate. Sem. I Genitori, Publio, debbono ugualmente essere à
parte dell'educazionc Pub. Certamente, che sì; mà però in modo, che
uniforine vada la dettaa educazione, e perciò debbono in tutto portarli
concordeinenre: si possono bene tra loro dividere alcune incombenze; per
esenipio la Madre, essendo assidua, e non vagabonda, averà maggior campo
d'infinuare loro , ed anco di fare apprendere in primo luogo ciò che riguarda
alli precetti Divini, dovendoli allan sofferenza donnesca questa lode, che, per
non attediarsi punto in replicare le medesime cose infinite volte, riescono in
ciò lingolari, cd in segucla d'iftruir. [ocr errors] li nel Galateo oon
affetrato, e vano, ma bensì nel serio, ed in quello, che insegna ciò, che
appartiene ad un gentiluomo cristiano, il quale non solamente è diretto alle
cose mondane, mi alle divine ancora; e sopra tutto al rispecto, e venerazione,
che si dee à Dio in ogni tempo, come dispone l’Ecclesiastico. Serva timorem
illius, do in illo veterafce; perche soggiunge: Quis enim permanfit in mandatis
ejus , & dereli&tus eft? aut quis invocavit eum, & difpexis
ilum? Sem. Ed il Padre quale incombenza doverà prenderli? Pub.
Essendo un poco grandicelli, e come li fuol dire già smammari, dee il buon
Padre cominciare ad iftruirli in modo, che possano riuscire graci, ed utili
alla Republica, come faggiamence viene avvertito da Giovenale : Gratum eft ,
quod patria civem , popu loque dedifi Si facis,ut patria fit idoneus,
utiliser E per fare questo dev'essere vigilaore',non solamente à rimuovere da
elli certi primi difetti, che sogliono in quell'età manifeítarli, come sono la
pertinacia , e disubbidienza , con certa vivacità di spirito contenziosa , e
questo farlo più tosto con uno sguardo severo , e con minaccie, che con
percosse in sì tenera età ; e qualche volca ancora il togliere loro parte della
colazione è un gastigo molto profittevole; mà divenuti, che saranno alquanto
più capaci dee istillar loro maslime nobili, cd onorate, e replicatamente, à
fine, che se le imprimano bene nel cuore. Pub. E queste quali sono
? Pub. La prima, ch'è la più essenzia. le, sarà di amare sopra tutte le
creature Dio, e di venerare tutci i Sanri, con fare loro comprendere, che tutto
il bene, che abbiamo, viene da Dio, e che non amandolo, non lo potremo da esso
conseguire, non potendo avere altro, che lui, che ci soccorra nei nostri
maggiori travagli: dicendo appunto l’Ecclefiaftico. Timenti deum non occur.
rent [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] rent mala, fed
insentatione Deus illums confervabit, et liberabit à malis, Sem. E dopo questa ? Pub. La seconda farà di amare
il noftro prossimo come noi medesimi, e di non fare altrui ciò, che sarebbe
discaro à noi stesi ; e far loro di vantaggio capire, che ognuno sarebbe
miserabile in questo mondo, se non fosse soccorso dal compagno: e venendo
l'occasione di comprare qualche cosa, andare infinuan. do loro in quel punto
questa verità, che se quel povero uomo non avesse faticato per noi, se sarà
farto per esempio, noi anderemmo nudi, ò vestiti al più di pampini, con mostrar
loro ancora, che conviene sodisfarlo delle dovute mercedi, affinche possa
vivere per averci à servire con puntualità un'altra volta: Capitando lavoratori
di campagna farà bene che conprendano,che se quei miserabili non iftassero di
giorno al sole, e di notte allo scoperto,non si mangierebbes quel bel pane, nè
li berebbe quel buon vino, che ci portano in tavola, onde [ocr
errors][subsumed][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
[ocr errors] degli altri che debbonsi con prontezza sodisfare, acciocche
possano con amore attendere à coltivare la terra, che li produce mediante la
loro industria; e non perdere alcuna delle occasioni , che capitano per meglio
imprimere in quei teneri cuori l'amore verso il prossimo, clas puntualità in
fodisfare quanto si dee a' poveri mercenarj. Sem. Offervo però quei, che
sono più puntuali in sodisfare,peggio serviti Pub. Non è così, Sempronio,
può effere che vi sia taluno, che operi con questa ingratitudine, mà
nell'universalc offervo, che chi ben tratta è ben tractato, e poi non ci dee già
muovere à ben operare il proprio vantaggio; mà bensì, perche in coscienza liamo
tenuti di sodisfarli puntualmente, ed udite che grave eccesso commette colui,
che traIcura di farlo: Panis egentium, dice l' Ecclesiastico. vita pauperum eft
: qui detrabit illum bomo fanguinis eft. Qui aufert in fudore panem, quafi qui occidis
pre [ocr errors] proximum fuum . Qui
effundit fanguinem, e qui fraudem facit mercenario, fratres. funt. Mec.
Queste massime sono certamen. te necessarie, affinche divenuti adulti non si
facciano guadagnare dal mal esempio di alcuni , che costumano di fa. re ciocche
non conviene; e sarebbe anche necessario nel medesimo tempo d’INSINUARE ne'loro
animi la benevolenza neceffaria verso la servitù ; affinche la possano
riscuotere reciproca dalla medefima ; perchè, conforme chiaramente fa conoscere
Seneca nell' Epistola, è falso quel detto : Quot servi tot hoftes , dicendo
egli: non habemus illos boftes, fed facimus; per non tratçarli in quellas
guila: Quemadmodum tecum fuperiorem velles vivere. Onde io sono camminato
sempre colle massime di questo grande Uomo nel inorale; che il servitore: 60lat
magis dominum, quàm timeat, e për cagione di ciò assegna: quod Deo fatis eft,
quod colitur, eu amatur; onde che più di questo noi non dobbiamo
esiggere, Y da [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr
errors] da noftri servitori, e tanto più che non paseft amor cum timorë
mifceri. Pub. Dice questo grand’uomo cercamente il vero ; perche se non
farà reciproco l'amore tra il servidore, ed il Padrone, avendo continuamente
questi. al.lato,continua sarà ancora l'occasione prossima di rammarico tra efl;
e fatto che averà l'abito in questo, non potrà più aftenersi di non
contriftarlo, per ogni lieve cagione. Sem. Dunque, Mecenate, al parere del
vostro Seneca non si potranno licenziarei servitori, chcli porteranno
male? Mec. Non pretend' egli questo; ma folamente, che non fieno i
Padroni in fervos fuperbiffimi, crudeliffimi , dow contumeliofiffimi ; come
pocrete vedere nella citata Epiftola. Sem. Essendo però noi li Padroni,
toccherà ad efli soffrire qualche noftra ftravaganza. Pub. Dobbiamo anche
noi riflettere, fino a che segno possano quest' esferes forferte da cali perchè
se le nostre stravaganze fossero grandi, e continue, ci renderemmo
noi meritevoli di riprenfione: vietandoci l'Ecclefiaftico il farlo al 4.
ove così dice: Noli effe ficut leo in doa mo tua evertens domesticos
tuos, & oppria mens fubjeétos tuos . E c'insegna di van-'
taggio , come ci dobbiamo portare co") fervitori senfati al settimo
, dicendoci: sonladas fervum in veritate operum, ne- que
mercenáriun danten animam fuam. Servus sensatus fit sibi dilectus, quas
ani: ma sua ; ne defraudes illum libertate, nebo que inopem
derelinquas illum, Sem. Ma se divenissero a noi importuni, contradicendo
a quello, che noi bra. miamo di fare, doveremo anche collea
rarli? Pub. Se saranno fedeli, e parleranno per zelo a bneficio
voftro, dovrete non solamente tollerarli, ma eziandio amar-, li più di prima;
perche farà segno, che non vi adulano,facendo cosa ucile a voi, quantunque la
considerino svantaggiosa a loro medefimi, con moftrarne voi dispiacere ; ed
udite l'oracolo dell'Eccle siasti [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Aico al 33. Si eft tibi seruus fidelis, fortis
bi quafi anima tua: quasi fratrem , fic cum tracta , quoniam in janguine anima
comparasti illum. sibaforis eum iniuftè, in fugam convertetur. É cosa averete
acquistato con perdere per vostro capriccio un servitore tanto fedele? quando
ne trovarete un' altro fimile ad eiro ? & abbiate da me questa certa
notizia, che l'adulazione ne' servitori, si è avanzata a questo segno, per il
dispiacere,che alcuni Padroni mostrano nell'udire la verità fincera : laonde
esli, per non perdere la loro grazia, vengono forzati ad adularli , c tradirli
insieme. Ma vorrei, che questi, che hanno a male di udire da fervitori la
verità, facessero attenta riflessio. be a quello che dice Giob. che è questo:
Si contempla fubire judicium cum Servo meo, e ancilla mea, cum discepia. rent
adversus me : quid enim faciam cum Surrexerit ' ad judicandum Deuse du
cum quaferis quid respondebo illi ? Nunquid non in utero fecit me ; qui &
illum operatus eft, & formavit me in vulva unus? Semp. Sem.
Quando però saranno grandi li figluoli li scorderanno di questi utili
avvertimenti. Pub. Non sarà così quando il Padre, oltre il rammentarli
frequentemente, li praticherà esso ancora, dal di cui buono csempio
comprenderanno meglio, che debba farli così. Sem. Vorrei sapere , Publio, fe il
Pa. dre possa condurre i suoi figliuoli a vedere le maschere? Pub. Anzi
dee farlo, con que sta avvertenza però d'imprimere ne loro cuori , che quei,che
con sembianti sì deformi, e spaventofi si trasmutano,sono paz. zi, e che quei
sconci gefti, e parole oscene, chc dicono, sono tutticffetti della loro pazzia,
con infinuare loro, che divenendo effi grádinon lo facciano per non essere
anch'elli tenuti pazzi. Sole. vano i Spartani fare ubriacare i schiavi, c li
facevano vedere a loro figliuoli, af. finchè prendessero orrore all’ubriacheza
za da quelle pazzie, che da fimile get tc agitata dal vino fi
commetreyades rem ied effendo riuscito a quelli profittevole;
fperarei, che facesse il fimile anco a quefti, e tanto maggiormente non avendo
il mal'esempio da i genitori, perchè se ne aftengono , cd essendo veriffimo
quel detto : Quo fuerit imbuta recens fervabit ode Tefta diu. Impreffe
che faranno da principio ne' cuori de' fanciulli fimili verità, difficil. mente
si cancelleranno più. Sem. E crescendo negli anni, & avan. zandosi
nella capacità, che averaano da fare i genitori? Pub. Di prevenire tutti
concorde mente i mali, ne'quali potessero cadere; insegnandoci l'Ecclesiastico.
Antò languorem adhibe medicinam , per lo che doveranno porre un antemurale a
vizj in questa forma: Già efli averanno cominciato ad aver l'uso di ragione, e
potranno comprendere qual fia il male, & il beno, cominciando a conoscere
gli effetti dell’uno, e dell'altro; onde venendo loro questi meglio spiegati
comprende ranranno con più facilità qual mostro orrendo sia l'uomo
vizioso, e quanto preggiabile sia colui, che abborrisce i vizi, quanto odiati
da cucci siano i primi, ed amati li secondi, prenderanno in questa forma ancor
efi orrore al vizio; efe non averanno compagni più che cattivi, i quali vadino
seducendoli, come potrà cflere, che non s'incamminino ancor'eff per la
buona via? ed una volta, che fi sono incamminati per essa colla grazia di Dio,
e con l'occhio paterno vigilante sarà cosa difficile il discostarsi più das
quefta. Sem. E delle massime di onore, e de puocigli cavallereschinon ne
discorrere? Pub. E che credete voi , Sempronio, che le massime di Dio non
siano anch'effe di onore, e cavalleresche? Impoffel fatevi bene di queste, che
tutte le altre vengono di seguito ; non sapete voi, che la prima vircù: Eft
vitium fugere, fapientia prima Stultitiâ caruifle. Datemi uno , che abbia in
orrore il via zio, cche lo fugga, che io lo crederò perfetto in cutro.Sem. Io
credeva, che queste matsime dovessero servire per i figliuoli, che s’indirizano
alla vita religiofa,non per quel. li, che debbono vivere nel mondo, ove senza
aver un poco d'inganno pare, che non a polla convivère; Pub. Quanto ficte
in errore ; perchè ugualmente sono necessarie le mailime di Dio per i
Religiosi, che per i fecolari, dovendo tutti indirizarci per la via dell'
ecernità ; nè crcdiate che godano quelli, che vivono,come voi dite al mondo,
van. taggio alcuno di più di coloro, che ope. rano come si dee; anzi sono
infelicillimi, & uditelo dall'oracolo dell'Ecclesiastico. V & duplici
corde , d. labiis fceleftis, du manibus malefacientibus, peccatori terram
ingredienti duabus viis. Va disolutis corde, qui non credunt Deo; & ideo non
protegentur ab.co. Va his, qui perdideruns Justinentiam, & qui
dereliquerunt vias rectas, diverterunt inue vias pravas. Et quid facieni cum infpicera esperit Dominus? Se
dunque lo mafime del mondo faranno differenti da queste abban, [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] - abbandonatele puré , che non
fanno per voi, perchè come vi troverete senza il -Patrocinio di Dio? Sem.
Dicemi, se in casa ci saranno,oltre i genitori, altri parenti, li doveran. no
ancor questi ingerire nell' educazione Pub. Questi ancora , ma però più
con dare loro buon' csempio, che con pas role; posciache è cola inolto
difficile, che tutti questi siano uniformi nelle buone direzioni di effa'; oode
fe taluno di questi-inlinuasse tal cosa, la quale sembrasse differente a quella
, che udi da'genitori, o ficonfonderebbe, o per lo meno non prestérebbe la
dovuta crea denza a quanto verrà foro insinuato da suo Padre, è questo lo
mostrerò col segucnce. esempio . Nel domare i pola Icdri [ che
"polledrucci anco possono chiamarsi i figliuoli, avendo bisogno'ral volta
ancor esli di effere domati ] fcfaranno diversi li cozzoni, non folamen te ci
vorrà più tempo in renderli docili , ma ancora potranno correre pericolo
di pren. [ocr errors][merged small] -prendere qualche vizio; perchè
fentendo, oggi una mano più gravę, nel di seguente altra più legiera,e certe
speronate differenti dalle altre, pon comprenderanno così bene quello, che
doveranno fare; e cal, volca inasprendoli diverranno anche restj. Se questi
parenti fossero tutti uniformi, e caminaffero colle medesime direzioni,
potrebb'effere meno male, ma sempre meglio fa, che sia uno solo quel complesso,
& armonia vaiforme de propri genitori savj, e prudenti, da'quali una sola
volontà li forma. Sem. Voi, Publio, che avete educa. toi vostri figliuoli
da voi medesimo, in, segnatemi di quali documenti xifiere servito per iftruirli
nelle þuo be creanze, cda cui gli apprendelte per potermene ancor'io prevalere
a suo tempo. Pub. Per non crrare mi sono servito di quci, che non possono
fallire, aven, doli ricavati dalla Sacra Scritsura. Sem. E che parla
quefta ancora delle buone creanze, che debbono insegnarli a'figliuoli?
Pub. [ocr errors][ocr errors] Cena Pub. Divinamente ne tratta l'
Ecclefiaftico. ove dice: Utere, quafi himo frugi iis, que tibi apponuntur, ne
cum manduces multum, odio babearis; cela prior causa disciplina, el noli
nimius effe, ne forsè offendas. Et fi in medio multorum fe. disti prior
illis, e exsendas manum fuam, nec prior pofcas bibere. Sem. E del
rispetto, che debbe avetfi a Maggiori, ne parla? Pub. Di questo ancora al
32. dicen. do: Adolefcons loquere in quâ causå vix', fibis interrogatus fueris;
babeat caput rée Sponfum fuum ; in multis efto quasi infciusi, audi taceus
fimul' quçrens. In me dio Magnarum non presumas, & ubi sunt fenes non
multùm loquaris : talmente che leggendo voi attentamente la Sacrae Scrittura,
potrete divenire un'ottimo educatore de i vostri figliuoli. Sem. Vorrei
sapere ancora qual vizio giudicace peggiore di tutti gli altri, in un uomo
civile, è facoltoso, sopra il quale fia d'uopo d'invigilarci più, che negli
altri, per porerlo affatto svellere da figliuolis [ocr errors] Pub. Io ho
stimato sempre tutti i vizj per pesimi, non effendoci alcuno di effi
tollerabile; quello però, che ho sempre proccurato di svellere con più
attenzione da miei figliuoli, è stato l'avarizia; perchè ho sempre creduto,
che, crescendo questa avesse superato tutti gli alcri, figurandomi l'avaro come
una lacuna,che assorbisce in fe moltiffimi rivi, che debbono scorrerc ad
inaffiare, e rendere fecondi molti campi; onde che, stagnando effi, possono
apportare notabile danno a molti, c.quel ch'è peggio con danno notabile di chi
li divia: ed udine, come a propofito l'efpreffe \'Eccicfiaftico al s.F4 &
alia infirmitas peffima, quam vidi fub Jole : divitia conservala in malum
Domini fui , pereunt enim in afflictione peffima, & in appresso miserabilis
prorsùs infirmitas : quomodo venit,fic revertetur . Quid ergo prodeft ei , quod
laborauit in ventum ? Cunétis dicbus vitæ fua comedit in tenebris , & in
con ris multis, & in ærumna, aique friftitiâ ed il perche lo efpresc Orazio
con dire Jemper Avarus eget. Sem. Ora io, che ho udito tanto, non sarà mai
pericolo, che divenga avaro , sembrandomi la vita di questi infelicissima . E
tornando all'educazione: se il Padre non fosse capace di educare, ela Madre
fosse poco prudente, chi si dove. rà sostituire in loro vece? Mec. Buoni
Maestri, è se saranno ricchi , potranno provedersi anche dell' Ajo, di cui
discorreremo nella ventura Conferenza. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA Intorno all'uffizio, e qualità
dell'Ajo, Ĉ dei Maestri: [merged small][ocr errors] V [ocr
errors] Sem. Ual'è l'uffizio dell'ajo? Pub. L'Ajo dee attendere precisamente
al costume, ed a ciò ch'è ordina. to ad effo. Sem. Ed al
Maestro, che apparticoche di fire? Pub. Oltre quello, che riguarda il
costume, dee ancora insegnare loro le scienze, & tutto quello, che ha da
premettersi per il conseguimento di elle. Semp. Ma non potrebb’essere
anche Ajo Ajo il Maestro, giacche attende questi al costume ancora
? Pub. Alcuni lo praticano ; altri poi più facoltosi provedono di Ajo, è
dit Maestro i loro figliuoli , credendo il far ciò diligenza maggiore.
Semp. Ma realmente, chi di quefti fa meglio? Pub. Se s'incontrasse un
uomo versacissimo nell’una, e nell'altra profesione , mi perfuado: che questi
foffe di profitto maggiore, ma per essere raris : fimi quefti,quindi è, che chi
può li provede dell'uno, dell'altro. Sem. Che condizioni dee avere
l’Ajo? Pub. Dovcado egl'istruire nel costume, lo doverà avere anche
otti mo in priino luogo, dovrà essere prus Idente, ed accorto,
industrioso, e diri piego prontojalliduo, crudito nelle ftoorie, non
molto colerico, sostenuto, che di abbia ancora parti da faríi amare , fia
prarichissimo delle cose del Mondo , e se fosse versato in medicina, sarebbe
anche ile requisito. Sem. [ocr errors] Sem, -Mà trovare tante parti
in un uomo farà cosa molto difficile. Pub. E perciòi rari fono quei , che
facciano l'uffizio loro come si richiede; contenrandoli', alcuni Padri di averly
nobile sì, mà nel riinanente , come si diffe; folamente di citolo, battando
loro di avere l'ombra, e non tutto l'effenziale di efia, persuadendosi, che
questa possa essere sufficiente. Sem. E come, anderebbe Gmil'educa.
zione? Pub. Quafi nella medesima maniera , che se non ci foffe chi la
dirigeffe , porendo fare l'educando a fuo modo . Mac. lo so, che
dovendosi provede re un Signore di qualità dell'Ajo, furongli proposti diverli
; trà quali vi era un nobile ,'mà poco erudito; un Poera infigne ; ed un
eccellente Geografo, ed Aftrologo insieme ; niuno di questi volle al suo
fervigio ; ricufando il primo, per il motivo, che di nobiltà il suo figliuolo
nè aveva a sufficienza; al secondo oppose , che Aimava fi fosse potuto
trop. U troppo divagare dal suo ufficio chi at tendeva a comporre
poemi, nè volle il che terzo, perchè dubitava che l'aveffe fated to
troppo girare colla mente, non che avendo altro , che discorrere seco,
che di cielo, e di terra: alla fine gli è proposto un buono Istorico,
eccellente Fi. losofo, e Matcematico , questi disse fà al mio bisogno:
perchè gli mostrerà come fi dee yiyere cogli esempi altrui, l'insegnerà a
tirare le linee recte , ed a prendere col compasso le misure giuste 3 ; e lo fermo
al suo fervigio, Sem. In qual'età li dee porre sotto la cuftodia dell'Ajo
l'educando? Pub. Più prestamente, che si può. Sem. Mà 'non sarebbe
fpefa superdua questa , ponendosi in età, nella quale non è ancora capace di
comprendere i buoni documenti? Pub. Non li chiama mai spesa super, fua
quella, che & fà per educare i propri figliuoli, essendo ucilisfimo
rinvesti. ·mento,perciocchè, acquistato che averanno elli le virtù si
troveranno un gran tesoro, e non soggetto alle vicende della fortuna; ed in
quella età, quantunque non comprendano i buoni documenti, nulladimeno questi in
qualche parte, cominciano ad imprimerli nella loro mente oltre; di che quanto
gioverà, per conoscere le inclinazioni nacive l'averli ayuci in custodia da
çenerį anni? Meç. Si disse tempo fà di uno, che gettava il danaro avendo
posto l’Ajo al figliuolo di età adulta, e divenuto già alquanto vizioso, perchè
non averebbe allora potuto egli più emendarlo, aven. do prelo già possesso in
esso i vizj. Pub. Questo lo credo anch'io ; per. chè le piante tenere
sono quelle, che si possono piegare a proprio compiacimento, dove che le già
cominciare ad assodarfi vogliono crescere co’loro di. fepti , quantunque ci si
adoperi ogni in. duftria per emendarli. Quindi è che l'Ecclefiaftico così
ordina. Filii ribi sunt, Erudi jllos, & curva illos à pueritia
illorum. Sem. nes [ocr errors] Sem. Qual onorario si dee dare
all' ile Ajo? Pub. Non ci è danaro, portandosi be che uguagli il
beneficio, ch'egli apporta , onde deefi generosamente trattare, Mec.
V'era un’mio amico', che solea dire che se avesse trovato un educatore, a suo
modo , per i suoi figliuoli, non solamente lo averebbe trattato assai bene, mà
di vantaggio gli averebbe anche la. sciato nn grosso legato nel suo tcftamento,
per maggiormente animarlo ad impiegare ogn'industria poffibile pro de fuoi
figliuoli, Pub. Costui mostrava conoscere cer. tamente l'utile maggiore
de suoi figliuoli; perchè ben comprendeva, che rimanendo dopo la sua morte efli
bene educati quancunque fossero alquanto meno ricchi di beni di forcuna ,
sarebbe questo stato compensato dall'utile assai più riguardevole, che
risultaya loro dalle virtù acquistate, posciache al parere di CICERONE (si
veda). Ora:pro Sexto: virtus in [ocr errors] tempeftate fava quieta eft, lucer
in tenebris, expulsa loco manet tamen, atque hş. ret in patria , Splenderque
per fe semper, neque alienis unquam fordibus obfolefcit , quale sorte
cerçamente non godono le richezze. Sem. In qual modo si hanno da
prevalere della loro industria, e prudenza nell'educarli? Pub. Secondo
l'età si debbono anche regolare. Nè teneri fanciulli con maniere foavi debbono
insinuare loro quello, a che dicemmo essere tenuti i propri genitori, ę
fucceffivamente fecondo vedranno i narurali così debbono opcrare Som. Di
quante fpecie possono essere questi naturali? Pub. E quì presente il
Dottore, che meglio di me potrà fodisfarvi ; iftruite, lo di grazia in questo
brevemente e con termini chiari da capirsi da ogn'uno: Med. Secondo la
diversità de temperamenti sono varj ancora i naturali; posciache questi da
quelli in gran parta des [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
derivano, ed effendo quattro le specie bi principali de temperameati a
quattro sorte ancora si potranno ridurre li naturali de figliuoli, cioè
all'igneo, o biliofo, che dir vogliamo, al femmatico, al melanconico, o al
soverchiamente allegro, detto fanguigno. Ci sono poi altre specie subalterne,
che nascono dalle diverse mescolanze dei liquidi, che nella massa umorale
predominano, de quali ora non ne parlo. Sem. Per meglio distinguerli
dunque i doverebbe l'Ajo essere Medico ancora. Med. Cimancherebbe
questo d'averci anche da impazzire co'ragazzi, forse che non ci danno da fare a
bastanza allora che sono infermi? Sem. Questi naturali sono sempre
uniforme in tutte l'età? Med. Sogliono variare fpeffe volte nelle
mutazioni di esse, offervandoli ciò manifeftamente. Sem. E per quali
cagioni? Med. Perchè varia la massa de Avidi, secondo che ci avanziamo nell'età
acquis [ocr errors][ocr errors] 2 3 acquistãdo energia maggiore
alcuni fer, menti col crefcere gli anni, ficcome questa si può scemare ancora
accostandoci alla vecchiaja. Sem. Come si dovrà regolare con chi è di
naturale biliosoa, Med. In quefti, per quanto si può, è sempre meglio
servirsi della dolcezza; poscia che colle afprezze maggiormente si accendono,
ed allora divengono pertinaci. Sem. E se di questa si abusaffero? Med.
Allora la dolcezza dell' Ajo dee cambiarsi in rigore per far loro conofcere,
che nel mele, e nel zuccaro ancora è nascosto l'amaro. Pub. Di questo già
raggionammo baftantemente nella paffata conferenzas istruendone i Padri, onde
non stiamo.a dilungarci di vantaggio Med. Siami permesso di aggiungere, a
quanto fù detto, una mia rifeflione, ed è quefta : che le severe correzioni riescono
più utili fatte a sangue freddo, canto per profitto dell'educando quanto per
vantaggio dell'Ajo , che può senza ira insinuargli le sue più mafurate
ammonizioni , e restano anche maggiormente iinpresse ricevute di mattina a
ventre vuoto, essendo la mente anche più limpida, dove che ricevute allorche si
trovano già agitati dall'errore commesso, non sono cosìcapaci di
comprenderle. Sem. Come si doverà contenere co' sanguigni. Med.
Questi sono più facili de primi ad educarli ; perchè sogliono essere
difinvolti ;basterà tenerli frenati in certi eccelli, ne quali potrebbero
cadere', di soverchia allegria, e curiosità, ed avvicinandosi all'età giovenile
tenerli lontani da cose veneree. Sem. Che potrà fare il povero Ajo allor
che sono grandicelli, ed averanno quei stimoli, che fanno prevaricare anche i
saggi? Medi Il miglior antidoto , che fias contro li stimoli della
lussuria c, di condurre qualche volta i giovani ne noftri Spe. [ocr
errors][ocr errors][merged small] 24 spedali, ed in tempo, che si faccias
qualche amputazione di parti genitali putrefatte, a cagione del morbo gallico:
e cercamente induce loro tale spavento sì crudele spettacolo, che si sono
alcuni di questi spogliati affatto di fimili pensieri, per l'orrore conceputo
allorchè udirono, che da donne era ve. nuto quel tanto male, e che per esse
conveniva soffirire sì atroce tormento di ferro, e di fuoco, e di vantaggio di
non essere più uomo. Sem. Ec i malinconici come vanno trattati? Med.
Questi appunto sono quelli, che fanno fofpirare non solamente i poveri Aji, mà
ancora noi quando essi sono malati; perchè hanno un naturale stravagantissimo,
é maggiormente fe regierà in elli qualche porzione di umore chiamato atrabilare:
bene è vero però, che nell'età tenera non hà tal'umore. quella energia, che si
manifesta colcrefcere essi negli anni, e questi ò danno al byono, e divengono
eroi, ò al pessimo, elo. [ocr errors] [ocr errors] e sono molto
iniqui, e perversi; debmit bonsi dunque con grande industria queili
fti trattare, e senza usar loro molta vioslenza, e più coll'affiduirà, e colli
efemin pj fatti da lor medesimi leggere, o rifei riti di persone viventi da
loro cono, of sciute, che con aspre sferzate;debbonsi anche tenere
divertiti, & applicaci a più cose, alle quali abbiano genio. Sem. Come
divertiti, & applicati, parendo queste cose contrarie Med. Divertiti,
dico, con far loro prendere aria amena, conducendoliins villa più
frequentemente degli altri, & i applicati alle volte a cose diverse dallo
studio, come farebbe il suono, il quale se sarà di loro genio li può
tenere lontani da que pensieri tetri, che occupa no continuamente le loro
menti; ma di o questo converrà discorrerne più diffusamente a suo tempo.
Pub. Egliflemmatici come van regolati? Med. Questi sono quelli, che se non
faranno onore all'Ajo gli recano almeno poo [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] pochi travagli; perchè fogliono essere
pacifici, e tardi d'ingegno: Ben'è vero però, che nelle mutazioni dell'età
sogliono alle volte sciogliersi, e divenire un poco più spiritosi, e fare
ancora com petente riuscita. [ocr errors] Sem. Come suole essere,
Publio, di profitto l’Ajo, facendo anche da Maeftro, nelle scienze ? Pub.
Se terrà lo stile praticato da Mae. Ari, riuscirà egregiamente come dicemmo; ma
se vorrà poi insegnare colla medesima maniera le scienze, che insinua il buon
costume,anderà tutto peffimamente. Sem. E perchè Pub. Lo stile
tenuto dagli Aji in istruire nel buon costume è d' infingare tutto in voce, il
quale nulla giova per fare loro apprendere con fondamento le frienze; perchè
queste sarebbero superficialmente adattate , & à quella guifas appunto, che
G soprapone loro ridotto in fogli al legno, il quale col tempo di. sperdendol
rimane legno ciò, che mo. Atraa [ocr errors] tre ftrava di essere
oro, dove che il Maes po stro, professore esperto, procura d'in= finuarle
nella mente colle sue regole, e collo scritto, affinche abbia pronto il comodo
di ricordarli di quello , che si fosse mai dimenticato. G Mec. Ora
comprendo da che fia pros ceduto, che viaggiando molti anni fono udj in
una Città discorrere alcuni giovani co molto spirito in ogni scienza, i quali
per essere di poca età mi recarono ammirazione ; ma avendo avuto curiosità
alcuni anni dapoi di sapere se profitto maggiore avessero farto, mi fu
risposto, che avevano più tosto deterio. rato; bisogna dunque che il loro
Ajo gli de aveffe istruiti a braccia , e non con fon10 damento. Pub.
Nerone, che fu istruito da Seneca in questa guisa, fece alla prima las sua
bella comparsa, ma terminò poi u peffimamente. Sem. L'autorità dell' Ajo
sin dove fi Atende? Pub. Tanto'oltre, quanto quella del
Padre,dovendo essere amplifima, a fine che f. rendano ossequioli, &
obedienti ad effo, Mec. Le Madri però sono quelle, che procurano di
ristrignerla,imponendo loro, che non li gastighino, nè li sgridino, ma che li
compatiscano se non si approfittano de’loro documenti; e questo lo fanno per
rimore, che non fiammalina, e bene spesso,per questo timore di male ideale , ne
nasce il certo male della possima educazione loro ; perchè per non disgustarle
gli Aji fanno a lor modo, comportando quanti difetti efG hanno: le saggie madri
però lasciano che li gastighino ad arbitrio loro, eli correggano secondo il
bisogno, conoscendo queste per isperienza, quello che per dottrina ancora
conobbe Salomone al prover. 22. ftultitia colligata eft in corde pueri, d
virga disciplina fugabit Cam. Sem. Debbono usare distinzione alcu, na in
questo, secondo l'erà ? Pub. Essendo l'Ajo prudente saprà rego: ne
[ocr errors] golarsi anche in questo , & accomoderă i il gastigo secondo
l'erà, econ quei mo. di, che conoscerà effere all'educando più sensibili
; per esempio se lo scorgessc goloso, il fargli sottrarre qualche pietanza in tavola
gli sarà di gran gastigo ; se giocoliero, togliendoli quell'ora di
divertimento, lo toccherà lül vivo; e fe averà un certo roffore in sentirsi
sgridare, questo sarà appunto l'opportuno suo gastigo; in somma il migliore
sarà quel. lo, che si renderà più sensibile. Sem. Può l’Ajo per qualche
suo af. 1 fare allontanarsi da effo? Pub. Per quanto meno farà possibilu
dee farlo; perche non mancano scelerati adulatori, i quali, per guadagnarsi la
grazia de padroni giovani,infinuano loro ciò , che può dilettarli , quantun.
que lia pregiudiziale, e per ciò se mai doveffe allontanarsi da effo per
qualche tempo, dee avere di chi possa fidarsi in sua assenza . Sem.E qual
sorta di divertimento deb, bono permettere loro? [ocr errors] [ocr
errors] Pub, :: Pub. Tutti quelli, che non sono viziofi, e fono ad esli
geniali, per esempio il giuoco delle boccie, della palla, del volanıę, ed
altri, anche più laboriosi di questi, competenti alla loro età. Sem. Nel
tempo che sono direrti li fi. gliuoli dall’Ajo possono i Padri educarli ancor
effi? Pub. Se saranno capaci di uniformarfi alle buone direzioni
dell'Ajo, pofranno qualche cosa contribuire ancor essi, L'incombenza loro però
è di offeryare qual profitco facciano, e di sentirne anche il parere di più
persone capaci sopra i loro buoni progrefli , esaminati che li averanno; per altro
scorgendo, che yą. da tutto a lyo dovere non debbono con fondere i figliuoli
con documenti diffc. reori, ne contristare l? Ajo con varjare il loro metodo;
bafterà la loro vigilante Lopraintendenza ; mà muta quando non vogliano
come doverebbero, effimedelimi in tutto instruirli. Sem. Bramerei ora
sapere le condi. zioni che doyerà avere un ottimo Mae. Aro Pub.
[ocr errors][merged small] [ocr errors] Pub. In primo luogo dev'essere di via
ta esemplare, dotto, c prudeme, siccodel me è necessario ancora, che abbia
buo na comunicativa, per farsi ben capire, fia sostenuto,
diligente, e si sappia far 1 amare, e temere, e sia anche pratico delle
tristizie de figliuoli, per non farq gabbare da effi. Sem. Trovandogi un
uomo di tante buone qualità potrebbe anche servire I per maestro di casa, ed
elascore nelme, desimo tempo; perchè facendosi ben ca. pire, indurrebbe
più facilmente i debi, tori a pagare ciò, che debbono particos e larmente
ora, che sono tanto renitenti di farlo, Med. Questo e uno degli errori
mal. fimis perch'essendo talunò ottimo per un impiego 2 con darglicne tanti fi
fa in modo , che divenga trascurato in tutti; essendo grito quel detto;
Pluribus intentus minor eft ad fingula fenfus. Or io coftumo questo s chi mi
serve., faccia solamente l'ufficio suo; perchè considero, che non sia poco, che
li riesca in una sola cosa, cosa, ed ho provato con isperienza, che
se taluno procura ingerirsi in più, confondendole tutte , ne pur una ne farà
bene. Pub. Voi Sempronio vi figurate, che fia picciolo affare l'insegnare
a figliuoli le dottrine , e ben picciolo il generarli, mà non già il farli
divenire uomini eccellenti; perchè in un istante si generano, e con poca fatica,
mà per bene addottrinarli non solamente vi è duopo di molti anni, mà ancora di
attenta, ed induftriosa applicazione. Per abbozzare una statua ci vuole poco,
mà per ridurla a somma perfezzione numero infinito di sealpellate di più ci
vogliono; C riflettendo voi al valore della statuas abbozzata, ed a quello
della ridotta a perfezione, ben comprenderete il van. tagio di più che ne
ricaveranno i vostri figliuoli dal Maestro, che istruisce con profitto.
Sem. Io lo dicca a buon fine; perchè risparmiandosi qualcheservitore,mi
riufciva più comodo di fargli un buono af4 fegnamento, acciochè viveffe contea.
to. Pub. Glie lo dovete fare senza accrom (cergli maggiori brighe, se
bramare, to che la statua da voi abbozzata abbia iti ma , e valore
grande, Mec. Veramente in quei casi conviene deporre l'avarizia', ed ogni
parkmonia ; e non fare come quel Padre sciocco riferito da Plutarco, che
domandando ad Aristippo ; quanto paga. mento ricercava per ammaestrare il suo
figliuolo, udendo domandare inillo dramme rispose ; questo è troppo ; perchè
con mille dramme potrei comperarç un servo; çoi saggiamente replicò: duna
que averai due servi, tuo figliuolo, e e quello, che comprerąi:
facendogli conoscere, che se non era bene ammacftrato, sarebbe diyenuto un
servo il fuo figliuolo ancora. Sem, Quale farà l'incombenza del Macftro?
Pub. Gjà per quanto appartiene al co. fune seguirerà quello, che si è
detto CON [ocr errors] Аа 1 con cominciare prima da Dio;'
nel rimanente poi lasciate pensare ad esso, per; che avendolo scelto pratico, e
dotto faprà secondo l'età, e capacità andarlo itruendo come fi dee: bensi voi
di. chiaratevi apertamente com voftri fi, gliuoli alla sua presenza, che
volete,che lo ftimino, ed obbediscano da Padre, con dargli ogni più ampla
facoltà di coreggerli, e gaftigarli severamente in ralo di bisogno; perchè
bramare di riconofcere per figliyoli solamente quei, che studieranno, e faranno
passata nelle ccienze 1 Mec. Quanto fu mai eroico l'atto, che fece l'Imperatore
Teodosio ; impercioche avendo scelto Arsenio per Maestro del fuo figlinolo, ed
avendogli detto; Pofthac tu magis pater ejus quam ego, come riferisce il
Baronio all’A.380-avvenne un giorno, che passando Teodo, 'fio per la camera,
oye Arsenio faceva la repetizione a suo figliuolo, osserva, che il Maestro fe
ne stava in piedi, e lo [colaro affifos ne bo potè coptcnere di non
[ocr errors][ocr errors] non dimostrare ad Arsenio il suo dispia çimento;
veramente gli disse ini avvcdo, che voi non sapere far bene il vo. ftro uffizio;
tenete, tenere il grado di Maestro, e non di scolaro: Sagra Mac fta , replicò
Arsenio, non sarebbe punto convenevole, che io mi ponelli a se. dere per dar la
lezzione ad un Imperatore; ciò udito Teodofio tolfe la Coro, na di capo al
suofigliuolo,c comando ad Arsenio, che fedesse; & ad Arcadio suo
figliuolo, che stasse in piedi colla testad á scoperta, fin tanto che il
Maçstro gli parlaffe, Sem. E se non faceffero tutto quello i profitto,
che io defiderasli, che averò el da fare? Pub, Vedere, Sempronio,
parliamo chiaro, i Padri yorrebbero dopci in bre. yiflimo tempo i loro
figliuoli, onde in quefto non abbiate tanta fretta, lasciateci porre il sempo
neceffario per impof sessarsi bene; må se poi vi accorgette, nel che oon
dare tempo al tempo non li apejet profitrassero, doveţe esaminare d'onds
A a 7 prox , [ocr errors] erro [ocr errors] [ocr errors]
provenga la cagione, e se saranno più Hgliuoli, vedendo , che taluno di edi
li di approfittaffe, e gli altri rimanessero indietro, la colpa non
sarebbe del MaeItro, ma bensi dei figliuoli, e che non applicassero, o che non
fossero di mente ancor capace di apprendere. * Sem. E se la cagione venisse dal
Mae. Itro, che fosse disapplicato, contenzio, so, o troppo bestiale ?
Pub. E'voi trovarene un'altro į mas non date fede loro alla prima; perchè dopo
, che averanno ricevuto il gastigo verranno a piangere da voi, el dole.
che il Maestro fia bestiale; ma non diranno già la cagione giusta; per çui li
ha gastigati; ed in questo caso avvertite a non dar mai ragione a loro
trovandosi presenti,anzicon volto afpro sgridageli, e dite loro che lo averanno
meritato: informatevi però bene come è andato il fatto, per ritrovare la
verità. Sem. Ma venendo per colpa de figliuoli che averà da fare?
Pub, ranno, Pub. Se saranno disapplicati, vedete ancor voi di
usarci diligenza, con promettere loro premi per animarli ad essere più attenti
; e fe poi venisse dall'incapacità in qualcuno, bisogna averci pazienza; e
rimirate le dita delle vostre mani, che ancor’esse non sono uguali, e pur la
mano turta insieme fa l'uffizio suo; così parimente sarà la figliolanza, quando
venga secondo la sua capacità impiegata bene. Sem. Dolendosi il Maestro
di questo, e dichiarandosi di non poterci aver più pazienza? Pub.
Confolatelo, & animatelo ad averci ancor effo pazienza, conforme conviene,
che P abbiate ancor voi Mec. Si doleano con Antipatro i MaeAtri, che i
suoi figliuoli non volevano per tante fatiche, e diligenze usate loro,
approfittarsi punto dei loro documenti, e per consolarli egli dicevan che vi
era un paese nel mondo, ove le parole si gelayano in tempo di verno appena
uscite dalla bocca, a cagione digio freddi ecceffivi, che le
racchiudevano nell'aria, ma appena comparfa la primavera, fgelandoli queste
allora si udivano. Non dubitate, diceva loro che verrà ancora in essi la
primavera; ed alloras queste parole, che odon'ora da voi, fi Igeleranno ancor
effe; continuate pura parfare, per, per uđitne all'ora di vantago Sem. Dovero
comparire nel cempo, che si fa scuola? Pub. Anche, frequentemente s per
ve. dere che si fa, per aninarli insieme a portarfi bene, c tenerli in
freno. Sim. Stimate neceffario ohre di tea net loro il Maestro di
mandarli alle fouo: le publiche? Pub. Per godere di quei vantaggi, che
apporta l'emuluzione può essere utile : debbonfi però avvertire due cofe; la
prima, che vadano sempre accompagnati dal reperirore, perchè del fetvis rore in
curto non vi dovete fidare, poa tendolo indurre fare a lor modo:Pal. tra poi
che fixno vicini in feuola a come pa [ocr errors][ocr errors]
mpagni bene accostumati, perchè ivi po. trebbero divenire maliziosi
trattando con carrivi. eri Mec. Bisogna ancora stare molto cau.,
telato nello scegliere questi reperitori, detçi comunemente Pedanti,
perchè vi è stato tra esfi cal’uno, che insegnaya of a' figliuoli
il fare la fabbatina, il giuoco delle carte, & altri vizj in vece delle
virtù; e vi è stato chi di questi ancora così iniquo , che ha procurato,
che abbandonaffe il figliuolo la casa paterna , dopo d'ayer rubaro al Padre
qualche fomma di danaro considerabile, e seco conducendolo fuori di stato , per
ispre. garla. Onde se non si sappia che siano di ottimi costumi, non debbonli
consesgnare ad effi i propri figliuoli, per non ricevere quella riprensione,
che fece Diogenç Sinopio a quei di Megara, dicendo loro, come riferisce Eliano,
che fi contentava di essere più rosto un ariete della lor mandria, che loro
figliuolo, perchè a custodire quello impiegavano uomini fedelilimi, & ad
iftruire questi ripų [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] A a 4 riputavano abile chiunque fi folfe loro
abbattuto dinanzi. Sem. E le figliuole fi debbono regola. re nella
medesima forma? :) Pub. In alcune cose non vanno regolate così, conforme
udirete nella seguente conferenza. CONFERENZA. w CON [ocr
errors][merged small][merged small][merged small] Semn. He differenza cie tra l'educazione dei С
figliuoli, e quella delle figliuole ? Pub. Primieramente, che queste, non
dovendosi incamminare per la via delles fcienze , non hanno d'uopo di tanti
maeftri; e poi essendo diverli i loro vizj, e naturali inclinazioni, debbonsi
quefticon differenti manicre correggere, Sem. quali sono questi vizj
delle figliuole, Pub. La vanità par che nasca con lo ro, quçfta opera, che
moltissime di effe [ocr errors] cffe sino dalla nascital
par che mostrino compiacimento in fegtir lodare la loro bellezza : ha poi
la maggior parte di cffe, un certo difpreggio, il quale viene da alcuni creduto
per vivacità di fpirito; altre poi fin d'allora moftransi vezzofe, e molto
affabili; e vi sono ancora di quelle, le quali danno a divede. re appena nate
la loro dispettosa rozzezza, contrafegni tutti non leggieri di ciò, che possa
nell'età pid avanzata ope. rare la loro naturale inclinazione. Sem. Di
correggere tali difetti cui partiene principalmente. Pub. Alle madri, che con
affiduità amorosa aflifton loro ; dovendo i Padri portarsi giornalmente fuori
di casa per affari, che li tengono alle volte lungo tempo occupati; c quefte
avendo bisogno di una affidua cuftodia da niuno meglio, che dalle Madrila
poffono riccvc, re: debbono però i Padri per quaaco fa. rà perineslo
lorosinvigilarci attenicamene te anch'effi. Sem. Che dovranno fare le Madri in
quella tenera età, nella quale ne put capiscono ciò che loro si dice?
Pub. Poffono far tholco, con impea dire ancora, che non rimirino , ed odino ciò
che non è convenevole; perchè quello, che mostrano inclinazione alla vanità;
non bisogna cominciare ad ornarle vanamente, pe å far loro certi ýczzi
disdicevoli, perchè s'imprimono quelle vanità, e quegli atti con facilità grande
in si tenera età; quelle bensi che mostrano dispettosa rozzezza possono
follorarli con fimili vezzi per inco minciare a poco y a poco a
renderle più [ocr errors][ocr errors] umane. [ocr errors] Sem. E di
poi cominciando a capire , che dovrà farsi? Pub. Allora farà tempo
d'incomina ciare a far loro apprendere , che la bela lezza della donna non
confiste ja altro che nella bontà de'coftumi. Sem. Oh capiranno beneche
cosa dano costumi le picciole figliaole? Pub. Non importa, perchè
quantunque allora pon lo capiscano, nulladime nos [ocr errors][ocr
errors] no , effe continuando ad udirlo a fuo tempo ben lo
comprenderanno; basta che allora non si secondino le innate inclinazioni loro
viziose. Sem. Mà fe la Madre avesse compiacimento di essere stimata
bella, c fpiritofa, e forse anche vana, come potrà istruire la sua figliuola
diversamente da sè medesima, e che non abbia da compiacerli anch'essa di ciò?
Pub. Ora entriamo nei guai grandi, perchè se la Madre non diriggerà bene tal
affire, l'educazione anderà pellina menic. Sem. In questo caso che
dovrà farsi? Pub. Quello appunto, che fù da me praticato, di provederli
d'una buona matrona ; e se questa fù utile alla mia famiglia, essendovi la
Madre capace, evigilance; quanto più sarà geceffaria in questo caso, che voi mi
rappresentare? Sem. Lo credo anch'io; dunque essendo duopo provedersi
della matrona, ditemi quai requisiti dovrà avere per far bene l'uffizio fuo ;
perchè essendog [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] dismesso questo buon servigio, non si potranno
trovare con facilità quelle , che siano esperte. Pub. Non dev' essere
giovane, nè vecchia, mà di età conlistence. Sem. Perchè non vecchia , pocendo
quest' avere maggiore sperienza del mondo? Pub. E vero , mà la vecchiaja
ancora la può rendere più fastidiosa, e meno attenta : e poi se dovrà cuftodire
le vostre figliuole, che hanno da nascere, chi sà se fosse allor viva; e
vivendo farebbo decrepita , quale età non lega molto colla gioventù, e perciò
non sarebbe ad effe accetta,dec ancora essere di buo. ni costumi, e pia,di
parentato civile, ed onoraco, prudente, discreca, attenta, affezzionata, che
sappia ben cucire di bianco, leggere, fcrivere mediocres mente, e che non sia
curiosa di leggere: libri profani, e lascivi. p9 Sem. O che mal farebbe,
se leggere ancora l'istorie profane, potcado fervire si di effe per meglio
iftruirlo? Pub. Le storie profane non tutge conferiscono alla buona
educazione, el, fondovene alcune molto nocive ad essą come già dicemmo, onde
chi sà, che prendendo diļetto in udirne riferire alGuna di queste, non
prendessero amo, re anche l'educande a simile lectura Sem. E se sapesse
la lingua francese , o spagnuola, non sarebbe maggior van taggio , per
insegnare loro quel parla. xe , che oggidi è tanto in uso. Pub. Che pretendete?
forse di mari, farle in Francia, o in Ispagna? Sem. Non lo dico per
questo fine, mà veáendo qualche lignora di quei paeli, o trovandoli con alcuna
, che la parlasse, sarebbe da esse capita, e por trebbero risponderle.
Pub, Voi vorreft'educare le vostre fi, gliuole per far pompa del loro spirito ,
e non vi accorgete, che quefta non è la sua strada; e qual nccefficà avete,cheessa
converfino , e tratejno con gence ftraniera s volere forse, che apprendano į
cofumi loro diffepsadi dai noftri? Sem, [ocr errors] [ocr errors] GB [ocr
errors][ocr errors] Sem. Non
bramo quefto, mà hò sentito dire , che sia vantaggio grandes e l'avvezzarle
disinvolte, e spiricosc, perchè più facilmente fi maritano queste, Pab.
Voi prendereste moglie di spiritofa, e disinvolta Şem. Io non già, ora
chc sò come debi ba sceglierli. Pub. E perchè dunque volete incam, minare
le vostre figlie per una via, che voi la ftimate non recta e non vi avve, dere
, che in ţal guisa mostrarefte di amarle poco a Sem. Il saper ricamare
ancora mi per, suado, che la requisto necessario nella matrona: i Pub.
Per far che ? per educarle forse nella vanità e non sapete, che cosi fa
comincia bel bello; posciache dalla sem ta fi paffa al’oro, e dall'oro alle
perle per formarne ricami di gran valore. Cor. 4, nelia madre dei Gracchi
fe conoscere a quella gentildonna Capuana, la quale 0 era
alloggiata in sua cafa, allorchè moArolle i ricami ida effa farsi,per mio
fvario. bano essere i layori delle Madri, con farde yeder i suoi figliuoli,
ed in qual forma da effa fi aducavano, che non era già nelle vanità, mà bensì
nelle virtù . Sem. Bramerei almeno , che sapesse insegnar loro un poco
fuono, e di canto, Pub. Questo poi sarebbe peggio, per: che l'educherebbe
cantarine, & im. parandolo per vostro syario, non lo di fimparerebbero già,
per non dilectare an, che gl'altri. Sem. Contenendom’io in questo vo. fro
antico rigore mi farefte mutare il mondo. Pub. Io non pretendo tanto :
voi mi vichiedere del regolamento della vostra casa; c chcaforse pretendece che
da queta debba prendere la norma tutto il mondo a facciano gli altri ciò che
vogliono, mi basterebbe di ottenere, che voi, che ricercate il mio parere
appren. deste ciò, che dovrete fare, Sem. Io resto perfuafiffimo di
quanto dite per benefizio mio, ma sifetto añ, cora [ocr errors][ocr
errors] cora nel medefimo tempo a quello, che li il mondo dirà, operando
diversamente da quanto ora li costuma dalla maggior parte. Pub.
Qual parte del mondo stimate voi, che sia più saggia, la maggiore, o la
minore? Sem. Ho udito sempre dire, che sia la minore, Pub. Or
dunque; perchè da voi medelimo volete porvi nel numero de i meno saggi? deh
seguitate la più sana, e non vi prendere fastidio alcuno dell' altra,
quantunque sia più numerosa: prendete di grazia la mira verso quò eundi
dum, non quò itur. Sem. Rimango persuaso, e quanto m'insegnafte voglio
risolutamente fare. Or ditemi per mia istruzione; scelto che averò questa
matrona , della quale voglio provedermi prima di prendere moglie, che averò da
fare io, e qual' incumbenza apparrerrà ad essa? Pub. Voi, allor che le
consegneretç la vostra figliolanza, le direte: che Bb fia [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] lia cura sua
d'istruirla principalmente nella pietà, e devozione, e che rimuova da essa
tutti i difetti allorche li ye desse comparire, senza indugiarvi un momento;
anzi che meglio farebbe an. cora, se preveniffc al bisogno con semi, narę
anticipatamente ne’loro animili preziosa semenza delle virtù, e che per questo
procuri di non perder la mai di vifta : e vedendo ch'ella li porti diligente
nel suo uffizio usatele più gratitudine, affinche non habbia da parerle penosas
quella vita tanto soggetta, che farà; e credetemi, che il premio è il maggiore
incentivo a farci fare con amore quelle cose, che senza di esso ci parrebbono
molto penose. Mec. Questo è certiffimo, posciache chi mai li porterebbe
il primo a scalare una muraglia, difesa da tanti nemici are mati, se non se
{perasse da questo un premio grande ? Sem. Fatto che avrò le mie parti,
in che forma essa adempirà le sue ? Pub.. Nato che sarà alcuno de' vo
[merged small][ocr errors][ocr errors] ftri figliuoli, principierà il suo minister
ro con invigilare, venendo lattato, dalla balia, a quanto sara necessario, con
i fare anche da soprabbalia , nè permetteo ra già, come dicemmo, chc
oda,quan tunque non le comprenda ancora, cer, i te canzone amorose, nè
pure, che fifli i suoi occhi innocenti a'rimirare certi datti scomposti,
& indecenti; perchè quantunque non siano allora da esso conosciuti
per quel che sono, nulla dime, no in progresso di tempo, conforme fi apprendono
le parole, così ancora può insinuarsi nell'animo qualche cintura
noSeminaciva di tali difetti; e procurando, che D in vece di quelle oda, e
rimiri cose profittevoli, cd oneste, delle quali se ne i apprenderà
alcuna particella, resterà questa a benefizio dell'educazione, e i
procurerà ancora nel tempo della lacta zione colle buone sue maniere , di
prin- cipiare ad affezionarselo. Sem. Che dovrà fare dipoi? Pub.
Già toccherà ad effa slattarlo, e si perderà il sonno più di una notte. Sem,
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] liri Sem. Sarà bene, acciocche non
lo perdiamo anche noi, di tenerlo in qualche mezanino lontano dalle nostre
stanze, Mec. Per questa cagione sono andato io più volte in collera co i
miei amici , avendo osservato lontani dal loro appartamento i figliuoli anche
lattanti,per timore, come dicean'o , che non turbarsero il loro riposo, e
diceva loro: pere dete pur tanto tempo, e vegliate tanto per il giuoco, e
continue conversazioni, oh bene non potete vegliare un poco pe’vostri
figliuoli? E se non lo volece perdere voi, cui tanto debbono premere, vi
persuadete forse, che le donne mercenarie di servigio vorranno perdere il
fonno? Dormiranno ben bene, e lasciefanno piangere chi vuole; ma da questo
quanti mali ne saranno seguiti lo faprà meglio il Dottore. Med. lo dalle
offervazioni fatte sono arrivato a conoscere questa verità; che più fortunati
siano nel mascere, e nel imorire i poveri, che i ricchi; perchè quelli dalle
proprie Madri sono lattaţi, eand custoditi diligentemente con amore;docal ve
che questi sono consegnati alla indi screta servitù, e trattati assai
diversadai mente in tutto ; e posso riferire a que fto proposito di
averne curati alcuni,che caduti dal letto, per trascuraggine delle balie,
ebbero a perdervi la vita , ed altri, per il gran pianto fi allentarono ,
negando cal volta loro il latte le balie, allorche ne avevano bisogno; e per
avere loro ripercosso secretamente il lat. time, quanti ne sono periti? Giccome
ancora quanti ne sono morti af gati per averli tenuti negligentemente nel
proprio letto? avvenimenti tutti, che afa sai più di rado G odono accaduti tra
po veri , quantunque questi siano assai i più numerosi, che i bene
stanti. Della morte dei ricchi non parlo, perchè ave. rete uoi medesimo
osservato questi, be ne spesso, per li soverchi, e conculcati: rimedj,
dati loro, più facilmente, che i poveri perire, & alle volte in mano
de Ciarlatani. Pub, Se voi dunque avercte amore
per [ocr errors][ocr errors] Bb 3 per i vostri figliuoli non
li terrete lontaa ni dalle vostre stanze in ogni tempo per. che tal vicinanza
darà stimolo maggiore alla matrona di avere per loro più attenzione , &
all'altre donne di fare me . glio il loro uffizio. Sem. Riferitemi ora il
modo, che doverà tenere in appresso per conoscere meglio s'ella, operi a suo
dovere? Pub. Già fu discorso, ma non sarà mai a bastanza, di quello, che dovrå
farli intorno ad imbeverarli ben bene del fan. to cimor di Dio, e crediate pure
per cofa certa, che questo è il fondamento principale della buona educazione;
efsendo esso solamente capace di rimuovere tutti i vizj, non porendo questi far
breccia ove si ricrova benradicato: è vero però, che questo feme santo noni
basta piantarlo solamence, na decli col. rivare sempre con atrenzione, e
fervore, acciocche non perisca, essendo che a poco a poco germoglia ne teneri
par. goletti, ed in questo doverete aricor voi invigilarvi. In seguela poi dovrà,
appe 19 and appena che le figliuole faranno capa. ci, tenerle
impiegate ad apprendere qualche lavoro di quei necessarj a saperG dalle donne,
che sono il cucire , far calzerte, cessere, e filare, e questi disporli secondo
l'ctà, e capacità loro: nel medesimo tempo impareranno a leggere, e di poi a
scrivere, e questa sarà l'incumbenza , che dovrà avere intorno al lavoro,
Sem. O ben le donne civili, e nobili averaono da teffere, e filare che han. no
forse da procacciarsi il vitto con que. fti lavori Mer. Intorno al filare
non avete occasione di risentirvene, perchè è torna, ta l'usanza di farlo; non
sò però se per bizzarria, o per profitto ; averere pur veduto, Sempronio, nelle
case civili conocchie sì ben fatre , che fanno venire la voglia di adoperarle
anche a noi al. tri uomini. Sem. Queste le ho veduce certamente, ma però
stare oziose, onde mi perfyadeva, che fossero state fatte per col locarle
dentro i loro scarabattoli nonri: mirandole punto adoperate. Mer.
Nonaveranno filato in presenza vostra, perchè non avendo voi moglie non era
tempo ancora, the imparaste a filare alla moda. Pub. Le caste donzelle in
questo s'im: piegavano anticamente, e tralasciando di riferire, che lo
facessero Penelope, Lucrezia , & infinite Matrone Romane; Alffeandro Magno
fi vestiva co gli abiti teffuti dalle fue Sorelle, come racconka Curzio; &
Augusto non portò già altri abiti , che quelli, che dalla sua Moglie, Figliuola
, e Nepoti erangli ftati fatti, come riferifce Svetonio: Onde se no li
vergognavano queste di farlo, per qual motivo potranno aftenersene le tanto
inferiori ad effe? Sem. Ma fe non avessero genio di fardo , tanto più non
vedendolo praticarea alle Madri? Pub. Questo genio può farfi venire con
riferir loro qualche bell'esempio, & appunto de racconta uno il Surio nel
di fe fecondo di Maggio, che se coinincies ranno a gustare le cose
di Dio sarebbe assal a propogto: dice dunqu'egli, che andando S. Antonino
Arcivescovo di Firenze, per una contrada di qite!la città vide un buon numero
di Angeli, che formavano come un corpo di guardias e sopra il tetto di
una povera časa; li ven , ne in pensiere di catrarvi, e di riconoscere
l'occasionc y per cui meritava canto favore da Dio; non vi trovò, che und Madre
con tre sue figliuole, le quali filavano per guadagnarsi un poco di pane, e
stavano con gran modestia : vedendo il Santo il bisogno, che avevano, fc loa to
una buona limosina :-Dopo qualche tempo ripassando per la medesima strada vide,
che la stessa casa era ricoperta di piccioli folletti, armati di tutti quei
stromenti, che fogliono portare li dediti alla libertà del mondo : entrò, evide
le medesime, che passavano il tempo a ridere, scherzare', e motteggiare , e
fare le belle: Riferito questo, si poa trebbe soggiungere loro, che se
Iddiogradisce canto il non stare in ozio in quelle, che sono miferabili, quanto
più lo gradirà in effe, che spontaneamente, e fenza bisogno alcuno lo fanno e
credetemi, che non mancano modi per fare applicare le figliuole, effen. do
queste più docili demaschi. Sem. Oltre il lavoro, che averanno da fare di
vantaggio ? Pub. In tutte le cose deve esservi la buona ordinanza, la
quale tutta dcpende dal sapersi ben compartire il tempo, onde queste essendo
pratiche divideráno Je ore def giorno in questa guisa ; la pri. ma della
mattina , dette che saranno le figliuole, e veftite di tutto punto, sarà
impiegata al servigio di Dio con fare orazione, o sentire qualche cosa di
quanto esso vuole da noi; ciò fatto dcefi ristorare colla colazione moderata il
corpo, per poi passare quelle ore deftinate al lavoro; e terminate queste ,
conviene di fare alquanto esercitare il corpo in cose non violence, e
permettendolo il tempo, in aria con affatto [ocr errors] rac [ocr
errors].. 395 K tacchiusa. Avvicinandosi poscia l'oras del definare
converrà prendersi il nutrimento a proporzione dell'età, e poi dopo di questo è
neceffario godere alquan. to di riposo, per potere alle ore destitiate tornare
al solito lavoro. Sem. Sino a qual'età possono i maschi ftare sotto la
custodia della matrona? Pub. Fin tanto appunto, che, cono. scendo le
lettere dell'alfabeto, possono consegnarli al Maestro, per tenerli in quelle
ore, che dovrà far egli scuola fotto la sua custodia; ben è vero peròs che non
essendovi l’Ajo,possono ritornare, per quelle ore, destinate al diverti
mento, sotto la cuftodia della medelima $ matroni. Semi. Nascendo tra
fratelli, e sorelle qualche contrasto come doverå regolarli la marrona?
Pub. Sogliono i fanciulli vivaci essere molesti alle forelle, e da ciò ne
nascono bene spesso trà loro reciproche aleercam zioni, mà se la matronal
manterrå fotenuta a segno, che non pregdano les [ocr errors][ocr errors]
confidenza, avendone rimore di essa, difficilmente si avanzeranno a contendere
tra loro, ma caso che la sua efficacia non bastasse,dee di ciò farne
consapevole il Padre, o il Maestro, affinchè pensano a prendervi il più
opportuno rimedio con tenerli separati. Sem. Crescendo le figliuole in età, e
scoprendosi in esse qualche differto donnesco, come li dovrà regolare la
matrona per estirparlo? Pub. Non aspetterà quefta , essendo prudente, che
giungano fimili diffetti a manifestarsi ; perchè come dicemmo procurerà con
preventivi ripari di ab. batterli prima che si manifestino. Sem. Venendo
le figliuole negli anni , ne' quali sogliono alcune cominciare a contristarsi,
e fofpirare, che averà da fam rela matrona? Pub. Le figliuole ben'
educate difficilmente cadono in fimili debolezze; ma quando mai ciò seguisse in
alcuna, alJora si conoscerà il senno, e la prudenza della matrona; posciachè si
saprà inters! [ocr errors] e nare nella sua confidenza per
consigliarl a far cose non disdicevoli alla sua condi* zione,ed a
lasciarsi regolare dal suo amo. roso Padre. 3 Sem. Ma non sarebbe meglio,
quando si vedellero contristate, porle in monastero per compire
l'educazione? Pub. Se sarete sicuro , che colà possano vivere con più
ritiratezza, che in casa vostra , ed abbiano migliori direttrici cui dia
l'animo di calinare le loro passioni, potrebbe farsi; mà se poi vivessero con
libertà maggiore, qual vantaggio ne ricaverebbero ? Sem. Vivono colà
tanto ritirate, che la porta di rado si apre; ne viene permefso l'ingresso
libero ad alcuno. Pub. Qucfto non basta se gli occhi, c le orecchie
staranno maggiormente aperte; perche per esse po lono entrare le cagioni de'
sospiri: e poi voi, Sempronio,mostrate di non fidarvi della voftra matrona , la
quale totalmente dipende da voi, enon diffidate punto di tanţe servenci
de’monafterj, sopra le qua; [ocr errors] di autorità niuna voi
avere. Sem. Sarà ben vigilante in questo chi averà cura
dell'Educayde, Pub. Voi y’ingánate$épronio, se crede, te, che l'altrui
vigilanza superi quella de genitori attenti, e capaci : onde mi perJuado, che
nella casa paterna queste ftiano meglio , che altrove, Mec. Voi dite
bene, Publio, che fiee te capace di custodirle come li dee, mà datemi un Padre,
ed una Madre, che ad ogn'altro pensino, che all'educazione delle figliuole, e
tanto maggiormente se non averanno una tale donna capace , e fedele a ben
diriggerle, o saranno prive di Madre, la sola casa pater. na sarà sufficiente a
custodirle? Pub. Credo certamente di no. Mec. Or dunque, che fi hà
da fare in questo caso per non lasciarle a discrezione dell'infida servitù ? o
bisognerà, chę qualche faggia parente la conduca in casa sua, o porle in
monasterio, sotto Ja direzione di saggia Maestra, Pub. Non è questo il rimedio
appro; od [ocr errors][ocr errors] priato al loro male, che congste in
una gran passione , la quale non si: può rimovere da esse senza
cósolarle.Ne certamente si cureranno già di ricevere i queste in casa
loro le saggie parenti: e ricevendole le imprudenti qual vantaggio ne
potreste Iperare ? E ponendole in monaftcro sotto la cura di
faggiaMaestra qual bene potranno ricevere da essa ef$ sendo tra loro
discordanti di genio ? fa rebbe più capace tal una di queste di sedurre
altre compagne,a far che si unifor massero al suo genio , più tosto, che
di u mutarlo; onde nè ad esse, nè al monastero oi tornerebbe conto , che vi
entrassero, 1 Intorno poi al sudetto riincdio ne parleremo a suo luogo, e
tempo, Şem. E quelle figliuole, che non avea se ranno le accennate
paflioni ponno eduei carsi ne monasteri? Pub. Se i loro genitori sarın
capaci, ed attenti, e viveranno all'antica, non fra farà d'uopo cercare altra
casa, che las paterna per educarle, come dicemmo parlando de figliuoli
della Conferenzís [ocr errors] 1, della presente decade ; mà se poi foffe
il contrario,non sarebbe buona per esse, ¢ converrebbe anche fanciulle racchiuderle
in monafterio, affinchè si discostas sero dalrimirare i mali efsempj domesti
ci, specialmente quei, che potrebbero dalle Madri ricevere , Sem. Vorrei
che mi diceste, Mecenate, in che possono difettare le Madri nella educazione
dellc figliuole? Mec, In due cose principali, che sono l'eccessivo amore
che portan loro, e la libertà che vogliono mantenere per fare ancor esse
tutto a lor modo. L'amore non le permetterà di contriftarle, ne riprenderle, e
la libertà, che vogliono godere, le disanimerà a procurare di farle vivere
diversamente da quello ch'esse coftumano, e vi voglio riferire un caso seguito
in mia presenza, Si trovavano in una conversazione alcune gentildonne in tempo
di carnevale , le quali domandavano l'una l'altra quante volte avevano
condotte, le loro figliuole alle commediese per verità non udj già che
alcu na if ve le avesse condotte poche volte; vi fù f, bensì la più
attempata dell'altre, che hin disse in tempo ch'ella era zitella rare tudi
volte G costumava condurvele, e se non # era modeftiffima l'opera, che si
recitava cui non potevano già udirla le zitelle; vi fù chireplicò ancora
che non si poteva oggidi far di meno di non condurle;perchè altrimenti fi
contrifterebbero tanto, che non ci si potrebbe più vivere ; non dico altro,che
vedo il mondo andare da male in peggio come predisse Orazio. Sem. Oh
consideriamo come anderà l'educazione delle cittadine , e dello à plebce
! Mec. Sappiate, che a queste fi è dato da qualche tempo in qua un'ottimo
regolamento, essendosi aperte scuole publiche in ogni Rione, e mantenute
dalla generosità del nostro Prencipe , - ove vengono dirette da Maestre
molto esemplari numerose figliuole,molte delle quali si tratrengono ivi
tutto il giorno; onde non solamente hanno occasione tutte di apprendere il
fanto timor di Сс Dio, Dio, ed il buon costume, ma eziandio
d'approfittarli in molti lavori dooneschi utili, e necessari per la casa ,
tenendoli in oltre lontane da quelle occasioni, che potrebbero in esse
introdurre difetti; onde fpererei, che quando questo fanto istituto giuagesse
ad eliere sufficienre anche per le più miserabili, un'infinito bene, e
più universale se ne porelle ricevere Sem. Bramerei ora di sapere quale
sia il tempo più opportuno d'apprendersi de fcienze? Pub. Si parlerà di
questo quando ci rivedremo, [ocr errors][merged small] [ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors] 1 Sopra l' età opportuna
d'apprendersi le scienze, cd il modo più façile per accertarsi delle par.
ticolari inclinazioni de' figliuoli, Sempronio, Publio, Mecenate,
& Medico, [ocr errors] Pub. A proporzione delle cose li può
chiamare ànima del mondo; essendo che questa lo mäntic ne, clo fà
risplen. dete: sconcerto grande certamente formano quelle cose, che sono prive
di efsa. Se per sua sventura veniffe genio ad uno, che avesse voçe rauca
abituata di fare il Musico, non doverebbe certamen Сс 2 quali
deb bago Z S Semo 11 [merged small][ocr errors]
[ocr errors][merged small] onde to H fpo.
F 2 Dum Sem, A 2 Mec.. ÇON: IOI
ani te egli effettuarlo; perchè non troverebbe, quando anche giugnesse a
saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque
in tutte le cose prendere la sua proporzione giusta, con proccurare
attentamente, in fare ciò, di non ingannarli. Sem. L'erà dunque
proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà? Pub.
Quantunque secondo il loro spirito, e capacità deel cio regolare. Nulladimeno
prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia proporzionata. E
tanto maggiormente, che DEBBONSI PRIMA APPLICARE AD IMPARARE LA LINGUA LATINA
PER MEGLIO INTENDERLE. Sem. HO SENTITO DIRE DA QUALCUNO CHE LA LINGUA *LATINA* SI
PUO IMPARARE COME SI APPRENDONO GL’ALTRI LINGUAGGI O DELLA MANIERA CHE S’IMPARA
LA *LINGUA NATIVA* O DIPO COL SENTIR PARLARE ALTRI CHE LA POSSEDENO. Pub.
Vedete , Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia.
tc * t'e a mico di fare poche novità nell'edu care, & istruire
i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi,
che non inchiodano i cavalli da essi ferrati, sono quelli, che pongono il
chiodo nella guida vecchia. Anzi che vi dico di vantaggio, che se vi
abbaca tefte per vostra disgrazia in Maestri, che $ volessero
sperimentare modi nuovi per addottrinarli, non vi prevalete di loro; i
perchè avendo i vostri figliuoli perduto ; tempo in mano di questi, converrebbe
farli tornare da capo. Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro
di musica, chiamato Timor teo, che pretendeva doppia mercede & da
quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti, adducendone op per
cagione , che doppia facica glicon veniva fare; cioè, che
disimparasfero essi ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le
vere regole dell'arte : onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri
nel caso, che non avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc
3 an. [ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far
dilimparare ciocche malamente apprefero. Pub. E poi,che cosa averebbero a
fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le
scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per
la felicità di memoria; ina non capirebbero già quello che elli avessero
appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel documento generale, non ben
capito,in molte particolari contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata
per fare acquisto delle scienze. Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e
capacità maggiore degli altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche
nella tenera età? Pub. Dee benli avvertirsi di vantaggio in questi se convenga
allora porli a fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore, quancunque
abbia un campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare
ancora , per non vederlo divenire sterile, e poi chi sà [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] si, che non sia un fiore senza
frutto quello, che comparisce prima del suo tempo 2 e che poi allorche
gli altri,erci đuti di minor ingegno si vedranno cari, chi di frutti,
questi non si rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum
durabile. Met. Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione
in lode di un gran Personaggio, e recieztala alla sua presenza con tanto
spirito, che ne. i rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammira to; il meno
ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra efli , domandò al suo Maestro, che ivi
si trovava presente, sçra ftaja composta dal detto figliuolo, cui rispoe
fe di fi ; e voltatosi egli a quel Personag gio gli dise : fogliono
alcuni avere spirito, c capacità grande da giovanetti, la quale perdono
poi avanzati che sono o negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose
prontamente a costui: ma voi Sigaore, da giovanetto bello spirito, c |
capacità che averete ayura ! Rimafer quel Signore in vdir si propra, ed
argu Сс 4 ta ta risposta, la quale fe credere a tutti la
composizione essere fata fua. Sem. Questi ingegni dunque, per quanto ho udito,
averanno d'uopo più tosto di ritegno, che di stimolo. Pub. Voi non dovere
dubitare di ciò, vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di
cavalcare, ove tra i precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare
la libertà del freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli
altri. Sem. Come mi dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli
proporzionati più ad una, che ad altre scienze? Pub. Dovrece
principalmente fare esplorare il loro genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe
corrisponda questo alla loro capacità, e disposizione naturale. Sem. Come
si potrà conoscere, che fia stabile questo genio? Pub. Ciò di discerne
benissimo; pofciache i figliuoli dalla più tenera età cominciano a mostrare le
loro inclinate egli effettuarlo ; perchè non troverebbe, quando anche giugnesse
a saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque
in tutte le cose prendere la sua proporzione giu. sta, con proccurare
attentamente, in fare ciò, di non ingannarli. Sem. L'erà dunque
proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà? Pub.
Quantunque secondo il loro spirito, e capacità deel cio regolare ; nulladimeno
prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia proporzionata ;
e tanto maggiormente, che debbonsi prima applicare ad imparare la lingua latina
, per meglio intenderle. Sem. Ho sentito dire da qualcuno, che la lingua
latina li potrebbe imparare come Gi apprendono gli altri linguag. gi, o nella
manicra, che s'impara la lingna nativa, o dipoi col sentir parlares altri che
la possiedono. Pub. Vedete , Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre
di famiglia, sia. tc * t'e a mico di fare poche novità
nell'edu care, & istruire i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo
avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i cavalli da essi
ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida vecchia. Anzi che vi
dico di vantaggio, che se vi abbaca tefte per vostra disgrazia in
Maestri, che $ volessero sperimentare modi nuovi per addottrinarli, non
vi prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli perduto; tempo in mano
di questi, converrebbe farli tornare da capo. Mer. Vi fu a questo
proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato Timor teo, che
pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza
buoni fondamenti, adducendone op per cagione , che doppia facica glicon
veniva fare ; cioè, che disimparasfero essi ciò che avevano appreso, e
poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte : onde se dupplicata
riuscirà la fatica a Maestri nel caso, che non avessero pre. sa la strada
diritta, il fimile seguirebbe Cc 3 an. [ocr errors][ocr errors]
anche a voi per doverli far dilimparare ciocche malamente apprefero. Pub.
E poi, che cosa averebbero a fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la
capacità di apprendere le scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di
esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria ; ina non capirebbero già
quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel
documento generale,non ben capito,in molte particolari contingenze; onde
tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle scienze. Sem.
Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli altri, perchè non
potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età ? Pub. Dee benli
avvertirsi di vantag. gio in questi se.convenga allora porli a fimili laborioli
studi ; perchè il buono agricoltore , quancunque abbia un campo fertilissimo, a
suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per non vederlo divenire
sterile, e poi chi sà [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
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suo tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci đuti di minor ingegno si
vedranno cari, chi di frutti, questi non si rimiri spogliaco di efi?
ricordiamoci, che: nil violentum durabile. Met. Aveva un giovanetto di
questi fatto una bella composizione in lode di un gran Personaggio, e
recieztala alla sua presenza con tanto spirito, che ne. i rimase ogn’uno
degl’ascoltanti ammirato; il meno ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra efli,
domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra ftaja composta
dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi; e voltatosi egli a quel
Personag gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c capacità grande
da giovanetti, la quale perdono poi avanzati che sono o negli anni.
Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma voi Sigaore,
da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura ! Rimafer
quel Signore in vdir si propra, ed argu Сс 4 ta ta risposta,
la quale fe credere a tutti la composizione essere fata fua, sem. Questi
ingegni dunque, per quanto ho udito, averanno d'uopo più tosto di ritegno, che
di stimolo. Pub. Voi non dovere dubitare di ciò, vedendolo praticare
giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove tra i precerci, che averete
avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà del freno a quei destrieri ,
che sono più fpiritoli degli altri. Sem. Come mi dovrò regolare per
conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più ad una, che ad altre
scienze? Pub. Dovrece principalmente fare esplorare il loro genio ftabile
qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro capacità, e disposizione
naturale. Sem. Come si potrà conoscere, che fia stabile questo genio
? Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i figliuoli dalla più tenera
età cominciano a mostrare le loro inclinapo [ocr errors] ruti zioni,
& in proseguimento di essa li vanno spiegando meglio, & alla fine
avvici. nandosi al tempo di risolversi, la palesano espressamente, ed in questo
caso è veramente stabile, e fissa. Oh quanto die si conobbe
bene fin da suoi teneri anni il genjo di Marco Catone : posciache
quanrunque venisse violentato con fiere minaccie a fare cosa da esso
creduta di- sdicevole da Quinto Popedio Latino, si mantennc sempre
costante nel suo sentimento; il di cui animo intrepido G. avan- zò,
crescendo negli anni; posciache condotto alquanto più grandicello,
da Sarpedone fuo pedante a casa di Silla per visitarlo, e vedendo
nel cortile di decto palazzo la lista de' proscritti, eb. be
a dire: è possibile, che non vi sia chi ammazzi un tiranno sì crudele
comes Silla? domandò egli al suo pedante un coltello, dicendogli ,
che ad esso farebbe riuscito facile il poterlo uccidere; perchè fi poneva
a sedere accanto a lui come riferisce Valerio Massimo, Sem. E se
nell'ecà genera avessero mostra, strato qualche inclinazione ad una
scien. za, e poi dopo qualche anno li fossero invogliati di qualche altra, ed
alla fine, venuto il tempo da determinarli, voJeffero apprenderne alera
differente da queste, che doverà farsi? Pub. Questi sono di genio
istabile, e non li fiffano mai, onde a qualunque fcienza si applicheranno, non
sarà mai di lor piena sodisfazione, ed in questo caso consigliatevi con chi ben
conosce. rà il loro talento, come sono i Macítri, e da esli comprenderete in
quale fcienza ciascun di loro potrà riuscire più atto, e fare in modo , che in
quella fi applichi. Sem. Ma fe moftraffero non avervi geni? Pub.
Questo si fa venire con far suggerire loro, che quella scienza, la qua. Je si
crede proporzionata alla loro abilità, sia la più bella, la più nobile, la più
utile, c la più dilettevole, che li accomoderanno senza indugio a volerla
apprendere. Sem. [merged small][ocr errors][merged small] Sem.
Sarebbe necessario, che m'in formaste ancora sopra la facilirà , che uno possa
avere in apprendere più una scienza, che un'altra Pub. Se voi scorgerece
un figliuolo serio, e prudente, per quel che potrà portare la sua età, divota,
e che inclis ni all'ecclesiastico, questi pare nato per istudiare Teologia, Se
serio parimente, e prudente, volonteroso di studiare, s che tal volta nelle
picciole altercazioni nare tra fratelli effo fi frapponga , e mostri voler
giudicare , chi di loro abbia corto, o ragione , a questi fate pur
studiare Legge, che diverrà un'altro Bartolo. Se poi obiecterà, sarà
riflessivo, tirerà frequenti conseguenze , questi averà cutti'li buoni
requisiti per divenire un'eccellence filosofo . Se lo vedrere ingegnoso in
adattare, e difporre i suoi giocarelli puerili, prendere misure di alcune cose,
il suo genio lo porterà ad apprendere le Marcematiche ; conforme seguì in
Protagora, ed in Biagio Pa. fcali:c fs lo mirerete sonrinyamente ap
[ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] applicato a disegnare, o
rimirar picture, la sua inclinazione naturale lo porterà a fare il Pittore :
finalmente se lo vedrete afliduo nel tempo, che qualcuno sia malato in casa, e
desideroso d'allistergli, c stare con attenzione ad ascoltare ciò, che dirà il
Medico, il genio, e l'abilicà lo portano a studiare Medicina. Sem. Se sarà
nobile però come potrà effere Medico, non costumandoli das pertutto che questi
esercitino cale pro feffionc Pub. Dunque sarebbe affai fortunato uno
de’vostri figliuoli; se fosse Medico; perchè essendo singolare, che stimas
grande averebbe egli, e che belli acquisti apporterebbe a casa vostra? Sem.
E se tal uno morteggiaffe, che odoraffero questi alquanto di cattivo?
Pub. E voi fate, ciò che fè Vefpafiano a Tito, allorchè riseppe, che aveva ciò
motreggiato, quando pofe la gabella fopra l'orina, cioè di fargli odorare i
danari, che da detta imporzione furono esatti, e trovò il buon figliuolo,
che [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] il modo di medicar cavalli,
alcuni nou 3 che non avevano alcun cattivo odore, Dita ed il (mile
seguirebbe anche in questi. Mec. Vorrei sapere da voi, Sempro>nio, se
vi sia stato alcun nobile, che abbia imparato a medicare cavalli? Sem.
Che voi non lo fipete! essendo. !ci quel vostro amico, che non solamen te
lo sà fare, mà anco l'esercita , peel rò nobılmente. Mec. Oh Dio
buono,per medicare le bestie s’ha da impiegare senza alcun moc
teggiamento un nobile ! e per curare un -2.14 uoino tanto più nobile di esse hà
d'ave. mai retinore di essere motteggiato! più no bile dunque farà
creduto da questi of l'esercizio del Manescalco, che quello del Medico,
giacchè quello è esercitato da nobili, e questo da essi viene abbor.
rito? Pub. Hanno dato alla luce libri,sopra bili, tra quali vi è Pasquale
Caraccioli Cavaliero Napolitano, e Marino Gir, zoni Senatore Veneto; laonde
potrebbero meglio impiegarsi i nobili nello elpi scrivere di medicina,
per imitarc Corne. lio Celso nobile Romano. Med. Vi è stato anche a
giorni nostri Roberto Boile nobile, e ricco Inglese , il quale non hà
risparmiato, ne spefa , ne fatica per accrescere la filosofia fperimentale; e
quanto di bene egli abbia fatto, le sue opere lo mostrano , avendolo queste
renduto glorioso a’posteri. Mec. In questo particolare bisogna, che io
parli contro di noi medesimi : per ispregare le nostre ricchezze in lussi, lo
facciamo prontamente; per impiegarle poi a beneficio della viriù, non ci
sappiamo indurre, perchè pajono ad alcu. ni spregate, quantunque realmente non
fiano. Mà torniamo al nostro assunto. Sem. Vorrei sapere dal Dottore, da
che proceda la varietà dei genj. Med. Questo secondo il mio debole
fentimento credo, che da temperamenti poffa in gran parte derivare, perchè
colui, ch'è malinconico averà genio as cose serie, il bilioso ad altre più
risoluto, il demmático gradirà la quiete, ed 1 [ocr errors][ocr
errors] il sanguigno amerà la varietà delle cose, e poi rifletto, che
l'arie ancora, ove alcuni nascono, ponno contribuire molto alla
determinazione de genj, essendoche vi sono alcuni luoghi,ove quasi tutti
attendono ad un solo metiero, ed in un tal clima li osservano genj
affai differen, ti dall'altro; ben è vero però, che alle volte
ancora le altrui fortune fanno venire il genio più ad una cofa , che ad
un'altra per esempio l'essere un semplice Soldato divenuto Generale, ha
fatto venire il genio a più d'uno di seguitare la guerra : l'avere
lasciato un Medico ricchezze considerabili, ha dato motivo a molti di
applicare alla Medicina ed il fimil è accaduto nell'altre professioni.
Leggo però che nella Cina, cd in alcuni altri dominj fuori
dell'Europa quefi genj sono già fissati , non essendo permesso ad
alcuno il fare differente me- stiero da quello di suo Padre., e
perciò colà igenj sono stabili non potendoli yariarere
a suo modo. Sem. E se quedo genio, che taluna do [ocr
errors] de'figliuoli hà, non corrispondeffe alla sua capacità, che doverà
farsi? Pub. Questo suole per lo più corrifpondere, quando nasca
spontaneamente, e aon da impegno; perchè ci potrebb' essere taluno, che avendo
genio il suo compagno di applicare, per esempio alla legge, e questa quantunque
non geniale nulladimeno per non discoftarli da esso, volesse anch'egli
ftudiarla, ed in questo caso, vedendo voi, che non avesse quell'abilità, che
tale profes. fione richiede, potreste farlo allontanare dal detto suo amico per
qualche tempo, senza che penetrasse il perchè, e così il genio , che nasce
dall'impegno,fi muterà facilmente, quando non vi concorra anche il proprio.
Sem. Come mi potrò allicurare, che fia proporzionato il genio, e l'abilità alla
scienza, la quale bramano di acquiItare? Pub. Niuna cosa vel potrà far
meglio conoscere, che lo profitio , che faranno ja quclle, perché è impossibile
che con [ocr errors][ocr errors] di concorrendovi l' abilità, ed il
genio, questo non si faccia anche da principio, ed accertato, che
voi sarete di ciò vivea te pur quieto di mente, che ci è la sua of
proporzione. Sem. E se non ci sarà detto profitto, G doveranno levare da
questa per porli ad apprendere alcra scienza? Pub. Conviene maturare bene
fimile si risoluzione, per conoscere meglio don de proceda il non farsi
profitto, poten. do ciò nascere da due cagioni, cioè,o da fimulata
inclinazione, o da inabilirà : se provenissc dalla prima potrete fare da
qualche loro confidente scoprire i qual fia la loro propria inclinazione,
; dove il genio li porti, e prima di perdere maggior tempo ponereli in
quellas ad essi geniale ; se poi nascerà dalla inabilità, ovunque li porrete,
questa farà sempre impedimento al conseguimento di essa. Sem. E se
procedesse dall'essersipenriti, ritrovandola più difficile di quello, che se
l'erano figurata ? Dd
Pub. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Pub. Questi cenereli per istabili, poltroni, che poco di
buono ne potrete tiçayare; perchè ovunque gli applicherere , sempre faranno il
medesimo, non avendo fermezza , ge sofferenza per la fatica, Sogliono però alle
volte alcuoi di questi rimetçerli nella buona strada , quando ciò venisse da
una certa pufillanimità di cuore , onde farà bene di ajugarli da principio con
buoni repetitori, mediante i quali animandosi , prosegui. ffono poi con
profitto , Sem. E se non ayeffe taluno genio a fofa alcuna, come mi doyero
regolare Pub. Vi potrete con questi regolare a yostro modo , ogni qual
volca či liau Pabilità, e l'ingegno ; perchè sogliono alcuni per modestia in
tutço , e per tut: to forromergersi al volere paternoję queIti riescono per lo
più virtuofi , ogni qual voltą abbia l'ayerţenza di farli applicare a quella
scienza, che Gia proporzionata al loro talento, come già di. femmo Sem. Stimate
bene che nel tempo,i che applicano alle scienze si possano , pare per loro
divertimento, far applicare al plin suonogal canto, o ad altri civili diverčia
0,1 mçnti? open Pub, Şe li yoletę far divertire day quells, fateli applicare
anche a questi , A Colui, che applica, e li approfita in cose ferie, non
bisogna distrarlo con çosę amene, perchè le prendeffe cal vol. i ha genio
grande a queste come ande, rebbero , Sempronio mio, le serie an zi
che, se ne moftrassero efli genio,dove. a fe da questo diftorli, con dire loro,
che approfittati, che saranno nelle scienze, yoi medelimo volere, che si
divețiano o in quelle, ed in turti gli alțri civili orna mengi . In un
caso solamente fi potrebbe ciò permettere, cioè quando il figliuolo fosse di
temperamento molto malin. conico, e çetro per solleyargli l'animo contriftato,
Sem. E se la foyerchia applicazione allo {tudio danneggiasse la salute, che
converrà farsi, Dottore? Med. Primieramente procurerere, DI? che
[ocr errors][ocr errors] illbuono per evitare i nocu. che si moderi
ciocche sarà eccessivo; perchè quello che non fi può apprendere ia un giorno,
fi apprenderà nell'altro, e fe voi vedrete , che ciò non basti, levateli
affatto dallo studio ; perchè è me. glio il figliuolo fano, quantunque fias
ignorance, che dotto divenuto inabile a godere il frutto delle sue faciche: e
non vi fate dare ad intendere da parabolani, che a forza di rimedi possa
superarsi tal incomodo, perchè in tal caso averà due nemici, che lo
perseguiteranno; cioè l'applicazione soverchia, ed il rimedio da taluno
credulo, o malizio. menti di effa, quando lo specifico rimedio consiste nella
totale rimozione dall'applicazione: Sem. Approfftrati che saranno i
figliuoli, che dovrà fare il buon Padre di famiglia per provederli bene? Pub.
Ci penseremo trattanto, e la di. scorreremo in appreffo. CONFERENZA sopra
gl' impieghi, che dovranno darsi da faggi Padri a' figliuoli ben’educati
,, e dotti. Pub. o sviscerato ainore de Padri verso i figliuoli, li
fa bene spesso cadere in molti eccelli, e partis colarmente allorche
questi nascono ; pofciache fino da quel punto di figurano alcuni di efi , e
senza alcun fondamento, di far loro ottenere grandezze, & onori
confiderabili, e per ciò allora dispongono d'indirizare il primo per l’Ecclesiastico,
a fin che giunga a sublimi posti; di acca fare il fe con el
Dd 3 [ocr errors] condo, e fargli ottenere una groni lima dote :
d'incamminare il terzo per un generalato di esercito: ed al quarto ; c quinto
di dat per moglie figliuole ereditieres e ricche, acciocche poffano passare la
quelle famiglic ad ereditarne archie il cognome. Se tali chimere, senza verun
fondamento ideates riuscisfero, oh chie bella cosa che sarebbe! l'averebbero
con quefti modi certamen. té accomodati tutti affai bene: mà benedetta sia
quella volta, che pur una di queste si verifichi in tutto ; posciachè al
destinato per l'ecclefiaftico viene genio di prender moglie; a quello per la
moglie di farsi ccclefiaftico, o religioso; all'altro per condurre eserciti
d'imparate a guidar bene un biroccio ; o muta i fei; ed agli altri destinati,
pet rostegno di famiglie altrui, di rovidare, per quanto poisono s la propria ,
con giuochi , é bagordi ; a quali si darino in preda : e sapete ciò da che
nasce dal non avere i Padri appreso bene da Salomone. quello che debbatio fare
, qual'è? Cor. bos st bominis difponii viam fuam, fed Domini eft. n
diriģere grefus fuos; onde per voler fare to tutto da se medesimi, perciò non
poffo. ! nio avere buon fine i loro disegni . of Mec. Questo l'ho confiderato
anche dio più volte, in occasione, che seativa I dire a Padti: questo l'ho già
destinato i per la tal via ; e quello per quell'altra s # conforme ch'elli
fossero stati arbitri del la Providenza Divina, che regge turto, a
difpofitoti assoluti delle inclinazioni de figliuoli ; é volendo ammonire
sopra di ciò talun di quefti , mitróncava il dia scorso con dire che già poneva
da para te gli assegnamenti necessari, e che pensava ancora alle fpefe straordinarie
; per i quando avessero conseguito quelle caris che; che bramavano di
fare orretiere 2 figliuoli; ed era quelto trent'aniti primas che le potessero
conseguirt , onde mi sembra vano le loro menti teatri di commedie, ove fiori
personaggi paffeggiano. Sem. Non ci averanno dunque das penfare, i Padri
allorche nascono i Ai gliuoli di far conseguire loro vantaggi? DI 4Pub. Non
hanno allora da pensare a questo, mà bensì di proccurare, che divengano abili a
conseguire quella buona sorte , che Iddio 'averà preparata a meri. tevoli: e
perciò fantamente un saggio Padre aveva in una tela fatti dipingere i suoi
figliuoli colla sola camicia, e con questa iscrizione. Tocca a Dio lo
stabilire In che guifa han da vestire . Volendo significare , che a lui
non toccava fare altro, se non ricoprirli colla camicia, affinchè non
comparisfero affatto nudi ; nel riinanentę poi si uniformavi colla volontà di
Dio, acciocche li avesse rivestiti a suo modo, e che questa prima copertura non
consisteva in altro, che nella buona educazione , alla quale dovea cffo pensare;
onde non prima , che fiano educati, ed istruiti questi nelle virtù,possono i
Padri comprendere, che voglia Iddio disporre di eli. Sem. Qual di questi
il Signore Iddio averà disposto per acca farsi? E sem. Quello , che conoscerece
più (e frio, sano, e sensato, e che averà inclina. kizione a questo,
perchè avere pur udito bu qual capacità, e segno ci vuole per prenaf dere
moglie? Sem. Se il primo genito , al quale si suol dar moglie, non avesse
tutte queste condizioni, e foffe volonteroso d'accasarsi, che si averà da
fare? Pub. Se gli mancaffe la sanità, o faviezza sarebbe segno, che Iddio
non vo. lesse; e voi potreste sostituire ad esso chi fosse più capace..
Sem. É se ci fosse il maggiorasco, che ma potrò far io venendo egli chiamato
as [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Farete dal canto
vostro tutto quello , che potrete; perchè non manca. no, ripieghi in simili
contigenze, per farlo rinunziare a questo, con serbarli un buon assegnamento;
mà se poi non vi riufciffe converrà averci pazienza; perchà vostra non è la
colpa , mà di chi lo chiamò a questo, che non pensò a tanto. Sem. E per
l'ecclesiastico, chi dielli a doverà incaminare, Pub, [ocr errors]
Pub. Il più docilc, dotto, e divoto. Sem. E se non avess' egli tal genio?
Pub. Sarebbe segno che Iddio non lo volesse per questa via, e voi
sostituitene un altro ad effo, che l'abbia , quartunque foffe men dotto; o pute
incominciatead istradarlo per questa via alla lon. tana, che può essere's che
tal genio gli venga. Sem. É quale sarebbe questa via Pub. Quella
della Avvocatura, se fará inclinato alle materie legali; mà non to fare
Avvocato di dome, perchè cið (crvirebbe a nulla. Sem. Come mi dovrà
regolare in far questo? Pub. D'incaminarlo per la medesima via, che
calcarono quelli che sono riufciti eccellenti in tale professione; i quali
ne'primi anni cominciarono a rivolta. fé protocolli negli offizj de
Notari. Sem. Mà una persona nobile non potrà far questo. Püb. E
percið non potranno forfe giugnere ancora alla perfezione di quellig che lo
fecero: More [ocr errors][ocr errors] Med. Vannio pure alla guerra
ventu. fieri moltissimi nobili con pericolo giornalmente di morte, e cominciano
meri fanci di volontà; perchè dunques non possono fare ancor questo, nel quale
non li incontra un fimile pericolo, ed il fine ancora, è retrissimo, onoratiffimos
crfendo diretto all'atimigistrazione della giustizia? sem. E dipoi che
dovranno fare Pubs Prendere pratica delle cause appreffo i migliori
Curiali, ed esercitari in questa, passare a prenderla dagli Avvo. cati con
iftare sotto la loro dettatvra, se forà bisogno: e finalmeiite im poffeffati,
che saranno in detta pratica ascoltare attentamente per qualche tempo i Giudici
de primi tribunali; ed allor si, che po. tranno porsi a fare gli Avvocati ,
tros Vandofi colmi di doctrina , e di sperienza. Sem. Esercitato che
averanno l'Avvocatura che faranno? Pub. Avendo acquistata perizia maga
giore in tal ministerio , c per averlo lom de. [ocr errors]
deyolmente qualche tempo esercitato , potranno per giustizia , non già per
grazia pretendere i migliori posti della Republica, e di grado in grado
avanzandosi, potranno conseguire ciò, che bra. mano: Sem. E’lsudetto
genio come verrà ? Pub. Chi averà amministrato con rettitudine la
giustizia, sarà senza dubio rimunerato da Dio; se lo fè a Salomone per avere
solamente mostrato desiderio di esser giusto, fupplicandolo di ciò, come fi
legge al 3. dei Rè: Quia poftulafti ver. bum hoc , bu non petiffi tibi dies
multos; nec divitias &c. ecce feci tibi fecundum Sermones tuos &c. fed,
hæc que non poftulasti, dedi tibi : divitias fcilicet, do gloriam; ed udite
ciocche dice per bocca d'Isaia al 51. Facite justitiam &c. ed ins appreffo:
Beatus vir , qui facit hoc; e nel libro della sapienza al primo : diligite ju,
ftitiam , qui judicatis terram ; come volete dunque che, a questi non dia las
vocazione ancora di servirlo; cffendogli sì grata la sua servitù.Sem. Se taluno
di eisi volesse farsi re, ligioso, che dovrò fare? Pub. Non altro
ch'esplorare se fia vera vocazione, o soggestiones perchè se farà vera
vocazioneld, dioè, che lo chiama; onde a questa non dovete opporvi s perchè si
sono veduti gastighi assai evidenti fulminati contro chi si è opposto al Divino
Volcre, : Sem. Come mi porrò accertare di questa vera vocazione? Pub.
Dovete alla prima mostrare res nitenza in dargli permissione, che lo faca cia :
conducerelo continuamente con esso voi, ed informarelo sinceramente di tutte le
difficoltà, che potrebbe in. contrare nella vita religiosa; come anco delle
astinenze, ad altre penitenze, che tra effi fi costumano, con doverfi privare
della propria volontà, allorchè sarà religioso; e se si manterrà sempre saldo,
é costante nel suo proposito, crem dete per certo, che farà vera vocazione.
Sem. Mà non sarebbe bene, che lo condücelli alle conversazioni, alle
comig me medic, ed ai passeggi per divertirlo me, glio, caso che lo
vedcili malinconico? Pub. Questo poi non dovretç fare; perchè allor îi
che perderebbe quanto di buono egli acquisto nell'educazione; e non facendoli
poi Religioso vi farebbe fofpirare, per averlo voi con defii mo: di improprj
sedotto , E non crediatę gia che facendosi Religioso, per vera vocazione,egli
viverà infelice, anzi che sarà il più contento, e felice degli altri, per, che
godono questi, quando non abbia. no ambizione, ed altri attacchi mog, dagi,
sommą tranquillità d'animo, Sem, Sicchè dunquc sarebbe bene, che facefî
venirç a qualcun aloro ancosa la yolontà di farsi religioso, giacchè elli
vivono così feļici, e particolarmense a quelli, che fossero incapaci di alcu,
no impiego della Republica. Pub. Ayversite, Sempronio, di non far questo,
con modi suggestivi, per fini mondani; come sarebbero, per far di, venire gli
altri fratelli,che sono al secolo più facologi mediapre l'augumento delo
la la sua parte șinunziara, o perchè non saperç a che impiegarlo, mentre
questo non piacerà a Dio, onde contentatevi di dare solamente a Dio quelli,
ch'esso yuole, e non quelli che non fanno per voi, come sogliono pure troppo
effettuar re alcuni, che sc hạnno raluno de figliuo, li difertosi, o di poco
fennolo consacra no a Dio, essendo questo il sacrificio apo punto di Çaigo, che
gli daya le vittiine più magre, e tanto maggiormențe chę essendo questi turti
suoi operarj? come volere, che poslano fervirlo bene, se non avranno capacità
sufficiențe di farlo? Mec, Sarebbero dunque, come quelle vittime, che si
offerivano agl'Idoli di Moloc, ed a quello di Sapurno dai Gentili, che morivano
nelle loro braccia jufocate senza esser capaci di alçro, che di piançi. Sem.
Se paluno & volçís'elimçre da qualunque impiego per starsene senza pensare
a cosa alcuna,che averò da fare? Pub. Coltui bramerebbe darG all'ozio, e
non è volontà di Dio, che stia l'uo l' uomo ozioso leggendosi nella
Geneli al 2. Pofuit eum in paradiso voluptatis, ut operaretur, e se in luogo di
delizie non volle , che stesse ozioso l'uomo, come lo permetterà nel mondo?
quando allorchè ye lo pose gli disse: In Judore vultus fui vefceris pane tuo,
donec rever. teris in terram ; quale poi fa il danno, che apporta l'ozio
uditelo dall'Ecclefiastico al 33. Multam malitiam docuit otio. fisas; e
maggiormente questo può nuocere a chi hà beni di fortuna', perchè essendo
l'ozio il padre di tutti i vizj, che ne seguirebbe da questo? Allorsi che la
buona educazione gli gioverebbe poco; onde per ovviare a ciò potreste farli
suggerire, se bramasse entrare in corte ove fi sta per lo più a sedere , gon si
fatica, ne fi applica a cose di rilievo, discor, rendosi bensì delle novelle
della città, e del mondo,e li fà una vita neghittosa,la quale farà facilmente
confacevole al suo genio, e perciò, che la provasse un poco: caso poi, che
ricusasse questa ancora, allora vedete a chc aveffe genio, e la. [ocr
errors][ocr errors] sciateglielo fare, perchè sempre sarà meglio, che
faccia qualche cosa', che stia coralmente in ozio ; e tra gl'impieghi onorevoli
ci sono la pittura, nella quale alcuni malinconici i sono con genio esercitati:
il lavoro alcorno: il dar las vernice indiana, ed altre cose simili,
confacevoli a chi non voglia intraprendere affari di suggezione, ed udite
ciocchè consigliava ancora San Girolamo Epist. ad Ruftic. Vel fifcellam texe
junco, vel canistrum piecte viminibus; più costo che ftare ozioso. Sem. E
se tal uno di essi volesse applicare a far negozj di cambi, e ricambi,
edsagl’affitci'de dazj, averò da permetterglielo? Pub. Ci penserei prima
d'accordarglielo; non solamente perchè nostro Signore Gesù Cristo levò S.
Matteo da far simili esercizj, mà ancora, perchè questi impieghi, che mediante
un fallimento, o altri accidenti del mondo ponno scomodare di molto, non sono
negozj licuri, anzi azzardolidimi in chihà da perdere molto del suo ; che
questo lo faccia chi poco può discapitare di proprio gl’è tollerabile. Sem.
Avendo taluno genio alla caval. lerizza, e li dilettasse di mantenere più
cavalli di quelli, che Geno necessarj, averò da collerarglielo? Pub.
Essendo tal genio diretto alle bestie, quando fi eccedesse nel numero, o
nell'amore verso di effe, non sarebbe tollerabile:nel numero, perchè al parere
del Petrarca: in Dial. de equo; Quot equorum mores totidem equitum pericula; e
nell' amore, perchè gl'uomini quantūque grádi, che vi cadettero, furono di ciò
biasi. mati; tra’quali Alessandro, Augusto, ed altri. Quindi è, che faggiamente
dispone il Deutero. Rex non multiplicabit fin bi equos; or dunque come potrà
ciò permcttersegli, essendo anche dispendioso? Sem. Vado or riflettendo
come G rę. goleranno quei figliuoli educati benc da Maestri,criusciti
eccellenti nelle scienze, se non averanno i Padri attcari, e capaci di dar loro
direzioni buone in [ocr errors] j tempo, che debbono prendere stato:
© che faranno ancora quci nati da Padri poco nobili, e meno ricchi,effendo
d'uopo riflettere a tante cose per accomodarli bene? Pab, La gran
providenza di Dio supa plisce a questo; effendoche : bong menfi fuccurrit
Deus,Allorchè questi faranno divenuti capaci,cd abili, da loro medesimi
comprenderanno qual ha il volere Divino, ed avanzandosi colla loro prudenza
giugneranno felicemcate fin dove Iddio averà disposto, che arrivino. Sem.
Io sono rimasto sorpreso allo volte nel vedere cerți mal educati, e poco dotti,
ed anco per vie indirctte, giu. gnere a gran posti; ed altri, alle volte
quanrunque di vita esemplarc, meritevoli, e capaci, rimanere indietro,
Pub. Questo ancora è un arcano della Providenza Divina; posciachc essas I
tollererà, che caļuno s'avanzi per queste ich vie; mà che? vedendosi questi
nell'au, ge delle loro fortunc cadere a terra, çi i fa credere, che senza
il Divino ajuto for [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] formino la statua di Nabucdonosor, 12 quale mediante un picciolo
falsolino s' atterra, come appunto provò Sejano. I E quelli poi, che rimirate
non avanzarsi, avendo merito, Iddio conosce, che quel posto,che voi credere,
che compete. rebbe loro, e non lo conseguiscono, non fàrà per loro,effendoche,
oc'incontrerebbero delle disgrazie, o pur sarebbe dannoso alla loro eterna
salute, e di quefta verità non dubiterere punto ; perchè alle volte:
honores mutani mores, ondes chi sà, che in questi non seguisse cosi? se volete
udire altre ragioni sopra di ciò leggete Seneca che tratta diffusamcnte di
questo nel libro:quare bonis viris mala accidant cum fit Providentia.
Sem. E che dice di più di questo? Pub. Tra le altre cose urili dice la
Providenza Divina a coloro, che di ciò si prendono rammarico al cap. 6. Quid
habetis quod de me queri pofitis vos, quibus recta placuerunt? Aliis bona falsa
circum. dedi , animos inanes velut longo , falla. rique fomnio luff, Auro illos
, argento , ebo [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
ebore ornavi: intus boni nibil eft. Ifti quos profęlicibus aspicitis fi non quâ
occurrunt, sed quâ latent videritis, miferi sunt, fordidi, turpes ad
fimilitudinem parietum fuorum extrinfecus culti. Non eft ifta folida, sincera
folicitas: crufta eft, quidem tenuis. It aque dum illis licet ftare, co
ad arbitrium suum oftendi, nitent , da imponunt cum aliquid incidit , quod
difurbet; ac detegat, tunc apparet quantum alta, ac veræ feditatis alienus
Splendor absconderit. Vobis dedi bona certa, manfura quanto magis versaveritis,
& undique inspexeritis, meliora, majoraque permisi vobis, metuenda
contemnere, cupienda fastidire. Non fulgetis extrinfecus: bona veftra introrsum
obverfa sunt. Non egere feu licitate fęlicitas veftra eft. Ferte
fortiter, bc. · Sem. Sin ora abbiamo discorso intorno al modo da
provederli senza soccorrerli di proprio, vorrei, che ora m’ istruiste come mi
doverò regolare con efli loro nel sovvenirli, vivendo io, e dopo la mia morte?
Pub, [merged small][ocr errors] Ec 3 Pub. Questo è un prudente
quesito, e dev'esaminarsi seriamente, dependendo da questo il mantenimento
ancora della buona educazione acquistata ; posciache bene spesso conforme diffe
Tacito: felicitate corrumpimur. Sem. Come dunque mi dovrò regola. re
coll'ammogliato? perchè non vorrei pensare al suo mantenimento, fentendo
giornalmente molci dolersi de loro Padri, che non li provedono in tempo
opporcuno di quanto fa loro bisogno; oltre di che sò ancora, che così pensa mio
Padre trattarmi. Pub. Voi dovrete affegnargli unas convenevole, c
fufficient entrata, che pofsa baftare per il suo mantenimento; con questa
considerazione di vantaggio di accrescerla, secondo che anderà mul. riplicando
la famiglia. Sem. Mà non averà d'avere qualche cosa di vantaggio del
bisognevole? Pub. Qualche cosarella credo anch’io di fi, perchè accadono
alle volte certe spefarelle impensace, alle quali nonfi farà dato il suo
equivalente assegnamento; mà per altro non debbono i buoni Padri di famiglia
essere molto generoli co'suoi figliuoli ammogliati. Sem. E per qual
cagione? Pub. Perchè dagli affegnamenti soprabbondanti ne nascono il
lusso, las crapola, e cento altri vizj. Sem. Mà se farà ben’educato non
caderà in questi trascorsi. Pub. L'essere ben’educato opererà , che
questi non si dolga del conveniente, e giusto assegnamento fattogli da suo
Padre ; mà per altro fate, ch'egli si ritrovi denaroso, troverà ben più d'uno,
che gli li porrà d'intorno per farglielo spendere in cose voluttuose, onde
toglieregli affatto l'occasione di far questo, che vivererc voi più quieto , ed
egli più fano Sem. Si dovrà quest'ingerire nell'amministrazione
dell'azienda? Pub. Anzi sarà necessario, che lo facciate istruire in
tutte le cose, dovendo egli, non solamente dopo la vostra mor [merged
small][merged small][ocr errors] te reggere la casa, mà eziandio se mai per
disgrazia voi v'inabilitaste; o pure per la soverchia età volerte attendere
alla quiere. Señ. Ed agl'altri figliuoli dovrà farsi assegnamento per
farli vivere da se? Pub. Questo nò: li doverece bensì voi provedere di
quanto farà loro'bisogno, al più, che vi potreste stendere; sarebbe d'assegnare
loro un tanto per vestirsi, con qualche cosarella di più, mà non già con
prodiga mano; perchè l'abbondanza del danaro è la rovina dei giovani, anco ben
educati, e credetemi, ch' io sò qualche cosa in questo particolare, e Mecenate
ne sarà talvolta informato più di me. Mec. Voi dire la verità, poichè se
un figliuolo di famiglia maneggierà danaro, sarà corteggiato da più d'uno, e
tentato da questi a prendersi divertimenti d'ogni genere, dove che se non
averà, questi Teduttori faranno come le formiche, che non li accofano ove gon è
grano; come dice Ovidio. Hora [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
Horrea formicæ tendunt ad inania nunquam Nullus ad amisas currit amicus
opes. Sem. Guadagnando taluno di questi, dovrò continuare a fare con effo lui
quello, che fo con gl' altri? Pub. In questo caso voi potreste fargli da
economo , affinchè non ispregasse, con rinvestire in faccia sua i suoi guadagni,
per animarlo ad accrescerli; ed infieme, per eccitare gli altri fratelli ad
imitarlo; e continuerete voi a mantenerlo, essendo la casa non bisognofa ; mà
se non bastassero l'entrate al comune mantenimento, il figliuolo bene educato
spontaneamente vi soccorerà col proprio guadagno; non potendol prevalere del
consiglio di Solone, come riferisce Plutarco: che solamente i figliuoli,
abbandonati da loro Padri, non fossero tenuti, allorche questi avessero avuto
bisogno di esser soccorsi da figliuo, li, efli didarglielo. Sem. E se uno
de miei figliuoli foffo; destinato a qualche giverno, o 'alera [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ca. [ocr errors]
carica dispendiosa, per servigio del Prencipe? Pub. In questo
caso,Sempronio, con. verrà,che voi facciate tutti li sforzi por. fibili in
soccorrerlo, anche oltre il bisognevole:e per queste cótingenze debbo. no i
buoni Padri avere cumulato danaro per prevalersene, e non bastando, pofsono
anche fare debito; perchè questo si chiama rinvestimento, che a suo tempo,
oltre il decoro, recherà anco utile alla casa. Sem. Vediamo ora come
dovrò lasciarli dopo la mia morte, ed in primo luogo come averò da contenermi
coll' ammogliato; se lasciarlo padrone libero, o usufruttuario con fare la
primoge, nitura? Pub. Lasciandolo voi, che sia arrivaco in età affodata,
e senza vizj, attento alla casa, e versato nel maneggio di effa, potreste anche
fare di meno di legarlo con fidecommisso; con tutto ciò, perchè non potrete
sapere i naturali de' figliuoli, che da esso nasceranno, e se [ocr
errors] e se sarà in tempo, per qualche accidca: te di poterlo far esto, non
sarebbe male d'istituirlo, con lasciare ad esso qualche porzione libera, per
fargli conoscere, che non diffidate della sua bontà, ed at. tenzione in moltiplicare
la roba. Sem. Ed agl’altri, che dovrò lasciare Pub. Un Ogorevole
mantenimento per potere decentemente vivere fecon. do la loro condizione, ed a
colui, che foffe capace di avanzarsi nelle cariche, qualche cosa libera per
poterlenc prea valere ne'suoi urgenti bisogni , quando le averà ottenure ; må
dite che farefta di vantaggio voi, Mecenate ? Mes. Avendo veduto , che
alcuni apa pena eftinti i genitori , quantunque fora to la loro dirczione
foffero ftati mode tariflimi in tutto, pull adimeno pelle o pompe
funebri, clutto incominciarona di a slargarli in modo, che non mostravano o
essere più quci di prima, cosi ben disci· plinati nella parhimonia; questo dico
mi o farebbe, avendoqualche rimedio, acciocche non foffe in tutta libertà loro
di manifestare quel ge nio ch'era quando vivevano i padri fie mulaco,a fine di
precluder loro affatto la via di darsi all'eccessivo lusso. Pub, Sapete
pure quanto sia difficile il volere regolare le cose canto al minuto dopo morte?
e quante disposizioni si fanno, che non fi osservano dagli eredi? or come
potrete far mai, ch'elli allora fieno buoni economi di quello, che non è più
vostro? Mec. Tutto va bene, mà però certe cose possono farfi eseguire
anche dopo morte, perchè li dispongono in vita, ed allor'appunto, che sono
proprie; onde perchè non le potrei conseguire difponendo, che si dovesse
ogn'anno rinvestire una parte dell'entrate, la quale io credelli soprabbondante
al loro decente sostentamento? Pab. E che pretenderefte farne di tal
vincolato investimento? Med. Vorrei che dovesse servire per dotare le
figliuole ; e credetemi, che que [ocr errors] [ocr errors] queste
doti d'oggidì, che sono divenute eccessive, sono la rovina delle care, onde
quando queste non si dovessero linen. brare da' capitali mi persuado, che
sarebbero esenti dal deteriorare per questa parte. Farei ancora assegnamento
maggiore a Cadetti, di quello, che alcuni costumano di fare, e particolarmente
a quei, che sono ben incaminati per la strada della letteratura, o militare,
non servendo questo scarso, ed insufficiente assegnamento ad altro, che a fare
maggiormente spregare a primogeniti, godendo più grosse rendite del loro
bisogno con pregiudizio de progressi altrui, perchè in sostanza tutti debbonli,
e gualmente considerare per figliuoli, e fenza demerito alcuno dell'amore
paterno portandoli tutti seco rispettofi. Sem. Voi Mecenat vorreste
reftringere tanto i poveri Primogeniti, che poco rimarrebbe loro per vivere,
perchè una parte dell'eredità paterna la vorreste porre a moltiplico, ed oltre
di questo pre [ocr errors][ocr errors] pretendere ancora di
accrefcere gli assegnamenti consueți de Cadetti; onde stencerebbero i poveri
Primogeniti a vivere anchę mediocremente, Mer, lo non hò preteso di
appor. car ļoro danno alcuuo, ma bensi più fofto giovamento, liberandoli dallas
penosa briga di dover pensare alle dori delle loro sorelle, e figliuoic,
facendo trovare queste pronte in tempo, che ne potranno avere bisogno,
Şem, Sę tante deligenze si dovranno praticarç per li figliuoli ben educati, e
dosti, che doverà farsi per quei , che non si farango approficcati nell'educa,
zione, e nelle scienze Pub. L'esaminaremo ia appreso, SON
[ocr errors][merged small] Come debbano i Padri regolarsi nel provedere i
figliuoli ignoranti, ç yiziosi, Publio, Sempronio, Mecenate, &
Medico. [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] Pub.
Alomone non solamente notificò il giubilo grande,che godono i Padri allorche
vedono i lo ro figliuoli ben di. sciplinati , come al 23. dc suoi
Proyerbj dice ; Exultat gaudio paser jufti : qui fapientem genuis lætabitur
inco; Må eziandio espresse il rammarico, che ne hanno quei , che li vedono
viziofi al decimo ferrimo ove dice; Ira patris filius ftultus, dolor
matris, qua genuit eum. Quindi è, che è, che l'Ecclesiastico al 16.
conchiude: Utile eft mori fine filis , quàm impios habere. Sem. Questi
cattivi, e viziosi forse non averanno avuto dircttori nei loro teneri anni, che
gli abbiano ben'educari. Pub. Ci sono di quei, che l'ebbero an. cora, e
pure da essi niun giovamento ne riportarono Sem. Come è possibile
questo? Pub. Dovete voi sapere, che quando il vizio è radicato nel cuore
de figliuoli, e che di la si propaga al capo, ardua impresa fi renderà il
poterlo svellere, perchè fi rende allora effo quali padrone della volontà?
Sem. Mà perchè questi non possono. coll'educazione estirparsi dal cuore, e
dalla mente quando di effa fi foffero impoffesfati ancora è Pub. Ardua
impresa, come disi farà prenderla con vizj chiamati da Salomone nelle sue
Parabole al 2 2. Stultitia colligata in corde pueri; e tanto maggior. io
figliuoli, pensare allnde mente quando chi n'è contaminato non coopererà
ancor ello per rimuoverli? Sem. E come potrà farac di meno, avendo avanti
gli occhi canti buoni esempj, ed udendo saggi documenti, e ragioni
convincentisfime! Pub. Si trovano questi talmente accecati, e sordi, che
non veggono, nè capiscono nè esempj, nè ragioni ; e queIto nasce ancora dal
loro naturale, egenio perverso, che in vece di apprendere, e vedere con loro
profitto li fà porre in deriGone quanto odono, e veggono, come saggiainente
insegna Salomone al 15. de suoi Proverbj: Stultus irridet disciplinam patris
fui, qui autem cuftodit increpationes astutior fiet. Sem. Questi genj perversi
donde nascono? Pub. Dalla poca cognizione dell'onefto, e del vero bene, e
da questa deriva, che credono ogni qualunque cosa, che appag! la loro volontà,
per onesta, quautunque sia detestabile, ed avendo, fatto in tal falfa ccedenza
l'abito, quc FF Ito [merged small][ocr errors][merged
small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Ito palsa in
naturalezza, e genio, per es. ser divenuta la loro fantasia quasi consimile a
quei cristalli con artificio lavorati, che fanno comparire le cose
proporzionate,e belle per i isconcie,e le íconcie per belle, e proporzionate
. Sem. Indicatemi ora qualcuno di que. Iti vizj tanto perversi.
Pub. Se voi scorgerete in un fanciullo certa crudeltà ferina, qual fù di colui,
che con un ago cavava gli occhi a cerci uccelli : d'altri che feriva col
coltello, o bastone il compagno, e scorgendo sgorgare sangue maggiormente
s'infieriva: o pure una certa inclinazione a trafugare, e nascondere cose non
comestibili , prese anco da qualche scrigno: l'essere pertinace, e perseverante
nel non dire mai verità, e fare qualche danno per imputarlo altrui; overo
quantunque corretto,e gastigato più volte il continuare tuttavia a non volere
apprendere cose di Dio, con avere dispiacere di sentirne anche parlare ;
imparando ben l'altre dannose al buon costume : non rispettare [ocr
errors] i i genitori , anzi beffeggiarli di più quanworld do sono da elli
correcci; e tutti questi di fetti crescendo esli negli anni vedendosi
avanzati più rosto, che diminuiti, credete pure, che limili vizj sono già
divenuti padroni del cuore, e della volon. tà. Mec. Vi fù uno di questi,
che in età di cinque anni ammazzò con coltello un fuo compagno, e non
essendo capace, i per essere di sì tenera età, di gastigo, o
proporzionato a tal'eccesso, commesso anche con crudeltà per li
rinovati colpi, a che gli diede, fu fatto caftrare in pe na da quel
Prencipe dominance, dicendo egli, che non voleva razza di simili fiere nel suo
dominio. Sem. Mà hò udito riferire più volte, che pur si rendono máfuete
le fiere ache o più crudeli; com'è poflibile dunque, che questi, in
qualche modo, dall'industrias umana non si possano domare? esaminiamo di
grazia, se vi poress’essere qual che rimedio, per rendere mansueci anco o
questi, o pur datemi sopra cio, per mio Ff 2 re regolamento,
qualche buon consiglio ; perchè , fe Iddio per gastigarmi mi desse un di quefti
figliuoli, io sarci il più infelice uomo tra tutti i vivenci. Pub. Lo
credo, e perciò bisogna, che cominciare da or'a supplicarlo, che non vel dia ,
ed essendo egli sì misericordio. fo, potrete dopo reiterate preghiere an. che
sperarlo; e voi, Dottore, avete alcun rimedio di quelli, che chiamare
eradicativi per isvellere questi vizj? Med. Se non foffero cotanto
radicati spererei disì, mà farò qualche studio particolare , anche intorno a
questi, per vedere se G trovasse alcuno specifico, almeno, che potesse minorar
loro tant' orgoglio, Pub. Se si trovaffe questo sarebbe gran vantaggio;
perchè allora coll'educazione li potrebbe fare qualche cosa di più, se non in
cutti, almeno in alcuni di esli , onde pensateci seriamente, e fare qualche
sperienza tractanto, per riferire a suo tempo ciò, che averete ritrovato
giovevole. Sem. [ocr errors] . Elio Sem. Mà intanto
insegnatemi almeno แบ่ง quello, che li potcffe fare di vantaggio 11
nell'educare questi, perchè poi, che averà ritrovato qualche rimedio il
Dotcore, mi informerà di quello. Pub. Se fi potesse discernere in tempo,
che prende il latte quel figliuolo,in cui la crudeltà volesse fare progresi, la
prima cosa che farei, sarebbe, di mutargli la nutrice, se fosse donna risentita,
e tiera, ed in vece di questa gli farei dal Dottore scegliere un latte di balia
pacifica , e femmatica; effendocche di ciò me ne porge morivo quello, che seguì
all'imperatore COMMODO (si veda), il quale per essere stato nudrito da una
donna rifen tita, e barbata come un uomo, data gliela affinchè diveniffe
generoso; mà in vece di questo divenne un gladiatore, per non
dilergarfi di altro, che di sangue, j e di caroificine, ed hà ben creduto
talun che appunto detta balia fosse figliuola di gladiatore. Med. Olrre
lo sceglierla proposito, fi potrebbe anch'essa far nudrire di erbe,ed altri
cibi di tenue sostanza, e toglierle ache affatto l'uso del vino, e slattato che
fosse il fanciullo converrebbe non fargli gustare, ne vino, ne carne per alcuni
anni; mà è cosa difficiliffima, per non, dire impossibile, a conoscer quisto
ne? bambini. Sem. A questi sarebbe bene, fin dalla tenera età cominciare
ad usarglı gran rigore per vedere di domarlo? Pub. Se si verificasse
realmente che le vespe muojono nell'olio, e risuscitano nell'aceto, converrebbe,
per estinguere vizj li perniciofi, valerli più costo del dolce lenitivo, che
dell'afpro pungente; contuttociò per assicurarsi meglio con. viene regolarfi
secondo gli effetti, che produrranno in loro i gastighi ; essendoche xlcuni
fanciulli nella tenera era acora s'infieriscono allorchè fi veggono perciotere
colla sferza, onde senza pro ditco alcuno questi di batterebbero, come
insegnò Salomone: ne suoi Proverbi. fi contuderis ftultum in pila quafi pofanas
feriente de super pile, non aufes retur ab eoftultitia ejus Semo erli
che Sem. Ponendosi questi per la buona via , con deporre gran parte della
loro fierezza, si potrà sperare, che divengano buoni? Pub. Dee sempre
temersi, che possano ricadere nel medesimo eccesso, non potendosi ne anco alle
bestię togliere af. fatto la fierezza nativa, quantunque mostrino essere
divenute mansuete. Mec. Riferirò a questo proposito ciò che seguì di un Leone
: questo era divenuto apparentemente fi mansueto,chę girava per tutta la città
senza recare molestia ad alcuno; mà abbattendosi un giorno in un macellaro ,
che portava sulle spalle un gran pezzo di carne , se gli avventò alla vita, lo
ferìgravemente colle unghie,e se non era pronto a dargli la detta
carne,l'averebbe anche sbranato. Così mostrò la sua fierezza , che teneva di
anzi celata. Sem. E quelli , che mostrano inclinazione al furto ?
Pub. Questi ancora, se Iddio non gli ajuta', termineranno malamente la
lor [merged small][ocr errors] Ff 4 loro vita; effendo cosa assai
difficile, per non dire impoffibile, il poter svellere af. fatto tal vizio ;
perchè quanrunque alcuni non siano forzati dal bisogno, las cattiva loro
inclinazione li porta a rubare, Sem. Si possono questi gastigare colle
sferzate? Pub. Così fi dee fare, perch'essendo vili di natura, enon
superbi come i primi , dalle percoffe possono ricevere profitto, almeno in
aftenersene per qual che tempo. Mec. Abbiamo l'esempio di colui ,
che condannato a morte per ladro, conducendosi al paribolo fè premurofiffima
istanza di rivedere sua Madre, ed oricnura che l'ebbe, avicinoffi tanto ad
essa, che coi denti le svelre un orecchia, dicendole: per colpa voftra io vado
al paribolo, perchè, fe foffi ftato da voi ga. ftigato da piccolo, non vedreste
tale spettacolo, ne tampoco io soffrirei queIta ignominiofa morte. Pub. E
neceffario ancora condurli a 31 2 vedere far giustizia, e con
tal occasione insegnare loro qual gastigo meritano quei, che rubano', e che in
oltre sono semprc miserabili questi infelici, come ben conobbe Salomone al is,
de' suoi proverbj:Alii rapiuni non fua, & femper in egeftate funt,
Mec. Un simile obbrobrioso speccacolo indusse una volta gran terrore ad uno
quantunque ftolido mendico ; poscia che per essere stato giustiziaco un
monctario falso, aveva una collana appesa al collo di dette monete falsificato
da esso, e credendo il mendico, che per quelle monete foffe fatto morire , al.
lorchè taluno gli esibiva una moneta di argento, la ricusava con allontanarli
da eslo, contentandofi solamente di quelle di rame, che non le aveva vedute
appese in quella collana di vituperio. Sem. Mostrando poco rimor di Dio,
e meno rispecto a genitori? Mec. Questo appunto, essendo il vi. zio
peggiore di catti, diviene incorrig. gibile per opera de'genitori. [ocr
errors][ocr errors] Sem. E per opera di chi fi potrebbe emendare? Mec.
Polemone essendo giovane fu viziofiffimo a segno che si portò un giarno alla
scuola di Zenocrate, non già per apprendere da esso alcun buon documento, mà
bensì per disturbare più tosto quei, che aveano genio d'apprenderli; avvedutofi
di ciò il saggio filosofo, cominciò a favellare sopra il vivere onesto, e li
vantaggi, che da esso firiportavano, e con tali convincenti ragioni, che rimase
sorpreso il vizioso giovane a segno, che abbandonò i suoi viziosi compagni per
seguitare Zenocrate, da i di cui buoni documenti, u modo di vivere esemplare,
si cambia da peffimo, ch'egli era, in ortimo, e da ciò ne deduco, che ancor voi
non dovete indugiare un momento di più, essendo il figliuolo in età capace, di
non mandarlo in qualche esemplare seminario , affinchè , co'i documenti, e
colli buoni esempj apprenda , e miri ciocche fare gli convenga; e proccuracedi
non farlo tornare più a casa vostra, se non averà mutato costume, e state ancor
voi lontano da esso, mostrandovi dif. gustato del suo modo di vivere'; e
sapranno ben quei buoni directori, ayvezzi a domare fimiliceryelli, allertarlo
al bene, e con modi più spedienti correggerlo, e punirlo, affinchè li emen.
di. Pub. Debbono parimente i Padri ftare cautelati nel gastigare i
viziosi loro figliuoli, divenuti grandicelli, perchè fi potrebbe dare il caso,
che questi sentendosi percuotere, fi rivoltassero contro di essi, e li zn al trattassero
ancora: Sem. Se per disavventurà de poveri genicori rimanessero questi
incorriggibi. li , che fi averà da fare per provederli? Pub, Udite come
mai parla bene a in questo proposito l'ecclesiastico. Confufio Patris eft de
filio indisciplinato: onde come potrà mai in simile confun fione régolarsi egli
con prudenza! Certa cosa è, che per prender moglie questi non sono buoni
; per Rcligios- neanco; . de [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] de maneggi della Republica non sono capaci; talmente che non sapranno,
che impiego potessero far loro ottenere. Sem. Perchè non sarebbero buoni
a prendere moglie ; pofciachè chi sà, che divenendo capi di casa non mettessero
giudizio? Pub. A voi darebbe l'animo di convivere insieme con costoro, se
vi foffero compagni Sem. A me difficilmente. Pub. Or dunque, perchè
volere porli a convivere con una giovane senza fpe. rienza? ed a che vica
infelice fiespor. rebbe questa con marito si vizioso? E poi roi procurate fare
il poffibile per togliere da effo i vizj, e non essendovi ciò riuscito ,
pretendere forse far razza de suoi difetti In quanto poi, che il prendere
moglie li possa fare mutar coItume, non è credibile ; perchè, se Mulieres faciunt
prevaricari fapientes, che faranno a vizioli di questa specie? Ne fi potrà
persuadere alcuno, che questi tali non abbiano già provato le dissolu.,
sez: [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tezze di Vegere, perchè i vizj
al parere di Seneca non vanno mai foli; e se quem ste non hanno moderato il
loro orgoglio, che più potranno acquistar di buono conginngendosi in matrimonio
Il dir poi, che si prenderanno il pensiero dei loro tigliuoli nell'educarli,
questo è lontano dal vero ; perchè li vorranno bensì allevare limili adelli, e
quando ciò non riuscisse loro palcsemence, mediante le diligenze usate in
contrario dalle madri, faranno il possibile nasco, ftamente di conservare in
effi, alincno in propri difetci, acciocche non li dica, che non liano loro
degni figliuoli; come ap parisce dagli esempj dell'ubriaco, e de beftemmiatore
riferici di sopra . Sem. E qualcuno di questi perchè non si potrebbe
indirizzare per la vian Ecclefiaftica Pub. Peasate voi che questi abbias
vera vocazione di caminare per queIta santa via. Sem. Mà se G
dichiaraffe, che a volesse indirizare per essa, e mi pregafle, che
[ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] che
gl'impetrafli qualche pingue beneficio, averò da ricusare il farlo 2 Pub.
Certamente che sì, perchè quefi farà mosso dall'intereffe, cioè dal conseguire
l'utile del pingue beneficio, non già dal servire a Dio, come far dovrebbe ;
onde farà non diffimile a colui, che brama prendere moglie, non per il fine del
santo Matrimonio, mà per l'intereffe della pingue dore, che si ritrova colei,
che vuole sposare. Mec. A proposito di groffa dote fece una donna accorta
una bella burla al suo futuro sposo: Ella era per verità alquanto deforme, e
perciò più d'uno dicca al giovane, che la voleva prendere, il qual era molto
bello, che l'aveffe rimirata meglio prima di sposarla,cui rispondea, che li
bastava di effettuare il matrimonio, per dare di mano alla grossa dore , che
aveva; per altro, che di tal moglie punto non si curava i Fù ciò riferito alla
giovane, la quale fe portare da una sua damigella, allorchè fi dovea spofare,
una grolla borsa di danaro in Chiesa, ed aspete [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors] aspettò , che il parroco avesse domandato allo sposo se la
voleva,il quale udito ciò disse, senza indugiarvi punto: disi; allora l'accorta
donna si fe sporgere la preparata borsa , e tenendola nelle mani, allorchè fu
ricercata anch'essa del suo consenso, nulla rispondeva ; ne fi sapeva che fine
doveffe fare quella borsa; perchè il futuro sposo si speranzava, che dovesse
servire per un publico donativo per effo , ed i Chierici, che fosse la
mancia per loro : alla fine stimolata più volte a rispondere ella disse; se questo
fignore si è dichiarato volersi sposare collas mia dore, questa, mostrando la
borsa,essendo parte di essa, mentre non risponde, è segno , che non lo vuole
qual consenso dunque hò da dare io s'egli brama la mia doce, e non già me? e
così confuso, e mortificato partì il giovane ; onde non vorrei , che facesse il
beneficio ancora il Gmile, di ricusarlo, facendo con esso l'amore a cagione
della sua dote. Pub. E poi dovreste anche rifletreredi quanto scandalo
sarebbe un ecclefiastico vizioso , dovendo cgli essere lo fpechio de'buoni
costumi; ne fperace , che questi,che si muovono per fimile fine possano divenir
buoni; ponno divenire benli peggiori impiegando il danaro sa. gro in cose
viziose. Sem. E se caluno di questi volesse applicarsi al governo della
Republica, c chiedesse il mio ajuto,per poter e ottencre qualche posto per via
di favori, e di regali; perchè non ho da compiacerlo? Pub. Questo ne
tampoco doverete fare, perchè se fosse d'uopo amministrar la ! giustizia, nó
direbbe già egli quello, che dice GIULIO (si veda) CESARE: che per un Regno di
poteva far torto alla giudizia, perchè lo farebbe per assai meno, effendo ano
che capace di farlo per sodisfare an folo de suoi viz); onde tanto voi,
quanto chi vi avesse contribuito entrerette a parte di tutte l'ingiustizie, ed
iniquità chia capace di commettere un vizioso. Sem. Che dunque doverei
fare , per non vivere da disperato , quando avelli alcuno di questi?
Pub. [ocr errors] Pub. Mandarlo alla guerra per fargli provare come Gi
vive, cd alle volte qucIta è l'unica medicina di questi cali; perchè se
fono fanguinarj possono faziarsi del sangue de nemici; se attendono alla rapina
nc'saccheggiamenti possono sodisfare la loro ingordigia;se poco cimorati di
Dio, e niente rispettoG a genitori, vedranno quanto temere Gi debba , e
rispetrare un Capitano quantunque non gli abbia creati, o generaci; onde
poirebbe essere, che il Signore Iddio gli toccaffe il cuore, e facesse
comprende, re, che se tanto li fa per un uomo, quant. to di più fi doverà fare
per Iddio, e per chi lo gencrò !e sappiate , che dalle lega gi di Mosè venivano
questi condannati ad esser lapidati dal Popolo, come nel Deuteronomio. Si
genuerit homo filium contumacem, da proteruum, qui non audiat Patris , aut
Marris imperium, co coercitus obedire contempferit, appraben. dent cum, ducent
ad seniores civitatis illius, & ad portam judicii , dicentque ad ços c.
lapidibus eum obruet populus Civis Gg tatis [ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors] taris, ut auferatur malum de
medio ucStric. onde in vece di vedere fimile spettacolo sarà pur meglio
mandarli alla guerra, la quale faggiamente fu difi. nita: Infolefcentis generis
humani tonfura. Sem. E se ricufaffe di andare alla guerra? Pub. E
voi figuratevi, che vi sia già andato, e fatto prigione ; onde rinchiudetelo in
qualche fortezza : non avendo però commessi ancora reati gravi , affinchè non
siano puniti dalla giustizia con morte ignominiofa; conforme qualche volta è
seguito; e tenerelo ivi fin tanto che camperere, che così farcte sicuro, che
non commetterà gravi eccelsi, trovandosi guardato, e custodito , Non bisogna
però, che prendiate cal risoluzione a sangue caldo, mà fateci matura
riflessione: c regolatevi ancora col consiglio di qualche faggio , e buono
amico, Sem. Per dopo la mia morte comes avero da disporre le cose ?
Pub. Pub. Con lasciare a cattivi figliuoli ma solamente tutto quello, che
non potrei te cogliere loro, non per odio persona le; mà de loro vizjicon
questa condizio. ne però , ch'effendosi ravveduti, dopo un triennio di vita
esemplare, poffino godere un tanto dei frutti della vostra eredità; e
perseverando nel ben operare abbiano ancora d'avere qualche accrescimento
maggiore ; qual perdano intieramente, ed immantinente, ricornando a menare vita
scandalosa. Sem. E se fingeranno di essere divenuti buoni a fine di poter
godere quel i frutto maggiore? Pub. Non sarà meglio, che facciano così, che
operino sfacciaramente male? de l'interno Iddio solamente lo rimira; le
l'esterno appena è palese a gli uomini, i quali di questo solamente pouno
appagarsi; e poi vi è stato qualcuno ancora, ch’hà incominciato a menar
vita migliore, per conseguire qualche premio, che poi si è ravveduto da
dovero. Mec. Vi è l'esempio di quel Soldato, che [ocr
errors][ocr errors] bu COM [ocr errors] [ocr errors] che si
racconra essere stato convertito da S.Francesco Saverio : Questi era un pessimo
uomo, ed iracondo a segno, che non averebbc sofferta una parola anche
indifferente, che non l'avesse appresa detta per lui, e volesse anco
vendicarsene . Le ainmonizioni, ed esortazioni faccegli dal Santo nulla
giovavano; alla fine li disse mostrandogli una moneta di oro, se voleva
guadagnarsela rispose francamente di sì : or sù dunque replicò il Santo venire
meco, e giriamo d'incor. no l'esercito ; Io la porterò in mano, affinchè la
miriate, e voi non avete a fare altro, che di sopportare con pazienza quello,
che udirete dire contro di voi. Fù dato principio alla grande ope. ra,ed egli
rimirando con occhi tifi l'oro, si rideva di quanto male udiva contro di sè, e
cerininato felicemente il giro, guadagnò il premio. Allora il Santo tiratolo da
parte gli disse: figliuolo mio per una si vile mercede voi avere potuto
sopportar tanto, e per un Dio non poteie sofferire una minima particella
diquesto? il Signore Iddio in quel punto $ gli toccò il cuore , e fi ravvide
per sempre. Sem. Mà se poi i difetti de' figliuoli non fossero gravi a
questo segno, e fos. sero di quelli, che pure non disdicano ganto, per essere
divenuti ormai familiari, potrebbero con questi proporsi a sudetti ministeri,
ed impieghi ? Pub. Spiegatevi apercamente, quali voi intendere per questi
vizj familiari? Sem. Per esempio se caluno di esli avesse principiato da
14: 0 15. anni a dimorare la maggior parte della notte fuori di casa, e
quancunque suo Padre l'avesse più volte ammonito, che non lo facesse , ed effo
ciò non oftante continuafle; contraeffe debiti; e perchè è figliuolo di
famiglia, non potendosi obbligare, facesse obbligazioni dette pagherà. con
grandissimo difcapito, senza data, per firmarla dopo la morte di suo
Padre; ed altre cosarelle non tanto familiari; come dir male del profimo , di
mancare alle volte alla parola data; ne ga: [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] GS 3 [ocr errors]
gare ciò, ch'egli averà avuto; e se riyscirà , di gabbare il compagao nel
giuoco; con altri piccioli vizj di questa forte? Pub. Cofarelle, piccoli
vizj voi chiamate questi! E non riflettere,che quando il giovane li sarà
abituato in questi ugua. glierà egli taluno de vizioli di primo rango: ad uno
che sarà avvezzo la maggior parte della notte dimorare fuori di sua
casa, e sarà giovane, voi volere impetrare beneficj Ecclesiastici, ed im.
picghi gelosi della Republica ? Và forse a studiare in quelle ore, o a farsi la
disciplina negli oratorj, quando i studj, e questi sono ferrari? e come vi
persuadete, che possano adempire l'obbligo loro, effendo scarf di dottrina , e
di buoni costumi, ed applicati a cose, in cui per la meno inutilmente si perde
il tempo a e fatta che averete rifcllione agli altri loro vizj, che avete
apportati ; consigliatevi colla vostra coscienza se lo potrete fare : mà
esaminiamo di grazia donde ciò proceda, e se sia solamente colpa de figliuoli
canto deviamento. Sem. [ocr errors][merged small] Sem. É' loro
certamente; perchè hò sentito lagnarsene i Padri di questo, col. le lagrime su
gli occhi. Pub. Questo fu il pianto del coccodrillo, che piagneva il suo
figliuolo allorchè lo aveva ucciso: come si sono portati questi Padri
nell'educarli? Sem. Certa cosa è, che tante diligenze, quante ne hò udite
nelle nostre conferenze,non le han faute. Pub. Or dunque, se non gli
hanno educati bene, a dolgano della loro trafcuraggine, perchè viziosi li
vollero efli. Sem. Mà che averanno da fare ora? Pub. Questa penitenza
appunto, che Iddio manda loro;di sopportare figliuo. li viziogi . Sem. Ci
sarà pure qualche rimedio? Pub. Ciè certamente, ed è questo; di fare alli
piccioli nepoti ciò,che non fece. ro a loro figliuoli, cioè di educarli bene;
perchè altrimenti, non essendo capacii loro Padri di fare questo, i vizj non li
fyelleranno mai dalle loro famiglie: Sem. Voi diceste, che questo cocchi
al Padre, Pub, [ocr errors][merged small][ocr errors] Gg 4
Pub. Sibene quando sia capace di farlo, e vi pare , che questi viziofi fiano
abili ad educare i figliuoli a suo dovere? Il loro mal esempio come permetterà,
ch'essi apprendano le virtùd Onde quantunque schiamazzino alle volte redendo i
loro figliuoli viziosi,č incerco se lo facciano per zelo di amore, o per
invidia , perchè non possono essi più con. tinuare fimile vita rilassata
essendo vecchi. Sem. Io hò cap to a bastanza , ed ora compreоdo la
cagione; perchè nell'universale non si possono affatto estirpare i vizj, mà
voglio approfittarmene per casa mia, per non avere anche io a fare il pianto
del coccodrillo. Ma le povere figliuole come si doveranno provedere? essendo
gran disgrazia loro, quando capitassero in mano di simili viziofi. Pub.
Esamineremo anche questo , nà non è ora tempo ; perchè richiede affare si
rilevante lungo ragionamento. CON [merged small][merged small][ocr
errors][merged small] [ocr errors] Pub. Onfesso ingenuamente che non séza rigione alcuni Pa.
driffi contristano ál. lorchè nascono tan, co loro figliuole; perchè il
penfare a collocarle bene non è piccolo intrico, chiamandoli questo affare
dall'Ecclefiaftico opera grande dicendovi: Trade filiam, & grandes opus
feceris, o bomini fenfato da illam; posciache saranno state educate alcune di
effc col timore di Dio, senza lusso ,c vagità, modeste comc fi dee, istruite
inquanto è necessario per il buon regolamento di una casa; mà che servirà loro
tutto questo , se capiteranno in mano di un marito imprudente , vizioso, ed
indiscreto! e fimile appunto a quello, ch' ebbe quell'innocente Giustina, il di
cui Epitatio sepolcrale è questo. Immitis ferro secuit mea colla
mari. [ocr errors] Dum propero nivei folvere vincla pedis Durus,
ante thorum, quo nupér nupta coiur, Quo cecidis noftrę
virginitatis honos. Nec culpâ meruisse necem bona Numina testor,
Sed jaceo fasi forte perimpia mei Discise ab exemplo Juftine , difcite patres
Ne nubat fatuo filia veftra viro. Or vedete Sempronio, che gran facenda è
questa ! Mec. La conobbe afrai bene Democr. appresso Stob. dicendo: Qui
bonum generum nactus eft invenis plium, qui verò, malum, fimul & filiam
perdidit: quindi è, che [ocr errors] che saggiamente fù conligliato
da Temiffocle quel Padre, che desiderava das effo fapere , cui dovesse dar per
moglie l'unica sua figliuola; se al dotto povero, o al ricco vizioso, replicò
egli a mè aggrada più l'uomo, che ha bisogno di ricchezze, che le ricchezze ,
che hanno bisogno di uomo : come dice Val. Mas. Sem. Mà quando si sono
fatte le diligenze necessarie, e fiè già rincontrato, che sia imprudére, e
vizioso chi la vuole perché non si esclude fimile soggetto? Pub. Se voi
sapeste quante fraudolenti manifatture Gi fanno, per avere unas giovane savia
per moglie, stupireste; anzi quante più d'imperfezzioni hanno i giovani, che
vogliono accasarli seco, tanto maggiormente queste si adoperano, tanto si fa,che
alla fine riesce fimile facenda. Sem. Mà chi sono questi, che faranno
tante manifatture , non essendo capace un fimil giovane di farle? Pub. Se
non sarà cgli, saranno ben’i suoi congiunti, i quali raffidati, che per
[ocr errors] [ocr errors] Il fingo della futura sposa cffo possa divenire
saggio, tanti ponti di oro le faranno , che alla fine caderà a dire di
sì. Sem. Mà i genitori come lo permetteranno? Pub. Saranno ancora
effi sforzati a chinare la cesta, quando colla linguas non poteffero arrivare a
proferire quel doloroso sì. Sem. Saranno dunque anche i suoi genitori
poco prudentia Pub. Oh bene : non fiete voi ancora a pieno informato dal
mondo; mà ne ben Mecenate. Mec. Ne sono pur troppo, anzi fono arrivato a
conoscere, perchè fi dica insa geniofus amor; avendo scoperto, che amore aguzza
l'ingegno de fuoi fenfali, e rende anche artificiofa la lingua alla menzogna.
Sem. Mà che potrebbero fare questi, quando il Padre steffe faldo in non
volergliela dare? Mes. L'ingegno agguzzato fi ferve dell'autoricà, e la
dispone in modo, che [ocr errors][ocr errors] niuno più degno di merito
si affacci a chiederla, per rispetto di colui, col quale si tratta: e sapere
pure, che in questi cali, per non fare inimicizie, non li vicne mai alla
negativa scoperta , potendovi costringere ad addurre un ignominiofa cagione,per
cui far non si vuole: Siprude bensì un mezzo, termine, quale è che la giovane
pensa di farsi monaca; laonde in questo mentre dal sudetto pretendente fi fanno
affacciare tutti li peggiori, ed i più scapestrati giovani, che siano nella
Città a chicderla,e cutci inferiori di condizione ad ello; talmente che il Paedre
, che la vorrebbe maritare, trovan dofi annojato, alla fine li piega, per
non che trovare soggetto migliore, che la fac. i cia domandare: e tanto più,
che si tro verà circondato da consiglieri già guadagnati da chi la
pretende. Sem. Sarà dunque peggiore , e più id svantaggiosa la condizione
della donna nell'accasarsi , che dell'uomo. Pub. Non ci è dubbio alcuno,
perchè l'uomo non è ricercato, ne violentaco per [ocr errors]
en [ocr errors] per parte della donna, mà beasi effa da chi la
brama. Mec. Può essere,che quando voi prendeste moglie ciò non li
coftumaffe ; mà ora posso dirvi di certo, che questo li pratica, essendo
seguito in persona mia, che ho avuto più d'una richiesta fe.voleva accasarmi
colla tale, senza ricercarla. Sem. Or io quantunque non fia versato
sufficientemente nelle cose del mon. do, procurerei segretamente di trovare un
giovane favio, quantunque meno ricco, e la darei a questi; perchè sposata , che
fosse,hò sempre udito dire, che: multa facta tenent, così finirebbe ogni
conresa. Pub. In somma in questi casi, chi più sà, più s'inviluppa nelle
difficoltà; onde alle volte riescono migliori certe risoluzioni fatte senza
tante rifellioni; c voi Sempronio, non avete detto male; mà non saprete già
scegliere questo giovane savio così all'infretta; converrà dunque che
l'impariats, ed [ocr errors][ocr errors] Ff 3 Ес
Pub. [ocr errors] 1 [ocr errors] 1 Sem. Come si doverà dunque
fare per conoscerlo? Pub. Il Padre che ha figliuole da mai ritare
dev'essere un Argo, per rimirare nel medesimo tempo cento giovani, ed
offervare i loro andanlegri. Mec. Oggidì però non è necessario averne
tanti ; perchè con soli due occhi moltissimi difetti li possono ritrovare ne
giovani, ed in breve; quantunque non corrano quei calamitosi tempi, che accenna
Giovenale alla satira 13. Humani generis mares sibi noffe volenti
Sufficit una domus , paucos confus me dies, do Dicere te miferum poftquam
illic vec [ocr errors] neris, [ocr errors] Pub. Fatemi piacere
dunque voi, Mecenate,d'istruirlo in questo giacchè fiece più pratico di mè nel
discernere i giova. nili mancamenei correnti; perchè a tempo mio la gioventù
viveva diversamen. te, e perciò fi ftentava più in iscoprire i loro difetti.
Mec. Lo faro, perchè non voglio, ri CU: [ocr errors] cusandolo, che
vi confermiate nellas credenza di qnello, che di me sospettafte,che io fia
nimico delle doone,poscia. chè io ammiro la virtù in alcune di esse, e perciò
non vorrei, che questa mancafse affatto, abbattendosi in viziofi mariti: onde
se voi, Sempronio,vedrere un giovane accompagnarfi, e conversare continuamente
con taluno, conosciuto da voi per vizioso y tencte pur ancor esso per tale,
senza fare altra diligenza; verificandoli quel proverbio:all'accoppiar ti
veggio. Sem. E se fi desse il caso, che questi non converfaffe con
altri? Mec. Questo è difficile oggidì, che fi conversa tanto; mà se
caluno fuggisse le conversazioni,mirate bene la sua firo. nomia, e se la
scorgerete tetra , e inalinconica tenerelo pure per uomo infociabile, e non
senza i suoi difetti proprj; se poi foffe allegro, disinvolto, e non
converfasse oggidi con altri, formatene buon concetto di esso; perchè lo farà a
cagionc , che non troverà coma pa de pagni bene accoftunati uguali
ad effo. Sem. Vorrei qualche altra regola,per meglio potermene avvedere ;
perchè se non conoscefli per viziofi quei, co’quali egli conversalle, potrei
ingannarmi. Mes. Se voi vedrete un giovane stare in chicfa con poca
divozione, e discorserc ivi co i compagni comc farebbe in piazza, questi farà
poco timorato di Dio; se frequenrerà le feste, cd i passeggi, e rimirerà con
grand'arrenzione le donne, in cui si abbaite, farà egli effemminato; se
dispreggerà i suoi compagni, cvorrà avere sopra di essi una certa superiorità,
farà superbo ; se li piacerà vestire con pompa, sarà vanos se poi oggi dirà una
cosa, c domane ne farà una alıra, farà incostante; e finalmente se frequenterà
i ridotti, ove si giuoca , gran genio egli avrà a questo vizio; in somma da se
medesimo colle sue operazioni manifeftcrà i suoi difetti. Sem. Starei
fresco, se aventi d'accomodare una mia figliuola in questi tempi, dovendo fare
tante diligenze; mi cor. H vers pa [ocr errors] verrebbe
prendere la fantcrna di Diogene, ed andare per la città dicendo: homi. nem
quæro, e caminare più di un giorno per trovare, chi fosse in cucco; e per
turto, senza alcun de'detti diferci. Moc. Mà chi non vuole affogarla ,
dee anche servirsi del cannocchiale di BONAIUTI (si veda), che scuopre le
macchie del sole. Sem. Io mi persuado, che se i Padri, c le Madri
riguardassero al minuto curti i differti , pochi troverebbero moglie. Mer.
Sarebbe questo la fortuna de i giovani; perchè non trovandola allorsi che
incomiacierebbero a spogliarfi do loro vizj, ed in breve diverrebbero bene
accostumari, ed a tale proposito posso riferirvi ciò, ch'è seguito in una
riguardevole città. Affinchè iCadetti andassero con più fervore, di quello
faccano , alla guerra, cominciarono le donnc a non ammettere alle loro
conversazioni coloro, che non avevano fatte almeno dues campagne in gucrra viva;
conciofiacofache li reputavano vili, e codardi. Servi tale renitepza di Aimolo
grande a tutta la Die la gioventù per andare alla guerra;
segnoche pochi furono quci, che non Si seguitassero i primi, che vi andarono: or
se una fimile ripulsa molte canti ad andare incontro alla morte; dovrebbe
certament’essere di stimolo maggiore, per andare incontro alla vita migliore,
quando questi non trovasfero inoglie. Pub. Vedete voi, Semprouio, che
sconcerti sono questi, di non potere con facilità come prima trovare mariti a
proposito per le figliuole, c.questo da che na. sce, se non dalla cattiva
educazione della gioventù ? rifecrcte dunquc quano co debba premcre
questo affare anco alla Repubblica, Sem. Io lo scorgo molto bene; mà che
fi dovrà fare ritrovandoci in queste an. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] Mec. Quello che dice quel FILOSOFO, che presc per moglie una donna
allai picciola, allorchè fu interrogato, perchè l'avesse scelta così, egli
rispose : perchè del male conveniva prenderne il minore: il fimile anche dirò
io de'mariti difetto Hhafi; di prendere quei che hanno vizj me. no
considerabili , che fono appunto quelli che riescono men disdicevoli alla
condizione del galantuomo. Sem. Maritandofi dunque con questi, che buona
direzione doverà darfcle da genitori? Mes. Debbono i genitori allorche le
maricano non seguitare quel caccivo costume di alcuni , che le consigliano a
farli rispectare, e ftare sostenute con tutti, di non farli sottomettere alla
prima, perchè diverranno, così facendo, infelicissime, quantunque portassero
groffa dote, mà le consiglino bensì nella forma, che fecero i genitori di Sara,
allorchè la consegnarono per isposa al secondo Tobia con groffa dore; ed uditc ciocchè
fecero Tob, 10. Apprebendentes parentes fo. liam suam ofculari funs eam, &
dimiferunt ire monentes eam, bonorare foceros, diligere maricum, regere
familiam, gubernare domum, da se ipsam inreprebensibilē exhibere. Sem. E
se un Padre avesse tre , o quattro figliuole, che si volessero mari
tare [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tare cuite, chc dovrà egli
fare, non efrendo molio ricco? Mec. Maricarle , con dar loro quella dote
più congrua, che può. Sem. Mà li scomoderebbe troppo privandosi di sì
considerabile somma di danaro, o quantità di roba, che con. veniffe dar loro
maritandole turce. Mec. E come potrebbe farac di me00? Sem.
Potrebbe farlo beniffimo con efortarlca fará Monache. Mec. E se non Gi
volessero fare? Scm. Non mancano modi al Padre accorto, che ci facciago,
o colle buones ocolle cattive. Mec. Padre voi chiamare colui, che vuole
sforzare la volontà delle figliuole? chiamatelo Padrigao, non accorto, màcrudele;
perchè qual delitto hanno queste commesso da chiuderle in vitas. contro il loro
genio? Sem. Come chiuderle in vita, trattantandosi'di darle, e
consagrarlo a Dio? Mes, Non si chiama darle a Dio , [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] qualia quando la loro volontà non ci
concorra, nè consacrarle a lui, quando non ci sia il lor consenso : questo li
chiamná porle a penare continuamente, non avendole iddio chiamare a questo
stato: ( guai a quei Padri , che lo faranno, perchè del bene, facendone tanto
poco, che non basterà loro , punto non ne parteciperanno: del male si che ne
faranno partecipi di molto, essendo capaci di farlo, trovandoli in iftato di
disperazione. E fappiate, che mi fù riferito un caso orribile di una di quelle,
fatta Monaca per forza, la quale, quando ebbe eseguito quanto defideraya il
Padre, lo chiamò alle grate del Monastero, cgli disse alle orccchie: fignor
Padre or farcte conten. to, che mi avere levata di casa.in que: fto mondo
non ci rivederemo più; må bensi nell' altro ed in pellimo luogo, perchè ci
danneremo ambiduc . E che vitupero è questo ; per far godere i maschi, li hanno
da porre in disperazione Je feminine? Se voi non potere dar loro dieci mila
sçudi di dorc, dategliene me no, [ocr errors] cina no , ed
acca sacele; quando volontaria. mente non siano inclinate alla vita reli
giosa. Non vi chiederanno già quel tal e giovane per i sposo, mà vi faranno
dire bensì, che la loro vocazione sarebbe di accasarli . Starà
dunque al Padre marii tarle a chi più gli aggrada ; mà so ben io da che ciò
procede. Sem. E da chc? Mec. Dall'eccellive doti, che corrono, le
quali oltre il dispendio,che apportano per le spese grandi, che si richiedono
allorchè â prendono, angustiaao ancora quando hango a darli altrui nel
maricarsi le figliuole. Sem. Or io non voglio nell'anima. mia questo
peccato; fe li vorranno maricare cutte, le lascierò mnaritare; mi diremi: che
dote farebbe proporzionata, Publio? Pab. Quella , che fi foleva comune.
mente costumare prima , che foffero inse dal Prencipe , come già dicemmo;
e se [ocr errors] Hh 4 feaveste da trattare co persone
discrete, potreite anche di loro francamente, che non vi curate di tanti lussi,
e perciò volece dare quella dote, che si costumava in quel tempo, che questi
non vi erano: o fi contenteraano, e voi averete fatto doppio negozio, essendovi
anche accertato di appareatare con gence discreta, e capace; se poi non lo
vorranno fare , averete scoperto , che non sono a proposito per vostra
figliuola, volendo clli vivere con pompa , e lusso eccellivo. Sem. Questa
dote li dovrà consegnare libera? Pub. Questo poi nò; perchè potreb. be
alienarli , c restare la voftra figliuola indotata, Sem. E se non
vorranno concludere il matrimonio fenza la dote libera? Pub, E voi
sconcluderelo affatto ; perchè è un pessimo segno, quando si pretenda questo,
denotando che ci sia bisogno in quella casa di danari. Questo sì, che sposata
che farà, consegnare allo fpolo quanto gli avste prometo; perechè non porrere
immaginarvi mai, quan. ti difturbi aascono tra conjugi per quem fta benedetta
dote promessa, e non pio gaca ; provando bene spesso le povero mogli, per tal
cagione, molti mali trace tamenti. Sem. E se non mi trovali il danaro
pronio? Pub. Prendcrelo più costo ad interesse, e perciò i saggi Padri di
famiglia sogliono essere buoni econoini, con met. tere da parte ogni anno
qualche fommi di danaro, per essere anche puntuali allorchè locano le loro
figliuolc; e fanno coato allora di fare vantaggioso rinvs. Itimento. Som.
Sarebbe dunqne bene, che s'iq. dutriassero i Padri di famiglia coi trafichi, e
s'impiegaffero con fervore in fare confiderabili avanzi. Pub. Di far
qucfto non sono cenuri in costo alcuno; bilta ch'elli non fcia. lacquino le
loro rendire, perchè li poslono anche fare avanzi congderabili in questo modo ,
ellendo che: Parfimonias eft magnum veftigab. Sem. [ocr errors][ocr
errors] 1 [ocr errors] di ; Sem. Almeno lo doverebbero fare,
avendone molte da maritare. Pub. Neanco; perchè il buon Padre re, ed
avendole educate bene,molti concorreranno a prenderle, e con onesta doto,perchè
porranno a cõro la buona educazione per qualche migliajo di scudi, essendo
realmente essa l'equivalente;onde saggiamente diffe. Plauto in Aulu. Dummodo
morata rectè veniat dotata eft fatis, ed Orazio nell'ode 24.li: 3.
Dos eft magna parentum Virtus, metuens alterius oiri Certo federe
caftitas. Sem. Oggidi vogliono però dote, e non chiacchiare. Pub. Sì
quelli che s'innamorano della dote , o vogliono spendere più della loro
pollibilità; quelli però, chcbramerango avere una moglie saggia, conlide.
reranno in primo luogo le sue buone qualicà, e di queste faranno maggior ca.
pitale, che della dore, la quale è mero bene di fortuna, dove che quelle,
non fo [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors]
solamente non sono soggette alle sue incostanti vicende, mà sempre
crescono di valore , onde faggiamente Orazio eb- be a dire nella r.
Epistola. Vilius argentum eft auro, virsusibus au- [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] Sem. E se il Signore mi delle', in 32stigo de mici peccati,
una figliuola risentita, vana, pronta, loquace, contenziosa, che con tutta la
buona educazione non si fosse potuta mutare, volendo questa marito, che
averò da fare? Pub. Trovarle uno simile a Socrate, che fu li sofferente
colla sua dispetrosa Sancippe ; cioè a dire un giovane sodo , prudente, non
iracondo, mà soItenuto. Mec. Vi fu però quel filosofo,il quale diede una
sua figliuola simile a questa ad ug fuo nemico, e ricercato perchè avesse ciò
fatto, rispose: per gastigarlo: Sem. Doverò in quello caso contenermi
nella moderata dore? Pub. Per levarvi di casa una figliuo: la di questa
forra, non dovete reftare per dat [ocr errors] . Deco feconda la
doro, perche date allo sposo un grande osso da rodere, onde, è di dovere, che
gli diate ancora un poco più di polpa, per consolarlo, cd a fine, che ci abbia
ancora un poco più di soff:renza. Sem. E se questa, la prima volta , che
contrastasse con suo marito, tornaflc a casa mia ? Pub. Voi
immediatamente dovete rimandarla a casa sua, senza darle alcun ricetto, e
sgridarla ancora; acciochè non fi avezzafle a farlo più in avvenire ; con dirle
apertamente, che colà hà da mori. re, perche se il Padre comincierà a darle
ricetto, è finira; ogni giorno seguirango'nuovi sconcerti, e perciò il Profeta
saggiamente disse: Obliviscere domum Pa. tris tui. Mec. Un saggio Padre
in fimile avveniincnto fè questo: Si portò egli medelimo colla sposa dal genero,
e gli disse. Per grazia vi chieggo, che per questa prima volta le perdoniate
per amor mio, nà se mai succederà cosa fimilc in avvemire, datele pure quel
gastigo, che vor. гс [ocr errors] rece; perchè io non intendo più
inters porre nè pur una minima parola a suo favore ; anzi che non la reputerò
più per mia tigliuola , trasgredendo i vostri, e miei comandi. Ella, che crede,
che suo Padre fosse scco andato per isgridare fuo marito, perdè l'orgoglio a
segno, che in avvenire muco modo di vivere. Sem. Se avelli una figliuola
brutta, c mal fina, e volelle marito, che avcrò da fare? Pub.
Primeramente vi dovrete informare col vostro Dottore,se possano i suoi difetti
pregiudicarle nel pártorire, con porre a risico la sua vita; accertato che
farete di questo , che non poffa seguire, maritätela pure nel miglior modo, che
potretc, darele anche buona dote per avere un uomo di propofito.
Mec. Vi fu molti anni sono una lice per cagione, ch'essendosi sposata senza il
consenso de suoi Genitori una giovane, perchè il di lei Padre pretendevas darle
la dote stacutaria, e lo sporo ne chiedeva di vantaggio ; essendo che oltre gli
altri difetti , che aveva era statas sempre senza denti : giunse queftas
istanza all'orecchie del Prencipe , il quale ordinò che fossero alla
rolitas dote accresciuti duc mila scudi di più , per uguagliarc i difetti, che
aveva la sudetta sposa. Sem. Mà se non si affacciaffe alcuno, che li
voleffe, non si potrebbe stimolare a farsi Monaca? Pub. Questo sarebbe
peggiore facrificïo dell'altre, che volevare dare a Dio, essendo stata
rifiutata da tutti gli uomini; e militando per questa ancora le medefine
ragioni, non lo dovete fare ; se non farà chiamata da Dio a questo stato; onde
la potrete tenere in casa vostra, e procurate, che ha servita più degli altri
voltri figliuoli:non dovendo voi permetrcre che all'interne sue imperfezzioni,
vi si aggiungano anco gli esterni (trapazzi. Sem. E con quelle che
averanno la vocazione di farsi Monache, come mi doverò contenere ?,
Pub. [ocr errors] Pub. Primieramente di far esplorare beo bene la loro
volontà, per accertarvi, le lia vera vocazione, c non disperazione ; perchè
alcune in questa cadono alle yo!ce, e precisamente quando non possono avere
quel marito, che bramano; e scoperto che ayerere, che siano chiamate da Dio, adocchiare
tre, o quat. tro Monasterj de più osservanti, į di diversi istituti, e
fare ad effe leggere le i loro regoles acciocchè sappiano ciò, che doveranno
fare; e dipoi dice loro, che fi scelgano quell'istituto,che piace loro, e
fatele pur monacare. Sem. Sarà bene di tenere loro una conversa
per forvirle? Pub. Sc alcuna fosse stroppia, venendole permesfo,fatelo,
per altro non inno. vate cosa di vantaggio di quello, che ivi fi suole
praticare dalle altre ; questo sì che dovrete far loro il livello costumandosi,
e consegnarlo, acciocchè lo faccia. no riscuotere a loro modo,affinchè nó abbiano
da stare dopo la vostra mortc all' indiscretezza de fratelli, i quali
foglio [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr
errors] no essere molto trascurati in soddisfarle, e trattatele in modo, che nő
abbiano bi. sogno di soccorso altrui; perchè così viveranno staccatiffime dal
secolo. Sem. E se qualcuna volesse imparare a cantare, efsendol già
dichiarata di far. fi Monaca? Pub. Non permetterei quefto ; perchè, se
poi fi mutasse , ilche sarebbe cosa ficile cantando delle belle ariette, voi
rimarrette colla cantarina in casa; ditele bensì che lo imparerà allorchè larà
Monaca, perchè ivi averà delle altre compagne ancora, colle quali si potrà
esercitare per meglio apprenderlor Sem. E se volesse viaggiare un poco
per il mondo , prima di chiudersi? Pub. Questo neanco firebbe ben fitto;
perchè col viaggiare si può vedere, e trattandosi,udire più d'una cosa, che potrebbero
rimuoverla dal suo fervore, e. quando questo desiderio procedesse per cagione
di divozione, conducerela in qualche luogo de più vicini, ove sia qual. chc
divoro Santuario, per consolarla. Soma 1'1 Sem. Se bramasse
vestirsi da sposa prima di monacarsi, e ricoprirli di gioje, hò da permetterlo?
Pub. Alifte por motivo di potersi fare l'antichissima consuetudines per altro
doyendofi sposare col Signore, non mi pajono simili abiti da esso graditi, mà
ben. † sì i più modefti: Una sola riflessione in & favor di ciò ci potrebbe
essere, che si portassero per dispreggio, facendo vedere allorchè li
spoglia di esli per rivestira dei sacri, che li rinunziano tutte le pompe, e
vanità mondane. Sem. Rimanendo redove le figliuole, averò da riceverle
più in casa inia? Pub. Effendo uscire da casa vostra, ed essendosi già
dimenticate, come vuole fil Profeta,di essa, non siete più tenuto di
riceverle :- e perciò fi foleva ancora nei Kriti degli átichi Romani praticare
colle Spose di muoverle nell'uscire dalla casa paterna più volte in
giro affinché si die : menticassero affatto di ritornavi più . Sem. Mà se
rimaneffero vedovc affai giovani,e senza figliuoli,che averebbero da fare così
solc li Pub. [ocr errors] Pub. In questo caso, se volessero corparvi,
mostrerebbe essere crudele quel Padre, che ricusaffe riceverle. Sem. E
volendoli queste rimaritare toccherà al Padre penfarci? Pub. Lo ponno
fare senza il di lui consenso; bene è vero però, che le fuggie figliuole
fogliono col consiglio pacerno regolarsi in tutte le cose, ed in particolare in
affare di tanta premura , conforme è questo. Sem. E se avesse più
figliuoli anche pargoletti potrebbe penfare il Padre prima di morire a qualche
ripiego, affinchè fossero questi ben' educaci;perchè rimaritandoli la loro
Madre poco penlicro Gi prenderebbe di effi il Patrigno nell'edu. carli.
Pub. A questo ci vuole un poco di tempo per rillerrerci bene, onde ne pare
leremo nella seguente.i Sopra l'educazione de Pupilli: e come debba ciascuno
portarsi verso i suoi genitori defonti. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] Mec. A pena maggiore, che possa avere il Padre moribondo,
essendo egli in sen. timenti, mi persuado che sia questa: di lasciare i
figliuoli pargoletti, dubicando, che non solamente possano esserc danneggiati
nella roba, mà ezian. dio nell'educazione; posciache rifletterà facilmente, che
quando la Madro pallasso alle seconde nozze, poco penGaro li prenderebbe di
elli il Patrigno, ela pro propria Madre molto certamente farebbe
dividendo l'affecto per merà trà elli , cd i figliuoli gencrati col secondo
marito. Laonde la loro educazione Iddio sà comc anderebbe. Sem. Mà ti è
pur bastantemente proveduto 'a tali sventure, con Tutori, e Curatori; come
dunque potrebbe andar male l'educazione di effi, venendo cosi bene
affiftiti? Mec. Può essere, che a tempi antichi li Tutori fossero di
giovamento a Pupil. li : oogidì però tra questi fanno nulla i mediocri; fanno
bensì del gran male i cattivi, e gli occimi, che operino all'antica sono così
pochi, che non sò se arriveranno al numero di quelli buoni , di cui parla
Giovenale: Boni quippe homines numero vix funt totidem quof
Thebarum poriæ , vel divitis oftia Nili. Sem. Udii pur da voi , Publio,
nella Conferenza decima della decade passa. ta;effere utili alla Republicà gli
Economi; or come dunque i Tutori, essendo an [ocr errors][ocr
errors] anch'elli Economi, possono apportarc e questo gran mile. Pub. Tra
l'Economo, ed il Tutore ci è differenza potabile; conciofacosache all'Economo
non appartiene l'educazione de figliuoli; ed essendo egli splendidamente
riconosciuro delle sue fatiche procura di servire con somma fedeltà, per
accrescere, o mantenersi almeno il credito acquistato, a fine di essere ados,
perato in altre fimili contingenze; essendo che per profeffione lo esercita;
dove che il Tutore, dovendo anche invigilare alla educazione, vedendosi poco, O
nulla riconosciuto delle sue maggiori fatiche, non è cosìgeloso della sua
estimazione in cal ininisterio, per non cu. rara punto di fimile briga
inutile , fpecialmente chi non opererà per virtù, la qual'è da pochi seguirata,
e maggiora mente se non si vede rimunerata secondo il sentimento di Giovenale,
il quale dice: Quis enim virtutem ample&titur ipfam Prema fi
tollis? Laon. [ocr errors] 0 li 3 Laonde non recherà
maraviglia se eras efli vi saranno de cattivi. Sem. E questi, che mali
potrebbero apportare, Mecenate? Mer. Primieramente di lasciar fare a
figliuoli ciocche eff vogliono, e poi ponno prendere tanto amore alla roba
de’Pupilli, che se vogliono, possono arri. vare ad appropriarsene buona parte
di cffa. Sem. Edin che modo ? Mec. Faranno comparire debiti
antichi, i quali furono gia pagati, ed accordandoli con detti finti creditori,
fi divideranno per metà il furto, dando loro indietro l'antiche ricevure ;
lascic. ranno vendere all'incanto i corpi più frucciferi , ed effi vi faranno
offerire sot. to mano; & farà cal vendita, nella quale farà grossa senfaria
a lor favore; faranno rinvestimenti con persone fallite , e non senza
considerabilitimi approvesci loro; in somma, per non infpiegarmi di vantaggio,
sarebbe assai meglio, che questi non ci fossero ; perchè almeno se
spregasscro i figliuoli anderebbe per sodisfare i capricci di chi n'è
padrone. Sem. Costumeranno di far questo i più bisognofi. Mec.
I bisognosi lo faranno per biso . gno, ed i non bisognosi per arricchirsi di
vantaggio. Sem. Mà è possibile, che nel Mondo ci sia gente così iniqua
che lo faccia? Mec. Questa è questione di fatco; di. cendomi il mio
Procuratore , che giornalmente accadono liti di rendiinenti de'conti in cause
de Pupilli, e che si vedono prodotti certi libri di amministrazione così
intricati, per ricoprire le magagne, che ben si scorge essere stati fatti così
da gente molto maliziosa. Sem. Talinente che voi non lodate, che si diano
a Pupilli questi Tutori? Mer. I cattivi certamente noa posso
lodarli. Sem. E quali saranno i buoni? Mec. Quelli, che ricuseranno
di accettar qucfte brighe Sem. I cattivi non sono a proposito, i buoni non
vogliono accettarle; dunque bisognerà cadere a prédere per necelfità i
mediocri, che non fanno nè bene nè male. Oh confideriain corne p')trà andar
bene l'educazion de figliuli! Mec. E perciò doverebbe ogni b:100 Padre di
famiglia aver un amico confidente di lom na integrità, è che fosse anche
informato de fuoi interelli, e que. fti impegnarlo da molto tempo prima ad
accettare, se li delle mai il caso, ch' egli morisfe in tempo, che i suoi
figliuo. li avessero bisogno di guida, che voleffe fargli carità di tenerli, ed
allevarli, come se foffero fuoi ; senza però discapito di borsa; ed è cosa
facile, che prene desse allora l'impegno di farlo, perchè fi lusingherebbe, che
ciò non fosse per seguire in breve. Sem. Signor Mecenate mio, scusate.
mi, se passo taor'olore; vedo oggidi il mondo così corrotto che dubiterei
molto, che l'amico si ponesse anche in luogo di Padre con isposare la moglie
del l'amico rimasta vedova. Mec. [ocr errors] Mec. Questo non
doverebbe farli da un buono amico, Sem. Questo ancora è di fatto,
conoscendone qualcuno , che lo hà bevislimo praticaco, e lo sò con tutto che io
ab. bi. meno anni di voi. M:c. Losò anch'io; mà questo diceva per vedere
di fuggire il maggiôr male; or dunque bisogna conchiudere, che doppia disgrazia
lia, quando i Padri muojono giovani, Sem. In fimile intrico dunque o
biso. gierà , che il Dotcore trovi rimedio, che in tal erà non si inuoja , o
pure tro. Vire chi poffi fedelinente indirizire cali Pupilli: avete voi,
Doctore, un simile rimedio? Med. Rimedio per non morire non si è trovato
fin'ora; ben è vero però, che a prolungare la vita con tenersi lon, tani da
cerci spropositi massicci , che possono abbreviarla, a questo si può are
rivare. Sem. Ed in che modo Med. Contenendosi con moderazione
nel [ocr errors][ocr errors] nell'esercizio conjugale; perchè ci
so. no taluni, che si pongono alla disperata in tale facenda, come se nel dì
seguente la moglie dovesse essere loro rubata, senza avvederfi, che ruberà la
morte elli alla moglie , continuando tal vita; oltre poi tanti altri disordini
accompagnati a queste. Bisogna dunque, che viva re. golato chi ha figliuoli di
tenera età , e non li fidi della gioventù ; perchè que. sta tradisce bene
spesso, e che consideri il danno, che apporterebbe alla sua famiglia, con
morire prima d'invecchiarli. Sem. Questo si può fare ; mà se non baftaffe
? perchè hò veduto morire anchci giovani non aminogliari, e ben regolati ancora;
che doverebbe dunque farli per terminare la vita non tanto dolorosamente?
Pub. Hò udito riferire, che in alcune città vi lia una specie di magistrato,
composto di persone di sperimentata integrità, le quali invigilano a questo ;
onde introducendoli trà di noi potrebbe con consolar molto i Padri,
cui seguiffc fimil e disgrazia duplicata, per lasciare i figliuo li non
atti ancora a poterli da se regola [ocr errors] re. [ocr errors]
Sem. Questo mi piacerebbe, e vi prometro, che procurerei ach'io di entrare in
derto magistrato. Pub. Se vi avelli da porre io, due di difficoltà ci
avrei; la prima , che fiere troppo giovanezessendo cariche da con.
ferirsi a persone di provetta e à, e l'al tra perchè voi lo chiedete,
essendo che A finili impieghi, doyendosi conferire a solimericevoli,
aleuoi di questi più toe $ fto li ricusano, che li domandino; ed è a cosa cerca,
che colui, che brama un ins cumbenza, non solamente senza lucro, mà di
molto incomodo ancora, qualche fine vi hà per lo più vantaggioso per se..
medesimo, il quale potrebbe rendere infructuoso ogni vantaggio, che da ello, si
speraffe . Serth Che averebbero da fare quefti? Pub. Primieramenre
d'inventariare fedelmente tutto quello, che avesse la. [ocr errors]
sciato quel defonto, di eficare poi il superfluo, e non fruttifero, e
rinvestire il ritratto in faccia de Pupilli , con fare le cose chiare, e senza
procacciarli emolumento alcuno. Sem. E che altro? Pub. Di dare
fefto immediatamente all'educazione; con porre nel migliore feminario i maschi,
se saranno di erá ca. paci, e le femmine in un Monastero dei più
csemplari. Sem. Ele rendite chi le amministrerà? Pub. Un ministro
salariato, che fia capace, o più secondo l'azienda che foffe, i quali
rendessero esatto conto ad uno dei detti sopraintendenti dell'operato ogni
settimana, per potersi poi, da più di elli congregati ogni mese, risolvere gli
emergenti più difficili, che ac. cadeffero. Sem. E degli avanzi, che si
farebbe? Pub. Andarli rinvestendo , allorche foffero arrivati ad una
certa somma, con tutte le dovute cautele acciocchè fosse. ro fatti a ragione
veduta.Sem. Nello stabilirli poi divenuci adulti chi ci penserebbe? Pub.
Quci deputati medesimi, che sopra intendono all'amministrazione. Sem. E
se caluno di questi avesse figliuolo , o figliola, ed apparenrasse cilin eli: 0
pur faceffe quello che fu obiettaco a Tutori. Pub. Vi sarebbero sopra di
ciò, le suc regole, in quali casi li dovesse proibi. re, o ammettere tra esli
l'apparentarli; perchè quando mai fossero eguali, che male farebbe
l'appareatare con gente scelta, e capace a bene dirigere. Oltre di che con qual
amore di vantaggio liarebbe amministrata quella roba ; ¢ qual educazione più
vigilante riceverebbero questi in cal casoBafteşebbe, che non entraffero poveri
in detra soprainten denza affinchè non seguissero casi disdif cevali, che
daffero occalione di inormo, rare, ed essendo questi scelti nobili, c
bencftanti, non li indurrebbero a far quelle cose, che furono obiercare a
Tucori, c tanto più ch'essendo molti a for pra [ocr errors]
sopraintendere difficilmente tra questi vi sarebbe chi potesse, anche volendo,
defraudare iPupilli in cosa alcuna per la vigilanza degli altri. Sem. E
se in detta amministrazione seguisse qualche disgrazia, chi sarebbe teauto a
risarcirla? Pub. O questa seguirebbe casual. mente, senza colpa altrui,
ed in questo caso non sarebbe a ciò tenuto alcuno , mà se poi ci fi scorgesse
inalizia ; il delinquence farebbe obbligato a risarcirla. Sem. A fare
ottenere loro buoni impieghi, e provedecli di cariche proporzionate alle loro
condizioni, e capacità, chi vi doverebbe pensare, fatti aduki ? Pub. Il
medesimo inagiftrato, atinchè con ragione di potessero chiamare quei, che lo
compongono veri Padri della Patria, cgran sollevatori de Pupilli ; mà divenuti
questi capaci sapranno da se medesimi farli strada per il conseguia mento di
effe. Sem. Sino a quale ctà doverebbero Rarc fotto tal depucazione?
Pub. 11 [ocr errors] Pub. Le femmine fino a canto,che fora ossero
collocate; i maschi poi non sareb* be male in tempi si calamitosi, che vi
stessero fino a tanto, che fossero atti, è 1 capaci di sapersi regolare da se
mcdefifoto mi nell'amninistrazione de loro beni. Sem. E se caluno di
questi rimaneffe d incapace di operare a dovere? Pub. Affinchè non
dilapidaffe il fuo, converrebbe tenerlo soggetto sin tanto, i che vi fosse chi
porelle prendere partii colare direzzione di effi, come sarebbe di qualche
fratello di giudizio, o altro pa• from rente ricco; pio , ed onorato.
Sem. Mà questi pareori, perchè non potrebbero anch'elli prendersi il pensie.
iro di amministrare detta roba de Pupilli, alineno lin tanto, che foffe
ftabilico fimile magiftrato? Mec. I Parenti , Sempronio mio, talia dc
quali però, sono peggiori degli altri, perchè prendono maggior
contidenzas colla roba de fuoi parenti è perciò facilmente se
l'appropriano;onde di questi non vi prevalec, se non quando li scor
gere gerete con lunga sperienza, che siano ve. ramente
difinteresati, Pub. dove sono andati quei parenti antichi , che avevano
premura maggiore della roba de loro congiunti,che della propria : hò veduto io
alcuni di que. Iti mettere fuori somme confiderabili di danaro per folicvarli
nelle loro angustic, ed ancor fenza alcuna usura ; ve ne fu uno tra gli altri,
che prese l'amministrazione di un luo cognato, il quale eras quali che fallito,
e lo ripose in piedi, con liberarlo da tutti i debiti da esso fatti, che
ascendevano a fomma molto considerabile. Sem. Ritornando alla grand'opera
di cariià del sudetto Magistrato, mi perfuado, che in quei luoghi, ove li
costu. i Padri morranno senza avere da pensare all'indirizzo , che dover
ango avere i loro figliuoli divenuti
Pupilli. Pub. Occalione non hanno di ricercare altri inodi : posciache
questo Magiftrato pensa non solamente a diriggere i Pupilli ricchi, ma anche
quei che riman goo [ocr errors] gono con mediocre commodo. Sem.
Oh luoghi fclici, ove la morte non reca tanto cordoglio, divenendo ivi l'amore,
e l'autorità paterna a guisa di fenice, che rinascono, ed alle volce più
i profittevoli a figliuoli di quello, che fos fero prima a cagione dei
Padri trascura#ci, e nel costume , e nell'economia , e se per questi
ancora ci fosse qualche cenfoi se, quanto anderebbero meglio le cose?
Mer. Voi, Sempronio, che non avein te ancora piena sperienza del mondo
vorrelte aggiustarlo in un tratto; come fogliono fare alcuni zelanti giovani ,
allorch' entrano a governarne qualche particella di efto. Abbiare de me questo
configlio, cavato da Licurgo, che nelle riforme bisogna camminare affai lenta.
mente, e con molta circospezione , per non cadere in peggio. Sem. Che
doveranno fare i figliuoli per mostrarâ grati verso i loro genitori
defonti? Pub. Due cosc, la prima è di mante, gere nel mondo la meinoria
onorovolsdielli, e l'altra, che maggiormente preme, di alleggerire le loro
pene, che possono foffrire nell'altra vita. Mec. La prima dagli Egizi li
praticava con imball mare i corpi de' loro genitori, e questi conservavano anco
gli atavi , i tritavi, con quel auiero maggiore degli ascendenti, de quali
furono eredi, e con quanta stima, c vencrazione universale! che se ac loro
sommi bifogni avessero avuto necessità di danari, impegnando una di queste
mumie, ne trovavano quanti facevano loro bisogno ; perchè avevano il pensiere
di riscuoterle in breve. Gli antichi Romani ancora fabricano tempj alle memorie
de’loro Padri, o per lo meno ftatue per mano di eccellenti scultori. Sem.
Come si doverà fare per mantenere viva la memoria de genitori? Mec. Se
sono stati illustri per le loro rare virtù, e maneggi, debbonsi anche imitare
da figliuoli, per fare scorgere a chi non li conobbe, di essere le loro virtù
passare in effi; insegnandoci l’Ecclelia. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] ftico al 11. che in filiis agnofcitur vir. Sem. E se
avesse dato alla luce opero letterarie , doverà imitarlo in queste? Mer.
Certamente più in queste che pcll'edificare ville sontuose, posciache quelle di
Cicerone, e di Seneca fono già da gran tempo distrutte, ma non già i loro
libri, i quali continuano i loro anni sempre più gloriofi alla fama. Pub.
Fù interrogato un favio, se fosse più defiderabile l'acquistare un regno, o
l'avere dato alla luce qualche operas dottrinale, utile a posteri; rispose egli
che la seconda; perchè della prima non pofsiamo eslerne altro, che meri
usufrutruarj, privandoci della proprietà di esso la morte, dove che della
feconda ne Gamo perpetui poffeffori, accrescendo più tosto la morte il valore
di essa, e perciò con ragione diffe Giovenale: sat. Libera fi dantur
populo fuffragia quis să Perditus ut dubitet Senecam
preferre Neroni. Sem. E se non avessero fatto cofa alcuna memorabile
? Kka Mer. [ocr errors] Mec. Debbono i figliuoli
incominciare a farl’elli ; perchè diccndoli poi fatte dal figliuolo del rale,
anco i genicori faranno partecipi della gloria di efsi. Sem. E se fosse
stato un gran Capitano, ed il figliuolo non avesse quel coraggio, che si
richicde in tal carica? Mec. Procuri egli di uguagliare la fua gloria in
cose concerncati alla pace; perchè si dira:il Padre fè prodezze grandi in
guerra, e questi le ha fatte in affari di pace. Sem. Lasciando
debiti più del suo capitale dovrà il figliuolo fodisfarli del fuo, quando
avesse? Mec. Certamente che sì, per non farlo dichiarare fallito ; e di
vantaggio le fors' egli ne paeli Elvetici, per non riceverne infamia;
cottumandog colà gaftigare anche i defonci , che per malizia feceto più debiti
del loro capitale. Sem. E se avesse ricevuto fuo Padre qualche
ignominioso gastigo?. Mec. Dove egli allontanarli dos quel qu I
paesc, per non udirne dir male pui blicamente, non potendolo scusare; per
altro se fosse stato cattivo a quel segno, che non avesse merita co‘limiles
ignominia, doverà colle opere buone, e a gloriofe cancellare ogni memoria
po. co buona di esso; perch' essendo pro? prietà della luce scacciare le
tenebre così ancora delle buone operazioni pre fenti è di
cancellare la memoria delle 8 carrive passate. Sem. E se lo avesse
privato dell'eredi. tà parerna doverà farannullare il testa. mento, avendo ciò
fatto senza cagione? Mec. Sofferendo ciò farà credere, che
certamente lo faceffe fenza cagione, i poichè facendo altrimenti, se non
l'ebbe allorchè lo fè, la previde, per dichia. rarsi dopo la sua morte il
figliuolo concrario alla sua volontà, e di ciò ne dierono un memorabil'esempio
i figliuoli di Metello, i quali, quantunque esclisfi contro le leggi, non
vollero,per riverenza dovuta ai Padre, far istanza alcuna in contrario.
Sem. Kk 3 Sem. Se un Padre ainoroso de fuoi figliuoli, ed anche
pio, volesse, allorchè stà vicino à morte, far distribuire qualche fomma
confiderabile di danaro a poveri , ma perchè l'amore verso i figliuoli lo
portasse a farne effi consapevoli, per vedere se fossero contenti di ciò, come
dovranno contenerfi in fimi. le affare? Mec. Uniformarsi in tutto , e per tutto
al volere paterno , c sappiate che Iddio non solameate gradirà tal atco, mà lo
rimunererà ancora. Pub. Un caso prodigioso si racconta a questo proposito
nel Prato spirituale di un uomo dabene, e fomnmo elemosiniere', il quale,
ritrovandosi vicino a morte, chiamò il fuo figliuolo, cui dopo avergli fatto
vedere una gran somma di danaro disse:figliuolo,che gradirete più, che vilasci
questo danaro, o pure, che vi deputi Gesù Cristo per vostro curatore rispose il
figliuolo: averò più accaro il mio Gesù per curatore: ciò udito fece dispensare
a poveri tutto queldanaro: cosa fè il giusto, e supremo Curatore? Si ritrova in
Costantinopoli, ove egli dimorava , uno de'principali, ch'aveva una sola
figliuola, la quale per essere ricchissima veniva da molti desiderata per
moglie ; il gran Curatore dell'orfano ispirò alla Madre di essa, che infinuaffe
a suo marito, qualmente la loro figliuola avesse più bisogno di un uomo faggio,
che di ricchezze, e che maritandola a qualche Signore correva pericolo ch'ella
fosse malamente trattata: Piaccque cal consiglio al marito, il qnale
repplicolle : preghiamo dunque Sua Divina Maesta, che glielo dia a foo
compiacimento, ed andare voi in quefto punto alla Chiesa a supplicarla,e
có. ducetemi quello, che immediatamente entrerà in Chiesa dopo di voi; qual fù
appunto il pio, e generoso pupillo, dal suo grã curatore arricchito in un
istáte. Mec. Or vedere voi, Sempronio, ch' effetri buoni produce
l'uniformarii colla pia volontà del Padre, e quanto si è detto del Padre doyerà
aacora inrcn. der, [ocr errors][merged small][ocr errors] Kk
4 dersi della Madre, in tutto quello, che apparterrà a figliuoli. Sem.
In che doverà con Gftere il bene che sono tenuti di fare i figliuoli, per
l'anima dei loro genitori? Mec. In sodisfare in primo luogo tutti i loro
debiti, e legati pij, ed adempio re prontamente le loro disposizioni.
Sem. Må se non ci saranno danari pronti, si averanno d'alienare gli effetti? vi
saranno pure i suoi tempi da sodisfarli con commodo? Mer. Sapete che
detti effetti , ne' quali ci è debito; non vanno considerati come propri, e per
ciò, non entrando nell'eredità a favore dell'erede, che gli dee importare, che
si vendano? fe poi li vuole appropriare a se, ci prenda danari sopra, se non
gli hà, e fodisfaccia chi dee averc;; e se per cagione di detta dilazione
quella povera anima penaffe intanto, oh che bcll'amore moftrerebbe il
figliuolo per suo padre, lasciandolo cor. mentare ! Il più chiaro contrafegno
di affetto verso fuo Padre è questo, di ob be [ocr errors] Les
bedirlo sollecitamente in fodisfare cioco che diipone li faccia seguita la sua
morte Pub. Or io sono di questo parere, che non si debba aspettare fino
alla morte a fodisfare i debiti contratti, c le opere o pie, che si
vogliono fare, e maggior meate mi sono confermato in questo leggendo, che
vi fosse un certo uomo civile sì, mà assai povero, non avendo altro, che
quattro Sparvieri avvezzati alla caccia, coi quali si alimentava; vc
nendo egli a morte chiamò tre suoi fi& gliuoli, ene lasciò uno per
ciascuno, di cendo loro, che il quarto lo vendeffero, e ne
facessero tanto bene per l'anima sua morto che fosse. I detti figliuoli
il di venente, per vivere se ne andarono alla caccia coi quattro
uccelli, uno de quali seguitando la preda non tornò più: cominciarono a
contrastare tra loro di chi fosse il perduto, ed ogn'uno giurava,
che quello, che era ritornato, ed aveves sulle mani era il suo ; fi
accordarono alla fine, che il perduro era quello, che dove impiegarli in
beneficio dell'anima del [ocr errors]! [ocr errors][ocr
errors] del loro comune Padre; il quale rimase privo di quel bene. Sem.
Oltre di questo doveranoo far altro? Mec. Avere giornalmente una viva
memoria di essi, col raccomandarli a Dio in tutte l'orazioni, che faranno,
fervencemente; perchè non è picciolo il bene, che da cfli ricevettero,
conGitendo in tutto il loro etlere, e ciò facendo oltre il sodisfare a propri
doveri, daranno anche chiaro indizio deila loro buona cducazione. Sem.
Vorrei sapere da voi , Publio, so la vedova possa essere capace di ben’ educare
i propri figliuoli, parendomi che da principio ne dubitaffe Mecenate, con dire,
che non farebbe poco a dividere il suo amore materno tra i primi figliuoli, e
gli altri avuti col secondo marito, Pub. Perchè nò ; quando ella
perseyerasse costante nello stato vedovile, fosse dotata di senno, e prudenza,
ftesse attenta, ed avesse petio da farsi ftimare, c rispettare da efl, e
Mecenate parla del na delle vedove , che prendono altro marito, non
di quelle di cui diffe OVIDIO (si veda), [ocr errors] che.
bes 01 ol Sustinent in viduâ triftia figna domo. Sem. A
trovare però oggidi chi sia il dotata di tante virtù sarà cosa molto difficile,
dicendo di queste Giovenale. Rara avis in terris nigroque fimillima
cygno. Pub. Si a voi, Sempronio, che forse of anderete solamente in cerca
de diferti ili donncschi, mà non già a chi brama di trovare le virtù, per
approfittarsene, o gi ainmirarle; e non crediare già, che ogbe gidi le virtù
sieno affatto efiliate dal d mondo, anzi sappiare, che quando paa re, che i
vizj (i dilatino maggiormente, do allora è il tempo, ch'esse li affaticano
in trovare ricetto dai più lavj, per risplendere maggiormente: ed io vi
poffo finceramente palesare, che ci sono presentemente alcune vedove, le quali
vivono con tanta csemplarità , che ponno uguagliarsi alle antiche matrone,
delle quali i Scrittori fecero tanti grandi elogj. Sem. Bisogna che queste
vivano molto ritirare; c da ciò trascerà che, da me non son conosciute, laonde
notificatemi chi sono, affinche possa anche io fodarle, ed onorarle, come
meritano, ed apprendere insieme dalle loro operazioni qualche urile
documento. Pub. Mostrare certamente troppa cu. riosità , Sempronio, con
volerle conoscore', e se avete deliderio di apprendere qualche documento dalle
loro operazioni, questo lo potrete appagare con udire le relazioni dell'operato
da esse, e tanto maggiormente, che queste non operano a fine di acquistare
gloria, må bensì di bene istruire i loro tigliuoli, e perciò non fi curaro
punto di essere lodate da alcuno, ed a voi è vietato anco il farlo
dall'Ecclefiaftico dicendo: Ante mortem non laudes hominem quemquam. Sem.
Informatemi dunque del modo, che questo hanno tenatoy e tragono in educare i
figliuoli? Pub. Quefte, Sempronio, sono quela le res
ope mogli, che amarono di vero cuore i loro mariti, e perciò
appresero da Didone ciò, che rifeșisce nel quarto dell'Eneidi VIRGILIO
(si veda): Ille meos primus qui me fibi junxit ame- Abftulit ille,
babe ai fecum, fervetque sepulchro. laonde quantunque rimase vedove
nel più bel fiore degli anni, non vollero giammai acconsentire a
rimaricarsi; inà bensì rimirando ne'figliuoli qualche par. ic
de’loro genitori collocarono in elli, per tal cagione cutto il loro
materno affetto; e non li potranno mai baftantemente
esprimere le deligenze da esse usare a pro dei loro vantaggi;
posciache, ia cuftodire, ed accrcfcere le sostanze di clli, che cosa non
fanno mai? Sem. E come possono, essendo mancato il capo di casa,
crescerle? Pub. E pure ciò non ostante, l'hò osfervato in più di una di
effe, c quello, che mirende ammirazione, senza fordida economia, perchè
mantengono illo [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors] ro to grado decoroso, senza scemarlo puoto: laonde sono
meritevoli di quell'encomio, che fa CICERONE (si veda) a Craffo, ed a Scevoli,
chiamando il primo moderatiffimo nello fpendere fra i fplendidi, e l'altro
splendidiffimo tra i moderati; vi potrei anche dire di vantaggio, che avendole
osservate e faccillime jipitatrici del bombice, il quale per formare la sua
casa poge tutta la sua miglior softanza in essa, onde spero, che l'imiteranno
anche dopo morte, con divenire farfalle per volarsene più speditanicnte al
Cielo. Sem. Hò udito esaggerare tanto cótro il luffo nelle passare
conferenze ; como mai queste si fanno così bene regolare in tempi, ne quali ci
troviamo.? Pub. Vidifli parimente in quelle, se ben vi ricorderete, che
non mancava presentemente ancora, chi viveffe net costume ancico, e che non si
osservalle da tutti chi operava in tal forma; perchè pochi erano l'imitatori di
efli, c da ciò nasce, che queste di regolano con tanta aggiustacezza,
perchè vivono a quella usanza, e se li vagliono di qualby che cosa dello
presente, lo fanno con gran moderazione, e più per salvare una certa
apparenza, a fine di non singolarizzarsi, che per vanità. Sem. Mà nell'educarli
di che norma si servono? Pub. Di quell' appimnto, di cui già i parlammo ,
ina con grandiilima atten#zione; folamente di vantaggio hò osserte vato, che
avendo quefte già bene im bevuti i figliuoli del rispetto dovuto ad
effe ne'ceneri anni, divenuci poscia più ci adulti, deposto il rigore priiniero
si so no servite più costo della piacevolezza; coli ed in questo modo
hanno continuato ad elggere curta la venerazione ad else dovuta da
figliuoli. Sem. E nel provederli d'impieghi comc li porrano? Pub.
Volelle Iddio, che con tanto fervore operaffino noi alori Padri conforme esse
fanno' in questo; effendoche taluna li ha così ben accomodaci, che:
non non si è renduta loro fenfibile la perdita fatta del Padre,
trovandosi presen!emente in istato tale, che possono contentarsi. Sem. Oh
fortunati figliuoli; se io fossi nei loro piedi, non mi dimenticherei gianımai
di tanto beneficio ricevuto da effe. Pub. Ed io pasferei più oltre, cioè
a riflettere i disaggi, che averano sofferto, per fare conscguire questo bene, e
quanto averanno cenuto occupata la mente co’pensieri, e quante vigilie averanno
sofferte. Or ditemi, vi pare che qucftc, che operano in tal forma, si possano
paragonare alle antiche Porzie, alle Cor. nelie, alle Avie , ed alle Pauline
che cosa fecero quelle più di queste, che meritarono la corona di pudicizia,
pero effere vivate nella stato vcdovile esem. plarissime e Sem.
Certamente che meritano qucm Ite ancora di esser coronate, e credecemi, Publio
, che questo vostro racconto mi hà sommamente confolatozed animato ingeme a
prendere moglie; perchè se io arrivafli á scegliermi una di queste, morrei
certamente men contristato , avendo chi supplirebbe le mie veci nel ben educare
i figliuoli. Mec. Abbiamo finora parlato della cducazione dei figliuoli de
benestanti, e di quelli de' poveri non abbiamo fatta menzione alcuna.
Pub. Conyerrà certamente discorrere anche di questi, essendo cosa essenziale
ondc lo porteremo alla ventura Conferenza. [merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA Sopra
l'educazione de' figliuoli poveri, e donde venga queita
danneggiata. Publio, Mecenate, Sempronio, i Medico. Pub. He
bella cosa farebbe, se nel monС do ognuno viveffe conforme richiede
l'obbligo cristiano: di non fare altrui, ciò, che a se dispiace: oh
bell’armonia, che nascerebbe da questo allorsì che ciascuno potrebbe vivere ad
occhi chiuli, non trovandosi chi ingannasso il coinpagno ; c tanre sorte di
supplicj , inventare per reprimere', c. gastigare la malizia degl'uomini
rimarrebbero affas. [ocr errors] to oziose; e li ministri di Giustizia a
che | servirebbero, essendo ciascuno retrislimo giudice di se medesimo?
Oh felice, c mi fortunato vivere che sarebbe, essendo ritornato il secol
d'oro, nel quale come lo descriffe OVIDIO (si veda) ne suoi fasti. Proque
metu populum fine vi pudor ipfe regebar, Nullus erat justis
reddere jura labor. E Giovenale nella fac. Cum furem nemo timerer
Caulibus, aut pomis, tu aperto vive.ret borte, Mà quanrunque fiafi tanto
affaticato Platone per farlo ritornare , appena c rimasto ogni suo
pensiero riposto nel ga- binetto delle sue Idee, senza recare vei
runo profitto; onde si può conch iudere, che questo probabilmente non
tornerà [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small]
Sem. Mà non fi potrebbe almeno far ritornare quello di argento ? perchè a
sopportare da gran tempo in qua il secolo di ferro, già divenuto rugginoso,
fembra dura , ed insoffiribile cola. L12 Sem. [ocr errors]
Pub. Questo è difficile; e non meno, che a far divenire un pezzo di ferro
argento; intorno al cui lavoro tanti ci si affaticano indarno. Non sarebbe poco
se a questo di ferro,che noi abbiano, il quale ben diceste, che sia divenuto
rug. ginoso, se gli potesse dare una ripulitura, affinchè non comparisse tanto
deforme, come presentemente par, che sia diveDuto Sem. Facciamolo dunque ; ma
da che parte di esso si doverà principiare? Pub. Da quella più tenera,
come abbiamo fatto finora nei nobili, cioè dalla tenera gioventù, ove la lima
può più facilmente attaccare : cominciate voi dunque a portarmi il lavoro, che
io li. merò. Sem. Qiello , che' mi premerebbe più d'ogni altra cosa,
sarebbe che in. cominciassimo a ripulire un poco i servitori. Pub. La
ruggine in questi è troppo dura; come volete voi, che limi, efsendo di già
quefti divenuti adulti; por [ocr errors][ocr errors] tatemeli giovaneci,
che io cominciero limarli. Sem. E come potranno questi allora discernerli?
Offervandoli, che ne pur i loro figliuoli hanno genio a fare tal meftiero;
ideandosi tanco i Padri, quanto effi, allorchè cominciano a conoscere i
vantaggi della vita civile, di voler parfare ad effa,con avanzarli di
condizione. Pub. Dunque se non si sà precisamente chi voglia incaminarli
per questa via, cominciamo da tutti i figliuoli poveri , che cosi comprenderemo
quelli da incaminarsi in cursi li mestieri nel inedeliino tenipo. Sem.
Che doverà farfi in questi prima di ogni altra cosa? Pub. Quello appunto,
che già dicem. mc:infinuare bene nell'animo loro il fan. to timor di Dio,
base fondamentale di O tutte le virtù morali, e cristiane Sem. E chi
doverà far questo? th Pub. I loro genitori. Sem. E se questi non ne
avessero appreso tanto, che hastaffc loro? Pub. Ci sono i Parochi de'quali è
incombenza,non solamente di proccurare, che fieno istruiti i figlioli, mà
anche, i genitori medelimi, Mec. Se ci fosse un fol pastore in una gran
greggia di pecorelle, molte ne divorerebbero di più i lupi ; onde come potranno
baltare questi, che sono pochi a tanci? Pub. Ci sono i Maestri, che
supplisco. no ancor ela. Mec. Mà quelli che non hanno modo da
tenerli? Pub.Sogovi tante scuole per i poveri, che possono ben ivi
apprendere ciocche appartiene a questo Mec. Mà fe trascureranno di
andarvi, ed intanto innoltrandosi i vizj come firi. medierà? Pub. Colgastigo,
che servirà dierempio agli altri, che non ci cadano, ed a tal effetto ci è per
questi la casa di correzione, ove sono severamente morti. ficati. Mec. Vorrei,
che vedeflimo, Publio, se [ocr errors][ocr errors] fc ci fosse modo
di non avere rovente bisogno di limili gastighi; perchè vado rifcttcndo, che
molti pochi sono correcti da eso; e quantunque ci licno le forche alzate, tanto
i delicti fi comincitono gel inedefimo tempo. Pub. E che prerendete
forse, che nel monda non feguano delicti? Mec. Non pretendo tanto, mà
solamente che sceinino questi più notubilincnte, ed in conseguenza ci sia meno
duopo digastigo. Pub. E come fareste per procurare che minor numero deili
presenti ne leguillero? Mec. Vorrei in diverse parti della cietà
scegliere i più caritativi ; e pii artetici, che ci foffero in ogni
profeflione, ed a questi consegnare , e raccomandare più di uno dei giovanetti,
arrivati in età di poter cominciare ad apprendere i principi di quell'arte,
alla quale 'mostraffero inclinazione, ed abilità. Pub. E prima di detto
tempo chi ne averebbe il pensiero di andarli istruendo nel beo operare? Mr. [merged small][ocr
errors][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Mec. Ci sono pur tanti pii, cd esemplari operarj ,
zelantisfimi del buon costume, cui non recherebbe gran briga l'invigilare sopra
di elî, con un ben regolato ripartimento, li quali per rimediare a'disordini
maggiori, che incontrasfero doverebbero avere chi desse loro assistenza, e
braccio autorevole; e credetemi, che dupplicato bene da ciò ne risulterebbe:
cioè, che non anderebbono in quelle ore vagabondando per la città, e li
approfitterebbero insieme di molti buon iavvertimenti, e cosi la gregge
averebbe pastori a proporzione del fuo bisogno: e fapere pure, che quantunque
tanto si operi da questi zelancisfimi nello svellere i vizi già adulti,
nulladimeno per lo più poco, o niente di frutto da cfsi si ottiene , onde mi
parrebbero fatiche con profitto maggiore queste impiegate, allorchè i vizi sono
anco teneri, potendosi allora con più facilità sradicare; che quando sono già
adulti,senza tralasciare però d'invigilare a fradicare anche questi
assodati. Pub. [ocr
errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Pub. E chi manterrebbe detti figliuoli da quei artefici;
acciocchè l'istruiffero fin tanto, che il loro lavoro meritalse premio? Mer.
Sarebbe facile qui tra noi a trovarsi il modo, essendoci si numerose, e
considerabili limosine di pane, da diftribuirli a poveri; nè si potrebbe
dubicare in conto alcuno, che questi non folsero tali; onde sarebbero con
giustizia , e profitto impiegare in essi ; nè potrebbero gli altri dolerli,
perchè verrebbero anche distribuite colla discreta propora zione rispetto agli
altri bisognosi invalidi; ne apporterebbero gran briga cinque, o sei ragazzi di
questi, provedusi già di pane, avendoli in bottega; ecenendo loro gli occhi
sopra, non potrebbero andare vagabondando in cerca de vizj conforme
facevano. Pub, E'pensiero questo da macurarsi meglio per discernere, che
vantaggio conliderabile potesse apportare. Sem. E se avessero genio di
studiare? Mec. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mer. Di questo
ne discorreremo nel fine. Sem, Or ditemi dunque quali sono i vizj
familiari a ragazzi poveri? Mec. Possono essere innumerabili, se non sono
sradicati alla prima da qual. cuno, e tanti appunto, quante sono l'erbe dannose
, & inutili, che nascono in una siepe abbandonata da chi la coltivi.
Posciache questi poffono essere primieramente affatto ignoranti dei misteri
della Santa Fede; non hanno in bocca altre parole, che difonckte, appreses per
istrada, e ral volia per essere figliuolini nè pur fapranno i loro ligniti.
cati; fi afsucfaranno da teneri anni al rubare, e cominciando dalle core
commefibili faran passaggio all'altre ancora; diverranno poi tanto impertin
nenti, che daranno fastidio a tutti; bugiardi , fraudolenci, bestemmiatori, e
malizioli a segno, che quabrunque fico no di dieci, e undici anni saranno già
capaci in pratica di tutti i vizj concernenti alla luffuria. Puo. [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors] De i buos [merged small][ocr errors][ocr errors]
[ocr errors] prove, e do po [merged small][ocr errors][ocr
errors] Sem. Ma è poflibile, Dottore, che in sì tenera
età facciano questo? Med. Io più d’uno di questi ho vedy. to venire zoppi
all'ospedale per ca. gione di buboni gallici, che avevano acquistati con tali
viziose ritrovata la verità gli ho anche mol. to bene sgridati.
Sem. Da che diviene questa gran facilità di cadere in fimili vizj? Med.
Lo spiegò Socrate a Teodata bellissima meretrice, allorche li gloriava di
superarlo nel saper sedurre più facilmente essa i suoi scolari,di quello avess'
cgli potuto fare colla sua dottrina in rimuovere dal suo amore i suoi drudi,
con risponderle, che lo credeva, nè punto fi maravigliava di ciò; perch'ella li
tirava all'ingiù, & a seconda del precipizio con poca sua fatica dove
ch'egli dovendoli tirar fuori da questo aveva d'uopo impiegarvi fatica
maggiore; come riferisce Eliano, Sem. Oh so, che crescendo questi vizj
con gli apoi, quanci mali effetti eli pros [ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Conf. Dec. feconda
produrranno! riempiranno per la meno le galee di genec facinorosa, se pur que.
fti non anderanno sulle forche; onde conosco anch'io, ch'è troppo necessario
darci riparo, altrimenti di questi viziosi ne toccheranno ad ogn'uno per
servitori, o per arrifti: ma come fi potrebbe fare almeno, che non cre.
scessero di vantaggio? Mes. Se non li trova il modo, che non vadano
vagabondando per le piazze, e di cenerli lontani da quei, che fono un poco più
adulti di essi, sempre correranno tali pericoli; e perciò lag. giamente ordinò
Ligurgo, che i figliun. li fossero allevati per i villaggi, e gli Egizi non li
faceano porre alla mensa per cibarsi, se prima noa avcano corso a piè nudi due,
o cre leghe. Ed appresso i Parci, se i loro figliuoli non avevano colla frezza
colpito, e fatto cadere il pane, che posto avevano in luogo eminente, non
facevano gustar loro altro; conforme ancora facevano le donne dell'Isole
Baleari, ma colla fionda, c CO: [ocr errors][ocr errors] così li
tenevano occupati, affinchè non aveflcro campo di avanzarli ne'vizj. Ma
trovandosi tra noi impicghi con direttori discreti, sarebbero questi affai più
profitcevoli; potendoli eziandio formare scuole d'apprendere arti, dove fossero
istruiti, e nella pierà, & in quel mestiero al quale applicassero di genio
; ma per opere sì magnifiche crè cose si ricercano, le quali sono ; l'autorità
del Prencipe ; valido soccorso; & allistenza allidua di uomini pii,
ezclanti del buon costume. Sem. Ma vi è pur S. Michele a Ripas grande ove
si fa tutto queito; perchè dunque andate cercando altro? Mec. Abbiamo
certamente tal Ospizio Apostolico utiliffimo, esantißimo, ove col timor di Dio
G avvezzano, e si approfittano ancora in diverse arci, era sendo usciti di là
molti , ch'erano prima senza indirizzo, e modo da softcocarli, divenuti capaci
d'alimentare se medesimi, e le loro famiglie; ma questo folo non è sufficiente
per educare tutri i [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
nigliuoli poveri, che sono nella Città; nè è poffibile moltiplicarne canti
altri confimili ad effo, che foffero fufficienti; onde bisognerebbe trovare un
modo praticabile , acciocche fossero istruiti nella medesima forma, ma senza
ag. gravio di spesa equivalente alla proporzione di quella. Pub. Tutto si
potrebbe fare, ma però se non si toglieffe prima quello, che dasse loro mal'
esempio, gioverebbe a nulla. Meo. Questo è veriffimo; perchè entrando
caluno al servizio, quantunque fosse semplice, e di buon costume,' fe
cominciarse a comandargli il suo padione certe cose, che non li possono dire in
pubblico, effendo indecenti, como potrebbe far di ineno obbedendolo as non
divenire ancor esso diviato? effen. do che: a bove majori discit arre minor ,
Se quantunque foffe sobrio, e vedeff: continuamente banchettare, & a vesse
tutto il commodo da disordinare anch' effo, come non diverrà gologfimo? E
par [ocr errors][ocr errors][ocr errors] last particolarmente se si
abbatteffc in chi, come dice Giovenale, Radere tubera terra Boletum
condire, codem in jure na, tantes Mergere facedulas didicit
Sco ap Et cana monstrante gula. Se si accorgerà poi, che manchi di parola,
imparerà anch'esso a farlo dicen. do: se lo fa il mio Padrone, ben lo posso far
arch'io, perchè farà forse oggi di civiltà prar carlo. Voi dunque, Semi
pronio, vidolete attorto dei servirori; doleceri bensì dei padroni, che
gli accoltumano viziosi. Sem. Ma io per la Dio grazia
non fò di questo, e pure mi sono capitati molci cattivi fervitori. Pub.
Saranno stati prima corrotti da altri padroni se non gli avete corrorti voi, e
perciò imparare a non mutarli tanto spesso, potendovi abbattere ins peggiori, i
quali non sarebbero più correggibili: Barbatos licet admoveas, mille inde
magiftros. Mec. Non solamente i servitori si approfittano del mal'esempio de'
padroni, ma tutti gli artisti, e mercanti ancora, dandosi da caluno di esli a
questi, invece del danaro, che avanzano, certe mercaozie, le quali non trovano
ad clitare, e le pongono a prezzi altissimi, e da ciò essi imparano ad alterare
i conti, ed in che forma! Sem. Ma ci sono pure i periti, che li rivedono,
e tarano? Mec. Si bene, ma però elli l'informano, e fanno ben loro capire,
che hanno ricevuto, a ragione di contanti, assai di meno di quello pretendevano
di aver dato loro, a cagione dei prezzi alterati delle robe ricevute. Sem.
Sicche faranno un bel guada. gno questi , che daranno roba in vece di danaro; e
ditemi, Dottore, se ciò si pratica collo Speziale ancora? Med. Taluno per
quanto ho udito lo fa. Sem. Consideriamo, che buone medicine daranno loro
questi, che sono così malamente pagari. Med. Med. Li poveretti
troppo fi sforzano die a servirli bene; ma certa cosa è, che vo gliono
starci in capitale almeno, c peri ciò non daraano già loro i migliori ri1
nedj. Pub. I mercanti Moscoviti, prima che it fosse data loro la libertà
di uscire dal El Regno, avevano una bella maniera di contrattare, la
quale era di chiedere soSelamente il giusto prezzo delle loro mer canzic,
e guai a colui, che l'avesse altea si raco; posciache sarebbe caduto in pene sd
gravissime. Mec. Sicoftumerebbe tra noi ancora, 1 se correffe
puntualmente il danaro; må dovendosi tener morto questo più anni, e poi
pagarfi Iddio sà come, bisogna pur, ch'ella pensino al modo, che debbo.
no tenere per guadagnarci ; diano dunSe qne i primi ad edi buon csempio, che
fa raono imitati. Sem. E per fare, che i servitori non divengano
viziosi, olcre il non dar loro mal'esempio, che si potrebbe fare di e
vantaggio? Mer. [ocr errors] Mm Mec. Bisogn' anche procurare,
che non abbiano occasione di addocrinarli in certe cose, che mal'interpretate
da efli, da buone che sono potrebbero divenire pesime; e vi riferirò a tale
proposito un esempio. Si abbatte un giorno un mio amico, che seco aveva due
fervi. tori, ad udire un certo discorso morale, fatto da un buon religioso, mà
molto semplice, sopra il furto, e venuto al par. ticolare, a che fomma questo
doveste giugnere per essere peccaminofo , avvedutosi egli, ch'erano attentissimi
i suoi fervitori in udirlo, chiese incontinente licenza,con iscusa di dover
fare certo ur. gentislimo negozio in quel punto; mà come egli, ini riferì il
negozio era, che non udifícro questi , che li potesse con ficura coscienza
rubare una anche minima cosa, perchè, come diceva, costoro l'averebbero
reiterato tante volte in un giorno, che in breve mi farei impoverito.
Pub. Mi persuado ancora, che non convenga dar loro il comodo di approvecciarsi
malamente, con fidarsi alla sjeca di cili, dando loro gran maneggio;
per [ocr errors][ocr errors][ocr errors] perchè la comodità appunto fà
l'uomo ladro. Mec. Vi era uno di questi, il quale prendeva cutto
all'ingrosso, e con vantaggio grande, e dipoi lorivendeva a minuto, ed a prezzo
rigoroso al suo padrone, e vi faceva giornalmente guada. gno considerabile,
scusandosi in far ciò, ch'era per sua industria, perchè non gli
aveva ordinato di far questo il suo padrone. Onde ingannavasi costui in credere
di non aver obligata, ad effo tutta la sua industria, come difatto avea.
Sem. Sarebbe dunque riuscito van taggioso per loro se avessero studiato, ed
appreso le buone dottrine. Mic. Se avessero fatto questo non si
porrebbero a servire, come dice uno di questi al suo padrone, allorchè lo
sgrida, ch'era un ignorante, cui replicó: signore se fossi dotto non servirei ,
mà bensì averei chi mi servisle. Sem; Ne hò però ayuti di quei, che sono
stati alla scuola, e sapevano anco ra un poco di latino. Ner. [ocr errors][merged
small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Mm 2 Mec. Mà che serviva loro questo? Sem. A nulla; mà
però se non mori. vano i loro Padri si sarebbero tirati aranti nello studio, e
forse sarebbono riusciti uomini dotti. Mer. Vorrei, ch'esaminaflimo ora
qual fosse meglio: chei figliuoli dei poveri s'incaminassero per la strada
delle lettere , o pure fi ponessero da principio ad apprendere le arti,
Sem. E che pretendereste forse voi impedire, che ogn’uno non s'incamini a suo
bellagio per la via, che giudica per se più vantaggiosa? Capece pure, che vi
sono stati molti plebci , che sono riusciti in esso come accennò ORAZIO (si
veda) fat. Multos fape viros nullis majoribus oj tos, Ei vixise probos ,
magnis du honoribus auctos. Mec.
Questi non saranno stati però miserabili, perchè dice ancora Giove Haud facilè
emergunt quorum virtutibus ebfas. Res angufta domi. e poi se taluno di
questi, inà molto di rado, è riuscito, oh quanti sono andati a
inale! onde vorrei, che vedeffimo quali di questi fieno quelli, che
possono essere capaci di compire questa carriera, ed a quali non
getti conto. Perchè il sen. tiere delle scienze, é assai lungo, ed
crto, ed ha difficile ancora il suo ingresso; come bene lo descrive Silio
Italico dicendo. Ardua faxofo perducit semita clive, Aspera
principio, nec enim mihi fallera, mos est, profequitur labor ad
nitendum intrare volenti. Onde chi non potesse caminarvi fino al fine, che
farcbbe trovandosi nel mezo di esso? non vorrà tornare indiccro per vergogna,
nè potrà ivi foftentarli., per essergli mancata la provisione neceffaria; onde
non sa a che partito appigliarsi; dove che la via delle arti, efiendo assai più
piana, e più breve, ed ancomeno dispendiosa, li renderà più facile, e
[ocr errors] Mm 3 van. vantaggiosa a questi di poterla
cerminare. Sem. Sicchè dunque farà meglio, e più vantaggioso per loro d’incaminarsi
per il sentiero delle arti, giacchè questo si renderà più facile a poveri di
compirlo. Mec. Così credo anch'io, perchè almeno giugneranno a
guadagnarli il pa. ne più spedicamente, e con minor pericolo di rimanere
inesperti. Sem. Come pensate voi di fare questa scelta, di chi sia capace
d’incaminarsi per essa, e chi per l'altra più piano delle arti. Mec. Se
per esempio ci fossero figliuo. li di mediocre talento de poveri artisti, o di
vedove, che appena colla loro fati. ca arrivano ad alimentarli parcamente,
questi sarebbero perduti, volendoli incaminare per la trada delle scienze, e
maggiormente, se saranno i loro genitori avanzati negli anni ; perchè morendo
questi, chi li softenterà trovandoạ nella carriera a qualcuno di quei, che sono
nel principio del camino può essere, che; torni indietro, econ
ripugaanza grande si ponga ad apprendere qualche arre, quelli, che
saranno però più inoltraci , vergognandosi di farlo, come si trove. ranno i
meschini, non avendo chi più li sostenri? talmente che per procac. ciarli il
vitto saranno costretti di fare ogni viltà, purchè salvino l’apparenza del
proseguimento di tale impiego, ch' esli si avevano figuraco di voler
esercitare; laonde poftisi in doslo una toghetta, ed un perucchino, ne quali
consiste il loro capitale, tutti lindi si porranno , essendo ignoranti, a far
da guasta mestiere: e vi pare che questi possano apportare utile alla republica,
stroppiando cause, se prenderanno la via legale? e quello ch'è peggio, che se
per quella della medicina s'incamineranno quanti ne animazeranno impunemente?
Olere poi il discredito, che ne riceverebbono professioni (i nobili, per
cagione di essi. Sem. Mà perchè se ne prevalgono di questi?
Mec. [ocr errors] Mm 4 Mec. Perchè la maggior parte, chc litigano
sono ignoranti; e simili a questi ancora sono quelli, che si trovano malati;
onde come potranno discerneru questi a che segno giunga la di loro abilità?
ctanto più, che quantunque penuriando di dottrina i guasta mestieri, non si
trovano già scarû di malizia, per dare ad intendere lucciole per lanterne quando
vi sia duopo, essendo questi gran; mensognieri. Sem. Quali voi crederefte,
Mecenate, che potessero incaminarli per la via del le scienze con sicurezza
maggiore? Meo. Quelli solamenre a quali il Padre morendo in questo mentre
, poresse lasciare 'ranto, che fosse sufficience a poter terminare i loro
studj, cche fossero di buono ingegno; perchè se non saranno cali gertato
averebbero quel danaro, e rimanendo mendichi, ed ignoranti, questi ancora fi
porrebbero a fare molce viltà, e perciò l'Ecclesiast. csclama. Propter inopiam
multi deliquerunt; de'quali così ebbe anco a dire ORAZIO. Ma Magnum
pauperies opprobrium jubet. Quiduis ad facere et pari, Virtutisque
viam deferit arduam. Sem. A chi toccherebbe di farne la prova del loro
ingeg:10 , e capacità? Mec. Niuno meglio de' loro maestri, che li
avessero cominciati ad istruire sarebbe più a proposito; mà taluni di questi
alle voltc consigliano i poveri Padri con poca carità a fare proseguire loro l’opera
mal’incominciara. Pub. Sapere, Mecenate, che non è disprezabile pensiero
questo da voi apportato, e rifletto ora anch'io, che il voler porre con tanta
facilità i poveri all'acquisto delle scienze possa essere una delle cagioni,
che ritardano più tosto la buona educazione, e mi inaraviglio che non si dia
già dato opportuno riparo a questo inconveniente, Mec. Sicte pur pratico
del mondo, e non riflettere , che non tutto arriva all' orecchie di chi vi può
dare rimedio, perchè se vi giugnessero tutte le cose, quanti buoni regolamenti
si prendereb [ocr errors][merged small] Res nale fac. 3:bero dalla
vigilanza di effo. Pub. Che imparassero i figliuoli de’ poveri, a
leggere, scrivere, e l'abaco lo stimerei necessario ; mà che questi poi si
applicassero alli studi delle scienze, non avendo nè capacità necessaria, nè
modo da foftentarli, ora che voi ave. te mostrato tanti inconvenienti lo stimo
dannoso anch'io. Sem. Come fecero Publio, quei celebri filosofi antichi, i
quali erano affatto privi de’beni di fortuna, a divenire così dotti; efsendomi
stato raccontato di Diogene, che appena avesse una botte per
difendersi dall'inclemenze dell'aria : e di Socrate, chę altre di calcare sem,
pre la terra co’piedi nudi, appena venisse ricoperto da un sordido
mantello. Pub. Affinchè meglio comprendiate la verità di quanto diffi,
dovete sapere, che considera AQUINO la povertà in due maniere; ove parla:
Contra genti. Jes; cioè: aut ex coactâ neceffitate, aut ex propriâ voluntate.
Questi filosofi da voi mentovati erano poveri; perchè non [ocr
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e riputandoli dannosi non istudiavano di cumulare richezze, quantunque
das queste 'venissero adescati . Mentre, che non fa Alessandro il
grande per rimuovere dalla sua bramata povertà Diogene, quantunque in
darno? Quan,. to non fi adoperò Archelao per fare divenire ricco Socrate ? mà
egli per liberarsi dalla di lui generosa importunità li fè intendere , che in
Atene a vile prezzo si vendevano le farine, e che colà le acto que nulla
costavano; e perciò questa voin lontaria povertà, non folamente non li contristava,
mà serviva loro più tosto di ajuto per la filosofia; come riferisce 1
Stobeo, fer., che confeffalse, l'isteiro Diogene. Anzi Epicuro passò più
oltre, come si ricava da Seneca nell'epift. persuadendosi egli, che
la volontaria poi vertà , la quale si uniforma alle leggi di natura , non
debba riputarsi povertà, į inà più tosto ricchezza superiore a tutte 3 le
altre, di qual sentimento, oltre molti altri filosofi, è ancora
Democrito; men [ocr errors][ocr errors] tre tre venendo egli
interrogato, come ri. ferisce Scobeo, qual fosse il vero modo da divenire molto
ricco, rispose: con divenire povero di desiderio. Sem. Potrebbero dunque i
nostri poveri figurandoli volontaria la loro forzata povertà, divenire Filosofi
ancor efli. Pub. Non è più quel tempo antico, nel quale i poveri si
contentavano audrirli di solo pane, ed acqua, o di sole erbe, come riferisce
Eliano, che faceffe Diogene; onde questa povertà volontaria, senza un special
dono di Dio si renderà impollibile a conseguirsi. Sem. Vorei sapere,
perchè questa povertà forzata abbia da ritardare l'acquisto delle scienze, c la
volontaria più tosto da promoverlo? Pub. Perchè la forzata contrifta
fortemente l'animo, apprendendo chi la sof. fre di essere infeliciffimo, dove
che la volontaria, riputandoli per feliçità da cui si gode, lo rende sommamente
cranquillo: Laonde chi mai coll'animo con, [ocr errors] tristato potrà
applicare a cose tanto serie, conforme sono le scienze? le quali richiedono
attenta meditazione da cui brama d'approfittarsene. Quindi è, che Aristotile
nel primo della sua Etica ebbe con ragione a dire: Impoffibile eft indigentem
operari bona; e più chiaramente nel secondo della politica. Impossibile eft
inte digentem ftudio vacare; c non potendosi i poveri di spontanea volontà
chiamare in digentes,non milita contro di esli l'autorità di Aristotile; perchè
questi hanno ciocche, fà d'vopo al loro necessario sostentamento, ed è ciò
sufficiente per effi , avendolo fatto conoscere Socrate, riferito da Stobeo al
serm. allorchè diffe: Si res 'mea mibi non fufficiunt, du ego ipfis fufficio,
as fic etiam ipfa mibi; al opposto i poveri, che non hanno povero il loro
desiderio ancora, non li appagano punto di ciò, chè si trovano, braman. do
sempre di vantaggio, sembrando loro quanto hanno per esli insufficiente, c per
tale cagione vivono perperuamente contristati. Or ditemi, Sempronio, se
[ocr errors][ocr errors] avere da dire altro intorno al morale? Sem. Non
altro certamente intorno a questo, e credo di avere udito tanto, che se me ne
approfitterò saprò scegliere la noglie approposito, ed allevare nel buon
costume anche i miei figliuoli, che nasceranno. Mi rimane solamente di sentire
dal dottore, quali vantaggi potrebbe apportare all'educazione la filosofia, e
specialmente in quei figliuoli, che ricalcitrano nello approfittarfi de buoni
documenti morali. FIL. Di questo ne tratteremo domani. – “I have a train
to catch.” Grice: “I like
Gagliardi. In honest Italian prose, he manages to write a treatise for the
week: the first day (or giornata) and so forth. It is an empirical ethical
treatise along Aristotelian lines of the type I classify as ‘is’ rather than
‘ought’. Recall that the fundamental question I pose for pragmatics is why
maxims ought to be followed rather than being, as they are, mainly and ceteris
paribus followed! My answer to that is in three stages, and the first ‘answer,
dull and empirical’ is that the maxims ARE, as a matter of EMPIRICAL fact,
followed. This far Gagliardi goes – and succeeds!” – Grice: “He wrote
extensively, knowing British parents, how a father must take care of his son,
or at least find him a good tutor!” Domenico Gagliardi. Gagliardi. Keywords: “a
dull (if at a certain level adequate) answer to the fundamental question about
the conversational categoric imperative”; moralia, etica, mos, ethos – Grice on
morality – morals – educazione – “We learn not to tell lies from our parents”
Hardie, Ethica Nichomachaea, la formazione del carattere. “Empirical fact we’ve learned since childhood
and it would be difficult to diverge from the practice” – “This is a dull
empirical.” -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gagliardi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e Gaio: la
ragione conversazionale e l’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Accademy. Although
he appears to have enjoyed a significant reputation, next to nothing is known
about him. Porfirio mentions commentaries on Plato by G. that may have been
edited by his pupil Albino. Gaio.
Grice e Galba: la
ragione conversazionale e il principe filosofo -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Mussonio:
deportato da Nerone, pardonato da Galba – Deportato da Vespasiano, pardonato da
Tito.
Grice e Galeno: la
ragione conversazionale e la scuola d’Antonino – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Brought to
Rome by Antonino.
Grice e Galetti: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Filosofo. Emporium.
Grice e Galimberti: la ragione conversazionale,
l’implicatura converszionale, e l’imaginario sessuale – filosofia monzese –
filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza). Filosofo monzese. Filosofo Lombardo.
Filosofo Italiano. Monza, Lombardia. Grice: “I like Galimberti: he
has philosophised on amore, amicus, amicizia – all topics of my interest –
while I am into vyse, he is into the seven capital vyses! He also has spoken
about speech: the ‘parole nomade,’ and the ‘equivoci’ of the ‘anima.’ – In
general his philosophy is about nihilism and the idea of man in the age of
‘techne’ (ars).” Il suo maggior contributo riguarda lo
studio del inconscio e il simbolo (contractio), inteso come la base primeva e più
autentica dell’uomo – ‘logica simbolica’. Nasce a Monza, la mamma maestra
di elementari e il padre deceduto. Le necessità della famiglia l’obbligano a
lavorare. Frequenta le scuole superiori in seminario. Terminati gli studi
liceali classici, si iscrive al corso di
laurea in Filosofia a Milano. Si laurea quindi con Emanuele Severino con lode,
con “La logica di Jaspers”. Fra i suoi maestri, anche Bontadini. Studia
fenomenologia del corpo con Borgna a Novara. Insegna a Monza e Venezia. Studia
con Trevi.“E se "filo-sofo" non volesse dire "amante del
sagio" ma "saagio dell'amore", così come "teo-logo"
vuol dire dotto *su* Dio e non ‘parola di Dio’, o come "metro-logo"
vuol dire scienzato delle misure e non misura della scienza?” “Perché per la
forma greca ‘filo-sofo’ questa *inversione* della morfologia nella implicatura?
Perché il filosofo greco si struttura come un logico che formalizza il
reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nell’academia, dove,
tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo quesso che lo face un
‘sagio,” e che non ha nessun impatto sull'esistenza e sul modo di condurla. E
per questo cheda Socrate, che indica come la sua condotta "l'esercizio di
morte", ad Heidegger, che tanto insiste sull' “essere-per-la-morte”, il
filosofo si e innamorato più del saper morire che del saper vivere. Al centro
della sua riflessione sta il corpori degli uomini, che, in un mondo sempre più
dominato dalla tecnica, si sentono un "mezzo" nell'"universo dei
mezzi", riuscendogli sempre più difficile trovare e dare un senso alla sua
vita, alla sua esistenza. Si deve trovare un senso al radicale disagio, alla
tragicità del suo esistere, anche attraverso il recupero dell'ideale antico
greco-romano, evitando mitologie. Il suo maggior contributo consiste nel
porre la dimensione del simbolo (coniactum – the idea is that you throw two
things together so that the recipient may compare them, one becomes the
‘symbol’ – coniactum – of the other – cf. Grice on Peirce on symbol) alla base
primordiale della ragione conversazionale, che ha inteso ordinare il simbolo
(mito, no logos) – dunque l’ambilavenza delle cose ma non l’equivalenza generale
di significati. Il simbolo (coniactum) è il sustratto pre-razionale.
Rappresenta un caos originario che ragione tenta di arginare. Siamo razionali
(apolineo) per difenderci dal simbolo dionisiaco. Il concetto fondamentale del
simbolo non è l’equi-valenza generale, ma l’ambi-valenza. Riprende Freud e Jung,
fondendone con Nietzsche, Severino e Heidegger. Importante è stato il costante
riferimento a Husserl e Jaspers. Il filosofo cerca la “comprensione”
(verstaendnis – cf.. Grice on ‘understand’ – ‘understanding,’ literally, slang
for a leg) e non la spiegazione (verklaerung) del comportamento umano. La psicologia
filosofica o rationale (l’anima di Aristotele) non può operare una
trasposizione tout-court dei metodi e dei modelli concettuali delle scienze
naturali perché, così facendo, l'uomo verrebbe ridotto a mero evento naturale,
fisico, come ha luogo, per esempio, in psichiatria. Contrario, poi, al
dualismo di Cartesio, Galimberti ha anche fatto riferimento al metodo
fenomenologico e al funzionalismo per consentire altresì, alla psicologia
filosofica o rationale, la comprensione e la descrizione fenomenologica di
quelle strette relazioni che intercedono fra nostri corpori assieme al
significato che queste relazioni comportano. E e tutto ciò lo porterà ad
abolire, di conseguenza, ogni distinzione concettuale fra ”salute“ e
”malattia.” Insiste sull'inconsistenza della contrapposizione tutta occidentale
fra scienza e fede – fiducia -- individuando come questa seconda – la fiducia,
cf. English ‘trust,’ truth’ -- sia in realtà l'elemento fondativo dell'intera
coscienza occidentale, all'interno anche della scienza e della tecnica. Scienza
e fede non dovrebbero mai confliggere, è importante che nessuna delle due
invada il campo dell'altra. Tematizza innanzitutto il passo della Genesi
in cui Adamo è definito "dominatore della Terra, sui pesci dei mari e
sugli uccelli del cielo", collocando l'uomo in una posizione privilegiata
rispetto agli animali e la Natura in sé e legittimandolo a operare su di essi
per alimentare la propria esistenza. In quanto il progresso è l'affermazione di
questo primato umano, la tecnica (Greco techne, Latino, ars) è indubbiamente
l'ipostasi che sigilla costantemente quest'affermazione sull'indifferenza
naturale. La coscienza della techne (Latin ‘ars’) tecnica è formulata come una
risposta alle fatiche naturali, si appellerebbe, dunque, a una condizione
strutturale di eminenza consegnata da Dio e propugnata dalla persistenza di un
animale sui generis. Riconosce la cristianità come il carattere di una
scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il
presente dell'espiazione, il futuro della redenzione e salvezza. Questo
semplice modello triadico ha una ricorrenza quasi ossessiva nelle forme
occidentali, fra le quali la medicina (malattia, diagnosi, cura), psicoanalisi
(disturbo, terapia, guarigione), scienza (ignoranza, sperimentazione,
scoperta). La triade è il "coefficiente a-storico" necessario a
profilare la possibilità di un progresso, che si esercita eminentemente nello
scenario tecnico. Qui, l'uomo che soccombe alle fatiche naturali della
sopravvivenza, del parto e del lavoro (così come minacciato nella Bibbia) ha
modo di riscattare la propria difficoltà attraverso mezzi che ne purificano
endemicamente l'opera, al costo di un esaurimento delle risorse naturali. Ma,
in fondo, la loro esistenza è preposta a questo. Non si definisce né
"credente" (in senso cattolico) né "non-credente", ma
"greco-romano", nel senso di colui che vuole recuperare la visione del
mondo della civiltà greco-romana, in modo nietzschiano e heideggeriano (si veda
anche Il detto di Anassimandro, un noto saggio di Heidegger sul pensiero greco
arcaico), fondendola però con la pur antitetica visione cristiana: la morte e
la vita vanno pertanto prese sul serio, e non minimizzate pensando a un'altra
vita ultraterrena. La ragione è importante perché, come nel detto "Conosci
te stesso", fornisce all'uomo il senso del proprio limite. Approfondisce
molto la tematica del concetto di tempo e del suo rapporto con l'uomo. La sua
indagine evidenzia come nell'età degli antichi – eta greco-romana, eta classica
-- non si pensasse al tempo come lineare ed escatologico, tanto meno vi era
associata l'idea di progresso. Essi concepivano l'essere come kyklos (tempo
ciclico, l’eterno ritorno di Nietzsche), come un ciclo in cui ogni evento è
destinato a ripetersi. Nella filosofia greco-romana antica era impensabile che
l'uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i
propri fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei
cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel
ciclo infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la
forza propulsiva (in greco energheia, actus) porta all'attuazione dell’ergon,
l'opera, ciò che è compiuto. Il ciclo si manifesta dunque con l'esplicitarsi
dell'implicito.Il seme diventerà frutto solo alla fine del ciclo di crescita e
maturazione stagionale, e il frutto coinciderà con il fine del seme, con il
dispiegarsi completo dell'energia e delle potenzialità implicitamente contenute
in esso. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso: di conseguenza
divengono fondamentali la memoria dei cicli passati e quindi la parola dei
vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria
e dell'esperienza passata. Tuttavia, l'uomo è da sempre tentato di conciliare
il tempo ciclico della natura con il tempo umano, che è un tempo “scopico” (dal
greco skopein, che indica un guardare mirato). Con questa operazione l'uomo
vuole reintrodurre scopi umani nel tempo naturale, naturalmente privo di scopi.
Emerge qui dunque la necessità propriamente umana di progettarsi, cioè di
gettarsi-fuori di sé verso un obiettivo, cercando di dotare di senso la propria
esistenza. Questa tendenza tuttavia, può armonizzarsi con il “kyklos” solo se
l'uomo vive con la consapevolezza tragica di non poter oltrepassare i limiti
posti dalla natura, primo tra tutti la sua mortalità. In caso contrario, egli
si macchierà di hybris (superbia), la tracotanza, l'unico vero peccato riconosciuto
dalla saggezza greco-romana.In termini esemplificativi, il cacciatore esercita
il suo guardare mirato nel bosco (skopos) e solo in questo tempo progettuale e
nella compresenza di mezzi e fini, il suo arco diventa strumento e la lepre
l'obiettivo. Si tratta di un tempo lineare che si muove tra due estremi: i
mezzi e i fini (la ragione come phronesis or prudentia).V'è tuttavia un elemento
che si inserisce tra questi termini, impossibile da controllare, ovvero il kairos,
il tempo opportuno, che è anche imprevedibilità, e che può determinare o meno
l'incontro tra mezzi e fini. Non è dunque nelle possibilità dell'uomo il
tessere il proprio destino. Egli deve saper cogliere il kairos, la circostanza
favorevole, e in essa espandere sé stesso. Questo equilibrio tra tempo
naturale, umano e del kairos è stato sconvolto dall'uomo nell'età della
tecnica: obiettivo di quest'ultima è infatti quello di ridurre fino ad
annullare la distanza tra mezzi e scopi (in cui si inseriva il kairos,
l'imprevedibile) per realizzare così un controllo e un dominio assoluti sul
mondo, che da cosmo a cui accordarsi è divenuto natura da dominare, e per
portare a compimento una tirannia completa del tempo umano. Con l'età della
tecnica abbiamo scatenato il Prometeo che gli dèi avevano incatenato,
determinando il trionfo del potere della techne sulla necessità (in greco
ananke) della natura, fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è
più strumento nelle mani dell'uomo ma è l'uomo a trovarsi nella condizione
di mero ingranaggio, funzionario inconsapevole dell'apparato tecnico. Riflettendo
sulle modalità in cui l'uomo abita il mondo, approfondisce il concetto di
‘corpori.’ Studiando genealogicamente il concetto di corpo dal periodo romano
antico – quale e la etimologia di corpo? Quella di Platone e terribile: soma
sema -- mette in contrasto le diverse
modalità in cui esso è stato osservato. I corpori – corpus romano, pl. corpora
– corpore -- sono visto come organismi da sanare per la scienza, come forza
lavoro da impiegare per l'economia (body-abled man), come carne da redimere per
la religione, come inconscio (id) da liberare per la psicoanalisi, come
supporto di segni (semiotica corporale – la semiotica dei corpi) -- da trasmettere
per la sociologia – un segno e un medio fisico – l’immagine e percipita per un
corpo – un corpo mittente – un corpo che recive il messagio – semiotica fisica.
L'uomo e capace di cappire significatum ambi-valente (uno senso Fregeiano e una
implicatura – “He is a fine friend +> He is a scoundrel). Questo
significatum ambivalente e fluttuante e quello che il corpo ha da sempre
assunto. Questa ambivalenza del segno fra corpo 1 e corpo 2 nasce dal suo
sottrarsi all'uni-vocità (or aequi-vocita – or aequi-segno) di una teoria
psicologica categorizzante, concedendosi invece una “con-fusione” de un codex
di senso fregiano e un codex di implicatura, con i quali i corpori sono costituito.
Per salvarsi di un panico creato da questa ambivalenza (significatum fregeano,
significatum griceianum), si sigue il principio d'identità, collocando i
corpori di volta in volta sotto un equi-valente generico che gli garantisse uni-vocità
o aequi-vocita (quando l’implicatura e cancellata). Cogliendo lo sfondo in cui
i corpori si mostrano, si evidenzia la legge fondamentale che lo governa,
ovvero lo “scambio” (o ‘con-versazione’) simbolica – il simbolo e il significatum
griceiano -- in cui tutto è re-versibile e non vi è demarcazione tra
significati – questo che Grice chiama la ‘indeterminazione disgiontiva
infinita: il corpo significa che p1 o p2 o p3 o … L'ambivalenza del segno è una
legge inclusiva per cui ciò che è, è sì sé stesso (principio d’identita), ma
anche altro da sé (principio della negazione – diaphoron). In questo modo i corpori conservano la sua
oscillazione simbolica tra vita e morte: oscillazione che non posse eliminarsi
tracciando una violenta disgiunzione tra vita e morte, tra ciò che è (l’ente,
il ‘being’ di Grice) e ciò che non è (vide Grice, “Negazione e privazione).Proposito
conclusive è quello non tanto di emancipare o liberare i corpori dalla
restrizione impostagli dal senso apolineo fregeiano (che non avrebbe altro
effetto che confermare i limiti in cui i due corpori sono reclusi), bensì
quello di restituire i corpori alla sua originaria innocenza. Si è sempre
schierato su posizioni fortemente anticapitaliste, esprimendosi e professandosi
inequivocabilmente comunista. è stato ufficialmente richiamato da Venezia a
volersi attenere alle corrette regole di citazione degli scritti di altri
autori. Questo per aver riportato alcuni brani di altri autori senza citarli
in. Tutto ha avuto inizio quando in seguito a un articolo de Il Giornale è emerso
che aveva copiato "una decina di brani" di Sissa per un saggio. Ha
ammesso di aver violato il diritto d'autore riservandosi di riparare al danno. Ciò
non ha comunque soddisfatto Sissa perché “quello non chiedere scusa, piuttosto
un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi. Con il passare
del tempo sono emersi altri precedenti analoghi. Infatti anche per il saggio su
Heidegger, copia Zingari. I due arrivarono a un accordo che prevedeva
l'ammissione da parte di G. dell'indebita appropriazione intellettuale nelle
successive edizioni del libro e da parte di Zingari l'impegno "a non
tornare più sulla questione". Oltre a Sissa e Zingari sono stati copiati
testi di Cresti, Natoli e Bradatan. Per difendersi, dice che "in ogni ri-elaborazione
però, c'è uno scatto di novità". L'inchiesta giornalistica de Il Giornale ha
accertato che due dei saggi, presentati al concorso a Venezia erano stati
copiati da altri autori. La commissione giudicante composta all'epoca non si
accorse del fatto. Il rettore ha detto che "non ho, ora come ora, estremi
per sollecitare il ministero, deve essere un professore del raggruppamento a
farlo. Di mio posso dire che in ambito umanistico si producono troppi testi e
che questo è uno dei fattori che causano l'impossibilità di fare controlli
accurati. Nello specifico, secondo me dovrebbe essere G., nel suo interesse, a
chiedere la convocazione di un giurì o comunque a rispondere e a specificare le
sue posizioni.”Nel giugno la rivista
L'indice dei libri del mese ha pubblicato nel proprio sito un lungo articolo su
altri copia-incolla. In particolare il saggio sul mito è stato indicato come
costituito al 75% da un "riciclaggio" di suoi scritti precedenti, per
il restante 25%, una ristesura di intere frasi e paragrafi, presi da altri
autori, quasi identici agli originali. Le accuse mosse a G.i sono poi diventate
un saggio, “La mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, ), in Bucci,
elenca i nomi dei pensatori da cui avrebbe tratto parti di testi senza citare
la fonte. Vattimo ha dichiarato al Corriere della Sera: «si scrive anche a
distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione è plausibile. Lui cita l'autore
la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza
virgolettarle. Il sapere umanistico è retorico. Noi si lavora su altri testi,
si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nella
filosofia è tutto un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da sé stesso».Altre
opere: ROMA SERMO ROMANVM -- Milano, Mursia). Agire (Milano, Apogeo); Amore. Assisi, Cittadella Editrice,.Tra il dire
e il fare. – dire e una forma di fare --
Il viandante della filosofia, con Marco Alloni, Roma, Aliberti,.Parole
d'ordine, Milano, Apogeo,. Amore.
Milano, AlboVersorio. Amante, amato, amico --” Napoli-Nocera Inferiore (SA),
Orthotes,. “Il bello” Napoli-Nocera
Inferiore (SA), Orthotes,. Eros e follia, Mariapia Greco, Lecce, Milella
Editore. Fenomenologia del corpo, Milano, Feltrinelli – cf. Grice on ‘body’ –
in “Personal Identity” “I fell from the stairs” -- Dall'inconscio al simbolo,
Milano, Feltrinelli, 2“Equivoci” (Milano, Feltrinelli); Parole nomadi, Milano,
Feltrinelli; I vizi capitali e i nuovi vizi, Milano, Feltrinelli. Amore,
Milano, Feltrinelli. Treccani. G., nato a Monza, è stato professore incaricato
di Antropologia Culturale e professore associato di Filosofia della
Storia. Professore ordinario all'università Ca' Foscari di Venezia, titolare
della cattedra di Filosofia della Storia. Titolo opera: Le cose dell'amore. Il
libro è di: saggistica, cioè appartiene al genere letterario dei saggi.
Sommario: Riassunto per capitoli: “Amore e trascendenza”: La metafora di Dio è
sempre stata collegata alla metafora dell'amore, nel senso che senza la
presenza della trascendenza, cioè che è al di là dei limiti di ogni conoscenza
possibile e quindi superiore alla ragione umana, l'amore perde la sua forza e
la sua capacità di leggere il mondo. Rimane un enigma dove l'amore vede in Dio
la sua trascendenza, e Dio vede nell'amore la sua natura,e questo intreccio non
presenta sentimentalismi ma solo il nesso tra amore e trascendenza. I “Amore e
sacralità”: La sacralità è dovuta dal desiderio dell'uomo di immortalità
e quindi dal desiderio di conservare la sopravvivenza dell'individuo e della
totalità dell'essere. Oltre al sacrificio, un altro modo di sperimentare la
morte della propria individualità è l'orgasmo, l'apice della vita sessuale,
durante il quale l'Io e il Tu si dissolvono, e ciò è reso possibile dalla
fiducia reciproca. “Amore e sessualità”:
Il sesso non è qualcosa di cui l'Io dispone, ma è qualcosa che dispone
l'Io, aprendolo così alla crisi. Nella sessualità, la meta non è il
godimento dell'Io, ma il suo perdersi negli abissi dell'anima, i quali si pensa
siano rimasti disabitati, e che invece possono riapparire durante quel
rinnovamento della vita a cui l'Io cede ogni volta che ha un rapporto sessuale
e quindi nesso con l'altra parte di sé. “Amore e perversione”: La perversione è
sempre stata giudicata negativamente, perché concepita come sinonimo di
devianza, degrado, ribrezzo e ripugnanza. Il perverso non cerca la
trasgressione, ma la sua aspirazione è di raggiungere uno stato dove è
soppressa ogni nozione di organizzazione, struttura, separazione e dl'universo
di differenze da cui prende avvio ogni principio d'ordine. Il godimento del
perverso non deriva dalla sessualità, ma dalla sessualità portata a quel limite
oltre il quale c'è l'incontro con la morte. “Amore e solitudine”: La
mitologia greca aveva divinizzato la masturbazione, perché era
espressione di autosufficienza e indipendenza dagli altri. Ma questo atto venne
condannato, nell'età dei Lumi, dalla scienza medica e dall'economia: la prima
sosteneva che essa provocava malattie, mentre la seconda affermava che era uno
spreco. Osservando invece il fenomeno della masturbazione da un'ottica diversa
da queste due discipline, questo "vizio dell'adolescente" non appare
come un qualcosa da combattere, ma un qualcosa su cui fare leva per integrare
gradualmente la sessualità. "Amore e denaro": La prostituzione
è uno scambio di sesso e denaro che caratterizza il regime sessuale della
nostra società, e che viene alimentato da un desiderio di rapido miglioramento
delle proprie condizioni economiche. Infatti, di fronte al denaro tutto diventa
merce: quando un uomo paga una donna, non le riconosce alcuna interiorità sua
propria, arrivando a considerarla più come un "genere" che come
"individuo". "Amore e
desiderio": L'amore è un'illusione di stabilità emotiva. Questo sentimento
necessita novità, mistero e pericolo, ma deve saper combattere il tempo, la
quotidianità e la familiarità. infatti, la ricerca della sicurezza e
della stabilità porta l'amore al suo degrado, perché così facendo essa non
prevede l'avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la
passione. "Amore e idealizzazione": La percezione della realtà è una
costruzione attiva, dove l'immaginazione, la fantasia, il desiderio, di cui
l'idealizzazione amorosa è una figura, intervengono a trasfigurare i dati della
realtà. Da ciò si deduce che l'oggettività è un'ideale impossibile, e infatti
la convinzione di conoscere l'altro in modo oggettivo è una delle tante
illusioni create dalla passione per evitare la delusione. "Amore e seduzione": Nella vita
quotidiana, la trasparenza riesce ad allargare l'orizzonte e lo scenario
dischiuso dall'immaginazione. Infatti il desiderio si trova in ogni fessura
della realtà che lascia trasparire un'ulteriore senso: quello dell'irreale e
de-reale. Il corpo dell'altro diviene così uno specchio che riflette il nostro
desiderio, e questo corpo non deve essere mai nudo, perché la seduzione si
esprime attraverso le vesti, gli accessori, i gesti, la musica. "Amore e pudore": L'amore prevede
che ad amare e ad essere amato sia il nostro Io, una delle due soggettività
presenti in ogni individuo e che, contro la sessualità generica, impone
la barriera del pudore. Essa però non limita la sessualità ma la
individua, sottraendola a quella genericità in cui si celebra il piacere senza
riconoscere l'individualità. E' importante sottolineare che il pudore non è un
sentimento esclusivamente sessuale, ma ha anche una valenza sociale che si pone
alla difesa dell'individuo contro la pubblicizzazione del privato. "Amore e gelosia": Nella nostra
società, dove la sussistenza dipende sempre meno dalla solidità dei vincoli
familiari, la gelosia è vista come un sentimento arretrato che ostacola
la libertà e la sincerità dei singoli. Essa, cha affonda le sue radici
nell'infanzia non per la progressiva rinuncia da parte del bambino al
possesso esclusivo del padre o della madre, ma perché durante questo periodo
chiunque ha provato sentimenti come la solitudine e la paura di essere
abbandonati, altera la percezione, l'attenzione, la memoria, il pensiero e il
comportamento. Per avere controllo su questo potente stato d'animo, bisogna
separare progressivamente l'amore dalla ossessività, cioè civilizzarla.
"Amore e tradimento": Il tradimento risiede nella fiducia originaria,
dove non c'è traccia neppure del sospetto, perché non sorgono ne
l'interrogazione ne il dubbio. Ma la scoperta di quest'ultimo segna la nascita
della coscienza, e questo atto è indicato dal tradimento. Sono presenti diverse
reazioni al tradimento: la vendetta, che non emancipa l'anima ma la
irrigidisce; la negazione, in cui l'individuo che ha subito una delusione tenta
di negare il valore dell'altro; il cinismo, che fa credere che l'amore sia
sempre una delusione; il tradimento di sé, che porta a tradire sé stessi e le
proprie esperienze emotive; la scelta paranoide, un atteggiamento legato più
alla sfera del potere che a quella dell'amore.
"Amore e odio": L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, e
la sopravvivenza di questo sentimento amoroso non dipende tanto dalla capacità
di evitare l'aggressività, che è il riflesso dello stato di pericolo in cui si
trova la persona che ama, quanto dalla capacità di viverla e oltrepassarla. In
amore, l'individuo può accettare la dipendenza verso la persona amata, oppure
per riscattarla trasforma la passione amorosa in passione aggressiva, carica di
odio, dove il messaggio finale è che non si può fare a meno di questa
persona. "Amore e passione":
A differenza dell'amore, la passione non segue le regole, ignora il
governo di sé, non conosce il limite e non dipende da progetti. Per questo è
possibile dire che l'amore è cristiano, mentre la passione è pagana. La
passione cerca rassicurazione, ma nello stesso tempo vuole essere smentita,
rifiutata e delusa, perché attribuisce all'affetto, alla domesticità, all'amare
e all'essere amato poca importanza. Questo perché la passione conosce il
destino e non lo scambio, in quanto l'altro è considerato solo come materia per
la sua creazione, ovvero la fantasia, la quale si alimenta del dubbio e
dell'incertezza. "Amore e immedesimazione": L'alienazione nell'altro
per amore di sé approda o nell'assimilazione con la persona amata, che porta
alla perdita della propria identità, o nel possesso della persona amata, con la
tendenza ad escluderla dal mondo. Gl’amanti chiamano amore questa reciproca
immedesimazione, e questa rinuncia di sé e della propria libertà non esprime
solo un rapporto di dipendenza, ma una vera e propria condizione di
alienazione. Il mantenimento in amore della propria autonomia non solo evita
l'identificazione con la persona amata, ma consente il recupero di se
stesso. "Amore e possesso": La
passione, quando non approda nell'immedesimazione con la persona amata, si
indirizza verso il possesso, che riduce le relazioni della persona amata, e in
cui l'amante non ama propriamente l'altro, ma solo il potere che esercita
sull'altro. Dunque, chi ama per possesso non si accontenta del possesso del
corpo e del godimento sessuale che ne deriva, ma pretende che la persona amata
lasci per lui tutto il suo mondo, e che lo ami non solo per la sua evidente
identità, ma per le sue qualità nascoste. Solo a questo punto il suo desiderio
di possesso è soddisfatto ma, con la sua soddisfazione, anche la sua passione
si estingue, perché non era amore per l'altro, ma era perverso amore di sé.
"Amore e matrimonio": La nostra società è caratterizzata
dall'individualismo, in cui l'individuo vive in base alla sua personale
idea di felicità, senza più subire l'influenza delle norme tradizionali. Attualmente,
l'amore è slegato da ogni riferimento sociale, giuridico e religioso, e si sta
diffondendo la figura de "l'uomo della passione", che attende
dall'amore qualche rivelazione su se stesso o sulla vita in generale. Da una
parte quindi l'amore-passione, che rappresenta l'evasione dal mondo per
raggiungere in sogno la felicità assoluta, dall'altra l'amoreazione che fonda
il matrimonio, che non evade dal mondo ma assume in esso il proprio impegno.
"Amore e linguaggio": L'amore utilizza le parole per dare espressione
a ciò che la logica non sa cogliere. Infatti, i paradossi del linguaggio
dell'amore cercano di infrangerla, perché la logica include la normalità e la
quotidianità, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso, l'insolito, e non può
farlo se rispetta le regole della ragionevolezza. Questo eccesso concede
all'amore nuove libertà di cui ha bisogno, perché essa nasce quando è
totalizzante, e infatti il linguaggio dell'eccesso pretende la totalità, dove
odio e amore possono confluire e passare l'uno nell'altro. "Amore e
follia": L'amore è quasi sempre stato considerato come un qualcosa
posseduto dall'Io. Freud smentisce ciò sostenendo che non esiste una ragione
onnipotente che guida la volontà che governa le ragioni, in quanto la psiche
umana non è razionale. Fu Platone il primo ad interessarsi alle regole della
ragione e agli abissi della follia. Egli con il termine follia indica
un'esperienza dell'anima che sfugge a qualsiasi tentativo che cerchi di
fissarla e disporla in successione. B) Tesi dell'autore: L'amore non può esistere senza un raggio di
trascendenza. C'è una profonda affinità tra il sacrificio e l'atto d'amore.
L'amore non rinnega il sesso e l'erotica. L'amore deve sapere accettare anche
la perversione. La masturbazione è segno
di solitudine. Con la prostituzione ciò che si vuole comprare non è il
sesso ma il potere su un altro essere umano. E' importante saper conciliare il
bisogno di sicurezza (l'amore) e il desiderio di avventura (la passione).
L'idealizzazione amorosa influenza la nostra percezione della realtà. La vera seduzione è possibile solo quando il
corpo non si riduce a quel significato univoco che è il sesso. Il pudore è quel sentimento che difende
l'individuo dall'angoscia di perdersi nella genericità animale. La gelosia è il
rovescio della passione, dell'intimità e della dedizione che caratterizzano
l'amore. Il tradimento è il lato oscuro
dell'amore, che però è ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende
possibile. L'odio è il compagno
inevitabile dell'amore, perché esso è la risposta a quella minaccia che è
l'amore. A differenza dell'amore, la passione non conosce limite e regole. L'amore non prevede la rinuncia di sé. L'amore come passione è il desiderio di
potenza assoluta su di una persona. Il matrimonio non è supportato da alcuna
buona ragione, perché nelle cose dell'amore la ragione non ha gran voce in
capitolo. L'amore si affida al linguaggio per esprimere l'intreccio della
nostra anima. L'amore è un cedimento
dell'Io per liberare in parte la follia che lo abita. C) Impressioni riportate
nella lettura: A mio parere, il libro "Le cose dell'amore" è stato
molto coinvolgente per i temi trattati: l'autore, grazie alla sua esperienza di
vita e alla sua abilità di scrivere che non è da sottovalutare in uno
scrittore, riesce a descrivere tutte le sfumature dell'amore senza cadere nella
banalità e nella monotonia, tendendo sempre accesa nel lettore la voglia di
proseguire la lettura. Ciò è favorito anche dal fatto che molti dei temi
affrontati si riscontrano nella vita quotidiana di ognuno di noi, cioè ci
riguardano da vicino perché fanno parte della società in cui viviamo: l'amore
legato al denaro, e quindi al fenomeno della prostituzione, che è un problema
diffuso in Italia; l'amore legato al pudore, un aspetto necessario per vivere
in comunità, che quindi ha una valenza sociale; l'amore legato alla gelosia, la
quale è vista come un sentimento che, in una società in cui sta avvenendo
l'emancipazione dell'individuo, ostacola la libertà e la sincerità dei singoli;
l'amore slegato dal matrimonio, in quanto nella nostra società si sta
diffondendo l'individualismo. Difficoltà incontrate nella lettura: Durante la
lettura del libro "Le cose dell'amore", ho riscontrato delle
difficoltà nella comprensione di alcune frasi o parole. In qualsiasi lettura è
fondamentale capire e interiorizzare tutto ciò che sta scorrendo sotto i nostri
occhi, e porsi delle domande per essere certi di aver appreso tutto in maniera
corretta. Se si tralascia anche un solo particolare perché non lo si riesce a
comprendere fino in fondo, andando avanti nella lettura si svilupperanno sempre
più problemi di condiscendenza. In questo libro ho riscontrato più di una
frase, o semplicemente delle parole, che hanno sollevato delle difficoltà nella
comprensione dei concetti-chiave. Ad esempio, prima di continuare lalettura mi
sono dovuta soffermare su parole di cui non conoscevo il significato e che
ostacolavano la mia interpretazione di questo testo, alcune delle quali sono:
ambivalenza, assedio, avvedutezza, dissoluzione, ineffabilità, millanteria,
parossismo, prevaricazione. In particolare, ho dovuto cercare informazioni
relative al significato di due parole, trascendenza e alienazione, perché
entrambe sono temi importanti affrontati. Era dunque necessario approfondire il
concetto contenuto in queste due espressioni per raggiungere l'obiettivo di
questa lettura: accrescere le nostre conoscenze. Inoltre ho avuto modo di
riflettere in modo più attento e accurato sul termine "immedesimazione",
che era già stato per me oggetto di studio in alcune discipline, ma non era mai
stato così legato alla quotidianità, così vicino al nostro ambiente di vita. In
conclusione, questo libro mi ha dato l'opportunità di ampliare il mio sapere, e
soprattutto mi ha dato l'occasione di approfondire il concetto di alcune
parole, elencate precedentemente, prima a me estranee. Scheda del libro
Introduzione: L’uomo, troppo spesso, tende a definire l’amore legandolo a
significati che, in realtà, non gli appartengono completamente. G.,
attraverso un’attenta analisi, s’introduce all’interno del sentimento più
incomprensibile ed equivocato di tutti i tempi. Egli non definisce l’amore, ma
associa a questo i tanti falsi sinonimi che gli vengono attribuiti,
cercando di dimostrare che i termini non sono equivalenti ma solo in
relazione. Graficamente, dunque, l’amore e i falsi sinonimi potrebbero essere
rappresentati da due insiemi, con un’ampia parte compenetrata, ma non
sovrapposti. Il risultato evidente risulta essere un passaggio
dalla amore è… ad una più ricca ed attenta osservazione di amore e… definizione
abituale di Amore e... L’amore viene analizzato in tutte i suoi aspetti,
dalla trascendenza, sacralità alla perversione, seduzione, denaro, dal
pudore al tradimento, dall’immedesimazione, possesso al matrimonio, dal
linguaggio alla follia. Il sentimento più oscuro sembra nascere da un
incantesimo della fantasia che fa idealizzare in un essere la persona amata e
cessare con il tempo che, favorendo la realtà, finisce col produrre una
disillusione delle aspettative, trasformando la passione, l'idealizzazione,
iniziale in un affetto privo di partecipazione e trasporto. Le conseguenze,
talvolta, possono essere anche molto gravi tanto da tramutare la passione in
una patologia e sostituire ai poeti d'amore degli psicologi. La vicenda divina
è legata anche all'atto sessuale in cui l'uomo trasgredisce, eccede, cadendo
sotto il peso della passione che non rappresenta solo uno smarrimento del
desiderio e di se stesso ma anche un vero e proprio patire. "il desiderio,
per quel che ancora le parole significano, rimanda alle stelle: de-sidera"
(Le cose dell'amore, 1) Come scrive l'autore, l'amore e la trascendenza vanno
di pari passo e dal momento che il significato della parola desiderio rimanda
alle stelle, quando esso con il tempo si estingue, non c'è più elevazione
dell'anima che è in grado, trascendendosi, di lasciarsi superare. L'amore e la
trascendenza, dunque, sono legati non da un rapporto reciproco, ma dal
sentimento che viene sviluppato per le cose che non è possibile possedere. Il saggio
risulta essere molto interessante nelle tematiche e negli accostamenti tra gli
argomenti e permette, attraverso l'uso di un linguaggio comune di poter essere
compreso da diversi tipi di lettore, trattando ,infatti, un tema senza età e
senza la necessità di particolari conoscenze umane o scientifiche permette a
tutti di immedesimarsi, interrogarsi ed interagire conil testo ed è proprio
questa compenetrazione del lettore che crea una polisemia di significati e
sempre diverse chiavi di lettura sia da altre persone sia dal tempo che muta le
circostanze della vita. L'autore riesce a non abbandonarsi mai in trattati
banali o superficiali finendo in discorsi pesanti ed inconsistenti ma inserisce
diverse tonalità che mantengono viva la curiosità e la voglia di proseguire la
lettura. La contemporaneità in cui vive gli permette di rapportare al testo
l'esperienza personale, permettendo che venga identificata o differenziata da
quella altrui. Le tematiche attuali, lo stile concreto e il narratore in cui è
possibile identificarsi mostrano, dunque, l'ottima riuscita del libro.
"Amore non è solo vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e
quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria,
tentativo, sconfitta." (Le cose dell'amore). conseguenza si tende ad
innamorarsi solo delle persone che la fantasia porta a sognare ed idealizzare e
a cadere in depressione o nel deprezzamento di se stessi se il sentimento non è
ricambiato, poiché, senza l'immaginazione, che influenza la percezione ed
esalta la realtà il desiderio di sicurezza potrebbe far cessare sul nascere
l'amore per la paura di non essere corrisposti. L'amore, tuttavia, nelle sue
molteplici identificazioni ha anche un lato oscuro, riconosciuto nel
tradimento. Esso rappresenta sia il dolore per fine della fiducia, che l'inizio
dello sviluppo della coscienza, infatti, solo chi si concede senza avere la
sicurezza di non essere tradito può provare il vero amore. La coscienza può,
emancipandosi, portare al perdono e decidere di passare oltre oppure può
svilupparsi in vendetta, cinismo, svalutazione o malattia, e dal momento che
questa è la strada più percorsa generalmente è bene che non si realizzi come
pratica insincera ma come reciproco riconoscimento, dove chi ha tradito non cerca
scuse e chi ha subito prende atto ed eventualmente accetta il cambiamento
poiché tradire qualcuno, qualsiasi sia il rapporto che lega, è già una
possessione che inizia il processo di arresto della propria crescita. L'amore e
l'odio, invece, coesistono perfettamente, poiché solo chi ama davvero sa odiare
e solo chi odia veramente è, in realtà, in grado di amare. Essi rivelando che,
per vivere bene, non si può fare a meno d'altre persone, sono i soli, unici e
veri sentimenti. "Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un
rapporto con l'altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi
stessi" l'amore e le caratteristiche che gli vengono associate mettono in
relazione l'uomo con la parte folle del proprio essere da cui si era discostato
nel tempo. " Ora che vi ho detto tutto sull'amore, non crediate che io ne
sappia più di voi: il ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me.
L'unica differenza è che lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede
ancora a ciò che lo tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di
esperienza, cerchiamo di affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre
illusioni. Eppure con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?" (M.
Chebel "Il libro delle seduzioni") Galimberti conclude la sua opera
con questa breve citazione, in essa è racchiuso, infatti, tutto il significato
dell'amore. Un sentimento inspiegabile che non è possibile conoscere né
completamente né in modo uguale o simile ad altre persone, una sensazione che
gratifica i bambini, poiché nella loro innocenza la vivono senza tormenti e
ansietà pur conoscendola come gli adulti. AMORE È... "l'amore è un fiore
delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andarlo a cogliere sull'orlo di un
abisso spaventoso" (le cose dell'amore, 116 Ivi, 120) L'amore è il più
importante tra tutti i sentimenti, dal momento che è possibile associarlo a
tutti gli altri. Esso è difficile da trovare e spesso viene confuso con altri
molto simili ma mai uguali. Solo chi ha il coraggio di lottare, di sfidare, di
mettersi in gioco, di rischiare può ottenere il vero sentimento ricercato o in
ogni caso non vivere nell'illusione, riconoscendo i falsi sentimenti che
cercano continuamente di insidiare un posto che non appartiene a loro. La
fatica di condurre il "gioco" attraverso la strada se pur più reale,
più complicata porta ad una felicità certa e vera che permette di non patire
grandi sofferenze ma solo piccole illusioni riconoscendo che il male apparente
non è in realtà vero male così come ciò che si definisce generalmente come bene
non sempre è il vero bene. Nella Introduzione al suo celebre libro del
1983 Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si
esprimeva: È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se
stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone
come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la
grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora
sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica. Ma
pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo
terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe.
Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici, scavando
il fondo su cui si impianta il radicamento. Questa operazione che rimuove
la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è data, quindi
la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine storica.
Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e precisamente in quel
momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta all'ambivalenza delle sue
espressioni corporee per essere riassunta in quell'unità ideale, la psyche, che
da Platone in poi, per tutto l'Occidente, sarà il luogo del riconoscimento
dell'unità del soggetto, della sua identità. Ma questo luogo di identificazione
contiene già il principio della separazioneperché, come coscienza di sé, la
psyche incomincia a pensare per sé, e quindi a separarsi dalla propria corporeità.
La prima operazione metafisica è stata un'operazione psicologica. Nata
con un significato semplicemente classificatorio per designare quei libri
aristotelici che erano collocati dopo (µ?ta) i libri di fisica (t? f?s???), la
«metafisica» ha guadagnato ben presto e coerentemente un significato topico che
designa un al di là della natura, quindi una scienza dell'ultrasensibile che si
differenzia dal mondo dei corpi perché, contro il loro divenire e mutare,
rappresenta l'immutabile e l'eterno. L'idea platonica è il modello di questa
separazione e contrapposizione, e la psyche, essendo «amica delle idee,
incomincerà a considerare il corpo come suo carcere e sua tomba. Una
volta che la verità è posta come idea, l'opposizione tra ideale e sensibile , tra
anima e corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso, tra bene e male. Valori
logici e valori morali nascono da questa contrapposizione che la metafisica ha
creato e la scienza moderna ha mantenuto, rivelando così la sua profonda radice
metafisica se è vero, come dice Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei
metafisici è la credenza nelle antitesi dei valori». A questo punto per
la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo
della sua origine storica, significa pensarsi contro questa antitesi di valori
che non la realtà, ma lo sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato
se stessa, ha instaurato. È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come
residuato di quell'idealismo che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso
l'Occidente come suo lungo errore. Da questo errore la filosofia si è
emancipata con Nietzsche che ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là
inventato per meglio calunniare l'al di qua», ma non la psicologia, che così
rimane la più occidentale delle scienze e quindi la più metafisica, se per
metafisica intendiamo il pensiero della separazione, il puro d?a ß???e??,
da cui nascono quelle antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate
dal discorso psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e
follia. Fattasi carico della logica della separazione inaugurata dalla
disgiunzione platonica tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere
coerente a se stessa, non può parlare del corpo se non impropriamente, se non
per un'infedeltà al suo statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda
l'idea di corpo che come scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui
questa idea si riduce dopo che lo psichico è stato separato e autonomizzato,
non è luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia
potrà parlare propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo
statuto della separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la
psicologia è nata, ha fondato se stessa come scienza, e ancora si
conserva. Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla
simbolicamente, non nel senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per
ribadire un'altra separazione, quella tra conscio e inconscio, dove
nell'inconscio si ritrova il rovescio dell'iperuranio platonico, il 'vero'
significato di ciò che si manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha
separato l'anima dal corpo inaugurando la 'psico-logia'. Abolire la barra
significa mettere assieme, s?µ-ß???e??. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce
la psicologia come storicamente s'è pensata in Occidente, la sradica
dalle sue radici storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e
così la costringe a pensarsi contro se stessa. Questo pensiero che è
contro, perché pensa fino in fondo, fino alle radici, incontra la corporeità
che, nel suo sorgere immotivato e nel suo ambivalente apparire, dice di essere
questo, ma anche quello. L'ambivalenza così dischiusa non è ambiguità, ma è
quell'apertura di senso a partire dalla quale anche la ragione può fissare
l'opposizione dei suoi significati ,e quindi quell'antitesi dei valori in cui
si articola la sua logica disgiuntiva quando divide il vero dal falso, il bene
dal male, il bello dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla materia, l'anima
dal corpo. Queste opposizioni sopprimono l'ambivalenza (?µf?) con cui la
realtà corporea originariamente appare nel suo duplice aspetto, come un Giano
bifronte, per instaurare quella bivalenza (bis) dove il positivo e il negativo
si rispecchiano producendo quella realtà immaginaria da cui traggono origine
tutte le «speculazioni». Diciamo immaginaria perché la realtà non può mai di
per sé essere negativa se non per effetto di una valutazione. Ma se il negativo
è da interpretare semplicemente come il «valutato negativamente», allora la
negatività attiene essenzialmente al giudizio di valore. Proponendosi come
questo, ma anche quello, il corpo, come significato fluttuante, che si concede
a tutti i giudizi di valore, ma anche si sottrae, con la sua ambivalenza li fa
tutti oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio
geologico nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di
irradiazione simbolica nella comunità primitiva, il corpo, infatti, è diventato
in Occidente «il negativo di ogni valore» che il gioco dialettico delle
opposizioni è andato accumulando. Dalla «follia» del corpo di Platone alla
«maledizione della carne» nella religione biblica, dalla «lacerazione»
cartesiana della sua unità alla sua «anatomia» ad opera della scienza, il corpo
vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a «forza-lavoro»
nell'economia dove più evidente è l'accumulo del valore nel segno
dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del corpo
sul registro dell'ambivalenza. Qui «sfida» non significa che il corpo si
oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a una
pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che
qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché
quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione che, se da
un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza identità,
dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, colui che
dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A, perché
questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il
corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura
metafisica del sapere psicologico l'ha confinato. Questo recupero è
possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere
metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo,
questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco
conosce la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può
sottrarre alla necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e
fermarlo per sempre. Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è
una riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha
individuato nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno,
una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso
ultimo del corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché
in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di
ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla
costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere
psicologico s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della
rappresentazione psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la
sovrabbondanza dei segni produce. Se ciò non accade, se la psicologia non
si pensa contro la rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca
in cui ha preso avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non
giungerà mai alla comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà
costretta ad errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua
fondazione epistemica, della sua nascita come scienza. Si tratta di un
errore che non investe solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale
quando, sottraendosi alla polisemia della realtà corporea, si afferma come
asserzione incontrovertibile su di essa. In questo passaggio dalla verità come
ambivalenza alla verità come decisione del vero sul falso, il sapere razionale
dimentica di essere una procedura interpretativa tra le molte possibili per
porsi come assoluto principio, dimentica di essere un inganno necessario per
dirimere l'enigma dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno
perverso. Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura
polisemica rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come
forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere,
all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne
da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo
rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie,
che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro
senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario,
abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile
ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta
l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche
l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o
l'ambivalenza del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente
dissolvimento del loro valore accumulato. Per sfuggire a questa
alternativa, che è inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di
prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione
preventiva per la delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il
terreno su cui il sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole
riappropriazione non è una regressione, non è l'abbandono del solido terreno
del sapere, al contrario, è la ricostruzione genealogica del suo
significato. Riproporre l'ambivalenza del corpo non significa quindi
rifiutare il sapere razionale, né tanto meno accettarne la resa, ma significa
andare alle radici di questo sapere e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di
più che un tentativo per far fronte all'ambivalenza della realtà corporea che,
così riscoperta, è ciò che dà ragionedelle molteplici ragioni. Queste
ragioni che i saperi tendono a soddisfare non possono più proporsi con assoluta
verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra
l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che
l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte
le decisioni scientifiche. Si tratta di un senso che sta prima di ogni
significato, e che nessun significato promosso dalla decisione scientifica può
abolire, perché è prima di ogni inizio e continua oltre ogni conclusione.
Ne consegue che alla metafisica dell'equivalenza produttrice di quei
significati con cui in Occidente si sono fatti circolare i corpi secondo quel
preciso registro di iscrizioni che di volta in volta li de-terminavano, e sulle
cui determinazioni sino nati i vari campi del sapere, il corpo sostituisce il
gioco dell'ambivalenza, ossia di quell'apertura di senso che, venendo prima
della decisione dei significati, li può mettere tutti in gioco col corredo
delle loro iscrizioni in quell'operazione simbolica in cui il sapere perde la
sua presa, perché la delimitazione dei campi in cui da sempre si è esercitato
si è simbolicamente con-fusa. Questa è la sfida del corpo, una sfida che
è già iniziata se c'è da dar credito a quella «crisi delle scienze europee»
denunciata da Husserl. Niente di più benefico. Sono i primi effetti di quella
violenza simbolica rispetto a cui quella razionalistica è in ritardo di una
generazione, perché ancora crede in una controparte, e quindi non sa che ogni
parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione
disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio
sapere. Ma quando la realtà immaginaria, prodotta dalle opposizioni
polari in cui si articola ogni sapere razionale, non riesce più a farsi passare
per realtà vera, in quel gioco di specchi che si frantumano a contatto con la
polisemia della realtà corporea, allora si è più vicini all'ambivalenza, non
per una contrapposizione dialettica o per un'opposizione organizzata, ma perché
là dove tutte le maschere sono cadute, compresa quella della bivalenza
codificata, ogni termine che ruota su se stesso si s-termina. Questo è l'esito
simbolico che attende l'ordine strutturale di ogni sapere. E già se ne vedono
le tracce. Seguendole, il corpo consegna ogni ontologia e ogni deontologia alla
geo-grafia, alla grafia della terra, la più dicente, la più descrittiva, quella
che non accorda privilegi metafisici, perché non conosce la mono-tonia del
discorso, ma l'ambi-valena della cosa. Fra tutte le numerose
pubblicazioni di G., questa è, forse, quella che maggiormente gli ha dato
visibilità e lo ha designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser della
filosofia italiana contemporanea. È anche un'opera caratteristica, perché
in essa G., curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste illustrate,
si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e cerca di
scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino in
fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo
rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità. Il punto
da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che
quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è
nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone,
percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo
l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue
espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della
psyche, divenuta l'elemento fondamentale della sua identità. Ma il corpo,
per G., è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene a
precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli non
si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli -
evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita
dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto
vaga del questo e quello), grazie alla quale la ragione ha la possibilità di
fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei
valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal
falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo. Tale antitesi dei
valori è, per G., la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo il
concetto da Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e della
schizofrenia del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce panoramica
per mostrare - con accenti severiniani - che esso è stato un lungo, deplorevole
errore, in quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo. E il
dualismo, si capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là, dal
quale poter meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più
razionali, perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di
sulfureo (d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del
Diavolo, «colui» che separa). Questo, dunque, è un punto centrale della
argomentazione di G.: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo; dunque,
tutto il pensiero dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e dalla
metafisica, è un pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze. La
ricetta per uscire da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare, la
logica unitiva, bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e
anche quelle, allo stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può
essere interpretata, volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la psicoanalisi
è una scienza metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché reintroduce,
attraverso la contrapposizione di conscio e inconscio, la lacerazione platonica
e cristiana tra anima e corpo, tra spirito e materia; e fornisce una immagine
distorta dell'uomo. È a partire da questo punto che il ragionamento di G.
si fa propriamente filosofico, oltrepassando il campo ristretto della
psicologia. Invece di accettare l'ambivalenza del corpo, la logica
disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e della
psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo si
rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida
contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché
interpretazioni? Perché, per G., non esistono il positivo e il negativo, bensì
la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e situazioni che
potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti punti di
vista. Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante, dove le
cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo) che esse
siano. Come in un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e PIRANDELLO
(si veda), noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci
confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un
modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca
d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da
Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un
giudizio di valore. Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di
pensiero irrazionalistica, G. sostiene che ogni ragione si serve di una logica
disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere. Così,
la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter
affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica
afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per
poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda).
Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in realtà,
«immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella
dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa
realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà
(immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non
essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa
considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei
valori». G. non affronta esplicitamente la questione, ma sembra intuire
la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che, quando il
pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza, che è
tutt'altro) delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini alla
loro realtà. O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione «realtà»;
glorifica l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto auto-evidente;
gli basta impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente, non riesca a
farsi passare per la «realtà vera». Ma questa «realtà vera», in ultima
analisi, esiste o non esiste? G. non risponde, l'abbiamo già detto; si limita
ad osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si attardano nel
pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno di essere in
ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora in una
controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non sono che
l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per
affermare il proprio sapere». Vi sono echi minacciosi in questa affermazione
(il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove precipitano i non
rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po' patetici (l'ultimo
soldato giapponese che continua a combattere nella giungla per una guerra che è
vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una razza che si è
estinta. Si tratta di una posizione quanto mai radicale, poiché equivale
alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale, da Platone in
poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è un'assunzione di
prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione
preventiva per la delimitazione del vero e del falso». Ma il vero e
il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono le verità di
principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque non esistono
saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi sono sempre
strumentali, parziali, relativi. È incredibile: siamo in piena sofistica,
che Socrate aveva già brillantemente confutato circa ventitré secoli fa;
ma G. ci presenta le sue conclusioni come se fossero qualcosa di
staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un continuatore radicale
dell'opera di Nietzsche. Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare
- afferma G. con la massima disinvoltura -non possono più proporsi con assoluta
verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra
l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che
l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte
le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si tratta di un senso che sta prima
di ogni significato»; ma, di novo, non ci spiega in che modo egli arguisca
l'esistenza di questo «senso originario», dato che tutti i sensi che noi diamo
alle cose forzano la loro vera essenza. Arrivati a questo punto, possiamo
fare alcune osservazioni conclusive. Punto primo: che il pensiero
idealistico sia stato tutto un lungo errore, forse bisognava sforzarsi di
dimostrarlo e non darlo per scontato al principio di un libro interamente
dedicato alla discussione degli effetti negativi di un tale errore. Punto
secondo: che non esista alcun criterio di verità, è posizione filosoficamente
rozza e semplicistica. Altro è affermare che la verità è difficilmente
accessibile, altro è affermare che ogni verità è una forma di violenza che i
saperi cercano di imporre per fondare se stessi. LA FILOSOFIA è frutto di
sottili distinzioni, di una particolare sensibilità per le sfumature; ma qui,
sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente a colpi di martello (e non
è un complimento). Punto terzo: che il corpo sia il luogo privilegiato in
cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente, aiutandoci a liberarci dalle
pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è - ancora una volta - posto ma non
discusso, e tanto meno dimostrato. Eppure è fin troppo facile osservare
che, se l'introduzione della psyche ha relegato il corpo al ruolo di negativo,
l'esaltazione del corpo che fa G. sembra ribaltare la prospettiva, senza
modificarla «alle radici» (come egli sostiene di voler fare). Ossia, a questo
punto è la psyche che rischia di diventare il negativo o, quanto meno, il luogo
dell'errore, dell'illusione, della disgiunzione. Ma sarebbe perfettamente
inutile muovere una simile obiezione a G.: egli vi risponderebbe, come ha fatto
in più occasioni, che la psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa,
perché tutto è corpo. La sua intera filosofia non è che una
assolutizzazione della corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva
a sostenere, senza batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani,
avvenuta nel IV secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo G. e la
morale, Arianna. Ma davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare
l'antitesi dei valori e restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?)
ambivalente, dove le cose sono finalmente se stesse e non quello che noi
giudichiamo che esse siano? Ora, è verissimo che la vita, nel suo livello
immediato e quotidiano, procede per giudizi di valore che sono spesso
affrettati, imprecisi, immotivati e, soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia,
non discende che il rimedio consista nel proclamare la relatività di tutti i
valori e l’inesistenza di ogni criterio di verità. Questo sarebbe quel che si
dice curare il mal di testa con le decapitazioni. Esistono altri livelli
di esistenza - non solo di tipo razionale, su questo siamo d'accordo con G. -,
ai quali è possibile accedere, e nei quali si può intravedere, pur senza
possederlo interamente, un criterio di verità capace di sottrarre le cose al
gioco degli specchi della loro incessante mutevolezza. Se non credessimo
a questo, dovremmo non solo sospendere ogni giudizio di valore, ma rinunciare a
ogni possibilità di avvicinarci al vero, al bello e al buono; in altre parole,
dovremmo ritirare un rigo su ogni possibilità di fare non solo psicologia, ma
anche filosofia. Queste, e non altre, sono le conclusioni coerenti del
ragionamento di G.: per cui, ad essere rigoroso, egli dovrebbe dichiarare non
la riforma della psicologia, ma la sua soppressione radicale; e, quanto alla
filosofia, la sua estinzione irreversibile. Come è possibile continuare a
ragionare in termini filosofici, se dobbiamo prendere atto che non esistono
controparti, ma solo ambivalenze che è possibile tirare ora in qua e ora in là,
secondo il nostro umore del momento? Si badi: quello che propone G. non è
un pensiero complementare, come lo è - ad esempio - il taoismo, il quale,
giustamente, ci ricorda che non esiste luce senza buio, caldo senza freddo,
gioia senza dolore. No, si tratta qui di un relativismo puro e semplice: io
dico che questa cosa è calda, tu dice che è fredda; forse lo dirò anch'io,
domani, se me ne verrà la voglia; per intanto, abbiamo ragione tutti e due. Io
ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che entrambe sono vere, o che entrambe
possono esserlo, o che entrambe lo sono state o lo saranno. Il
relativismo è una cattiva filosofia, anzi è l'impossibilità di fare
filosofia. Eppure, questi sono gli applauditissimi maitres-à-penser della
cultura odierna.Umberto Galimberti. Galimberti. Keywords: il sessuale,
l’immaginario sessuale, sesso, Why did the Romans need to distinguish between
‘amatus’ and ‘amicus’? -- amore, follia, jung, simbolo, sole-fallo, simbolo,
simboli di jung, I corpi d’amore, I corpi d’amore sessuale – immaginario
sessuale, immaginario collettivo sessuale, cose dell’amore, platone, il
convito, I corpi, I gesti – I gesti dei corpi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Galimberti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Galli: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Carru). Filosofo italiano. Celestino Galli. Interesting
philosopher. Not to be confused with Galli.
Grice e Galli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’amore – scuola di Montecarotto – filosofia anconese –
filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecarotto). Filosofo italiano. Montecarotto,
Ancona, Marche. Compiute gli studi classici con assoluta regolarità, si iscrive
alla Facoltà di Filosofia a Roma, dove ha come maestri, tra gli altri, Varisco
e Barzellotti. Da Varisco apprende il rigore del metodo negli studi filosofici.
Da Barzelotti aprende la passione per le ricerche storiche e le vaste
esplorazioni letterarie. Si laurea sotto Barzellotti con il massimo dei voti
dopo aver discusso “Kant e SERBATI” (Lapi, Citta di Castello); Insegna a
Senigallia, Bologna, e Firenze. In “I principii della scuola, con particolare riguardo
alla scuola elementare” (Il Risveglio Scolastico, Milano). Insegna a Cagliari e
Torino. Figura centrale della filosofia italiana, G. esordisce con una ricerca
sullo sviluppo della filosofia kantiana e quella di SERBATI; temi che non solo
non si stanca mai di ampliare ma affina in ulteriori indagini. Esegue vaste
indagini sulla storia della filosofia. Socrate, Platone, Aristotele, Cartesio,
BRUNO (si veda), Leibniz, e Renouvier.
«L'uno e i molti” (Chiantore, Torino) certifica la teoria. Gli procura
l'interesse di larga parte del mondo filosofico italiano per le conclusioni sui
rapporti tra il sentimento e la reflessivita. Ampie le discussioni, e talora
vivacissime, su autori contemporanei, dai quali esige rigore, chiarezza e
intransigenza speculativa. Organo di polemiche e di interventi nella vita della
cultura italiana contemporanea è «Il Saggiatore», da lui fondata, Privo di
ambizioni mondane, sempre affabile, ama la compagnia delle persone colte e la
conversazione delle anime semplici, destinate al bene e alla verità. Confida
soprattutto nella scuola, veicolo ideale per dare alle generazioni nuove
volontà, serietà, cultura adeguata ai tempi. Una scuola che studia, senza
divagare e che sappia attingere costantemente alle fonti del sapere, ama
ripetere. Grazie al suo ininterrotto lavoro di studioso, il mondo accademico
italiano ha beneficiato di un numero impressionante di sue pubblicazioni, fatto
di saggi, manuali per le scuole, opuscoli e articoli per riviste specializzate.
Si dedica all'arte e alla religione, completando, in questa maniera, il
panorama delle sue indagini. La Scuola media statale di Montecarotto ha
aggiunto all'intestazione il nome di "G.". Altre saggi: La filosofia teoretica dei
manuali, Oderisi, Gubbio, Dialettica dello spirito” (I., Oderisi, Gubbio); “Lineamenti
di filosofia, Azzoguidi, Bologna; La dimostrazione dell'esistenza del mondo
esterno e il valore pratico delle qualità sensibili secondo Cartesio, Oderisi,
Gubbio); Renouvier. II. La legge del numero, D. Alighieri, Milano, Le prove
dell'esistenza di Dio in Cartesio (Valdes, Cagliari);:La dottrina cartesiana
del metodo, D. Alighieri, Milano); “La filosofia di Leibniz: Facoltà di
Magistero, Torino, Statuto, Torino); “Studi cartesiani, Chiantore, Torino); “Cartesio,
Chiantore, Torino, “Dall'essere alla coscienza, Chiantore, Torino); “L’idealismo”
(Gheroni, Torino); “PComenio, Gheroni, Torino); “La Filosofia greca: I sofisti,
Socrate, Platone. Torino. Facoltà di Magistero. heroni, Torino, Leibniz, Milani,
Padova); “Carlini ed altri studi; da Talete al "Menone" di Platone; il
problema di Cartesio, per la fondazione di un vero e concreto immanentismo,
Gheroni, Torino, Corso di storia della Filosofia: Aristotele, Gheroni, Torino, Da
Talete al menone di Platone, Gheroni, Torino, Tre studi di filosofia: pensiero
ed esperienza, sulla persona, su Dio e sull'immortalità, Gheroni, Torino Socrate
ed alcuni dialoghi platonici: Apologia, Convito, Lachete, Eutifrone, Liside, Jone,
Giappichelli, Torino, Linee fondamentali d'una filosofia dello spirito, Bottega
d'Erasmo, Torino, L'idea di materia e di scienza fisica da Talete a Galileo,
Giappichelli, Torino, L'uomo nell'assoluto, Giappichelli, Torino, La vita e il
pensiero di Giordano Bruno, Marzorati, Milano Sguardo sulla filosofia di
Aristotele, Pergamena, Milano, Platone, Pergamena, Milano; Di carattere
pedagogico Filosofia (Oderisi, Gubbio). Idealismo, spiritualismo ed
esistenzialità nella metafisica in Galli; Cartesio, in Italia. Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 51, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Persée. Portail de revues en sciences
humaines et sociales, su persee.fr. There is another Galli, who also did
philosophical studies – but his brother was more famous, the author of Tabula
philologica. Platone FEDRO
FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, e vado a fare una
passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal
mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio
delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza
più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia
era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì , alloggia da Epicrate, nella casa di
Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete
trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi?
FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come?
Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete
trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? (4)
FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate,
l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era,
non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene
tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in
modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama
piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere
un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte
quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i
suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di
ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo
Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te.
FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò
in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri
contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi!
Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco
Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra
cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una
volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e
quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è
bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti
bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è
stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso
ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato
fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di
ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi
potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma
quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come
se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se
non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso
quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di
gran lunga migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non
mi lascerai assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo.
SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate,
non l'ho proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il
concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la
condizione di chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per
sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami
che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia
proprio il discorso. Se è così , tieni presente che io ti voglio molto bene, ma
se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue
esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto,
Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci
sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso,(7) poi ci
sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a
essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi
facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto
più in questa stagione e a quest'ora.(8) SOCRATE: Fa' da guida dunque, e
intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano?
SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui
sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO:
Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a
quanto si dice Borea ha rapito Orizia?(9) SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio
da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle
fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù,
dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: (10) appunto là c'è
un altare di Borea. 2 Platone Fedro FEDRO: Non ci ho mai fatto
caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia
vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una
persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di
Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo
morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure
dall'Areopago,(11) poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non
da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie
di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non
altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli
Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di
tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero di altri esseri straordinari dalla
natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di
questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà
bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il
motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo
l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13) quindi mi sembra ridicolo
esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò
mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede
riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me
stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta
fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per
natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.(14) Ma cambiando discorso,
amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto
frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed
essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il
platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può
sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un
luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e
molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro
delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in
dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi
perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo
eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero
strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e
non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi
sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io
sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla,
gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina
per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati
agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu,
tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai
in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento,
ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui
pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a
conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che
queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo
perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici
che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non
viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici
secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per
provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano
considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici
che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver
reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non
amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per
questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli
amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non
resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito
quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande
considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di
coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi
agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il
vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è
chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male.
D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha
una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di
allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che
assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza,
una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui
decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore
degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più
adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che
quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza
corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere,
è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come
si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a
tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più
padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini.
Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti
accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono
discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio
si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad
accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario
parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai
paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti
queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai
più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è
trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue
doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi
odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato,
ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che
dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti
degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e
aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è
loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà
finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano
tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro
amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come
ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore
dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni
dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare
odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro
desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna
fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro
che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che
agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me,
innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente,
ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso,
senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco
e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e
cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia
che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere
amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran
conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici
fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma
da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha
bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori,
ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la
massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è
il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di
essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno,
verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca
gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi
è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo
chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua
giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno
partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne
vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non
coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo
stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16)
FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io
scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma
dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra
i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i
casi nella maniera migliore. 4 Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli,
Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha
tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che
nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle
dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e
sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per
farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato
cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro
che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da
qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In
qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire
cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me
niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo,
che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un
vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite.
FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi
riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo
proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno
diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime;
quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una
statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei
carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha
sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò,
credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per
incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo
che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano,
abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza
degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è
necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a
chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la
disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da
lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò
che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così:
ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non
ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di
maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a
Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul
serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi
che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto
dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione
per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei
capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti
che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella
frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me
stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in
mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi
di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più
forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e
vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato
Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti,
da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è
la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una
cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela!
FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti
giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti
giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano,
non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno.
SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo
amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti
giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo
giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla!
SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo
essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile
e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO:
Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla
voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così
chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me
il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo
compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di
più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui
molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato
meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno,
saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere
chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto,
fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto:
bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai
più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro
cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio
della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si
accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò
che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se
si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama,
stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza
abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento,
esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un
desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose
belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama?
Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci
governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato,
è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo
bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo,
talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro.
Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale,
la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori
di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza.
La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte
parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede
il soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da
acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene
migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo
possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia
nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale
epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi che
designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben
evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto
tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente
più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio
irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una
volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente
dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo
trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23) Ma caro
Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino?
FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola,
contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo
sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso
sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono
lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la
causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente
potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare
col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui
bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente
questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente
verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi
è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato
il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone
resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso.
Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma
vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante
rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto
a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno
acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura
tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto
che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia
geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre
compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che
diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale
diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui
inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato,
così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante
di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe
fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso.
Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in
nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la
costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone,
dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà
seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole
ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta
invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti
altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a
ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un
punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra
come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli
amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar
perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo,
cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la
protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli
si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari,
più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre,
parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima
compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli
penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato,
trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto
del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante
si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a
lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto della
6 Platone Fedro sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio
ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio
all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque
mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come
rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno per
un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la
compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte
più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta
del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi
piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro
stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se
l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a
una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe
mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben più chi
non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona
infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie
ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto
per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà
cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo,
bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce
assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi
amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto,
Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso.
FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole
per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando
quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei
accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio
mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che
farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi
hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti
sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti,
che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi
si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io,
attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te
a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata
la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota?
Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più
fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e
semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante
la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di
persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio
eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E
ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora
non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando
stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino
che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per
fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di
andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa
verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo,
ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò
comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un
che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il
discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo»
nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».(27) Ma ora mi
sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? 7 Platone Fedro
SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come
quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e
sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di
questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che
Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si
dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato
pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è,
un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi
pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque
hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è
proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle
arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno
fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi;
per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito
purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato
della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da
amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo
discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti
alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato
Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di
loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver
diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo
scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto
dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu
intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e
quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse
innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre
diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono
gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe
l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno
mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri
che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì , Socrate. SOCRATE: Io dunque,
per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros, desidero
sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso d'acqua
dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a
parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO:
Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante,
sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso
sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei.
FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui
parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con
troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie parole.
FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia.
SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era
di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi
accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque
parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza
di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è
in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda
a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più
grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la
profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da
mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati,
mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della
Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata
da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte
persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita
certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi
coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o
riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più
bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma
considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo
nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la
"t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del
futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli
altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano
assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la
denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola
nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica.(31) Perciò,
quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e
l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella,
secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto
all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in
coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie
e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a
causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi,
attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il
tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per
chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto
vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di
un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e
altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi
educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8
Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente
grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da
quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle
opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non
dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di
intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a
quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria
dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi
all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare
il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande
felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo
sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo
alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue
opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale.
Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da
altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò
che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di
muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose
dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che
tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia
origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe
più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche
incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né
altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così
principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né
nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico,
resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita
e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si
proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione
dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene
dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno,
cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è
così , ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di
necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto
a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia,
sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire
invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve;
parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza
costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli
aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono
misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due
cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è
contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda,
è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che
senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende
cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora
nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo,
se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a
qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che
per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto
di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale.
Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso
razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un
dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo
eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace
al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la
quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza
dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo
dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte
le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che
è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo
grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e
contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo
alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo
segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia
resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di
dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo
l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il
cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo
ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo
può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto
per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste,
dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono
facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del
male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non
l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema.
Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità,
procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le
trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo.
Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il
luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il
coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che
realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato
solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere
della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è
nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui
preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo
l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione
ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa
compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9
Platone Fedro non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che
in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi
chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere;
e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono
e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno
alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla
mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare.
Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel
migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga
verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma
essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il
capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza
riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano
tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e
trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di
arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita
del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime
restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la
grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere
e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per
cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è
questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si
trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in
volo. Questa è la legge di Adrastea. L'anima che, divenuta seguace del dio,
abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e
se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non
riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente,
riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda
le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna
natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior
numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare
filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima
che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un
uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto
ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che
sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del
corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore
ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro
di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano
o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del
popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la
vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto
contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo
donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo
periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza
inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro
di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita,
rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano
indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca loro
un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di
espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla
Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente
alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre,
giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che
ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi
una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non
ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve
comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una
molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la
reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere
assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il
capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo
mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è
sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo
che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a
misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si
distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso
dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo
dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania,
quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera
bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace
guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così
subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine
questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva
dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è
chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha
contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente.
Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla
portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per
breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al
punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà
che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in
misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù,
restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano,
perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della
temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è
splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle
immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del
modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo
splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro
dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a
quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in
perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano
attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica
visioni perfette, semplici, immutabili e 10 Platone Fedro beate in
una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo
corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica.
Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio
delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza,
come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati
qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in
quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta
delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di
vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla
nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà
degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò
che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o
è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza
in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando
guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e
a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha
timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato
di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto
d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di
corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di
allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il
flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera.
Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde
l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno,
è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta.
In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la
stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare;
ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare
ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui
che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso
d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa
di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di
questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene
in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di
tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina
perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di
cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con
lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio;
infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza
l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge
il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi
invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti
metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi
da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non
del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros
alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può
credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è
proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus,
riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle
ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui,
quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono
sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno
conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e
imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima
esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati
e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo
il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e
l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro
amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per
natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono
innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si
erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e
imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le
tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono
stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando
entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne
assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo
partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa
all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le
Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il
più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era
cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose.
Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo
il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una
volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione
e 11 Platone Fedro l'ammaestramento portano l'amato ad assumere
l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza
comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma
cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con
il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente
amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle
e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in
stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo.
Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna
anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga,
questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli
diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il
vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque,
quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e
ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi
neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama
veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e
la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio
e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di
sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede
a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la
visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed
è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce
docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si
trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i
pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con
violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga
li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri
d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti
ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al
male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare
quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione
folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla
natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo
assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che
le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le
redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno,
spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro
voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta
l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla
caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare,
coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e
debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di
nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di
rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi
fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e
trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i
medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la
coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora
più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al
cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del
cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a
terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo
malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza,
umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo,
muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante
segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere
pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non
simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico
di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone
che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a
chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del
tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia;
infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un
buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere
accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza
dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che
tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a
confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò
nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri
luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di
Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante
dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un
soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là
dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso
gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la
incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle
crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama,
ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di
dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in
grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso
nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa
esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed
è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è
sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno
come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo,
giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando
dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire
all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante
fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio
e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua
grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da
rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare;
ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12 Platone Fedro si
oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti
migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla
filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché
sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male
dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e
leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la
temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più
grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di
filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro
momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le
anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la
scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta
che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente,
poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono
in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne
sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più
grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe
all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col
desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro
mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il
cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino
sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il
viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme
per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti
darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama,
mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere,
dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù,
la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila
anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa
palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a
causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole
poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per
queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera
l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei
fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo
detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del
discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla
filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo
amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros
in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera,
Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il
tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che
Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso.
Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo
proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò
forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo,
la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi
che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava
dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva,
Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il
massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a
lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere
chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso
il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli
uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare
propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a
tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li
devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non
capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico
per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il
consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o
entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita
se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare,
mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto
assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso
scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge,
l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo
scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni.
FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa
attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o
un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario
(45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse
egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la
stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi
allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia,
lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO:
Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il
proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé
lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe
questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e
disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene
e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo
proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia
pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore?
FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire,
vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui
bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi
tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati
servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in
questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e
discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi
due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci
lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci
deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in
questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la
fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle
Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel
dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è
questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si
addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46)
Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che
nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di
loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di
cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine
la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver
bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare
senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire
chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore
riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più
graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre,
secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che
viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella
filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei
discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per
molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora
bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo
proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è.
FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e
decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero
riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho
sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di
apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla
moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che
sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla
verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono
i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per
questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione.
SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi
persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non
conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro
reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi...
FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso
che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino
chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di
essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile
per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in
molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è
forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO:
Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il
male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni,
facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma
l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni
della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi
che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO:
Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico,
abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto?
Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non
costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio
consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa
dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce
le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte».
FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi
che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra
di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per
iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO:
Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno?
Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE:
Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle
stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no?
SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora
buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che
il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli
ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in
movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova
solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che
si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno
sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili
e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa
cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se
cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica
di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di
pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che
non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che
se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione
di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con
precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è
necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado
di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con
le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno
opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa
impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così
. SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco
la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da
ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione
di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque,
amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci
offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare
di sì . 15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso
di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che
definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa,
poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati.
SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due
discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le
parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne
attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle
Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono,
poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia
come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del
discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito
che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui
sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse
evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste
cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma
esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola
"ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa
cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto"
e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e
siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO:
Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO:
è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la
retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è
evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve
innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere
peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi
nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo,
Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che,
nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba
percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende
parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore
appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni
controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello
che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia
l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo
eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo
ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione
dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè,
quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe
dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi
che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non
ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e
in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso
seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso.
Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio
lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia
utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere
ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si
pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...».
SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette
mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e
prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso
di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è
certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE:
E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla
rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche
necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli
argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia
detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza
di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto
questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se
credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso!
SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere
costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non
essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle
estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO:
Come no? 16 Platone Fedro SOCRATE: Esamina dunque il discorso del
tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce
in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida
il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare?
SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che
l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte
lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci
senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene
recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso,
Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi
sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione,
cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In
essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è
conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano
opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO:
E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con
mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è
una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di
mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento
divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro
parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito
l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica
alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa
è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa,
forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada,
abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo
levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in
onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E
almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE:
Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal
biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il
resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a
caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a
coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel
ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in
uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui
si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa
su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o
male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato
chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici,
SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le
idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna
parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa
concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da
un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte
destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro,
ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei
nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono
amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di
essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per
sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle
sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare
ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento
li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di
cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa
l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati
abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di
doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi
procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del
discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze
dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una
narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le
verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che
dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il
valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno
fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il
bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi
indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi
indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E
lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia
da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire
grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e
al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le
prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo
da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i
discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO:
Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che
anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come
parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la
ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse
dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59)
FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo
tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle
cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la
povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo
d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi
nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e
potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci
sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni
danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare
per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli
argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da
aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena
di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto
in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e
quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del
popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro
trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri.
SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo
padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da
riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli
vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento
che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare
medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che
direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche
a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura?
SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi
ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che
chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue
capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni
necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte
a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre
una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della
medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo
che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha
scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più
saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna
essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della
dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza
di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte,
hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri
ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i
loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre
ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme,
come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia
proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini
insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia
detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è
veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un
perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che
sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un
retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una
di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non
mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco.
FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle
sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché?
SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi
celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di
condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle,
oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi,
credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e
giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali
Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte
dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere
dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In
entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra
quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con
arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e
nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù
offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile
che sia così , Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere
la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura
dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli
Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la
natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il
discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO:
Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il
discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di
qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere
esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o
multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua
natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da
che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per
ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è
portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire,
che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo
privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece
persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un
sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con
arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i
suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE:
Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre
persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e
chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà
e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e
tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo
è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo
luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in
virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE:
In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro
proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di
discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi
e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa.
19 Platone Fedro FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto
pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo
non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento.
Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono
scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare;
perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere
da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE:
Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è
possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte.
FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida
delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia
quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di
conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che
le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche
le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini
di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo
su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo
motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve
innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il
loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di
seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai
niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando
sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali
discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se
stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a
suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi
discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta
che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti
giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia
discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o
indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è
realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi
di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte,
vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro
scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro
modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo,
Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per
questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche
parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non
procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne
una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato
da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo.
FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso.
SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni
che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro,
si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così
anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e
levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come
abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere
sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità
circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione,
poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su
queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui
si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna
neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile,
ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi
parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità;
poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta
quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono
quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono
ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e
sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose.
SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci
dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che
sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a
quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e
coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il
mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve
dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo
uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli,
e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia
condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non
ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà
subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le
cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro?
FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero
sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque
luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o
no... FEDRO: Cosa? 20 Platone Fedro SOCRATE: Questo: «O Tisia, da
tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo
verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo
spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze.
Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo;
altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non
enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di
dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea,
non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo.
E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il
sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli
uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in
modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra
noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non
i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che
discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene,
in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi
tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno
bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si
stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace.
SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque
cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a
proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque
sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e
della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece
sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei
discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le
tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia
tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da
soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai
fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho
sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli
antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome
della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la
geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine
anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella
grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre
chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti
e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale
fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro
senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando
poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli
Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato
il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose:
«Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale
danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene.
Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello
che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della
memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza,
perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri
estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco
non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai
tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte
cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più
le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori
di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità
discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio
caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona
venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti
come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una
roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che
parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno
così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla
scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di
tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella
convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo,
dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di
Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare
alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo.
SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di
simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose
vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La
medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino
come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di
ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e
21 Platone Fedro solo identico. E, una volta che è scritto, tutto
quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è
competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e
non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato
ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di
difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue
parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro
discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua
natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come,
secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza
nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi
bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato
di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine.
SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno
pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli stessero
a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli
in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse?
E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi
dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che
quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così ,
Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici.
SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e
buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO:
Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera,
seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé
con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No,
almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e
scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un
tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga «alla
vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a
vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, ristorandosi
nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto
pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo.
FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che
è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla
giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro
Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno,
facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina
discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se
stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza
dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di
rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice
quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello.
SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle
altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le
quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a
Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti
con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi
sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma
ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non
conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in
grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa
dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più
divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura
dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il
discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima
variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non
sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe
dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in
precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così
. SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e
scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no,
non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo
detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti
d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica,
nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il
biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere
realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero
evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse.
FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su
qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso
con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e
neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere
sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22
Platone Fedro ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per
aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei
discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo
scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza,
compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano
essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca
in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli
di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il
loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro,
è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io
voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto
riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e
digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo
ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri
componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica,
e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei
testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo
com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla
prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di
quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col
nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con
serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente,
Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio;
chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e
conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non
possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto,
rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o
separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore
di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno!
FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno.
SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate?
Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio
dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti
naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia
temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da
meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora
pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai
discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo
spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro
amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose
da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo
Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più
mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di
metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di
questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di
fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il
sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante,
possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da
parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per
me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! 23 Platone
Fedro NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto
secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che
gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo,
originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è
ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca. 3) Epicrate era un oratore
democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un
cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente
bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. 5) Erodico di Megara,
divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di
vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel
Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano
caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7) Piccolo fiume che scorre
vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. 9)
Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio
concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata
poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo
dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove
aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di
carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati
dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera
era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di
serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime
due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo
sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato
dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto
Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te stesso» era appunto il precetto
scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del
Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al
termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo
mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine
il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco
c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene
paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare',
'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a
"tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa
uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella
traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei
fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre
ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una
locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281. 17) Saffo è la
famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C.,
autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in
nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e
parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del
sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui
restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa
si allude nel passo. Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica,
giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a
Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19) Cipselo fu tiranno di
Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui
si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro
intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. 21)
Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco
gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e
"ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico
è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del
canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e
"róme" ('forza'). Il ditirambo, componimento lirico corale associato
al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine
ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata
da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. 25) L'immagine è
ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco
dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a
seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o
inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge
l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli
interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page. Poeta lirico corale
del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro,
poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la
vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò
per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride
non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze;
questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non
avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà
una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio
dalle accuse che gli aveva mosso. 24 Platone Fedro 29) A Delfi, in
Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca
della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di
Zeus. Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di
Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla
di Cuma, in Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike",
viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il
composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a
"oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a
"oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal
volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere
ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento
della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga
alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga
rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei
due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui
il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima
impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione
dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel
Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre
qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale,
come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e
bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a
quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti
opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione
di conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella
cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era
immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le
divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34)
L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo
metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità
trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. 35)
Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione
del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene
qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi,
argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo
della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente
determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della
verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di
verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato
su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per
assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri"
('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'),
"ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano
una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo
stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude
ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra
"Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da
"pterós" ('alato'), probabilmente suggerito da quei passi omerici
(Iliade libro 1, versi 403-404; libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui
si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è
impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo
"Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso
con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di
Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede, bellissimo fanciullo frigio, in
forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli dèi. Per il
gioco linguistico su "imeros", la nota 36. 41) L'espressione
significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di
per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre
una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il
senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre
differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta
bisognava atterrare l'avversario tre volte. Figlio di Cefalo e fratello di
Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. 43) Ad
Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che
obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano
fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che
preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di
Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine
ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto
equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai
compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine, un
po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata
una difficile. Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la
tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i
sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593 a.C.), una riforma
dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base
al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485 a.C., fu il promotore della
prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue è probabilmente creazione
platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre
discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene
ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le
cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. 47) Sulla
scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno
nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con
Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. 25 Platone
Fedro 48) Omero, Iliade libro 2, verso 361. 49) Per Spartano qui si
intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e
lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli
altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era
famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore
era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di
Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità
oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto
vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica;
a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano
pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto
nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in
modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro
di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un
trattato di retorica. 53) Allusione ironica a Zenone di Elea (quinto secolo
a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i
concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e
di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il leggendario re della Frigia che per
avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro
tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere
diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma
citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. Poeta e sofista
contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore, assieme
a Corace, della scuola retorica siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei più
importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di
Socrate. 58) Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due
dialoghi di Platone. 59) Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli
di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si
allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a
proposito di Protagora. 60) Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo
dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale
esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo
religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo,
sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane
delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione
dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile
oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8
Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio
contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto
secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al
massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità
oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni
ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale
del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al
mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos,
vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina
antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui
e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel
cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un
emporio commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio
dell'invenzione, che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la
testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone
assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la
considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la
trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. 66)
«La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re
dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle
principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e
identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a
Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di Adone» erano
recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e
subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il
bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di
scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di
gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione
orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338
a.C.) fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di
lui restano 21 orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città
greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione
contro i Persiani. 70) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste
del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia
e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come
protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la
preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza
della sapienza. Platone Il Convito APOLLODORO Credo proprio di essere bene
informato di quello che mi chiedete. Infatti, l'altro giorno, me ne stavo
venendo in città, da casa mia, dal Falero, quando uno che conoscevo, vedendomi
di spalle, mi chiamò da lontano e, con tono scherzoso, mi fa: «Apollodoro il
falerese, m'aspetti un momento?» lo mi fermo e l'aspetto e quello: «Ti stavo
cercando ansiosamente, Apollodoro, perché volevo sapere qualcosa di preciso sui
discorsi che fecero Agatone, Socrate, Alcibiade e tutti gli altri, al
banchetto, discorsi d'amore, a quanto pare; me ne ha accennato un tizio che ne
aveva sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo, ma mi disse che ne eri
al corrente anche tu. Lui, in realtà, non ne sapeva molto. Raccontami tutto tu,
quindi, perché nessuno meglio di te, può ripetermeli, i discorsi del tuo amico.
Ma, prima di tutto, c'eri o non c'eri a quella riunione?» «Si vede proprio che
questo tizio ti ha male informato se credi che quella riunione di cui stai
parlando è avvenuta poco tempo fa e che io, quindi, vi abbia potuto
partecipare.» «Credevo di sì.» «E come hai fatto a pensarlo, Glaucone? Non sai
che da parecchi anni, ormai, Agatone non s'è più visto qui e che, d'altra
parte, non ne son passati ancora tre da quando io me la faccio con Socrate, che
gli sto sempre dietro, per conoscere quello che dice e quello che fa? Prima
d'allora gironzolavo qua e là e mi pensavo di far chissà che cosa, mentre ero
l'essere più miserabile che c'era sulla faccia della terra, come te, adesso,
che credi ci siano altre cose da fare meglio della filosofia.» «C'è poco da
prendere in giro. Dimmi, piuttosto, quand'è che c'è stata questa riunione.»
«Eravamo ancora ragazzi e fu quando Agatone s'ebbe il premio per la sua prima
tragedia, precisamente il giorno dopo i sacrifici che lui e quelli del coro
vollero fare per festeggiare la vittoria.» «Allora ne è passato del tempo! Ma a
te chi te n'ha parlato. Proprio Socrate?» «Magari. Fu, invece, la stessa
persona che ne parlò a Fenice, un certo Aristodemo, del distretto di Cidateneo,
uno mingherlino, sempre scalzo. Era presente alla riunione perché era un patito
di Socrate, più di tutti, a quel tempo. Ad ogni modo, di quanto mi riferì
costui volli chiederne anche a Socrate che mi confermò quanto l'altro m'aveva
raccontato.» «E, allora, perché non me lo racconti anche a me? Questa strada
che porta in città è proprio fatta apposta per conversare.» Strada facendo,
così, ci mettemmo a parlare di questo ed ecco perché, come vi ho detto in
principio, sono al corrente della cosa. Se devo, quindi, raccontarla anche a
voi, eccomi pronto, anche perché, quando si tratta di filosofia, sia che ne
parli io o che ne senta parlare, provo sempre un immenso piacere, a prescindere
dal vantaggio che penso di ricavarne. Quando, invece, sento certi discorsi, i
vostri specialmente, discorsi di gente ricca, di persone d'affari, che barba,
ma anche che pena, amici miei, che vi credete di far chissà cosa e poi non fate
il resto di nulla. Può essere che voi, da parte vostra, mi crediate un povero
diavolo e supponiate che, in effetti, io lo sia, ma di voi, io non lo suppongo
soltanto, ne sono convinto. AMICO Sei sempre lo stesso tu, Apollodoro, sempre
che dici male di tutti e di te stesso; io credo che per te, tranne Socrate,
tutti gli altri siano soltanto dei disgraziati, tutti quanti, a cominciare da
te. Perché poi ti chiamino «il Tranquillo», questo proprio non riesco a
capirlo, con tutti i tuoi discorsi sempre così aspri verso gli altri e te
stesso, tranne, appunto, che per Socrate. APOLLODORO Ah, sì? Io, dunque,
bellezza, dato che penso così di voi e di me, sarei un pazzo e un esagitato?
AMICO Ma ora lasciamo perdere questo, Apollodoro, piantiamola di litigare, e,
come t'abbiamo pregato, raccontaci quali furono questi discorsi. APOLLODORO E
va bene, presso a poco furono questi... ma, aspettate, sarà meglio che
incominci dal principio, come me li ha riferiti Aristodemo. Egli mi riferì di
aver incontrato Socrate tutto bello lisciato, con un paio di sandali ai piedi
(cosa stranissima) e di avergli chiesto dove stesse andando tutto così bello. E
Socrate: «A pranzo da Agatone; ieri, infatti, alla premiazione per la sua vittoria,
riuscii a svignarmela perché tutta quella folla mi dava fastidio, ma gli
promisi che, oggi, sarei andato da lui. Ecco perché mi son fatto bello: lui è
un bello e, sai com'è. Ma perché non vieni anche tu, che fa, anche se non sei
stato invitato?» Ed io, così mi riferì Aristodemo: «Va bene, come vuoi.» «E
allora andiamo,» fece, «e cambieremo il proverbio dicendo che ‹a, pranzo, dal
buon Agatone, van senza invito le brave persone›. Del resto, Omero, non solo
l'ha modificato, questo proverbio, ma l'ha addirittura capovolto: infatti,
mentre ci ha sempre descritto Agamennone come un guerriero in gamba e Menelao,
invece, come uno smidollato, ecco che ti fa presentare quest'ultimo, senza
essere invitato, a pranzo da Agamennone, che aveva allora allora fatto un sacrificio
e si stava mettendo a tavola, lui, un mediocre, alla mensa di un valoroso.» E
Aristodemo: «Ma Socrate, corro anch'io, allora, questo rischio, non come dici
tu ma nel senso che scrive Omero, di andare, cioè, io, uomo da nulla, senza
essere invitato, a pranzo da un sapiente. Vedi tu, che mi ci porti, come devi
metterla per giustificarti, perché io non dirò che son venuto da me, ma che sei
stato tu ad invitarmi.» «Ma sì, andiamo, ci penseremo per la strada a quello
che dobbiamo dire.» Si dicevano questo, mi raccontava Aristodemo, quando si
posero in cammino. Ma, lungo la strada, Socrate si fece pensieroso, meditando
chissà su che cosa, e restandosene indietro e quando lui si fermava per
aspettarlo, gli diceva di andare pure avanti. Quando Aristodemo giunse alla
casa di Agatone, trovò la porta aperta e qui, mi disse, gli capitò un fatto
curioso: un servo gli corse subito incontro e lo condusse dove i convitati
erano già tutti seduti, in procinto di mettersi a pranzo. Appena Agatone lo
vide: «Oh, Aristodemo,» fece, «arrivi proprio al momento giusto, per mangiare
un boccone con noi; se è per qualche altro motivo che sei venuto, lascialo per
dopo. Ieri ti ho cercato, proprio per invitarti, ma non sono riuscito a
trovarti. E Socrate? Come mai non è con te?» «Io mi volto indietro,» continuò a
raccontarmi, «e, infatti, non lo vedo più. Dissi, allora, che ero con lui e
che, appunto da lui ero stato invitato a quel pranzo.» «Hai fatto benissimo, ma
dov'è che s'è cacciato?» «Un attimo fa era dietro di me; sarei proprio curioso
di sapere anch'io dove può essere andato.» «Suvvia, ragazzo, non ti sbrighi?»
fece Agatone, «va a vedere dov'è Socrate e tu, Aristodemo, siediti là, vicino a
Eressimaco. Continuò a raccontare così, che mentre un servo gli dava da lavarsi
per mettersi a tavola, un altro venne a dire che quel bel tipo di Socrate se ne
era andato nell'atrio della casa vicina e se ne stava lì tutto immobile: «L'ho
chiamato,» riferì, «ma lui non vuol venire.» «Ma che sciocchezze stai dicendo?»
gridò Agatone. «Torna a chiamarlo, insisti.» «Allora, intervenni io,» mi
raccontò sempre Aristodemo, «pregandolo di lasciarlo tranquillo perché era una
sua abitudine quella di isolarsi tutt'a un tratto, e di restarsene immobile
dovunque si fosse trovato: ‹Vedrete che verrà, ne sono certo, ma ora non lo
disturbate, lasciatelo tranquillo›.» «Ah, va bene, va bene, se lo dici tu,»
commentò Agatone. «Però voi, ragazzi, ora portateci da mangiare. Voi mi mettete
in tavola sempre quello che vi passa pel capo, se non vi si sta addosso, ed io
non me ne son mai presa troppo la briga; ma oggi, fate conto come se foste
stati voi ad invitare queste persone e me e quindi, trattateci bene e fatevi
onore.» Così mi raccontò che si misero tutti a mangiare e che Socrate, intanto,
non si faceva vivo. Spesso Agatone insisteva. perché lo mandassero a chiamare,
ma lui lo sconsigliava. Finalmente Socrate fece la sua comparsa e non s'era
mica fatto aspettare poi tanto tempo, come di solito faceva: cioè quando il
pranzo era circa a metà. E Agatone che stava seduto in fondo: «Qua, qua,»
esclamò, «Socrate vieniti a sedere vicino a me, così, gomito a gomito, con un
sapiente, io potrò godere della grande scoperta che hai fatto davanti ai portoni;
è chiaro che qualcosa l'hai dovuta pur sempre scoprire, altrimenti mica ti
saresti mosso, tu.» E Socrate, sedendosi: «Sarebbe una bella cosa, Agatone, se
la sapienza potesse scorrere da chi ne ha di più a chi ne ha di meno, soltanto
che ci si mettesse uno vicino all'altro, come l'acqua che attraverso un filtro
passa dal bicchiere pieno a quello vuoto. Se anche per la sapienza è così io
sarò onoratissimo di starmene al tuo fianco; sono convinto che sarò colmato da
parte tua di tanta e bella sapienza, perché, vedi, la mia, seppure ne ho, è ben
misera, assai discutibile, vaga come un sogno, mentre la tua, invece, così
luminosa, così ricca di possibilità, tanto che, proprio ieri, nonostante la tua
giovane età, s'è rivelata e ha brillato in tutto il suo fulgore davanti a più
di trentamila greci.» «Sei un mascalzone tu, Socrate,» fece Agatone, «ma fra
poco ce la vedremo, io e te, in fatto di sapienza e giudice sarà Dioniso.
Intanto, per ora, pensa a mangiare. E così, continuò a raccontarmi Aristodemo,
Socrate si sedette e quando ebbe finito di mangiare, insieme agli altri, fece
le libagioni, poi cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti
dovuti e poi si misero a bere. A un tratto, mi riferì Aristodemo, Pausania se
ne uscì in queste parole: «Ehi, amici, non possiamo andarci più piano?
Francamente devo dirvi che mi sento male dopo la gran bevuta di ieri e che devo
pigliare un po' di respiro; e così, penso anche per molti di voi: ieri
c'eravate un po' tutti. Guardate, dunque, com'è che ci possiam moderare un
po'.» E Aristofane: «Pausania ha ragione. Non scherziamoci troppo col vino; io
mi sento ancora come una spugna zuppa, per ieri.» E allora intervenne
Eressimaco, il figlio di Acumeno: «Ottima idea. Su, coraggio, voglio sentirne
qualche altro; e a te, Agatone, come va col vino?» «Macché, anch'io niente
bene.» «Benissimo,» s'infervorò Eressimaco; «è proprio una fortuna per me, per
Aristodemo, per Fedro e per tutti quanti gli altri se voi, che in fatto di bere
ce la mettete tutta, oggi non vi sentiate in forma: di fronte a voi, infatti,
siamo dei pivellini. Per Socrate è un altro discorso: lui se la cava benissimo
sempre; sia che oggi si beva o meno, lui è sempre a posto. Ma, dato che, mi
pare, qui, oggi, nessuno ha troppa voglia di bere, io credo che se vi parlassi
dell'ubriachezza e del male che fa, la cosa non vi sarebbe sgradita; come
medico, è chiaro, devo dirvi che ubriacarsi fa male e che io non vorrei mai
bere più di un tanto e darei lo stesso consiglio agli altri, specie quando il
giorno prima s'è alzato un po' troppo il gomito.» «Sicuro,» intervenne Fedro,
quello di Mirrinunte; «sai che ti ascolto sempre, specie quando parli da
medico; e farebbero bene ad ascoltarti anche questi altri, se hanno un po' di
giudizio.» E così si trovarono tutti d'accordo di evitare una sbornia, per
quella volta e bere ciascuno per quel che gli andava. E poiché, ora,»
riprese Eressimaco, «siamo d'accordo che ognuno potrà bere solo quello che
vuole senza che nessuno stia lì ad obbligarlo, io propongo di mandare a spasso
la suonatrice di flauto, che è entrata ora (che se ne vada a suonare per conto
suo o, dentro, dalle donne) e noi, invece, di restare un po' qui, oggi, a
chiacchierare insieme; potrei anche dirvi di cosa, se volete.» Tutti, allora,
almeno così riferì Aristodemo, approvarono e lo esortarono a proporre
l'argomento. E così, Eressimaco, incominciò: «Inizio come la Melanippe di
Euripide, non sono mie le parole che sto per dirvi, infatti sono di Fedro. È
Fedro che ogni volta, tutto sdegnato, mi dice: ‹Non è una indecenza,
Eressimaco, che i poeti si mettano a comporre inni e canti a tutti gli dei e
che per Amore, invece, per un dio di quella specie, per un dio così grande, non
ce ne sia uno, tra tanti, che abbia scritto un solo verso di lode? Se pigliamo
i sofisti di fama, quello stesso grand'uomo di Prodico, per esempio, ti
scrivono in prosa di Ercole o di altri; e questo sarebbe niente se non mi fosse
capitato tra le mani il libro di un gran cervellone nel quale, costui, non
faceva niente po' po' di meno che l'elogio sperticato del sale e della sua
utilità: di questi elogi ne puoi trovare dovunque, in abbondanza. E pensare che
si spreca tanta fatica per simili argomenti e, poi, per Amore non s'è ancora
trovato nessuno, almeno fino ad oggi, che s'è sentito di celebrarlo degnamente:
ecco come si tratta un dio simile.› Secondo me Fedro ha proprio ragione.
Quindi, è mio desiderio fargli questo regalo e mostrarmi compiacente e, nello
stesso tempo, profittando dell'occasione, niente di meglio, a mio avviso, per
tutti noi, di rendere onore a questo dio. Se siete d'accordo anche voi potremmo
passare il tempo così: ognuno di noi, cioè, io penso, per esempio partendo da
destra, dovrebbe fare un discorso in lode di Amore, si capisce meglio che può;
e che cominci proprio Fedro che è il primo della fila e che, d'altro canto, è
stato lui proprio a darci l'idea per un simile argomento.» «Nessuno sarà
contrario, Eressimaco,» intervenne Socrate, «a cominciare da me che affermo di
essere un esperto soltanto in cose d'amore, né Agatone, né Pausania,
figuriamoci poi Aristofane che tra Bacco e Venere, ci passa la vita, e nemmeno
questi altri a quanto vedo. C'è un fatto però, che noi che siamo seduti
quaggiù, per ultimi, veniamo a trovarci in svantaggio; comunque, se i primi
diranno quel che devono dire e lo diranno bene, a noi basterà. E, allora, buona
fortuna, Fedro, comincia a fare le lodi di Amore.» Al che tutti quanti
approvarono e fecero eco alle parole di Socrate. Ora, quello che ciascuno
disse, Aristodemo non lo ricordava bene e, dal canto mio, io stesso, ora, non
ricordo più, tutto quello che lui mi riferì, tranne le cose più importanti e,
perciò, vi potrò ripetere solo quei discorsi che mi parvero più degni di
ricordo. E, così, il primo a parlare, mi raccontò, fu Fedro che incominciò
presso a poco col dire che Amore è un dio possente, meraviglioso, tanto fra gli
uomini che fra gli dei per molte e tante ragioni ma, soprattutto, per quel che
riguarda la sua nascita: «Egli ha il vanto,» continuò Fedro, «di essere, fra
tutti, il dio più antico e, prova di questo è il fatto che non ha genitori e
mai nessuno ne ha parlato, prosatore o poeta che fosse. Esiodo ci dice che ci
fu dapprima il Caos: la Terra dall'ampio petto, sicura sede e poi per tutti
sempre e, poi, Amore Insomma, secondo questo poeta, dopo il Caos ci furono
queste due divinità: Terra e Amore. E Parmenide così narra la genesi: Primo di
tutti gli dei creò Amore Con Esiodo concorda Acusilao. Quindi, da più fonti, si
conviene che Amore è antichissimo. E, così com'è il più antico, è fonte, per
noi, di grandissimi beni. Io, infatti, non so se vi sia un bene maggiore che
avere, fin da giovani una persona virtuosa da amare o anche viceversa, che ci
ami. E, in effetti, niente come Amore può dare all'uomo quei principi che
valgono per vivere rettamente tutta la vita, non la nascita, non gli onori, non
la ricchezza, niente di questo. Ma a quali principi voglio alludere?, mi
chiedo: alla vergogna per le brutte azioni e al desiderio di buone, senza dei
quali né stati né individui possono mai realizzare qualcosa di grande e di
bello. E, inoltre, io dico che un uomo innamorato, sorpreso a commettere una
brutta azione o a subirla, se la sua viltà non gli consente di difendersi, non
proverà mai tanto dolore se lo vede il padre o l'amico o chiunque altro, quanto
se lo vedesse la persona amata, E lo stesso è per quest'ultima, che se fa
qualcosa di male si vergogna soprattutto se è vista da chi la ama. Oh, se ci
potesse essere una città o un esercito composto tutto di innamorati, non vi
sarebbe modo migliore di reggerlo e di vedere uomini rifuggire dal male e
rivaleggiare tra loro nelle belle azioni; in guerra, poi, messi uno al fianco
dell'altro, anche se in pochi, si può dire che vincerebbero il mondo intero.
Perché l'uomo innamorato sarebbe disposto ad abbandonare il suo reparto, a
gettare le armi sotto gli occhi di tutti, ma non dinanzi alla persona amata,
piuttosto preferirebbe centomila volte morire; e, d'altronde, abbandonare la persona
cara, non prestarle il suo aiuto se è in pericolo, non c'è nessun uomo tanto
vile cui Amore non riesca ad infondere il necessario coraggio, come se fosse
posseduto da un dio e renderlo uguale a chi è coraggioso di natura. Insomma, lo
stesso soffio divino che, a quanto dice Omero, un dio infonde in taluni eroi,
Amore, come un suo dono, suscita in quelli che amano.E poi, solo quelli che
amano sono pronti a morire per gli altri e non solo gli uomini ma anche le
donne. Vedi Alcesti, per esempio, la figlia di Pelia che per noi greci è la più
bella prova di ciò che dico, la quale fu la sola a voler morire al posto del
suo sposo che aveva pure un padre e una madre; costei fu tanto più sublime, nel
suo cuore di donna, acceso, appunto dall'amore, da far apparire i parenti di
lui quasi degli estranei al loro stesso figliolo, legati a lui soltanto dal
nome. E questo gesto fu giudicato così bello non solo dagli uomini ma anche
dagli dei, che questi, pur concedendo solo a pochi, tra i tanti che compiono
belle imprese, il privilegio di vedersi restituita alla luce la loro anima,
consentirono a questa fanciulla il ritorno alla terra, commossi del suo gesto;
questo dimostra che gli dei apprezzano moltissimo lo zelo e la virtù che
nascono dall'amore. Orfeo, invece, il figlio di Eagro, te lo rimandarono fuori
dall'inferno senza che avesse ottenuto nulla, mostrandogli solo la falsa
immagine della sua donna, per la quale egli era sceso nell'Ade e non gliela
restituirono, considerandolo un debole (suonatore di cetra com'era) perché non
aveva avuto il coraggio di morire per amore, come Alcesti, ma, vivo, era
riuscito a penetrare nell'Ade e con l'astuzia. Ecco perché gli inflissero
questa punizione e lo fecero morire per mano di donne. Non così Achille che
onorarono invece e mandarono alle isole dei beati perché per quanto egli fosse
già stato avvertito dalla madre che se avesse ucciso Ettore sarebbe morto
mentre se l'avesse risparmiato sarebbe ritornato in patria e lì avrebbe finito
vecchio i suoi giorni, preferì scendere in campo per Patroclo, per l'amico che
amava e vendicarlo e morire per lui, non solo, ma per lui morto; per questo gli
dei profondamente ammirati gli resero onori grandissimi, come quello che aveva
tenuto così alto nel suo cuore l'amico amato. Eschilo dice un'inesattezza
quando afferma che era Achille l'amante di Patroclo, lui che non solo era più
bello di Patroclo ma di tutti gli altri eroi, imberbe ancora e quindi molto più
giovane di lui come dice Omero. La verità, però, è che gli dei pur onorando
assai questo sentimento d'amore, volgono più la loro ammirazione, le loro lodi
a colui che ricambia l'amore di chi lo ama, piuttosto che a quest'ultimo. Colui
che ama è cosa più divina di chi si lascia amare, perché un dio lo possiede;
per questo gli dei onorarono maggiormente Achille che non Alcesti e gli
dischiusero le isole dei beati. Per concludere io affermo che Amore è il più
antico degli dei, il più degno di onori, quello che più può infondere agli
uomini virtù e felicità, sia mentre vivono che dopo la loro morte.» Questo,
presso a poco, a quanto mi riferì Aristodemo, fu il discorso di Fedro. Dopo di
lui parlarono altri, però non ricordava molto. E così passò a riferirmi il
discorso di Pausania che prese a dire: «Non mi pare che tu abbia ben impostato
il tuo discorso, Fedro, così come hai troppo semplicisticamente fatto le lodi
di Amore. Se, infatti, Amore fosse uno solo, la cosa sarebbe potuta anche
passare; ma il fatto è che non è uno soltanto e quindi è più giusto precisare
prima qual è che bisogna lodare. Ed è a questo errore che io cercherò di
rimediare, in primo luogo dicendo quale Amore convenga lodare e poi facendone
in modo degno l'elogio. Tutti riconoscono che non si può concepire Venere senza
Amore. Se di Venere ce ne fosse una sola, lo stesso dovrebbe dirsi di Amore, ma
poiché due sono le Veneri, due saranno anche gli Amori. Non sono forse due le
dee? Una, la più antica, che non ebbe madre, la figlia del Cielo, che appunto
chiamiamo Celeste, l'altra, più giovane, figlia di Giove e di Dione, che
chiamiamo Pandemia. Ne consegue che l'Amore che convive con quest'ultima,
giustamente vien chiamato Pandemio, l'altro, Celeste. Gli dei, in verità,
bisogna onorarli tutti, ma ora, di questi due, occorre pur dire quali sono gli
attributi. Intanto, ogni azione ha questo di caratteristico: che per se stessa
non è mai bella o brutta. Per esempio: quello che noi ora stiamo facendo, cioè
bere, cantare, discutere, in se stesso, non è che sia bello, ma lo diventa dal
modo con cui questa azione viene compiuta: onestamente e rettamente, è bella,
altrimenti, la stessa azione è cattiva. Lo stesso è quando si ama: non ogni
Amore è bello o degno di lode, ma solo quello che spinge a nobilmente
amare.«Orbene, l'Amore che convive con la Venere Pandemia, è ovvio che sarà
anch'egli Pandemio, cioè volgare e si comporta un po' alla carlona; questo tipo
d'Amore vien prediletto dai mediocri che non fan differenza a giacersi con
donne o giovincelli di cui amano, oltretutto, più il corpo che l'animo, anzi
preferiscono gli esseri sciocchi, tutti presi come sono dall'atto carnale,
senza un briciolo di buon gusto, e accade così che finiscono per comportarsi
come capita, bene o male che sia. Questo perché un simile Amore deriva dalla
Venere più giovane che, nascendo, s'ebbe i caratteri della femmina e, insieme,
quelli del maschio. L'altro Amore, invece, deriva dalla Venere Celeste che
anzitutto non partecipa della natura femminile ma solo di quella maschile (e
questo è l'amore per i giovinetti) e, in secondo luogo è più antica e immune da
ogni forma di libidine. Così, quelli che sono infiammati da questo Amore,
volgono le loro predilezioni al sesso maschile presi come sono da ciò che, per
natura, è più vigoroso e dotato di più aperto intelletto. E in questa passione
per i giovani è facile riconoscere quelli che sono nobilmente infiammati da
questo Amore; costoro, infatti, non si legano ai giovani se non quando questi
hanno già una loro maturità intellettuale e vedono spuntare la prima barba. Io
penso, infatti, che chi per amarli attende che essi giungano a questa età, lo
fa per poter convivere poi tutta la vita con loro in una dolce intimità e non
per ingannarli, per approfittare della loro ingenuità e sbeffarli, piantandoli
poi in asso per correre dietro a un altro. Anzi ci vorrebbe proprio una legge che
vietasse di aver relazioni amorose con i minorenni, per evitare che si sciupi
tempo e fatica per un esito incerto; con i ragazzi, infatti, non si sa mai come
vada a finire, se faranno una buona riuscita o meno, sia per quel che riguarda
le doti fisiche che per quelle morali. I galantuomini se la pongono da sé
questa legge, ma per i dongiovanni da quattro soldi, sarebbe proprio necessario
far qualcosa in proposito, così come abbiamo impedito, meglio che s'è potuto,
che avessero rapporti intimi con donne di condizione libera. Sono questi che
han fatto degenerare la cosa a tal punto che ora c'è gente che afferma che è
brutto corrispondere chi ci ama; e lo dice proprio perché ha davanti agli occhi
l'esempio di questi tipi, privi affatto di buon gusto e di un minimo di pudore,
giacché nessuna cosa, se è fatta nei dovuti limiti e secondo onestà, può
giustamente tirarsi dietro un qualche biasimo. Negli altri Stati, intanto, le
leggi sull'amore non sonio di difficile interpretazione, regolate da principi
assai semplici, così come concettosi e ingarbugliati sono da noi. Nell'Elide,
per esempio o a Sparta o anche in Beozia, dove la gente non è abituata a far
bei discorsi, viene, molto semplicemente, riconosciuto che è bello
corrispondere chi ama e nessuno, giovane o vecchio che sia, si sognerebbe di
dire che è cosa brutta; questo, a mio avviso, perché non vogliono pigliarsi
troppo la briga di persuadere i giovani, inesperti come sono nell'arte del
dire. Nella Ionia, invece, e in molte altre parti dove predominano popolazioni
non greche, la cosa è ritenuta vergognosa; presso i popoli stranieri, del
resto, proprio per i loro regimi tirannici, anche l'amore che uno può portare
alla sapienza o alla ginnastica, è cosa disonesta. Infatti, io penso che ai
governanti non convenga che sorgano tra i sudditi nobili e forti proponimenti o
salde amicizie o identità di vedute, tutte cose, queste, che è proprio l'amore,
di solito, a far nascere. E questo l'hanno imparato anche qui da noi i
nostri tiranni, come l'amore di Aristogitone e l'intrepida amicizia di Armodio,
abbiano distrutto il loro potere. Pertanto, là dove si ritiene che è cosa
disonesta corrispondere chi ama, ciò è dipeso dalla mediocrità dei legislatori,
dall'arroganza dei governanti e dalla viltà dei sudditi; laddove, invece, la
cosa è ritenuta senz'altro bella, in linea assoluta, è stato per la pigrizia di
chi ha fatto la legge. Quindi, da noi, vige una consuetudine più bella che
altrove ma, come dicevo prima, non è facile, però, interpretarla. «Si
pensi, infatti, che da noi si reputa più bello amare alla luce del sole che di
nascosto, amare, poi, soprattutto, chi è virtuoso e nobile anche se è più
brutto degli altri e che si dà un incoraggiamento straordinario a chi ama, non
ritenendo affatto che la sua sia un'azione vergognosa, anzi è motivo di
orgoglio riuscire nel proprio intento ed è quasi un disonore, invece, fallire
nella conquista e che la legge accorda all'amante, per le sue imprese amorose,
la libertà di fare cose addirittura straordinarie e di riceverne lode, cosa che
se uno facesse con altre intenzioni e per altri fini, si tirerebbe addosso il
biasimo di tutti. Se uno, infatti, volendo farsi dare del denaro da qualcuno o
desiderando ottenere un pubblico impiego o qualche carica, si mettesse a fare
quel che gli amanti fanno per i loro fanciulli, suppliche, scongiuri, per
ottenere quello che bramano, i giuramenti che fanno, tutte le notti che passano
fuori davanti all'uscio del loro amore, tutti i servizi a cui si piegano,
quelli più infimi, cui nessuno schiavo s'adatterebbe, costui si vedrebbe
ostacolato in questo suo modo di fare, non solo dagli amici ma anche dai suoi
avversari che gli rimprovererebbero queste smancerie e questo servilismo,
richiamandolo al dovere e vergognandosi per lui; se tutto questo uno, invece,
lo fa per amore, acquista addirittura pregio e la nostra legge glielo consente,
senza che su di lui ricada biasimo alcuno, come se, in effetti, compisse una
cosa bellissima. Ma quello che è ancora più straordinario è che, a quanto
dicono i più, solo a chi ama è concesso, quando giura e poi non mantiene il
giuramento, di ottenere il perdono degli dei perché, a quanto si dice, in amore
non c'è giuramento che valga. È per questo che sia gli dei che gli uomini hanno
concesso, a chi ama, un'assoluta libertà, come ci provano le nostre leggi.
Tutto questo autorizzerebbe a credere che in questa nostra patria, amare e
corrispondere chi ama è ritenuta cosa bellissima. Eppure quando i genitori ti
mettono alle calcagna dei loro figlioli un pedagogo, col preciso incarico di
tenerli lontani dai loro corteggiatori, quando i compagni e i coetanei fanno
quasi succedere uno scandalo se si accorgono di qualcosa del genere, mentre i
più anziani lasciano che dicano e non intervengono a queste esagerate reazioni,
a guardar bene tutto questo sembrerebbe proprio che qui da noi l'amore sia
considerato cosa del tutto disonesta. Il fatto è, a mio avviso, che la cosa sta
invece così: non c'è nulla di assoluto, come accennai prima, e niente è bello o
brutto per se stesso, ma diventa l'uno o l'altro a seconda che sia fatto bene o
male. Così, l'amore diventa cosa spregevole se, senza alcun buon gusto, uno si
concede a un essere spregevole, è cosa bella, invece, quando lo si fa
onestamente con persona onesta. Ed amante del tutto indegno, volgare, è colui
che ama più il corpo che l'animo, perché costui, infatti, non è costante, preso
com'è da cosa che non dura. Quando, infatti, sfiorisce la bellezza del corpo,
di quel fiore che amava, egli ‹fugge lontano, scompare› e addio promesse e belle
parole. Chi, invece, ama qualcuno per la bellezza del suo animo, gli resta
fedele per tutta la vita, perché s'è congiunto a cosa che dura. Perciò le
nostre leggi si prefiggono di ben individuare tutti costoro per accordare, agli
uni, ogni favore e mettere al bando gli altri e per questo si esortano gli
amanti a insistere nelle loro profferte e gli amati a schermirsi, cercando
così, per questa specie di gara, di stabilire a quale delle due categorie
appartengano gli uni e gli altri. Per questo motivo è ritenuta gran brutta
cosa, prima di tutto, lasciarsi sedurre, così, in quattro e quattr'otto, senza
dar tempo al tempo, che, in fondo, si sa, per tante cose è un gran maestro; in
secondo luogo, lasciarsi incantare dal denaro o dalle prospettive di cariche politiche,
sia che il giovane per qualche violenza subita si intimorisca e si metta in
condizione di non reagire, sia che, prospettandogli la possibilità di far
denaro o di avere successo in politica, egli non vi rinunci sdegnosamente:
infatti, nessuna di queste cose è sicura e durevole, oltre al fatto, poi, che
da esse non potrà mai nascere una lunga amicizia. Quindi, secondo la nostra
legge, non c'è che una strada perché l'amato possa onestamente corrispondere e
compiacere l'amante, ed è questa: come non è affatto vergognoso e umiliante,
per chi ama, sottoporsi per il suo amore, a ogni sorta di schiavitù, così c'è
una sola servitù volontaria, non indecorosa o infamante: quella che ha per
oggetto la virtù. «Ed è norma ancora, da noi, che se uno si mette al servizio
di un altro ritenendo che ciò possa contribuire a renderlo migliore nel campo
del sapere o in qualche altra virtù, questa sottomissione volontaria non è
vergognosa, né servile. Occorre, pertanto, che queste due norme, quella
sull'amore dei giovinetti e quella sul desiderio di acquistar sapienza o
qualsiasi altra virtù, si fondano insieme se si vuole che sia veramente una
cosa bella che il giovane conceda le sue grazie a un amante. Infatti quando
l'amante e la persona amata s'incontrano, ciascuno, ligio a una sua precisa
condotta, cioè l'uno disposto a servire il giovane che gli ha concesso i suoi
favori e a servirlo onestamente, l'altro, con la stessa onestà, a seguire la
volontà di chi lo rende sapiente e migliore e quando il primo sia veramente capace
di dare senno e virtù e l'altro veramente desideroso di educarsi e d'acquistar,
in ogni modo, sapienza, quando questo avviene, quando queste due direttrici
convergono a un unico fine, oh, allora, si è cosa bella che la persona amata
conceda i suoi favori a chi l'ama, altrimenti niente da fare. In questo caso
essere ingannati non è nemmeno mortificante; in tutti gli altri casi, ingannati
che si sia o meno, c'è da arrossir di vergogna. Se un giovane, infatti, in un
miraggio di ricchezza, si è lasciato sedurre per denaro e poi resta ingannato
perché s'accorge che il suo seduttore è povero, questo giovane, compie
un'azione molto spregevole, perché s'è rivelato quel che egli era: un uomo
capace di darsi a chiunque per sete di denaro e questo non è bello. E per un
ragionamento analogo, se lo stesso giovane, invece, si fosse concesso a persona
virtuosa, riconoscendo che sarebbe divenuto migliore proprio in virtù di quella
corrispondenza e poi fosse stato ingannato perché il suo amante s'è rivelato
persona del tutto mediocre, priva di qualsiasi virtù, ebbene questa delusione è
motivo di compatimento; infatti, egli ha dimostrato di esser pronto a dar tutto
se stesso a chiunque, ma per la virtù e pur di diventar migliore, e questo,
certo, è tra tutte, cosa bellissima. In conclusione, il concedersi per
ottenere, in cambio, virtù, è bello. Questo è l'Amore della dea celeste,
celeste egli stesso, degno in tutto di venerazione da parte dello stato come
dei singoli individui, che spinge gli amanti e le persone amate, ciascuno per
quel che gli compete, a preoccuparsi soltanto d'essere virtuosi. Quanto agli
altri amori, provengono tutti dalla Venere Pandemia, volgare. Questo è quanto
ho improvvisato, Fedro, così su due piedi, a proposito di Amore.» Dopo la pausa
di Pausania (guarda un po' che giochetti di parole ti sto a fare, che
m'insegnano i dotti), a quanto ebbe a riferirmi Aristodemo, toccava ad
Aristofane, senonché, vuoi per la pienezza di stomaco, vuoi per qualche altra
causa, costui aveva il singhiozzo e, quindi, era nell'impossibilità di parlare.
Si rivolse, allora a Eressimaco, il medico, che gli era seduto accanto: «Cerca
di liberarmi da questo singhiozzo, Eressimaco,» gli disse, «o, almeno, prendi
tu la parola, finoa quando non si sarà calmato.» «Cercherò di venirti incontro
in un modo e nell'altro; parlerò io al tuo posto e poi interverrai tu quando ti
sarà passato; intanto cerca di trattenere il respiro per qualche minuto e
vedrai che il singhiozzo se ne andrà, oppure bevi un sorso d'acqua, fai dei
gargarismi e, se persiste, prendi qualcosa che ti solletichi il naso e cerca di
starnutire e vedrai che, con un paio di starnuti, per quanto ostinato, ti
passerà.» «Sì, ma tu sbrigati a parlare,» insistette Aristofane, «intanto io
cercherò di fare come tu dici.» E così Eressimaco incominciò: «A mio
avviso, mi par necessario che cerchi di concludere il discorso che Pausania ha
iniziato così bene ma che poi non ha portato a termine. Che Amore sia duplice,
ci sembra distinzione esatta; ma che esso non alberga solo negli uomini
attratti dalle belle creature, ma in tutti gli altri esseri, a loro volta presi
per altre forme, negli animali, per esempio, nelle piante e comunque in tutte
le creature viventi, io credo di averlo dedotto dalla medicina, la nostra arte
e, altresì, come Amore sia grande e meraviglioso iddio, presente ovunque in
ogni cosa umana e divina. Comincerò, quindi, a trattar l'argomento da un punto
di vista medico, anche in omaggio a questa arte. La natura dei corpi è tale che
essi hanno in sé questo duplice Amore; infatti, per il corpo, malattia e salute
sono, come tutti sanno, due condizioni diverse e contrarie e, come tali,
perciò, non appetiscono e non desiderano mai le stesse cose. In poche parole,
altro è il desiderio che prova la parte sana, altro quello che sente la parte
malata. E come Pausania diceva poco fa che è bello concedersi a un amante
virtuoso e vergognoso è, invece, darsi a un dissoluto, lo stesso è anche per i
corpi per cui è cosa bella, anzi doverosa, favorire lo sviluppo delle parti
sane di ciascun organismo (e, in fondo, proprio questo è il compito del medico)
ed è male, invece, farlo per le parti malate per le quali occorre agire con
intransigenza, se si è veramente capaci nell'arte medica. Infatti, la medicina,
per dirla in breve, è la scienza che studia le tendenze affettive
dell'organismo nel suo riempirsi e svuotarsi e chi sa distinguere in queste
tendenze, le buone dalle cattive, costui è un gran medico; chi, poi, queste
tendenze le sappia anche modificare o suscitarne una al posto dell'altra o
stimolarne qualcuna laddove non ve ne siano e invece dovrebbero esservi o,
addirittura, cancellare quelle che vi sono, costui, allora, sarà proprio un
maestro eccellente. Bisogna, infatti, che le parti di un organismo che sono tra
loro incompatibili si riconcilino e trovino una loro reciproca armonia. E gli
elementi più incompatibili sono quelli contrari, freddo e caldo, amaro e dolce,
secco e umido e così via; e poiché ad aver saputo conciliare ed armonizzare
tutti questi contrari è stato nostro padre Asclepio, egli, come dicono questi
poeti e come anch'io sono convinto, è il fondatore di questa nostra scienza.
Tutta la medicina, dunque, come vi sto dicendo, è governata da questo dio, come
del resto la ginnastica e l'agricoltura. Quanto alla musica, poi, basta un
minimo di riflessione perché tutti comprendano che essa si comporta alla stessa
stregua delle altre arti, come anche Eraclito, del resto, forse vuol dire,
sebbene non si esprima in termini molto chiari: ‹L'unità in sé discorde,› dice,
‹con se stessa s'accorda, come l'armonia dell'arco e della lira.› Ora, è
assurdo pensare che l'armonia sia mancanza di accordi o che nasca da elementi
ancora discordanti tra loro. Egli, forse, voleva dire che essa nasce da
elementi prima discordanti, l'acuto e il grave, per esempio, che si son poi
accordati per virtù della musica; infatti, non è certo possibile che l'armonia
risulti da suoni tuttora discordi tra loro quali l'acuto e il grave. In verità,
l'armonia è consonanza e la consonanza è accordo; non è possibile, ora, che vi
sia accordo da cose discordi finché restino tali, come impossibile è che vi sia
armonia quando gli elementi discordanti non abbiano trovato il loro accordo;
così come anche il ritmo, del resto, che risulta dal veloce e dal lento prima
discordi tra loro ma poi armonizzati insieme. E l'accordo fra tutti gli
elementi, come per quelli di prima era dato dalla medicina, così per questi è
dato dalla musica che produce, quindi, tra loro, reciproca armonia e
corrispondenza. La musica, quindi, per quanto riguarda il ritmo e l'armonia, è
scienza d'amore. Non è difficile, poi, individuare nella stessa costituzione
del ritmo e dell'armonia questa sua peculiarità, in quanto in essa non vi sono
le due specie d'amore. Quando però si compongono ritmi e armonie per la gente
(ed è questa, propriamente, ciò che si chiama composizione musicale) o si
eseguono fedelmente melodie e partiture altrui (e questo è virtuosismo), allora
sì che viene il difficile e occorre un bravo artista. E qui si torna al
discorso di prima, cioè che bisogna compiacere alle persone per bene o a quelle
che ancora non lo sono ma vogliono diventarlo e conservarsi il loro amore che è
poi quello bello, quello celeste, l'amore di Afrodite Urania; quello di
Polimnia, invece, è l'amore pandemio, volgare, cui bisogna concedersi con
prudenza e che dobbiamo, a nostra volta, con prudenza concedere per goderne
senza tuttavia farne abuso. Del resto, anche nella nostra scienza è molto
importante sapersi ben destreggiare con i desideri per la buona cucina in modo
da saperla gustare senza poi ammalarsi. E così nella musica, nella medicina e
in tutto il resto, sia nelle cose umane come in quelle divine, occorre tener
presenti, per quanto possibile, l'uno e l'altro amore, dovunque contenuti
entrambi. «E anche le stagioni dell'anno, nella loro successione, son
colme di questi due amori e quando gli elementi contrari di cui parlavo prima,
il caldo e il freddo, il secco e l'umido, cadono sotto l'influenza dell'amore
benigno che li armonizza e li compone sapientemente, allora le stagioni recano
abbondanza e salute agli uomini, agli animali e alle piante e non portano alcun
danno. Quando, invece, ha il sopravvento l'altro amore, con tutta la sua
violenza, ecco, allora, rovine e distruzione ovunque, ecco la causa di pestilenze
e di molti altri simili morbi per gli animali e le piante; e, infatti, il gelo,
la grandine, la rubigine derivano dalla violenza e dal disordine con cui si
manifestano queste tendenze d'amore. La scienza che, attraverso il moto degli
astri e il succedersi delle stagioni indaga questi fenomeni, si chiama
astronomia. Inoltre, tutti i sacrifici e i riti a cui presiede l'arte
profetica, nel loro insieme (sono essi a mantenere un rapporto tra gli uomini e
le divinità) non hanno altro scopo che di custodire e salvaguardare l'Amore;
ogni scelleratezza, infatti, nasce perché non si dimostra buona disposizione
nei riguardi dell'amor benigno, né, in quel che si fa, lo si tiene nella dovuta
stima e lo si onora. Cose, invece, che si concedono tutte all'altro amore, sia
per quel che riguarda i rapporti con i propri genitori, vivi o morti che siano,
sia quelli con gli dei. A queste cose, appunto, l'arte profetica è destinata,
per cui deve sorvegliare gli amori e apprestarne i rimedi; e la divinazione è
all'origine dell'amicizia tra gli dei e gli uomini in quanto, delle tendenze
umane, conosce quelle che si volgono alla giustizia e alla pietà. Dunque, tanto
grande e vasta, anzi, universale è la forza d'Amore, ma quello che si volge al
bene con saggezza e giustizia sia nei nostri rapporti umani che in quelli degli
dei tra loro, ha forza ancora maggiore e ci dà la felicità e ci fa vivere nella
concordia e nell'amicizia con tutti e con chi è migliore di noi, cioè con gli
dei. Forse anch'io ho tralasciato molte cose, mio malgrado, in questo elogio
d'Amore; se l'ho fatto, è compito tuo Aristofane rimediarvi; se, invece, vuoi
onorare il dio in altro modo, fallo pure, dato che il singhiozzo t'è passato.»
E così, mi riferì Aristodemo, cominciò a parlare Aristofane che disse:
«Veramente è passato ma solo con lo starnuto, tanto che io mi meraviglio come
il corpo umano, così ben fatto, abbia proprio bisogno di tanto rumore e
solleticamenti, come lo starnuto. Sta di fatto, però, che il singhiozzo è
cessato appena ho starnutito.» «Ma, mio caro Aristofane,» ribatté Eressimaco,
«sta un po' attento a quel che fai; ti metti a far dello spirito proprio ora
che devi parlare e così mi costringi a stare sul chi va là per ogni tua parola,
nel caso ti saltasse in mente di dirle grosse, e sì che potresti parlar
tranquillamente.» «Hai ragione, Eressimaco,» ammise Aristofane, ridendo, «fingi
come se non avessi detto nulla. Ma non stare sul chi va là mentre parlo perché
io ho proprio paura, non tanto perché, forse, con quello che sto per dire, farò
ridere, il che potrebbe essere anche piacevole e coerente con la mia musa, ma
perché mi farò invece deridere.» «Sì, sì, va bene, Aristofane, tu prima lanci
il sasso e poi nascondi la mano; mettici attenzione, invece, e parla come se
dovessi dar conto di quello che dici; da parte mia, intanto, vedrò di lasciarti
tranquillo.» Per dir la verità, Eressimaco,» cominciò Aristofane,
«io avrei in mente di fare un discorso diverso da quello tuo e di Pausania. Io
credo, infatti, che di tutta questa potenza dell'Amore, gli uomini non se ne
siano accorti per niente, altrimenti gli avrebbero innalzato templi grandiosi,
altari, gli farebbero sacrifici magnifici e, invece, nulla di tutto questo
mentre sarebbe la prima cosa da fare. Nessuno come lui, tra tutti quanti gli
dei, è amico degli uomini, viene in loro aiuto, cerca di curarne i mali, la cui
guarigione, forse, sarebbe la più grande felicità del genere umano. Quindi, io
cercherò di svelarvi la sua potenza e voi, a vostra volta, la rivelerete agli
altri. Per prima cosa, dovete rendervi conto cosa sia la natura umana e quali
siano state le sue vicende; per il passato, infatti, essa non era quella che è
oggi. Nel principio, tre erano i sessi dell'uomo, non due, il maschio e la
femmina, come ora: ce n'era un terzo che aveva in sé i caratteri degli altri
due, ma che oggi è scomparso e del quale resta soltanto il nome: l'ermafrodito.
Esso, infatti, era un essere a sé stante che, nell'aspetto esteriore e nel
nome, aveva dell'uno e dell'altro, cioè, del maschio e della femmina; oggi,
ripeto, non resta che il nome che, per di più, ha un significato infamante.
Inoltre, la figura di questo essere umano era arrotondata, dorso e fianchi
formavano come un cerchio; aveva quattro mani e quattro erano pure le gambe;
aveva anche due facce, piantate su un collo anch'esso rotondo, completamente
uguali e attaccate, in senso opposto, a un unico cranio; aveva quattro
orecchie, doppi gli organi genitali e, da tutto questo, possiamo immaginarci il
resto. Camminavano in posizione eretta, come noi, volendo potevano spostarsi in
qualunque direzione e, quando correvano, facevano un po' come i nostri
saltimbanchi che gettano in aria le gambe e capriolettano su se stessi: e
poiché gli arti erano otto, appoggiandosi su di essi, procedevano, a ruota,
velocemente. I sessi erano tre, perché quello maschile aveva avuto origine dal
sole, quello femminile dalla terra e l'altro, con i caratteri d'ambedue, dalla
luna, dato che quest'ultima partecipa del sole e della terra insieme: perciò
avevano quell'aspetto e si spostavano rotolando, perché somigliavano a quei
loro progenitori. Avevano una resistenza e una forza prodigiosa, nonché
un'arroganza senza limiti, tanto che si misero in urto con gli dei e quel che
dice Omero di Efialte e di Oto, che tentarono di scalare il cielo, va riferito
a costoro. «E così Giove e gli altri dei si consigliarono sul da
farsi ma non seppero risolversi: non era il caso di ucciderli, infatti, come i
Giganti, e di estinguerne la specie a colpi di fulmine (il che sarebbe stato
come far sparire onori e sacrifici agli dei da parte degli uomini) e del resto
non era possibile continuare a sopportare oltre la loro tracotanza. A furia di
pensare, Giove, finalmente, ha un'idea: ‹Ho trovato il sistema,› esclamò,
‹perché gli uomini sopravvivano ma, nello stesso tempo, divengano più deboli e
la smettano con la loro prepotenza. Ecco che li taglierò, ciascuno, in due,›
continuò, ‹così diventeranno più deboli, e, dato che aumenteranno di numero
potranno esserci anche più utili. Cammineranno su due gambe e, se non si
metteranno tranquilli e faranno ancora i prepotenti, li taglierò ancora e cosi
impareranno a camminare su una gamba sola, come nel gioco degli otri.› Detto
fatto, si mise a tagliare gli uomini in due come si tagliano le sorbe quando si
mettono a seccare, o come si divide un uovo col crine. E via via che tagliava,
poi, raccomandava ad Apollo che a ciascuno gli rivoltasse il viso e la metà del
collo dalla parte del taglio in modo che l'uomo, vedendosi sempre la sua
spaccatura, diventasse più mansueto; Apollo, infine, provvedeva a chiudere le
altre parti. Girava la faccia e, tirando la pelle, tutta verso quel punto che
noi ora chiamiamo ventre, come chi fa per chiudere coi lacci una borsa, faceva
una specie di groppo, che legava proprio in mezzo alla pancia, quello che noi
chiamiamo ombelico. Spianava, poi, le molte rughe e modellava il petto usando
un arnese un po' simile a quello che adoperano i sellai per spianare, sulla
forma, le grinze del cuoio: ne lasciava, però, qualcuna, nei paraggi del ventre
e intorno all'ombelico, in ricordo dell'antico castigo. Fu così che gli uomini
furono divisi in due, ma ecco che ciascuna metà desiderava ricongiungersi
all'altra; si abbracciavano, restavano fortemente avvinti e, nel desiderio di
ricongiungersi nuovamente, si lasciavano morire di fame e di accidia, non
volendo far più nulla, divise com'erano, l'una dall'altra. Quando, poi, una
delle due metà, moriva, quella rimasta in vita, se ne cercava un'altra e le si
avvinghiava, sia che le capitasse una metà di sesso femminile (che oggi noi
chiamiamo propriamente donna) che una di sesso maschile; e così, morivano.
Allora Giove, impietosito, ricorse a un nuovo espediente: spostò il loro sesso
sul davanti; prima, infatti, l'avevano dalla parte esterna e generavano e si
riproducevano non unendosi tra loro, ma alla terra, come le cicale. Dunque,
trasferì questi organi sul davanti e, così facendo, rese possibile la
procreazione attraverso l'unione del maschio nella femmina; lo scopo era quello
di far generare e di perpetuare la specie grazie a un simile accoppiamento tra
maschio e femmina; se, invece, l'unione fosse stata fra maschi, dopo un po'
sarebbe venuta sazietà da questo connubio e così, una volta separatisi,
sarebbero potuti ritornare al lavoro e alle altre cure della vita. Da tempi
remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore che li riconduce alle
origini e che di due esseri cerca di farne uno solo risanando, così, l'umana
natura. «Quindi, ciascuno di noi è come la metà di un unico
contrassegno, dal momento che fu tagliato in due, come le sogliole, e va
continuamente in cerca dell'altra metà. Ora, tutti quegli uomini che son
derivati dalla divisione di quel doppio essere, cioè, dall'ermafrodito, come
l'abbiamo appunto chiamato, sentono tutti l'attrazione per le donne e da lì
provengono anche la maggior parte degli adulteri; così pure hanno la stessa
origine le donne che vogliono il maschio e le adultere. Invece, le donne che
son derivate dalla divisione di un essere di sesso femminile, sono frigide nei
riguardi dell'uomo e sentono, piuttosto, attrazione per le altre donne e da qui
sono nate le lesbiche. Quegli uomini, infine, che son nati dalla divisione di
un essere maschile, van dietro ai maschi e, finché son ragazzi, per il fatto
che son parti di maschio, amano gli uomini e godono di giacersi stretti
abbracciati con loro. Questi sono i ragazzi, i giovinetti più in gamba, dotati
di un'indole virile; c'è della gente che dice che costoro sono degli
svergognati, ma sbaglia: non per impudenza, infatti, fanno questo ma perché
sono arditi, valorosi e virili e, come tali, cercano il loro simile. E questa è
la prova migliore: in età matura, soltanto costoro diventano dei veri uomini e
partecipano alla vita politica. Da adulti, poi, sono loro ad amare i fanciulli
e se non fosse perché la consuetudine un po' ve li costringe, se dipendesse
dalla loro natura, certo non penserebbero affatto a sposarsi e ad avere dei
figli, anzi sarebbero contentissimi di vivere così da scapoli. Insomma, da qui
nascono quelli che amano gli uomini o si lasciano da essi amare, preferendo
sempre chi ha la loro stessa natura. E quando uno incontra quella che fu la sua
metà, non solo chi si sente attratto verso i fanciulli, ma anche ogni altro,
sente allora nascere in sé quel sentimento di amicizia, di intimità, di amore
per cui non sa più vivere separato dall'altro, nemmeno un istante, tanto per
dire. E questi che passano insieme la loro vita non ti saprebbero nemmeno più
dire quello che vogliono per loro; e io penso che nessuno crederà che sia
soltanto l'attrazione fisica a tenerli così appassionatamente uniti; è certo
che l'anima loro cerca qualcos'altro, che non sa definire ma che vagamente
intuisce. Se, per esempio, mentre stanno dolcemente insieme, comparisse Efesto,
con gli strumenti del suo potere e chiedesse loro: ‹Cosa vorreste, uomini,
l'uno dall'altro?› e vedendoli incerti chiedesse ancora: ‹Non desiderate,
forse, diventare una cosa sola in modo che non possiate mai separarvi, né di
giorno né di notte? Se è questo che volete, io vi unirò, vi fonderò in una
stessa natura così che da due voi diventiate uno e la vostra vita la viviate
come un essere solo e quando morrete, anche laggiù, nell'Ade, possiate essere
uno solo invece di due, uniti da un'unica morte. Vedete un po', allora, se è
questo che desiderate, se è questo che vi basta ottenere.› Dunque. se udissero
queste parole, siamo convinti che nessuno dei due rifiuterebbe, nessuno
mostrerebbe di voler altro, anzi, ognuno penserebbe di aver finalmente udito le
parole che da tanto tempo sognava di ascoltare, diventare cioè di due una sola
cosa, unirsi, confondersi nella creatura amata. E la ragione di tutto questo è
che tale era la nostra antica natura e che noi eravamo uniti; e lo struggimento
per quella perduta unità, il desiderio di riottenerla, si chiama amore. Ripeto,
noi, prima eravamo un essere solo ma poi, per i nostri falli, da dio siamo
stati divisi, un po' come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani.
E c'è da temere che se non saremo obbedienti verso gli dei, verremo ancora
tagliati e vagheremo un po' simili a quelle figure in bassorilievo, segate in
due lungo la linea del naso, che si vedono sulle steli, ridotti come dadi a
metà. Occorre, perciò, che ogni uomo consigli gli altri ad essere pii verso gli
dei, sia per evitare questo male, sia per ottenere quel bene al quale Amore ci
volge e ci guida. Nessuno sia ostile ad Amore (chi lo è, è inviso agli dei);
perché se gli saremo amici, se ci riconcilieremo con questo dio, noi riusciremo
a trovare e a congiungerci con la nostra anima gemella, cosa che oggi capita a
pochi. E non insinui Eressimaco, canzonandomi per questo che sto dicendo, che
io voglio alludere a Pausania e ad Agatone (molto probabilmente essi sono tra
questi pochi e hanno entrambi natura virile). Ad ogni modo io dico, in
generale, di tutti, uomini e donne, che la razza umana sarà felice nella misura
in cui ciascuno realizzerà il suo amore e troverà la sua creatura amata,
ritornando così all'antica condizione. Se questo è il bene più grande, ne consegue
che, nelle presenti condizioni, la cosa migliore è quella che più gli si
avvicina: incontrare l'amante che meglio ci sappia corrispondere. Se, dunque,
vogliamo levar lodi al dio che ci può dar tutto questo, è ad Amore che dobbiamo
inneggiare il quale, per ora, favorisce il nostro incontro con chi ci è affine
e, un domani, ci darà le più grandi speranze che, se noi ci mostreremo
riverenti verso gli dei, ci restituirà l'antica natura e, risanandoci, ci
renderà felici e beati. Questo, o Eressimaco,» concluse, «il mio discorso su
Amore, diverso dal tuo, a quanto vedi. Come ti ho pregato, non starmelo a
canzonare, dato che dobbiamo ancora sentire quel che diranno gli altri, anzi
gli ultimi due, perché non sono rimasti che Agatone e Socrate.» «E
va bene, t'accontento,» rispose Eressimaco, «anche perché il tuo discorso m'è
proprio piaciuto; anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone son ferratissimi
in fatto d'amore, avrei proprio paura, con tutto quel che s'è detto, che
rimanessero a corto d'argomenti. Ma, nonostante questo, invece, mi sento
sicuro.» E Socrate, intervenendo: «Eh, già, Eressimaco, perché tu hai già detto
la tua e bene anche; ma se ti trovassi qui, al mio posto o meglio nella
posizione in cui mi troverò quando Agatone avrà finito anche lui di fare il suo
bel discorso, saprei immaginare la tua paura, e quanta anche, come ce l'ho io
adesso.» «Non m'incanti, Socrate,» fece, di rimando, Agatone, «tu vuoi proprio
confondermi facendomi credere che queste persone son tutte qui ad aspettare
chissà cosa dal mio discorso.» «E io, allora, sono uno smemorato, Agatone,»
replicò Socrate, «se credessi che ora tu hai paura di noi che siam qui in
pochi. Ho visto il tuo coraggio, la tua sicurezza quando sei salito sul podio
con gli altri attori e hai abbracciato con uno sguardo tutto il teatro pieno
zeppo, poco prima di rappresentare la tua opera.» «Ma che c'entra, questo,
Socrate?» ribatté Agatone. «Non mi crederai mica tanto infatuato per una
rappresentazione teatrale, da non capire che per uno che abbia un po' di buon
senso, poche persone intelligenti fan più paura di una folla di sciocchi?» «Non
sarebbe bello da parte mia, Agatone,» insisté Socrate, «se ti pensassi capace
di un pensiero volgare. So benissimo che se ti venissi a trovare fra persone
che tu ritenessi sapienti, ne saresti preoccupato più che se fossi in mezzo a
un mucchio di gente; il fatto è che noi non siamo tali e, del resto, c'eravamo
anche noi, lì, non più che folla tra la folla. Se tu, invece, ti incontrassi
veramente con dei sapienti, ti vergogneresti davanti a loro, se ti accorgessi
di far qualche brutta figura, non credi?» «Certo, dici bene,» ammise. «E se tu
la brutta figura la facessi davanti alla folla, non ti vergogneresti?» A questo
punto intervenne Fedro e: «Mio caro Agatone,» disse, «se stai lì a rispondere a
Socrate, te le saluto le cose che stavamo dicendo, ma tanto a lui non gliene
importa niente, basta che abbia qualcuno con cui discutere, specie poi se è un
bel ragazzo. Con questo non è che io non ascolti volentieri una discussione di
Socrate, ma certo che ora mi sta più a cuore l'elogio di Amore e avere, da
ciascuno di voi, il rispettivo discorso. Pagate al dio il vostro debito e poi
discuterete come vi pare.» «Dici proprio bene, Fedro,» esclamò Agatone; «niente
mi impedisce di parlare; con Socrate non mancheranno certo le occasioni per
discutere.» «Io desidero prima dirvi com'è che intendo impostare
il mio discorso, dopo entrerò nel vivo della questione. A me pare che tutti
quelli che hanno parlato finora non abbiano celebrato il dio ma soltanto posto
l'accento su quanto gli uomini siano felici per quei beni di cui, appunto, quel
dio è la causa; nessuno ha detto chi sia propriamente costui che ci offre tutti
questi beni. Orbene, l'unico metodo giusto per far qualsiasi elogio, di qualunque
cosa, è quello di illustrare prima chi sia, in effetti, quello di cui si parla
e poi di quali beni sia la causa. Ecco perché noi dobbiamo prima lodare Amore
per quel che egli è, poi per i doni che ci reca. Intanto io affermo che tra
tutti i beatissimi dei (se m'è lecito dirlo e non è peccato) Amore è il più
beato perché è il più bello e il più buono. Il più bello soprattutto perché è
il più giovane degli dei, Fedro. Egli stesso ce ne dà la prova migliore
fuggendo dinanzi alla vecchiaia che, tutti sanno, è veloce e ci casca addosso
più presto di quel che dovrebbe. Naturalmente Amore la odia e non le si
avvicina nemmeno da lontano. Giovane com'è, invece, sta sempre con i giovani e
ha ragione l'antico detto che il simile s'accompagna sempre al suo simile. Ed
io, pur consentendo con Fedro in molte cose, non condivido il fatto che Amore
sia più antico di Crono e di Giapeto. Ripeto, invece, che è il più giovane di
tutti gli dei, eternamente giovane e tutti quei vecchi fatti tra gli dei che
raccontano Esiodo e Parmenide, accaddero per opera di Necessità, non di Amore,
ammesso pure che quei due abbiano detto il vero. Non ci sarebbero state,
infatti, mutilazioni, catene e tutte quelle altre violenze se Amore fosse stato
in mezzo a loro, ma solo amicizia e concordia come è ora, da quando egli regna
sugli dei. Dunque egli è giovane e non solo, è gentile. Il fatto è che gli
manca un poeta, un poeta come Omero che ne esalti la delicata bellezza. Di Ate,
per esempio, Omero dice non solo che è una dea ma che, appunto, è delicata
(almeno i suoi piedi sono tali), quando scrive: morbidi sono i suoi piedi che
non accosta alla terra ma ella procede sfiorando le teste degli uomini. E mi
pare che egli ci abbia dato una bella prova della sua delicatezza col dirci che
non cammina sul duro ma sul morbido. Serviamoci, anche noi, per Amore, dello
stesso indizio a conferma che è delicato; egli, infatti, non cammina per terra
e nemmeno sulle teste degli uomini che, poi, tanto morbide non sono, ma tra le
più tenere delle cose che esistono egli procede e dimora: egli, infatti, ha
posto la sua sede nel cuore e nell'animo degli uomini e degli
dei; non però in tutte le anime indistintamente. Se, infatti, ne
trova una rozza, fila via, se gentile invece, vi resta. Dato, quindi, che egli
è sempre a contatto, e non solo con i piedi ma anche con tutto se stesso, con
le più tenere tra le tenerissime cose, necessariamente deve essere
delicatissimo. Il più giovane, dunque, e il più delicato; ma oltre a questo è
duttile. Non potrebbe piegarsi in tutte le direzioni e entrare di soppiatto
nelle anime e così uscirne se fosse rigido; la leggiadria, per consenso comune,
è la prova evidente delle fattezze armoniche e flessuose che Amore possiede.
Infatti, fra l'amore e la bruttezza c'è sempre reciproca guerra. La bellezza
del suo incarnato ci dice che egli indugia tra i fiori, poiché Amore non resta
dove non v'è cosa in fiore o che sia avvizzita, sia essa corpo o anima o altro,
ma dove tutto è fiorito e olezzante, là si posa e dimora. «Sulla bellezza del
dio può anche bastare, per quanto ce ne sarebbe ancora da dire. Ma ora parliamo
delle sue virtù. La cosa che prima di tutto bisogna notare è che Amore non fa
torti a nessuno, né a uomini né a dei e nemmeno ne riceve. Egli non subisce
violenza (ammesso che subisca qualcosa), perché essa non lo tocca, né con
prepotenza fa quel che fa, ma ognuno serve Amore spontaneamente in ogni cosa; e
quando c'è accordo reciproco tra due volontà, ‹le Leggi che sono le regine
degli Stati›, dicono che è giusto. Oltre che la giustizia, Amore possiede in
sommo grado anche la temperanza. Tutti son d'accordo nell'affermare che la
temperanza consiste nel dominio delle passioni e dei piaceri. Ma non c'è nessun
piacere più intenso dell'Amore e quindi se tutti gli altri sono meno intensi,
sono inferiori a lui che, perciò, trionfa e ha il dominio sulle passioni e sui
piaceri e, come tale, è in sommo grado, temperante. Per quanto riguarda la
forza, ad Amore ‹neanche Marte può stargli a fronte›. Non è, infatti, Marte che
conquista Amore, ma Amore che seduce Marte, amore di Venere a quanto si dice; e
chi possiede è più forte di chi si lascia possedere: quindi, vincendo chi è più
forte degli altri, egli è il più forte di tutti. Della giustizia, quindi, della
temperanza e della fortezza del dio, s'è già detto; resta ora da dire della sua
sapienza: per quanto è possibile, bisogna cercare di non tralasciare nulla.
Intanto, per prima cosa per rendere onore alla nostra arte, come Eressimaco ha
fatto per la sua, dirò che questo dio è poeta cosi sapiente da far diventare
tali anche gli altri; in effetti, ognuno diventa poeta se è toccato da Amore,
anche se non ha mai avuto prima a che fare con le Muse. Da qui possiamo trarre
la conferma che Amore, in generale, è buon poeta in ogni genere di produzione artistica.
Infatti, ciò che uno non ha e non conosce, non può certo darlo, né insegnarlo a
nessuno. E, infatti, chi è che vorrà contestare che la creazione di tutti gli
esseri viventi non avvenga per la sapienza d'Amore che genera e fa crescere
tutte le creature? E, inoltre, nell'attività artistica non sappiamo forse che
chi ha per maestro questo dio diviene famoso e illustre, chi invece non è
toccato da Amore resta oscuro? L'abilità nel tiro dell'arco, la sapienza nella
medicina, l'arte profetica, Apollo le ha scoperte sotto l'impulso del desiderio
e dell'amore, così che anch'egli può dirsi discepolo di questo dio, come le
Muse per le loro arti, Efesto per l'arte di forgiare metalli, Minerva per
quella del tessere e Giove, infine, per quella di governare sugli dei e sugli
uomini. Fu cosi che tutte le questioni tra gli dei si appianarono, da quando
Amore comparve in mezzo a loro, si capisce, Amore della bellezza, perché delle
cose brutte non c'è amore; mentre, come ho detto, prima d'allora, molte e
orribili cose, a quanto si dice, accadevano tra gli dei, perché regnava
Necessità. Ma dopo che nacque questo dio, si amarono le cose belle e ne venne
per gli dei e per gli uomini abbondanza di beni. Così, Fedro, mi sembra proprio
che Amore, bellissimo e buonissimo com'è, rechi anche agli altri bellezza e
bontà. Quasi quasi mi vien da dire in versi quello che fa, per esempio così:
pace agli uomini reca, calma sul mare tregua ai venti e, nel dolore, il
sonno. Egli ci libera dal timore di essere estranei a noi stessi, ci dà un
senso di calda intimità, ci invita a partecipare a riunioni come questa, a
feste, a danze, a sacrifici di cui diventa un po' l'auspice, assicura la
benevolenza, allontana ogni rancore, largo in favori, incapace di malvagità,
benigno, buono, esempio ai saggi, ammirato dagli dei, invidiato dagli infelici,
posseduto dai fortunati, padre della Delizia, dell'Eleganza, del Fasto, della
Grazia, del Desiderio, della Bramosia, sollecito verso i buoni, incurante dei
malvagi, nelle fatiche, nelle paure, nelle passioni, nelle conversazioni, è
guida, guerriero, compagno di lotta, salvezza provvidenziale, ornamento di
tutti gli dei e di tutti gli uomini, duce meraviglioso e perfetto che ognuno
deve seguire e celebrare con inni degni di lui, partecipando al suo canto col
quale egli ammalia il cuore degli uomini e degli dei. Questo, Fedro, il mio
discorso in omaggio al dio, svolto un po' celiando, un po' con ben dosata
gravità, secondo le mie capacità.» Quando Agatone ebbe finito di
parlare, raccontò Aristodemo, ci fu uno scroscio di applausi da parte di tutti
i presenti che riconobbero come il discorso del giovane fosse stato degno di
lui e del dio. E, allora, Socrate volgendosi ad Eressimaco: «E così, figlio di
Acumeno, ti sembra ancora fuori posto il mio timore di prima o non ho forse
previsto giusto, poco fa, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato benissimo
e che io mi sarei trovato in un bell'imbarazzo?» «Per il primo punto,» rispose
Eressimaco, «ti do anche ragione, cioè quando dici di aver previsto che Agatone
avrebbe parlato bene, ma che tu, poi, ti trovi nell'imbarazzo questo proprio
non lo credo.» «Ma come faccio a non esserlo, mio caro, e come me chiunque
altro dovesse parlare dopo un discorso così bello e così interessante? Certo in
qualche parte non è stato stupendo come nel resto, ma verso la fine chi non
sarebbe rimasto sbalordito di fronte a tanta bellezza di vocaboli e di
espressioni? Quasi quasi, pensando che non sarei mai stato capace di dire
qualcosa che solo si avvicinasse a tanta bellezza, stavo per fuggirmene dalla
vergogna. Perché il suo discorso m'ha fatto venire in mente Gorgia, tanto da
farmi sentire nella stessa situazione di cui parla Omero, temevo proprio, cioè,
che alla fine Agatone con il suo discorso, gettasse sul mio la testa di Gorgia,
di quel formidabile oratore, togliendomi l'uso della favella e facendomi
diventare di pietra. E ho capito, allora, di essere stato proprio un ingenuo
quando ho accettato di celebrare, insieme a voi, Amore, dicendo che ero un,
esperto su questo argomento, mentre invece, e me ne accorgo adesso, non sapevo
un bel niente, persino come si fa un elogio qualunque. Da quell'ingenuo che
sono credevo che nel fare l'elogio di chicchessia o di qualcosa si dovesse dire
la verità e che questa era la cosa fondamentale; poi pensavo che bisognasse
scegliere, tra le cose vere, le più belle e disporle nel modo migliore; ed ero
tutto contento del fatto mio, sicurissimo che avrei fatto un figurone dato che
conoscevo esattamente il modo di imbastire un elogio. E, invece, a quanto pare,
non è così che si fa un bell'elogio: bisogna al contrario fare le lodi più
sperticate e più belle, corrispondano o meno al vero: si vede che eravamo
d'accordo di lodare Amore, così, per burla, non di farne l'elogio seriamente.
Ed è per questo, credo, che voi tirate in ballo ogni sorta di argomenti e li
affibbiate ad Amore e affermate che egli è questo e quello ed è la causa di un
sacco di cose in modo che appaia bellissimo e perfettissimo ma, è chiaro, a chi
non lo conosce, non a quelli che ne sanno qualcosa. Sfido io che, così, il bel
panegirico è presto fatto. Ma io non conoscevo un simile sistema di far gli
elogi e proprio per questo fui d'accordo con voi di pronunciarne uno anche io,
seguendo il mio turno: la lingua lo promise, non il cervello. E, allora,
statevi bene, perché io un elogio con questo sistema non ve lo faccio, è più
forte di me. La verità, invece, se volete, eccomi qua, pronto a dirvela, a modo
mio, senza far gare con nessuno perché non ho proprio voglia di farmi ridere dietro.
Vedi tu, quindi, Fedro se è proprio necessario un discorso di questo genere e
sentire come veramente stanno le cose, a proposito dell'Amore, con quei termini
e con quello stile poi che lì per lì mi passeranno per la mente.» Ma Fedro e
gli altri, mi riferì Aristodemo, lo invitarono a parlare come volesse. «E va
bene, Fedro, però lasciami prima fare una piccola domanda ad Agatone, perché
voglio mettermi un po'd'accordo con lui e poi parlerò.» «Ma figurati,» commentò
Fedro, «fa pure.» E allora Socrate cominciò presso a poco così: «Dunque, mio
caro Agatone, m'è parso proprio buono l'inizio del tuo discorso quando hai
detto che prima di tutto bisogna esporre quale sia la natura d'Amore e poi
passare alle sue opere; un esordio che mi è proprio piaciuto. Ma ora, dato che
hai così magnificamente parlato su tutto quel che riguarda la natura d'Amore,
dimmi una cosa: Amore, è amore di qualche cosa o amore di nulla? Bada che non
ti chiedo se amore per una madre o per un padre (sarebbe ridicolo chiedere se
Amore sia amore verso la madre o il padre), ma come se ti chiedessi a proposito
del padre: il padre è padre di qualcuno o no? tu, certo, mi risponderesti, se
volessi darmi una risposta appropriata, che il padre deve essere
necessariamente padre di un figlio o di una figlia, non ti pare? Ah,
certamente,» ammise Agatone. «E la stessa cosa è per una madre?» Era d'accordo
anche in questo. «E rispondimi ancora,» proseguì Socrate, «a una piccola cosa
per capire meglio dove voglio arrivare: se ti chiedessi: e allora, un fratello,
come tale, è fratello di qualcuno?» «Sicuro che lo è.» «Fratello di un fratello
o di una sorella?» «D'accordo.» «Prova a dire la stessa cosa a proposito di
Amore: Amore è amore di qualcosa o amore di nulla?» «Certo amore di qualcosa.»
«Ebbene,» riprese Socrate, «questo tientelo per te bene a mente e dimmi,
invece: Amore desidera o meno ciò di cui è amore?» «Certo,» rispose. «E quel
che egli desidera e ama, l'ama e lo desidera perché lo possiede o proprio
perché, invece, gli manca?» «Probabilmente perché non lo possiede,» rispose.
«Sta attento,» insisté Socrate, «che non si tratta di probabilità, ma è
necessariamente logico che si desidera quello che non si possiede; quando si ha
una cosa, invece, non la si desidera affatto. Di qui non si scappa ed io ne
sono assolutamente convinto, tu no, invece?» «Ah, anch'io lo sono,» fece. «Ben
detto. Ed effettivamente uno che lo è già potrebbe desiderare di essere grande?
E essere forte uno che è già tale?» «Dopo quel che s'è convenuto, è
impossibile.» «Effettivamente, non può essere privo di queste qualità chi le ha
già.» «È chiaro.» «Eppure,» osservò Socrate, «se uno che è forte, volesse esser
forte o se è veloce, volesse essere veloce o, ancora, se è sano, volesse esser
sano, dato che qualcuno potrebbe pensare, di fronte a un esempio simile o a
casi del genere, che vi siano persone che pur possedendo tutte queste qualità,
tuttavia le desiderano sempre (ti sto dicendo questo per non lasciarci trarre
in inganno); ebbene, Agatone, se ci pensi, costoro che al momento posseggono
queste qualità, è inevitabile che le abbiano, lo vogliano o meno, e se le
posseggono già, come possono desiderarle? Ma se uno dicesse: ‹lo che son sano
voglio essere sano o, pur essendo già ricco, voglio essere ricco e desidero
questo che già posseggo,› gli potremmo rispondere: ‹Tu, caro mio, che hai già
ricchezze, salute, forza, vuoi continuarle ad avere anche per l'avvenire,
giacché, per il momento, tu voglia o non voglia, già le possiedi; pensa un po'
se, quando dici che desideri le cose che hai, tu non voglia dire, invece,
semplicemente, che desideri di possedere anche per l'avvenire quello che oggi
già possiedi.› Credi che non sarebbe d'accordo?» E Aristodemo mi riferì che
Agatone lo ammise. Socrate allora proseguì: «E desiderare che per l'avvenire ci
siano preservate le cose che noi già possediamo oggi, non vuol forse dire amare
quel che ancora non si possiede o di cui tuttora non si dispone?» «Certo,»
ammise. «E quindi, se Tizio o Caio desiderano qualcosa, sarà sempre ciò di cui
ancora non dispongono, che ancora non hanno o quelli che essi stessi non sono o
di cui si sentono privi; non è tutto qui il loro desiderio e il loro amore?»
«Senza dubbio,» fece. «Bene, ricapitoliamo, allora, quanto s'è convenuto.
Amore, prima di tutto è amore di qualcosa e, in secondo luogo, di ciò di cui si
è privi?» «Sì, sempre.» «E adesso ricordati quello che hai detto poco fa, che
cioè l'Amore tende a qualcosa. Se credi cercherò io di ricordartelo: se non
sbaglio, tu hai detto, su per giù, che le questioni tra gli dei s'aggiustarono grazie
all'Amore del bello e che per le cose brutte non c'è amore; non è questo che
hai detto?» «Sì, questo,» ammise Agatone. «E l'hai detto molto opportunamente,
mio caro,» riprese Socrate; «e se le cose stanno così, Amore, che altro è se
non amore del bello e non del brutto?» «D'accordo.» «Ma non abbiam detto che si
ama ciò di cui si è privi, ciò che non si ha?» «Sì,» fece. «Dunque, l'Amore,
non ha la bellezza, ne è privo.» «Per forza.» «E allora? Chi è privo di
bellezza, chi non ne ha, tu lo chiami bello?» «Affatto.» «Se le cose stanno
così, tu sei sempre del parere che Amore sia bello?» «Temo proprio, Socrate, di
non capir più niente di quel che ho detto,» esclamò Agatone. «Eppure hai
parlato bene, Agatone,» incalzò Socrate. «Ma dimmi un'altra cosetta: quello che
è buono, secondo te, non è anche bello?» «Per me sì.» «Se, dunque, Amore non ha
la bellezza e se quello che è bello è anche buono, egli sarà anche privo di
bontà.» «Io non sono in grado di contraddirti, Socrate e quindi sia pure come
tu dici.» «È la verità, Agatone carissimo, e tu non puoi contestarla; Socrate,
invece, sì, lo puoi contraddire e la cosa non è per niente difficile.» «Ma sì,
via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò, piuttosto, quello che sull'Amore,
mi disse un giorno una donna di Mantinea, Diotima, molto dotta sull'argomento e
su un'infinità di altre questioni. Figuratevi che una volta, con i sacrifici
che fece fare agli ateniesi, prima della peste, riuscì a ritardare l'epidemia
di dieci anni. Fu lei a erudirmi nelle questioni d'amore e quindi, partendo
dalle conclusioni che Agatone ed io abbiamo tratto, cercherò di ripetervi, come
posso, a parole mie, il discorso che ella mi fece. Ebbene, proprio come tu
dicevi, Agatone, bisogna definire prima chi sia Amore, quale la sua natura e
poi le sue opere. Ora io penso che la cosa più facile per me, sia quella di
seguire lo stesso metodo che usò quella straniera quando discusse con me.
Anch'io, infatti, le dicevo un po' le stesse cose che ora mi ha ripetuto
Agatone, cioè che Amore è un grande dio, che è amore di cose belle ed ella
cominciò a confutarmi con gli stessi argomenti, precisamente, che io ho usati
ora con costui, cioè che Amore non è né bello (per usare le mie parole) né
buono. Ed io: «Ma com'è che dici questo, Diotima? Allora Amore è brutto e
malvagio?» «Ma che? Ora ti metti pure a bestemmiare?» fece lei. «Credi forse
che ciò che non è bello debba necessariamente essere brutto?» «Sicuro, io sì.»
«E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante? Ma non ti accorgi che c'è
sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza? E quale? Avere un'opinione
giusta, ecco, ma senza poterne dare una spiegazione; non sai,» fece «che questo
non è sapere (e come può esserlo se non se ne sa dare una spiegazione?), ma non
è nemmeno ignoranza (e come, infatti, potrebbe se coglie nel vero?). Insomma,
la retta opinione è qualcosa di simile, una via di mezzo tra la sapienza e
l'ignoranza.» «È vero quello che dici,» ammisi io. E quindi non insistere a
credere che ciò che non è bello debba essere, a tutti i costi, brutto e ciò che
non è buono, debba esser malvagio. E così anche a proposito di Amore, visto che
anche tu sei d'accordo che non è buono né bello, non pensare che debba essere
malvagio e brutto,» concluse, «ma qualcosa tra questi due estremi.» «Eppure,»
obbiettai io, son tutti d'accordo che è un dio potente. Tutti chi?» ribatté
lei, «quelli che non sanno o anche quelli che sanno? Tutti quanti. Ma come
fanno, Socrate, a dirlo un gran dio,» fece lei, ridendo, «se affermano che non
è nemmeno un dio?» «E chi sono questi? Uno, intanto, sei tu, l'altra sono io. Ma
come fai a dir questo?» «Semplice. E tu, infatti, rispondimi: non affermi che
gli dei son tutti beati e belli? avresti il coraggio di dire che qualcuno non è
bello o non è beato?» «Santo cielo, io no,» risposi. «E beati, secondo te, non
sono quelli che hanno bontà e bellezza?» «Sicuro.» «Ma non hai convenuto che
Amore desidera le cose buone e belle, proprio perché ne è privo?» «Già, certo.»
«E, allora, come può essere un dio chi non ha né bellezza né bontà?» «Ah, no,
assolutamente.» «Vedi, dunque,» concluse, «che anche tu affermi che Amore non è
un dio. Ma, allora,» chiesi, «chi sarebbe Amore? Un essere mortale?» «Ma niente
affatto Ma allora? Come nel caso precedente, qualcosa di mezzo, tra, il mortale
e l'immortale. E cioè, Diotima? Un demone possente, Socrate, che come tutti i
demoni, sta tra il divino e l'umano.» «E qual è il suo potere?» chiesi. «Quello
di interpretare e di recare agli dei le preghiere e i sacrifici degli uomini e,
agli uomini, i comandamenti e i premi degli dei per i sacrifici compiuti; nel
suo ruolo di intermediario, egli colma l'enorme distanza tra gli uni e gli
altri, così l'universo risulta in se stesso collegato. Da lui procede tutta
l'arte della divinazione, tutta la scienza sacerdotale, per quel che riguarda i
sacrifici e le iniziazioni e poi gli incantesimi, ogni sorta di profezie e la
magia. Dio non scende a contatto con l'uomo ma è attraverso i demoni che egli
parla e ha rapporto con gli uomini, sia quando sono svegli, sia durante il
sonno; e chi è sapiente in queste cose è un ispirato chi invece s'intende
d'altro, esercita, per esempio, una diversa arte o un mestiere qualsiasi, non è
che un manovale. Molti sono i demoni e di ogni specie. Amore ne è uno.» «E suo
padre e sua madre,» chiesi, chi sono? È, una cosa lunga,» fece, «ma te la
racconterò ugualmente. Quando nacque Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto
e, tra gli altri, c'era anche Poro, il figlio di Metide. Avevano già finito di
pranzare, quando giunse Penia, per elemosinare, dato che sontuoso era stato, il
banchetto e se ne rimase sull'uscio. In quel mentre Poro, gonfio di nettare (il
vino infatti non era ancora conosciuto), se ne uscì nel giardino di Giove e,
mezzo ubriaco com'era, s'addormentò. Allora, Penia, sempre afflitta dalle sue
angustie, pensò se non le fosse possibile avere un figlio da Poro e così gli si
stese al fianco e restò incinta di Amore. Per questo Amore è compagno e
ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita ed è,
nello stesso tempo, amante del bello perché bella è Afrodite. D'altro canto,
per il fatto che Amore è figlio di Poro e di Penia, si trova in questa
condizione. Anzitutto è sempre povero e tutt'altro che delicato e bello, come i
più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo,
vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle
strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt'uno con la
miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e
buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre
pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita
dedito a filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista.
Inoltre né immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso
alla vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù
della natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così
che Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e
ignoranza. Ecco come: nessun dio s'occupa di filosofia, né ambisce a diventar
sapiente (ché già lo è), né, del resto, chi è sapiente, si dedica alla
filosofia; d'altra parte, nemmeno gli ignoranti si dedicano alla filosofia, né
ambiscono a diventar sapienti; e questo è il brutto dell'ignoranza, che chi non
è né bello, né buono, né saggio, crede, invece, di esserlo abbondantemente;
naturalmente chi non si accorge di esser privo di qualcosa, non desidera quello
di cui non sente il bisogno.» «Ma, allora,» feci io, «chi sono, Diotima, quelli
che si dedicano alla filosofia, se non sono né i sapienti, né gli ignoranti?»
«Ma è chiaro,» mi rispose, «anche un bambino lo capirebbe che son
quelli che stanno in una posizione intermedia, tra, i primi e i secondi e, tra
questi, c'è anche Amore. La sapienza, infatti, è tra le cose più belle e Amore
ama le belle cose e, quindi, necessariamente, è anche filosofo e, come tale,
sta fra il sapiente e l'ignorante. E la sua origine è un po' la causa di tutto
questo: suo padre è sapiente e pieno di estro, ma sua madre, invece, non lo è
affatto, è ignorante. Tale, Socrate, è la natura di questo demone. Come poi tu
immaginavi che fosse, non c'è da meravigliarsi; per quel che ho potuto capire
dalle tue parole, credevi che Amore fosse colui che si ama, non colui che ama.
Ecco perché, io penso, ti sembrava così bello. Infatti, chi è amato è veramente
bello, seducente, perfetto, degno di ogni felicità; colui che ama, invece, ha
un altro aspetto, quale io ti ho descritto. Ed io: «E sia, straniera, tu parli
bene, ma se tale è Amore, che utilità arreca agli uomini? È questo che ora
cercherò di chiarirti, Socrate. Tale, dunque, è Amore e così è nato: Amore del
bello, come tu dici. Se qualcuno, ora, domandasse: ‹In che senso, Socrate e
Diotima, l'Amore è amore del bello› o più precisamente, ‹chi ama le cose belle,
ama, ma ama che cosa? Che diventino sue, risposi. Ma questa tua risposta, mi
precisò, esige che si ponga un'altra domanda, di questo genere, per esempio: Che
cosa gliene viene a chi possiede le cose belle? Io risposi che, a una domanda
simile, non sapevo sul momento che dire. «E immaginiamo, allora, incalzò, che
uno al posto del bello mettesse il bene e che chiedesse: ‹Via, Socrate, chi ama
il bene, ama, ma ama che cosa? Che diventi suo,» risposi. E che cosa gliene
viene a chi possiede il bene?» «A questo,» dissi, «mi è più facile rispondere:
sarà felice. E, infatti, concluse, è proprio per il possesso del bene che le
persone felici sono tali e non è proprio il caso di star lì a chiedersi perché
uno vuole essere felice. Mi pare che la domanda abbia già avuto la sua risposta
definitiva. È vero quello che dici, ammisi. E allora, questo desiderio e questo
amore, credi siano un po' comuni a tutti gli uomini e che tutti desiderano
sempre possedere il bene o pensi diversamente?» «Sì, io credo proprio che siano
comuni a tutti, feci. E, allora, Socrate,» continuò, «come mai non diciamo che
tutti quanti gli uomini amano dato che tutti desiderano sempre le stesse cose,
ma diciamo, invece, che solo alcuni amano ed altri no?» «Anch'io me ne
meraviglio, ammisi. «E non devi stupirtene,» riprese, «siamo noi, infatti, che
prendiamo, dell'amore, soltanto un aspetto e a questo solo diamo il nome
generico di ‹amore›, mentre per il resto usiamo altri appellativi. Cioè, chiesi.
«Ecco, tu sai che la poesia è creazione ed ha un significato quanto mai vasto;
tutto ciò, infatti per cui qualcosa passa dal non essere all'essere, è poesia
e, quindi, ogni attività creativa è poesia e tutti i creatori sono poeti. È
vero. Ma intanto,» continuò lei, «sai che non tutti sono chiamati poeti, ma con
altri nomi; di tutte le attività creative, solo alcune e precisamente quelle
che si occupano della musica e della metrica, noi chiamiamo poesia; solo questa
è poesia e poeti, solo quelli che si dedicano a questo particolare aspetto
della poesia. È vero,» ammisi. E così è anche per l'amore. In genere ogni
desiderio di bene e di felicità è, per ognuno, ‹possente e ingannevole amore›,
ma mentre quelli che cercano di realizzarlo per altre vie, come per esempio
attraverso i guadagni o l'educazione fisica o la filosofia, noi non diciamo che
amano né che sono amanti, gli altri, invece, quelli che seguono e preferiscono
un particolare tipo d'amore, ne prendono anche il nome generico: amore, amare,
amanti.» «Sembra proprio che tu abbia ragione,» confermai. Eppure va in giro un
certo discorso secondo il quale gli amanti sono quelli che cercano la loro
metà. La mia opinione, invece, è che non esiste amore né per la metà, né per
l'intero, a meno che, mio caro, non si tratti di un bene; perché gli uomini si
lascerebbero tagliare volentieri e mani e piedi se li credessero dannosi per
loro, perché io credo che nessuno ami le cose proprie a meno che ciò che ci
appartiene non sia il bene e ciò che ci è estraneo, invece, il male; infatti,
gli uomini non amano altro che il bene. Non pare anche a te? Per Giove, a me
sì, ammisi. E, dunque, possiamo senz'altro affermare che gli uomini amano il
bene? Sì, confermai. Ebbene, non bisogna aggiungere che essi, questo bene,
desiderano anche possederlo?» «Sicuro.» «E non solo possederlo per un momento,
ma per sempre?» «Sicuro, anche questo bisogna aggiungere,» feci. «Per
concludere, l'amore è possesso perenne del bene. È verissimo quello che dici,
feci. Ora, se questo è l'amore,» proseguì, «quando è che la sollecitudine
e lo sforzo di quelli che, in ogni modo e in ogni azione, lo perseguono, può
chiamarsi, appunto, amore? Quand'è, insomma, che questo succede? Sai
rispondere? Se lo sapessi, Diotima, non sarei così pieno di meraviglia per la
tua sapienza, né sarei venuto da te per imparar tutto questo. E, allora, te lo
dirò io: quando si concepisce nel bello, sia da parte del corpo che da parte
dello spirito.» «Bisognerebbe essere indovini,» azzardai io, «per capire quello
che dici ed io, proprio non lo sono.» «Mi spiegherò più chiaramente,» fece.
«Tutti gli uomini, Socrate, hanno in loro, nel corpo come nell'anima, un seme
fecondo e quando giungono a una certa età, come per un bisogno naturale,
desiderano produrre qualcosa; concepire nel brutto, però, non è possibile, nel
bello, invece, sì. Così l'unione dell'uomo con la donna è procreazione ed è
veramente quest'atto una cosa divina, questo concepire e generare è veramente
ciò che di immortale ha la creatura che pure ha vita mortale. Ma tutto ciò non
può avvenire nella disarmonia; e disarmonia, rispetto a tutto ciò che è divino,
è il brutto, come il bello è armonia. Quindi la bellezza fa da Parca e da
Ilitia al miracolo della vita. Per questo, quando chi ha dentro di sé un seme
fecondo, si avvicina al bello, diventa sereno, atteggia a letizia l'animo suo e
allora crea, produce; quando, invece, s'accosta al brutto, allora, s'incupisce,
si chiude in se stesso tutto afflitto, si ritrae, si ravvolge e non genera ma
resta col suo seme fecondo e ne soffre. Di qui, nella creatura feconda e già
ricca, sorge un intenso desiderio per tutto ciò che è bello perché il bello
soltanto libera chi lo possiede da atroci doglie. Infatti, Socrate, conclude, Amore
non è amore del bello, come tu credi. Ma, allora, cos'è? produrre e creare nel
bello. E sia, ammisi. Sicuro, conferma lei. E perché questo generare? Perché
generare è quanto di sempre rinascente e immortale vi possa essere in una
creatura mortale. E l'immortalità è naturale che si desideri come il bene,
almeno da quel che abbiamo convenuto se è vero che amore è possesso perenne del
bene; ne consegue, inoltre, da tutto questo discorso che l'amore è amore di
immortalità. Queste cose ella mi insegnava, quando indugiava a parlarmi di
questioni d'amore e, un giorno, mi chiese: «Quale pensi, Socrate, sia la causa
di tutto questo amore, questo desiderio? Non vedi in che terribile stato son
tutti gl’animali, sia quelli che camminano sulla terra che quelli che volano
nel cielo, quando son presi dal desiderio di generare, malati tutti d'amore,
prima per il desiderio d'accoppiarsi tra loro, poi per la cura e per
l'allevamento dei loro nati, e son pronti a combattere per essi, perfino i più
deboli contro i più forti e a dare la vita oppure a lasciarsi morire di fame
per nutrirli e a far qualunque altra cosa. Gli uomini, si può dire, che
facciano tutto questo perché dotati di ragione ma, negli animali, donde
proviene questa disposizione all'amore? Sai dirmelo?» E io ancora ad ammettere
di non saperlo. «E credi,» continuò ella, «allora di diventare un esperto nelle
questioni d'amore se non sai nemmeno questo?» «Ma proprio per questo, Diotima,
come t'ho già detto, io son qui, perché so che ho bisogno di maestri. Dimmela
tu, dunque, la causa di queste cose e di tutto ciò che riguarda l'amore.»
«Orbene, se tu sei convinto che l'amore, per natura, tende a ciò su cui più
volte s'è discusso, non devi meravigliarti; anche ora vale il discorso di prima
che cioè la natura mortale tende, sempre, per quanto le sia concesso, di essere
immortale. E le è possibile in un modo soltanto, attraverso la procreazione,
per cui essa lascia sempre un essere nuovo al posto del vecchio, il che succede
anche nella vita di ogni creatura, quando si dice che resta sempre la stessa;
si dice, per esempio, che uno è sempre la stessa persona, da quando è bambino
fino a che è vecchio; in effetti, si dirà che è sempre lo stesso individuo, benché
in lui molte cose si mutino; ma si rinnova continuamente, perdendo sempre
qualcosa, nei capelli, nelle sue ossa, nel suo sangue, insomma in tutto il suo
corpo. E non solo nel corpo, ma anche nell'animo: sentimenti, abitudini, modo
di pensare, desideri, piaceri, dolori, timori, ognuna di queste cose non resta
sempre la stessa in un individuo, ma si rinnova e poi muore. Ma quel che è
ancora più straordinario è che anche le nostre cognizioni non solo nascono e
periscono e quindi noi non siamo sempre gli stessi nemmeno per quel che
riguarda il nostro sapere, ma ciascuna, presa in se stessa, segue, anch'essa
sempre la stessa sorte. Infatti quel che si dice esercitarsi nello studio
presuppone che qualche cognizione possa sfuggire; dimenticare, infatti, vuol
dir perdita di cognizioni, l'esercizio nello studio, invece, suscita un nuovo
ricordo al posto di quel che s'è perduto e salva il sapere in modo che esso
appaia sempre eguale. Del resto è in questo modo che si perpetua tutto ciò che
è mortale, non col rimanere sempre e immutabilmente se stesso, come ciò che è
divino, ma lasciando - ciò che invecchia e vien meno - qualcosa di nuovo al suo
posto in tutto simile ad esso. Ecco, Socrate, conclude, in che modo tutto ciò
che è mortale, sia esso corpo od altro, ha la possibilità di partecipare
dell'immortalità; diversamente non c'è altro mezzo. Non stupirti, quindi, se
ogni creatura, per legge naturale, cura e protegge il suo seme, perché in
tutti, questo zelo e questo amore nascono dal desiderio
dell'immortalità.» Ed io sentendola parlare così, tutto stupito,
le chiesi: Ma sapientissima Diotima, sono proprio vere queste cose?» Ed ella
con un fare tipicamente cattedratico: Persuaditi pure, Socrate, che è proprio
così; basta che tu faccia caso al desiderio di onori che hanno gli uomini; se
tu non riflettessi a quel che ho detto, ti meraviglieresti della loro follia,
considerando quanto grande è il loro desiderio di diventar famosi e acquistar
gloria immortale per l'eternità e come per questo siano disposti a correre
tutti i rischi, più che per i loro figli e sperperare ricchezze, sopportare
fatiche, sacrificare perfino la loro vita. Credi proprio che Alcesti sarebbe
morta per Admeto o Achille per Patroclo o il vostro Codro per conservare il
regno ai figli, se essi non avessero creduto che sarebbe rimasta immortale la
loro memoria, quale oggi noi la serbiamo? Assolutamente,» disse. «Invece, credo
che ognuno faccia di tutto per ottenere merito imperituro le fama gloriosa (e
questo quanto più si è migliori) affascinato com'è dall'immortalità. E così
quelli che han fecondo il corpo si volgono essenzialmente alle donne e il loro
modo d'amore si risolve nel generare figli e così procurarsi secondo loro,
immortalità, memoria e felicità per tutto il tempo a venire. Quelli, invece,
che han feconda l'anima (e ve ne sono fecondi spiritualmente più di quanto non
lo siano nel corpo), di una fecondità, beninteso che si addice all'anima, ma quale?
la saggezza e ogni altra specie di virtù,» diceva, «di cui tutti i poeti sono
gli artefici, insieme a quegli artigiani che hanno il nome di inventori; la più
alta e più bella forma di saggezza è quella relativa all'ordinamento dello
Stato e di ogni organismo sociale, quella che prende il nome di prudenza e di
giustizia. Dunque, quando uno di quelli, quasi esseri divini, fin da giovane,
ha l'animo fecondo di tali cose e quando, giunto all'età giusta, desidera
creare e produrre, io credo che anche lui vada alla ricerca del bello in cui
generare; perché nel brutto non lo farà mai. Quindi, fecondo com'è, sentirà
maggiore attrazione per le belle sembianze che per le brutte, figuriamoci poi
se, in più, incontra un'anima bella e gentile; quando si rallegra di questo
felice connubio, accanto a una simile creatura egli sentirà tutto un fervore di
ammaestramenti sulla virtù e sul come un uomo per bene debba comportarsi,
iniziando, così, la sua opera di educatore. Infatti, penso che a contatto con
una bella creatura, convivendole accanto, egli esprima e dia alla luce ciò che
da tempo custodiva dentro e, o che le stia vicino o che le stia lontano, sempre
la porta alla memoria e nutre, insieme con lei, ciò che è nato dalla loro
unione; e tra loro nasce un'intimità, un legame molto più profondo di quello
che lega i genitori ai figli, un affetto più intenso dato che hanno in comune
figlioli più belli e immortali. Ognuno preferirebbe figli simili piuttosto che
creature umane e guardando a Omero o a Esiodo o agli altri grandi poeti non può
non provare invidia pensando quale progenie, immortale essa stessa, essi hanno
lasciato, che ha loro assicurato memoria e gloria eterna o, se tu vuoi, diceva,
figli come quelli che Licurgo lascia a Sparta, a salvezza di Sparta o meglio
ancora di tutta la Grecia; così presso di voi è onorato Solone per avervi dato
le leggi e così altrove, altri grandi uomini, sia in Grecia che
nei paesi stranieri, che hanno compiuto molte e belle opere, realizzando ogni
sorta di virtù. Per questi loro fieli sono già stati tributati ad essi molti
onori, il che mai nessuno s'ebbe per quelli di carne e di ossa. Ebbene,
Socrate, io penso,» continuò, «che anche tu potresti essere iniziato alle cose
d'Amore, ma fin qui; a un grado più alto, a quello contemplativo, cui si giunge
appunto passando attraverso questi stadi, sempre che si proceda sulla via
giusta, non credo tu sia adatto. Tuttavia te ne parlerò egualmente e farò del
mio meglio,» disse; «tu cerca, intanto, di seguirmi come puoi. Dunque,»
incominciò a dire, «è necessario, prima di tutto che chi vuol tendere a questo
fine, debba, fin da giovane, avvicinarsi alla bellezza fisica e, sin
dall'inizio, se chi lo guida lo dirige bene, amare una sola persona e ad essa
rivolgere i migliori discorsi; successivamente dovrà pur rendersi conto che la
bellezza che alberga nel corpo di una persona, è sorella di quella che può
esservi in ogni altra e che quindi se bisogna ricercare quella bellezza che è
insita nelle forme visibili, sarebbe sciocco pensare che essa non sia identica
e uguale per tutti i corpi; convinto di questo deve, allora, sentire trasporto
per tutti quelli che hanno belle sembianze e frenare un po' la sua passione nei
riguardi di una sola persona, riconoscendo come ciò sia meschino e mediocre.
Ma, infine, deve ben comprendere che la bellezza spirituale ha pregi assai
maggiori di quella fisica, di modo che se dovesse incontrare una creatura
dall'anima bella ma dal corpo non florido, se ne contenti egualmente ed
ugualmente se ne innamori e le mostri sollecitudine e sia l'autore di discorsi
tali che rendano migliori i giovani, per cogliere poi, da qui, la bellezza che
è nelle azioni e nelle istituzioni umane e comprendere come essa sia, ovunque,
sempre se stessa e persuadersi come la bellezza fisica sia ben piccola cosa.
Dopo le attività umane, si rivolga alla scienza per conoscerne la bellezza e
ammirarne l'ampio dominio sul quale ormai ella si spande: così non sarà più
come uno schiavo, preso d'amore per un sol giovinetto o per un solo uomo o per
una sola attività, non sarà più succube inetto e meschino ma, rivolto allo
sterminato oceano della bellezza e contemplandolo, potrà dar vita a molti e bei
discorsi, a splendidi pensieri concepiti nell'amore infinito per la sapienza
finché egli stesso, rinvigorito e arricchito, non riuscirà a scorgere che una
scienza unica che ha per oggetto la stessa bellezza. Ma cerca, ora,» continuò,
«più che puoi, di farmi attenzione. Chi è stato, via via, guidato fin qui
nelle questioni d'amore attraverso la contemplazione delle cose belle, quando
sarà giunto al termine di questa iniziazione, scorgerà, Socrate, a un tratto,
una meravigliosa bellezza, quella stessa che era un po' la ragione di ogni sua
precedente fatica, una bellezza, anzitutto, eterna, che non ha origine né fine,
che non cresce né si consuma e, inoltre, che non è per un verso bella e per un
altro brutta o che a volte sì e a volte no, né bella da un punto di vista e brutta
da un altro, né bella qui e brutta là, come se lo fosse per alcuni e per altri
no, né, questa bellezza, gli apparirà con un volto o con due mani, né come
qualcosa che possa riferirsi ad alcunché di corporeo e nemmeno come discorso o
come dottrina, né come quella che possa esistere in qualche altra cosa, in
altri esseri viventi, per esempio, o nella terra o nell'aria o altrove, ma
quale essa è, in sé e per sé, sempre uniforme e mentre tutte le altre cose
belle che di quella partecipano, nascono e periscono, essa non ha alterazione
di sorta, in più o in meno, non subisce mutamento. E così, quando sollevandosi
dalle cose terrene, in virtù anche dell'amore che si porta ai giovinetti, uno
comincia a scorgere questa bellezza, allora potrà dire di essere vicino alla
meta. Infatti questo è il retto cammino per procedere da soli o insieme a una
guida verso le questioni d'amore, cominciare, cioè, dalle cose belle di quaggiù
e, avendo come fine ultimo questa bellezza, innalzarsi continuamente, come su
una scala, da uno a due, da due fino a tutti i bei corpi e da questi alle belle
occupazioni e poi alle belle scienze, finché non si giunga a quella scienza che
di null'altro è scienza che della stessa bellezza e finché non si conosca,
giungendo, così, alla meta, il Bello in sé. Questo, caro Socrate,» diceva la
straniera di Mantinea, è il momento della vita che più di ogni altro, per un
uomo, val la pena di vivere: quando giunge alla contemplazione della Bellezza
in sé. Se una volta sola tu riuscirai a vederla, oh, ti sembrerà assai più
preziosa dell'oro o di una veste o degli stessi bei fanciulli e giovinetti che
ora guardi non senza un palpito e per i quali, tu e molti altri, se fosse
possibile, rimarreste anche senza mangiare e senza bere, pur di poterveli
sempre contemplare e stare in loro compagnia. Cosa succederebbe allora,
continua a dire, se uno riuscisse a vedere la bellezza in sé, in tutta la sua
adamantina purezza e non già quella offuscata dalla carne, dai colori, da tutte
le altre vanità terrene, se gli riuscisse, insomma, di scoprire la Bellezza in
sé, divina e uniforme? Credi forse che sarebbe miserabile la vita di quest'uomo
che fissasse quel punto, lassù e lo contemplasse come va contemplato, congiunto
con esso? Ed è soltanto in quel punto,» continuava, «contemplando la bellezza
con quella facoltà che la rende visibile, che egli potrà dar vita non a
parvenze di virtù, dato che non è a una falsa immagine di bellezza che egli si
è accostato, ma a una virtù vera, per il fatto che egli è nella verità; non
pensi, del resto, che avendo dato vita alla virtù vera e avendola continuamente
alimentata, costui potrà diventare caro agli dei ed essere anch'egli immortale,
se mai altro uomo lo è stato? Queste cose, Fedro e anche tutti voi, Diotima mi
ha detto ed io ne sono rimasto persuaso e come tale, quindi, cerco ora di
persuadere gli altri che per il conseguimento di tanto bene, non è facile che
l'uomo trovi chi possa meglio soccorrerlo dell'Amore. Per questo io affermo che
ogni uomo deve onorare Amore, come io stesso faccio esercitandomi nelle sue
discipline ed esorto gli altri a fare altrettanto ed ora e sempre esalto la
potenza e la forza d'Amore, nel modo che ne sono capace. Ed ora, Fedro, questo discorso
giudicalo, se credi, come un elogio d'Amore, altrimenti definiscilo pure come
meglio ti piace.» Quando Socrate ebbe concluso, continuò a
riferirmi Aristodemo, e mentre tutti ne elogiavano il discorso, Aristofane
stava per intervenire, perché Socrate aveva a un certo punto, fatto
un'allusione sul suo conto a proposito di una certa teoria. Ma ecco che, a un
tratto, si sentì picchiare alla porta dell'atrio e, poi, un gran vociare, come
di gente allegra e la voce di una suonatrice di flauto. «E, allora, ragazzi,
non correte a vedere?» esclamò Agatone ai servi; «se è gente di casa, fatela
pure entrare, altrimenti dite che abbiam già finito di bere e stiamo
riposando.» Dopo un po' si udi nell'atrio la voce di Alcibiade, ubriaco
fradicio, che urlava a squarciagola chiedendo dove fosse Agatone e che lo
conducessero da lui. Egli, infatti, comparve sulla soglia, sostenuto dalla
suonatrice di flauto e da alcuni della compagnia e s'avanzò verso i convitati,
incoronato da una folta ghirlanda di edera e di viole e con la testa piena di
nastri. Salve, amici, esclama, «lo volete con voi, a bere, un uomo già
completamente ubriaco? Oppure possiamo soltanto mettere questa corona in testa
ad Agatone, dato che siamo venuti per questo e poi filarcela subito? Ieri non
mi è stato possibile venire e così eccomi qua ora, con questi nastri in testa,
per passarli su quella di uno che, senza offesa per nessuno, è il più sapiente
e il più bello di tutti. Ma voi ridete perché sono ubriaco? E ridete pure,
tanto lo so; ma, piuttosto, ditemi, posso o non posso entrare? Berrete con me,
o no?» Tutti allora si misero ad applaudirlo e gli dissero di entrare e di
prender posto in mezzo a loro. Anche Agatone lo invita ed egli si fa avanti
sorretto dai suoi amici e, togliendosi dal capo i nastri, fa le mosse di
incoronarlo senza accorgersi che Socrate era proprio lì, sotto i suoi occhi, al
punto che, quando egli si pose a sedere in mezzo a loro, questi dovette
scostarsi per fargli posto. Non appena si fu accomodato, cominciò ad
abbracciare Agatone e a cingerlo di ghirlande. Ragazzi, veniva, intanto,
dicendo Agatone, slacciate i sandali ad Alcibiade, ché si metta comodo e sia
terzo tra noi due.» Benissimo, approva Alcibiade, «ma chi è questo terzo?» e
così dicendo si volse e vide Socrate; a quella vista fece un balzo: Santi numi,
esclama, ma chi è questo? Proprio Socrate? Ti sei messo qui per giocarmi ancora
qualche tiro e mi compari davanti, al tuo solito, quando meno me l'aspetto. Che
sei venuto a fare? E perché ti sei messo qui e non vicino ad Aristofane o a
qualche altro che voglia fare lo spiritoso? Ma tanto hai fatto che ti sei
piazzato vicino al più bello.» E Socrate: «Vedi un po' di difendermi tu,
Agatone, perché l'affetto di quest'uomo mi sta dando non pochi fastidi. Da
quando, infatti, mi sono legato a lui, non posso più guardare una persona di
bello aspetto, né stare un po' a conversare con nessuno perché, geloso e
invidioso com'è, mi salta su e me ne dice un sacco e poco ci manca che non mi
metta le mani addosso. Sta attento, quindi, che anche ora non me ne faccia una
delle sue e cerca di mettere un po' di pace tra noi e difendimi, se egli vuol
farmi ancora qualche sfuriata, perché comincio proprio ad aver paura delle sue
manie e del suo temperamento eccessivo.» «Niente affatto,» gridò Alcibiade,
«fra te e me, nessuna pace e di quello che hai detto faremo i conti dopo. Ora
tu, Agatone,» riprese, «dammi un po' di questi nastri, ché incoroni anche lui,
questa testa meravigliosa, in modo che non s'abbia poi a lagnare che ho cinto
te di ghirlande e lui niente, lui che nel parlare vince tutti e sempre,
non una volta sola, come te, ieri.» E così dicendo prese dei
nastri e incoronò Socrate, mettendosi, poi, comodo. E allora signori, esclama
quando si fu messo a suo agio, «mi sa che qui volete fare gli astemi; non ve lo
posso permettere; bisogna, invece, bere, così eravamo d'accordo. Fino a quando
non avremo preso l'avvio, i brindisi li dirigo io. Avanti, Agatone, fa portare
una bella coppa, di quelle grandi, anzi, anzi, non ce n'è bisogno; invece,
ragazzo, dà qui quel vaso per tener il vino in fresco.» Ne aveva, infatti,
intravisto uno che conteneva più di otto quartini abbondanti. Dopo esserselo
riempito, se lo scolò per primo; poi disse di riempirlo per Socrate,
soggiungendo: Amici belli, con Socrate, però, non c'è niente da fare: più gli
se ne versa e più ne beve e non c'è caso che si ubriachi. Infatti, appena il
servo versò, Socrate prese a bere. Ma Eressimaco, intervenendo. Ma così che
facciamo, Alcibiade? Vogliamo proprio starcene coi bicchieri in mano, senza
dire una parola, senza cantare un po', vogliamo proprio darci sotto come tanti
assetati? Salve, mio caro Eressimaco, esclama allora Alcibiade, «ottimo figlio
di ottimo e assennatissimo padre.» «Salute anche a te,» rispose Eressimaco, «e,
allora, che facciamo?» «Ai tuoi ordini, siamo qui per obbedirti: poiché un
medico regge da solo il confronto con molti. Perciò, comanda quello che vuoi.»
«Stammi a sentire, allora,» fece Eressimaco; «prima che tu venissi si era
stabilito che ognuno di noi, partendo da destra, facesse un discorso in lode di
Amore, come meglio ne fosse capace. Noi abbiamo già tutti quanti parlato, tu,
invece, no e dato che hai bevuto, è giusto che ora tocchi a te; dopo, potrai
proporre a Socrate quello che vorrai e lui, a sua volta, passerà l'invito al
compagno che è alla sua destra e così gli altri.» «Oh, un'ottima idea la tua,
Eressimaco,» fece Alcibiade, «solo che non puoi mettere a confronto il discorso
di un ubriaco con quello di gente che s'è mantenuta sobria; e poi, mio caro, tu
ci credi a quello che Socrate ha detto un momento fa? Non lo sai che è invece,
tutto il contrario? Questo qui, se io mi metto in sua presenza a fare le lodi
di qualcuno, uomo o dio che sia, solo per il fatto che non si tratta di lui,
mica me le risparmia le legnate.» «Ma la vuoi piantare? fa Socrate. «Per mille
tempeste,» rimbeccò Alcibiade, «è inutile che protesti; in tua presenza io non
posso lodare nessun altro.» «E allora, fa così,» intervenne Eressimaco; «se
vuoi, loda Socrate. Come dici? fa Alcibiade. Vuoi proprio, Eressimaco, che io
me la pigli con questo tipo e mi vendichi davanti a voi? Ma che ti salta in
testa,» intervenne Socrate, «di prendermi in giro con la scusa dell'elogio? Ma
che intenzioni hai?» «Dirò la verità e tu vedi se ti garba.» «Allora, sicuro,
la verità te la concedo, anzi voglio che tu la dica.» «Eccomi subito a te,» fece
Alcibiade, «e tu, intanto fa una cosa: se io non dico il vero, interrompimi se
vuoi e dì pure che sto mentendo, per quanto io, di bugie, non ho intenzioni di
dirne. Se, poi, nel riferire i fatti, io non andrò per ordine, non
meravigliarti, perché non è certo facile, nello stato in cui sono, fare
l'elenco ordinato e completo di tutte le tue stranezze. Ebbene, signori, io,
Socrate comincerò a lodarlo così, per immagini. Lui, crederà che io voglia
continuar nello scherzo e invece, le immagini mi serviranno per precisare la
verità, non per scherzare. Comincio col dire, infatti, che egli somiglia a quei
sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, che hanno in mano zampogne
e flauti, fatti in modo che, aprendosi a metà, mostrano, all'interno, immagini
di divinità; e soggiungo anche che somiglia al satiro Marsia. Eh, sì, Socrate,
ci somigli proprio, almeno nell'aspetto, tu stesso non puoi negarlo; e sta a
sentire come poi ci somigli anche nel resto. Non sei forse petulante, e ti
posso portare i testimoni se non vuoi ammetterlo. E non sei un suonatore di
flauto? E come assai più portentoso di Marsia. Lui aveva bisogno dello
strumento per incantare gli uomini a forza di fiato e così, anche oggi, deve
fare lo stesso chi vuol suonare le sue melodie; (quelle che suonava Olimpo,
infatti, erano di Marsia, che gliele aveva insegnate). Insomma le sue melodie,
sia che le suoni un flautista di vaglia o una suonatrice di mezza tacca, sono
le sole a commuoverci, a farci quasi sentire il desiderio di dio, divine come
sono e di iniziarci ai suoi misteri. Tu soltanto in questo gli sei diverso, che
senza strumento, con le sole parole, ottieni lo stesso risultato. Infatti noi,
quando ascoltiamo qualcuno che parla, fosse pure il più bravo oratore di questo
mondo, di quello che dice, non ce ne importa niente, per così dire, proprio
niente di niente; quando invece ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che
riferisce i tuoi discorsi, fosse pure un buono a nulla, quanti ne siano,
uomini, donne o giovani, restiamo tutti sbalorditi e affascinati. Quanto a me,
signori, se non temessi di passare completamente per ubriaco, vi direi, dietro
giuramento, quello che ho provato e provo ancora quando questo qui comincia a
parlare. Quando lo sto a sentire, il cuore mi si mette a battere forte, peggio
di quello dei Coribanti, alle sue parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti
gli altri, ma tutti, quanti ne sono, che provano la stessa impressione. Quando
invece sentivo parlare Pericle o altri bravi oratori, mi rendevo conto che
anch'essi parlavano bene, eppure non provavo niente di simile, non mi sentivo
l'anima in tumulto, né turbata al pensiero di essere una ben povera cosa. Ma
per costui, invece, per questo Marsia qui, quante volte mi son sentito come se
non mi fosse più possibile vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che
tutto questo non sia vero? Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi
di ascoltarlo, non riuscirei a resistere e proverei le stesse emozioni. Egli,
inevitabilmente, mi farebbe persuaso delle mie molte deficienze e che, perciò,
invece, di badare un po' a me stesso, m'intrigo dei fatti degli Ateniesi. E così,
mio malgrado, io mi tappo le orecchie, come se fossi in mezzo alle sirene e
scappo via perché non voglio mica invecchiare vicino a lui. Soltanto davanti a
quest'uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di
vergognarmi. Davanti a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la
forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena
mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore
popolare; così lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le
cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe
addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so
benissimo che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con un uomo
simile, non so proprio come fare. E così, questi sono gli effetti che io e
tanti altri proviamo per le melodie che questo satiro sa tirar fuori dal suo
flauto. Ma state ancora a sentire come egli somiglia anche nel resto a quelli
cui l'ho paragonato, e quale straordinario potere egli ha. Mettetevelo bene in
testa, costui nessuno lo conosce: ma ve lo farò conoscere io, dato che mi ci
trovo. Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre a innamorarsi dei bei giovanotti,
a corteggiarli, a perdere addirittura la testa; mica poi che capisca qualcosa,
non sa proprio niente, almeno dall'apparenza. E questo non significa essere un
sileno? Altro che: lo stesso aspetto esterno di una di quelle statuette di
sileni; ma dentro, se lo aprite, ve la immaginate, commensali miei, la saggezza
che ha? E poi, dovete sapere che a lui, non gliene importa niente se uno è
bello, anzi lo tiene in così poco conto, che non ne avete l'idea; e se uno è
ricco e ha tutto quello che, secondo la gente fa beato un uomo, egli dice che
tutto questo non vale un bel niente, anzi che noi stessi siamo addirittura
delle nullità, questo ve l'assicuro io. E per giunta passa la vita, poi, a fare
il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco di tutti. Se poi fa sul serio, però e
si lascia veder dentro, non so se l'avete mai viste le bellezze che ha. Io però
le ho viste, una volta, e mi son sembrate così divine, così preziose, stupende
e straordinarie, che mi sentii soggiogato e pronto a fare tutto ciò che Socrate
avesse voluto. Credendo che egli s'interessasse alla mia bellezza, pensai che
era proprio un'occasione e una bella fortuna la mia se, cedendogli i miei
favori, avessi potuto apprendere da lui tutte le cose che sapeva: io infatti
andavo tutto superbo della mia bellezza. Con queste intenzioni, allora, io che
prima non ero solito restarmene da solo con lui, senza la compagnia di un
servo, un bel giorno congedai il mio schiavo e rimasi solo con lui. Bisogna che
ve la dica tutta la verità e voi fate attenzione e se dico bugie, Socrate,
smentiscimi pure. E così me ne rimasi solo soletto con lui ed io credevo che
egli avrebbe subito attaccato con quei discorsi che di solito un innamorato fa
al suo ragazzino, quando si trovano a tu per tu ed ero tutto contento. Invece,
niente da fare ma, come al solito, parlò con me e giunta la sera, se ne andò.
Vedendo questo, lo invitai, allora, a far ginnastica insieme a me, cominciai a
esercitarmi con lui e speravo di concludere qualcosa. Anche lui, in verità,
faceva i suoi bravi esercizi con me e lottavamo insieme, spesso senza che
nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo devo dire? Non ne cavai un bel niente. E
quindi, visto che in questo modo non combinavo nulla, pensai che con un uomo
simile bisognasse adoperare le maniere forti, altro che lasciar perdere, dato
poi che mi ci ero messo, e vedere un po' come andava a finire la faccenda. E
così lo invita a cena, addirittura come fa uno spasimante quando vuol far
cascare la persona amata. Macché, mica accettò subito; tuttavia, dopo qualche
tempo, si convinse. La prima volta che venne, però, volle andarsene subito, appena
mangiato; quella volta io mi vergognai un po' e lo lasciai andare. La volta
appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che finimmo di mangiare, gli
impiantai una discussione che si protrasse fino a tarda notte e così, quando
fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai s'era fatto tardi e quindi
lo convinsi a fermarsi. Così egli si mise a riposare in un letto accanto al
mio, lì dove aveva cenato: nella sala, nessun altro avrebbe dormito tranne noi
due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi potrei continuare a parlare
di fronte a tutti ma, a questo punto, io non vi darei più nulla
se, anzitutto, nel vino, come dice il detto (aggiungeteci pure i bambini o
meno) non vi fosse la verità e poi perché mi sembrerebbe proprio una cosa ingiusta,
dal momento che sto facendo l'elogio di Socrate, passare sotto silenzio il suo
nobilissimo comportamento. Oltre a questo, ancora, io mi sento come uno che è
stato morso da una vipera che, a quel che si dice, non vuol raccontarlo a
nessuno, tranne a quelli che sono stati anch'essi morsi, ai soli, cioè, che
potrebbero comprendere e compatire i suoi gesti e tutte le frasi che si dicono
sotto l'influsso del dolore. Ed io che sono stato punto dal morso più doloroso
e nella parte che più duole al cuore o all'anima o come vuoi chiamarla,
trafitto e punto dai ragionamenti filosofici che penetrano più profondamente
del dente di una vipera specie quando afferrano l'anima di un giovane non
mediocre e lo spingono a fare e a dire qualunque cosa... io che mi vedo dinanzi
un Fedro, un Agatone, un Eressimaco, un Pausania, un Aristodemo, un Aristofane
(e bisogna anche nominarlo Socrate?) e tanti altri, tutta gente un po' patita e
fuori di sé per la filosofia. Eh, sì, per questo, ora, voi tutti, mi starete a
sentire. E mi compatirete per quello che è accaduto allora e per quanto sto per
dirvi ora. E voi, famigli e quanti ne siete, rozzi o villani, tappatevi con
grossissime porte le orecchie. Dunque, signori, quando la lampada fu
spenta e i servi se ne furono andati, pensai che non era più il caso di star lì
a gingillarsi ma di esprimergli chiaramente le mie intenzioni. «Dormi,
Socrate?» perciò gli chiesi scuotendolo. «Nient'affatto,» mi rispose. «Sai
cos'ho pensato? Cosa? Che tu mi sembri l'unico amante degno di me, però mi pare
che tu esiti a dichiararti. Però, sai, io ho deciso; credo proprio che sia da
sciocchi non esserti compiacente in questo, come in tutto il resto, se tu ne
avessi bisogno, dei miei amici per esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi,
niente mi sta più a cuore che diventare il più possibile migliore e nessuno, io
penso, può far meglio di te al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di
fronte alle persone intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non
dinanzi alla gente ignorante se gli cedessi. E lui, dopo essere stato lì a
sentirmi, col suo solito fare un po' ironico. Mio caro Alcibiade, risponde, può
darsi proprio il caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto
quello che tu dici e se c'è in me una specie di potere che ti possa far
diventare migliore. Se è così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza,
di gran lunga superiore alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far
comunella con me, di metterci le mani addosso e barattar bellezza con bellezza
e così concludere, alle mie spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi,
insomma, di pigliarti una bellezza vera in cambio della tua che è apparente e
pensi proprio di scambiare oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più
attenzione, ché tu non t'inganni nei miei riguardi, dato che io non sono
proprio nulla. Il fatto è che l'occhio della mente comincia a veder chiaro
quando s'affievolisce quello del corpo e per te, ce ne vuole del tempo. Ed io
dopo averlo ascoltato: «Per quel che mi riguarda, le cose stanno cosi ed io non
ho detto nulla di diverso da quello che penso. Tu, piuttosto, devi decidere
quello che è meglio per te e per me. Così va bene, mi risponde. In seguito
vedremo e faremo quello che ci sembrerà meglio per tutti e due a proposito di
questa faccenda e anche per il resto. Quanto a me, dopo quello che aveva detto,
e ora che avevo udito la sua risposta, come se gli avessi lanciato un dardo,
pensavo d'averlo già bell'e trafitto. E così, senza dargli la possibilità di
dire una parola di più, balzai su e gli gettai addosso il mio mantello (infatti
eravamo d'inverno) ficcandomi, poi, sotto quello suo, logoro, e stringendolo
nelle mie braccia (sì, proprio costui, questo essere veramente divino e
meraviglioso) e tutta la notte gli stetti disteso vicino. Nemmeno questo,
Socrate, puoi dire che non è vero. Ebbene, nonostante che io avessi osato
tanto, si dimostrò superiore e mi disprezzò beffandosi della mia bellezza,
schernendola; e si che io credevo di non essere mica poi tanto male, o giudici
(sì, giudici dell'insolenza di Socrate); ebbene, sappiate, ve lo giuro su tutti
gli dei e le dee, che io dopo aver passato la notte accanto a Socrate, mi alzai
come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore. Dopo
tutto questo, ve lo immaginate come ci rimasi. Da una parte l'idea di essere
stato disprezzato, dall'altra la mia ammirazione per le sue qualità, per la sua
saggezza, per la sua forza d'animo. Mi resi conto di aver proprio incontrato un
uomo quale non avrei immaginato, per rettitudine e per fortezza. E così non
riuscii né a pigliarmela con lui e, quindi, troncare ogni rapporto, né, d'altro
canto, a trovare il modo di conquistarlo. Sapevo benissimo che col denaro non
c'era niente da fare: è più invulnerabile d'Aiace di fronte alle frecce, ed ora
anche l'unico modo con cui pensavo di poterlo conquistare, m'era fallito. Privo
così d'argomenti, schiavo quasi di quest'uomo, come nessuno lo fu mai d'alcun
altro, gli stavo sempre dietro. Tutto questo accadde prima della campagna di
Potidea, durante la quale combattemmo insieme e fummo anche compagni di mensa.
Ricordo che alle fatiche era più resistente non solo di me ma di tutti quanti
gli altri; quando poi si restava bloccati, tagliati fuori, come capita spesso
in guerra e così ci toccava patir la fame, la capacità di resistenza degli
altri non era niente al confronto della sua; quando invece c'era abbondanza,
lui era il solo a godersela veramente; e a bere, poi, vinceva tutti, non perché
ci fosse portato, ma solo quando ve lo spingevano e quello che è straordinario
è che mai nessuno ha visto Socrate ubriaco e di questo, io credo che ne avrete
anche ora una prova. Quanto poi a sopportare i rigori dell'inverno (e lì il
gelo non scherza), era addirittura straordinario. Ricordo che, una volta,
durante una gelata terribile, mentre tutti se ne stavano chiusi dentro e se
qualcuno usciva, s'infagottava fino all'inverosimile e si fasciava i piedi con
panni di feltro e pelli di pecora, lui se ne andò in giro con quel suo solito
mantelluccio che porta sempre, camminando sul ghiaccio, a piedi nudi, assai
meglio di quelli che avevano le scarpe; e i soldati lo guardavano un po' in
cagnesco credendo che, così, egli li volesse umiliare. E a questo
proposito, bisogna proprio sentire ‹quello che ancora fece e sostenne
quest'uomo animoso, laggiù, durante la spedizione. Tutto preso non so in quali
pensieri, una volta se ne rimase in piedi, immobile a meditare, fin dal mattino
presto e, poiché non riusciva a venirne a capo, non la smise, ma continuò a
restarsene tutto assorto nelle sue riflessioni. Era già mezzogiorno e i soldati
cominciarono a farci caso e a passarsi la voce, tutti stupiti che Socrate,
pensando a chissà cosa, se ne stava lì dal mattino presto. In conclusione, col
calar della sera, alcuni soldati della Ionia, dopo il rancio, portarono fuori,
all'aperto, i loro pagliericci (s'era, infatti, in estate) per dormire al
fresco ma anche per star lì un po' a vedere se quel tipo se ne fosse rimasto
immobile tutta la notte. Ed egli lì se ne restò fino a che non si fece mattino
e non spuntò il sole; dopo di che, fece al sole una preghiera e se ne andò. E
in battaglia, poi, se volete sentire, perché anche questo bisogna
riconoscergli. Quando ci fu quello scontro in cui i generali mi dettero una
ricompensa al valore, nessun altro mi salvò tranne costui che non volle
lasciarmi lì ferito ma riuscì a portarmi in salvo con le mie armi. Ed io,
Socrate, in quell'occasione, insistetti perché la ricompensa la dessero a te
(neanche in questo caso tu potrai riprendermi e dirmi che sto mentendo). E poiché
i generali, considerando il mio rango, volevano dare a me la ricompensa, tu
fosti più zelante di loro perché venisse a me attribuita invece che a te. E non
è finita, signori miei, perché bisognava vederlo Socrate, quando il nostro
esercito è rotto a Delio. In quell'occasione io ero col mio cavallo, lui a
piedi, con tutte le sue armi. Tra lo scompiglio delle truppe in fuga, dunque,
egli ripiegava insieme a Lachete. Io per caso sopraggiungo e, vedendoli, grido
di farsi coraggio, assicurandoli che non li avrei abbandonati. In quella
occasione meglio che a Potidea, potetti ammirare Socrate, anche perché, a
cavallo come ero, avevo meno da temere. Prima di tutto dimostrava un controllo
superiore a quello dello stesso Lachete; secondariamente parve anche a me
quello che tu stesso, Aristofane, hai detto di lui che cioè anche là egli
camminava come qui, tutto altero gettando occhiate di traverso, tenendo sempre
sott'occhio amici e nemici, facendo capire a tutti, anche a distanza, che se
qualcuno lo avesse attaccato, egli era il tipo che si sarebbe difeso
strenuamente. E così procedeva sicuro insieme al compagno, perché è proprio
vero che quelli che si comportano così in guerra, i nemici nemmeno li toccano,
mentre incalzano chi si dà a gambe levate. E ancora per molte altre cose, tutte
straordinarie, Socrate andrebbe lodato. Probabilmente, però, queste altre
qualità si possono anche trovare in qualche altro; quello che invece è
meraviglioso è il fatto che lui non è simile a nessun uomo del passato né del
nostro tempo. Ad Achille, per esempio si potrebbe avvicinare, in un certo qual
modo, Brasida e altri e per Pericle potrebbe trovarsi una certa somiglianza con
Nestore o Antenore e non con questi soltanto e altri paragoni se ne potrebbero
far sempre. Ma quanto a quest'uomo, per il suo modo di fare, per i suoi
discorsi, è impossibile trovare uno che gli somigli, nemmeno lontanamente, né
tra i viventi, né tra gli antichi, a patto che uno non lo volesse paragonare,
appunto come dicevo, lui e i suoi discorsi, ai sileni e ai satiri, ma non certo
a un uomo. Anzi, a proposito, i suoi discorsi (me ne ero dimenticato di
precisarvelo prima) sono proprio come i sileni che si aprono. Infatti, se
uno si mette a sentire i discorsi di Socrate, all'inizio, gli sembreranno
addirittura ridicoli, come sono tutti inviluppati per il di fuori, da termini e
da sentenze, una specie di pelle di satiro petulante; infatti, non fa altro che
parlare di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori e sembra che dica
sempre le stesse cose, tanto che se uno non se ne intende o è uno sciocco, gli
riderebbe dietro. Ma se cerchi di aprirli, i suoi discorsi, e di guardarvi
dentro, prima di tutto ti accorgerai che sono i soli, tra tutti, ad avere un
loro senso profondo, poi che sono addirittura divini, ricchi di ogni virtù
possibile e immaginabile, volti al sublime o meglio a ciò che deve tener
presente chi voglia diventare un vero galantuomo. Questo è quanto ho da dirvi
in lode di Socrate, amici miei. Quanto al biasimo io ve l'ho già mescolato,
riferendovi le offese che mi ha fatto; del resto egli non s'è comportato così
solo con me, ma ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone e con
Eutidemo, il figlio di Diocle e con molti altri, tutta gente che egli ha
ingannato fingendo, appunto, la parte dell'innamorato, con la conseguenza che
furono, invece, costoro ad innamorarsi di lui. E questo lo dico anche per te,
Agatone, ché non debba cascarci anche tu in modo che, fatto esperto dalle
nostre disavventure, tu possa stare in guardia da costui e non debba imparare,
da citrullo, a proprie spese, come dice il proverbio. Appena Alcibiade ebbe
concluso, l'ilarità fu generale, proprio per quel suo modo franco di parlare,
anche perché, così, aveva fatto capire di essere ancora innamorato di Socrate.
«Mi sembra, invece, che tu, Alcibiade, non abbia proprio bevuto per niente,»
esclamò a un certo punto Socrate, «altrimenti non l'avresti rigirata tanto
abilmente, nascondendo il vero scopo del tuo discorso e alludendovi solo alla
fine, come un di più, come se tutto il tuo parlare non fosse stato per seminar
zizzania tra me e Agatone, fissato come sei che io debba amare solo te e nessun
altro e che Agatone devi amarlo soltanto tu e gli altri niente. Ma non t'è
andata bene e questa tua farsa a base di satiri e di sileni è apparsa evidente.
Mio caro Agatone, costui non deve spuntarla e bada tu che, tra me e te, nessuno
venga a mettere disaccordo.» E Agatone, di rimando: «Ah, sì, Socrate, forse hai
proprio ragione. Ora capisco perché s'è venuto a piazzare tra me e te, proprio
per dividerci. Ma sta fresco, anzi, eccomi qua che ti torno vicino.» Oh,
benissimo, fa Socrate, mettiti qua, al mio fianco.» «Santo cielo,» esclamò
Alcibiade, «quante me ne fa passare quest'uomo. Vuole sempre stravincere; ma,
almeno, mio straordinario amico, lascia che Agatone resti tra noi due.»
«Impossibile,» fece Socrate. «Infatti tu hai fatto, in questo momento, le mie
lodi ed ora tocca a me farle a quello che mi sta a destra. Quindi, se Agatone
se ne viene vicino a te, non può mica mettersi a fare il mio elogio prima che
io non abbia fatto il suo, ti pare? Piantala, quindi, tesoro, e non essere
geloso se elogerò questo giovane: io desidero molto tesserne le lodi.» «Iuh,
iuh, Alcibiade,» si mise a fare Agatone, «non è proprio il caso che io me ne
resti qui, anzi, mi alzo subito perché le lodi di Socrate io le voglio avere. Eh,
già, commenta Alcibiade, la solita musica; quando c'è Socrate, niente da fare
con i belli. Guarda un po' anche adesso, come ha saputo trovarsela facilmente
la sua ragione, in modo che costui gli si strofini al fianco. E così Agatone si
alza per mettersi vicino a Socrate, quando a un tratto, una numerosa brigata di
buontemponi si fece sulla soglia e trovando la porta aperta perché qualcuno era
uscito, irruppe dentro di filato verso di noi e ognuno si trovò comodamente il
suo posto. Ne nacque un baccano dell'altro mondo e si perse ogni misura, tanto
che ci demmo a bere a più non posso. Allora Eressimaco, Fedro e qualche altro
se ne andarono, continuò a raccontarmi Aristodemo. Quanto a lui è vinto dal
sonno e dormì profondamente anche perché le notti erano lunghe; si svegliò
ch'era giorno e che i galli cantavano. Quando aprì gli occhi, vide che gli
altri o dormivano ancora o se n'erano andati e che solo Agatone, Aristofane e
Socrate erano svegli e bevevano da una grande coppa che si passavano da
sinistra a destra. Socrate stava discorrendo con loro, ma Aristodemo disse che
non ricordava quello che si dicevano dato che non li aveva seguiti fin dal
principio e, poi, perché (almeno così disse) era tutto insonnolito, ma che, in
conclusione, Socrate stava persuadendo i due amici ad ammettere che uno può
comporre ugualmente sia commedie che tragedie e che chi, per vocazione, è poeta
tragico, sarà anche poeta comico. Quelli, costretti ad ammetterlo, ma senza
capir molto, sonnecchiavano. E ci disse che fu Aristofane ad addormentarsi per
primo, poi, a giorno fatto, anche Agatone. Socrate, quando li vide
addormentati, si alzò e se ne andò e lui, Aristodemo, com'era sua abitudine, lo
seguì. Giunto al Liceo si lavò e, come al solito, trascorse il resto della
giornata, poi verso sera se ne andò a casa a riposare. Educazione
guerriera Il filosofo G., voce narrate dell'educazione fascista scriveva:
"La possibilità, la necessità della lotta armata è immanente alla
coscienza nazionale, è presente in ogni momento di questa. E non c'è dunque
educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia ache educazione
guerriera."Una delle caratteristiche fondamentale – e forse la piu nuova e
significative – che la scuola italiana e andata gradatamente acquistando e che
sta per trradursi in aao nella piena chiarezza e precision delle idee direttive
e della organizzazione tecnica, e l’impronta guerriera. Nel dominio
dell’educazione, in cui tutta la vita di un popolo si riflette e da cui insieme
trae alimento e vigorose affermazione, si fa valere, cosi, quell’attuarsi
categorico della coscienza nazionale, che e la missione del Fascismo nella
storia d’Italia. La coscienza militare, lo spirito guerreiero, non e qualcosa
di diverse della coscienza nazionale; bensi costituisce con questa un duplice
aspetto della elevazione dell’individuo al disopra del bene proprio
particolare, per attuare le ragioni ideali della vita: un duplice aspetto in
quell concetto della vita come missione, onde l’individuo perisce nelle sue
forme superficiale e caduche e si sostanzia de realta universal ed eterna. Al
dispora della nazione non esiste, invero, non puo esistere una organizzazione
che equamente diriga e governi l’atttivita dei singoli gruppi sociali-nazionale
e instauri, attraverso la composizione dei contrasti, un armónico equilibrio. La
possibilita, la necessita della lotta armata e immanente alla coscienza
nazionale, e presente in ogni momento di questa; e la coscienza di essa e la
preparazione dell’animo atto a combatterla sono; diremmo quasi, una seconda facia
della coscienza nazionale. E non c’e dunque educazione veramente, vigorosamente
nazionale, che non sia anche educazione guerriera. Ma non basta. Il compito
specific dell’educazione guerriera, la preparazione alla lotta armata, ha un
suo proprio carattere – in connessione con la natura e le esigenze di tale
lotta – per cui non e soltanto il riflesso o, direbbesi, l’ombra
dell’educazione nazionale, ma da questa in certo modo si distacca e su essa
reagisce, aumentandone e integrandone il valore; e aumentando e integrando,
inoltre, il valore anche dell’educazione generale. La preparazione alla lotta
armata e in vero preparazione: 1) alla rinunzia piu complete al proprio io
particolare; poiche si tratta di ninunzia alla vita, il primo ed il massimo dei
beni e da tutti presupposto; 2) alla rinunzia – sia pure momentanea e quale
mezzo a una superior affermazione – anche alla propria personalita spirituale,
mediante l’obbedienza pronta ed intera: poiche la lotta e azione e nulla v’ha
di piu dannoso e folle che discutere quando e il momento d’agire. Fornisce
quell’agilita e pronezza di movimenti e quella resistenza alle fatiche e forza
muscolare, in cui la lotta armata ha uno dei suoi mezzi piu essenziali. Non
solo; per il riscio che e inerente a molti esercizi ginnastici, anche si
rifugga dale acrobazie – con le quali si sarebbe fuori dal dominio educativo –
essa e buon addestramento dell’animo alla lotta. L’educazione guerriera ha un
contenuto per ricchezza ed importanza infinitamente superior a quello
dell’educazione fistica; ma include questa necessariamente dentro di se.
Giovera in ultima accentare agli sports, in quanto non significhino
virtuosismo, ossia abilita tecniche e capacita fisiche prese come fine a se
stesse, ma si dispongano nel Quadro generale dell’educazione quale stimolo allo
sviluppo dell’uomo. Essi in questo caso sono il naturale sbocco dell’educazione
fisica, o meglio l’educazione fisica nella pienezza della sua attuazione;
poiche accentuano il momento del rischio e del consequente necessario dominio
di se. Ma non bisogna esagerare riguardo al valore degli sports in ordine
all’educazione guerriera. Questa ha il suo fondamento in un mondo ideale che a
quelli e compiutamente estraneo; e si riferisce ad una condizione di cose in
cui ben altro sir ischia che non qualche slogatura ed ammaccatura, e in cui l’Eroe
non attende il plauso, ma si vota sereno e deciso al sacrifizio che, anche,
rimanga oscuro.” Gallo Galli. Galli. Keywords: il fedro, sull’amore, metafisica
dell’amore, fisiologia dell’amore, dialoghi dell’amore, dialoghi sull’amore,
sul bello, l’uno e i molti, unum et multa – the one and the many – Plato –
Aristotle – Parmenides’s aporia – D. F. Pears, “Universals” in Flew, Rosmini, Bruno,
ermetico, Galileo, Serbati, Carlini, idealismo, idealismo critico, dialettica
dello spirito, Renouvier, educazione guerriera, Sparta, Platone, Siracusa,
dorio, guerriero, sacrifizio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Galli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gallio:
la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Giunio Gallio – An orator
with a reputation for his knowledge of philosophy. He adopted Lucio Anneo
Novato, the elder brother of Seneca.
Grice e Galluppi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Tropea). Filosofo
tropese. Filoofo calabrese (padre siciliano). Filosofo Italiano. Tropea, Vibo
Valentia, Calabria. “Gallupi is a great one; and much can be philosophised
about his philosophy of the ‘parola come segno del pensiero’” – Grice: “On top,
he was a Baron!” -- Eessential Italian philosopher. Figlio del barone Vincenzo e della nobildonna
Lucrezia Galluppi, entrambi della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche
famiglie patrizie di Tropea. Dopo lo studio della lingua latina, apprese filosofia
sotto Ruffa. Trasferitosi a Santa Lucia del Mela, compì il corso elementare di
filosofia e presso il Seminario vescovile della cittadina peloritana.
Intraprese dunque lo studio a Napoli sotto Conforti. Sposa Barbara
d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto maschi e sei femmine.
Trascorre le giornate di libertà nella residenza privata di famiglia, cioè
Palazzo Galluppi, sulla Strada Provinziale a Caria, frazione di Drapia, alla
biblioteca o al giardino. Pubblica a Napoli “Sull'analisi e la sintesi”.
Durante i moti aderì alla causa liberale sostenendo la riforma costituzionale
dello stato e protestando quindi contro l'intervento repressivo degl’austriaci.
Si riavvicina alla monarchia. Insegna filosofia a Napoli. Membro dell'Accademia
Sebezia e dell'Accademia Pontaniana di Napoli, degl’affatigati di Tropea (il ‘furioso’),
di quella del Crotalo di Catanzaro e della Florimentana di Monteleone. Il
suo merito maggiore consiste nell'avere introdotto in Italia Kant. Le Lettere
filosofiche sono definite il primo saggio in Italia di una storia della
filosofia. A G. sono dedicati il convitto nazionale, il liceo di Catanzaro
e il liceo di Tropea. A Tropea, la sua città natale, è attivo il centro
studi Galluppiani, associazione culturale dedita alla ripubblicazione
dell'opera omnia del filosofo e che di recente ha decretato l'ampliamento dei
fini statutari, fino ad accogliere e curare altre interessanti iniziative di un
certo spessore culturale. Periodicamente, il centro organizza il congresso
degli studi galluppiani, importante appuntamento di respiro nazionale, animato
da studiosi e saggisti provenienti da tutta Italia. L'attuale presidente è
Meligrana. Altre personalità di notevole importanza nella storia del centro
studi galluppiani sono Pugliese e Cane, filosofo, appassionatissimo studioso
dell'opera di Galluppi. Una vera dedizione, la sua che non è mai venuta
meno fino alla fine della sua vita. Organizzatore infaticabile di seminari,
simposi e conferenze, ha cercato di far conoscere il pensiero del G., favorendo
la pubblicazione dell'opera inedita "La filosofia della matematica"
la cui edizione lo ha visto anche quale curatore. Su G. pubblica numerosi saggi
ed articoli in quotidiani e riviste specializzate. Altre opere: “Memoria
apologetica” (Napoli, Vincenzo Mozzola-Vocola); “Grice, ovvero, Sull'analisi e
la sintesi” (Napoli, Verriento); “La conoscenza, o sia analisi distinta del
pensiere umano, con un esame delle più importanti questioni dell'Ideologia, del
Kantismo e della Filosofia trascendentale” (Napoli, Sangiacomo); “Filosofia”
(Messina, Pappalardo); “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia,
relativamente a’principii della conoscenza umana da Cartesio insino a Kant
inclusivamente” (Messina, Pappalardo); “Logica”; “Metafisica” (Firenze,
Tipografia della Speranza); “La volontà” (Napoli, Giachetti); “Storia della
filosofia” (Napoli); “Opera a cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Pessina,
autore del Quadro storico dei sistemi filosofici” (Milano, Gio. Silvestri);
“Autobiografia”, “Scritti” (Milano,
Dumolard); La filosofia del Galluppi e le sue relazioni col Kantismo, (Napoli,
Morano); “Lettere filosofiche” (Bonafede, Palermo); “Epistolario Lettere
private. Inedite e rare, Franco Ottonello, Milano, Franco Angeli
("Filosofia e scienza nell'età moderna" Collana a cura della Sezione
di Milano dell'Istituto per la storia della filosofia. Dizionario biografico
degli italiani. Quella specie di deduzione con
cui da una causa, che cade sotto i sensi, deduciamo un efetto, che sotto i
sensi non cade, o da un effetto, che cade sotto i sensi, deduciamo una causa,
che sotto i sensi non cade, quando la connessione fra la causa e l'effeto non
si presenta a noi come necessaria, è fondata su questa verità sperimentale, le
cause simli producono o son accompagnate da effetti simili; ed effetti simili
suppongono cause simili. Tutti e due questi modi di dedurre i fatti, che
immediatamente non si sperimentano, costituiscono l’argomento detto di
analogia. Si argomenta dunque per analogia, quando dair osservazione di
soggetti simili si deducono qualità simili, e quando da cause simili si
deducono effetti simili, o da effetti simili si deducono cause simili. Ma
resistenze, che si deducono, sono di due manière. Alcune possono essere oggetto
di esperie tua, altre non possono esserlo. Sebbene quando vedo l’acqua, che non
ho ancora bevuto, e che giudico di aver essa la qualità di estinguermì la sete,
non abbia ancora sperimentato in questo caso particolare la qualità di cui
parlo; pure è essa un oggetto di esperienza, poiché posso di fatto
sperimentarla, bevendo l’acqua che ho presente. Sebbene prima di vedere la
liquefazione della neve, io la deduco dalla vicinanza del fuoco. Pure questa
liquefazione può colpire i miei sensi, ed essere un oggetto di esperienza. Ma
vi sono infiniti casi, in cui l’esistenze che si deducono, non possono divenire
oggetto di esperienza. Domandato ad un uomo perchè egli crede un fatto, che
succede in luoghi ove non è, per
esempio, che il suo amico soggiorna alla campagna, o viaggia per la
Francia, egli vi darà per ragione un altro fatto: allegherà una lettera che ha
da lui ricevuto, alcune risoluzioni che gli vide prendere, alcune promesse che
gli ha sentito fare. Ora in tutte queste deduzioni, si suppone, che alcuni dati
moti dipendono dalla volontà dell’amico; si suppone in conseguenza, che il suo
corpo sia animato da uno spirito simile al nostro. Ora lo spirito dell’amico, e
le modificazioni inieinc di esso, non possono giammai divenire un oggetto di
esperienza: noi non possiamo giammai sortire da noi stessi, e sentire l’anima
sua, e ciò che in
essa acca(k; noi dunque qui argomentiamo da una esistenza, che è un
oggetto sperimentale, ad un altra esistenza, che per noi non può giammai
divenire un oggetto di esperienza.
Quando vedo la lettera, di cui si parla io giudico, che fu l’effetto de’ moti
del corpo dell’amico, giudico inoltre, che questi moti furono l’effetto della
sua volontà. Ora questa volontà
io non la posso sentire giammai, risalgo dunque qui da un effetto che colpisce
i sensi miei ad una causa, che non può giammai divenire un oggetto di
esperienza. Similmente se vedo piangere un uomo giudico che egli è afflitto,
ora l’afflizione di lui non puògiammai divenire un oggetto di esperienza per
ne; io dunque deduco qui da ciò che sperimento una causa,
che non posso sperimentare. Ora si
domanda: una tal deduzione è es M legittima? Allora che vedo un uomo, io vedo
un corpo simile al mio: se lo vedo camminare vedo questo corpo eseguire certi
moti simili a quelli, che io fo quando voglio camminare, da ciò conclude, che I
moti del corpo che vedo suppongono una causa
simile a quella, che ho
sperimentato, vale a dire uno spirito, che vuole tali moti. Pare dunque, che
questo caso possa ridursi alla stessa spezie di quello di sopra, cioè alla
deduzione di una causa
simile da un effetto simile. Ma
vi ha qui una differenza, di cui bisogna tener conto. Quando dal vedere un
orologio deduco 1’esistenza di un artifice, io ho osservato non solo gli
effetti simili, ma anche le cause simili, vale a dire, ho veduta molti orologi
fra i quali ho trovato della similitudine, ed Ito veduto ancora molti artefici
di orologi, fra I quali ho trovato ancora della similitudine. Ciò non accade, quando
da’ moti del corpo di un uomo deduco l’esistenza di uno spirito simile al mio,
da cui questo corpo è animato. Io non ho giammai sperimentato un altro
spirito,all’infuori del mio, quindi non lio giammai sperimentato la
similitudine delle cause, da cui derivano gli effetti de' quali si parla, io
dunque esco qui fuori deirespcnenia: se avessi erimontato piìi volte che alcuni
moti di altri corpi simili al mio derivano da spiriti simili al mio, allora la
mia deduzione avrebbe lo stesso fondamento dell’analogia, la quale mi autorizza
a dedurre da effetti che sperimento,simili aquelli che ho sperimentato, cause
simili aquelle che ho sperimentato. Ma qui siamo in un caso diverso;io sono
racchiuso nella sola osservazione di una causa sola: ho sperimentato in me solo
che alcuni dati moti procedono da un atto di volontà. Ma non 1’ho sperimentato
in altri, nè posso giammai sperimentarlo; or chi mi autorizza a concludere da
un caso solo una legge costante, ed universale della natura? Nell'argomento di
analogia si conclude per un caso ciò che abbiamo sperimentato costantemente in
tutti gli altri , che ci son occorsi: ho sperimentato molte volte, che il fuoco
posto in vicinanza della neve la liquefa, nè mi è occorso alcun caso, in cui
non abbia ciò sperimentato: vedendo del
fuoco posto in vicinanza della neve concludo, per questo caso particolare, ciò che ho
sperimentato costantemente nella
moltitudine degli altri casi. Ma quando
al veder muovere gli altri uomini giudico, che sono animati da uno spirito
simile al mio, procedo tutto al rovescio dell’analogia, poiché da un solo caso,
vale a dire da ciò che sperimento in me, giudico tutti gli altri. Questa
obbiezione merita di esser esaminata, poiché l’analisi dei motivi
de’nostri giudizi è1’oggetto della logica. Io ho camminato un
numero incalcolabile di volte, per varie direzioni, ed in vari luoghi. Ho
sperimentato questo fatto costantemente unito al mio volere. Ho sperimentato
fra il cammino di una volta equello di un altra una similitudine, ed una
similitudine fra l’atto di volere di una volta e quello di un altra. Ho dunque
qui sperimentato che effetti simili procedono da cause simili, vale a dire, che
il camminare consiste in moti volontari. Quando dunque veggo camminare un altro
uomo io concludo per questo caso particolare quello che ho sperimentato nella
moltitudine de’casi particolari occorsi in me stesso; non esco dunque dell’analogia, con cui si concludeda
molli ad uno. È nondimeno incontrastabile, che l'illazione non può giammai
divenire sperimentale, poiché 1’esistenza della volontà in un altro uomo, che
io deduco dal vederlo camminare, non può giammai divenire per me un oggetto di
esperiaiza come può divenirlo questa illazione: il fuoco che vedo liquefarà la
neve a cui è vicino: Ma ciò mi sembra, che non tolga alcuna forza alla
deduzione, che esaminiamo. Quando dal vedere il fuoco posto
in vicinanza della neve deduco la liquefazione di questa, io giudico prima
dell'esperienza; ressere perciò l’illazione di natura a poter divenire un
giudizio sperimentale,non influisce nella deduzione, L’illazione è vera per me
per la sua connessione colle premesse; non già perchè è un giudizio, il quale
può confermarsi coll’esperienza. Similmente, l’illazione di analogia, con cui
giudico che gl’altri corpi umani, fuori del mio, sono animati da uno spirito
simile al mio (“OTHER MINDS” WISDOM), è vera in forza della sua connessione
colle premesse, e l’impossibilità che ha questo giudizio di divenire
immediatamente sperimentale; non toglie mica il valore della deduzione. Ma qui
conviene aggiugnere qualche cosa molto importante. Che i moti chiamati
volontari, e che scorgo ne’corpi umani, non dipendano da una causa meccanica,
ma da una causa intelligente, mi sembra una verità necessaria della stessa
natura delle verità necessarie, che esprimono le leggi del moto. Se io sono ricco o potate, e deadcro d'innalzare un edifìzio, mille
braccia agiscono, e la mia volontà ha il suo effetto. La mia voce non ha fatto
impressione sul corpo de’travagliatori,
se non die per mezzo dell’aria, e no nha prodotto nell’atmosfera on’ agitazione
suflìciente a muovere de’corpi molto piìi piccoli di quelli che eseguono gl’ordini miei. La mia voce dunque non produce
l’effetto come causa meccanica. Bisogna perciò che un principio diverso
dall’agitazione dell'aria, o dalla mia parola produce questo moto ne’corpi, e
che la mia parola determina questo
princijiio a produrre i moti, che chiamiamo voloiitai. Non si può
riguardar la mia parola, se non che o come un molo eccitato nell’aria, o come
l’espressione della mia volontà. La mia parola non ha potuto come causa
meccanica produrre i moti, de’quali parliamo, perchè ciò come abbiamo veduto, è
contrario alla legge del moto, che un piccolo moto ne produca uno maggiore; al
che si aggiunga, che la mia parola non avrebbe
prodotto moto alcuno
nell’Ottentotto, o in un altro individuo che parla un linguaggio diverso dal
mio: per la sola espressione della mia volontà ha dunque
potuto la mia parola determinare ad agire
il principio del moto de’corpi die mi hanno ubbidito. Questo principio è perciò
un’intelligenza, poiché ha conosciuta la mia volontà nelle mie parole. La
proposizione dunque: vi tono alcuni moti ne’ corpi umani dieerti dcU mio corpo,
iquali hanno per causa una causa intelligente, mi sembra di verità necessaria.
La proposizione poi: vi sono alcuni moti ne’corpi umani dècer si dal mio corpo
i quali hanno per causa la volontà di uno spirito simile al mio, e per
conseguenza tali corpi sono animati come il mio, è di verità contingente, e
poggiata sull’analogia. Concludiamo nell’argomento di analogia si deducono
spesso cause, (M non possono divenir giammai un oggetto d’esperienza,
sebbene sieno simili ad altre cause, che si sperimentano. 2.° Vi sono nondimeno alcune deduzioni d’esistenze
che non possono divenire sperimentali, le quali deduzioni danno verità
necessarie in risultamento. Questa
seconda parte della conclusione enunciata si conferma da quello che si dice nell’ideologia circa resistenza dell’assoluto. Questo non
può certamente divenire un oggetto d’esperienza, intanto la sua esistenza è il
risultamento di un raziocinio legittimo, in cui una delle premesse è una
verità sperimentale. Noi diciamo; se vi
è il condizionale, et deve essere l’assoluto. Questa proposizione esprime un
giudizio analitico, e necessario: vi e
il condizionale. Questa seconda proposizione esprime un giudizio sperimentale;
vi è dunque l’assoluto. L’illazione è una verità necessaria. L’empirimo ci
riserra nel solo circolo dell’esistenze, immediatamente sporimetitali; nè ci
permette di passare da ciò, che cade immediatamente sotto 1’esperienza, a
ciò che
sotto la stessa immediatamente non cade.
Io vi ho fatto vedere il contrario; vi
ho dunque dimostrato la falsità dell’empirismo. L’argomento d’analogia
è fondato sul rapporto
d’identità. Ma l’identità può fra
due cose essere maggiore o minore.
L’identità fra il mio corpo ed il corpo di un altro individuo, che io chiamo
uomo, è maggiore di quella che passa tra il mio corpo ed il corpo di un CAVALLO.
Ora si domanda: tino a qual grado d’identità l’analogìa è un argomento
valevole, cioè un argomento certo ì È
questo un problema di difllcile soluzione. L’analogia ci rivela dunque
1'esistenza degli altri spìriti simili
al nostro. L’esperienza c’insa, che alcuni moti volontari in noi nascono, o
sono accompagnati da alcune affezioni interne del nostro spirito. Vedendo in
conseguenza moti simili in altri corpi umani, attribuiamo agli spiriti
animatori di tali corpi affezioni simili a quelle che abbiamo sperimentato in
noi. Allora che sono affetto EFFETO dal
sentimento della sete, corro a bevere ad una fontana che a me si presenta. Se
dunque vedo un altro uomo camminare verso una fontana, e bevere, giudico,
appoggiato sull’analogia, che egli sia modificato dal sentimento della sete, e
che voglia bevere. In queste deduzioni analogiche dove osservare ciò che vi ho
detto circa 1'aspettazione del futuro simile al passato, ili bisogna
distinguere il sentimento della deduzione meditativa. La dottrina generale che
ivi vi ho spigato, può applicarsi
all’oggetto che ci occupa. Noi supponiamo ne’nostri simili delle anime
alla nostra simile. Noi facciamo tali
suppozioni in forza della I^gc della
nostra immaginazione, non già in forza de’raziocini, che abbiamo
sviluppato. Io suppongo l’incontro di
due uomini, privi sino a questo momento di ogni commercio ,ancora cògli
animali; ridotti per conseguenza al circolo stretto de’propri sentimenti, e delle proprie operazioni. Ciascuno di essi
vede nell’altro un essere che gli rassomiglia in tutte le cose, che presenta le
stesse forme, possiede gli stessi organi, ne fa un simile uso. Egli crede
dunque il corpo che lo colpisce, animato da uno spirito. Or ecco, secondo la
mia dottrina, come si opera questo fatto intellettuale. Io suppongo che un di
questi uomini vegga l'altro camminare, questa percezione risveglia i fantasmi
simili del proprio corpo camminante in varie volte, e perciò anche i fantasmi
del proprio me affetto in tali circostanze da tali e tali modificazioni. Queste
riproduzioni si fanno con somma rapidità in modo che non posson essere fissate
dall'attenzione. Esse sono perciò obbliate l'istante appresso, in cui si son avute, intanto la percezione del corpo
simile al proprio determina l’attenzione
non solamente ad essa sola, m’ancora
alla percezione simultanea
del proprio me, e lascia
fuire le percezioni successive simili del proprio
corpo camminante in varie volte. La
piercezione del me
riprodotta si lega perciò a quella del corpo presente del mio
simile, invece di legarsi a quella riprodotta del proprio corpo camminante,
che si
è obbliata, e questo legame
costituisce il sentimento
interno di questa
specie di credenza.
L' obblio delle
percezioni riprodotte del
proprio corpo camminante
in varie volte,
nell’atto che rimane
quella riprodotta del
proprio me, fa si,
che questa ultima
si associi a quella presente del corpo simile. La
percezione riprodotta del proprio me rimane, perchè la percezione del corpo camminante
e quella del proprio me son legati
naturalmente in una
comune attenzione; essendo
associate dalla natura
stessa. Quella riprodotta del
corpo camminante s’ecclissa,
perchè quella del corpo
simile camminante richiama
l’attenzione. Lo spirito
trasporta dunque fuor di lui col pensiere l’idea del proprio me, che egli
immagina, e che stabilisce nel seno di quelle forme, che colpiscono i suoi
sguardi, ed a traverso delle quali il
suo sentimento immediato non può penetrare. Egli presta dunque il suo me al suo
simile, 1’anima della vita che respira in se stesso, e concepisce 1’esistenza
di un altro uomo. Tale mi sembra la spiegazione del sentimento della credenza che
esaminiamo. Risulta dalla stessa che noi concependo ciò che pensano gl’altri
uomini, non usciamo mica da
noi stessi. Nelle
nostre proprie idee
noi vediamo le
loro maniere di
essere, la loro
stessa esistenza. Da ciò avviene,
che 1’uomo misura
dal proprio spirito quello degl’altri,
dal che nascono molti orrori. Noi non possiamo accuratamente determinare lo
stato dei fanciulli; e conoscere perciò
l’epoca in cui hanno luogo le loro abitudini intellettuali. Ma egli mi sembra
incontrastabile, che queste abitudini si
formano in loro mediante la rapiditll di talune associazioni. I fanciulli
percepiscono negl’altri uomini
de’ corpi simili al proprio: &si sperimentano alcuni moti
spontanei del loro
corpo ed altri
simili ne percepiscono
nei corpi degl’altri
uomini. Queste similitudini,
ed altre, che si
manifestano piu tardi, determinano le associazioni di cui ho
parlato. Ma non solamente i moti
volontari che osserviamo negl’altri,
ci menano a supporre
nel loro spirito
alcune medincazioni. Ma ancora
certi moti e cambiamenti
necessari, che son gli stessi effetti
meccanici i quali accompagnano
i sentimenti interni dell' anima, come
il tremore e la
pallidezza nello spavento, le
grida, e le lagrime nel
dolore, il riso – risus signifiat
laetitiam interiorem, lacrima significat dolorem --, e il
tripudio nell’allegrezza. Questi
si manifestano incontanente da se
medesimi, anche ne’ fanciulli appena
nati, principalmente i gridi ed il lamento che accompagnano il dolore.
Concludiamo. Noi poniamo per mezzo di alcuni cambiamenti che
osserviamo ne' corpi altrui pervenire a conoscere ciò che accade nel loro
spirito. Questa conoscenza può essere meccanica o sia il
risultamenlo del sentimento
prodotto da alcune
rapide associazioni, e può
essere ancora l’illazione
di un RAZIOCINIO legittimo di analogìa. Possiamo
dir la stessa cosa in modo breve. Questa conoscenza può essere o istintiva o RAGIONATA.
Da ciò si vede che non è necessaria una
prima CONVENZIONE (cf. Grice: Meaning has nothing to do with convention) fra gl’uomini
acciò s’incomincino a intendere fra loro. LA NATURA rende gl’uomini tali che, conversando insieme
essi s’iiit elidono
ENTENDONO naturalmente anche SENZA L’ISTITUZIONE del linguaggio. Seguiamo la
supposizione de’due'solitari.
Sebbene 1'uno abbia compreso ciò che accade nello spirito dell’altro, non tì è
ancora un linguaggio propriamente detto – SENSU STRICTO, ma SENSO LATO; perchè
non si ‘parla’ se non quando SI CERCA DI
FARSI INTENDERE (il papagallo – Maurice, Locke); e se 1’uno
de’due individui penetra
il pensiero dell’altro
(TELEMENTAZIONE) ciò è accaduto
senza che questi cercasse a farglielo conoscere –senza avere l’intenzione della
sua intenzione communicativa di ser reconosciuta. I due individui di cui
parliamo, osservano, eh’eglino sono stati compresi, ed allora CERCANO DI FARSI
COMPRENDERE, e nasce cosi il primo linguaggio. Sviluppiamo questa
dottrina. Abbiamo veduto, che
il corpo degl’altri
uomini ci presenta
alcuni avvenimenti, la percezione
de’quali ci fa conoscere ciò che accade nel loro spirito. Ciò LA CUI IDEA
ECCITA L’IDEA DI UN’ALTRA COSA CHIAMASI SEGNO (Il fumo e segno del fuoco, la
nubbe oscura e segno di piuvia. Nel corpo di un altr’uomo vi sono dunque de’SEGNI
delle interne modificazioni dello spirito animatore di questo corpo. Siccome
tali SEGNI son tali per la costituzione DELLA NOSTRA NATURA, cosi si
chiamano SEGNI NATURALI. Vi sono,
in conseguenza, de’segni naturali de’pensieri o modi di essere dello spirito
degl’altri uomini. Ma non solamente vi sono di quello o questo SEGNO NATURALE de’pensieri
altrui; ma 1’uomo può conoscere che vi sono, cioè può conoscere che, con alcuni
dati mezzi, si può manifestare altrui ciò che si sperimenta internamente nello
spirito proprio. Supponiamo, che uno de’ due nomini supposti pianga, gridi, si
lamenti, senza avere l’ intenzione dì manifestare all’altro il dolore, che egli
sente; intanto 1’altro sapendo, che questi gridi, e questi lamenti sono soliti ad accompagnare
il dolore, conosce da questo segno il dolor dell’altro, ed accorre al soccorso
di lui, questi perciò comprenderà da tutto questo che egli è stato compreso. E
se avviene altra volta, che si trovi affetto dal dolore, ed in bisogno del
soccorso dell’altro, piange e grida
coll’INTENZIONE (non solo volunta o desiderio) di manifestare
all’altro il proprio dolore.
Così gl’uomini incominciano
dal comprendersi scambievolmente.
In seguito conoscono che
sono stati compresi,
e finalmente si determinano
a farsi comprendere. Cosi si
osserva in tutt’i fanciulli comunemente. A principio essi GRIDANO, e si
lamentano costretti unicamente dalla forza del dolore, SENZ’AVER L’INTENZIONE di
manifestarlo con questo o quello segno agl’altri, anzi senza sapere neppure che
cosa alcuna si puo ESPRIMERE col pianto e colle grida. Ma appresso, avendo
imparato che con tali segni si ottiene l’altrui soccorso, cominciano a
valersene avvertitamente per manifestare il loro dolore, e ricevere
il soccorso che
bramano. Ciò di
cui gl’uomini si
servono, per manifestare
agl’altri i propri pensieri,
chiamasi SEGNO ARTIFICIALE. Un segno naturale
divenne dunque NATURALMENTE naturalmente un segno ARTIFICIALE. Qui ha
termine l’educazione della
natura per le
nostre scambievoli comunicazicmi.
La natura insegna
all’ uomo che egli può
farsi intendere. E l’uomo può
non solamente servirsi de’mezzi NATURALE che LA NATURA gl’ha
mostrato per la COMUNICAZIONE NATURALE de’propri pensieri, ma può ancora ritrovarne
degl’altri simili. Il
primo e più semplice mezzo di comunicazione NATURALE, NON ARTIFICIALE,
che si offre allo spirito, si è quello di ripetere con riflessione ciò eh’egli
fa dapprincipio, senza prevederne le conseguenze, cioè di riprodurre quelle
azioni, per mezzo delle quali li si è fatto comprendere. Così si forma un primo
linguaggio, che può chiamarsi
‘linguaggio’ della natura,
poiché esso non
si compone se
non che di questo o quello SEGNO NATURALE, vale
a dire di questo
o quello SEGNO di cui LA
NATURA HA già senza di
noi rivestito i nostri pensieri
spreti, per renderli
sensibili agl’altri. Il linguagio
della natura è insufficiente per manifestare agli altri
tutt’i nostri pensieri. Noi
abbiamo al presente il linguaggio de’suoni articolati. I filosofi disputano sull’origine
di esso. La quistione si versa
sull’esistenza, e sulla possibilità,
cioè si cerca; gl’uomini hanno esH DA SE stessi ISTITUITO
il linguaggio. Questa ricerca suppone quest’altra. Gl’uomini abbandonati
austusi possono istituire il linguaggio. I nostri sacri libri, c’insegnano che
Adamo ed Èva (o l’uomo da Polifemo) SONO creati da divino (Polifemo) in uno
stato adulto con delle conoscenze in istato di riflettere e di COMUNICARSI i
loro pensieri. Il divino ù maqiiesta
all’uomo innocente ne’primi
istanti della creazione. Il divino (Polifemo) è dunque l’autore
primitivo del linguaggio. Ma io suppongo, dice Condillac, che, qualche tempo
dopo il diluvio, due bambini dell’uno, e dell’altro sesso siensi trariati ne’
deserti, avanti che conosceno 1’ aso de’ vocaboli. A fare questa
supposizione, egli dice, io sono spinto dal fatto del giovane di
Chartres rapportato nelle memorie dell’accademia delle scienze. È questi del’età di 23 a 24 anni
sordo e muto di nascita. Comincia con gran sorpresa di tutta la città tutto ad
un colpo a parlare. Si sa da lui
che, tre o quattro mesi
prima, egli udisce il
suono delle campane,
ed è stato
estremamente sorpreso da
questa sensazione novella ed
incognita. In seguito gli è sortita una specie di acqua dell’orecchia sinistra,
ed acquisce l’udito in tutte e due le orecchie. Egli impiega tre mesi ad
ascoltare, senza nulla dire, assuefacendosi a ripetere sotto
voce le parole,
ch’ali udisce, ed
esercitandosi nella pronunciazione, e nelle
idee legate a’vocaboli. Io non so come questo fatto pu
autorizzare il filosofo francese, a fare
la supposizione di cui parla,
se non perché ciò mena a poter supporre, che due giovani di sesso diverso
sordi e muti di nascita, possono traviarsi ne’deserti o ne’boschi, indi
incontrarsi, e dopo l’ incontro ricever
tutti e due rudito. Questa supposizione non ha niente di assurdo;
ed è perciò lecito al filosofo di cercare, se in una tale supposizione questi
due giovani possano ISTITUIRE una società, ed un linguaggio. A ciò si può
aggiungere, che si rapporta, essersi in vari tempi vari fanciulli trovati
ne’boschi. Uno ne è sorpreso nell’Asia in compagnia de’ lupi, un altro dell’età
di circa 12 anni in Weteravia, un altro di 16 è scontrato fra una torma di
pecore selvatiche nell’Irlanda, un altro di nove fra gl’orsi nelle selve della
Lituania. Uno ne fu scoperto presso ad Hamelen nella Sassonia, una fanciulla
presso a Lwlla nella provincia di
Utrecht, ed un’altra è arrotata presso Chalons. Io per altro non comprendo come
questi fanciulli abbiano potuto vivere, se sono stati abbandonati, o perduti
prima di potersi alimentar da se stessi, ed in conseguenza prima di avere una
lingua. Si potrebbe supporre che principiano a parlare, quando si smarrirono. Ma
che poi, nella solitudine, interamente obliano quanto hanno imparato. Or si domanda. Se due di questi di sesso
diverso, si fossero per avventura incontrati nella stessa foresta, che sarebbe egli
avvenuto? E per limitarci all’oggetto delle nostre ricerche, domandasi:
avrebbero essi ISTITUITO una
lingua. Tralitsciando dunque, sull’origine del linguaggio,
la quistione di
fatto, è egli lecito di
esaminare quella della
possibilità (cf. Grice on the contract in contractualism), o di cercare
se gl’uomini abbandonati
a loro stessi possono
istituire una lingua? L’esame di una tal quistione è molto
utile, per ben conoscere, e misurare le forze dello spirito umano, e queste ricerche ipotetiche ci menano ancora
a risultamenti che hanno luogo nel fatto reale. Io aggiungo dippiu, che alcuni
autori [ALIGHIERI, GELLI] anche su l’autorità de’nostri libri divini, hanno
creduto, che le lingue attuali – comme la lingua italiana -- sieno state
istituite dagl’uomini coll’uso delle loro forze naturali. Ecco come può essere
accaduta la cosa. Nel famoso avvenimento
della costruzione della torre di
Babele, per forza miracolosa, è cancellata dalla mente degl’uomini la
memoria intera del primitivo linguaggio. In seguito di un tale miracolo, gl’uomini
si divideno a torme secondo i rapporti di parentela e di amicizia, e si stabilirono hi diverse
parti della terra. Sono
dunque abbandonati a se stessi, per istituirsi un linguaggio; e così perduto
interamente il linguaggio
primitivo dì cui è stato autore il
divino stesso, le nuove lingue, che nasceno
sulla terra, sono un prodotto dello spirito umano. In questo modo si spiega
come gl’uomini perduto, per forza del
miracolo, il primitivo
linguaggio, non si sieno
più scambievolmente intesi
ne’linguaggi rispettivi. Questa opinione
ammette un solo
miracolo, quale è quello della
memoria perduta del
linguaggio primitivo, laddove
nell’opinione contraria bisogna
supporre una gran
moltitudine di miracoli, l’uno in forza del quale gli uomini abbiano perduto
la memoria del linguaggio primitivo, e gli altri con cui il divino abbia istitue
i diversi linguaggi, che hanno luogo
dopo dell’avvenimento. Ora si puo dire,
non e verisimile, che il divio
moltiplica inutilmente i miracoli. Checché ne sia di tale opinione, noi
esamineremo qui la quistione della possibilifb. il rispetto che il filosofo deve
alla religione divina, che c’illumina, mi conduce a questa digressione. Per
esaminar la quistione proposta continuiamo la supposizione di sopra, e partiamo
dal punto ove siam rimasti. Abbiamo veduto l.° che gl’uomini per natura si
comprendono scambievolmente. 2.° che
conoscono di essere stati compresi. 3.° che con ciò si fanno
naturalmente un linguaggio artificiale, che è il linguaggio della natura. Vale
ad ire che fanno uso di questo o quello segno naturale, per manifestare agl’altri
i propri pensieri. Ma il bisogno non potrebbe spingere gl’uomini, a migliorare,
cioè ad acrescere questo linguaggio della natura, ritrovando de’segni analoghi?
Il pianto ed i gemiti manifestano -- risus significat laetitiam interiorem -- agli altri
il dolore da
cui un individuo
è affetto. Ma non manifestano lyica la CAUSA del dolore. Ora gl’uomini hanno spesso bisogno, per
essere soccorsi, dì manifestare agl’altri la CAUSA del loro dolore. Per tale
oggetto alcune volte bastano le circostanze. Uno de’due suppposti
solitari cade in una fosa
egli non può
senza l’al trui soccorso
cavarsene fuora. Egli grida -- 1’altro accorre, e si avvede della CAUSA
del dolore del suo simile. Parimente se uno de’due è inseguito da una bestia feroce, e grida, l’altro
conosce dalla circostanza la causa del dolore del compagno. Spesso nondimeno la
CAUSA del dolore non apparisce dalle circostanze.Tutti generalmente acquistiamo
l’abito, allorché ci sentiamo in alcuna parte addolorati, di recare colà la
mano. Se dunque uno de’due supposti solitari sente dolore in qualche
parte, egli grida, e la mano
corre naturalmente alla parte addolorata.
L’altro accorrendo alle grida, e spingendo
per avventura lo sguardo là, dove
è corsa la mano dell’altro conosce il luogo del dolore e se la CAUSA del dolore
è una ferita, o una contusione, o qualche altra cosa visible; allora conosce
chiaramente questa causa. Qualora l’uno vorrà porgere all’altro alcuna cosa,
amendue stenderanno la mano l’uno per darla, el’altro per
prenderla. Questo moto della
mano potranno da si naturale
divenire un SEGNO ARTIFICIALE, così si puo indicare
la causa del
dolore recando la mano su la
parte addolorata; e si potrà da uno de’due individui volendo dire all’altro che
non è vicino qualche cosa; e, non volendo o non potendo muoversi, stendere la
mano con entro la cosa che gli vuol PORGERE. L’altro similmente se cosa alcuna
brama aver dal compagno, porge la mano vota per prendere ciò che desidera. Fin
qui non si esce ancora dal linguaggio della natura. Ma già siamo al termine di
un altro linguaggio a cui il primo ci
mena. Vi sono due specie di cose di cui gl’uomini hanno bisogno di
eccitare le idee negl’altri. Alcune
possono nel momento stesso colpire i sensi tanto
di colui che vuol parlare quanto
di colui a cui si vuol parlare. Altre sono lontane o almeno invisibili, e non esistono nel momento, se
non che nello spirito di colui che vuol farsi comprendere. Tiguardo alle prime,
basta che colui che vuol parlare cioè che vuol farsi comprendere ecciti
l’attenzione del suo compagno, e la
diriga sull’oggetto che
gli vuol mostrare.
Abbiamo veduto che il
gesto può esser NATURALE
e divenire un SEGNO ARTIFICIALE. Ma alcune volte non è cosi.
Supponiamo che uno de’due solitari voglia mostrare all’altro un oggetto
lontano ma che
può esser veduto. Egli
avverte il suo compagno
per un GRIDO, ed allora
che questi volge
a lui gli sguardi. Il
primo dirige Io
sguardo su l'oggetto (un serpe_, che vuole mostrare
all’altro, e fa uso del dito (fingerwave, handwave), per meglio mostrargli la
direzione, che prende lo sguardo suo. L’altro
rimite, e la sua curiosità lo porta ad osservare ciò che occupa il suo
compagno. Questo grido, questo gesto, forma una prima spezie d’un SEGNO ISTITUITO (stablished), che
si possono chiamare segni indicatori (INDICARE – CONTENUTO DITTIVO,
INDEX). Osservate che il
segno di cui parlo non
e un segno INVOLUNTARIO SPONTANEO INCONTROLLABILE e naturale, perchè
il grido è naturale
nel dolore e nel piacere. Il
grido diviene da naturale artificiale *per* (con l’oggetto di) denotare il
dolore, o il piacere. Ma l’uno de’ due solitari avendo osservato, che l’altro,
quando egli manda fuori il grido, diriga a lui
il proprio sguardo, FA USO CONTROLATO E VOLONTARIO di un grido per
obbligare il compagno
a fissare su di
lui lo sgiiardo. Cosi, il grido
si estende a denotare ciò che denota questa proposizione di modo impoerativo: “volgiti a me.” Inoltre lo stendere [verbo in
infinitivo – cf. Grice MEANING] il dito (finger wave, hand wave) verso
l’oggetto (serpe) che si vuol mostrare non è un SEGNO NATURALE, ma un segno ICONICO
analogico, poiché vi ha una similitudine fra il moto che fa il dito
(finger-wave handwave: I KNOW THE ROUTE --- oohh: “VIENI”), ed il moto che far
dovrebbe il proprio
corpo per ginngerc
all’oggetto che si vuol
mostrare. Questi due moti avendo
la stessa direzione,
o pure, la direzione del dito (FINGERWAVE,
HANDWAVE, I KNOW THE ROUTE) è identica colla direzione che prende lo
sguardo. Per tal ragione io credo,
che il gesto di cui
parlo dove riguardarsi
piuttosto come un SEGNO
ICONICO IMITATIVO ANALOGICO, poiché il
moto del dito (fingerwave, handwave) imita
nella direzione il
moto che far
dovrebbe il proprio corpo per giungere pel cammino più corto all’oggetto
che si vuol mostrare, o pure imita la direzione dello sguardo. Ma servendo tal
gesto ad indicare un’oggetto (UN TIGRE), che può nello stesso momento colpire i
sensi de' due solitari, gli si pùò dare il nome di SEGNO INDICATORE (INDEX –
INDICAT – DICTIVE CONTENT, CONETUTO DITTIVO). Questi due segni indicatori di
cui parliamo equivalgono; a queste due proposizioni in modo imperativo: “volgiti
a me” + “guarda là”. Vi ha inoltre de’ segni imitativi, i quali servono a
denotare alcune cose future, od
altre cose che nel momento non possono
colpire i sensi di tutti e due i solitari. Supponiamo, che uno di questi sia in
A (St. Giles), 1'altro sia lontano ma a vista del primo in B (Banbury), che
l’oggetto lontano ma a vista di tutti e due sia in C (Christ Church). Inoltre
cl» il primo, non potendo muoversi per andare io C voglia manifestare all’altro
che vada in C, e che prendendo l’oggetto bramato ivi posto, lo rechi a lui
in A. Ecco come io immagino, che la cosa
potrà farsi. Il primo, con un grido,eccita 1'attenzione del compagno. Indi STENDE
IL DITTO (FINGER-WAVE) nella direzione della linea fra A e B. Poi, la muoverà
nella direzione di una linea parallela a quella fra B e _C_. Con questo moto, egli
‘dice’ (INDICA – ESPLICA ma non IMPLICA) al compagno che vada da B in C. E
questo moto è un segno IMITATIVO del moto che il compagno dee fare [INDICANTE DI
UNA VOLIZIONE], per secondare il desiderio dell’altro'io A. Questo moto, che il compagno dee fare è *una
cosa futura* che non può nel momento colpire i sensi de’due solitari. Ecco
dunque come con de’segni imitativi si possono denotare un’oggetto assente.
Supponiamo, inoltre, che l'individuo posto in B si conduca in C. L’altro, che
si trova in A, stende il suo braccio da A verso C in posizione orizzontale. Indi
fa un moto col braccio imitativo di quello che dee fare il compagno per
prendere l’oggetto posto in C. Dopo di ciò ritornando a mettere il braccio
nella stessa posizione orizzontale, lo ritrade a se con un moto contrario a
quello, con cui rha steso, e che è imitativo di quello che dee fare il compagno
per *venire* da C in A. Con i segni imitative dunque si puo denotare le cose
invisibili nel momento. Questi segni imitativi si possono eseguire in vari
modi. Così, per denotare una *serpe* si può sull’arena designare la sua forma,
o il suo moto tortuoso. Abbiamo veduto che vi sono de’segni naturali delle
nostre interne modificazioni, e che UN SEGNO ORIGINALMENTE NATURE PUO DIVENIRE
ARTIFICIALE, e così costituire un primo linguaggio, significazione,
comunicazione, manifestazione, che abbiamo chimato ‘linguaggio’ della natura
(cf. Condorcet, ‘comunicazione d’azione’).
Abbiamo detto inoltre che 1’uomo può con altri segni accrescere questo ‘linguaggio’
della natura, ed abbiamo chiamato i segni che accrescono il linguaggio della
natura, segni indicatori e segni imitativi. Ora qual principio può guidare
l’uomo a ritrovare le ultiqie SPECIE DI SEGNI? Nella logica pura lo spirito è
naenato nel passare analiticamente d’una proposizione ad un’altra, ad una certa
similitudine che passa fra l’una e l’altra. Il
princìpio della similitudine è dunque un principio d’invenzione, e
questo principio ha condotto gl’uomini, partendo dal ‘linguaggio’ della natura,
a ritrovare i segni indicatori ed i segni imitativi, queste due SPECIE DI SEGNI
possono perciò chiamarsi segni ANALOGICI. Difatto, fra il moto del mio dito
(finger wave, handwave), con cui mostro l’oggetto lontano, ed il moto che
dovrei fare col mio corpo, per arrivare, pel cammino più breve all’oggetto, vi
si osserva una similitudine: una
certa similitudine si osserva
eziandio tra un segno analogico imitativo
e ciò di cui è l'imitazione. Le interne
modìficazioni dello spirito possono manifestarsi per mezzo de’moti del corpo.
Il desiderio, il rifiuto, l’avversione,
il disostosi esprimono per mezzo de’moti del braccio, della testa, e per mezzo di quelli del corpo intero, moti
piò o meno vivi, secondo la vivacità, con cui ci portiamo verso di un oggetto,
o ce ne allontaniamo. Tutti i sentimenti dell’anima possono esser espressi
dalle posizioni del corpo. Esse dipingono di una maniera sensibile
l’indifferenza, l’incertezza,
l’attenzione, e le altre affezioni interne. Ora se ripetendo queste
azioni, e posizioni del corpo, si denota insieme, che esse non si riferiscono
ad affezioni presenti, allora denoteranno le modificazioni, da cui siamo stati
affetti. L’analògia acquista
spesso una grande estensione. Cosi,
per esempio, quando voglio attendere ad un oggetto, die colpisce i miei
occhi, dirigo lo sguardo verso di esso. Questa
direzione (GRICE’S FROWN) è segno dell’attenzione dello spirito. Ma io
posso ancora rivolgere la mia attenzione ad un oggetto invisibile. Se dunque
per denotare quest’ultima attenzione,
mi servo della direzione dello
sguardo, questo segno si
estende al di là di ciò, che naturalmente denota. Allora
che io peso un corpo, lo paragono
ad un altro; pesare è dunque paragonare. Ma paragonare
non è sempre pesare;
perciò, quando, per esprimere l’azione intellettuale che
paragona, io prendo nelle due mani de’corpi, come fo quando viglio pesarli,
questa azione è trasportata a denotare *più*
[IMPLICATURA come eccedenti – ‘Hasn’t been to prison yet: ‘He might’) di
quello che denota
in origine. Questa
TERZA specie di
segni, che l’analogìa
somministra agl’uomini, si puo
chiamare SEGNO FIGURATO. L’unione de’ segni
indicatori, imitativi, o figurati
costituisce il linguaggio analogico. Cosi, un segno naturale, divenendo
segno artificiale, costitoiscono il linguaggio della natura. Gl’uomini, guidati
dal principio della similitudine, partendo dal principio della natura,
inventano il linguaggio analogico. Ma fa d’uopo considerare l’ultimo linguaggio, di cui abbìam parlato, in colui che per parlarlo lo trova: ed in colui
che l’intende. Nel primo, il principio della similitudine guida la meditazione
a produrre nuove idee. Nel secondo il principio della similitudine riproduce
alcune idee simili a quelle che modificano attualmente lo spirito. Quando colui
che vuol parlare fa uso il primo di alcuni gesti, per denotare alcuni dati
pensieri, li, guidato dall’analogia, INVENTA QUESTI SEGNI (GRICE DEUTERO-ESPERANTO),
e questi segni, e questa invenzione è un prodotto della meditazione. Ma colui
che ascolta intende questi segni in forza del principio meccanico
dell’associazione dellé idee. Fra i principi particolari compresi sotto questo
principio generale, si contiene il principio della similitudine. In forza di
questo principio, il moto del dito riproduce l'idea del moto simile del corpo
intero, e questa riproduce quella delle modificazioni interne dello spirito
legate col moto del corpo intero. Colui che istituisce il linguaggio per farsi
intendere è attivo. Quegli che intende il linguaggio btituito è passivo. I
gesti, i moti del corpo, ed un SUONO INARTICOLATO costitubeono il linguaggio
chiamato da Condillac ‘linguaggio’ o COMUNICAZIONE O SEGNO d’azione. Su di esso
deve fare ancora due osservazioni. 1..° un tal ‘linguaggio’ o SIGNIFICAZIONE o
COMUNICAZIONE esiste ancora e esso accompagna quello del SUONO ARTICOLATO. Un
oratore parla eziandio coi gesti, colla posizione del corpo, co’ moti del
corpo, e principalmente co’moti degl’occhi (TURN TAKING IN CONVERSATION –
GRICE). Ciò che si chiama mimica
consiste appunto nell’arte di far concordare il ‘linguaggio’ d’azione con
quello del suono articolato. 2.° col
solo linguaggio d’azione, anche dopo l’istituzione di quello del suono ARTICOLATO,
alcune nazioni incivilite esprimevano de’ lunghi discorsi. PRESSO I ROMANI i
pantomimi rappresentano de’pezzi interi, senza PRO-FERIRE (utter) una parola
(PARABOLA), li bisogna dunque, che i pantomimi, partendo dal linguaggio della
natura prendeno l’analogb per guida, e
così poterono pervenire a farsi intendere. La scrittura santa ci somministra
ne’profeti molti esempi di questo linguaggio analogico d’azione. Così, per
darne un esempio, ad ogetto di denotare che la Giudea ch’è imita con Dio, è poi
stata da Dio rigettata e dispersa per la sua superbia ed idolatria, il profeta
Geremia, per l’ordine di Dio, si cinge con una cintura di lino i lombi, indi si
toglie questa cintura, e presso l’Eufrate in un forame di una pietra la
nasconde. Dopo molti giorni, ritorna aprendere la nascosta cintura, e la trova
infracidita in modo, cf)’ è inutile per qualunque uso. Nella profezia di
Geremia si possotm trovare molti esempi di questo linguaggio analogico d’azione.
Se i moti del nostro corpo da quello o questo SEGNO NATURALE divenne il SEGNO
ARTIFICIALE, e se questo linguaggio può essere accresciuto dall’analogia,
quello d’un SUONO che da SUONO NATURALE è ancora divenuto un SEGNO ARTIFICIALE
(“Ouch”), non puo similmente essere accrescinto dall’analogia stessa. Se un
selvaggio, per denotare il moto che dee fare, secondo il suo desiderio, il suo
compagno, può servirsi di un moto simile del suo DITO (hand-wave, finger-wave),
perchè, per *denotare* il muggito del bove, il belare delle pecore, il rumore
del tuono, non puo egli adoperare un suono simile. L'analogia che 1’ha menato all’invenzione dei primi
segni, dee menarlo ancora all’invenzione de’secondi. Il bisogno di *denotare*
questi suoni degl’oggetti o le cose sonori,
mena il sdvaggio a produrre fuori
de’ suoni imitativi (ouch), e così
nascono le prime voci radicali del linguaggio de’ suoni ARTICOLATI. Questi
suoni non poterono essere dapprincipio se non che mono-sillabi, come lo prova
l’esempio de’fanciulli (“da”). Ma l’analogia non è il solo principio del
linguaggio del suono ARTICOLATO, poiché non
sempre si debbono *denotare* un _suono_, o una cosa sonora (OUCH). Per
denotare dunque le cose che non mandano suono, l'analogia fa però conoscere agl’uomini,
che possono servirà d’un suono ARTICOLATO (non-iconico), per far à
comprendere. Ciò posto
se un selvaggio si
trova nel bisogno
di farsi comprendere, se non
trova altro mezzo
per ottenere il
suo fine, se non
quello del suono – la profferenza
vocale, OUCH --, perchè non puo
egli produrre un suono arbitrario,
il quale, poi compreso dall’altro, divenne un segno comune – ESTABLISHED. Per
rendere sensibile ciò che dico,supponiamo, che ì due solitari immaginati siensi
perduti di fbta, e che l’uno voglia ritrovar 1’altro, egli conosce certamente che
non puo far comprendere all’altro questa sua volontà se non che per mezzo d’un
suono. Egli manda dunque fuori un grido (“OOOOH – Indian love song”). Questo GRIDO
(OOOOH – Indian love call – cf. OUCH) da principio non è, come ognun vede, se
non che un puro EFFETTO NATURALE (cf. GRICE, OUCH). Se il DOLORE è naturalinente
sonito d’un suono INARTICOLATO (“Ouch”), dal
pianto (lacrima significat dolorem, risus significat laetitiam
interiorem) e dal gemito (“OUCH” – groan); perchè il
bisogno di spiegarsi, e di MANDAR FUORI (PRO-FERRIRE) un suono, non
potrà esser seguito
da un suono QUALE
che siasi? Noi non possiamo determinar
la RAGIONE (non meramente CAUSA) per cui il selvaggio MANDA FUORI un tal suono
piuttosto che un altro, come, volendo camminare, non possiamo conoscere la
ragione (e non meramente causa) perchè abbiamo mosso il piede diritto anzi che
il sinistro, o questo anzi che quello. Questa ragione (e non meramente causa) può
consistere, almeno in parte, nella varia posizióne meccanica del nostro
cervello, e generalmente di tutto il nostro corpo. Ma saniamo
lo sviluppa della
nostih ipotesi. L’ALTRO selvaggio, sentendo il grido, di cui si parla, accorre a ritrovare il suo compagno (principio d’aiuta
mutua conversazionale), e come amendue osservano che un tal grido HA LA FORZA
(VIM, SIGNIFICATIO) di far che l’uno ritorni all’altro, i due solitari se ne
serviranno appostatamente. lu tal caso la voce di cui parliamo ha lo stesso
significato del verbo “vieni.” (GRICE: “I KNOW THE ROUTE”). Può dunque l’uomo
ritrovare un suono ARTICOLATO NON IMITATIVO (arbitrario, non-iconico,
artificiale), per denotare agli altri le sue interne modificazioni – e anche
una modificazione, per esempio, del clima (“Piove – Andiamo alla caverna”).
Egli può trovarsi nel bisogno di farsi comprendere dal suo simile con un suono.
Da un tal BISOGNO nasce la VOLONTÀ e INTENZIONE di mandar fuori un suono.
Questa volontà ha il suo effetto, ed un suono è da lui mandato fuori. Questo
suono è tale e non altro, perchè tale e non altro è lo stato fisico del corpo che
produce il suono (o del clima esterno – stato esterno, non interno – “Piove –
andiamo alla caverna), e lo STATO morale ancora dello spirito animatore di
questo corpo. Ecco spigata la nascita del SUONO ARBITRARIO (Ouch). Ciò che ho
detto è provato coll’esempio de’fanciulli. Eglino innanzi che abbiano appreso a
parlare, quando bramano alcuna cosa
ardentemente, nell’atto che si sforzano di acceimarla co’gesti, e co’
movimenti del corpo, per
lo più proferiscono
insieme una qualche
voce, poiché lo spirito, quando si trova in qualchegr ave bisogno mette
ad un tempo tutte le sue facoltà in azione. Questo è comune alle BESTIE ancora.
Anzi i sordi muti medesimi, benché
nemmeno sappiano di aver voce, ciò non ostante per non so qual movimento
meccanico, mentre s'impegnano di spiegarsi co’lorogesti, principalmente
quando si tratta di cose che molto l’interessano e che non
possono facilmente farsi comprendere, mandano anch’essi
quando una, e quando un’ altra voce. Gl’uomini possono
dunque istituire de’ SUONO ARTICOLATO ANALOGICO (ouch ouch), e possono
istituire ancora un SUONO ARTICOLATO ARBITRARIO. Lo chiamo ARBITRARIO non già
perchè e prodotto senza una
ragion sufficiente, ma perchè
non e un SUONO ICONICO O IMITATIVO
O ANALOGICO. Qual similitudine, per esempio, può mai trovarsi fra questo suono
“cielo,” ed il complesso delle sensazioni visuali che ci desta in una notte
tranquilla il firmamento 7£ perchè la costituzione fisica e morale, in cui si
son trovati gl’inventori delle lingue – come la lingua latina, CAELVM, e l’italiana,
CIELO -- allora che sono ndl bisogno di,
con un suono, *denotare* uno stesso oggetto, è stata varia non solamente per la
natura, e per gl’abiti contratti, ma eziandio per i climi, ed i siti. Perciò in
diversi luoghi di
questo globo terraqueo
nasceno DIVERSI suoni primitivi – cf. glottal clicks -- , come è provato
per le radici
di tutte le
lingue cognite. n fatto de’fanciulli
prova senza replica che
gl’uomini possono arrivare
a comprendere il linguaggio
arbitrario. E meditando
attentamente su di
questo fatto si
può intendere come ciò
possa avvenire. Supponiamo
che un fanciullo' apprende il *significato* del
vocabolo ‘gallina’ (Grice, SHAGGY), il che può accadere unendosi d’alcuno alla *pronunciazione*
(realizzazione fisica) del vocabolo “gallina” (shaggy) l’*indicazione* del
volatile dal vocabolo denotato. Supponiamo, inoltre, che il fanciullo vede una
gallina _morta_ e che il giorno seguente
ascolti d’uno della famiglia questa proposizione: la gallina jeri morì, si
accorgerà che si vuole denotare l’avvenimento della morte della gallina accaduto
il giorno innanzi.
Supponiamo ancora che la proposizione: “La gallina jeri morì” siasi
udita più volte dal fanciullo in modo che egli 1'abbia impressa nella sua
memoria; « che avendo veduto una cagna partorita il giorno avanti, e sapendo il
signifìcato del vocabolo “cagna”, ascolti la seguente proposizione: “La cagna
jeri partorì.” Ecco la serie de’ fatti
intellettuali che in tal caso hanno luogo nello spirito del
fanciullo. l.° egli intende
che, colla proposizone, “La
cagna jeri partorì”,
si denota il
parto della cagna
da lui il
giorno antecedente osservato: 2.o. la pronunciazione del vocabolo “jeri,” per la le
dell’associazione delle idee, riproduce nel suo spirito l’altra proposizione, “La
gallina jeri mori.” 3.° volendo
intendere il significato
di ciascun vocabolo
delle due proposizioni,
il fanciullo dirige
la meditazione su
le stesse. 4. paragonando le due
proposizioni fra di esse, e coi
fatti dalle stesse
denotate, non meno
che i fatti stessi
fra di loro, il
fanciullo vede che
le due proposizioni
sono IDENTICHE [token] nel vocabolo
“jeri” e che i due fatti
significati sono IDENTICI nella circostanza del tempo in cui
sono accaduti; essendo tutti e due accaduti nel GIORNO PRECEDENTE A QUELLO
IN CUI SI PARLA. 5.° con questi paragoni il fanciullo intende il significato
del vocabolo “jeri” ISOLAMENTE considerato (GRICE: UTTERANCE-PART). 6.° dopo di
ciò comprende eziandio il significato ISOLATO (GRICE UTTERANCE PART) de’ vocaboli “morì” e “partorì”;
poiché avendo compreso
il significato in
confuso delle due
proposizioni, ed indi
il significato distinto
del vocabolo “jeri,” e
sapendo dall’ altra
parte il significato
distinto de’vocaboli “gallina” e “cagna”,
conosce che i vocaboli “morì” e “partorì” sono
destinati a denotare i due
avvenimenti, e ne apprende
perciò il loro
distinto significato. Questo esempio
fa vedere che i
fanciulli meditano (BROOD OVER) prima di apprendere il linguaggio più di quello
che comunemente si crede; e che le nozioni soggettive d’identità, e dì
diversità sono ANTECEDENTI alla conoscenza della propria lìngua – latina,
italiana --, e servono ai fanciulli per
farla loro apprendere.
I vocaboli o PAROLE o denotano gl’oggetti
de’nostri pensieri, o l’azione dello
spirito su di questi oggetti. “Pietro è con Paolo”, i vocaboli Pietro e Paolo denotano gl’oggetti
de' nostri pensieri ; i
vocaboli, con denotano l'azione dello
spirito su dì quest’oggetti. Ma ciò richiede
ancora una maggiore
spiegazione. Il vocabolo “con” *significa* l’azione dello spirito che attribuisce
a Paolo il rapporto di
*compagnia* con Pietro.
Ma acciocché lo
spirito ha la nozione
soggettiva di tal
rapporto, è necessaria la comparazione di Pietro
con Paolo riguardo
alla loro esistenza
in un certo
tempo ed in un
certo spazio. Questa comparazione
aggiunge all'idea assoluta di Paolo il rapporto di compagnia con Pietro. La
voce, parola, vocabolo (preposizione), “con” esprime un tal rapporto, e
per questa ragione un tal vocabolo può riguardarsi
eziandio come SEGNO dell’azione dello
spirito che compara. Pur
tuttavia essendo il rapporto un prodotto della comparazione preliminare
all’atto del giudizio, è maggior esattezza il distinguere i vocaboli che
denotano l’azione dello spirito, in vocaboli di giudizio (“è” – Frege, segno d’asserzione)
ed in vocaboli di rapporto (“con”). £ questa
distinzione si trova in un opuscolo di GIGLI (si veda) intitulato “Metafisica del
linguaggio” (Milano). Secondo
questa osservazione i vocaboli
si distinguono in
vocabbli di cosa,
in vocaboli di
giudizio ed in
vocaboli di rapporto.
Così nella proposizione, “Pietro è con
Paolo,” [O PER USARE L’ESEMPIO DI GRICE, PIETRO STRAWSON E FRA PAOLO
GRICE E DAVIDE PEARS] i vocaboli “Pietro” (Strawson) e “Paolo” (Grice) – o CATONE
E CICERONE -- son vocaboli di cosa o oggeto [linguaggio-oggeto], il
vocabolo i, esprimendo l’atto del giudizio, è vocabolo di
giudizio, ed il vocabolo “con” [o FRA] è
vocabolo di rapporto. Esso denota insime l’azione comparativa, ed
il rapporto di
questa azione. Secondo
la grammatica generale
e ragionata di Porto Reale,
i vocaboli si distii^cno
in due classi. Alcuni vocaboli – alcune parole -- significano gli
oggetti o CONTENUTO de’nostri pensieri; altri significano
la forma, e la maniera
de’ nostri pensieri di cui la
principale è il giudizio. Questa distinzione
mi sembra giusta è chiara. I vocaboli o le parole,
MATERIALMENTE considerati [SOOT, SUIT] sono o radicali o derivati, 0 toHituiti.
Radicali, o PRIMITIVI, son quelli vocaboli o quelle parole, che non
nascoti derivati, e sostituiti, e cosi
ad accrescere notabilmente il linguaggio
e la lingua italiana (CASA, CASETTA, CASINA). Difatti quanti nomi
sostantivi non si
possono trarre dagl’aggettivi, quanti
aggettivi da'sostantivi, quanti
nomi da'verbi, quanti
verbi da' nomi? I sostantivi nerezza, bianchezza, lunghezza
ec. tutti vengono
da nero, BIANCO,
lungo. Gl’aggettivi celeste, terrestre, marmo ec. derivano da CIELO,
terra, mare. I nomi speranza, amore, dolore, volontà ec. derivano dai verbi sperare, amare,
dolere, volere. 1wirbi “velare”, vestire ec.
nascono da velo,
veste. Inoltre quante
parole formar non si
possono dall’unione di due o più altre? I LATINI unendo il verbo “esse” a
varie PROPOSIZIONI, ne facevano: AD-ESSE, ab-esse, obesse, in-esse, proc-esse, prod-esse,
sub-esse; super-esse, inter-esse.
Dall’unione poi di un nome e di un verbo, quanti altri composti facessero
i greci e gl’ebrei, e quanti
ne facciano i cinesi, e tutti
gl’orientali, è abbastanza noto
agl’eruditi. Tutte le lingue originali, che diconsi
lingue madri, hanno pochissime radici primitive, per mezzo
delle varie combinazioni di queste compongono un gran numero di vocaboli. Gl’uomini dunque, per MANIFESTARE
agl’altri i propri pensieri, hanno potuto istituire il linguaggio dei suoni articolati.
Questa invenzione è la causa principale che ha
condotto il geqere
umano a quel grado
di coltura e di
perfezione in cui oggi lo vediamo. IL LINGUAGGIO FA L’ANALISI del
pensiere [cf. GRICE SIMPLE IDEAS PREDICATES PROPOSITIONAL CONTENT], e come sia
un valevole soccorso per la meditazione. Ma indipendentemente dalla influenza
che ha pel progresso delle nòstre conoscenze, considerato riguardo
all’individuo -- o gl’individui,
i conversanti -- che se ne serve, ne ha
una notabilissima considerato riguardo alla
società, e relativamente all’individuo,
che ascolta e riceve le altrui conoscenze. Il linguaggio può essere
considerato come un mezzo che fa progredire lo spirito nella propria
meditazione; ed ancora come un MEZZO DI COMUNICAZIONE scambievole de’pensieri
degl’uomini. Nel primo caso serve d’istrumento
all’azione meditativa, per ritrovare
la verità; nel
secondo presenta allo
spirito de’nuovi materiali
per le sue
conoscenze. Gl’uomini non potendo
esistere in tutti i luoghi nè in
tutti i tempi; segue che
non tutti possono
osservare tutti i
fatti. Un uomo può perciò aver osservato de’fatti che un altro non ha
osservato (IL POMMO E EDIBILE). Se dunque il primo COMUNICA al secondo le sue
osservazioni, questi conosce de’ fatti che non ha osservato; e questa
conoscenza ha per motivo1’altrui testimonianza, e costituisce ciò che si chiama
certezza morale. Domandate, per esempio, ad un napolitano, il quale non sia mai
uscito di questa città, perche egli crede l’ esistenza di tante altre città, di
Roma, di Milano, di Parigi, di Madrid, di Londra, di Timbuctoo d’Atlantide d’Utopia
ec. Vi adduce per motivo la testimonianza d’altri uomini che hanno veduto le
città nominate, ed egli è tanto certo dell’esistenza di queste quanto lo
sarebbe, se le vedes» co’propri occhi. Non basta che un uomo conosca un fatto che
un altro ignora. È necessario che abbia
la volontà di NARRARE – e narrare il vero [GRICE, il principio dell’aiuta
conversazionale], afllnchè l’altro non è dalla testimonianza del primo *ingannato*.
Per disgrazia dell’umanità
la volontà d’ ingannare
i propri simili
si trova non
poche volte negl’uomini; e non poche volte ancora accade che
gl’uomini INGANNINO [mislead] non già perchè
VOGLIONO INGANNARE [wilfully mislead], ma perchè O non hanno conosciuta esattamente il vero, O
sono stati d’altri ingannati. Da ciò lo scetticismo prende il motivo di
combattere la certezza morale. Ma dicano quello che vogliono gli scettici,
l’esperienza ci manifesta queste due
verità, l.° un uomo
può aver conosciuto de’fatti che un
altro, o non puo
conoscere o non conosce. 2.° vi sono alcuni fatti di tal natura, su de’quali
non si trova giammai concordemente fallace la testimonianza di coloro che gl’hanno
osservati. Non si è trovata giammai fallace la testimonianza di coloro che sono
stati in Napoli nello assicurarmi dell’esistenza di
questa città. L’esperienza stessa
me ne ha assicurato, poiché essendo io
stato in Napoli (ma nato a TROPEA), ho
ammirato io stesso
co’miei occhi questa
magnifica città, ed ho così
trovata verace l’altrui testimonianza. La stessa esperienza ripeto circa molti
altri fatti. È dunque una verità di esperienza quella che stabilisce, essere la concorde testimonianza di altri
uomini circa alcuni fatti, un motivo leggittimo dei nostri giudizi Vi sono, è vero, degl’uomini che narrano de'
fatti de’ quali non sono stati testimoni
oculari, e su de’quali sono stati
d’altri INGANNATI [deceived], e vi sono ancora di quelli che volontariamente MENTISCONO
[lie]. Ma vi sono eziandìo de’testimoni non solamente oculari di alcuni fatti, ma
testimoni tali che non somministrano alcun motivo di dubitare della
loro veracità. È questa una verità che la propria
giornaliera esperienza ci
manifesta. Chiunque non
ha veduto Bonaparte è
sicuro nulla dì
meno, per la testimonianza
di altri , che vi sia stato
un uomo così
chiamato, il quale ha
esercitato il sommo potere nella Francia, perde poi
il trono, ed è MORTO PRIGIONERO nell’Isola
di S. Siena Elena. Cf. Grice, I KNOW CORSICA, I KNOW OF CORSICA. A suo luogo
parleremo de’limiti della certezza
morale. Qui mi son ristretto a
stabilire la sua esistenza. Per istabilirla ho stimato di salire a’suoi primi
princìpi. Ho fatto vedere che un uomo può intendere un altro, che l’uomo può
voler essere inteso, e che da ciò nasce la prima SIGNI-FICAZIONE, il primo SISTEMA
DI COMUNICAZIONE o linguaggio chiamato linguaggio della natura. L’analogia può
accrescere un tale linguaggio e far
nascere ancora alcuni vocaboli radicali analogici. Il bisogno può menare poi gl’uomini a stabilire altri
vocaboli radicali arbitrari; e che così ha potuto nascere il linguaggio,
de’suoni articolati. L’esperienza m’insegna che vi sono delle cose circa le
quali altri non s’ingannano, nè si propongono d’ingannarmi. Da ciò
concludo che l’altrui testimonianza, cioè il linguaggio volontario degl’altr’uomini,
può in molti casi, circa ì fatti, essere
un motivo legittimo de’ nostri giudizi. Io non posso coesistere a tutte le
generazioni, ed a tutti
i luoghi. La mia durata è breve. Il mio luogo è quasi un punto nello
spazio. Intanto vi sono moltissime cose, die m’importa di conoscere, e che sono
accadute prima della mìa nascita, o che accadono in luoghi più o meno lontani
da quello ove io mi trovo. La
testimonianza altrui mi è dunque necessaria per l’acquisto di
tali conoscenze. Il
linguaggio de’suoni, come l’italiano, o il calabrese, è un linguaggio
passeggierò e limitato ad alcuni luoghi.
Un uomo che per mezzo delle parole COMUNICA agl’altri i suoi pensieri non può
farlose non che nel tempo in cui egli parla e ne’luoghi ne’quali può estendersi
il suono delle sue parole. Un gran
problema presentai al genere umano: il problema consiste a trovare
il mezzo di
estendere a tutti i tempi ed
a tutti i luoghi il linguaggo
limitato della parola. Voi
già comprendete l'importanza del problema enunciato, e che la soluzione
di esso dee formare la seconda epoca del progresso delle umane conoscenze
ponendo la prima nella nascita del
linguaggio parlato. I fatti
ovvi e ripetuti incessantemente sogliono destar poco l’attenzione del volgo
degli uomini, e perciò non gli recano sorpresa. Vi ho
fatto sopra osservare quale studio fanno i
fanciulli per apprendere, sin da’ loro primi anni, ill
inguaggio della parola; intanto si crede forse che essi non meditino affatto;
appunto perchè comunemente iiiuno cerca di conoscere come i fanciulli
apprendano tal linguaggio. E un errore il credere che le cose sieno state in
tutti i tempi come sono in un
certo tempo. Qui è il luogo di fare uso di questa importante
osservazione. La nostra educazione letteraria incomincia,
dal fare apprendere a’fanciulli le
lettere dell’alfabeto. Ma v’ingannereste credendo che la scrittura, vale a
dire,l’arte di dipingere la parola e di
parlare agl’occhi, sia stata conosciuta nella prima fanciullezza del genere
umano. Noscorsi de’secoli prima che siensi trovate le lettere dell'alfabeto: la
scrittura non è stata conosciuta che
molto tardi. Siccome questa ci somministra un motivo molto fecondo di
conoscenze, cosi è necessario, dopo di aver cercato l’origine del linguaggio
parlato, di cercar quella del linguaggio scritto. Qual mezzo si può presentare
agli uomini, per perpotuafc la memoria de’fatti accaduti? In primo luogo si può osservare un tal
mezznello stesso linguaggio
parlato. La propagazione del
genere umano si
fa in modo che
gl’individui di una
età vivono insieme
per qualche tempo coi loro
antenati e coi loro discendenti. Un uomo può dunque narrare alla sua
fìgliuolanza tanto quello che egli stesso ha veduto quanto quello che c^Ii ha
udito da suo padre, da suo avo, ed a tutti coloro, che sono stati testimoni
oculari de’fatti accaduti prima della sua nascita, e del tempo in cui egli
avesse potuto osservarli, questo uomo essendo il primo testimone di udito, costituisce
il secondo anello della testimonianza. Gl’altri che ascoltano il fatto da lui
narrato ne costituiscono il terzo, il quarto ec. Così si forma una serie non
interrotta di testimoni oculari, e costituisce ciò che chiamasi tradizione
orale. La maniera più generalmente adoprata ne’primi tempi, per osservare la tradizione orale, è quella
di comporre una specie di ode o di cantico – L’ENNEIDE DI VIRGILIO. ARMS AND
THE MAN. – o gl’ANNALI d’ENNIO – ROMOLO E REMO -- Cotesta sorte di poesia
racchiudeva le principali circostanze degli avvenimenti che volevano
alla posterità tramandarsi.
Vedasi questo uso stabilito ne’secoli più remoti appo tutte le nazioni,
tanto dell’antico che del nuovo continente. Dopo la sommersione dell’esercito
di Faraone nel mare rosso, Moisè, e gl’istraditi composero un cantico di lode,
e di ringraziamento al Signore, nel quale cantico è espresso questo memorabile
avvenimento, come si legge nell’esodo. Al mezzo della tradizione orale, per
conservare la memoria degl’avvenimenti passati, si è aggiunto quello di alcuni
grossolani monumenti. L’uso dei primi secoli è di piantare un bosco,
d’innalzare un altare, o un monte di pietre, di stabilue delle feste [OVIDIO], e
di comporre de’ cantici in occasione di avvenimenti riguardevoli. Quasi sempre davasi a’luoghi
ove sono accaduti de’fatti memorabili, un nome relativo ai fatti ed alle
circostanze (MONTE PALATINO). L’istoria di tutte le nazioni somministra molte
prove ed esempi di queste antiche costumanze. Si vedono i patriarchi innalzare
un altare nei luoghi, ove è loro apparso il Signore, piantare de’boschi, fare
dei monti di pietra in memoria de’principali ancnimenti della loro vita c dare
a’ luoghi, ove sono accaduti de’nomi che ne richiamassero la memoria. Se si
consultano gli scrittori romaniprofani, questi attestano lo stesso. Ne’contorni
di Cadice vedevansi in altri tempi delle pietre ammassate, le quali si dicevano
essere i monumenti della spedizione dell’ERCOLE ITALIANO nella Spagna.Tutte
queste differenti pratiche hanno servito a rinfrescare la memoria de’fatti
memorabili, e a perpetuare le scoperte importanti. La tradizione supple allora
alla mancanza della scrittura. I padri spiegano a’loro figliuoli l’origine di
questi monumenti, e gl’istrueno de’fatti, i quali ne sono stati la cagione. Io
chiamo tradizione tanto la tradizione orale quanto l’unione della tradizione
orale coi monumenti. Fra lo spezie dei monumenti composti dagl’uomini, ad
oggetto di perpetuare la memoria
de’fatti passati, untt. delle principali,
che siasi presentata al loro spirito,
è stata la rappresentazione degl’oggetti corporali. I primi uomini
pensarono naturalmente, d’impiegar
questo mezzo, per rendere i loro
pensieri sensibili alla vista, e
cominciarono dal presentare agl’occhi il ritratto degli oggetti dei quali
volevano parlare. Per fare conoscere, per cagione di esempio, che un uomo uccide
un altro, eglino disegnano una figura
umana stesa per terra, ed una altra in faccia di quella dritta con un’arma alla
mano. Per fare intendere che alcuno è abbordato per mare in un paese,
rappresentano un uomo assiso sopra una barca, e così del resto. Da quello che
degli antichi monumenti è rimasto, puà assicurarsi, che in prima origine l’arte
dello scrivere consiste ili una rappresentazione informe e grossolana degl’oggetti
corporali. L’uomo di sua natura imita facilmente, ed in ogni nazione vedesi la
gente portata a ricopiare gl’oggetti che le si presentano. Le nazioni più
selvagge, o quello le quali hanno minor relazione e commercio con i popoli
colti, possiedono con tutto ciò una certa idea dell’arte del DI-SEGNARE, vale a
dire di rappresentare, beiichò rozzamente, gl’oggetti della natura. L’onir brache produce ogni corpo sopra una
superficie che gli sia opposta, quando il corpo si oppone al passaggio della
Ince, ha somministrate le prime idee del DI-SEGNO. Tirando su i limiti dell’ombra
alcune linee, allora che l'ombra
sparisce, la figura descritta con
queste linee è [ICONICAMENTE] simile alla figura del corpo che getta L’OMBRA.
Dopo le prime esperienze i primi popoli tentano di rappresentare, e di copiare
gl’oggetti senza l’ajuto della loro ombra. Hanno a poco a poco avvezzata la
mano a lasciarsi guidare dall’occhi o, ed a seguire le proporzioni suggeritele
dalla vista. Il DI-SEGNO nella sua origine consiste solamente nella
circoscrizione del contorno esteriore degl’oggetti. Si tenta dopo di esprimere
le parti interiori, che L’OMBRA [silhouette] NON DI-SEGNA, come per cagione di
esempio una testa, gl’occhi, il
naso ec. Il carbone, la creta ec. possono somministrare
a’primi uomini la maniera di DI-SEGNARE sopra il legno, sopra la pietra ec.
come ancora si sono eglino esercitati in ciò sulla sabbia, sulla terra molle
ec. Hanno in seguito con l’ajuto dei sassi, e di altri strumenti taglienti
procurato d’imprimere DE-SEGNI sopra le materie solide. La forma che prendono i
corpi molli insinuati ne’corpi duri, e l’impronta che lasciano i corpi duri
applicati a’corpi molli, hanno su^rito a’ primi uomini l’arte del modellare.
Questa ha a poco a poco prodotta quella
dell’intagliare nel legno, nella pietra, e nel marmo. In questa maniera il DI-SEGNO,
la scoltura, l’intaglio hanno la loro origine. Queste arti, a mio credere, hanno
preceduto la pittura. Hanno queste rappresentazioni degl’oggetti corporali
servito per molto tempo invece della scrittura
propriamente detta. Io chiamo
la rappresentazione degl’oggetti
corporali scrittura figurativa. Questa maniera di scrivere richiede
molto tempo. Si pensa perciò di renderla più semplice, ed invece di DI-SEGNARE per
intero a cagion d’esempio, un uomo, un albero, un cavallo, si DI-SEGNANO le
parti principali che li fanno conoscere; come per esempio la testa, la mano,
Marte (MASCHIO) e Vennere, ec. Ma questa scrittura fìgurativa non puo essere
suffìciente per esprimere tutti i pensieri degl’uomini. Vi sono molte cose che
non si possono dipingere, come sono lo
spirito, le sue facoltà, le sue modificazioni. È impossibile di parlare delle cose
materiali, senza unirvi delle idee die
non sono capaci d’immagini. Come
per esempio, descrivere
l’immagine dell’affermazione, e della negazione? Fa d’uopo dunque inventare i
segni di queste idee intellettuali e 1’analogia guida gli uomini a trovarli. Si
concepì una certa similitudine fra alcune qualità che si osservano negl’uomini, e quelle che si osservano negl’animali, e per esprimere, che un
uomo è in queste qualità simile ad un certo animale, si dice più brevemente, che il tale uomo è un tale
animale [un leone]. Cosi, per dire di un uomo, che li è prudente, che li è astuto, che è fiero e
crudele, si dice, che è un serpente
[PRUDENTE], una volpe [ASTUTO], una tigre [FIERO E CRUDELE]; DI-SEGNANDO dunque
l’immagine di questi tali animali si DI-SEGNANO *mediatamente* -- FIGURATIVAMENTE
– l’immagini delle qualità spirituali (PRUDENZA, ASTUZIA, FIEREZZA E CRUDELTA] di
cui si tratta. Una tale rappresentazione costituisce ciò che chiamasi
geroglifico. I cinesi per cagion di esempio, per denotare che FoAt, primo
fondatore del loro impero, è dotato di prudenza, e di sagace ingegno, lo DI-SEGNANO
col capo umano unito ad un corpo di serpente.
Il successore di FoA», di nome
Xino, ad oggetto di denotare, che egli si applica all’agricoltura, ed
incomincia a porre i bovi sotto il giogo, lo DI-SEGNANO col capo di bove unito
al corpo umano. Gl’antichi denotarono la giustizia, dipingendo uvergine cogl’occhi bendati, tenendo in una
delle mani una bilancia, ed in un'altra una spada. La vergine figura la giustizia; la bilancia DENOTA
CHE che la giustizia consiste a dare a ciascuno il suo dritto, la spada SIGNIFICA
CHE la giustizia dee infligger la paia dovuta a’delinguenti, gl’occhi bendati
finalmente DENOTANO CHE denotano CHE la giustizia e IMPARZIALE e non dee avere
alcun riguardo alle persone, ma deve
agire conformemente alla legge, senza esser mossa da motivi estrinseci. Si vede
qui che la similitudine concepita fra alcuni
modi de’corpi, e le qualità dello spirito, dettò questo
geroglifico. La giustizia è una nozione astratta, e le nozioni astratte
sussistono sole nello spirito. Passa perciò una certa similitudine fra
l’astrazione e la personificazione, una
vergine non è macchiata da
alcuna impurità corporale, e la giustizia
dee esser monda da qualunque difetto. Quando per dare ad un altro una
quantità di merce, questa si pesa, ciò si fa per dargli ciò che gli appartiene.
Le similitudini fra alcune modificazioni del corpo, e quelle dell’animo si
deducono da ciò, che le prime sono i SEGNI NATURALI delle seconde. Denotando le
prime si denotano mediatamente le seconde. E siccome le prime son capaci
d’immagini corporali, così lo sono MEDIATAMENTE [FIGURATIVAMENTE] anche le
seconde. E questa rappresentazione mediate costituisce il geroglifico. Da ciò
si vede che la scrittura geroglifica si è unita alle volte alla scrittura
figurativa, come si vede ne’due esempi di
Fohi, e di Xino. Alle volte è stata
impiegata solq come
nell’esempio recato della
giustizia. Si vede inoltre,
come questo modo
di scrivere fa
le veci delle
proposizioni verbali. Cosi,
per cagion di
esempio, i geroglifici
rapportati valgono pel
significato quanto queste
proposizioni verbali: F(M fu dotalo di sagacità. Xino
pronwtse ¥ agricoltura, e
pose « bovi sotto il giogo, fa giustizia dà a ciascuno U
tuo dritto, infligge la pena dovuta
a'delinguenti, né si lascia muovere
da motivi estrinseci. Osservate, che ne’geroglifici enunciati si trovano i segni
relativi al sogetto, al predicato, ed al verbo delle proposizioni rapportate.
Così il capo di forma umana nel primo geroglifico donata il soggetto della
proposizione cioè Fohi, il corpo serpentino denota il predicato, cioè la
segacità, e l’unione del capo umano al corpo serpentino denota l’unione del
predicato al soggetto significato dal verbo fà. Nel secondo geroglifico,
il corpo
di figura umana
denota il soggetto
della proposizione cioè
Xino. Il capo bovino denota il
predicato cioè l’aver promosso l’agricoltura, e l’aver posto i bovi sotto il giogo;
l’unione poi del capo bovino alla forma umana denota l’unione del predicato al
soggetto, espressa dal verbo promosse. Nel terzo geroglifico, il soggetto
della proposizione è significato dalla vergine; la bilancia, la spada,
la benda denotano i
predicati della proposizione, e l’unione di queste cose al
corpo della vergine denota l’unione de’predicati al
soggetto. Da ciò segue che un geroglifico può esprimere diverse
proposizioni, osia una proposizione composta. Ciò si vede
chiaramente nel geroglifico recato della giustizia. Wolfio riferisce che
un certo Comenio, volendo formare il geroglifico dell’anima, dispose de'punti
in modo da
formare una figura
simile a quella che presenta
l’ombra, prodotta dal corpo
umano su di
un piano perpendicolare all'orizzonte, ed opposto
direttamente al corpo umano, ed al lume. I PUNTI, secondo i geometri, essendo PRIVI
D’ESTENSIONE, *denotano* la SEMPLICITÀ dell’anima. La figura del corpo umano
costruendosi, per mezzo de'soli punti, senza l'intervento di alcuna linea, *denota*
la sostanzialità dell’anima umana, la quale sussiste indipendentemente dal corpo.
I punti, essendo disposti in modo, che necessariamente formano la figura del
corpo umano, *denotano* l’unione dell'anima col corpo, la quale unione si forma dall’autore della
natura, indipendentemente dalla volontà dell’anima. Finalmente questi punti,
essendo dispersi in tutta la figura del corpo umano, *denotano* la
dottrina degli scolastici, cioè che l’anima NON È NELLA GLANDULA PINIALE come
vuole Cartesio, o nel cervello come cuole l’ACCADEMIA, o nel cuore, come vuole
il LIZIO, ma è tutta in tutto
il corpo e tutta
in ciascuna parte.
ir geroglifico comcniano
equivale perciò alle
scienti proposizioni. l.° l’anima
è semplice: 2.° l’anima è una sostanza. L’ anima, indipendentemente
dalla sua volontà, è unita al corpo. 4.” 1' anima esiste tutta in tutto il
corpo, e tutta in ciascuna parte. Dopol’invenzione della scrittura geroglifica
portata al più alto grado di perfezione,
di cui è capace, resta ancora agli uomini di farp l’ultimo sforzo per ritrovare i caratteri
alfabetici, che sono i SEGNI del
suono [AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE] non già degl’oggetti. Vi
sono stati in
ogni tempo degli
spiriti sublimi, i quali colle
loro invenzioni hanno ampliato notabilmente la sfera delle umane
cognizioni, ed hanno spinto velocemente il genere umano verso quel grado di coltura, in cui
(^gi te vediamo. Un
vocabolo (“shaggy”) è un SUONO o composto (“sha”, “shaggy”), o semplice (“a”). Per rendere durevole QUESTO SEGNO basta dunque
stabilire de’segni permanenti
de’ suoni semplici (AUSTIN/GRICE,
DE INTERPRETATIONE), che compongono i vocaboli. E per tale oggetto basta stabilire per segni de’suoni semplici ALCUNE
FIGURE – in lingua latina, 24: A B C D E F G H I K L M N O P Q R S T V X Y Z --
, e la scrittura alfabetica è trovata. Ma (pianto
tempo è egli trascorso, priachè una verità cotanto semplice si presenta
allo spirito de’padri nostrii. Si vuole render
permanente il linguaggio passaggiero della PAROLA (PARA-BOLA); e non
si pensa di
decomporre i suoni ARTICOLATI [prima articolazione: sh- a, sha],
e di stabilire de’segni permanenti de’suoni semplici che compongono i vocaboli.
Lo spirito intraprende de’cammini lunghi e tortuosi per tramandare alla
posterità la somma delle sue conoscenze. La scrittura è prima figurativa perfetta indi figurativa
imperfetta. poiché si designarono prima gl’oggetti interi, indi le loro
parti principali. In seguito divenne geroglifica, indi sillabica, e
finalmente alfabetica, lo dico prima
sillabica, e poi alfabetica, poiché penso coll’illustre Goguel autore
dell’opera su 1’origine delle leggi, delle arti, e delle scienze, che dopo la
scrittura geroglifica sono trovati
i segni de’suoni delle sillabe
de’vocaboli, prima che si trovassero i segni de’suoni semplici che compongono i
suoni delle sillabe. In questa maniera di scrivere, la quale chiamasi scrittura
sillabica non s’impiega se non che un solo carattere per iscrivere ciascuna
sillaba, di cui vien composta una parola (PARABOLA). Non si esprimono allora né vocaboli, né consonanti.
Noi, per esempio, per iscrivere la
voce “pane” /pane/ impieghiamo quattro
lettere o fonemi: /p/ /a/ /n/ /e/. Nella
scrittura sillabica non
vi bisognano se
non che due
caratteri: /pa/ e /ne/. Ora
supponiamo che la
pronunciazione del vocabolo
“pane” risvegli l’idea del
suono “cane,” e questo quella del suono “sane,” e che lo spirito mediti,
e paragoni fra di essi questi suoni. Egli li decompone in sillabe, e trova, che
la sillaba “ne” è la stessa in tutti e tre questi suoni, il che gli viene
ancora insegnato dalla stessa scrittura sillabica,
poiché lo stesso carattere indica il
suono della sillaba “ne” in tutti e tre i vocaboli enunciati. Questa identità conosciuta mena lo
spirito a notare la diversità de’ suoni “pa,” “ca,” e “sa,” che sono
le prime sillabe
di questi vocaboli. Ma in questa
diversità lo spirito trova ancora
una identità nella desinenza. Tutte e tre queste sillabe cadono nel suono “a”.
Ciò conduce lo spirito a separare nelle
sillabe “pa,” “ca,” “sa,” il suono “a” dagl’altri suoni che vi si uniscono. E
siccome egli ha trovato i caratteri de’suoni “pa,” “ca,” e “sa,” così trova il
carattere del suono “a,” e quelli de’suoni “p, “ “c,” e “s,” e la scrittura
alfabetica è già
trovata. Ecco dunque i passi, che
ha dovuto fare
lo spirito per
ritrovare la scrittura
alfabetica, l.° egli conosce che la maggior parte de’vocaboli sono
de’suoni composti, e che potevano perciò DECOMPORSI in altri snoni. 2.° egli conosce
che puo stabilire segni di segni [GRICE – TYPE, U – versus TOKEN, u]], e segni
permanenti di segni passaggieri;
3.° egli stabilisce
de' caratteri, che sono segni
permanenti del suono
delle diverse sillabe, e così nasce la scrittura sillabica.
4.° egli conosce che la maggior parte delle sillabe sono de’suoni composti
ancora, e siccome trova de’caratteriche sono segni delle sillabe, trova
ugualmente de'caratteri che sono
segni de’suoni semplici;
e così è nata la
scrittura alfabetica. Alcuni eruditi,
frai quali Goguet,
pretendono che i caratteri alfabetici sono derivati da'segni
geroglìGci, e che quest’ultimi hanno a poco a poco introdotto il metodo breve
delle lettere alfabetiche. Questa opinione è falsa sotto
un certo riguardo,
sebbene possa esser
vera sotto di
un altro. Per presentacela
quistione sotto un
aspetto filosofico, può
cercarsi: l.°: Lo spirito umano puo, senza passare per la
scrittura figurativa, e geroglifica, passare immediatamente dal linguaggio
della PAROLA [PARA-BOLA] al linguaggio
permanente della scrittura
alfabetica? È certo, che puo,
poiché fra i passi, che egli dove fare,
partendo dalla considerazione della PAROLA [PARA-BOLA], per giungere alla scrittura alfabetica non vi
sono certamente quelli della scrittura figurativa e geroglifica. Si può cercare
S.''.La scrittura figurativa e geroglifica dove condurre naturalmente lo
spirito alla scrittura alfabetica. La
scrittura figurativa e geroglifica non hanno relazione alcuna colle lettere
dell’alfabeto, e per tal ragione non possono condurre lo spirito a
ritrovare la scrittura alfabetica.
Ma possono sotto un altro
riguardo influire a questa invenzione. Queste due
scritture sono imperfette assai, e complicate. Lo spirito accorgendosi
della loro imperfezione e difficoltà, puo da ciò rivolgere la meditazione a
rendere più semplice, e facile il sistema de’segni permanenti. Si può cercare
3.° La figura de’segni geroglifici Jta puo server allo spirito, per concepir la
figura de' primi caratteri alfabetici. Le ragioni addotte da Goguet provano,
che lo puo. Paragonando, egli dice, con
attenzione quello che a
noi rimane dei
caratteri egiziani, colle figure geroglifiche intagliate sopra gl’obelischi
e gli altri monumenti, si ricava che le
lettere egiziane tirano da’geroglifici
la loro origine. Nell’alfabeto degl’etiopi, e nelle lettere majuscole
degl’armeni si trovano i vestigi assai
chiari della scrittura antica geroglifica. A queste ragioni se ne può
aggiungere un’altra. Col progresso del tempo il rapporto di similitudine tra il
geroglifico e la idea da esso significata, non si è piu ravvisato. Ciò è
accaduto per due ragioni
l.° alcuni rapporti
[figurativi – metaforici -- META-ICONICI – GRICE] di similitudine sono troppo
lontani. Si esprime, per esempio, l’impudenza per [BY] una MOSCA, la
scienza per una FORMICA. 2.° allorché sono
moltiplicati i volumi, si cerca il modo di abbreviare, e perciò invece
del geroglifico primitivo si fa uso di un altro carattere, che noi possiamo
chiamare la scrittura corrente de’geroglifici. Esso rassomiglia a’caratteri
cinesi. Dopo d’essere stato da principio formato dal solo contorno della
figura, divenne in stanilo
una sorta di
nota, hi questo
stato il geroglifico
puo riguardarsi come
il segno del vocabolo. Tosto che
si hanno da’segni permanenti de’vocaboli, puo
pensarsi di dare
de’segni permanenti alle
sillabe, ed indi a’suoni
semplici di cui è
composto il suono delle sillabe. L’essenza de’caratteri alfabetici si è
l’essere isolatamente considerati SEGNI
solamente di suoni [cf. AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE],
non già
di idee. I caratteri, per esempio, a, e, i, o, u, b, c,
ec. [cf. GRICE, DISTINCTIVE FEATURES – FONEMI, FONEMA, ALLOFONICO],
isolatamente considerati nuli’
altro SIGNIFICANO se non
che alcuni suoni.
I caratteri poi della scrittura fìgurativa, e geroglifica, non denotano suoni ma idee, l’immagine di un serpente denota
l’idea del serpente, quella della prudenza ec. Le nostre cifre arabe,1, 2, 3,
4, 5, 6, 7, 8, 9, 0, sono ugualmente segni d’idee, non di suoni. Essi si
leggono diversamente presso le diverse nazioni, sebbene sieno ì segni delle
stesse idee. Questa differenza è della massima
importanza. Colla divcisa combinazione di un piccol numero di caratteri, si
possono scrivere tutti i vocaboli di una lingua parlata. Ma quando i segni
della scrittura sono segni d’idee non già di suoni, il numero di questi segni
dee corrispondere al numero de’vocaboli, il che rende il numero de’caratteri
molto grande, e perciò esige uno studio lungo, e difficile, per apprendere a
leggere,e scrivere, come è provato per l’esempio de’cinesi. È questo un grande
ostacolo al progresso della conoscenza. La gente di studio è obbligata a
sottrarre il tempo necessario, per apprendere le scienze, ed impiegarlo a saper
leggere e scrivere. L’arte di leggere e scrivere essendo di molto poche
persone, il resto della nazione dee restare nella ignoranza. Dello stesso
inconveniente partecipa anche in parte la scrittura sillabica, poiché il numero
de’caratteri, per significare ciascuna sillaba è di gran lunga maggiore di
quello, che è necessario per denotare i suoni semplici, di cui il suono di
ciascuna sillaba è composto. Così, per cagion di esempio con questi tre
caratteri alfabetici, a, b ,c, si possono scrivere le seguenti sìllabe, ab, ba,
ac, ca,
bac, cab. In questo esempio il numero dei caratteri sillabaci è
doppio del numero de’ caratteri alfabetici. Se suppone quattro caratteri
ahabetici, a, b, c, e, il numero ddle combinazioni di questi caratteri, presi
due a due, è maggiore del doppio, cosi avremo, ab, ba, ac, ca, ae, eb, be, ec.
Uno de’ vantaggi dunque della scrittura alfabetica sulle altre scritture si è
il piccol numero de’segni, di cui ha bisogno la prima scrittura. È vero, che le
nostre cifre arabe sono per tale oggetto perfettissime, mentre con dieci
caratteri possono scriversi tutti i numeri possibili. Ma un tal vantaggio lo
debbono alla formazione delle idee da queste cifre designate, poiché queste
idee si formano tutte colla ripetizione della stessa idea che è quella dell’UNITÀ.
Un altro inconveniente della scrittura geroglifica si è l’incertezza del
significato. Uno stesso geroglifico può denotare cose molto diverse fra di
esse. Cosi la immagine del serpente dinota questo animale, la prudenza, e
’universo. L’immagine del lepre dinota questo animale, il candore, e la
timidità. L’invenzione del linguaggio della parola, el’invenzione della
scrittura alfabetica, che rende permanente il primo linguaggio di sua
natura passeggierò, fanno che l’uomo
possa gettare il suo sguardo in tutti i luoghi, ed in tutti I tempi.L’esperienza
c’ins^a, che gl’uomini possono, per mezzo della scrittura, trasmetterci dei
fatti che son veri e che la concorde testimonianza degli
scrittori circa alcuni fatti non si è giammai trovata fallace. Tutte le
gazzette dell’Europa all’epoca, in cui Bonaparte scese al trono della Francia annunciarono
questo avvenimento. Tutte le gazzette ugualmente hanno annunciato la morte del
sommo pontefice Pio VII. L’esperienza dei propri occhi avrebbo
potuto assicurare colui, che
avesse dubitato, della verità di
tali fatti. I fatti consegnati negli scritti possono colla conservazione degli
scritti, che li contengono, trasmettersi
alle future generazioni. È questa eziandio
una verità di
esperienza. Vi sono dunque
de’fatti accaduti in tempi lontani, de’quali
fatti noi possiamo conoscere la
verità. Il linguaggio passaggiero della
parola; quello permanente della
scrittura alfabetica, e quello dei
monumenti, possono dunque circa alcuni fatti, essere motivi legittimi dei
nostri giudizi. Tutti questi motivi concorrono a stabilire la certezza morale.
Credo utile d’addurvi un altro esempio, in conferma di ciò che vi ho detto. Un
terribile tremuoto, poi seguito d’altri, cagiona dei danni notabili alle
Calabrie, ed ancora alla città di Messina.
Gl’abitanti dei paesi
danneggiati sono obbligati
di uscire fuori
dalle loro abitazioni, e dì costruirsi
delle baracche per
abitarvi; alcuni le
hanno costruite in
lontananza dei paesi
diruti quali rimasero
perciò deserti. Cosi accadde, per
esempio, a Briatico, che è costruito di nuovo vicino al mare, e Briatico
antico presenta allo spettatore i segni delle sue mine. Altri hanno costruite
le nuove abitazioni in un suolo contiguo all'antico abitato. Cosi accadde a TROPEA, le cui nuore abitazioni sono
costruite lungo ed all'intorno della strada detta dell’Annunciata. Molti, che sono
stati testimoni oculari dell’avvenimento, vivono ancora molti
altri appartengono alle seguenti
generazioni. I primi narrano ai
secondi l’orìgine delle mine
che colpiscono i loro
occhi, non meno che
l’orìgine delle nuove
abitazioni, ciascuno testimone
oculare è istruito
dalla esperienza, che tanto egli, che gli
altri testimoni oculari narrano il
vero, e che coloro i quali narrano il fatto ad altri, per averlo
eglino inteso narrare da’testimoni oculari, narrano il vero. L'esperienza
dunque c’insegna, die vi sono dei testimoni di udito, la di cui testimonianza è
verace,e che la tradizione orale unita ai monumenti può trasmettere alle
generazioni future i &tti
accaduti ne’tempi da
queste generazioni lontani. La
memoria di questa tremuoto si trova depositata in una moltitudine di scritti, i
quali ancora rimangono, ed i cui autori più non sono. La propria esperienza
istruisce dunque cisscun testimone oculare di questa importante verità: che per
mezzo de’monumenti, della tradizione orale e della scrittura alfabetica, si può
conservare la conoscenza
di alcuni fatti
passati. Intorno alle idee politiche del G., e più sulla condotta da lui tenuta nell’alterna vicenda
degli avvenimenti politici di cui è piena la storia di Napoli nel periodo della sua virilità, non si può dire
davvero che abbondino i documenti, né
che abbiano fatto tutta la luce
desiderabile gli studi consacrati a questo lato della biografia galluppiana da Tulelli, dal
Guardione e ultimamente d’ Arnone. Il quale ha scritto in
proposito una memoria molto accurata, ma per giungere a una definizione di G.
considerato sottol’aspetto politico, la quale è in aperto contrasto coi documenti
più sicuri da noi posseduti. Anche G., secondo l’Arnone, sarebbe stato un
giacobino! Della sua dottrina liberale e del suo atteggiamento
risoluto in favore delle pubbliche libertà e contro 1 intervento austriaco non
è possibile che dubiti chi conosca i frammenti che diè il Tulelli de’
suoi Pensieri filosofici sulla libertà compatibile con qualunque Tulelli,
Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar. P. G., notizie
ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti della li.
Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli. Guardione, Due opuscoli di G.,
prec. dallo studio critico Dei concetti civili e politici apportati da P.
G. nella rivoluzione, Messina, D'Amico; a proposito di questo opuscolo, Gentile
nella Critica, V; N. Arnone, P. G. Giacobino, negli Studi dedicati a Torraca
nell’anniv. della sua laurea, Napoli, Perrella. forma di governo, e
i due opuscoli Della libertà di coscienza e Lo sguardo d' Europa sul
Regno di Napoli, ristampati dal Guardione. Ma da quel liberalismo al
giacobinismo c’è un bel tratto. Né i documenti dell’Amone
riscoperti 1 nell'Archivio provinciale di Catanzaro bastano a superarlo.
Da questi documenti apprendiamo che G. chiede un passaporto per
recarsi a Palermo « per attendere ad alcuni di lui affari litigiosi. Il Re
faceva rispondere dal Segretario di grazia e giustizia al Preside di
Catanzaro, che a G. si sarebbe accordato il passaporto, « quando non vi sia
niente contro il medesimo. Il Preside si rivolse per informazioni al
Vescovo e al Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16 ottobre,
rispose: Quantunque apparentemente il suddetto sembri un giovane
morigeratissimo, e studioso anche di materie teologiche, pure non gode
buona fama, perché si pre¬ tende aversi ingoiato con lo studio vari
errori della vana filosofia, per cui fu, anni sono, denunziato sino a
Roma, e ne’ pochi giorni della falsa assunta Repubblica fu impiegato a
far traduzioni, per cui stiede lungo tempo trattenuto nel Pizzo: timoroso poi
all’eccesso, si andiede in Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora
vorrebbe andarsi in Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi meglio
sarebbe andarvi il padre don Vincenzo [il padre di G.], mentre non debbo
io, né V. S. 111 . mettersi deve in compromesso nelle circostanze nelle
quali siamo. Tropea aveva avuto anch’essa il suo albero della
libertà e un governo repubblicano. Ma per pochi giorni. AH’avvicinarsi delle
schiere Gli è sfuggita la comunicazione che ne aveva fatta Gaetano
Capasso, alla Riv. Stor. del Risorg. ital. [Vedi ora, per un'altra
denunzia di pretesi discorsi giacobini del Galluppi, F. Scandone, Il
Giacobinismo in Sicilia, nell'A refi. Stor, sic., G. GIACOBINO del Ruffo la plebaglia aveva
abbattuto albero e governo, e uh comitato di cittadini era andato
incontro al Ruffo a Mileto, a prestargli ubbidienza. Per la quale il
Ruffo volle alcuni ostaggi, che fece tra¬ sportare a Pizzo. Tra essi
venne incluso il Galluppi, che per altro dopo alcuni giorni fu rilasciato
senza nessuna condanna. Aveva, secondo il vescovo sanfedista ',
tradotto qualche documento francese, forse qualche proclama o
decreto dello Championnet; ma la stessa voce raccolta dal vescovo della
gran timidezza del filosofo, ci spiega molto facilmente perché G.,
invitato dai giacobini della piccola città, dove forse era solo a
conoscere il fran¬ cese (e non lo conosceva né pur lui molto) e quando costoro tenevano il campo, non
potesse esimersene, pur non avendo un grande entusiasmo per la causa
repubblicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione non patì
nessuna noia; e se il tenente colonnello don Giovanni de Mendoza,
governatore di Tropea, pur dopo diligenti investigazioni, non riusciva a
trovare nulla a carico di lui. « Mi sono informato, scriveva costui
il 19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone più probe e
timorate di Dio di questa ... città; però ho chiamato il decano don
Saverio Polito, il teologo Grillo, il penitenziere don Vinc. M.
Mazzitelli, il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il parroco
di San Demetrio di questa città, e dalle di costoro estragiudiziali
deposizioni, che presso di me si conservano, rilevai che G. è onesto, probo, e
di morigerati costumi; che frequenta spesso li Santi Sacramenti e la
chiesa, ove si fa vedere attento, e pieno di divozione; e che ad altro
non bada, se non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso,
1 Su lui vedi la stessa memoria dell'ARNONE Vedi la mia pref. al voi. del
Toraldo, Saggio sulla filos. di G., Napoli. ”4 e da bene, e
che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto cercai sì dalli stessi
testimoni, che da altri sapere l’oggetto per cui si volesse portare in detta
città di Palermo, non fu possibile sapersi la cagione, perché da
ognuno s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre don Vincenzo
è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui suole spesso andarvi
anche col suddetto don Pasquale suo figlio: ma non posso fame a meno farle
presente esser stato, per quanto pubblicamente si dice, il detto G. uno
degli ostaggi di questa città chiamati dal sig. Vicario generale nel
Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni e poi è liberato senza veruna pena. Il
Preside di Catanzaro si attenne al Consiglio del prudente vescovo, e
propone al Segretario di Stato che il passaporto non è accordato. E non è
accordato. Ma lo chiede poi, invece del figlio, il padre, Vincenzo,
che l’ha. Segno che a Palermo hanno realmente bisogno di recarsi, l’uno o
l’altro, per loro interessi di famiglia. Pei quali forse egualmente G.,
reduce da Pizzo, invece di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza,
di dov’è la moglie, Barbara d’Aquino. Non credo pertanto che questi
documenti catanzaresi bastino a farci annoverare il filosofo calabrese
nella numerosa schiera dei giacobini contemporanei. Certo nei Pensieri
filosofici sulla libertà, propugnando il principio della libertà di
coscienza e di tolleranza religiosa, egli ha parole forti contro coloro
che dimenticano lo spirito del Vangelo e non hanno ritegno di tramutare
la religione nell’ istrumento del disordine, della persecuzione e della
strage»; e non dubita, ricordando i recenti fatti del Regno, di scrivere
che « se l’universalità del clero e del popolo di questo bel regno avesse
conosciuto il vero spirito del cristianesimo e la purità delle massime
del Vangelo, non si sarebbe visto un cardinale comandare delle
masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare il venerando vessillo della Croce
per segno dell’assassinio e d’ogni sorta di iniquità; né si vedrebbero
oggi con orrore tanti preti e frati alla testa delle masnade degli
uomini i più infami e più scellerati » Ma quando G. scrive di
queste parole che pur dimostrano bensì il liberale, ma non il giacobino a Napoli erano tornati i francesi con Bonaparte,
il cui governo, J , gli aveva conferito 1’ ufficio di controllore delle
contribuzioni; e a Giuseppe era anche successo Murat. Tutt’altro che
giacobino è apparso a me qualche anno fa da un suo brutto sonetto
pubblicato in un giornale di Tropea 3 da Toraldo 4. Il sonetto infatti dice: Della
Patria il dolore, il lutto, il pianto. La rea sorte fatai veder non
voglio. Di Marte, di Bellona il fier orgoglio. L’augusto trono di Minerva
infranto, Spesso sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più
fier cordoglio, Pria che de' Franchi vacillasse il soglio. Dico
nel mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo. Occhi miei, non piangete, Grido nel mio
furore; io corro or ora Sollecito
a varcar l'onda di Lete. Ma già l’Angiol divin, che accanto
giace. Di man mi toglie il ferro, e grid’allora: Verrà
Fernando: tornerà la pace! Il primo editore fa precedere al sonetto le
seguenti notizie: « Dal manoscritto rilevasi che il sonetto mede-
1 Tulelli, op. cit., pp. 109, in. * ArnoneL’ Eco di Tropea.
4 E da me ristampato con qualche correzione di punteggiatura, per
renderlo un po' meno oscuro, nell’opera Dal Genovesi a G., Napoli (2 a
ed. in 2 voli., col titolo di Storia d. filos. ital. Da Genovesi a G.,
Milano; ora in Opere complete di Gentile, a cura della Fond. G. Gentile, Firenze,
Sansoni). simo fu letto alla nostra Accademia degli
Affatigati (assorta allora ad altissima fama), alla quale G.
appartene col distintivo il Furioso, e apparisce dedicato a Ferdinando, come
chiusura di un discorso, letto all’Accademia anzidetta, sul medesimo
argomento. Dalla parte opposta ove è scritto il sonetto, si legge: Ferdinando
Augusto, principe magnanimo, nell’ impetuoso turbine che minaccia
l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra
nazione son legati alla tua esistenza. — Ferdinando viene. Napoli è salvo. Il
mio discorso accademico è terminato. Firmato: G. fra gl’Affatigati il
Furioso. Siegue dietro il sonetto dello stesso Accademico. Riproducendo
il curioso documento, mi parve che discorso e sonetto si potessero riferire
alla reazione; e, dietro a me, anche Cesare ritenne che il sonetto
alludesse alla restaurazione di quell’anno. Ma non tutto a quella prima
impressione mi restava chiaro degli accenni contenuti nel sonetto; e le
difficoltà ora oppostemi dall’Arnone mi persuadono che sonetto e discorso
vanno spostati di sedici anni. Prescindendo », dice Arnone che non ha
potuto vedere il giornale di Tropea, al quale io mi riferivo, e le cui
notizie ora qui integralmente riportate mi pare che tolgano ogni dubbio
intorno alla paternità del discorso e del sonetto, « prescindendo
dalla loro autenticità maggiore o minore (?), il sonetto e il brano del
discorso accademico non possono mai riferirsi alla reazione. Infatti, nel
sonetto stesso si J R. De Cesare, Taranto e mons. Capecelatro,
Martina Franca, 1910 testr. dalla Riv. Apatia ), p. n: «Il Capecelatro
non fu solo a non aver fede nella durata della Repubblica. Se egli non
anda a Napoli, non vi anda neppure Delfico, chiamato a far parte
della Giunta del Governo, mentre G., che pure ha principii liberali,
recitava, all'Accademia degli Affaticati di Tropea, un brutto sonetto,
che si chiudeva: Verrà Fernando : torna la pace . trova la designazione
del tempo a cui si riferisce ; giacché, col verso Pria che de’ Franchi
vacillasse il soglio, l’autore, stanco del fier orgoglio di Marte e di
Bellona, deve assolutamente alludere alla prossima caduta del trono di Murat
1 . Io guardo bensì al settimo verso del sonetto, su cui giustamente ha
fermato la sua attenzione l’Amone; ma guardavo anche al quinto: Spesso
sedendo al bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso una determinazione
cronologica non trascurabile. E poiché era noto che G. è a studiare a
Napoli, pensai che per soglio dei Franchi si dovesse in¬ tendere per
l«appunto il trono di Francia di Luigi XVI, che cadde quando G. dimora al
bel Sebeto accanto. E vedevo nel sonetto un’enfatica e grottesca
rievocazione delle ansie, da cui l’animo dell'autore sarebbe stato
assalito fin dall’ 89 quasi presago dei lutti che la Rivoluzione francese
preparava alla sua patria. Non tutto, di certo, restava chiaro, come non
tutto precisamente diventa chiaro se s’intende, come propone ora
l’Arnone, che col soglio dei Franchi l’autore designi il trono di Murat.
Ma vien colmato il grande intervallo che rimaneva, secondo la mia ipotesi
quando avvenne il ritorno di Ferdinando IV a Napoli, che il Furioso
avrebbe celebrato. Ma, se accetto che il v. Pria che de’ Franchi
vacillasse il soglio alluda alla prossima caduta del trono di re Gioacchino,
e ne argomento in conseguenza che tra la fine di marzo 1815, quando Murat
dichiara la guerra all’Austria, e labattaglia di TolentinoG. Dove essere a
Napoli non capisco perché l'Arnone soggiunga : A me parrebbe che il
discorso accademico potesse riferirsi al tempo del viaggio di Ferdinando
I Borbone pel congresso di Lubiana, quando appunto il8 l’indipendenza
del Regno di Napoli era minacciata dall’intervento austriaco. Quando G. recita
il suo discorso accademico è chiaro che Ferdinando non era più
lontano, ma già tornato a Napoli (Ferdinando viene, Napoli è salvo); e
l’accademia celebra la ristaurazione. È vero che G. trepida per l’indipendenza
nazionale, a causa dell’ intervento austriaco a Napoli; ma gli austriaci sono
chiamati da Ferdinando, che non puo perciò essere cantato come il
salvatore dell’indipendenza; laddove nel '15 il Murat alla legittimità, a
cui s’appellavano gli ambasciatori del Congresso di Vienna e tutti i
principi delle vecchie dinastie, opponeva in Napoli il principio dell’
indipendenza; e a G., già murattiano, i disastri dell’esercito
napoletano e l’entrata degli austriaci nel Regno dovettero realmente
parere la più pericolosa minaccia alla indi- pendenza di questo, finché
non si ripresentò Ferdinando, a riavere, dopo il trattato di
Casalanza, dalle mani dell’ imperatore d’Austria le redini del suo
Stato due volte abbandonate. E le preoccupazioni che G., come quanti altri
avevano servito il governo francese, dovette, prima di quel trattato,
nutrire gravissime e angosciose per la propria sorte, o almeno per
l’uificio che da nove anni teneva, possono anche spiegarci la disperazione da
cui nel sonetto dice d’essere stato preso per l’imminente crollo di quel
governo. E l’osanna al Borbone, dopo il trattato di
Casalanza, in cui l’imperatore d’Austria garantiva la sorte di
tutti 1 Volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne; reputando
che più dei maneggi e dei discorsi valere gli dovesse il voto dei
soggetti e la forza dell'esercito, in tempi nei quali menavasi vanto
dell’amore dei popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i
migliori in¬ gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi
avvenimenti, acqui¬ stata da noi piena indipendenza politica, era suo
debito riordinare il regno senza o soggezione, o somiglianza,, o
gratitudine ad altro stato, così adombrando le tollerate catene per nove
anni»: P. Colletta, Storia del Reame di Napoli. i funzionari del
passato regime, era pel controllore delle contribuzioni dirette nella
Provincia di Calabria ulteriore l’espressione d'un sentimento sincero l 2
. Né giacobino, dunque, né antigiacobino. Ma liberale e patriota, se
non nel senso del 1799, in quello più antico della tradizione paesana di
Napoli e della posteriore storia italiana. Del suo
patriottismo e liberalismo son documento bastevole gli opuscoli politici
che G. scrive in cui ripiglia le idee dei Pensieri filosofici, rimasti
inediti, e scendeva in campo a difesa della libertà e dell’ indipendenza
minacciata dall’Austria. Ma la lettura di questi opuscoli, o almeno dei
due a noi pervenuti e qualche anno fa ristampati da Guardione,
induce piuttosto a ricollegare G. alla tradizione di Giannone, del
Tanucci, di Vico e di Filangieri, anzi che a ricondurlo sotto l’influsso
esotico del giacobinismo rivoluzionario. Nei Pensieri filosofici (di
cui si conoscono soltanto alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli ha già II sonetto pare tuttavia debba
riferirsi non al 1815, ma all’anno seguente. Perché gl’affaticati in cui
esso è letto come ci è fatto sapere da un suo storico, riunivasi
raramente; anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nella
Chiesa dei Liguorini, canta del Santo fondatore dell’Ordine » (forse il 2
agosto quando ricorre la festa del Liguori): N. Scrugli, Discorso
storico intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle Notizie
archeologiche e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano. Ma
le notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime. Infatti,
secondo lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata nella
reazione, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove vi fu certamente
recitato il discorso di G. che qui appresso si pubblica. Opuscoli
filosofici della libertà individuale: Della libertà di coscienza e delle
conseguenze che ne derivano riguardo al matrimonio, dell’Autore del
Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, Messina, presso
Antonino D’Amico Arena; Lo sguardo d'Europa sul Regno di Napoli, di G. di
Tropea, in Messina, presso Papparlardo. Entrambi gli opuscoli sono stati
ristampati dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui
servito. aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri
aveva propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare »,
aveva detto, i dritti del pubblico potere, bisogna partire dal
considerare lo stato di natura come anteriore allo stato politico, se non
in ordine di tempo, almeno in ordine di ragione. Tutti gli uomini sono
per natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò
che gli piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli non offenda gli
altrui diritti. Ogni uomo non ha dunque altro dritto per rapporto ad un
altro che di non farsi molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or
questo dritto che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil
società è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vindice dei
dritti di ciascun cittadino contro gli attentati degli altri ». Movendo
da questo principio, a differenza del Rousseau, G. separa nettamente il
dominio giuridico-politico da quello della religione. Riconosce che
la potestà politica dee curare che i cittadini sieno virtuosi. Ella dee
riguardare come un male la depravazione del loro spirito; dee mettere in
opera quei mezzi che promuovono la virtù ed arrestare i progressi del
vizio; e però può parere che abbia bisogno del soccorso della
religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù. Le leggi, dice
Portalis, non dirigono che alcune azioni determinate; la religione regola il
cuore. Le leggi sono relative al cittadino; la religione s’impadronisce
di tutto l’uomo. Ma se le leggi arrestano il braccio e la religione
regola il cuore, dico io, dunque, che la depravazione del cuore non
dee punirsi che dalla sola religione, vai quanto dire, dal solo Dio che
n’è l’autore; ella è dunque estranea alla sanzione della legge. Se le
leggi non son relative che al cittadino, e la religione s’impadronisce
dell’uomo, le leggi devono dunque contentarsi della sola virtù
civile e lasciare alla religione le virtù dell’uomo. Egli bisogna
distinguere l’uomo giusto agli occhi dell’eterno, che tutto vede,
dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto innanzi a Dio, lo è anche
civilmente, perché la sua legge vuole che si obbedisca alle potestà
costituite; ma si può esser giusto civilmente, senza esserlo,
naturalmente, secondo la religione. Le opinioni religiose pertanto
non cadono sotto la sanzione delle leggi, e l’irreligiosità non può esser
punita Ogni maniera di persecuzione del resto è contraria allo
spirito del Cristianesimo. Intorno al quale G. scrive una delle poche
pagine eloquenti, che siano uscite dalla sua penna. Questa religione
divina , egli dice, annuncia agli uomini una morale che perfeziona
la natura. Lo spirito del Vangelo non è che imo spirito di
fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito di persecuzione e
di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascoltati, dice G. C. ai suoi discepoli,
scuotete la polvere delle vostre scarpe e partite. I primi banditori del
Vangelo non impiegarono altre armi per la sua propagazione, che la
forza della parola. La religione deve avere la sua sede nello spirito, e
lo spirito non rigetta l’errore e non abbraccia la verità, se non a proporzione
dei lumi che egli riceve, e trattandosi di religione, a proporzione
della grazia celeste che il Padre de’ lumi gli dispensa. Le prigioni, le
forche, le mannaie, i roghi non cambiano certamente lo spirito dell’uomo, e
l’incredulo non lascia d'esser tale, ancorché vada ad esalare il suo
spirito fra i tormenti più crudeli. L’uomo abusa di tutto. La ministra
della pace e della pubblica tranquillità divenne col progresso del tempo in
mano del superstizioso e del fanatico, l’istrumento del disordine, della
persecuzione e della strage. Questo mutamento di condotta, non della religione,
che in se stessa è santa ed immutabile, ma ne’ suoi ministri, fu sorgente
d’incredulità. Nell’opuscolo sulla Libertà di coscienza la stessa
questione è ripresa e approfondita sì dal rispetto - Gentile, Albori.
I. speculativo e sì da quello politico. Vi ritroviamo quella morale
kantiana, che è professata negli Elementi, nelle Lezioni di filosofia e
nella Filosofia della volontà. La regola della moralità delle azioni è la
coscienza uniforme alla legge»: legge puramente formale anche per G.
Il quale infatti soggiunge. Si può agir male seguendo una coscienza
erronea, ma si agirà male ancora facendo il bene in contraddizione dei
dettami di una coscienza erronea ». E su questi principii, rannodandosi
alle dottrine liberali di FILANGIERI (si veda), fonda la sua
dimostrazione del diritto del matrimonio civile abolito nel Regno
dal codice: il quale aveva stabilito non potersi celebrare
matrimonio legittimo « che in faccia alla Chiesa, secondo le forme
prescritte dal Concilio di Trento. Già nell'opuscolo precedente aveva
provato che « la libertà del pensiero è il primo diritto inalienabile
dell’uomo; e che tale libertà è illimitata. Ora, se questa libertà
è illimitata, se la moralità consiste nella conformità della
coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla legge della coscienza,
ne viene per conseguenza che quelle azioni, le quali debbono essere
necessariamente in armonia col pensiero, non possono giammai essere
forzate; ma debbono rimanere nel campo libero del privato
cittadino. Potrà intervenire il diritto positivo nel culto religioso
esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno non potrà di certo
intervenire per obbligare il cittadino ad un culto contrario alla propria
credenza, bensì per permettere un dato culto e impedire quindi che
venga offeso e turbato da chi non vi si conformi ». Ma deve
10 Stato permettere tutti i culti? Tra il Montesquieu contrario e
il Marmontel favorevole alla libertà dei culti, G. dichiara di non voler
esaminare di proposito 1’importante questione », poiché egli si occupa
piuttosto della libertà individuale, e però della sola libertà di coscienza,
laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo sociale che abbia
abbracciato un culto diverso da quello di altri gruppi, ed esce quindi
dalla sfera del diritto indi¬ viduale. Tuttavia ritiene conveniente che
si possa per ragioni politiche non permettere l’esercizio pubblico
di un culto diverso da quello stabilito. Quanto al matrimonio, dato
il suo interesse pubblico, esso rientra nella sfera di attività del
potere politico: che ha il diritto di far leggi positive sul
matrimonio, le quali, lasciando illeso il diritto naturale,
determinino ciò che la natura non determina, e che ha influenza su
la felicità nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere le condizioni
per la validità del matrimonio come contratto civile, e lasciare alla libertà
del cittadino, se vuole al contratto unire la forma religiosa, che T
innalza a sacramento. Altrimenti verrebbe ad esser lesa la libertà
di coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che G. chiama legge di natura
o diritto naturale. Tale principio a Napoli è riconosciuto dal
codice francese; e certo quella legislazione, tranne il mormorio di
qualche fanatico, che osa chiamarsi teologo, non produsse fra noi il menomo
disordine. Ma, tornato Ferdinando, i superstiziosi spaventarono la
sua coscienza ». Quindi il matrimonio rientrò nel puro dominio
ecclesiastico. E si fa dippiù, dice G.: il Concordato diede alla Chiesa
il potere giudiziario sul matrimonio; potere, che dee esercitarsi in
conformità del codice del Vaticano, e così la sovranità temporale
rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti sul matrimonio ».
G., nelle cui parole è agevole sentire l'eco della tradizione
giannoniana, ora che Napoli sembra risorta a più libera tuta per
l’ottenuta costituzione, parla in nome della filosofia («la filosofia non
dee oggi temere di alzar la voce contro di questi abusi) ; e chiede
che il matrimonio torni ad essere per lo Stato contratto civile; e
protesta contro la censura preventiva. stabilita nella Costituzione
spagnuola, per i libri che trattino di religione. Il secondo
opuscolo, assai più importante per la conoscenza delle sue idee politiche,
quantunque rechi anch’esso sul frontespizio la data del 1820, non par che
possa essere anteriore ai primi del febbraio 1821. Infatti v’ è
detto che « un’armata austriaca si fa vedere in volto minaccioso nella
bella Italia » 1 2; con accenno evidente, se non erro, all’ordine del
giorno del barone di Frimont, di cui si ebbe notizia a Napoli tra il 15 0
il 20 di quel mese In quei giorni un altro filosofo napoletano, Borrelli,
compone un inno di guerra, che, messo in musica dal Rossini, fu cantato
al San Carlo la sera del 21 febbraio. La seconda strofa diceva:
O straniero, che guerra ci porti, Chi ti offese ? quell’ ira perché?
Va, rispetta la terra de' forti.... Ma sprezzante 1’iniquo c’
invade, Ha di sangue nell’occhio il desir. Cittadini,
tocchiamo le spade: Qui si giuri svenarlo o morir! G. dal
fondo delle Calabrie rivolge all’Europa (ma fin dove sarà giunto ?) il
suo opuscoletto, enfatico nella forma, ma savio ed acuto nella sostanza,
per scongiurare anche lui l’invasione straniera e la soppressione delle
libere istituzioni. Rifa brevemente, con giudizi che ricordano l’alta
intelligenza storica di Vincenzo Cuoco, la storia di Napoli, a
conferma del principio, che oppone alle prepotenti pretese del- [Rist.
cit., Vedi De Nicola, Diario napoletano in calce all'Arch. slor. napol., 1905,
fase. 3). l’Austria: che la storia se la fanno i popoli da sé, e interromperla
ad arbitrio è violenza, e lo stato violento non è durevole.
Tutto, egli dice, « cangia incessantemente nel mondo ; ma tutto
cangia gradatamente... Questo principio igno¬ rato o negletto ha spesso
fatto abortire i migliori pro¬ getti di riforme ». I grandi avvenimenti,
che pare mutino d’un tratto miracolosamente lo stato di un popolo,
in realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al quale
l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda, onde hanno
origine gli avvenimenti che formano l’epoche delle nazioni ». Come dai
patiboli del '99 si potè giungere alla libertà del '20 ? G. studia questo
problema. La rivoluzione, per lui, è la conseguenza degl’errori commessi dal
governo borbonico (G. parla sempre di Ministero); quando, dopo aver
favorito in tutti i modi le tendenze liberali promosse e alimentate dalla
filosofìa, a un tratto, spaventato dalla Rivoluzione francese, che
intanto aveva accelerato il movimento degli animi verso la ri-generazione
politica, esso volle violentemente arrestarsi, e tornare indietro, e dichiarò
guerra al liberalismo, e si propose di ripiombare la nazione nella
barbarie. La venuta dei francesi fu la piccola causa che fece rovinare il
trono, le cui fondamenta erano state da lunga pezza lentamente scavate
da’ suoi ministri. Così i Giacobini, che s’appigliarono alla massima
della perfetta imitazione dei francesi, senza chiedersi se Napoli
fosse preparata alla democrazia, e alla democrazia francese, come 1’Issione
della favola, invece di Giunone, abbracciarono la nuvola. Giudizio che
non è certo quello di un giacobino. Successe la reazione; e il governo,
anzi che mostrarsi ammaestrato dagli avvenimenti passati, tornò cieco,
feroce, dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio
d’un cangiamento. Aggiungi l’azione continua della Francia sulle
cose d' Italia, e gli errori della diplomazia: ed ecco Bonaparte e
Gioacchino, che non sono più i francesi, ma i correttori e moderatori
dispotici della libertà, i quali compiono l’abolizione del
feudalismo nel Regno, e vengono via via elevando la coscienza
civile della nazione. Questa al ritorno di Ferdinando è già matura
per la Costituzione: la cui richiesta per altro è affrettata dagli errori
che toma sempre a commettere il Ministero. Fra i quali G. non manca
di ricordare il concordato ignominioso, che annienta tutte le riforme
dall’epoca dell’augusto genitore di Ferdinando fino al suo ritorno fra
noi. Mostrata la necessità storica della rivoluzione del 1820 e
della costituzione che Napoli s’era con essa conquistata, il filosofo protesta
contro l’intervento straniero, e minacciosamente esclama: Un’ invasione è
ella facile nelle attuali circostanze della nostra nazione? Il '99,
il 1815 sono gli stessi tempi per noi del 1820? Si è mai veduto in
altri tempi, allorché il nemico ci minacciava, l’agricoltore, l’artista,
il prete, il monaco stesso domandare l’iniziazione nelle società patriottiche
per emettere il giuramento di vincere, o di morire per la difesa
della costituzione e del trono? Siamo così abituati a rappresentarci G.,
attraverso i suoi saggi meramente speculativi, dove non spunta mai
favilla di passione umana, o un accenno storico, o un’allusione
personale, e attraverso le memorie di quel suo insegnamento
universitario, tutto chiuso, nel periodo di puro raccoglimento spirituale
per Napoli, nella speculazione sopramondana.: che questa specie di
G. inedito, agitato dalle preoccupazioni politiche e storiche del mondo
in cui visse, ci riesce di uno strano sapore nuovo e d'un vivo interesse.
E ne viene aggiunta una linea caratteristica e simpatica alla figura
del nostro vecchio e caro scrittore; che viene ad occupare anche lui il
suo posto non pur nella storia del liberalismo italiano, ma in quella
schiera di acuti pensatori improntati della più schietta italianità, i
quali, rifacendosi direttamente o indirettamente da VICO (si veda),
si opposero all’ astrattismo antistorico e rivoluzionario di
Francia. Lungi, dunque, dall'apparirci un giacobino, G., pel suo
modo d’intendere e giudicare gli avvenimenti contemporanei, ci si
presenta come un liberale, penetrato del senso della realtà e razionalità
della storia. Né questa figura viene menomamente turbata dal
nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste note: un altro suo
discorso accademico, letto a Tropea (nella solita Accademia degli
Affaticati) in lode questa volta di Ferdinando II, pel suo avvenimento al
trono Discorso che io ho avuto sott’occhio nell’autografo, e
trascritto fedelmente. Esso, ad ogni modo, non può suscitare né meraviglia,
né rammarico in nessuno che ricordi con quali lieti auspicii salisse al
trono il nipote di quel Ferdinando, a cui iG. aveva inneggiato nel
18x5. « La giovanezza del re », scrisse lo stesso Set¬ tembrini nella sua
Protesta, « la recente rivoluzione di luglio in Francia, e i movimenti di
Romagna, alzarono la nazione a novelle speranze ». E molto meglio nelle
Ricordanze: «Quando re Ferdinando II saliva sul trono delle Sicilie, cominciò
bene, e a molti parve un buon principe. Ogni giovane a venti armi è
buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella. In un suo Manifesto
dichiarò di voler rammarginare le piaghe che da più anni affliggevano il
Regno, ristorare la giustizia, riordinare le finanze, promuovere le
industrie ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni dei suoi
amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per la quale tornarono a
le loro famiglie molti esuli, molti prigionieri, le speranze crebbero e
l’allegrezza fu grande. Gli uomini savi dicevano che egli aveva fatto una
brutta orazione funebre a suo padre; ma gli davano lode perché
scacciò parecchi ministri e servitori, che durante il regno di Francesco
avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché restrinse le spese della casa
sua, tolse via le cacce, e volle vivere con certa semplicità e
parsimonia, che il popolo chiamò avarizia. Pareva a tutti cortese perché
dava udienza a tutti, domandava, rispondeva, provvedeva subito, e
ricordava i nomi di quanti aveva una volta veduti. Anche Nerone, uscì a
dire, uno di quei giorni, esso Settembrini tra giovani suoi amici e
maggiori d’età: anche Nerone cominciò col quam mallem nescire
scribere. L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate che s’usi,
e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo. E gli diedero del
matto '. « Io che sono stato vittima del suo insaziabile dispotismo » —
scrive Nisco nell’accingersi alla storia del suo regno, e che ne
porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò con civile orgoglio
la storia dei suoi primi anni di regno, i quali sono andati confusi con
quelli che seguirono, massime dopo il quarantotto, quando la natura
borbonica, ridestandosi ampiamente in lui, lo menò a divenire l’avver¬
sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ». E ricordando la soddisfazione
generale di quei primi mesi del nuovo re, raccontava : Alle acclamazioni
dei popoli facevan eco i prosatori ed i poeti di quel tempo, e
nell’entusiasmo della sperata redenzione, sventuratamente poi
tradita, vennero fuori giovani ed uomini egregi, fra i quali Filioli, i Baldacchini,
i Dalbono, Ruffo e quella sublime donna, che mai non si contaminò di servo
encomio, Guacci. E quando 1 Ricord., c. V. , rimosso ogni
ostacolo derivante da colpe politiche al conseguimento dei pubblici
uffizi, abilitò all’esercizio delle pubbliche cariche gl’ impiegati ed i
militari destituiti per le politiche vicende, concedè ai detenuti in
carcere, espatriati, esiliati e condannati napoletani e siciliani alle galere e
all’ergastolo di ritornare nelle loro famiglie, Saverio Baldacchini il
chiamò in un suo inno, Padre a tutti, che il gaudio Del
perdonar provò; e dall’animo purissimo della giovane Guacci si
elevò quella nobilissima esclamazione Oh ! lieto il sire,
Che nell’amor dei popoli riposa Al coro delle lodi si unì adunque anche
il filosofo di Tropea, tuttavia controllore delle contribuzioni, col seguente
discorso; in cui l’adulazione del suddito par s’indirizzi all’ idea
dell’ottimo sovrano piuttosto che alla persona del giovine monarca ; onde si
direbbe che a tratti assuma il tono dell’ammonimento anzi che del
panegirico. Alcuni accenni di dottrine filosofiche, che vi si mescolano,
come i riferimenti ai concetti del bello e del sublime, dimostrano il già
sessantenne filosofo incapace di distrarre la mente dalle sue astratte
meditazioni. E questo è forse l’ultimo scritto, in cui gh accadde di volgere
attorno uno sguardo, per esprimere il suo pensiero su fatti e personaggi
contemporanei. . 1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di
Napoli, Napoli, Morano. Pel felice avvenimento al Trono delle
Due Sicilie di FERDINANDO II Discorso Accademico di G.
Di letizia ripiena, Accademia illustre, io ti rimiro. Con la
rapidità del fulmine l’arrugginita cetra riprender ti vedo. Il tuo vivo
ardore, di scioglier la lingua al canto, espresso nel tuo volto io leggo.
Sì, dell’estro che ti accende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe
ascende sul trono di Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri
cuori, sparisce: in tutti i volti degli abitatori delle Due Sicilie, con
vivi ed espressivi colori, la gioia dipinta si vede. Un grido di letizia
dappertutto rimbomba. Ma non è la gioia il solo effetto, che la
comparsa del giovine Re sul trono ha universalmente prodotto ne’nostri
cuori. Un vivo sentimento di ammirazione e di devozione verso la sacra
persona di lui, si è immantinente acceso ne’ popoli di qua e di là del Faro.
Ferdinando II, l’augusto discendente di tanti Re, non solamente quel sentimento
fa nascere, che, in una ridente primavera, l’aspetto d’una deliziosa
campagna, negli animi sensibili alle bellezze della natura e dell’arte,
suole produrre; ma quel sentimento eziandio produsse, che in una vasta
pianura, la veduta dell’azzurra volta del cielo, in una notte serena,
l'anima colpisce dell’osservatore attento a contemplar l’universo.
Ferdinando II è dunque un oggetto non solamente bello, ma sublime.
Come bello, la sua G. GIACOBINO ? I3I comparsa sul Trono ha
inondato di letizia il cuore de’ suoi popoli; come sublime, di
ammirazione e di devozione gli ha colpiti. Il bello ed il sublime
producono diverse affezioni morali: l’uno rallegra, ed in certe circostanze
fa pianger di tenerezza. L’altro l’ammirazione e la devozione produce.
Nondimeno, quando il sublime si riguarda come una causa, che su la nostra
felicità influisce, all’ammirazione ed alla devozione fa esso succedere
la confidenza e la letizia. Tale è il sentimento, che provano i
soldati di un’armata, quando sanno che il loro generale è uno Scipione,
un Alessandro, un Camillo ; e tale appunto è quello che in noi produce la
vista di Ferdinando II sul trono delle Due Sicilie. Se il bello ed
il sublime l’oggetto sono dell’eloquenza e della poesia, se senza un
oggetto, che sia defl’una e dell’altra qualità fornito, il genio
dell’oratore e l’estro del poeta languiscono; se l'alto personaggio, che
è l’oggetto di questa letteraria adunanza, è dell’una e dell’altra qualità
eminentemente adorno, con ragione, Consesso illustre della città di Alcide, di
estro animato ti veggo, per fare oggetto de’ tuoi canti l’augusto principe,
che al Trono ascende di Carlo III. Con ragione, cogli occhi a me affissi,
che dell’onore di esser tuo oratore son fregiato, attento ti miro. Tu
vuoi udir dal mio labbro la dipintura dell’alto personaggio, che verso di
lui attira i nostri sguardi. Tu brami, che i motivi io ti esponga,
che dalla velocità incalcolabile del pensiero aggruppati insieme, i
sentimenti di gioia, di ammirazione e di devozione ne’ nostri cuori
producono. Ferdinando II è bello: nel suo volto dipinto si vede la
candidezza deH’anima sua, ed una certa misteriosa espressione del buon
senso, del buon umore, del brio, 1 Tropea, città, secondo la leggenda, di
Ercole. Vedi Nicola Scrugli, Notizie archeologiche di Portercole e
Tropea, pp. 15-17. della benevolenza, della sensibilità e delle altre
amabili disposizioni. Con questa sua bella fisonomia e colle sue
belle maniere, la letizia egli sparge ne’ nostri cuori. Ma non è questo
il punto di veduta, sotto di cui io mi propongo di dipingerlo. Ferdinando II ci
ha colpiti di ammirazione e di devozione, ed a questi sentimenti è
successa la speranza e la letizia. Egli è dunque un oggetto
sublime. Un oggetto sublime è grande. Egli è, per conseguenza,
grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad ammirare in lui ? Sarà forse
quella degli Alessandri, e de’ Cesari ? Quella vera grandezza, che in
questi gravi capitani dell’antichità noi ammiriamo, si trova bensì nel
nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediatamente ci colpisce, e che
più in lui risplende. Una grandezza guerriera può trovarsi negli uomini i più
nefandi. Siila non era insieme un gran capitano, ed mi mostro di
crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché conosce i doveri di un Re. Egli
è grande, perché adempie i doveri di un Re. È questo l’oggetto del mio
discorso. Parte Prima Un pensiere è grande, allora che esso è esteso.
Un pensiere che, nella sua espressione la più semplice, comprende tutti i
pensieri particolari, che vi si rapportano, è un pensiere grande; e
l’anima, che lo sente in sé, sperimenta un sentimento di grandezza. Il
sentimento della grandezza è il sentimento della forza o del potere.
Colui che possiede una verità generale, sente che ha in suo potere
tutte le verità particolari che vi son comprese. Egli è simile a colui
che, posto su la cima di un alto monte, comprende, con un semplice
sguardo, un vasto e variato orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande
quando ci rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di
Annibaie dicendo: Allora che poteva servirsi della vittoria, amò
meglio goderne. Una consimil grandezza si ravvisa nell’ idea, che egli ci
dà di tutta la guerra di Macedonia, quando dice: «Il vincere fu
l’entrarvi». Uno spirito sublime racchiude le verità particolari in una
che sia la più generale, e per conseguenza la più semplice.
Ferdinando II, asceso sul trono de’ suoi antenati, vede, con un
colpo d’occhio, tutti i doveri di un Re: egli li racchiude in un
principio generale. Il suo pensiere è grande: egli che lo concepisce, è
grande in conseguenza. La prima parte del mio discorso accademico è
terminata. È terminata? Accademia illustre, ti credi tu forse,
con questo mio breve parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu
forse sperimentato un sentimento dispiacevole, simile a quello che
sperimentar suole uno spettatore di un’azione teatrale, allora che una causa
improvvisa lo chiama in altro luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma
cesserà in te questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità
incalcolabile del sentimento mi ha fatto attraversare, in un baleno, un
vasto spazio. Io non ho potuto arrestare la sua impressione. Lo
scotimento prodotto nell'anima da qualche grande oggetto, l’alza
notabilmente sopra il suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di
entusiasmo piacevolissimo finché dura, che le fa comprendere, con uno sguardo,
una moltitudine di oggetti, ma da cui l’anima tosto ricade nella sua
ordinaria situazione. Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili,
lo spazio trascorso. Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero
universo, diede all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui.
L’uomo è dalla sua natura determinato allo stato della civil società. In
questo stato solamente può egli perfezionar se stesso, ed adempiere la
sua destinazione. L’uomo ha in se stesso le tendenze, i mezzi e la legge
di vivere nella civil società. La società civile non può sussistere senza
un essere morale, dotato del potere legislativo ed esecutivo. Un
tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici, il sovrano è il
Re. Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società su la
terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque della sovranità,
come ordinata a quella della civil società, è voluta da Dio per la
felicità degli uomini. Queste semplici riflessioni ci menano infallibilmente
alla conoscenza del principio generale della morale de’ Re. La
destinazione dei Re su la terra è di rendere, per quanto è loro
possibile, felici i loro sudditi. Ecco il principio luminoso e sublime,
che tutti racchiude i regi doveri. Ma non udiamo noi forse questa
sublime e consolante filosofìa annunciarsi a’ popoli delle Due Sicilie,
nel primo momento del suo avvenimento al trono, dall’augusto
Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in quell’ammirabile proclama,
che destò ne’ nostri cuori l’ammirazione e la devozione per la sua sacra
persona, e che di vera gioia gl' inondò. Il giorno otto di novembre
dello scorso anno 1830 Ferdinando II ascese sul trono, ed in quell’
istesso giorno egli così parlò a’ suoi sudditi : Avendoci chiamato Iddio
ad occupare il Trono de’ nostri augusti Antenati, sentiamo l’enorme peso,
che il supremo Di¬ spensatore de’ regni ha voluto imporre sulle nostre
spalle, nel- l'affidarci il governo di questo Regno. Siamo persuasi che
Iddio, nell’ investirci della sua autorità, non intende che resti
inutile nelle nostre mani, siccome neppur vuole che ne abusiamo.
Vuole che il nostro Regno sia un Regno di giustizia, di vigilanza, e
di saviezza, e che adempiamo verso i nostri sudditi alle cure paterne
della sua Provvidenza. 1 II proclama si può leggere nella Collezione delle
leggi e de' decreti reali del Regno delle Due Sicilie, sem. II, Napoli,
Stamp. Reale. A voi, gran Dio, che avete nella vostra mano il
cuore de’ Re, per inclinarlo secondo la vostra volontà sempre
santa, grazie siano rese del prezioso dono, che nella vostra misericordia
ci avete concesso. Non mica nel furore del vostro giusto sdegno, ma nelle
vedute imperscrutabili della vostra misericordia, voi ci avete inviato a
reggere i nostri destini il giovane eroe, che ci sorprende colla
sua sublime sapienza. Egli riconosce che non dee punto abusare
dell’autorità di cui voi l’avete rivestito; che è suo sacro dovere, di
far che regni fra di noi la giustizia, e che egli sia il felice
istrumento delle cure paterne della vostra provvidenza su di noi. Ciò è
lo stesso che riconoscere esser egli destinato da voi a render
felici i suoi sudditi. Ciò è lo stesso che proclamare il principio
generale della morale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’ suoi
popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto, che ha appena
compiuto il quarto lustro della sua età. Egli è dunque dotato di un’anima
grande ; ed è con ragione, che qual Grande è salutato da’ popoli delle
Due Sicilie. Un’anima grande ha solamente potuto concepire il pensiero
sublime, che tutta racchiude la morale de’Re; ed un’anima grande ha
potuto, invece di essere distratta dallo splendore del Trono,
specialmente in un’età giovanile, concentrar tutta se stessa nell’espressione
de’ propri doveri, ed esserne profondamente penetrata. Nell’ammirabile
proclama il nostro gran Re non solamente conosce la sua augusta destinazione
nel governo de’ suoi popoli, ma vede ancora i mezzi principali, che
debbono fargli conseguire il gran fine. Egli scovre nel principio le
illazioni. Egli vede, in primo luogo, che gli uomini non possono esser
febei, senza esser virtuosi: egli conosce T intima relazione, che passa
fra la virtù e la Religione; che i sentimenti rebgiosi conducono
alla virtù, come la virtù conduce alla Rebgione. Egli comprende che la
vera religione viene in soccorso della pubblica autorità, e per estendere la
sanzione delle leggi, e per ottenere ciò che esse non possono
prescrivere, e per evitare ciò che esse non potrebbero sempre
giugnere ad impedire; ed egli conclude, che dee proteggere la
divina Religione, che c’ illumina. I grandi, dice il celebre Massillon, «
non son grandi se non perché eglino sono le immagini della gloria del
Signore, ed i depositari della sua potenza. Eglino dunque debbono
sostenere gl’ interessi di Dio, di cui rappresentano la maestà, e
rispettare la Religione, che sola rende rispettabili loro stessi.
Dalla Religione volge il nostro gran Re lo sguardo alla giustizia.
Egli vede che la felicità de’ cittadini richiede una gelosa custodia de’
loro diritti. Egli conosce che questa custodia è il sacro dovere del
potere giudiziario. Egli è convinto che il Re nell' istituzione di questo
potere, e nell’elezione de’ membri, che debbono comporlo, deve
porre la maggiore attenzione che gli sia possibile. Il cittadino dee, sotto la
protezione della legge, e del pubblico potere, vivere tranquillo: egli
non dee temere che i suoi diritti sieno violati. Magistrati, a cui la
regia maestà consegnò la spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente
legislatore. Tutti i miei sudditi, egli dice, debbono essere uguali agli
occhi della legge. I tribunali debbono essere un santuario, che la
corruzione, la prepotenza, T intrigo, non debbono giammai profanare. Se i
giudici debbono essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non debbono
essere legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è una funzione
estranea al loro potere. L’impero della legge dee essere
universale. Noi vogliamo dice il Proclama che i nostri tribunali
siano tanti santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagl' intrighi,
dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o interesse.
Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono uguali, e procureremo
che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia. I cittadini non possono
essere felici, se lo Stato non è ricco. Uno Stato, dice un celebre
politico, non si può dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché
ogni cittadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬ damente
supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia. Un lavoro
assiduo, una vita conservata a stento non è mai una vita felice. I dazj
eccessivi sono contrarj alla felicità di cui parliamo; ed i dazj debbono
essere eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato presenta un
voto. E qui l’anima grande di Ferdinando II ci si mostra allo scoverto.
Egli non dirige il suo sguardo su le pompe de’ Re, su i palagi de’
Grandi, ma lo dirige su i cenci, e su i tugurj de’ poveri e degl’
infelici. Al suo penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo
doloroso della soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo. La
sua grande anima ne è profondamente penetrata, ma non abbattuta. Le
grandi passioni innalzano l’anima, e scovrire le fanno degli oggetti
incogniti agli uomini ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento
stesso il voto spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di
ripararlo. La grande opera della instaurazione delle reali finanze, è
tosto nella gran mente del Principe magnammo già delineata. La felicità
de’ cittadini richiede ancora, che lo Stato sia temuto e rispettato al di
fuori. Ad un si grande oggetto conferisce un’armata disciplinata,
valorosa ed animata dal nobile ardore di gloria. E Ferdinando II si fece già
ammirar da capitano, prima di farsi ammirare da Re. Augusta
filosofia! Se io a te consagrai sin da primi anni la mia vita, se non ho
avuto altro scopo ne miei scritti, che di annunciare la verità al genere
umano, se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da te non si
concepisca contro di me alcun sospetto, che mi avvilisca a’ tuoi sguardi. No,
l’adulazione non ha profanato il mio linguaggio. Io non ho prestato al
mio Eroe i miei 10 - Gentile, Albori. I. pensieri, per formarmi un
prototipo di mia immagi¬ nazione. Io gli ho osservati in lui, che nel suo
proclama gli esprime. Io ho dunque, senza rimorso di arrossire al
suo cospetto, il diritto di concludere : Ferdinando II è grande perché
egli conosce i doveri di un Re. Parte Seconda
Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ? Il tempo, in cui 1’Eroe
di questo discorso regna su di noi, non è ancora di tre mesi; ed egli ha
tali e tante cose operato, che con ragione i sudditi suoi, nella
sincerità del loro cuore, 1' hanno unanimemente acclamato per
Grande. Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’ personaggi di
tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono de’ secoli. I loro passi
sono di una rapidità incalcolabile, ed agli occhi degli uomini ordinar]
sembrano de’ prodigi- Eglino, quando anche la loro vita fosse molto
corta, formano l’epoche della storia; perché producono quei
memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’popoli, e fanno a questi
percorrere un cammino diverso. I loro nomi resistono al furore del tempo,
che tutto distrugge. Ferdinando II ascende al trono de’suoi antenati,
nell’aurora della sua vita. Un uomo ordinario sarebbe stato sedotto dallo
splendore del Trono: egli avrebbe sdegnato le penose cure del governo di
un Regno; egli sarebbe stato colpito dal fasto de’ grandi. Il giovin
Eroe chiude gli occhi alle pompe incantatrici del Trono, ed attento
gli rivolge su i mah del suo popolo. Egli non vuol assidersi in mezzo de’
grandi pria di piangere cogl’ infelici. Una serie d’infausti avvenimenti
produce torrenti di mali, ed immerge nel dolore e nel pianto gli
abitatori di queste belle contrade. Un muro di separazione s’innalza fra
di noi. Esso divide i sudditi da’ sudditi. Quelli della parte sinistra son
privi della vita civile, nell’atto che la necessità ne chiama degli
altri, che sono insufficienti, alle pubbliche cariche. Il potere
giudiziario perde tanti ragguardevoli magistrati. L’amministrazione tanti
prudenti e savj amministratori. La indizia tanti valorosi campioni. Gran
Dio, chi riparerà i nostri mali ? Voi avete udito i gemiti de buoni
e virtuosi cittadini di questo bel Regno: la vostra voce finalmente dal
Cielo si è udita. Popoli delle Due Sicilie, rasciugate le vostre lagrime
: i vostri cuori si aprano alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende
sul Trono: egli sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a
nuova vita. Sì, il core magnanimo di Ferdinando il Grande è
commosso all’aspetto de’ mah di una gran parte de sudditi suoi. Egli
sente, nella sua clemenza, che, essendo l’immagine di Dio e del Redentore
divino su la Terra, dee qual padre correre ad abbracciare il figliuol
prodigo. Egli vede, che la discordia in un Regno è la sorgente di
mali deplorabili, e che un principio saggio dee farla cessare. Egli conosce,
che i Re debbano regnare su i cuori de’ loro sudditi. Il memorando
decreto del 18 dicembre del 1830 è pubblicato. Il muro di separazione è
rovesciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale ». Tacete,
animucce infelici, in cui la calunnia ha posto la sua sede, tacete. Che
cosa mai dir vorrete ? Che il Reai Decreto or ora citato è una finzione ?
Che esso non avrà alcuna esecuzione? No, l’anima eroica di Ferdinando II
non cape siffatta bassezza. I reali Decreti del dì 11 del corrente
gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi- [A questo punto d'altra mano, in
margine: «La tempesta politica fa traviare dal retto cammino anche i
migliori talenti. L’atto sovrano del 18 dicembre 1830 portava un indulto in
favore dei condannati come rei di Stato, e di coloro che per ragioni
politiche si trovavano esclusi dagli impieghi civili e militari.
3 Allude ai due decreti nn. 104 e 106, emanati con quella data da
Ferdinando II, col primo dei quali si cercava di curare le piaghe
ALBORI DELLA NUOVA ITALIA nando II regna senza distinzione, su i
cuori di tutti i sudditi suoi. Tutti si riguardano quasi fratelli,
perché vivono sotto T impero di un Re, che è loro Padre. DalTuna
all’altra estremità delle Due Sicilie una sola voce si ascolta : Viva
l’Eroe! Viva Ferdinando II il Grande! Tutti sì, tutti son pronti a
versare per un tanto clemente Monarca il loro sangue. La virtù non dee amarsi
che per se stessa, e sarebbe, in buona filosofìa, un distruggerla il
riguardarla qual mezzo per la felicità. Ma è essa una verità incontrastabile,
che l’uomo virtuoso sarà felice, ed il vizioso infelice. Quale spettacolo
più commovente per l’anima di Ferdinando II di quello che gli presentò la
capitale ne' giorni ix, 12 e 13 di gennajo, e la relazione, che certamente
gli pervenne, della letizia universale innalzata sino al più vivo
entusiasmo di tutto il Regno ? Il piacere di rendere milioni di uomini
felici, e di vedersi da essi adorato ne ha esso forse un eguale su la
terra ? Il Principe magnanimo intese nel suo cuore, che egli ha tanti soldati,
quanti sudditi conta il suo regno. Egli vide il suo Trono immobile, la
sua gloria immortale. La grand’opera della rassicurazione delle reali
finanze la dicemmo già delineata nella gran mente del nostro Eroe.
La mano incomincia tosto ad eseguire il disegno profonde che erano nelle
finanze del Regno, sopra tutto dei domimi continentali, per le conseguenze
fatali della straniera usurpazione: gli avvenimenti disgraziati del 1820#; si
esponeva con leale franchezza il deficit della tesoreria generale di
Napoli, che ammonta a 4 345 251 ducati; per colmare gradualmente il quale
si annunziava una serie di lodevoli economie nella milizia e nei
ministeri, oltre straordinari rilasci della cassa privata del Re e
dell'assegnamento della R. Casa; l’abolizione del cumulo degli stipendi;
l’imposizione di una ritenuta ai soldi e pensioni superiori a 25 ducati
mensili; e in compenso pel « sollievo della parte più bisognosa del
popolo » si diminuiva della metà il dazio sul macino. Con l’altro decreto
veniva prescritta « una generale economia nelle spese a carico dei comuni di
qua del Faro per invertirla nella diminuzione de’ più gravosi dazi
comunali». Vedi Collezione cit., a. 1831, sem. I, pp. n-17, e 18-20.
G. GIACOBINO? I4I del pensiere. I Re imprimono alle loro
azioni un carattere di gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea
di grandezza si associa a quella delle azioni de’ grandi, e l’impero
delle idee associate sul cuore umano è molto esteso. Quindi la virtù,
quando si scorge nelle azioni de' grandi, di qualunque grandezza essi
sieno adorni, rende la virtù rispettabile su la terra. Guidato da
questo sublime pensiere, Ferdinando II incomincia da sé la nobile
impresa. Que’ insti spazj di terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto
restituiti all’agricoltura. Questa misura diminuisce le spese relative
alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza. Un rilascio è
conceduto dalla borsa privata del Principe: altro ne è fatto
dall’assegnamento della Casa reale. La classe degl’ impiegati è chiamata
ad imitar l’esempio del Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto
del di 11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien tosto a
colpirci di ammirazione e di gioja. Se tali sono le imprese di Ferdinando
II in men di tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un
lungo regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la
restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra ed immutabile. Il
passato ci autorizza a sperare il futuro. Sì, il cittadino vivrà
tranquillo sotto 1 * impero della legge. Il regno di Astrea rinascerà su
le nostre contrade. Ed io non posso trattenermi di finire col poeta
latino: lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, lavi nova
progenies caelo demìititur alto. Con la pubblicazione del suo proclama il
Giornale ufficiale annunziava le sue disposizioni per l’abolizione delle
cacce »: N. Nisco, Gl’ultimi trentasei anni del Reame di Napoli. G. è
stato detto a ragione gran riformatore della filosofia italiana ; e aspetta
ancora un degno illustratore della sua vita e del suo pensiero . Noi ne diremo
soltanto quanto è neces sario al disegno di questo lavoro. Nasce a Tropea, in
Calabria dal barone Vincenzo e da Lucrezia G., una delle più antiche famiglie
patrizie di quella cittaduzza. Fattii primi studi di latino, è mandato a scuola
di filosofia e matematica d’un abile maestro, tal Ruffa, che gli pone in mano
la Logica di GENOVESI (si veda) e la Geometria di Euclide; e l'innamora
talmente di questi autori e di queste discipline, che G., anche innanzi negli
anni, non rivede quei saggi senza una certa commozione. Ma non si ferma a GENOVESI
(si veda); perchè alcuni suoi compagni l'induceno a leggere la Teodicea del
grande avversario di Bayle. E G. ne è invogliato a studiare tutto il sistema
nelle opere del Wolff, come anche ad applicarsi alla teologia, poichè nella
scuola si è introdotto, scrive egli stesso, un certo misticismo. Studi
teologici e metafisici continua a coltivare a Napoli , dove si reca, da
Palermo, ove il padre qualche anno prima aveva condotto la famiglia. Frequenta
le lezioni di teologia di Conforti, il Sarpi napoletano, e quelle di greco di Baffi;
entrambi vittime gloríose. Studia la Bibbia, la storia antica, l'ecclesiastica,
la patristica, Vedi il brano autobiografico pubblicato da PIETROPAOLO nella
Rivista di filosofia scientifica di Morselli, &., e ripubblicato da TORALDO
nel suo Saggio sulla filos. di G. e le sue relazioni col kantismo, Napoli ,
Morano ( dove per una gvista è stampato
amabile per abile. specialmente Agostino.
Ma, per la morte del suo minor fratello Ansaldo, dove rimpatriare per attendere
all'azienda domestica ; e sposa Barbara d'Aquino di Cosenza, dalla quale ha
quattordici figli! Negl’elementi di psicologia egli stesso ricorda la sua
numerosa figliuolanza, che nella sua casa non grande gli impede co'suoi
strepiti infantili di studiare la filosofia e le matematiche, senza la sua
grande passione per questi studi. Persistetti, egli dice, e l'esercizio mi pose
in istato, che io me ditavo tranquillamente, non ostante i giuochi strepitosi,
i pianti e le grida de’ragazzi. Per rispondere alle censure che certi
ecclesiastici avevano fatto di alcune sue proposizioni, pubblica una Memoria
apologetica Nè tralasciava frattanto di coltivare la filosofia : ma i saggi
filosofici che legge, com'egli c’informa, sono tutti della scuola cartesiana. Legge
Condillac, e qui comincia la seconda epoca della sua vita filosofica. Le opere
di questo filosofo fecero cambiare la direzione dei suoi studi nella filosofia,
lo compresi , - ci dichiara G., – che prima di affermare qualche cosa su
l'uomo, su Dio e su l'universo , bisogna esaminare i motivi legittimi dei
nostri giudizi e porre una base solida alla filosofia; che bisogna perciò
risalire all'origine delle nostre conoscenze, e rifare in una parola il proprio
intendimento. Così egli scrive quando è molto progredito nella critica della
conoscenza, e aveva, si può dire, approfondito il problema. Forse la prima
lettura di Condillac non gli diede quella netta coscienza, che parrebbe da
queste parole , dell'im portanza della questione gnoseologica . Certo, l'avviò
per questa strada, che è la strada maestra delle filosofia moderna, facendolo
ritornare sul Saggio di Locke. E primo frutto di questi nuovi studi fu nel 1807
un opuscolo Sull'analisi e la sintesi; le due ; 2.a ed. , Firenze, Pagani. Anche
Vico nella sua vita ricorda con quella sua disinvolta vanità di esser * uso
sempre a leggere o scrivere, o meditare » tra lo strepito de' suoi non pochi
figliuoli. In Napoli , pei torchi di Vincenzo Mozzola - Vocola. Autobiografia
citata. Napoli, Verriento. Tirato in pochi esemplari non messi in vendita,
quest'opuscolo è divonuto oggi rarissimo. Una copia è conservata dalla
Biblioteca Universitaria di Napoli, nella Miscellanea Imbriani. I facoltà che occuperanno un posto primario
nella filosofia dello spirito galluppiana. Tutto intento a' suoi studi , e
senza allontanarsi mai da Tro pea, se di là « con l'occhio e col pensiero, come
immaginava in un suo affettuoso elogio Vista, non si sarà rivolto « alla
prossima Cotrone, ed ai suoi costumi ed alle sue idee trovato un modello nella
vita e nella sapienza del divino Pita gora; certo avrà seguito gli avvenimenti
politici dei for tunosi tempi del decennio francese in Napoli , com'è certo che
partecipò vivamente con l'animo alle riforme liberali allora at tuate o
vagheggiate. Scrisse anche un opuscolo Sulla libertà com patibile con ogni
forma di governo, rimasto inedito. E da re Gioacchino è nominato controllore
delle contribuzioni della provincia di Catanzaro. Della parte da lui presa alla
vita pub blica contemporanea si ricorda pure un opuscolo, Lo sguardo
dell'Europa sul Regno di Napoli, in difesa degli ordini costituzionali
napoletani minacciati dal Congresso di Lai bach, e contro l'intervento
straniero. E altri due opuscoli avrebbe indirizzati al Parlamento napoletano ,
l'uno Sulla libertà dell co scienza e l'altro Sulla libertà della stampa;
opuscoli ora irrepe ribili, ma che non dovevano contenere niente di diverso
dallo scritto Su la libertà compatibile con ogni forma di governo, di cui
larghi squarci e transunti furono pubblicati; nei quali il Nostro mostrasi
largo fautore di ogni libertà, 4. Quando scrisse l'opuscolo Sull'analisi e la
sintesi G. ancora non conosceva nulla di Kant, secondo che egli stesso ci
attesta. La conoscenza di questa filosofia, egli dice, non cam biò punto la
direzione dei miei studi ; io continuai le mie appli [Memorie e scritti di L.
LA VISTA, Firenze, Le Monnier, Vedi quel che no dice TULELLI in un'interessante
memoria Intorno alla dottrina ed alla vita politica del bar . P. G. - Notizie
ricavate da alcuni suoi scritti ine diti e rari, negli Alti della r. Acc. delle
scienze mor . e pol. di Napoli, I, 201 e sgg. Il TULELLI pubblicò un'altra
memoria : Sopra gli scrilli inediti del bar, P. G. negli stessi Atti del 1867,
III, Vedi l'opuscolo più sotto citato di BISOGNI, Omaggio Vedi la prima delle
due memorie del Tulelli. Pare tuttavia che nella reazione G., che allora
trovavasi a Tropea , non abbia mantenuta quella condotta che si conveniva a un
amico della libertà . Nell'Eco di Tropea) TORALDO , al quale pure si deve il
citato Saggio sulla filosofia di G. con appendice di scritti inediti, ha
pubblicato questo bruttissimo sonetto recitato dal Nostro noll'Accademia degli
Affaticati di quella città : cazioni su l'intendimento umano, ma profittai
molto delle fati che del filosofo di Koenisberg ; io riconobbi il merito dei
problemi elevati dalla filosofia critica , sebbene trovai insufficiente la so
luzione che questa ne avea dato . Le meditazioni da me por tate su la filosofia
critica , elevarono molto più alto i miei pensieri e mi presentarono delle
nuove vedute nella scienza dell'intendi mento umano. E vedremo infatti quanta
parte del criticismo kantiano si rispecchi nel Saggio filosofico sulla critica
della co noscenza , di cui il Nostro pubblico i primi due volumi a Napoli, [Questa
prima conoscenza di Kant provenne a G. dalle esposizioni nè complete nè esatte
di Villers e di Kinker e Della Patria il dolore, il lutt , il pianto , La rea
sorte fatal veder non voglio, Di Marto, di Bellona il fler orgoglio , L'augusto
trono di Minerva infrant, Spesso sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto
dal più fler cordoglio, Pria che de' Franchi vacillasse il soglio , Dico nel
mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo. Occhi mici, non piangete,
Grido nel mio furore ; io corro or ora Sollecito a varcar l'onda di Loto. Ma
già l'Angiol divin , che accanto giace, Di man mi toglie il ferro , e
grid'allora Verrà Fernando: tornerà la paco! Il sonetto è conservato su un
foglio volante, che reca dalla parte opposta queste parole che sono la
conclusione di un discorso accademico :Ferdinando augusto , principe ma
gnanimo, nell'impetuoso turbino che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a
salvarci. I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza.
Ferdinando viene, Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è terminato. E poi
: G. fra gl’affatigati il furioso. Siegue dietro il Sonetto dello stesso
accademico A me pare che discorso e sonetto possano riferirsi alla reazione. Le
frasi di questo passo meritano particolar considerazione per quel cho si dirà
più innanzi del pensiero galluppiano. Pei torchi di Domenico Sangiacomo.
Seguirono altri 2 vol. Messina , Pappalardo; poi un 5.° e un 6. ° , per cui
l'opera fu compiuta,, presso lo stesso Pappalardo. In Napoli fu incominciata la
2.a edizione migliorata ed accresciuta. Philos. de Kant, ou principes fondamentaux de la philos.
trascendentale, Metz, 1807. ( 4) Essai d'une exposition succincte de la
Critique de la Raison pure ; trad. du l'ol landais par. J. le F.; vedi su questi e gli altri primi scritti
francesi sul Kant l'im portante memoria del PICAVET, La philos. de Kant en
France, proposta alla sua trad. della Critica della Ragion pratica (Paris,
Alcan). dalla Storia comparata dei sistemi filosofici del Degerando. Egli non
seppe mai il tedesco, nè mai conobbe la traduzione latina di alcune opere
kantiane, già ricordata, fatta dal Born; nè era uscita peranco la traduzione
che il cav. Man tovani fece della Critica della ragion pura, e che sarà poi la
sua fonte principale. Pubblica gl’Elementi di filosofia contenenti la Logica
pura e la Psicologia, e promette l'Ideologia, La logica mista , la Filosofia
morale, che infatti uscirono in altri volumetti, e una Storia filosofica
ragionata, che un avvertimento dell'editore al quinto volumetto annunzia non si
sarebbe piu pubblicata avendo l’autore su l'oggetto intra presa un'opera estesa.
E questi saggi, i migliori testi di filosofia per le scuole che si siano avuti
finora in Italia, per i loro squisiti pregi didattici d'ordine e di chiarezza,
si divulgarono presto per tutta Italia, procacciando molta fama al benemerito
autore. Scrive alcune lettere sulla storia della filosofia, indirizzate a Fazzari,
che a Tropea insegna gli Elementi di lui e desidera da lui stesso di essere
orientato in mezzo al caos delle opinioni, che al presente scrive G. nella
prima lettera — agitano il mondo filosofico, e di essere sovrattutto informato
della filosofia critica. E queste lettere l'autore raccoglieva in un bel libro,
piccolo di mole ma che è il primo degno saggio di storia della filosofia in
Italia , il quale diede [Nè soppe tanto di francose da tradurre da questa
lingua sonza errori di senso. Vodi per un esempio curiosissimo la mia
prefazione al Saggio di TORALDO. Aggiunse
più tardi gl’Elementi di teologia naturale. Si fa a Firenze una edizione di
tutti questi Elementi di filosofia con aggiunte dell'autore e note di P.(OMPILIO
) T.(ANZINI) S. ( COLOPIO ), pubblico lettore; ristampata a BOLOGNA. Di questa
Storia della filosofia non è pubblicato poi che il primo volume contenento il
primo dei duo saggi d’Archeologia filosofica, che l'autore intende premettere
all'opera. Ne conosco solo l'odizione di Milano, Silvestri, nella quale precode
l'Elogio funebre scritto da PESSINA. Lellere filosofiche sulle vicende della
filosofia relatiramente ai principii delle cono scenze umane da Cartesio sino a
Kant inclusicamente, Messina, Pappalardo. Le lettere in questa edizione sono
tredici. Una 14. ne aggiunse l’A. alla 2.a edizione (Napoli), con un Discorso
di BLANCH per venire fino a Cousin e a SERBATI. E questa 2. edizione è
riprodotta in quella di Firenze, Fraticelli. occasione al Romagnosi di scrivere
una Esposizione storico-critica del kantismo e delle consecutive dottrine. E
altre cinque Lettere sull’ontologia indirizzd a un amico, dove si adopera a
mettere in chiaro, da un punto di vista kantiano, la futilità dell'ontologia
wolfiana. Ma queste lettere non sono venute in luce che recentemente. Per tutti
gli scritti già divulgati G. s'è reso noto per tutta Italia; e SERBATI, appena
stampati suoi Opuscoli filosofici, glielo invia da Milano, dichiarandoglisi
obbligato se egli, che ha arricchita la filosofia, quella scienza avvilita e
profanata nei nostri tempi, anzi distrutta, avesse voluto aggradire l'opera e
comunicargli qualche lume relativo alle materie che sono in esse contenute. E
si stabilì fra i due filosofi un carteggio assai istruttivo per chi voglia
conoscere le relazioni storiche delle rispettive loro dottrine . Varie
accademie l'aggregano a’loro soci. Fra esse la Sebezia e la Pontaniana di
Napoli. Quivi G. torna; e subito vi pubblica una traduzione dei Frammenti di
Cousin, con una prefazione e una dissertazione del traduttore, in cui si
confuta il domma del l'unità della sostanza, ove però son comprese le
osservazioni di G. intorno alle altre dottrine di Cousin non accettate. Avendo
meditato su di questo sistema filosofico, trovo in esso delle vedute sublimi,
ed insieme un errore pe Che ne scrive
prima una recensiono nella Biblioteca Italiana, di Milano. Nella stessa
Biblioteca. Vedi Opp. filos . ed . e ined . , di G. D. R. con annotazioni di GIORGI,
Milano. Su questo scritto e in generale sul Kantismo in Romagnosi vedi l'art.
del CREDARO nella Riv. di filos. Italiana. Vedi ciò che ne ho detto nella
prefazione al citato Saggio di Toraldo. Dovo queste lettere sono stato tutte
cinquo pubblicato per la prima volta. Solo le prime due sono state edito da PIETROPAOLO,
Scritti inediti di P. Gall. nella Riv, filos. scient.. Vedi GENTILE, Rosmini e
Gioberti (Pisa , Nistri). La filosofia
di Cousin , trad . dal francese, ed esaminata dal bar. P. G., a spese del N.
Gabinetto lotterario. Si incontra anche una postilla del traduttore relativa ad
alcune massime morali di Cousin,
ricoloso. Quindi, accompagnando la traduzione con la detta dis
sertazione, ei credeva di porre il lettore filosofo in istato di conoscere non
solo la filosofia di Cousin, ma di giudicarla. Il saggio frutto presto molto
favore all'eclettismo francese a Napoli, e specialmente al suo capo, che dal
canto suo fa conoscere G. in Francia, e anche fuori per mezzo dell'amico Hamilton,
che in un giornale filosofico di Edimburgo scrive un articolo sul Nostro. A
Napoli è persuaso da amici a chiedere la CATTEDRA di logica e METAFISICA
vacante. Presentato al ministro degl’interni marchese di Pietracatella, questi,
udito il suo desiderio, l'invito a cimentarsi a un esame. Ma egli con sdegnosa
semplicità calabrese risponde. E chi c'è a Napoli che possa esaminare G.? L'amico
che lo presenta rimane sconcertato. Ma il nostro filosofo ha il suo decreto di
nomina. Con che festa noi, narra Settembrini con quanta calca tutte le colte
persone si anda a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli
appollaiato su la cattedra detta con l'accento tagliente del suo dialetto! Ci
sono sempre i maldicenti, i quali diceno che egli è mezzo barbaro nel parlare,
ma in quel parlare è una forza di verità nuova, ma l'ingegno è grande, e il
cuore quanto l'ingegno. Da una novella prova delle sue attitudini didattiche
dando alle stampe un'opericciuola: Introduzione allo studio della filosofia. Ma
nel seguente anno, primo del suo insegnamento, coi primi due volumi della
Filosofia della volontà dedicati al marchese di Pietracatella, poi e --- Si
conservano nella biblioteca del Cousin , appartenente alla Ropubblica, le
lettere a lui di G. Vedi l'art. da me pubblicato su Cousin e l'Italia nella
Rassegna bibliograf. della letter. ital. Cousin fa tradurre in francese dal
Peisse suo discepolo le lettere di G.; o questi da Trinchera le lezioni di
Cousin Sulla filosofia di Kant, aggiungendovi egli delle note, come è notato a
suo luogo. Un'affettuosa commemorazione di G. fa Cousin all'Accademia di
Francia, o pubblica nel Journal des Économistes, riportato nell'Omnibus di
Napoli, dove G. scrive su Cousin. Vedi FIORENTINO, Man . di storia della
filos., Napoli; SETTEMBRINI, Ricordanze , Napoli, e il Discorso cit . di
BORRELLI, ammontati a quattro , già composti a Tropea, comincia a pubblicare le
lezioni di logica e METAFISICA, dettate a Napoli, vero modello di quel lucidus
ordo tanto raccomandato da Venosino. Ne compì la stampa; di cui fa una seconda
edizione e una terza; ristampata da Tramater. A proposta di Cousin, in
concorrenza con Hamilton che ha un solo voto, venne nominato socio corrispondente
dell'Accademia delle scienze di Francia. E, a proposta di Guizot, Filippo lo
insigne della croce della Legion d'onore Ei se ne sdebita con le sue
Considerazioni filosofiche sul l'idealismo trascendentale, ossia sul sistema di
Fichte, memoria presentata all'Istituto di Francia, accademia delle scienze
morali e politiche; e mandando più tardi , poco prima di mo rire , uno scritto
su la teodicea dei filosofi antichi, che fu inserito come il precedente negli
Atti dell'Accademia. Pubblica una Storia della filosofia. Vi si tratta della
filosofia greca, non però secondo la successione delle scuole, sibbene considerando
e criticando le diverse opinioni dell'antichità sull'origine dell'universo e
del genere umano fino ai neo-platonici. Una siffatta opera, dice in un elogio
funebre dell'autore un affettuoso discepolo saria stata monumento novello di
gloria italiana, se a nostra disavventura la vecchiezza, le malattie, le
sciagure non avessero di tale infievolito l'animo di lui, ch'ei non potè
vederla compiuta, ed a perfezione condotta. Infatti gl’ultimi anni della vita
del nostro filosofo sono amareggiati da sciagure che ne affrettarono la morte.
Già uno dei figli maschi è caduto, com'ei narra, vittima del furore d'un sconsigliato.
Ed egli ne scrive e stampa (Messina) l'elogio. Poi gli è morta la moglie. Ora, in
una insurrezione scoppiata a Cosenza perde la vita un altro suo figlio,
Vincenzo, che è capitano. Il vegliardo Vedi la lettera di Guizot in LASTRUCCI,
P. G. studio critico , Firenze, Barbèra Stampate in italiano, da' torchi del
Tramater. Negl’Atti dell'Accademia francese sono pubblicato come la successiva
memoria in francese. Elogio funebre di G. , per E. PESSINA, in Op. cit . , p.
XIII. ne fu profondamente addolorato e agli amici che tentavano con fortarlo
disse : « Avrei desiderato che morisse per una causa più nobile e giusta. Borrelli
ne disse degnamente le lodi presso al letto funebre, fra una folla, che
recarono a spalla la salma compianta alla chiesa di S. Nicola ; e gli
celebrarono funerali solenni nella chiesa di Sant'Orsola a Chiaia, in cui recita
un'orazione il gesuita Curci. Campagna piange la morte del filosofo in un
sonetto filosofico, lamentando che con lui si partisse dalla terra Una favilla
dell'eterno lume. Dall'Accademia delle scienze morali e politiche a G. venne
eretto un busto a Napoli, da lui onorata con molti altri spiriti magni. Molti saggi
ha ancora in animo di pubblicare, oltre i ricordati, e molti manoscritti di lui
ci son rimasti, ora in deposito presso la Biblioteca nazionale di Napoli, i
quali fan testimonianza della larga estensione degli studi fatti da lui in
teologia, storia dell'antica e moderna filosofia, filologia greca e latina, storia
, matematica, astronomia. Meno vita modesta e di grande raccoglimento: assorto
negli studi, visse veramente per la scienza, in cui riuscì ad imprimere orme
profonde, rinnovando la filosofia italiana. Egli infatti è il solo dei filosofi
napoletani da noi studiati, dopo GENOVESI
(si veda), che esercita una influenza molto notevole al di fuori del regno, su
tutti gli studi filosofici nazionali, Pubblicato nel Museo di scienza e lett.;
v. DE SANCTIS, La letter . ital., Napoli, Morano, e nota di CROCE] Oltre la
memoria ricordata di Tulelli , vedi l'olenco dei mss. galluppiani nel
l'opuscolo citato di Pietropaolo. Per la biografia v. anche PALMIERI, Elogio
stor . del bar. G. con alcuni poetici componimenti recitati in un'adunan za
tenuta per cura di Palmieri in Napoli. V'è oltre l'elogio un sonetto di
Campagna, un carme latino di A, Mirabelli, alcune sestine d’Anzelmi, un'ode
latina di Guanciali e un sonetto improvvisato dall’egregio poeta Regaldi che
per una congiuntura si trova presente alla nostra adunanza, - Vedi anche la
necrologia Morti e morenti di CORRENTI, Rivista europea, ristamp. in Scritti
scelti, ed. Massarani, Roma, Sonato. L'articolo di RACIOPPI, Il Bar, P. G. ,
nel Poliorama pittoresco; l'opuscolo di BISOGNI, Omaggio alla memoria del b. P.
G. nell'occasione che in Tropea il Munic. e la Prov. innalzano una statua
all'illustre filosofo, Napoli, Morano ( in 11. Nella quattordicesima delle
Lettere filosofiche G., volendo determinare le relazioni della sua filosofia,
ch'egli chiama sperimentale, col criticismo kantiano, si fa a descrivere le
varie fasi attraverso le quali era passato il suo pensiero . Ma la de scrizione
non è molto accurata ed esatta. Abbiamo visto come fino circa ai trent'anni
suoi autori sono Leibniz, Agostino e i filosofi della scuola di Cartesio; e si
può dire che egli fosse in un periodo di dommatismo metafi sico , che rimase
poi sempre nel fondo del suo pensiero ; non solo perchè molto più tardi, quando
aveva studiato anche Kant , con tro di questo egli affermava che « la filosofia
è essenzialmente dommatica, e non può essere che dommatica. Essa dee contenere
delle verità assolute; ma anche per altre ragioni: La lettura di Condillac gli
fa intendere , che c'era una que stione preliminare dą risolvere prima di ogni
metafisica : ricer care, cioè , i motivi legittimi dei nostri giudizi , quindi
risalire all'origine delle nostre conoscenze , rifare, egli dice,
l'intendimento. Condillac e Locke cangiarono insomma la direzione de' suoi
studi. Segue perciò fino circa a quando venne a conoscenza di Villers e di
Degerando, un periodo pre-kantiano di revisione della conoscenza; al quale
periodo appartiene l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi, In questo egli concede
a Locke e ai suoi seguaci, che tutte le nostre idee hanno origine da' sensi,
che pertanto tutte le nozioni universali vengono a formarsi dal paragone degli
oggetti particolari, e che le cognizioni particolari ci menano alle nozioni
universali, e non già viceversa. Ma si propone la questione se lo spirito,
tosto che ha formate le nozioni universali, possa paragonarle, scovrirne i
rapporti, e quindi applicare questa cognizione universale alle idee particolari,
racchiuse nell'idea universale , che si è paragonata colle questo opuscolo è
pubblicato uno scrittorello inedito di G. Sulla semplice apprensione). Uno
studio biografico ha pure dato in luce PIETROPAOLO, nel Pensiero contemporaneo
di Catanzaro. Non c'è riuscito di vedere la biografla pubblicata nel Giornale
dell'equilibrio, citata dal Palmieri, scritta da TULELLI sopra note
comunicatemi questi dice, accennando molto probabilmente a questa biografia
dall'autore medesimo; Atti della R. Accad. d. scienze morali e polit. Letl. filos. Sull'analisi altre . Per es . ,
delle due proposizioni generali ogni cerchio ha tutti i suoi raggi uguali e
ogni corpo è grave, nella seconda tra corpo e gravità non havvi una connessione
necessaria e il loro rapporto non può affermarsi se non mediante il soccorso
dell'espe rienza ; nella prima invece è nell'idea del cerchio la ragione di
affermare l'uguaglianza de' suoi raggi; e fra le due idee v'è un legame
necessario, che non dev'essere attestato dall'esperienza. V'ha dunque ,
conchiudeva il Galluppi, verità generali cui lo spi rito non perviene dalle
verità particolari (sensazioni), « ma per mezzo del semplice paragone delle
idee universali, ch'egli si ha formato; e v'ha poi verità generali che derivano
dalla cognizione delle singole verità particolari , che ci fornisce
l'esperienza. Le une costituiscono le conoscenze a priori e necessarie ; le
altre le conoscenze a posteriori e contingenti. Le prime sono principii ana
litici, in quanto si devono all'analisi delle idee generali già acquisite per
l'esperienza; laddove le seconde sono un prodotto della sintesi delle verità
particolari, non altrimenti che le idee universali. Sicchè già nell'opuscolo G.
arriva a quella forza analitica e forza sintetica di cui fa nel Saggio il
fondamento di ogni giudizio, distinguendolo net tamente dalla sensibilità. In
quell'opuscolo si poteva egli dire ancora puro empirista? Certo, egli fa
ancora, come Locke, derivare dalla sensazione ogni idea universale, e puramente
speri mentale faceva ancora la materia delle conoscenze a priori. Giacchè le
idee generali , fra cui può ammettersi un rapporto neces sario a priori, sono
esse stesse sperimentali a posteriori . Tutta quanta la materia della nostra
cognizione deriva dall'esperienza. Ma un a- priori si ammette nella sintesi ,
che, elaborando il dato immediato dei sensi , ci conduce alle idee universali e
alle cono scenze contingenti, e più nell'analisi che ci fornisce conoscenze
indipendenti dall'esperienza . In quell'opuscolo adunque l'empiri smo crudo cui
il lockismo per mezzo dei sensisti francesi era stato ridotto , non era
accettato. E notevole sovrattutto era in esso questa netta distinzione tra
conoscenze a priori necessarie e co noscenze a posteriori contingenti , fatta
da G. quando igno rava affatto la distinzione kantiana di giudizi analitici e
sintetici alla quale corrisponde precisamente. Ne pare ch'egli allora cono
scesse i Saggi filosofici sull’intelletto umano dell'Hume , nel quarto dei
quali ritrovasi quella distinzione tra i legami di causalità, fon damento delle
cose di fatto e relazione d'idee, scoperte per mezzo di semplici operazioni
della mente, che giustamente si è voluto preluda alla teorica di Kant.Nel suo
Saggio, la posizione di G. si determina assai più chiaramente. Egli, bene o
male, ha già studiato Kant, e combatte l'empirismo di Condillac, d’Elvezio, di Tracy;
di quel Tracy, che ancora a Firenze , al dire d'un arguto scolaro di Cousin,
rappresenta le chef et maitre, celui qui l'a dit; e dichiara che la geometria, questa
scienza pura, razionale, è la pietra immobile su cui va a rompersi la macchina
debole dell'empirismo; e che, infine, non è vero esattamente ciò che egli aveva
ammesso o , almeno, non aveva combattuto, nell'opuscolo: derivare cioè tutte le
idee universali dal paragone delle particolari. Parve a lui che la critica di
Kant fosse una vera rivolu zione. La rivoluzione kantiana, scrive nella
prefazione del Saggio, merita , più di quel che si crede , l'attenzione dei
pensatori. Asseriva bensì , che il criticismo non fosse altro che un neo
logismo, sotto il quale non si faceva passare che una questione vecchia, quella
dell'origine delle nostre idee. Ma le prime parole della sua prefazione erano
tuttavia le seguenti. L'oggetto di quest'opera è la critica della conoscenza, o
l'esame della realtà della scienza dell'uomo. Che cosa posso io sapere? Son io
capace di conoscenze reali? Quali sono i motivi legittimi di queste conoscenze?
Quali sono i limiti prescritti al mio spirito, limiti che non gli è permesso di
oltrepassare senza precipitare nell'abisso dell'errore ? Tali sono le ricerche
sublimi ed importanti che mi occuperanno. Ora queste sublimi ricerche, come
tutti sanno, sono appunto quelle del criticismo kantiano ; che se è una
rivoluzione, sarà cer tamente una novità. Vedi JAJA (si veda), Saggi filosofici
, Napoli, Morano. E a quel saggio di Hame è G. ricondotto da Kant, nella IX
delle sue Lettere filosofiche, per spiegare, esponendo la critica del concetto
di causa fatta da Hume, perchè la lettura di essa svegliasse Kant dal suo sonno
dommatico . Ma ivi, ricordando la distinzione di Hume tra cose di fatto e
relazione d'idee, non ne avverte punto la parentela con la divisione kantiana
dei giudizi. Vedi GENTILE, Rosmini e Gioberti.
Se non che, a giudizio di G., la critica di Kant, lungi dallo stabilire
la realtà della conoscenza , tende radicalmente a distruggerla; che i suoi
risultati sono essenzialmente scettici ; e quindi una buona dottrina della
conoscenza non può costruirsi se non in opposizione a quella critica . Una
critica, insomma, ci vuole ; ma non quella di Kant. E quale dunque? Noi non
esporremo ne' loro particolari le teorie di G. e le critiche delle altrui
dottrine ond'egli stabilisce le pri me. E poichè col Saggio filosofico la sua
dottrina è già fissata , senza seguire l'ordine cronologico delle opere ,
possiamo dall'una e dall'altra di esse raccogliere i tratti caratteristici
della sua fi losofia e farne un corpo compiuto. G., come gli antichi psicologi
metafisici ammette un sistema di facoltà dello spirito; e a capo di tutte pone
la co scienza o sensibilità interna. Questa è la facoltà per la quale lo
spirito percepisce, sente se stesso, il me, la cui esistenza è una di quelle
verità primitive, che ci sono attestate dall'esperienza, ma non si possono
dimostrare ; come già pensano Cartesio e Leibniz. Nè vale l'obbiezione che noi
non percepiamo se non le nostre modificazioni, e che l'idea del me si
dedurrebbe percið da quella delle modificazioni, pel principio che non v'ha
atto senza soggetto. Non v'ha sentimento delle proprie modificazioni donde si
possa separare quello del proprio essere; perchè non si può percepire
l'astratto, ma il concreto, non il dolore, ma il me dolente. Il me adunque è un
dato dell'esperienza, che bisogna ac cettare come una verità primitiva di fatto
; e l'atto con cui lo si apprende , è la percezione immediata. Qui G.,
ritornando alla posizione cartesiana, ne sente tutta l'importanza. Egli osserva
nel Saggio filosofico, che il defi nire , come si fa comunemente, l'idea per la
rappresentazione dell'oggetto nella mente, separando cosi l'oggetto dalla mente
, e il far consistere quindi la norma della verità nella conformità della
nostra rappresentazione con l'oggetto esteriore, apre irrepa rabilmente la
porta allo scetticismo. « Se gli oggetti, se la re gione dell'esistenza son
separati dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero
all'esistenza , all'oggetto ? Questo ponte si fa consistere nelle immagini
degli oggetti. Lo spirito, dicesi , possiede le immagini degli oggetti ; ma in
questo caso lo spirito non potrà giammai conoscere la conformità di queste
immagini cogli originali, e la verità andrà sempre lungi da lui. Me [Saggio] morabili parole , per cui G. non solo non è un
prekan tiano , come credono i più , ma va innanzi al Kant dei neokan tiani ;
del quale egli in questo luogo discopre espressamente il vizio principale ,
notando che il fenomenismo critico è una con seguenza della falsa posizione
volgare dell'oggetto rispetto al sog getto, presunta dalla definizione
dell'idea testé riferita. L'idea del me, a proposito della quale l'autore fa
queste osservazioni, non ci deve esser data da una percezione che sup ponga il
termine percepito opposto al soggetto percipiente. L'Io ed i suoi modi non sono
separati dall'atto della coscienza , ma gli sono presenti. La coscienza li
prende dunque immediatamente, e fra questa percezione e gli oggetti percepiti
non v'ha alcun intervallo . Questa coscienza , questa percezione è dunque
l'appren sione e l'intuizione della cosa percepita. E le intuizioni, secondo G.,
son vere , non perchè son di accordo cogli oggetti , ma perchè elleno agiscono
immediatamente sugli oggetti, e li prendono. Nè bisogna cercare di definire la
percezione, perchè non se n'ha se non una nozione semplice, e ognuno pud solo
rimettersene alla propria coscienza per istruirsene . Il semplice, adunque , il
principio da cui parte G., è questa immediata coscienza di sè , che egli dice
percezione o in tuizione ; la cui verità è fondata nella identità dell'essere e
del pensiero, come in Cartesio . « Tutta la scienza dell'uomo riposa su la base
unica della coscienza di se stesso (Saggio)
. Sicchè la filosofia del G. è un vero soggettivismo , come si può vedere anche
dal suo concetto della filosofia. Che cosa è mai la filosofia? Ella è ,
rispondono alcuni filosofi, la scienza di ciò che è . In conseguenza ella è la
scienza dell'uomo , del mondo, di Dio. Una tal definizione suppone, che l'uomo
possa giugnere a conoscere se stesso, il mondo e Dio. Ma, dicono altri
filosofi, bisogna prima esaminare se l'uomo può saper qualche cosa ; e su qual
fondamento può egli saperla . La conoscenza dei nostri mezzi di conoscere è
certamente una conoscenza prelimi nare alla scienza delle cose. Da ciò segue
che la filosofia pud riguardarsi sotto due aspetti , o come la scienza delle
cose, o come la scienza della scienza umana. Considerata sotto il primo aspetto
, ella può chiamarsi scienza oggettiva; considerata poi sotto il se condo, può
chiamarsi scienza soggettiva. Ma se la filosofia è la scienza prima, la quale
dee contenere la legislazione di tutte le Li investono, dice più innanzi. altre
scienze , voi vedete bene esser necessario di considerarla nel secondo aspetto.
A cið tende la celebre massima dell'antichità conosci te stesso . Io dunque la
riguarderò come scienza sogget tiva. E scienza della scienza la definisce già
negli Elementi di ideologia. Negli Elementi di filosofia morale la dice : la
scienza del pensiere umano, distinguendola in teoretica e in pratica , secondo
che studia l'intelletto o la volontà. Egli ha insomma un concetto moderno della
filosofia, giustificato dal suo principio : che è la coscienza di sè. Ma come,
partendo da tale principio, egli costruisce la realtà conoscitiva? E qual
carattere dà al suo soggettivismo la sua costruzione? Prima di tutto , avverte
giustamente G., bisogna di stinguere l'ordine cronologico delle nostre
conoscenze dall'ordine scientifico, Noi abbiamo con la prima sensazione e come
fonda mento di essa la coscienza del nostro Io ; ma essa non è certo una
coscienza di riflessione. Vale a dire, c'è di fatto questa co scienza che è il
Primo scientifico ; ma non si rivela se non alla riflessione filosofica
posteriore, molto posteriore, cronologicamente. Perchè questa coscienza
primitiva si rivelasse effettivamente, lo spirito dovrebbe cominciare da un
giudizio ( lo esisto ), ed essere già in possesso dell'idea astratta di
esistenza , laddove ei comincia invece da una percezione o sensazione che
voglia dirsi . Comincia da una percezione complessa : dalla percezione del me
che riceve delle modificazioni, dalla percezione del me che percepisce il fuor
di me. Ora lo spirito presta successivamente la sua attenzione ai diversi
elementi che compongono l'oggetto di questa prima percezione, decompone ,
divide questo oggetto ; poi lo ricompone di nuovo e forma il giudizio, che è
perciò il pro Lett. filos., lett. Questo stesso concetto è svolto nella
Prolusione del 1831: Introduzione alle lezioni di logica e di metafisica del
bar . P. G. , Napoli, Gabinetto bibliografico e tipografico (ristampata in
fronte alle LEZIONI di logica e di METAFISICA) e nelle primo tre di questo
lezioni. Vedi puro il suo articolo Filosofia nella 1." dispensa dello Ore
solitarie, rivista diretta allora da Riola , Mancini e Curion, più tardi da solo Mancini. Nella
Continuazione delle Ore solitarie ovvero Giorn. di scienze morali, legislat. ed
econom., è un altro scritterello del G.: Sul panteismo di Lamennais. Saggio
filos.,. dotto dell'analisi e della sintesi della percezione complessa. Sic chè
bisogna ammettere nello spirito , oltre la facoltà della sensibi lità ( interna
o coscienza, ed esterna) , quelle dell'analisi e della sintesi. 22. Il fuor di
me ci viene offerto adunque dal me, da quella coscienza che cogliendo il me lo
coglie modificato dal fuor di me. Questa coscienza, che il Galluppi dice pure
sensazione, corri sponde , come bene osserva Spaventa, alla coscienza sensibile
dell'Hegel ; è l'unità ancora confusa ed indistinta di soggetto ed oggetto.
Allorchè, dice il Galluppi, la modificazione esterna « è percepita col me, che
modifica , io non ho ancora che una per cezione ; ma quando ella è riguardata
come distinta dal me, e poi riunita a lui dall'atto dello spirito , io allora
giudico Saggio, lib . I , § 18). Ora, se conoscere è questo distinguere e unire,
è chiaro che conoscere [GRICE COTCH] per G. non è sentire ( percepire [GRICE
POTCH]) , ma giudicare. Quindi egli combatte i sensisti, insistendo sulla dif
ferenza sostanziale che corre tra sentire e giudicare, notando come giudicare
importi necessariamente un rapporto, e come non sia possibile indicare
l'impressione esterna, l'organo sensorio che ci manifesta la conoscenza del
rapporto. La forza analitica e la forza sintetica dello spirito sono distinte
dalla sensibilità; come già aveva sostenuto nell'opuscolo. La coscienza
sensibile è adunque l'unità fondamentale del conoscere ; l'unità che è
condizione dell'analisi e della sintesi , ne cessaria a tutti i nostri giudizi.
Ma come si giustifica questa unita ? Il fuor di me è sentito , dice G., come un
molteplice del quale ciascuna parte è distinta dall'altra e le modificazioni di
una parte non sono, nel mio sentimento, le modificazioni delle altre . Il
tronco di un albero è distinto dai rami : ciascun ramo è distinto da un altro :
il moto di un ramo può stare senza il moto di un altro e di tutto l'albero.
Questa molteplicità si raduna nel me, il quale alla coscienza si rivela sempre
lo stesso, sia che [Saggio filos., ed Elem . di Psicologia. Lo stesso è detto
negli Elem , di Psicol.. Saggio G. riferisce un notevolissimo passo dell'Emilio
di Rousseau sul valore del giudizio ; passo che conferma la parentela che col
fllosofo ginevrino ha quello di Koenigsberg. Elem . d'Ideologia] ragioni, che
giudichi, o che percepisca ; talchè « il soggetto di un giudizio può avere una
composizione fisica ed una unità logica che gli vien conferita dal pensiero ,
che appunto sintetizza nella sua unità il molteplice fisico . Questa unità del
pensiero s'addi manda unità sintetica , la quale se si ravvicina a quella forza
analitica e forza sintetica che s'è accennata , s'intenderà come un'attività
distintiva e unitiva insieme . E un'attività sintetica originaria dell'essere
conoscitore appunto è ammessa dal G. Ora la coscienza di sè coglie adunque l'Io
che sintesizza , uno e semplice, indivisibile. E l'unità sintetica del me,
suppone percið l'unità metafisica del me stesso che è la semplicità o spi
ritualità del principio pensante. Senza di essa non sarebbe possi bile la
scienza, poichè la scienza suppone la riunione di tutti i pensieri da' quali si
compone; ed essendo un pensiere distinto dall'altro , come si farebbe l'unione
di questi pensieri senza un centro di unione? Ove si incontrerebbero i diversi
raggi del sapere ? L'agente che costruisce, è necessario che abbia tutti i
materiali della costruzione. L’io di Newton, ripete qui G., che ritrova il
calcolo sublime è lo stesso io che ha apappreso la numerazione aritmetica.
Senza l'unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità sintetica del
pensiere, e senza l'unità sin tetica del pensiere non sarebbe possibile alcuna
scienza per l'uomo. Questa unità sintetica della coscienza originaria ha una
intrin seca parentela , come ognun vede, coll'appercezione originaria di Kant.
Col quale G. s'accorda nel ritenere che l'essenza particolare specifica dello
spirito umano ci è ignota affatto. Ma data questa coscienza originaria, che
forza analitica e sintetica insieme , tutte le nostre conoscenze derivano ,
secondo G., dai sensi ? Nel libro I del suo Saggio filosofico egli , rife
rendosi allo scritto del 1807, scrive : Io suppongo in tale opu scolo che tutte
le idee universali derivano dal paragone delle particolari ; ma cið non è vero
esattamente, poichè vi sono alcune idee soggettive. La tesi degli empiristi che
non ammettono nella nostra conoscenza se non elementi oggettivi, è
insostenibile. Elem . d'Ideol. Lettera a SERBATI, Tropea nella Sapienza,
rivista di filos. e lettere. Cfr. GENTILE, Rosmini e Gioberti. Elem . d'Ideol.;
cfr . Saggio Saggio] ma In quell'autobiografia intellettuale che è nella
quattordicesima delle sue Lettere filosofiche G. dice, che il problema della
sua filosofia dell'esperienza fu questo : « Ma lo spirito umano è un agente ; e
colla sua azione non potrebbe forse sviluppare dal suo interno qualche elemento
che egli non riceve , ma che produce ? E questo elemento soggettivo non
potrebbe forse esser tale , che lasciasse intero l'elemento oggettivo , che
cooperando collo stesso non recasse alcun nocumento alla realtà della
conoscenza , l'estendesse e la fecondasse? Infatti, questa rimaneva la più
grave difficoltà del G. contro l'a priori: che l'a priori con la sua
soggettività scalzasse la realtà della conoscenza, come rimproverava a Kant per
le forme dell'intuizione e dell'intelletto e come rimproverava al Rosmini per
la idea dell'Ente indeterminato. Perchè egli non ebbe il giusto concetto delle
categorie kantiane , ritenendole quasi preformazioni dell'intelletto . Del
resto , nella critica che fa delle idee innate , pure avendo combattuto nel
primo libro del Saggio l’in natismo di Leibniz , si può ben dire che ne accetti
il principio ne gli Elementi di ideologia. Egli distingue idee accidentali
all'intelletto e idee essenziali. Le une non tutti gli uomini possono
formarsele, perchè non a tutti è dato di avere le sensazioni che sono il
materiale donde l'analisi può ricavare coteste idee . Le altre non mancano a nessun
uomo, perchè derivanti da sensazioni co muni a tutti . Sicchè anche le idee
essenziali dell'intelletto pre suppongono l'esperienza ; e se per idee innate
si vuole intendere idee , che non sono il prodotto della meditazione (analisi)
su i sentimenti (sensazioni) , tali idee non hanno esistenza » . Ma, « se per
idee innate s'intendono quelle idee , di cui ogni uomo porta costantemente in se
stesso i germi per isvilupparle , e che ogni uomo capace di meditare pud in
qualunque luogo ed in qua lunque tempo acquistare , idee che ho chiamato idee
universali all ' intelletto, l'esistenza di siffatte idee mi sembra
incontrastabile ... Noi conveniamo con Locke, che tutte le nostre idee hanno la
loro origine ne' sentimenti: conveniamo ancora, che tutte le idee sono
acquistate ; ma crediamo di dover fare distinzione fra idee generali , e di
ammettere alcune idee per l'acquisto delle quali ogni uomo porta costantemente
in se stesso i materiali necessari; da questi germi, che sono nello spirito si
sviluppano le idee essen [Vedi il mio Rosmini e Gioberti, p. 79 e sgg. ziali al
pensiero umano, e che si ritrovano in tutte le lingue. Donde è chiaro che G. tiene
per innate nel senso leibni ziano , di attitudini, disposizioni, germi, coteste
idee essenziali all'intelletto , quali sarebbero le idee di corpo , spazio,
causa, unità , numero, ecc .; comecchè tutta la sua Ideologia sia una deduzione
di queste e altre simili idee dalle sensazioni. Ma, quali sono queste
sensazioni o sentimenti portati costan temente da ogni uomo in se stesso ? Se
ogni uomo li possiede co stantemente, essi sono necessari , essenziali
costitutivi dello spirito. Lo spirito è questi stessi sentimenti. E come
potrebbe es sere altrimenti, se tali sentimenti devono servire alla formazione
di idee essenziali all'intelletto (facoltà conoscitiva in generale)? G. dice,
che essi sono i sentimenti « che in qualunque luogo, ed in qualunque tempo
modificano lo spirito di ogni indi viduo del genere umano. Dunque, essi sono
immanenti real mente allo spirito , nè questo si può concepire senza di essi.
Ora tal carattere nella filosofia del Galluppi compete solo ai senti menti del
me e del non me inscindibilmente legati fra loro , costi tuenti il gran fatto ,
il Primo, dal quale deve cominciare la filosofia. Questo fatto è universale per
tutti gli uomini, per tutti i luoghi, e per tutti i tempi. Il complesso de '
sentimenti racchiusi in questo fatto dee dunque riguardarsi come essenziale
all'umano intendi mento. Il quale, fornito della forza di analisi e di sintesi
, può con la sua azione feconda sviluppare da questi sentimenti e così produrre
tutte le idee che gli sono essenziali. Ma la stessa produzione è essenziale ,
se i prodotti sono essenziali ; tal chè lo spirito , partendo dall'indistinta e
oscura coscienza del me e del fuor di me, non raggiunge il grado
dell'intelletto , se non per questa spontanea produzione che fa , mediante
l'attività ond'è for nito , delle idee di sostanza, causa , corpo, spazio ,
tempo , unità , numero , ecc. , di cui ha in sé i germi indefettibili. Intorno
al valore di questo virtuale a priori di G. si può esser tratti in inganno da
certe sue espressioni, dalla sua polemica contro l'innatismo, dal bisogno da
lui così spesso e for temente affermato dell'esperienza, che è esperienza
sensibile, come unica sorgente delle conoscenze reali . Ma bisogna attender
bene al valore della sensibilità nella teoria di G.. La sua sen sibilità è
coscienza , è sentir di sentire , è l'unità ancora indistinta di soggetto ed
oggetto, che egli concepisce come Primo attivo e [Saggio] produttivo ; di cui
vedremo quanto si gioverà a fondare l'ogget tività del conoscere . Ora ,
dato questo Primo come coscienza sen sibile , egli non può ammettere più un
intelletto opposto al senso e ricco a priori di determinazioni dal senso
indipendenti. Perchè l'intelletto è uno sviluppo del senso e le sue
determinazioni es senziali non possono non essere contenute virtualmente nel
senso insieme con l'attività che possa dallo stato virtuale portarle al
l'attuale , fecondandone i germi. E questo è , come tutti sanno ora o
dovrebbero sapere, il vero concetto dell'a -priori kantiano , preparato dalle
virtualità innate di Leibniz ; e in que sto concetto il Galluppi evidentemente
sorpassa e si lascia addietro il kantismo volgare, com'egli l'intese e come
tuttavia si vuol sostenere dai neocrịtici , che concepiscono senso e intelletto
in assoluta opposizione , in un dualismo inconciliabile . Questo punto della
filosofia di G. non è stato studiato e apprezzato ancora abbastanza. La idea
essenziale di G. corrisponde preci samente all ' acquisitio originaria , con
cui Kant define il suo a priori nella famosa lettera a Eberhard, come l'idea
accidentale all'acquisitio derivativa. Sono idee acquisite le idee essenziali
come tutte le altre idee ; ma esse sono le acquisizioni originarie che la
coscienza fa per la sua propria attività salendo al grado del l'intelletto .
29. Fermata questa teoria , G. ha
ragione di scrivere : « Io non ho ammesso idee anteriori a ' sentimenti, in
modo che non gli suppongano neppure come condizione ; ma ho ammesso alcune idee
essenziali all'intendimento, ed ho stabilito questa dottrina sopra solidi
fondamenti... lo nego le idee innate nel senso di idee anteriori ed
indipendenti assolutamente da' senti menti ; io le ammetto nel senso di idee
naturali, o d'idee per l'acquisto delle quali si possiede una disposizione o
virtualità naturale. E poichè così viene a dire il medesimo del Kant bene
inteso, a me pare che abbia pur ragione di soggiungere : « Io dunque credo di
aver trovato il mezzo di conciliazione fra i due sistemi contrari su la
formazione delle nostre idee » ; come è merito reale di Kant, che naturalmente G.
non poteva riconoscere , di avere operato siffatta conciliazione del puro em
pirismo e del puro intellettualismo. Il meglio che se ne sia detto sono le tre
pagine di SPAVENTA, nella sua mo moria Kant e l'empirismo, rist . in Scrilti
filosofici, Napoli, Morano Saggio. Per fare intendere meglio la propria
dottrina G. la raffronta a quella di Leibniz. Conviene con l'autore dei Nuovi
saggi sull’intelletto che lo spirito non è tabula rasa; che vi sono molte idee,
che lo spirito ricava dal fondo del proprio essere , meditando sul sentimento
di se stesso » ; non solo gli accorda che sono in noi queste disposizioni e
virtualità naturali, ma am mette certe modificazioni passive o sia i
sentimenti, che contengono i materiali o le condizioni di tutte le idee
naturali. E, dichia rando meglio la dottrina del Leibniz , ripete che riconosce
con lui esservi « molte idee essenziali all'intendimento , che l'anima non ha
bisogno di ricavare dalle impressioni de ' sensi esterni, ma che può ricavare
dal proprio fondo. Le idee sono innate come attitudini o virtualità naturali. E
questo ritiene anche G. « Ma io non mi contento di rimanermi in idee vaghe : io
determino le mie espressioni. L'anima nostra ha un'attitudine , una
preformazione naturale per alcune idee ; poichè : 1. ° ella ha originariamente
ed incessantemente i sentimenti necessari a for marsi tali idee; 2. ° questi
sentimenti sono i materiali delle idee , o le condizioni indispensabili per le
idee ; 3.0 l'anima ha origi nariamente nella sua natura le facoltà necessarie
per formarsi tali idee; 4. ° l’anima ha in sé originariamente la disposizione,
che pone in esercizio le facoltà elementari della meditazione. Data questa
dottrina, ch'egli ben dice non potrebbe esser contrastata dalla stessa scuola
di Locke , s'intende agevolmente perchè G. continui sempre , in tutte le opere
sue , a com battere l'a - priori kantiano , inteso come parte di conoscenza già
formata avanti all'esperienza ; esperienza , che era per lui , come vedremo, la
sorgente dell'oggettività, della realtà del sapere umano. La filosofia è
essenzialmente dommatica, egli ha detto ; e kan tismo per lui significava
scetticismo, in grazia appunto di quel l'a -priori soggettivo, anteriore ad
ogni esperienza, onde reste rebbe inquinata, secondo la teoria di Kant, tutta
la conoscenza. Pure riuscì anch'egli a certe idee soggettive, che ammise come
costitutive della conoscenza , e innocue , benchè soggettive, allá realtà di
essa . Quali sono cotali idee? Per rispondere a questa domanda bisogna dare un
cenno delle sue teorie dell'analisi e della sintesi. Queste due facoltà non
sono soltanto , come s'è visto , il fondamento di ogni giudizio , ma [Meditazione
dice G. l'analisi e la sintesi insieme.] il fondamento anche di ogni idea
universale. Giacchè ogni idea universale nasce dalla sintesi degli elementi
comuni che l'analisi discopre in più percezioni simili. L'analisi e la sintesi
sono quindi le forze produttive di tutto il conoscere. L'analisi precede ;
segue la sintesi . L'una si presenta sotto quattro forme : come atten zione
propriamente detta , quando lo spirito si ferma a considerare un solo degli
oggetti fornitigli dal senso , escludendo tutti gli al tri ; come attenzione
parziale, quando lo spirito contempla soltanto una parte dell'intero oggetto ,
che gli si rappresenta ; come astra zione modale , quando lo spirito separa il
modo dal soggetto cui inerisce ; e come astrazione del soggetto, nel caso
inverso, [La sintesi è di tre specie : sintesi reale, quando lo spirito unisce
ciò che gli vien dato congiunto dalla esperienza, cioè la relazione tra il
soggetto e le sue modificazioni, o quella tra causa ed effetto ( epperò v'ha
propriamente due specie di sintesi reale) ; sintesi ideale oggettiva, quando
scopre relazioni logiche tra oggetti reali ; sintesi ideale soggettiva , quando
scopre , come avviene nelle matematiche pure, relazioni logiche tra idee nostre
, non imme diatamente forniteci dall'esperienza; cioè le relazioni tra le idee
generali. La siņtesi non può riunire se non per rapporti , le cui no zioni
devono essere possedute dallo spirito , a mo' di categorie . E alle quattro
maniere di sintesi corrispondono quattro nozioni di rapporti , le quali, per
ciò che s'è osservato, dovrebbero essere di lor natura tutte soggettive : e
sono le nozioni di sostanza , causa , identità e differenza ; idee essenziali
all'intelletto umano, « sem plici vedute dello spirito , le quali derivano
dalla sua facoltà di sintesi. Rapporto, come aveva notato il Laromiguière nelle
sue Le zioni di filosofia, è l'atto della comparazione o l'idea che risulta da
questo atto . « Ora se la comparazione , dice G., è una sintesi , e se il
risultamento di questa sintesi è un'idea che non [Elementi di psicologia;
Saggio Saggio G distingue ancora la sintesi immagi nativa come la facoltà di
riuscire in una percezione complessa , alla quale non corrisponda alcun oggetto
naturalo, diverse percezioni di cui ciascuna ha un oggette naturale fuori
dell'attuale combinazione ( Saggio, e Psicologia) . Ma s'intende cho questa
sintesi non ha valore teorico o conoscitivo, ma solo pratico od estetico . Saggio.
Alcune dello idee semplici, dice ivi più sotto , sorgono dall'attività
sintetica e queste sono i rapporti risulta da un'impressione, e che non ha
percið un oggetto reale al di fuori, segue che vi sono idee semplici, le quali
sono sola mente soggettive ed un prodotto della sintesi. Suppongono le
sensazioni, ma sono prodotti semplici dell'attività sintetica dell'in
telligenza. Infatti seguono, come ogni idea di rapporto , al para gone, che è
un'azione dello spirito . Pel paragone non basta che si abbiano nello spirito
insieme due percezioni : è necessaria l'a zione che riferisce l'una all'altra.
Parrebbe adunque, che le idee dei rapporti, queste vedute dello spirito , o
modi della sua attività sintetica, non differissero punto dalle categorie
kantiane. Ma l'autore afferma recisamente il contrario . Non vuole aver nulla
di comune con Kant; vuol fondare una vera filosofia dell'esperienza, e afferma
come una delle esigenze ineluttabili della filosofia , che la connessione fra
le esistenze , per cui è possibile la scienza , non deve essere una creazione
dello spirito, bensì un dato dell'esperienza; cioè del senso , che per lui ,
come vedremo, è norma dell'og gettività del conoscere . Insomma, nota un suo
critico , gli elementi soggettivi ammessi da G. son sempre determinati da
qualche cosa di reale che si trova negli oggetti ; e Kant percið è scettico, G.
no. Ed in verità esso, G., scrive che la stessa connes sione deve essere un
dato dell'esperienza , quando si tratta di og getti esistenti che dan luogo
alla sintesi reale : e che questa sin tesi « riunisce gli elementi reali di un
oggetto reale ; e li riunisce perchè li trova realmente riuniti. Così, dicendo
: Io son sensitivo, riunisco al me le sensazioni : ora tanto l'io che le
sensazioni son cose reali , e realmente le sensazioni son cose reali, c
realmente le sensazioni sono unite al me. Quest'unione non è dunque l'opera del
mio spirito : io non posso fare altro che conoscerla distinta mente . Questa
sintesi copia dunque, dirò così , la realtà delle cose, ed è per cid che io la
chiamo sintesi reale. Or dunque, queste idee di rapporti sono o non sono un pro
dotto dell'attività sintetica del soggetto? Qui , s'è detto , havvi una
flagrante contraddizione. Sentire un rapporto, secondo G. è un espressione
assurda ; e la connessione delle esistenze , che è un rapporto necessario , non
si potrebbe sentire ; eppure si deve . « Se fosse creata da noi cotestà
connessione , scrive Fioren (Saggio Saggio Saggio LASTRUCCI Saggio; cfr .
Psicologia] tino, la realtà della scienza sfumerebbe; e G., impaurito delle
conseguenze, contraddice ai suoi principii . Il nesso tra il me, sostanza , e
le sue sensazioni , tra la sensazione e la causa esterna, cotesto doppio
rapporto è sentito . Ei non osa dire sen tito , e dice : è dato. La questione è
importante e merita ogni più seria considerazione. Prima di tutto bisogna
distinguere , come fa G., le due nozioni di causa e di sostanza , da quelle di
identità e diver sità. Le une sono un prodotto della sintesi reale , le altre
della ideale ; le une sono dei veri rapporti reali , le altre semplici rap
porti logici . Ora questi rapporti logici sono veramente creati dallo spirito ,
nascono per l'attività di questo , sono idee dello spirito e nulla fuori di
queste idee. Di esse l’autore dice che « lo spi rito non riceve dal di fuori
questi elementi semplici ed essenziali delle sue conoscenze , ma li ricava dal
proprio essere, cioè li produce . Esse corrispondono appuntino alle categorie
kantiane . Nè vale opporre , come altri ha fatto, che anche questi rapporti
presuppongono l'esperienza, e ricevono da questa i termini , fra cui
intercedono . I termini fuori del rapporto , ho detto altrove, cioè prima del
rapporto , sono termini del rapporto ? E si badi che dell'esperienza G. ha un
concetto tutto kantiano, perchè essa consiste , secondo lui , nel giudizio, il
quale vede un rap porto fra i nostri sentimenti. Il solo errore del criticismo
, che ha de ' semi preziosi di verità, consiste nell’aver troppo generalizzato
riguardando « tutti i modi di connessione fra le nostre percezioni come
soggettivi, negando la sintesi reale, confondendo l'esperienza primitiva, cui
la sintesi reale dà luogo, con l'esperienza secondaria , scientifica e
comparata , che è produzione soggettiva della sintesi ideale . Dunque, a
confessione di G stesso, egli è schietta mente kantiano nella teoria della
sintesi ideale , come attività sin tetica generatrice delle due idee di
rapporto , identità e diversità , all'occasione delle sensazioni , che ne sono
condizione indispen sabile. (La filos. contemp. in Italia, Napoli , Morano Psicologia
Saggio LASTRUCCI G. (Saggio) non parla di esperienza, ma di sensazioni,
supposte cronologicamente como a condizione indispensabile » delle idee
d'identità e diversità. Saggio. Vedi anche Lettere filosof. Soggettive pur sono le idee di causa e di
sostanza . Ma G. distingue fra soggettivo e soggettivo . V'ha, egli dice , il
soggettivo rispetto all'origine, e v’ha il soggettivo rispetto al valore ; e
altrettanto dicasi dell'oggettivo. Altra è la questione dell'origine delle
conoscenze , altra è la questione della realtà loro. « Io dichiaro , scrive
l'autore , che per oggettivo in tendo ciò che nelle nostre cognizioni deriva
dagli oggetti che si conoscono, e per soggettivo ciò che nelle stesse deriva
dal soggetto conoscitore. Questi due vocaboli si prendono ancora in un altro
senso, quando si parla della realtà delle nostre conoscenze: l'oggettivo dinota
allora quell'elemento della nostra conoscenza , a cui corisponde una realtà in
sè , ed il soggettivo dinota ciò a cui non corrisponde nessuna realtà. Dunque
le idee di causa di sostanza sono soggettive per l'origine, ed oggettive
rispetto alla realtà, epperò si dicono relazioni reali , laddove, quelle di
identità e di diversità sono soggettive , e per l'origine e pel valore , e son
dette perciò semplici relazioni logiche . E però resta fermo, che anche le idee
di sostanza e di causa siano un prodotto dell'attività sin . tetica
dell'intelligenza, perchè da essa derivano ; il senso è inca pace di darcele.
Se non che esse, invece di avere un semplice valore logico , hanno una
corrispondenza nella realtà , pel nesso, che è tra la sostanza e i modi, tra la
causa e l'effetto. Ma G. dice che il rapporto della sintesi reale ( sia di
causa , sia di sostanza ) è dato dall'esperienza . Si , ma devesi inten dere,
dato rispetto alla realtà oggettiva di cotesto rapporto. Dato in quel luogo di
G., che pur bisogna metter di accordo con tutta la sua dottrina, vale solo
oggettivo (rispetto al valore). La difficoltà vera è la seguente : come ciò che
è soggettivo rispetto all'origine , può essere oggettivo rispetto al valore ?
Que sto è lo scoglio della filosofia della esperienza propugnata da G.; ma è
pur uopo notare i grandi sforzi fatti da lui per evi tarlo. S'egli si fosse
sempre ricordato dell'osservazione, dianzi ac cennata , relativa alla comune
definizione delle idee : che cioè non bisogna separare ed opporre oggetto a
soggetto, ove non si vo glia incorrere nello scetticismo , non avrebbe
avvertita nessuna dif ficoltà in questa questione della sintesi , circa la
soggettività della sua origine e l'oggettività del valore. Egli non avrebbe
concepito un'oggettività distinta dalla soggettività. Saggio. 43. Di
quell'osservazione fondamentale si ricorda certamente nella sua teoria
dell'oggettività di tutte le sensazioni, quando af ferma che la sensazione è la
intuizione dell'oggetto , e sog giunge: Per non far nascere equivoco in una
materia molto importante, io chiamo intuizione la percezione immediata dell'og
getto , in modo che l'esistenza della percezione supponga neces sariamente
quella dell'oggetto. Se ogni sensazione è di sua na tura la percezione di un
oggetto esterno al principio sensitivo, se quest'oggetto non è rappresentato
dalla sensazione, esso è dunque reale, come è reale la sensazione. La realtà
dunque del l'oggetto sentito mi è data dall'atto della coscienza; il quale mi .
dà la realtà della sensazione : ecco dunque la realtà esterna fra le verità
primitive di fatto ; ecco risoluto uno dei problemi fon damentali nella critica
della conoscenza (Saggio) . In tutta la teoria dell'oggettività del conoscere
si può dire adun que, che G. confermi ciò che aveva detto fin dal primo
capitolo del suo Saggio circa la coscienza, o conoscenza prima , conoscenza del
me e dei suoi modi ; coscienza fatta consistere appunto in un'intuizione
immediata, tale che « fra questa perce zione e gli oggetti percepiti non v'ha
alcun intervallo. Pare che per tutta la sfera della conoscenza immediata ei sia
disposto a chiedere, come aveva chiesto infatti a proposito della comune
definizione delle idee in generale. Se gli oggetti, se la regione
dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal
pensiero all'esistenza , all'oggetto? Argomento insolubile, com'egli dice , ai
filosofi dommatici. Senso ed oggetto ,
sia che si tratti di senso intimo o di senso esterno , non si possono
scompagnare. Il senso è la misura adeguata e sicura della realtà, comecchè il
dato del senso debba poi venire elaborato dalla forza analitica e sintetica
dello spirito onde si perviene alle idee e a'giudizi. Il senso costituisce ,
per le idee e i giudizi cui dà luogo, l'esperienza primitiva o imme [G. non
ammette l'incosciente. La scuola di Leibniz ammotte delle percezioni di cui non
si ha coscienza : alcuni Allosofi adottano questa opinione ; ma molti altri,
co' quali io son d'accordo, non ammettono alcuna percezione, di cui non si
abbia coscienza. Non si può percepiro alcun oggetto come un fuor di me, senza
perco pire il me, poichè la percezione di un di fuori è ossenzialmente la
porcezione di più oggetti ; se non vi ha due oggetti , non vi è un di fuori. Se
la percezione di un ſuor di me non è possibile senza quella del me, segue che
non possono esservi nello spirito delle percezioni senza osser sentite. Elem .
di psicologia] diata; immediata rispetto all'oggetto , in cui s'appunta imme
diatamente nella intuizione. Dall'esperienza primitiva va distinta poi la
comparata, o derivata o secondaria , la quale consta dei giu dizi d'identità o
diversità che noi portiamo sulle idee offerteci dalla primitiva esperienza :
giudizi d'un valore puramente logico e soggettivo . I giudizi della esperienza
immediata hanno per og getto gl'individui. Questa acqua ha la qualità di
estinguer la sete . Questo calorico liquefà la neve vicina . Sono giudizi
particolari, che non si possono generalizzare, nè possono costituire
l'esperienza secondaria , fondamento delle scienze , se con le impressioni sensibili
, coi dati oggettivi non si combinano quegli elementi soggettivi , che sono le
due vedute dell'identità e diversità . Per dire la propo sizione generale :
l'acqua estingue le sete , - io devo, in seguito alle successive esperienze
delle varie acque che m'hanno estinto la sete , comprendere sotto una nozione
generale tutte queste acque , e le azioni loro di estinguer la sete ; il che
significa che lo spirito dee vedere un rapporto d'identità fra questi soggetti
particolari e fra le loro particolari qualità; rapporto d'identità che il senso
non mi può fornire ; perchè esso non mi dà che successivamente le singole
acque. Della scienza si potrà dire giustamente che è una costru zione
soggettiva per mezzo dei materiali offerti dalla esperienza primitiva. G., in
verità , non può attribuire altro valore che questo , che è il kantiano, alla
scienza. Se la conoscenza vera della natura ci vien fornita dalla scienza ,
anch'egli deve dire cnl Kant, che lo spirito , legando gli sparsi caratteri
datigli dal senso , costruisce il gran libro dalla natura . Eppure.egli ritiuta
(Saggio) una tal soluzione. « La distinzione delle due esperienze, egli dice ,
è della più alta importanza, per determi nare il valore delle nostre conoscenze.
È della più alta importanza, perchè se i rapporti di sintesi ideale
nell'esperienza derivata sono soggettivi , quelli di sintesi reale nell'altra
espe rienza sono essenzialmente oggettivi; in questa esperienza (pri mitiva )
l'esistenze son date allo spirito : egli ne è spettatore , e non il conoscitore
: una connessione fra l'esistenze gli è anche data : egli dee conoscerla , non
ispiegarla o comprenderla. Ma questa distinzione non tocca punto la
soggettività della scienza , in quanto prodotto della sintesi ideale ; anzi la
conferma. G. [Saggio] nella epistemologia è un kantiano puro. Checchè egli ne
dica, tale è la sua dottrina. Ed ecco la stridente contraddizione cui lo
condusse il suo voluto sperimentalismo. La scienza , la parte più certa della
cono scenza, è soggettiva ; e la conoscenza sensibile è di sua natura oggettiva;
che , per lui , è come dire che la scienza è rosa dal tarlo dello scetticismo ,
laddove l'esperienza sensibile è certa e reale . Le conoscenze necessarie ed
universali , che sono il pernio di ogni specie di conoscenze, hanno un valore
puramente logico, e le conoscenze contingenti e particolari sono reali . Il che
avrebbe dovuto condurre G. al più schietto nominalismo ; perchè se le nostre
conoscenze veramente oggettive , sono quelle dateci dai giudizi particolari
dell'esperienza immediata, sfuma la realtà dell'universale . E un realista G.
certamente non Egli combatte tuttavia l'empirismo nominalistico di taluni
seguaci del Locke, come l'Helvetius , i quali negano le idee universali , asse
rendo che quelle, che tali appariscono , non sono se non termini generali ,
vocaboli vôti di senso . « Perchè , dice G., al ve dere un uomo che non abbiamo
giammai veduto , noi diciamo è un uomo ? Se non avessimo un'idea universale di
questa specie, come vi rapporteremmo quest'individuo? L'esistenza delle idee
universali nello spirito è talmente attestato dalla intima coscienza , che si
dura fatica a supporre che vi sia stato chi l'abbia contra stata » (Saggio) .
Nè anche Locke , secondo G., nega le idee universali ; e come Locke egli è
concettua lista . Siamo sempre lì : la cognizione universale , scientifica ha
sì un valore , ma un valore logico. E al Rosmini , che gli dichiarava in una
sua lettera di non vedere « come dal soggetto possa venire l'universalità e la
neces sità delle cognizioni . Il soggetto è essere particolare e contingente, e
non può produrre un effetto maggiore di sè » ; egli rispondeva, che la
necessità che ha luogo nelle cognizioni, è una semplice « legge logica del
pensiero umano, da non confondersi con la ne cessità metafisica; legge logica
espressa dal principio di contrad dizione , e , come ogni altra modificazione
dell'anima nostra, me ramente soggettiva . E aveva un bel ribattere il Rosmini
, che la necessità logica e la necessità metafisica non sono in fondo che una
sola necessità ( in questo punto è tutta la novità, non pic Cita il Saggio, dove Locke spiega la gonesi delle idee
universali.] cola , – di SERBATI verso G.) : « Io non suppongo mica, replicava G.,
che vi sia una necessità metafisica distinta dalla necessità logica ; ma
solamente combatto quei filosofi che riguardano quella necessità, che è
meramente logica , come una necessità metafisica , che trasformano la prima
nella seconda. L'origine di tal necessità logica mi sembra già determinata ;
essa è nella natura del soggetto noi non dobbiamo cercarne la causa efficiente,
ma arrestarci alla causa formale di tal neces sità. La sua scienza , perciò
abbiamo detto altra volta , come quella di Kant, s'è chiusa nella cerchia
invalicabile del fe nomeno; sicchè egli riesce , per la scienza, a quel
criticismo che voleva correggere . Gli sarebbe bastato estendere la - sua
teoria della sensibi lità o meglio dell'esperienza primitiva alla esperienza
secondaria . Non l'ha fatto , perchè gli premeva salvare la realtà del mondo
esterno ; e così s'è messo in disaccordo con se stesso , accoppiando al
criticismo puro dell'epistemologia il più crudo dommatismo nella gnoseologia. I
due elementi in lui non si fondono, e un'in tima contraddizione travaglia tutta
la sua filosofia. 49. Infatti ammessa giustamente come soggettiva l'origine
della nozione che abbiamo della connessione reale delle cose ( come sostanza o
come causa , sussistenza, egli dice per lo più, ed effi cienza ), il valore
oggettivo delle medesime non può essere e non è infatti in G., che una semplice
affermazione dommatica. La percezione del me è la percezione di un soggetto con
le sue modificazioni. Sicchè, egli dice , nella coscienza del me , – che è il
principio della nostra filosofia , è data « 1. ° la connessione fra la percezione
e l'oggetto ; 2.º fra il soggetto e la modificazione ; 3." fra la causa e
l'effetto , il che vale quanto dire , che in questo fatto primitivo ci è data
la base della filosofia , e la realtà delle nostre conoscenze. Su per giù , è
sempre questa la dimostra zione data da G. della realtà delle connessioni tra
sostanza e modi, tra causa ed effetto. Le connessioni sono reali, perchè il me,
termine reale della coscienza è soggetto (sostanza ) di modifi cazioni, e
queste modificazioni a lor volta sono effetto dell'azione del mondo esterno .
Ma i termini noi possiamo percepire, non i rapporti: e i termini in quanto
connessi nel loro rapporto non pos siamo percepirli , se non applicando ad essi
quelle nozioni di rap Rosmini e Gioberti. Saggio.] porto , onde già dobbiamo
essere forniti. Chi ci garantisce che i rapporti, che con queste nostre vedute,
di origine soggettiva , noi scorgiamo tra i termini percepiti , abbiano un
fondamento ogget tivo ? Chi ci costruisce questa volta il famoso ponte di
passaggio dal soggetto all'oggetto ? Chi ci sottrae a quell'argomento inso
lubile ? Il dommatismo è evidente. C'è un passo, nel terzo libro del Saggio,
contro la sin tesi a priori di Kant , che merita qui speciale considerazione. Il
filosofo di cui parliamo, – scrive G., ha confuso l'operazione sintetica
co'suoi prodotti, che sono le percezioni del rapporto fra le idee paragonate.
Allora che lo spirito rapporta un termine della relazione all'altro, egli
esegue una sintesi, la quale è il principio efficiente che pone un termine
rapportato. Lo spirito nel termine rapportato vede un rapporto, ed esegue con
ciò un'analisi , indi unisce questo rapporto, che aveva separato dal termine
rapportato allo stesso termine, e compie il giudizio. Lo spirito , prima della
comparazione, non aveva che il termine della relazione : dopo la comparazione
ha un termine rapportato : l’atti vità sintetica ha dunque posto dal suo fondo,
nel termine della relazione , il rapporto , e questo rapporto è un elemento
sogget tivo aggiunto all'oggettivo. Quale che sia il valore di questa
osservazione contro il giudizio sintetico a priori ( io non credo che ne abbia
alcuno ; chè il giudizio è già avvenuto con quella prima operazione
dell'attività sintetica , che consiste nel rapportare i termini), certo è
notevole e giusto il concetto del soggettivismo dei rapporti accennato qui
dall'autore; ma vi apparisce pure evidente falso concetto che ei s'è formato
dell'oggetto. Termine e termine rapportato son cose differentissime; il primo è
un dato , il secondo è il prodotto di quel principio efficiente, che è la
sintesi. Ma il termine è termine in quanto è termine rapportato ; sicchè il
termine si può dire che venga posto , rità , dall'attività sintetica dello
spirito . E questa è la dottrina di Kant. Ma se il Galluppi ne avesse piena
consapevolezza , non do vrebbe dire , che lo spirito PRIMA della comparazione
non aveva che il termine della relazione. No , non aveva niente : non c'è prima
il termine , l'elemento oggettivo, a cui dopo venga ad ag giungersi l'elemento
soggettivo, il rapporto : termine e rapporto nascono ad un parto, nè lo spirito
può percepire il termine della relazione , senza il rapporto , nè questo
rapporto è nulla di concreto fuori dei termini ai quali viene applicato .
Questo prima e questo dopo, di cui parla G., accusano quella separazione di
oggetto e soggetto, quella opposizione da lui già criticata come punto di
partenza donde non sia dato arrivare a una conoscenza certa. Sicché , anche per
le nozioni di identità e diversità ( alle quali , s'intende, egli si riferisce
nel passo ora citato) G. si di batte nelle strette della soggettività , come
qualcosa di differente e assolutamente opposta a quella oggettività , che s'era
proposto di fondare contro il criticismo kantiano. Ma le sue velleità empi
ristiche rompono sempre in quel principio fondamentale della co scienza di sè ,
preso dalla filosofia di Cartesio, onde si nutrì , come abbiamo notato , la
mente di lui nel suo primo periodo speculativo. E la conclusione del Saggio
filosofico è che tutti i motivi dei no stri giudizii (senso intimo, sensi
esterni, evidenza, memoria, razio cinio e testimonianza degli altri uomini) «
hanno per motivo me diato ed ultimo il senso intimo » : e quindi « tutta la
scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza di se stesso, e
chiunque tenta di toglier questa base è indegno, che si ragioni con lui ;
poichè non si ragiona col nulla. E così nella chiusa delle Lettere filosofiche.
Io ho poggiato – dichiara l'autore su la veracità della coscienza la veracità
di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere ... ; non si può supporre la
veracità di alcun mezzo di conoscere senza supporre la veracità della
coscienza, e supponendo la veracità della coscienza , la veracità di tutti gli
altri nostri mezzi di conoscere segue necessariamente. Così , secondo me,
l'aliquid inconcussum è nella coscienza, ed essa è la base di tutto il sapere
umano. Ma se si ricordasse sempre, che principio e aliquid incon cussum è la
coscienza, G. non dovrebbe parlare mai di quella oggettività indipendente dal
soggetto , alla quale vuol ripor tare le relazioni di sostanza e di causalità ;
e in verità non riesce a scoprirne che una origine soggettiva e a darne una
giustifi cazione, come s'è visto , fondata unicamente sul sentimento del me. Si
potrebbe dire , che egli parla di un oggetto soggettivo for nitoci dalla
sensazione, che da lui è detta di sua natura oggettiva . Egli , infatti,
rigetta la distinzione di qualità primarie e secondarie, come arbitraria e
falsa , e sostiene che tutte le nostre sensazioni [Saygio] soggettive , nè più
nè meno di quel senso del tatto , in cui Condillac indicava il filo d'Arianna
col quale si potesse uscire dal labirinto della soggettività, « convengono in
ciò , che tutte sono le percezioni di un soggetto esterno ; son differenti,
poichè sono i modi diversi di percepir questo soggetto : questi modi diversi di
percepirlo costituiscono per noi le diverse qualità degli oggetti esterni , le
quali sono perciò i diversi rapporti di questi oggetti con noi; e che, «
qualunque ipotesi si adotti su la natura de ' corpi , è incontrastabile che il
mondo dei corpi non esiste nel modo in cui ci apparisce ; e che noi non
conosciamo dei corpi se non le qualità relative » , talchè il pensiero bensì è
una realtà in sè, « ma l'estensione non è almeno certo se sia una realtà o un
fenomeno e addirittura « la conoscenza che noi abbiamo de ' corpi è meramente
fenomenica . E però G. non può parlare se non di un oggetto soggettivo , di un
oggetto termine essenziale del soggetto. Ma allora perchè contrapporre oggetto
a soggetto , e sin tesi reale a sintesi ideale? Siamo sempre nella sfera del
soggetto, e l'attività sintetica dello spirito darà luogo sempre a una sin tesi
ideale . Dov'è il punto di separazione tra la res e l'idea ? Non rampollano
entrambe dalla coscienza di se? Per metter d'accordo G. con se stesso dovremmo
dire , che quello che ei dice sintesi reale e sintesi ideale non siano se non
due gradi della sintesi soggettiva, qualche cosa di simile della sintesi di
primo e di secondo grado, che Spaventa e Tocco han rilevate in Kant. Vale a
dire , bisognerebbe anche la sintesi reale ritenere pura operazione soggettiva;
ma non tanto soggettiva quanto la ideale, perchè l'una si esercita su una
relazione che la coscienza, questo ultimo motivo, questa. norma suprema della
verità , attribuisce al mondo esterno, lad dove l'altra non ragguaglia che
termini aventi un valore logico. La sintesi reale coglie, diciamo così, i
rapporti degli individui, in cui, secondo G., consiste la realtà; la sintesi
ideale coglie, invece, i rapporti che intercedono tra le idee generali, già
formate per la forza analitica e sintetica dello spirito. Di modo che la
materia della sintesi reale è oggettiva, nel senso che di Elem. di Psicologia. Non
vi ha fenomeni nel santuario del mio essero, dice G., Saggio, Saggio] cemmo
poter avere per G. l'oggetto; e la materia della ideale è una pura formazione
soggettiva. E se la coscienza ha da es sere sempre la fonte della verità , se
noi non possiamo parlare di altra verità , se non di quella che tale apparisce
alla coscienza , i rapporti che si scoprono dall'attività sintetica nella
materia og gettiva saranno rapporti reali, e si potrà pur dire che siano og
gettivi pel valore ( poichè il valore è attestato dalla coscienza); e i
rapporti che dalla stessa attività sintetica si scoprono nella materia
soggettiva, non possono avere più che un valore logico, perchè sono rapporti di
concetti, ci concetti nel concettualismo di G. non sono reali. Alla coscienza i
rapporti appariscono tali quali appariscono i termini che essi connettono; fra
termini oggettivi, rapporti reali; fra termini astratti e soggettivi, rapporti
ideali. I termini infatti non possono essere percepiti per quel che sono, se
non coi loro rapporti, coi quali e pei quali vengono ad essere quei dati
termini. Ma allora non bisogna separare la facoltà dell'analisi e della sintesi
da quella della sensibilità (o coscienza ), come fa G.; perchè la sensibilità
come tale non potrà mai percepire un rapporto, come bene avverte G. stesso.
Allora bisogna andare molto più addentro, che questi non sia andato, nel
concetto dell'unità del me. Certo è che G., mosso a scrivere il suo Saggio, che
è la sua opera capitale, dal bisogno di assodare la realtà del conoscere contro
la critica di Kant, non riesce a distrigarsi dal soggettivismo nella
epistemologia; e nella gnoseologia vi riesce solo contrapponendo al criticismo
kantiano un oggetto, che non è tale se non per un dommatismo preso dalla
coscienza volgare, e che non può non metter capo nella tesi scettica del
criticismo, appena venga innanzi alla riflessione scientifica. La sua stessa
critica perpetua di Kant, e quell'oscillare continuo tra le lodi più sincere e
il biasimo più acerbo del criticismo, dimostrano l'acutezza del suo spirito,
che intende la gravità del problema sol [SERBATI scrive al p. Giacomo Maso
& Roma: Pare a lei che la filosofia di G. è veramente sana? Noti bene, non
metto in dubbio le intenzioni dell'ottimo calabrese, a cui professo sincera
stima. Parlo solo della sua filosofia. Di questa dubito, o piuttosto non dubito;
perocchè agl’occhi miei ella si volge in circolo perpetuo dentro al soggetto-uomo,
e nel soggetto-uomo non vi ha nulla d’immutabilo: manca il punto fermo a cui
appoggiare la leva. Vedi La Sapienza] evato dal Kant, e insieme la sua
impotenza ad uscire da quel cerchio sconfortante segnato dal filosofo di
Koenigsberg attorno allo spirito umano; l'impotenza in cui rimase per non
essere salito al concetto adeguato di quella coscienza, che è il primo della sua
costruzione filosofica. E dopo quattro libri di discussioni, di polemiche
contro quei filosofi, trascendentali, che non si sa se siano filosofi che
ragionano, oppure frenetici che delirano, il saggio filosofico finisce
anch'esso nella tristezza del mistero: La scienza umana è limitata. Essa può
successivamente perfezionarsi. Ma essa non può oltrepassare certi limiti. Non è
più reciso l'ignorabimus di Reymond. E il primo limite dello spirito umano,
secondo G., è questo: noi abbiamo una nozione generale della sostanza, ma noi
non conosciamo affatto la natura, o come suol dirsi, l'essenza di ciascuna
sostanza in particolare. E fin qui ha ragione Kant. Secondo limite: ignorando
le prime sostanze, ignorar dobbiamo il come le cause efficienti producono i
loro effetti; e l'efficienza è per noi un mistero. Dunque nè anche nel ritener
soggettivo il rapporto di causalità ha poi un gran torto Kant! Ma tutto quello che
è incomprensibile, non è mica assurdo, avverte G.; e questo basta a salvare la
creazione. Terzo limite: noi ignoriamo affatto le qualità assolute de’primi
componenti de'corpi; noi conosciamo alcune qualità relative di alcuni aggregati
delle prime sostanze della materia. I corpi non sono tali quali a noi si
manifestano. E questo, in verità, è un po ' più di quel che sostiene Kant: pel
quale, se il NOUMENO va distinto dal fenomeno, appunto perchè ignoto, non si
può dire che differe dal fenomeno stesso. Differe? Non differe? Se a queste
domande si desse una risposta, non si ha più un noumeno. Qui , dunque, G. è più
kantiano di Kant. Quarto limite: la conoscenza importa successione, processo ,
passare da un principio a ciò che ne procede : ma Dio è ne [Passo del Saggio
che CREDARO raccomanda a coloro che fanno di G. un kantiano; ni kantismo in Romagnosi,
Riv. ital. di filos.Vedi il celebre opuscolo Ueber d. Grenzen d .
Naturerkenntniss, Lipsia; e LANGE, Gesch. d . Materialismus, Iserlohn Saggio Saggio,
lui gazione assoluta di ogni successione: in questo essere infinito non vi è
alcuna cosa che precede l'altra; perciò la sua natura ci è perfettamente
inesplicabile ed incomprensibile. I metafisici intanto non si credono tutti
incapaci di comprendere la natura divina; ma uno di essi, e de' più moderati, GENOVESI
(si veda), avendo tentato, per esempio, di concepire in che modo questo mondo è
architettato dal divino progenitore, non è riuscito che a una spiegazione
contraddittoria. Il volere spiegare l'atto creatore intelligente è una contraddizione;
poichè è un supporre qualche cosa antecedente a (come GENOVESI (si veda) è
costretto a porre nel divino progrenitore prima l'essere e poi il conoscere,
prima il conoscere e poi il volere o l'operare. Questo è incomprensibile, e lo
scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria proposizioni che
non hanno forse il rigore scientifico della dialettica trascendentale, ma che
riescono, mi pare , al medesimo risultato. Che più? Kant riconosce come tutti i
filosofi il grande valore delle matematiche; ma anche in esse G. trova dei
limiti. Noi conosciamo esattamente, egli dice, le relazioni logiche tra le
nostre idee astratte; e ne son prova l'aritmetica e la geometria. Ma noi non
conosciamo tutte queste relazioni, perchè il loro numero è inesauribile; e la
conoscenza di queste relazioni non si estende quanto le nostre idee. La nostra
scienza è percið molto limitata sotto tutti i riguardi egli conclude: ed è la
conclusione del Saggio intero, vale a dire della sua filosofia sperimentale. Questo
mi pare criticismo schietto, sufficiente di certo a fare ascrivere G. alla
direzione kantiana, pur con tutte le sue più o meno ragionevoli invettive
contro il soggettivismo di Kant; se anche Testa, che altri dice l'unico
kantiano che abbia avuto l'Italia, è pur persuaso che Kant, distruggendo il
sensismo, non fosse riuscito a sostituirvi altro che un sistema soggettivo che
distrugge la scienza verace. Molto ha contribuito a mascherare il kantismo
galluppiano, e ben più che le sue dichiarazioni e le sue proteste, che non [Vedi
il capo X ed ultimo del lib. IV del Saggio . CREDARO, Testa e i primordii del
kantismo in Italia, Rendic. Acc. Lincei. Vedi dello stesso CREDARO Il kantismo
in Romagnosi (Riv. it. d. filos.), dove si oppone a chi fa di G. un kantiano,
uno dei soliti passi del Saggio contro il trascendentalismo. Come scrive nel
suo ultimo libro La mente di Taverna, Genova hanno o non dovrebbero avere molto
valore per la valutazione del critico, alcune speciali dottrine, che basta
accennare brevemente. E in primo luogo: rifiuta nientemeno che la stessa
sintesi a priori, che è come dire il nocciolo sostanziale del kantismo. La
distinzione che la scuola trascendentale pone fra i giudizii analitici ed i
giudizii sintetici a priori è assurda. Queste son parole di G.. E qui non si
tratta di una semplice affermazione. C'è anche la prova. Se le due idee A e B
non hanno alcuna identità fra di esse, lo spirito non può riguardarle che come
distinte, e senz'alcun legame fra di loro: è impossibile, dunque, ch'egli vi
percepisca un rapporto necessario di convenienza fra di esse: dire in
conseguenza che lo spirito dee percepire necessariamente un rapporto di
convenienza fra due idee diverse è affermare che lo spirito puo pronunciare una
contraddizione evidente. Tutt'i giudizi necessarii debbono, in ultima analisi,
risolversi nel principio di contraddizione: essi son dunque tutti analitici, ed
i giudizii a priori non possono essere che necessarii. Ammettere dei giudizi
necessarii non poggiati sul principio di contraddizione è un assurdo manifesto.
Se lo spirito non vede alcuna contraddizione nell'opposto di un suo giudizio,
egli non può certamente riguardarlo come necessario. I giudizi sintetici a
priori non possono dunque esistere. Somiglia non po’, a dir vero, al
ragionamento di quel tale aristotelico restio agl'inviti di GALILEI (si veda)
di guardare attraverso il cannocchiale. Ma è il ragionamento di G.; e questo
basta allo storico, il quale dirà che il filosofo di Tropea, chiuso nel cerchio
della logica formale e nel ferreo apriorismo delle sue regole, non puo
ammettere e non ammise il risultato principale della Critica kantiana, che è la
sintesi a priori. In effetto, egli dice negl’elementi di logica pura, un
principio sintetico, puro , a priori come Kant lo suppone , è una cosa
contraria alle nozioni fondamen tali di una sana logica. Infatti, egli
soggiunge, prescindendo dall'esperienza, nella sfera delle mie idee, io non
posso unire B con A, se non riconoscendo che B è uguale ad A, o ne fa almeno
parte. Che se B eccede A in estensione in valore, come potrei attribuire ad A,
come sua proprietà, tale eccedente di B, non ritrovato in A? Saggio. Così la
critica del Saggio è confermata negl’elementi con esplicito appello alle leggi
della logica formale, per la quale certamente non è possibile la sintesi a
priori kantiana, perchè l'identità non è conciliabile colla differenza, e se la
necessità richiede l'identità, rifugge dalla differenza. È inutile mostrare il
valore della critica galluppiana, fondata come quella di Degerando con cui va
raffrontata, e quella stessa di SERBATI, sopra l'intelligenza della sintesi a
priori de sunta dalla sola Introduzione alla Critica della ragion pura (nella
2.a edizione) coi famosi esempii: 7 + 5 12 ecc. Giova piuttosto ricordare che
la vera sintesi a priori non con siste propriamente nell'unione di predicati a
soggetti, onde siano già belli e formati i concetti; bensi nella formazione
medesima dei concetti: problema, di cui non s'accorse affatto G., a proposito
di Kant, ma riproduce, del resto, e risolve egualmente nella sua teoria
dell'analisi e della sintesi, che, munite dei rapporti soggettivi dell'identità
e diversità, servono anzi tutto alla formazione delle idee, e nella sua teoria
del giudizio, essenzialmente distinto dal sentire, e necessario alla percezione
di qualsiasi rapporto. Questa della sintesi a priori è uno dei motivi
prediletti della critica italiana intorno alle dottrine del Kant, e ricorre
spesso nei saggi di G. Ma non è la sola teoria kantiana che egli [Ma, so
sintesi a priori e logica formale sono assolutamente inconciliabili, non bisogna
conchiudore: dunque, aut aut: o si rifiuta la sintesi a priori, o si rifiuta la
logica formale. Su questo punto si fa molta confusione. Vi torna su in un lavoro;
qui vuole solamente aggiungere, che la dottrina della sintesi a priori fa parte
della teoria della formazione delle conoscenze; laddove la logica formale
studia i rapporti delle conoscenze già formate o delle conoscenze in sè; e
notare, che, se il pensiero non ha da essere un quissimile del vano lavoro
delle danaidi, non s'ha da far consistere solo in un accroscimento delle
conoscenze, ma anche in un'intuiziono delle già acquisite. Un anonimo nota in
un opuscolo molto arguto e tagliente contro il nuovo professore dell'università
che le belle ed acute riflessioni, con cui G. combatte negl’elementi della
logica pura il giudizio sintetico a priori, sono tolte da LAROMIGUIÈRE, Leçons
de philos. Vedi : Degl’lementi e della Introd. allo studio della filos. del
celebre Bar. Galluppi, giudizio dato all'editore da un suo amico, Napoli, De
Bonis. L'opuscolo reca di Napoli. Scritto con molta vivacità e castigatezza di
lingua, rimprove a G. l'inesattezze di certi suoi esempii presi dalla geometria
e dall'algebra, l'ignoranza in generale delle scienze fisiche e naturali, la
scarna o niuna cognizione dei classici antichi combatta. Anzi, non v'è quasi
teoria esposta nella critica della ragion pura che venga risparmiata nel saggio
galluppiano e nelle parti delle altre opere che ne dipendono. Lo spazio, il
tempo, le categorie, lo schematismo, la dialettica trascendentale gli offrono
materia di lunghe e energiche discussioni, il cui scopo è sempre la
confutazione di Kant. Aggiungi le frequenti proteste contro il
trascendentalismo e l'idealismo, che per G. equivalgono allo scetticismo,
proteste nelle quali G. unisce a Kant Fichte e Schelling, per quel poco che ne
puo conoscere da traduzioni o esposizioni francesi; ed è evidente che il
lettore sbadato e il critico ottuso non potessero e non possano vedere il
filosofo di Tropea che agl’antipodi di quello di Koenigsberg. Il vero è che per un'esatta intelligenza delle
dottrine di questo, il primo incontra insormontabili difficoltà nei limiti
della sua cultura; la quale non si estende oltre la letteratura filosofica
italiana e francese e alle traduzioni (allora pochissime e affatto
insufficienti) che ci sono in queste lingue delle opere tedesche. Quello che puo
intravvederne indirettamente, è naturale che gli dove riuscire oscurissimo, e
restargli innanzi con tali lacune, che s'egli ne ha coscienza, non è certo
provato alla critica della filosofia tedesca. Egli, scrittore chiarissimo e
pensatore analitico per eccellenza, manifestamente soffre nello studio che puo
fare di quegli scrittori. Nella critica di Fichte, sforzandosi d'intendere il
vero signifi della filosofia, la leggerezza nell'appigliarsi alla moda
francese, e quindi la pedanteria e confusione del metodo analitico imitato dagl’ideologi,
e perfino i barbarismi e l’improprietà di espressione. L'opuscolo pare fa una
certa impressione. Galluppi risponde col silenzio. Ma i suoi pupilli con due
opuscoli: D’un giudizio dato d’ignoto giudice sur alcune parole del chiarissimo
B. P. G. appella MORENO, Napoli, Trani; Al giudizio dato d’un anonimo su talune
opere del chiarissimo P. G. risposta di PISANELLI, Napoli, Ruberto o Lotti.
Curioso l'opuscolo di Pisanelli nella parte in cui difende G. scrittore, per
l'enfatica digressione che vi è contro il purismo. Per questa parte invece Moreno
riconosce che G. non è puro elegante e gentil dicitore; il che non toglie ch'ei
è, alla sua volta, pessimo scrittore. Vodi le Considerazioni filosofiche sull'idealismo
trascendentale e sul razionalismo assoluto, Napoli. Di Schelling non pare che
conosce nulla di originale, all'infuori della trad. francese di Bruno. Di
Fichte cita la trad. francese della Bestimmung des Menschen.] cato della costui
dottrina dell'io puro, dichiara ai colleghi del l'Accademia francese. Qui
l'oscurità alemanna comincia ad affliggermi. Io che non amo ne' discorsi
filosofici, se non che la chiarezza e la precisione, son qui circondato dalle
più dense tenebre. E termina la sua memoria invocando le regole wolfiane De
stylo philosophico, e domandando agl’amici della verità e del progresso della
filosofia, se lo scrivere i trattati filosofici in un modo più oscuro di quello,
in cui è scritta la teogonia d’Esiodo, è esso un segno di progresso verso la
verità o pure verso l'errore. Altri più recentemente si son lagnati
dell'oscurità di alcuni scrittori filosofici, e si son levati in difesa del
bello stile. Ma, come nel caso di G., molto spesso l'oscurità che si vede negl’autori,
non dipende da un loro difetto, sibbene dalla insufficienza nostra a intenderli;
chè nessuno è chiaro a chi non sia preparato e non procuri in ogni modo e con
ogni mezzo d'intendere. Comunque, la dottrina di G. è cosa ben distinta e
diversa dalla sua intelligenza e dalla sua critica di Kant; e della prima è
indubitabile che s'ispira a Kant e non riesce a risultati essenzialmente
differenti. In sostanza egli è più kantiano di Kant. Questi, criticata la
ragion pura, nega il valore scientifico, oggettivo, della metafisica, ma le
riconosce un ufficio regolativo [CF. STRAWSON, PROFESSOR OF METAPHYSICAL PHILOSOPHY],
e scrive una metafisica della natura come una metafisica dei costumi. Ma G. si
rinchiude in un assoluto psicologismo, per usare parola giobertiana; e,
pienamente conseguente alla sua filosofia dell'esperienza, tiene fermo alla
dottrina dei limiti della scienza umana; e alla metafisica sostituisce
l'ideologia. La sua cattedra ufficiale è di logica e METAFISICA. Ma egli nella
Prolusione annunzia che tratta della filosofia teoretica, ossia della scienza
dell'umana scienza, e da pertanto la legislazione suprema di tutte le scienze. La
metafisica tratta, egli dice, delle idee essenziali all'umana ragione. Nella
prima lezione rifiuta la definizione della filosofia data da Wolf, sostenendo
che egli volle una [Ricordo per semplice curiosità che sostenne il kantismo di
G. RoDRIQUEZ, Lett. sulla filos. sogg . ed oggettiva DEL BARONE G., Messina;
cui rispose SIMONETTI, Analisi critica della Lettera ecc. Napoli, Fernandes, Lezioni
di log . e METAFISICA] definire piuttosto l'infinita sapienza conforme a quel
suo enunciato che Deus est philosophus absolute summus, e attribuendo alla
filosofia wolfiana il difetto ascrittole appunto da Kant, di confondere la cosa
con l'idea della cosa. Nella seconda lezione commenta il suo concetto della
filosofia come scienza del pensiere umano ne’suoi elementi, nelle sue funzioni
e nelle sue leggi; nozione, fa notare, della più alta importanza. Prevede la
possibile osservazione. Ma è il pensiero il solo oggetto della filosofia? E la
ontologia, la cosmologia, la teologia naturale, la fisica? Queste scienze,
risponde G., in parte si riducono alla ideologia, scienza del pensiero, e in
parte escono fuori dal campo della filosofia. L'ontologia studia alcune nozioni
universali, essenziali all'umano intendimento; e la dottrina delle nozioni,
delle idee non appartiene forse alla scienza del pensiero? Lo stesso dicasi
della cosmologia e della teologia naturale. Sicchè G. conchiude. Tutte le parti
dunque della metafisica appartengono alla scienza del pensiere umano. Quanto
alla fisica, in parte è filosofia (psicologia, per le relazioni che questa
scienza studia tra i fatti fisici quali sono in sè e i fatti fisici quali
appariscono a noi, e teologia); e in parte, quale si tratta comunemente nelle
scuole, se non può ridursi a rigore alla scienza del pensiero, è nondimeno una
scienza che le è contigua, e che serve a rischiarare, ed a perfezionare la
filosofia intellettuale. Sicché la metafisica, nel sistema du G., è bella e ita
assolutamente. E se la filosofia per lui si divide com'è detto nella lezione in
filosofia speculativa o teoretica, che studia l'anima (soggetto del pensiero)
in quanto conosce, e in filosofia pratica, che studia l'anima in quanto vuole,
è chiaro che nè anche questa puo essere fondata su alcun principio metafisico. Kant
non arriva a questo punto. Ma prima di accennare i principii di G. nella
filosofia pratica, bisogna fare un'altra osservazione generale, che ci pare di
non poca importanza. Nella Prolusione G., vantando le ragioni del metodo
sperimentale, avverte che non bisogna però mutilarlo. Anzi prenderlo tutto
intero nelle sue specie e ne’suoi risultamenti; ne confonderlo con l'empirismo;
giacchè la filosofia intellettuale, come egli chiama quella che insegna, non
ammette solamente quelle esistenze, che cadono immediatamente sotto l'esperienza;
ma quelle ancora, che l’esperienze sperimentali suppongono necessarie. Quindi
ella deduce tanto dall'esistenza del mondo materiale, che da quella del mondo
intellettuale, che a noi si manifesta, l'esistenza eterna d’un’intelligenza
creatrice. E ciò in modo simile a quello in cui l'astronomia, partendo dal
cielo empirico, pone un cielo razionale. Il cielo razionale sarebbe il cielo
costruito dall'astronomo mercè la forza portentosa del calcolo, della geometria
e del raziocinio, onde si sbalza dal centro del planetario sistema la terra, e
vi si pone il sole; si trasforma in masse di meravigliosa grandezza quei
piccolissimi corpi, che sembrano tanti chiodi affissi nel firmamento, si
determina le distanze, le orbite ed i tempi delle rivoluzioni de’pianeti. Sicché,
per G., anche la filosofia intellettuale, la ideologia, la filosofia
dell'esperienza, con tutti i suoi limiti, ha il suo cielo razionale; come l'ha
del resto il criticismo con la sua cosa in sé. Ma la cosa in sè per Kant è un
puro concetto limite, di cui s'afferma l'essere non il come; che si afferma,
non si conosce; laddove G. dedica tutta la seconda parte della sua ideologia,
che intitola Teologia naturale, allo studio dell'assoluto e de’suoi attributi,
come se Kant non è mai esistito. Il nome di questo qui non ricorre se non nelle
ultime pagine, dove è detto insensato il suo impegno di contrastarci la
possibilità di una teologia naturale e filosofica. Ma tutta questa parte
evidentemente è non solo in contraddizione con la critica kantiana, ma anche
con lo stesso Saggio dell'autore, la cui conclusione riesce a quella dottrina
dei limiti della scienza. Che dire adunque del vero pensiero di G.? È vero,
come è detto nel saggio, che lo scrutatore della divina maestà resta oppresso
dalla sua gloria? O è vera la teologia delle lezioni? Le due dottrine sono
certamente inconciliabili. E io non dubito d’asserire , che se G. non scrive le
lezioni per i suoi pupilli a NAPOLI in uno de’periodi di più cupa servitù
intellettuale che attraversa il pensiero italiano, la seconda parte dell’ideologia
non sarebbe stata scritta. Questa opera, dice l'autore nella prefazione delle lezioni,
non è mica la ripetizione dei miei Elementi di filosofia nè di altra mia opera
antecedente. E nota altresì che serbando le leggi essenziali di un metodo, può
questo ricevere delle variazioni accidentali. Intende egli alludere alla
teologia naturale, di cui tratta per la prima volta in queste Lezioni? Si noti
che non parla di nuovi svolgimenti del suo pensiero, ma di variazioni di
metodo; onde non puo accennare a parti ora per la prima volta trattate della
sua filosofia che non importa alcuna modificazione di principii. Si noti anche che
la seconda parte dell'Ideologia è come appiccicata alla prima. Solo alla fine d’una
lezione, dell’ideologia, l'autore dice. L'essere è o finito o infinito. Io
divido perciò l'ideologia in due parti, nell'ideologia del finito ed in quella
del l'infinito. E in questa distinzione così accennata è tutta la ragione della
teologia naturale o ideologia dell'infinito, cui son dedicate le ultime lezioni
del corso. Le dottrine non essoteriche hanno ben più stretti legami coi
principii sostan ziali dello spirito d’un pensatore; e questi le fa sempre
sgorgare specialmente quando siano dottrine così importanti, rispetto a quella
filosofia dell'esperienza, onde G. si
proclama sempre assertore le fa sempre sgorgare, bene o male , dalle dottrine
per l'innanzi professate, le pone, bene o male, in accordo con esse, per
rimanere esso stesso d'accordo con sè medesimo. Nell'opera di G nulla di tutto
questo. Io propendo pertanto a non attribuire alcun valore a quella parte delle
lezioni nel sistema delle idee galluppiane. Non penso già che egli le detta e
le pubblica contro la sua coscienza, ma certo contro la sua coscienza
filosofica. Egli pensa certamente quanto scrive e insegna degl’attributi divini;
ma quella parte del suo pensiero non è stata da lui elaborata filosoficamente
ne coordinata quindi alla sua speculazione. Chi insegna e non s'è trova nel
caso del nostro filosofo, di esser costretto da un programma a insegnare anche
ciò che il suo spirito non ha maturato e fatto suo, e insegnarlo quindi nella
forma in cui ordi nariamente si dà, e in cui è pur bene che sia offerto
all'intelletto del pupillo? Chi non si trova a dover insegnare qualcosa di più
di quello che in buona fede e a rigore potrebbe dir di sapere, o di quello
ond'egli può dirsi veramente persuaso? Chi oltre a ciò che, per sè e per altrui,
deduce chiaramente da’propri principii non ha insegnato qualcos'altro, che da
quei principii sinceramente non sa derivare nè per altrui nè per sè? G. non ha
per sè una teologia più filosofica di quella che è esposta nelle [Della
religione tratta anche negl’elementi di filos. morale. Ma se la sbriga in un
breve capitolo, che non ha nessuna pretensione filosofica , e si limita a una
semplice notizia molto compendiosa del concetto della religione cristiana.] sue
Lezioni; in questa fermasi il suo pensiero; ma stimo che non vi s'acquetasse;
perchè una consapevole o inconscia insoddisfazione dove fargli sentire che
nella sua filosofia dell'esperienza non c'è posto per quella teologia. S'è
accennato che sulla fine della teologia naturale l’autore si ricorda
dell'impegno insensato di Kant di contrastare la possibilità di una teologia. E
che fa egli per combattere l'assunto kantiano? Scrive così. Kant insegna che i
giudizii su cui la teologia naturale – cf. WILDE’S READERSHIP IN NATURAL
THEOLOGY -- e filosofica poggia, sono sintetici a priori e fenomenici, privi di
una assoluta realtà. Egli dice che le verità necessarie della teologia naturale
non sono mica identiche, ma sintetiche; e che le verità di fatto non sono che
mere apparenze, che fenomeni privi della realtà noumenica ed assoluta, indipendente
dal nostro modo di vedere. G., nella critica della conoscenza segue passo passo
la dialettica kantiana; e volendo parlar con giustizia, non può negarmisi, che
l'ha invincibilmente distrutta. G. mostra che i giudizii sintetici a priori
sono assurdi; mostra eziandio che le verità sperimentali ci danno pure delle
conoscenze delle cose in se stesse considerate. Questo è tutto. Ora, poniamo
che è esatta l'esposizione del pensiero del Kant. Ma la critica della sintesi a
priori non giustifica, tutto al più, che la posizione dell'assoluto, come
avviene per l'appunto nel Saggio dello stesso G.; dove partendo dalla pretesa
impossibilità dei giudizii sintetici a priori, si dice, contro Kant, che non è
tale neppure il principio: dato il condizionale, si deve dare l'assoluto; e si
conchiude quindi che il condizionale dell'esperienza è reale in sé, non
fenomenico, e che nella sua realtà è pur data quella dell'assoluto. E nel Saggio
tutto finisce li. E la conclusione dell'opera è quella che ab [Acoopna al
Saggio filosofico; Lez. Quindi accenna alle critiche che alla sua confutazione
della sintesi a priori aveva mosse ROVERE (si veda) nel Rinnovamento e lo
ribatte. Un'ottima osservazione contro questa deduzione fa col suo solito acume
Tesia, il quale crede come SERBATI che G. non mova un passo fuori del soggettivismo.
È falsa, egli dice, la premessa che il condizionale sotto il rispetto del
condizionale sia un termine dato dall'esperienza. Quosta non ci dà che
sensazioni e sentimenti. Ma le sensazioni non sono il condizionale? Si, sono,
ma non ci sono date come tali dall'esperienza. La qualità d'essere condizionale
è una veduta dello spirito, non è nella sensazione, opperò non è trovata nella
sensazione. Vedi Le ricerche apolog. del crist, del popolo da Bignami
esaminate, Lugano] biamo vista. Gli attributi divini son dichiarati
incomprensibili. Nè quell'assoluto del Saggio differisce molto dalla cosa in sè
kantiana. Ma nelle lezioni non c'è solo l'assoluto, bensì la scienza del
l'assoluto; e non viene giustificata. La conclusione dell'opera si limita ad
affermare che mostrando l'oggettività delle nozioni di sostanza, di causa e
dell'assoluto, il criticismo è rovesciato, e la realtà della conoscenza è
stabilita. Sono le ultime parole delle lezioni; ma potrebbero essere a miglior
ragione le ultime del Saggio, perchè in quelle si cerca di provare qualcosa più
dell'oggettività della nozione che la mente possiede dell'assoluto. Se la
teologia naturale avesse avuto nella mente di G. la stessa saldezza dei
principii più genuini della filosofia dell'esperienza, la sua etica non avrebbe
mancato di esservi subordinata. Invece ne è assolutamente indipendente. Anzi,
pure inspirandosi all'idealismo kantiano, non tiene affatto conto dell’esigenze
sentite dal Kant nella Critica della ragion pratica e nella FONDAZIONE DELLA
METAFISICA DEI COSTUMI. Forse egli non conosce nulla direttamente di queste
opere, e della morale kantiana non dove avere che l'indiretta notizia
fornitagli dalle solite esposizioni francesi. Non per questo si può dire con
certi critici, che i suoi quattro volumi della Filosofia della volontà non
contengono nulla di nuovo, anzi, di fronte a Locke ed Hume, ed a tutta la
specula zione contemporanea, segnano un sensibile regresso verso il vecchio
rancidume metafisico e teologico. Chi giudica così non deve avere grande
familiarità con questo rancidume, e certo è assolutamente falsa la sua
sentenza, che la morale galluppiana sia ispirata all'idealità patristica e
scolastica. Non si potrebbe dire nulla di più inesatto intorno a quella morale.
Basta una sommaria esposizione per convincersene. Bisogna prima di tutto
osservare, che G. insegna filosofia teoretica o, com'egli dice, intellettuale;
e non v'ha quindi occasione di trattar mai la morale. Ma egli pubblica un volumetto
del suo manuale scolastico, gl’elementi della FILOSOFIA MORALE [cfr. AUSTIN,
WHITE’S PROFESSOR OF MORAL PHILOSOPHY, dopo Hare]; e prima d'assumere
l'insegnamento scrive La filosofia della volontà, Vedi l'art. La speculazione di P. G. , Rivista
di filos, e sc. affini di BOLOGNA. In essa, secondo che egli dichiara nella prefazione,
si propone di trattare in un'opera estesa lo stesso argomento di quegl’elementi,
ma col metodo stesso del saggio filosofico, ossia con la discussione e l'esame
delle varie dottrine relative ad ogni materia. Ma non dove aver compiuto il
lavoro prima di salire la CATTEDRA di logica e METAFISICA; e non pare che vi
sia potuto più tornare; sicchè non tutte le parti del volumetto degl’elementi
vi sono riprese e novellamente trattate con quella maggiore larghezza, che
l'autore s'èproposta. E il disegno di essa, delineato sulla traccia degl’elementi,
gli rimase colorito meno che a metà. Nella Filosofia della volontà comincia dal
distinguere nell'uomo l'agente fisico della natura, disposto o mosso ad operare
pel fine della propria felicità, e l'agente morale, disposto o mosso ad operare
dal principio del proprio dovere. Distingue anche i movimenti che nel corpo
umano si osservano, in meccanici, che non dipendono dalla volontà, e volontari,
per cui sol tanto l'uomo può dirsi agente. Chiama quindi filosofia della volontà
quella scienza che fa conoscer l'uomo considerato come un agente; e divide
questa scienza in quattro parti. Nella prima, dice esamino l'uomo considerato generalmente come
un agente. Nella seconda l’esamino sotto l'aspetto d’agente morale. Nella terza
sotto l'aspetto d’agente fisico. E nella quarta finalmente l'esamino riguardo
alla sua esistenza in uno stato futuro, dopo il fenomeno della morte; e ciò in
conseguenza della sua virtù e de' suoi vizi. Questo il disegno. Ma delle
quattro parti ideate i primi tre volumi dell'opera e il primo capitolo del
quarto trattano solo la prima. Gl’ultimi due capitoli di questo quarto volume e
dell'opera iniziano appena la trattazione della seconda, com'è svolta negl’elementi;
e DELLA TERZA E DELLA QUARTA NON C’È NULLA; laddove negl’elementi l'una, intitolata
De' mezzi per esser felice, è trattata con relativa larghezza, e dell'altra c'è
pure un cenno col titolo, Della religione. Sicché, quantunque l'autore
appaiasse questa sua filosofia della volontà col saggio filosofico, come
l'opera contenente la sua filosofia pratica accanto a quella contenente la [I
primi due volumi, presso Giachetti in Napoli; il 3.° vol., presso la stamperia
Tramater in Napoli. La dedica al MARCHESE DI PETRACATELLA reca Napoli] a sua
filosofia teoretica; è evidente, che se la filosofia della volontà presenta
discusse con grande ampiezza questioni brevemente accennate negl’elementi, di
questi non può fare meno chi voglia acquistare un concetto compiuto delle
teorie pratiche galluppiane; e in essi deve principalmente attingere quella
parte di coteste teorie, che spetta più propriamente alla morale. Dal disegno
stesso dell'opera maggiore si scorge un pregio non comune in questo ramo della
filosofia del nostro: voglio dire la pienezza del suo concetto dello spirito
pratico. Egli, com'è chiaro già da quelle semplici indicazioni, non vede tra la
felicità e il dovere quella dualità inconciliabile, in cui si dibatte l'etica
prima di Kant e nello stesso Kant; quella dualità che finisce inevitabilmente,
secondo l'uno o l'altro pensatore, o con la negazione dell'uno o con la
negazione dell'altro principio, o nel concetto puramente utilitario o in quello
del puro disinteresse. G. vede che sono due i fini dell'umano volere: due fini
però conciliabili tra loro, sì che uno non importi la negazione dell'altro.
L’uomo infatti è agente fisico e agente morale insieme; e per es sere agente
fisico non cessa di essere agente morale; e viceversa: segno manifesto, che tra
i due fini non c'è opposizione assoluta. La confutazione perentoria
dell'utilitarismo (UTILITARIAN, FUTILITARIAN) dal punto di vista etico sta in
questo concetto, che G. vide nettamente, come apparrà meglio dalla notizia che
ora ne daremo. Tutta la prima parte della sua filosofia pratica s'aggira
adunque intorno all'attività in generale dell'uomo: è, come noi diremmo, una
semplice psicologia pratica. Parla quindi del desiderio, della volontà,
dell'influenza della volontà sull’intelletto, e viceversa, e in generale dei
principii motori della volontà, e della libertà umana. Questa è la trattazione
più ampia, e occupa quasi per intero il secondo e il terzo volume della
Filosofia della volontà. Non avendo voluto G. lasciare senza risposta nessuno degl’argomenti
che sono stati addotti contro l'esistenza del libero volere. Della volontà il nostro
dice che non può definirsi. Ne fa una facoltà, avvertendo bensì, che le diverse
facoltà, che concepiamo nel nostro spirito, non sono certamente tanti agenti
diversi: esse non sono che lo spirito stesso considerato relativamente ad una
determinata specie di modificazioni, che avvengono in lui. Si potrebbe
intendere per volontà la facoltà [Quindi, secondo l'autore, è volontà il nostro
spirito stesso considerato relativa di volere; ma questo come ogni atto
semplice non può definirsi, e non se ne può altrimenti avere la nozione che dirigendo
la nostra attenzione sul sentimento che abbiamo di questo atto, ossia
ricorrendo alla nostra personale coscienza. La volontà senza gl’atti di volere
è indeterminata come volontà; è lo spirito stesso in generale. La
determinazione della volontà è la produzione de’voleri particolari; e siccome,
dice G. stesso, lo spirito è il principio efficiente de'voleri, così può dirsi
tanto che lo spirito determina se stesso, quanto che la volontà determina se
stessa. La volontà, come nota Locke, va ben distinta dal desiderio. Un idropico,
malgrado il desiderio di bere, si astiene dall'acqua. Egli dunque DESIDERA DI
BERE, ma NON VUOL bere. In tali casi vi sono desiderii opposti, fra i quali la
volontà si determina. Per G. tra desiderio e volere c'è una recisa differenza.
Quello non è, come ordinariamente si crede, un fatto d'attività dello spirito,
ma, come oggi si direbbe, un fatto puramente emotivo; quel misto di piacevole e
di spiacevole onde lo spirito è affetto per la percezione d'una sensazione in
se stessa piacevole, ma assente, e però causa d'un dispiacere tanto maggiore,
quanto più lontano è il futuro, in cui si pensa che essa sarà provata, Quando,
come fa Wolff, si vede nel desiderio uno sforzo, un'avversione,
un'inclinazione, o ci si contenta di metafore fallaci, o si confonde col
desiderio il volere, onde i movimenti corporei sono l'effetto. Sforzo,
tendenza, inclinazione, allontanamento son tutti vocaboli, che applicati
all'anima non presentano alcun senso. Come dal desiderio, la volontà va
distinta dall'intelletto; sicchè può parlarsi di un'influenza esercitata dalla
volontà sul l'intelletto, come di un'influenza esercitata dall'intelletto sulla
volontà. Quanto alla prima, G. vede un potere della volontà perfino nelle
sensazioni, in quanto lo spirito può esporre o pure sottrarre i propri sensi
all'azione de’corpi esterni; e quindi procurarsi o privarsi di alcune date
sensazioni. Quindi mente a quella specie di modificazioni, che abbiam chiamato
voleri. Insomma, gl’atti singoli presuppongono un quid nella natura dello
spirito; o questo quid è la volontà. Filos. d. vol., Psych , emp. L'autore
s'accorge che questo potere della volontà si esercita indiretta ci parla di
sensazioni volontarie e sensazioni involontarie; e come i desiderii sono un
effetto delle sensazioni, trova che vi sono e desiderii volontari e desiderii
involontari; e come anche i fantasmi seguono le sensazioni, anche tra i
fantasmi pone la stessa distinzione nel campo dell'immaginazione. Quando si
passa dalla sensibilità alle facoltà dell'analisi e della sintesi, non si
tratta più di un potere indiretto, ma im mediato della volontà sull'intelletto;
e dicesi attenzione; nel cui studio l'autore si trattiene con diligenza e
acutezza, che fan degne quelle pagine di esser lette ancora, pur dopo tanto
progresso nella conoscenza dei fenomeni psicologici. E come l'analisi e la
sintesi sono le due attività spirituali onde vengono prodotte tutte le
conoscenze, l'impero su di esse vale l'impero su tutto il conoscere. Che più?
L'associazione è anch'essa volontaria e involontaria. L'abito, questa seconda
natura morale, può dirsi anch'esso volontario, quando consta della ripetizione
volontaria di atti volontari; e conferisce a quell'educazione onde ognuno è
responsabile, poichè egli ne è l'artefice. I giudizii temerarii sono colpevoli,
perchè volontari; in essi l'attenzione si volge a fantasmi, cui non dovrebbe
rivolgersi, e l'uomo vuol manifestare i giudizii che da quei fantasmi deriva,
confondendo l'immaginare col giudicare. Infine, da questo impero della volontà
sull’intelletto la distinzione dei moralisti di ignoranza vincibile e
invincibile. In quanto all'influenza dell'intelletto sulla volontà, è chiaro:
che la vita dello spirito, come nota G., comincia dalle sensazioni. Ora queste,
secondo che sono piacevoli o no, determinano lo sviluppo dell'attività
dell'anima; suscitano i desiderii che influiscono sulla volontà. Quindi nasce
il problema: in quanti modi l'intelletto influisce sulla volontà? E se ciò che
nel nostro spirito dispone o eccita la volontà all'atto di volere, dicesi
principio attivo della volontà, si domanda: quanti sono i principii attivi
della volontà? E non sono RIDUCIBILI TUTTI AD UN SOLO PRINCIPIO, come sue varie
modificazioni? Elvezio concentra tutti i principii dello spirito nella fisica
sensibilità. Ma, annientata così tutta l'attività dell'anima, e mente; ma non
vede che pertanto in questi casi trattasi d'un impero del volere sul corpo, e
non propriamente sull'intelletto. Tutta questa dottrina dell'influenza della
volontà sull'intelletto è anche negl’Elem. l’uomo riguardato come solamente
sensitivo ed animale, la virtù nei saggi d’Elvezio scomparve dall'universo, e
vi è rimpiazzata da un grossolano egoismo. L'uomo per Elvezio è tutto ciò che
le cause esterne lo fanno essere. Egli rica le conseguenze logiche più rigorose
dal sensismo del Condillac, che uso tutti i riguardi per la morale e per la
religione, ma non ragiona coerentemente al suo principio della sensazione
trasformata. Elvezio parte dallo stesso principio, e ne deduce illazioni che
fanno orrore. Ma, come è falso nella filosofia intellettuale che tutto sia
sensibilità fisica o da essa derivi, com'è falso ridurre il giudizio che è
attività sintetica e analitica, al mero fatto passivo della sen sazione, così è
falso nella filosofia pratica non distinguere dalla passività del senso
l'attività e la libertà della volontà, e non riconoscere l'origine soggettiva
del dovere. Non è vero che tutto lo spirito sia sensibilità; e perciò il
presupposto elveziano è privo di fondamento. Non è vero che i piaceri e i
dolori, che agiscono sul volere, sieno in ultima analisi sempre piaceri o
dolori fisici provenienti da sensazioni; è incontrastabile, che vi sono anche
piaceri o dolori intellettuali provenienti da pensieri. Quindi una prima
divisione dei principii motori della volontà o motivi: desiderii inriflessi,
quelli in cui lo spirito è passivo, e principii riflessi, in cui lo spirito è
attivo. I primi si possono dire anche semplicemente desiderii, gli altri,
ragioni. I principii irriflessi si possono ridurre a sette; appetito fisico (fame,
sete, amor fisico), desiderio della propria eccellenza, curiosità, sociabilità,
desiderio della gloria, emulazione e potere, affezioni. La ragione è principio
d’atti volitivi come principio economico e come principio morale; o , come G.
dice, in quanto esamina ciò che conviene alla nostra felicità, fa il calcolo
dei beni e dei mali, e dirige le nostre azioni a produrre un certo stato
dell'anima; e allora si chiama prudenza ; e in quanto ci mostra il bene e il
male morale, e ci comanda di far l'uno e non far l'altro; e allora può dirsi
ragione legislatrice della nostra volontà. I principii della prudenza sono
quattro: un piacere che ci priva di maggiori piaceri è un male; un piacere, che
ci produce maggiori dolori, è un male. Un dolore, che ci libera da maggiori
dolori, è un bene. Un dolore, che ci produce maggiori piaceri, è un bene. A
questo punto l'autore si propone la questione della libertà, alla quale dedica
la maggior parte del l'opera sua, ma della quale noi ci sbrigheremo in poche
parole. Questa è la parte più vecchia della sua filosofia, e una delle meno
logicamente dedotte dai principii della sua speculazione. In essa egli sente la
forza del pregiudizio come impedimento insormontabile alla visione della verità
più evidente; e ci si vede la sopravvivenza di una vecchia dottrina, che mal si
connette all'organismo del nuovo pensiero; anzi vi rimane aggiunta e giustapposta
come membro morto che l'artificio collochi al posto di quello che manca in un
corpo vivo. Dal suo concetto dell'unità metafisica dell'io, dal suo concetto
delle facoltà come semplici principii costitutivi della natura dello spirito, G.
avrebbe dovuto esser condotto a più elevato e concreto concetto della libertà,
che non sia quello da lui ancora difeso a forza di sottigliezze ingannevoli e
d'illusorii ragionamenti. Egli vede la distinzione tra sensibilità, intelletto,
e volontà, di cui fa tre facoltà distinte, ma pur facendole scaturire
dall'unico io, non giunge a scorgerne la recondita unità. E veramente, separato
l'intelletto dalla volontà, da ciò che v'ha d’umano, di spirituale nella
volontà, non è possibile altro con cetto di questa, all'infuori di quel vuoto
volere, che è il fondamento della libertà bilaterale. Questa è la libertà a cui
giunge G.: la libertà per cui nell'atto stesso che vogliamo [GRICE SCRATCH MY
HEAD], potremmo non volere; quel potere, che non si esercita, e la cui essenza
stessa è di non esercitarsi nel momento stesso che lo sentiamo. Questa libertà
del volere è determinata nettamente dal suo confronto con la necessità del
sillogismo. La coscienza ci attesta, che noi non siamo liberi di tirare o non
da due premesse quella data conclusione, laddove ci attesta il contrario
rispetto ai singoli atti del volere. E siccome [Nella Filosofia della volontà
tutto finisce con la enumerazione di queste leggi. Negl’Elementi invece, tutto un
capitolo è dedicato ai MEZZI PER ESSER FELICE (CF. GRICE, SOME REFLECTIONS ON
HAPPINESS). Quivi fra i piaceri intellettuali si annovera il piacere estetico;
e quindi i passi contengono una breve trattazione di estetica. Elem. La libertà,
io dico, è il potere di volere, o di NON volere un oggetto percepito; Filos. d.
vol.] la coscienza è quel fatto fondamentale, a cui il filosofo deve sem pre
far capo, la sua testimonianza basta a provare la realtà della libertà. Tutti
gl’argomenti contrari non reggono alla critica. Ma negl’Elementi G., prima di
appellarsi al testimonio della coscienza, ricorre a un argomento, che rivela subito
la paternità kantiana. Nella coscienza del dovere e del premio o delle pene che
spettano all’azioni si comprende, egli dice, la coscienza della nostra LIBERTÀ
(cf. GRICE FREEDOM). Non si comandano le azioni necessarie, come non si comanda
ad un sasso il cadere se non è sostenuto (FREE FALL). Le azioni necessarie non
sono riguardate come meritevoli nè di premio, nè di pena. La coscienza della
legge interiore contiene la coscienza della propria LIBERTÀ (GRICE FREEDOM).Il
comando suppone in colui, a cui è diretto, il potere di eseguirlo e di NON eseguirlo.
Devi; dunque, puoi, dice Kant. Non bisogna, del resto, porre G. fra le
anticaglie pel suo concetto della LIBERTÀ (GRICE FREEDOM). L’INDETERMINISMO
ANZI È UNA DELLE CONCEZIONI OGGI ALLA MODA; E NON MANCA IN ITALIA DI
RAPPRESENTANTI; i quali si sforzano di combattere il concetto della direzione
unica ed unilineare degl’atti del volere, ponendo nello spirito un irriconciliabile
dualismo, che lacera internamente l'unità dell'individuo umano, e sta quasi
condizione necessaria, se non sufficiente, della libertà morale. E ancora uno
dei più acuti psicologi che ha l'Italia afferma che il concetto del volere
libero, cioè non coatto estrinsecamente (libertas a coactione), nè
intrinsecamente (libertas a necessitate) è una verità, la quale, sebbene
accanitamente combattuta da molti e sotto molti rispetti, resta sempre inconcussa
per chi, scevro da pregiudizii e forte nelle convinzioni morali, non si lascia
smuovere da’sofismi ne turbare dalle difficoltà. Il vero è, che una questione
mal posta non può aver mai la sua vera soluzione; e potrà sempre far accettare
or l’una or l'altra di due opposte soluzioni. Quella del libero arbitrio è
stata appunto una questione mal posta, per l'indeterminatezza del con cetto del
volere, su cui si fonda. Giacchè, se si determina rigorosamente il volere, è
impossibile escluderne la ragione, e non vedere quindi, che se han torto
gl’indeterministi a difendere la libertas Filos.; cfr. gli Elem. Vedi il lodato
saggio di PETRONE, I limiti del determinismo scientifico, Modena, Roma; cfr .
BOUTROUX, De la contingence des lois de la nature, Paris. BONATELLI, Elem. di psicologia
e logica, Padova]a necessitate, non hanno minor torto i deterministi a
combattere la libertas a coactione: gl’uni perdendosi in una vuota creazione
dell'intelletto astratto, gl’altri rompendo nello scoglio fallace del
meccanismo. E dire che non è mantato chi ponesse bene la questione, e le desse
quindi una soluzione da soddisfare le opposte esigenze e dissipare tutte le
difficoltà! Stabilita, comunque, l'esistenza della libertà morale, si tratta per
G. di risolvere questo problema: esiste un bene e un male morale? E ne chiede
la soluzione, anche questa volta, alla coscienza. L'esistenza del bene e del
male morale, e per conseguenza di una legge morale naturale, è una verità
primitiva attestataci dalla nostra coscienza. Darne una dimostrazione è
impossibile, senza avvolgersi in circoli viziosi, al pari di chi volesse
provare allo scettico l'esistenza e la realtà del nostro conoscere. La
coscienza ci dice che esiste una legge morale naturale, ossia necessaria ed
originaria che si dice dovere: indipendente dalla legge positiva, come
dall'opinione altrui, valida nel segreto dell'anima nostra. Donde viene a noi
la nozione di essa? Chi indipendentemente dalla legge positiva mi comanda di
non uccidere un uomo, di RENDERGLI IL DEPOSITO, CHE MI HA CONFIDATO? È la mia
ragione, la quale comanda alla mia volontà. Son io che comando interiormente a
me stesso. Questo comando non mi viene dunque dal di fuori; ma dall'interno del
mio essere. Il predicato dei giudizii morali è l'idea del dovere; e questa idea
viene da noi, dice il nostro filosofo, non dagl’oggetti. La nozione del dovere,
egli dice anche esplicitamente, è una nozione soggettiva essenziale alla nostra
ragione. Meglio non si potrebbe dire. Altro che rancidume, e idealità
patristica e scolastica! Nessuna più esplicita e più coraggiosa proposizione
avrebbe potuto pronunziarsi in omaggio al moderno, al vero soggettivismo. Soggettivo
il dovere, ma anche essenziale: questa è la giusta definizione non solo del
vero soggettivo, ma anche del vero oggettivo, dopo Kant, quando bene s'intenda.
E nella morale G. riproduce Kant bene inteso, senza esitazioni e senza
limitazioni. Annunziata la soggettività del dovere egli dice con accento di
sincerità commovente. È questa una verità per me evidente, e credo che tale
sembrerà a chiunque vi rifletta di buona fede. Filos. d. Vol. Tutto ciò trovasi
anche negl’Elementi. La nozione del dovere rende la ragione ragion pratica o
legislativa (tutta terminologia kantiana, come si vede). Essa è essenziale alla
ragione, e perciò potrebbe dirsi innata. Ma non sono già innati i principii
della morale, ossia i singoli doveri. Non uccidere: se questo precetto fosse
innato, dovrebbe esser tale anche l'idea d’omicidio, la quale ci viene invece
dall'esperienza. L'uomo è però costituito di tal natura, che la nozione del dovere
sorte, nelle occasioni, dal suo proprio fondo. Insomma, quel che vi ha di a
priori in G., come in Kant, è la forma del giudizio pratico; e la materia è
data dall'esperienza. In che consista il dovere, non è determinato in quella
nozione soggettiva ed essenziale, che costituisce la Ragion pratica. Di a
priori nello spirito e quindi di essenziale nei fatti etici non havvi che il
predicato onde si giudicano le azioni morali: cioè appunto la forma.
Soggettivista come Kant, G. è del pari formalista nella morale. La nozione del
dovere, egli dice, sorte dall'interno di noi medesimi, ed applicandosi alle
azioni che si presentano allo spirito costituisce quei giudizii, che sono
precetti o COMANDI – COMMANDAMENTI o MANDAMENTI. Questi precetti, in
conseguenza, son proposizioni *SINTETICHE*; poi chè essi sono un prodotto
necessario della sintesi della RAGIONE, che aggiunge ad alcuni dati atti liberi
l'elemento del dovere. Questi giudizii, sebbene suppongano alcuni dati
sperimentali, non sono però sperimentali. Essi possono, in conseguenza,
riguardarsi come giudizii A PRIORI. Questa dottrina non ha bisogno di commento.
In essa l'implacabile avversario del Saggio filosofico riconosce la verità del
sistema di quel grande uomo, com'egli lo chiama nella morale, che è Kant, In
varie parti delle mie opere filosofiche, dice nella Filosofia della volontà, io
ho mostrato l'assurdità de'giudizii SINTETICI A PRIORI, , ammessi dalla scuola
di Kant. Ma i giudizii sintetici di cui ho io parlato nelle mie opere di
filosofia teoretica, sono giudizii teoretici, non già giudizii pratici. E negli
Elementi di morale. I giudizii sintetici a priori TEORICI mi sembrano assurdi.
Ma dall'esame profondo della nostra facoltà di volere son forzato di ammettere
i giudizii sintetici A PRIORI PRATICI, i quali son precetti. Mi sembra
impossibile lo stabilire altrimenti la moralità delle azioni. Elem., Filos.
della vol.. Fuori di questo soggettivismo morale G., come Kant, non vede altro
che EUDEMONISMO (alla Grice/Ackrill), o morale dell'interesse (alla Butler),
come egli dice; e questa gli pare soltanto una morale apparente. Quando
s'intende la giustizia come un interesse bene inteso, si finisce
necessariamente col sommettere la giustizia a qualche cosa che non è la
giustizia. Distinguendo l'interesse bene inteso dal male inteso, non si pongono
in opposizione due interessi differenti.Al contrario, si pone in fatto, che non
vi ha che un interesse unico, che l'uomo giusto e l'uomo ingiusto hanno egualmente
in veduta; e che fra essi non vi ha che questa differenza, che l'uomo giusto è
un uomo accorto, e l'ingiusto un imbecille. Ora contro questa concezione morale
militano tre argomenti. La volontà dell'uomo virtuoso differisce intrinsecamente
da quella dell'uomo vizioso. Laddove nella morale dell'interesse la volontà d’entrambi
è unica; perchè entrambi vogliono la cosa stessa: il proprio utile
(UTILITARIAN, FUTILITARIAN). La virtù vera è una dote del volere; e nella
morale dell'interesse, invece, sta tutta nell'accortezza dell'operare; poichè
col cuore più perfido si può saper fare il proprio utile. La legge morale dee
essere assoluta ed universale. Invece la morale utilitaria è fondata sulla
situazione ipotica dell'uomo, la quale, cambiandosi, cambia parimenti nell'uomo
il principio di direzione, e la virtù diviene vizio, il vizio virtù. Sicché la
morale utilitaria è falsa, distruggitrice d’ogni vera virtù si privata che
pubblica. La virtù è causa della FELICITÀ; poichè, se diviene mezzo, cessa di
essere virtù. La morale è essenzialmente disinteressata. La virtù è amabile per
se stessa, indipendentemente dal premio, che la segue. Ma la coscienza di
averla praticata dev'essere un piacere puro distinto dal piacere preveduto dal
premio, ed indipendente da questo. Nella Filosofia della volontà l'autore
sostiene che se il principio dell'utile non può produrre la virtù, nondimeno
può concorrere col principio del dovere a produrla. Non manca tuttavia di
notare che tale concorrenza non impedisce, che l'azione sia prodotta dal
principio disinteressato del dovere; poichè il princi [Filos. d. vol. G. non
ammetto che dall'utile proprio possa nascere l'utile altrui, che l'egoismo,
come ora si direbbe, possa generare l'altruismo. L'uomo nulla può amare fuori
di se stesso se non per se stesso. Fil. d . vol.; Elementi] pio dell’utile in
tal caso toglie solamente o diminuisce gl’ostacoli all'esercizio della virtù.
Sicché, insomma, non è una vera e propria concorrenza. L'azione morale è
effetto unicamente del principio del dovere assoluto e universale, CATEGORICO. Pare
che G. si opponga alla rigidezza razionalistica della morale di Kant; ma in
realtà sono d'accordo nella medesima dottrina. Negl’Elementi l'autore pare
accenni veramente a Kant, dove dice. Alcuni filosofi alemanni hanno preteso che
l'ubbidienza al dovere dee esser l'effetto del puro rispetto della ragione per
la legge, senza alcuna specie di piacere, nè di amore. Una tal dottrina è falsa,
e contraria alla testimonianza irrefragabile della coscienza. Ma egli spiega
così il suo pensiero. Non si dee esser giusto e benefico, per esser felice;
poichè anche quando la moralità non fosse una sorgente di felicità, non si dovrebbe
abbandonare. Ma più la virtù è pura e disinteressata, più vivo è il piacere,
che risulta dalla coscienza di averla praticata. Il piacere unito all'esercizio
del proprio dovere dispone all'azione doverosa la volontà dell'essere
ragionevole. Ma non bisogna confondere le conseguenze di un fine col fine
stesso. L'uomo virtuoso vuole il dovere per se stesso: e questo è il fine
ultimo della sua volontà; egli, in conseguenza, non fa il dovere per lo piacere;
ma il piacere non lascia di accompagnare la pratica del dovere. Ora questa
dottrina è in opposizione a un kantismo mal inteso: al kantismo cui s'allude da
Schiller nel famoso epigramma sullo scrupolo di coscienza. Ma Kant, in verità,
non ammette meno di G. quel piacere che consiste nella soddisfazione che ci dà
la coscienza d'aver adempiuto il proprio dovere; ma come G. tene a distinguere
questo piacere morale consecutivo all'azione virtuosa dal piacere patologico a
cui uò essere ispirata un'azione non virtuosa; ad affermare che il sentimento
morale è conseguenza non principio P. es. nella prefazione alla Tugendlehre
scrive. Ich habe an einem Orte (der Berlinischer Monatsschrift) den Unterschied
der Lust, welche pathologisch ist, von der moralischen, wie ich glaubo, auf die
einfachsten Ausdrücke zurückgeführt. Die Last nähmlich, welche vor der
Befolgung des Gesetzes hergeben muss, damit diesem gemässgehandelt werde, ist
pathologisch, und das Verhalten folgt der Naturordnung; diejenige abor, vor
welcher das Gesetz hergeben muss, damit sie empfunden werde, ist in der
sittlichen Ordnung. Werke (ed.
Rosenkr.); cfr . Krit. pr. Vern.,
in Werke. della moralità. Kant bensì
osserva che il piacere per l'atto virtuoso compiuto e il rimorso per il delitto
presuppone che si sa apprezzare il valore del dovere e l'autorità della legge
morale; ond’è che la legge morale è il fondamento di questi sentimenti, non
viceversa. Si deve essere, dice Kant, almeno per metà di già galantuomini per
potersi fare un’idea di tali sentimenti. Osservazione che mi pare perentoria
contro ogni specie d’EUDEMONISMO (alla GRICE). Sicché, anche per questo
rispetto, la morale di G. riproduce quella del Kant. Nella morale G. si attiene
al criticismo del saggio filosofico. La sua morale, come quella di KANT, è
indipendente dall'esistenza di Dio. All'ateo, con la sola considerazione
dell'umana natura può provare l'esistenza del bene e del male morale, indipendentemente
dalla considerazione dell'utile. Perchè l’ateo, qualora non voglia esser sordo
alla voce della coscienza, non può non riconoscere una legge morale, che gli
comanda di esser giusto e benefico. Giacchè il dovere si conosce per se stesso,
è un elemento semplice di tutte le verità morali, che sgorga dall’intimo di noi
stessi. Le difficoltà d’altri incontrate a dedurre dalla natura umana per sè
considerata la legislazione morale, derivano dalla inesatta e incompleta
comprensione di questa natura; cui si attribuisce solo il principio dell'utile
e si nega il principio morale. Si parte dal principio che nella natura umana
non vi può essere altro principio RAZIONALE d’azione che quello della propria
felicità. Ora qual meraviglia che partendo da un principio insufficiente a
generare il dovere non si giunga ragionando con conseguenza ad una verità
pratica? Anzi, secondo G., l'idea del divino non è sufficiente a spiegarci
l'origine del dovere: perchè una conoscenza teoretica non è sufficiente a
generare un principio pratico. Ma, dice GENOVESI (cf. GRAZIA, FILOSOFIA
ORTODOSSA), LA RAGIONE umana è fallibile: è spesso traviata dal personale
interesse. Eppero i suoi dettami non possono essere norma delle nostre azioni.
E G. replica, che questo scoglio non si evita certo con la tesi dell'origine di
[Cfr. del resto questo passo di G. I difonsori della moralo dell'interesso bene
riguardano il rimorso come motivi, che debbano determinar l'uomo a fare il
proprio dovero. Ma noi sostenghiamo, che l'uomo virtuoso dee fare e fa il
proprio dovere per se stesso, indipendentemente dagl’effetti che seguono dalla
pratica della virtù e da quelli del vizio. Filos. vina della morale. Perchè la
legge morale bisogna sempre che sia conosciuta dagl’uomini; e conosciuta ,
naturalmente, per mezzo della loro RAGIONE. Nè maggior valore ha l'argomento a
cui arrestavasi TAMBURINI (si veda): che non si può concepire legge senza
legislatore. Il legislatore, dice G., è essa LA RAGIONE, in quanto ragione
pratica. Un ultimo punto d'incontro di G. con Kant è il seguente. Secondo il
filosofo italiano è un principio essenziale della RAGION pratica che la virtù è
degna di premio, il vizio è degno di pena: giudizio *SINTETICO* A PRIORI. Ora,
se noi crediamo a questo principio, dobbiamo pure credere all'immortalità del
nostro spirito; perchè l'uomo virtuoso in questa terra non è sempre felice, nè
sempre sfortunato il malvagio. Che il vizio dev'esser punito intanto è
indimostrabile, come che la virtù debb’esser premiata. E indimostrabile, perchè
è un giudizio *SINTETICO*. Ma è legge inalterabilmente impressa nella realtà
del mio essere; è la voce di quella RAGION pratica, che è la legislatrice delle
nostre azioni, e che non ci può ingannare, se la virtù non è nome vano. Uno
stato è necessario in cui quel principio ha il suo valore reale, la sua piena
esecuzione. Inoltre, io trovo nel santuario del mio essere la necessità d'una
ricompensa della virtù e d’una punizione del vizio; vi trovo pertanto la
necessità di un giudice supremo. Vi è dunque un'intelligenza suprema, infinita,
assoluta, che si manifesta a tutti gl’esseri intelligenti. Questo supremo
legislatore e giudice è il divino. È, comesi vede, su per giù , la teoria
kantiana dei postulati della RAGION pratica. Ma G. sente la difficoltà che
s'oppone a una deduzione teoretica da un'esigenza morale, e si domanda:
possiamo noi sulla semplice esistenza delle nostre affezioni in noi, stabilire
la realtà degl’oggetti di esse? Anche al Kant si affaccia un problema simile; e
fa escogitare quella teoria del primato della RAGION pratica sulla ragion
teoretica, che è una vera rinunzia a ogni diritto di vero e proprio filosofare,
e perciò a ogni fondamento filosofico della stessa morale. G. non fa motto di
questa teorica, forse convinto della sua manchevolezza, e tenta ogni via per
distrigarsi dalla difficoltà ravvisata. Ma non pare che le ragioni trovate lo
persuadano bene. Giacchè, infine, Elem. Vedi l’ottime osservazioni di MATURI,
Principii di filosofia, Napoli, si prova a dimostrare l'immortalità dell'anima,
indirettamente, dimostrando che non si può provarne la mortalità. Se pure que
sta può dirsi dimostrazione. Egli dice in sostanza, dopo qualche esitazione. L’esperienza
ci mostra che gl’oggetti delle nostre affezioni sono reali. Ma fra le nostre
affezioni c'è la tendenza alla immortalità. Dunque l'anima è realmente
immortale. Bisogna riconoscere che in generale le nostre tendenze naturali non
sono defraudate del loro oggetto. Una di queste tendenze è la curiosità. E non
possiamo noi forse, dice G., spesso soddisfare la nostra curiosità. Questo
spesso, veramente, guasta, e non poco, l'argomentazione dell’autore; il quale
si contenta di constatare con l'esperienza. Non vi ha alcuna tendenza nel cuore
umano la quale non possa qualche volta raggiungere l'oggetto cui ella tende.
Qualche volta! Dunque l'asserzione dell'immortalità dell'anima non è nulla
d'apodittico. È meramente problematica. Per dirla schietta, il nostro filosofo
è convinto che il domma dell'immortalità importi alla filosofia morale come il
più fermo sostegno della virtù infelice ed un freno potente alla licenza del
vizio. Ma chiuso nel suo sperimentalismo, ignaro degl’espedienti mal fidi del
Kant, non sa fondare teoricamente il suo principio, non sa darne una
giustificazione filosofica. Più filosofo nella sua impotenza degl’odierni
prammatisti, che con la maggiore disinvoltura creano una metafisica per uso e
consumo della morale, quasi che lo spirito ha fine più degno del vero. Quasi
che il bene potesse fare a meno di essere il vero bene. Stabiliti comunque i
suoi principii generali della morale, che sono principii essenzialmente
formali, come tutti i principii soggettivi, si può rimproverare a G. ch'egli ne
deduca i singoli doveri. Ma anche in questo egli s'accorda col KANT, la cui dottrina
della virtù, nella seconda parte della metafisica dei costumi, per quanti
sforzi facesse l'autore di salvare il suo formalismo, è in assoluta
contraddizione col principio formale da cui si vuol derivare. Il formalista
così nella logica come nella morale deve lasciare alla storia il compito di
dare un contenuto alle leggi soggettive, epperò necessarie ed universali, dello
spirito. Certo, con tutti i suoi difetti, che non sono solamente suoi, anche
nella morale G. rappresenta un progresso immenso Elem. della filos. morale,
cap. sui filosofi precedenti. In conchiusione, egli con le sue ispirazioni
kantiane, co'suoi studi accuratissimi su tutta la gnoseologia post-cartesiana
si libera dalle angustie del sensismo e dello spiritualismo dommatico; e inizia
in ITALIA un nuovo periodo speculativo; nel quale il nostro pensiero,
rinsanguato delle idee più vitali della filosofia tedesca, si solleva con SERBATTI
e con GIOBERTI a un'altezza non più toccata da noi dopo i grandi pensatori del
Rinascimento. Galluppi errs in calling natural
semiotics, ‘il linguaggio dell natura,’ since no tongue is involved!” But we
can forgive him for that since he genially realizes, unlike King Alfred, that
one can use ‘dire’, ‘con questo moto del ditto, egli dice al compagno che vada
da B in C” Segno figurato, motto dei bracci quando imito il moto de pesare para
figurar paragonare. – Grice: “Gallupi’s scheme is a complex, and much better
than Locke. He
notes that ‘natural’ can apply to ‘sign’, and it is a natural fact that men
will start using ‘natural’ signs in an artificial way – this he calls ‘natural
sign’ – in that it is already an utterer making the gesture, as when he
sneezes, intentionally. Galluppi has always in mind the dyad, what he calls il
‘compagno’ – so he plays with fifty variants on a theme. A makes a gesture –
with the finger, with the arm --. Galluppi speaks of the ‘proposizione’ being
communicated even in these cases – a ‘grido’ is equivalent to the proposizione
that the compagno is to ‘turn his attention towards the utterer’ – In the
‘natural’ sign, as used in communication, we are already in the realm of the
artificial – only a black cloud naturally means rain – Galluppi hardly dwells
on a ‘grido’ signifying pain in a natural way. He notes that we progress. And
he keeps looking for the reasons in the utterer and the addressee for all this.
So like me, he looks for a motivational rationale – a ‘semantic’ freedom – or
‘prammatica’ as he would say. Since he is an illuminista, he is only concerned
about this in terms of a minimal taxonomy of signs. So between the signs used
in communication he distinguishes three types: the imitative, the indicative
(different criteria) and the figured sign – not figurative – ‘segno figurato’ –
when a lot of pantomime takes place. It is only THEN that he explores the
arbitrariness: one loses one’s compagno, and utters, “Where are you?” – so
since this worked, they agree that ‘Where are you’ will mean, “I lost you –
where are you?” --. And then we have a full lingo – or semiosis. He rightly
thinks that his is an improvement over Lucrezio!” Pasquale Galluppi. Galluppi. Keywords: gesto, grido, gemito,
moto del ditto, dolore, causa del dolore, circustanza, segno naturale, segno
istituito, segno commune (istituito per la comprensione mutua), segno
arbitrario, segno artificiale, segno imitative, segno indicatore, segno figurato,
segno analogico, segno figurativo -- gesto della mano, lo sguardo, communicare,
sentire, volere, Gentile, il canone nella storiografia filosofica italiana –
Gentile su Galluppi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per
Il Club Anglo-Italiano,The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Grice e Galvano: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’arte naturale – filosofia torinese
– scuola di Torino – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Torino). Filosofo
torinese. Filosofo piemontese. Filosofo Italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I
like Galvano; he has philosophised on aesthetics, on ‘spirit and blood,’ and on
polytheism, citing Sallust!” Frequenta la scuola a via Galliari, animata da Casorati. Fonda L'Unione Culturale di Torino. Promuove
il “Movimento Arte Concreta” – cf. Arte Astratta Insegna all’Accademia Albertina.
Dizionario Biografico degl’Italiani. FONDAZIONE
GIORGIO AMENDOLA E ASSOCIAZIONE LUCANA LEVI Mantovani Motto G.
Fare, pensare, vivere la pittura"i Pmm gr s m dz de
2zpA—A_t} PA "o Saggi di MANTOVANI MOTTO BOTTA OLIVIERI G. Fare,
pensare, vivere la pittura Aver puntato il senso della propria vita sui
segni e sui colori sarà stata magari una puntata inutile ma non elusiva e
non insincera G.] FONDAZIONE AMENDOLA AssociaziIoNE LUCANA IN
PieMONTE Carto LEVI MOSTRA D'ARTE DI G. Torino presso la Sala
Mostre dell’Associazione Lucana Levi e della Fondazione Amendola Con
il Patrocinio di Con la collaborazione di REGIONE CONSIGLIO wc I GALLERIA TORINO
olii MIN FEONIE DEL PIEMONTE att Sen DEL PIEMONTE Quello è
stato un biennio segnato dalle notevoli difficoltà imposte dalla pandemia
da Covid-19. Alla luce delle molte restrizioni, la Fondazione Amendola ha
cercato, nel limite del possibile, di proseguire con le proprie attività
di divulgazione e promozione culturale adattando spazi e metodologie alle
esigenze del periodo, rispondendo all'emergenza coronavirus con
iniziative dinamiche e creative, passando per la fruizione digitale per
permettere agli utenti di restare a casa, come le disposizioni
prescrivono, senza perdersi dei contenuti culturali. Sotto questa
prospettiva e, nonostante le molteplici difficoltà, il lavoro svolto per
ricordare l'artista torinese G. è stato importante. La Fondazione Amendola
ha ritenuto opportuno offrire alla città di Torino e non solo, la
possibilità di accedere gratuitamente all'incontro con l’opera artistica e
intellettuale di una delle figure di spicco del panorama artistico
italiano della seconda metà del novecento. L'iniziativa, di rilievo
nazionale, ha permesso di raccogliere artisti e intellettuali di tutta Italia
che hanno collaborato con G. e che tuttora ricoprono un ruolo
fondamentale nella produzione culturale del nostro Paese. Cerabona
Presidente della Fondazione Amendola Studi, Convegni, Ricerche della
Fondazione Amendola e dell’Associazione Lucana Levi Presidente
Fotografie delle opere PROSPERO CERABONA CORONGI Curatore mostra e
catalogo Direttore Responsabile MANTOVANI CERABONA Scritti di
Redazione MANTOVANI, MOTTO, BOTTA, ADRIANO OLIVIERI DOMENICO CERABONA, FERRARI Progetto
ed allestimento MANTOVANI MOTTO, IL RINNOVAMENTO Fotocomposizione EDITRICE
IL RINNOVAMENTO Ente promotore Fondazione Amendola VIDEOIMPAGINAZIONE
GRAFICA DI TESTI E IMMAGINI Associazione Lucana in Piemonte Levi VIA
TOLLEGNO TORINO Si ringraziano per il prestito delle opere e la collaborazione:
Galleria del Ponte (Torino), Civica Galleria d'Arte Contemporanea Filippo
Scroppo (Torre Pellice), Stefania e Testa, Liliana Dematteis, la famiglia
Maggiorotto e tutti gli altri prestatori che hanno preferito restare anonimi.
Si ringrazia Barzan per la realizzazione delle docu-interviste. G. e la
pittura Mantovani G.: la fedeltà alla pittura Motto Da discepolo a
interprete. G. e Casorati Botta Gli occhi fervidi e il sapore di
cenere. G.: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Olivieri Opere esposte ARTE
DI VENEZIA GATMAZH TEAOZ GANATOZ XXVI: ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D
G. BIENNALE Foto Giacomelli - Venezia FOTOTECA
ASA. G. e la pittura. Mantovani Da pittore, G. pone tre
livelli d’indagine; come qualsiasi artista intelligente, se non fosse
che, nel caso suo e di non molti altri, i tre livelli si presentano
specialmente complessi e coltivati con consapevole separatezza e problematica
interconnessione: Il primo livello comporta chiedersi che
pittore G. sia stato e, ovviamente, interrogarsi sulla specie e
sulla qualità della pittura (delle pitture) che ha messo in opera nel
lungo percorso, sicuro e tortuoso, che lo ha impegnato pressoché
ininterrottamente. Il secondo livello comporta mettere a fuoco la
concezione (le concezioni) ch'egli ha elaborato della pittura, in quanto
da critico (e autocritico: nella sua scrittura, l’autoritrattoè un vero e
proprio genere!) si è occupato dell’arte, in particolare della pittura,
conuna intensità, una pervicacia, una curiosità sempre sveglia,
direi aggressiva, in un'epoca provocatoria e insieme minacciata dalla
condiscendente banalizzazione. Ma, forse, il nodo più difficile da
sciogliere è quale rapporto ci sia tra il praticante pittura (è questa
l’arte scrive di sé della quale
ab- biamo, bene o male, una qualche esperienza vissuta e non
crediamo se non ai discorsi che nascono da questa esperienza”, dove si
radica anche la militanza del critico) e il teorico che usa gli strumenti
del filosofo, dell’antropologo, dello psicanalista, dello storico (da
competente, eppure mai imprigionato dallo specialismo? e anche meno
dall’appartenenza) Si può daffermare che ogni suo scritto è occasione per
una autoanalisi. Come, d'altra parte, che l'autobiografia non è mai cronaca
contingente, invece occasione per andare oltre la cosiddetta evidenza dei
fatti, per indagarne radici e proiezioni. G., La pittura, lo spirito e il
sangue, in “Tendenza” Torino, in G., La pittura, lo spirito e il sangue,
a cura di Mantovani, Il Quadrante, Torino; G., Diagnosi del moderno, a
cura di Ruffino, Aragno editore Torino. Gallino, in AG., Atti del
Convegno, Torino a cura di Pinottini. Bulzoni editore, Roma: "Se l’eclettismo
diventa una condizio- ne dell'esercizio dell’arte, è anche la
qualificazione dello status dell’intellettuale, che, in ogni specifico
ambito d'indagine, è sollecitato a non perdere di vista la visione d'insieme
dei problemi. La polemica di G. contro la specializzazione, quale
esclusiva procedura del sapere, risponde a tale regola metodologica.
In- dubbiamente, in ogni attività culturale, è necessaria una
partico- lare competenza, ma, al di là del suo confine, s'impone l'esigenza
del controllo unitario dei suoi esiti e delle sue interpretazioni”. Ruffino,
(Com)plessi galvanici, introduzione a Diagnosi del moderno, cit.,: “Contro lo
specialismo, ... G. sferra una controffensiva senza tregua e a tutto campo: sul
piano pratico, opponendo al tecnicismo la tèchne (nel suo caso quella
pittorica); sul piano morale, opponendo alla provvisorietà della posa il
rigore della presa di posizione (ma mai irrigidita in partito preso); sul
piano estetico, opponendo ai miraggi di progresso illi- mitato espressi
dal Funzionale le ragioni dell’Organico, capace di suscitare creazioni
vive. Interessato “da una parte all'eredità del tardo romantici- A. G. con
Mariacarla e Pino Mantovani, Racconigi per affrontare la pittura, alla quale
riconosce una singolare centralità. Tutti questi temi mi
hanno per decenni accompagnato e sollecitato. I miei primi interventi su
G. pittore risalgono, la presentazione ad una personale presso la Maggiorotto
di Cavallermaggiore, seconda di una serie dedi- cata ai protagonisti del
MAC torinese; ma già nel marzo dello stesso anno avevo tracciato, con
la collaborazione dei miei allievi in Accademia, un quadro della
pittura degli anni Cinquanta a Torino nel Museo Civico di Casa Cavassa a
Saluzzo’, sulla falsariga delle indicazioni che Galvano aveva for-
nito a T. Sauvage? per una storia ancora regionale dell’arte italiana nel
Dopoguerra; e sul catalogo della mostra Arte a Torino, nel smo e del
decadentismo: Mallarmé e Bergson, ‘esoteristi e filosofi della vita’,
psicanalisi ed esistenzialismo, dall'altra alla severità dello storicismo
crociano e all'esempio del rigoroso metodo critico negli studi di storia
dell’arte Lettore di Klages, di Jung o di Guénon, ma anche studioso di
Kant e di Hegel (G., Perché non possiamo non dirci crociani, in “Numero. Attento
a Freud come a Jung. Curioso delle storie, nel tempo e nello spazio,
pronto a coglierne, nella comune umanità, le differenze e le istruttive
potenzialità. 5 Pittura a Torino, a cura di G. Mantovani, catalogo
della mostra, Museo Civico di Casa Cavassa, Saluzzo. Sauvage (pseudonimo
di Schwarz) Pittura italiana del Dopoguerra; Ed. Schwarz, Milano, il
testo fu ripubblicato con integrazioni e il titolo La pittura a Torino in
“Letteratura”, Torino, successivamente in A. G., La pittura; e G.,
Diagnosi. Arte a Torino, a cura di Bandini, Mantovani, Poli, catalogo
della mostra, Torino salone d’onore
dell’Accademia Albertina, dedicavo a G. l’intervento, anche oltre gli
anni definiti nel titolo. Mi trovo, pertanto, a incrociare in queste
pagine scritti pubblicati in un arco di tempo di circa quarant'anni, con
il proposito, spero non solo narcisistico, di organizzare in di-
scorso unitario contributi sparpagliati e spesso di non facile
reperimento. Proprio dalla presentazione Maggiorotto poi variamente
elaborata per occasioni ulteriori dedicate appunto al MAC, come il
catalogo per la esposizione del MAC torinese sempre curata dalla Maggiorotto
alla Expo Arte Fiera Internazionale di Arte Contemporanea di Bari, la
presentazione del catalogo Albino Galvano, Proferio Grossi, Luiso
Sturla, Artecentro, Milano, fino al saggio sul movimen- to torinese
nel volume per la mostra MAC/ESPACE TORINO È VIa S. GIULIA TORINO
Pre. PARISOT |F. SCROPPO Bollettino «Arte Concreta.
all’Acquario di Roma—mi parlogico cominciare, non tanto perché uno
dei primi approcci al tema allora potevo
anche contare sul rapporto diretto con Galvano, ma devo dire che la sua
disponibilità non era invasiva e tanto meno arcigna rispetto alle
inter- pretazioni che venissero proposte del suo impegno quanto perché vi
si pongono i fondamenti del mio interesse per l'artista /critico /
filosofo. L'incipit che sceglievo allora mi pare sia ancora il migliore
possibile; non mio, intendiamoci, invece proprio di Albino che
Il saggio e rielaborato come prefazione a G., La pittura, lo
spirito e il sangue, cit. Mantovani, Pittori concreti a Torino, in
MAC-ESPACE - Arte concreta in Italia e in Francia, a cura di Canani
e Genova, catalogo della mostra, l'Acquario Romano, Roma, ed Bora,
Bologna. così aveva concluso un asterisco sul Bollettino “Arte
Concreta; “E scopriremo che è un programma [quello del MAC le
cui premesse erano già nei romanzi dei tempi della nonna? Tanto meglio,
almeno avremo evitato l'equivoco più antipatico che grava sull'arte
astratta: che si tratti di cosa moderna 0, peggio, d'avanguardia.
Una fulminante risposta al nemico Borgese che sul Corriere della Sera,
aveva definito A’ rebours di Huysmans, un romanzo, fonte peraltro di
tuttele velleità estetiste dell'avanguardia: fornendo unovvio spunto
polemico non saprei quanto consapevole, nel caso addirittura masochistico
a chi da anni si occupava del rapporto tra le cosiddette
“avanguardie” ela linea dal Romanticismo al Simboli- smo; ma anche agli
amici di Milano che si riconoscevano nel programma di Sintesi delle Arti
pubblicato nello H | FIL sintesi allo
studio b 24 dal 21-2 al i: se ? i fi
5 5! È s7 A. G. riproduzione di Verso
Occidente, Biennale di Venezia stesso Bollettino, che prevedeva “il diretto
concorso di tecnici e artisti, sul piano della stretta collabora-
zione, per il raggiungimento finale d’un concreto il quale aderisca alla
funzione in armonia di colleganza fra il mondo della forma, lo spazio e
l'applicazione pratica dell’opera collettiva”! viva il design, la
grafica e l'estetico diffuso, dunque. Come non bastasse, G. conclude
l'asterisco citato rigettando qualsiasi attualismo:” Che bel giorno
quello in cui potremo lavorare in pace al compito che la storia ci ha
affidato, certi che nonè sulla misura della contingente attualità L'asterisco,
cioè l'osservazione, la messa a punto marginale è il contributo che
Galvano sceglie per intervenire criticamente liberamente sui Bollettini
del MAC (e altrove). 11 E Passoni, Le arti e la tecnica, Arte
Concreta, ried. anastatica, a cura della galleria Spriano, Omegna. che il
nostro lavoro verrà giudicato! Il fatto è che G. non intende escludere
tutta la complessità di rimandi e proiezioni, soggettivi ed oggettivi,
che i linguaggi dell'immagine specialmente quando non siano troppo
condizionati da tecniche o ideologiche motivazioni si portano dietro e
dentro, e che, del resto, la cultura moderna indaga con particolare
impegno e analizza con rinnovata strumentazione, mentre altri linguaggi
dell’immaginario—la poesia, la narrativa, lamusica stanno sperimentando a
tentoni forme “nuove” (o vecchie !? o antiche, al punto d’essere originarie.
Neppure, d'altra parte, egli intende abbandonare la pittura come
linguaggio specifico, proprio quella tradizionale (tela, carta o
qualunque supporto piano, disegnoe colore, gesti e tracce a formar
figure); per quanto metta in conto uno spostamento dall’iconico
all’aniconico, dal descrittivo all’evocativo, dall’allusivo
all’emblematico, dal geometrico al rit- mico al gestuale; ciò che non
precluderebbe peraltro “la possibilità di uno scambio e di una
penetrazione sempre possibili nell'esercizio di una lettura
figurativa per elementi, segno, colore, movimento, materia ecc. Confessiamo
di essere segretamente d'accordo con Borgese [quando invita a rileggere A’
rebours]. Perché l'essere agli antipodi [delle scelte di Huysmans e delle
preferenze in pittura del suo eroe Des Esseintes] è troppo vitalmente
legato a ciò che rifiuta per non riprenderlo su di un piano meno esterno:
e le citazioni dalla Blavatzky e da Steiner del Kandinsky della
‘Geistige’, l'appartenenza a circoli teosofici di Mondrian giovane, il
fatto che uno dei primi scritti italiani sull'arte astratta sia di J.
Evola sono ben significativi di un rapporto ambivalente — di rifiuto per
la ca- rica letteraria, moralistica o immoralistica, del simbolismo
speso alla spicciola nell’allusività delle immagini e della messa in
scena, e insieme di accettazione di quel gusto di allusioni e suggestioni,
di segrete corrispondenze tra immagini e speculazioni che nelle sue due facce:
sensualmente umbratile l'una, simbolicamente intellettuale l’altra hanno
ostinatamente tentato di aprirsi una strada — sia pure affidandosi alla
romantica barca ‘ebbra’- dalle varie forme di resa alla prosasticità del
realismo”. Ancora dall'asterisco citato di G. in “Arte concreta”. Azzardo
un'ipotesi (certo suggestionato dal recente catalogo della mostra La
regione delle Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini, Elec- ta, Milano, in
particolare dal saggio di Bracalente, Licini oltre la geometria: una
primordiale genesi del mondo): che Galvano non abbia ignorato “Valori
primordiali”, e in particolare l’opera di F. Celiberti, anche lui
proveniente da studi di storia delle religioni, tanto importante per
Licini proiettato dalla fine degli anni Trenta oltre la geometria,
specialmente nell’incrocio tra teosofia, esisten- zialismo e
fenomenologia (Paci e Banfi), e per comuni interessi per Spengler,
Klages, Guénon ... e per l'alta poesia romantica. Dipingere con colori e
pennelli ... è stata una costante del mio lavoro nei suoi vari cicli,
anche quando come spettatore ho pregiato e difeso esperienze varie e
opposte. Ma è certo che, se è venuto via via recuperando alla mia
pittura quell’attaccamento alle gidiane nourritures terrestres che
confessa- vo in un altro mio scritto, nei quadri qui presentati esse
hanno perso ogni ghiottoneria che non sia quella dell'occhio contemplan-
te: in bocca è solo sapore di cenere. Ciottoli, fossili: l'eco della vita
in ciò che non ha vita o non l’ha più. G., Autopresenta- zione della
Personale, Piemonte Artistico Culturale, Torino). Libretto di
iscrizione a magistero. non diversi da quelli che consentono la
valutazione di ogni buona pittura”! Perfino le ‘’ giuste ragioni”
concesse ai concretisti milanesi sembrano far parte di un gioco alquanto
provocatorio, portando il discorso dal livello tecnico a quello culturale
ed etico, di una eticità sempre esposta, in un certo senso negativa
(“demoniaca”, nella cultura occidentale, di radice inevitabilmente
cristiana anche nella più spinta laicità). Firmando con Biglione,
Parisot e Scroppo quello che a ragione o a torto è considerato il
manifesto del movimento torinese, G. aggira gli ottimistici programmi
dei milanesi, espressi nei manifesti dell’ Arte Organica, del
Macchinismo, del Disintegrismo, dell'Arte Totale!’ che sanno ancora tanto
di Futurismo, e dichiara che carattere essenziale nella scelta dei nuovi
adepti è la “responsabilità liberamente assunta sul limite più
impegnativo ... di lotta contro ogni conformismo e pigrizia
intellettuale” nel campo della pittura come in diversa applicazione
estetica e pratica, senza compromessi e “senza pudore”. Il fatto è che G.
(e G., presentazione della collettiva, Bordoni, G., Jarema,
Parisot, Scroppo, Galleria del Fiore, Milano Cfr. “Arte Concreta L'unico
atteggiamento ragionevole è quello di lavorare attendendo colla sincerità di
chi sa che lo spirito ama le posizioni estreme ed attive , non i
compromessi”. (G., L'evasione, in “Il Selvaggio”, 15 gennaio 1940,
ripubblicato in G., Diagnosi del moderno (cur. Ruffino). con lui Parisot, Scroppo,
Montalcini, Biglione e Carol Rama, per nominare tutti i torinesi che
aderiscono più o meno convinti al MAC)ha dietro le spalle una ventina
abbondante d’anni di lavoro non ovviamente mirato allo sbocco astratto.
Basta pensare alla frequenza orgogliosamente esibita fino
all'ultimo della scuola di Casorati (sul quale elabora un importante
saggio che punta non poco sulla stagione simbolista sull'argomento si
rimanda all'intervento in questo catalogo di Botta), al rapporto
con il neoimpressionismo dei Sei, in va- riante espressionista; al fatto
che egli medita, continua a meditare sul significato e sul valore della scelta moderna”,
essenziale, inevitabile, ma problematica nelle ragioni, nei modi, negli
obiettivi; infine, che ha una formazione teorica e storica — aggiungerei
una struttura psicologica ed una educazione — che non gli
consentono di utilizzare a cuor leggero la strategia del manifesto, di
ascendenza futurista, e in genere le dichiarazioni programmatiche!8: una
questione di carattere e di stile oltre che di metodo e di cultura.
Del resto, G. affronta il tema in testi antecedenti di alcuni anni, ne
utilizzo uno in particolare: La pittura, lo spirito e il sangue”,
che uscì nel 1946 sul primo ed unico numero della rivista
“Tendenza”, nell’ambiziosa prospettiva dei direttori responsabili — lo
stesso G. ed Oriani — Rivista mensile di Arti figurative. Certo esistono
di G. saggi più importanti come quelli che elenco innota?°, dove il
tema è affrontato con argomentazioni analitiche e storicamente complesse,
ma continuo a trovare snodo esemplare nella vicenda dell'artista il
brevesaggio citato. Anche la data è importante, a guer- Il dubbio, lo
scetticismo, l'ambiguità come tensione fra op- posti sono fondamenti del
suo metodo, che non è irrazionale, invece di un razionalismo critico che mai
cede allo schema ideolo- gico o alla rigida consequenzialità. Nonacaso
ho scelto il titolo del saggio come titolo per la citata Antologia di G.,
edita dal Quadrante, Torino. Diversi saggi di grande respiro, G. pubblica negli
anni immediatamente successivi alla seconda Guerra mondiale. Elenco in
ordine cronologico quelli ripubblicati sull’Antologia citata,
consenziente l’autore: Aspetti del problema estetico dell’esistenzialismo, Atti
del Congresso internazionale di Filosofia, Castellani e C ed., Roma; L'esistenzialismo, a cur. Castelli ZUBIENA
(si veda), Milano; Storicità e significato dell’arte “astratta”, in Archivio
di filosofia”, Milano, “Galleria
di Lettere ed Arti; Medioevo e Romanticismo, “Questioni” n. 2, 1955; Vita e
forma in alcune ricerche di estetica contemporanea, Atti del IIl
Congresso In- ternazionale di Estetica, Venezia 1956, edito dalla
“Rivista di Esteti- ca”, Torino 1957; Le poetiche del simbolismo e
l'origine dell’Astrattismo figurativo, Studi in onore di L. Venturi, Roma.
All'elenco si aggiungono i saggi pubblicati in successive occasioni: in
partico- lare sul catalogo della Antologica postuma: Omaggio a G., a cura
di Fossati, Garimoldi, M. C. Mundici, catalogo della mostra, Circolo
degli Artisti, Torino e, con scelta assai più ampia ma ancora lontana dalla
completezza, sulla recente antologia: A. Galvano, Diagnosi del moderno,
cit. ra appena finita; come significative le collaborazioni, che
elenco per segnalare la ricchezza e la varietà dei contributi, intesi a
coprire in tutta la loro estensione le cosiddette Arti figurative: C.
Mollino e U. Mastro- ianni, Monumento ai Caduti per la liberazione
d'Italia; R. Chicco, ... et le tableau quittè nous tourmente et
nous suit; I. Cremona, Dal cannone alla Secessione; A. Dragone, Disegni,
acqueforti e acquerelli di Bozzetti; Oriani, Costa; Mollino, Gusto
dell’Architettura organica; O. Navarro Il messaggio della cultura;
ancora G., Woyzeck di Biùchner, Oriani,
Breve discorso su due films di Cocteau. Aggiungo e non è un dato
secondario—dopo una pagina redazionale, quindi d’Oriani che proviene
dall'esperienza futurista” e dello stesso Albino “che proviene dal
purismo casoratiano e dal neoimpressionismo venturiano”, dove si
rivendica, dalle due parti inconciliabili (ma l’inconciliabilità è segno
di forza, di utile tensione) la gratuità dell'atto creativo rispetto alla
riflessione critica, e l'autonomia del giudizio critico rispetto
alle generalizzazioni dell'estetica, in un tempo storico che
minaccia di deludere chi aveva sperato che la fine del regime politico e
culturale comportasse il recupero pieno della libertà e la sua pratica
esplosiva. L'avvio del saggio è forte, al solito compromesso, e
ancora una volta lo propongo. L'appello della pit- LA PITTURA, LO SPIRITO
E IL SANGUE L'appello della pittura risuona dal profondu del nostro
sangue ancora con quell’urgenza —
come nei quindici anni quando sostituiva in camuff:imenti impegnati
sino alle estreme ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi o
i presentimenti sessuuli. Ma le vie dell'Eden sono perdute, e sarà vano
lo sforzo di ricostruire un itinerarioche approdi al- l’innocenza
d'allora, che vi riscatti la sin troppv chiara coscienza del carattere
composito e compro. messo di ogni atto umano che non sia di
rinunzia: il peccato fondamentale dell’arte. Invano da anni l'estetica
crociana, non per nulla irritata coll’uomo pascoliano troppo chiaramente
preanunciante le scoperte freudiane {e contro Freud i erociani si
armeranno della più ipocrita in- comprensione) cerca di riprendere e di
legittimare, con la sterilizzata convinzione del carattere « teore.
tico» dell’arte, il troppo scoperto alibi kantiano del « bello come simbolo del
bene morale. Credo siu venuto il momento di confessare schiettamente che
il bello, proprio questo bello artistico che ci brucia sin dalla
giovinezza ogni possibilità di rassegnazione e di conformismo, è
piuttosto il simbolo del male morale. Tanto, anche eticamente. dla questa
franchezza non perderemo nulla. Soltanto Nietsche ha insistito con
sufficiente chiarezza su questo carattere, profondamente vitale e perciò
profondamente « immorale » dell'attività artistica: contro il quale assai
poco mi paiono va- lere le due obiezioni che implicitamente o
esplici- tamente vengono mosse dagli idealisti e dagli spiritualisti. Se
per i crociani ma credo che in GENTILE (si veda) l'implicita ammissione,
inevitabile data l’identificazione di arte e sentimento e
l’inseparabilità dell'agire dal conoscere, di quanto sì è detto,
fosse più che sospettata dall'autore anche se la reto. rica di cui
sempre fu ammalato gli impedì di ammetterlo in termini chiari; che tuttavia non
mancano nei più diversi fra i suoi seguaci o avversari- seguaci: dal
primissimo ABBAGNANO (si veda) disciogliente tatto il reale in
irrazionalità, appunto con una reductio ad absurdum dell’attualismo, ad EVOLA
(si veda), a SPIRITO (si veda) se per i crociani, si diceva, la
scappatoia di ridurre l’arte a pura conoscenza, giocando sul doppio ruolo
confuso insieme del- l’« intuizione » permette di evitare lo spinoso problema,
i recenti spiritualisti ma anche fra di. loro Stefanini, ad esempio,
ammettendo una insufficienza dell’arte alla vita pur nella auto- ì enza
in ordine al proprio valore peculiare, finisce collo svalutare moralmente
l’arte candidamente invece sermoneggiano sulle comuni radici del bello e
del buono (nel secolo scorso queste niaiseries di solito avvenivano su di
uno sfondo ontologistico vagamente giobertiano, oggi lo gnoseologismo
idealistico generalmente è rispettato anche dagli spiritualisti che
dell’idealismo dovrebbero esser avversari) e ci avvertono che il tormento dell'urtistu
che insegue con il diuturno lavoro il fan- tasma che sempre gli sfugge è
profondamente morale! ; Dio volesse che fosse veramente così. E che
si potesse sul serio sperare che all'artista, dopo la conquista su
cui ha tutto giocato, della propria immagine, fosse anche riservato per
soprappiù il paradiso delle religioni e delle etiche! Sarà
meglio invece guardarci chiaramente in faccia e chiederci se veramente per il
puradiso provvi. sorio della bellezza non giochiamo la salvezza
della nostra anima ammesso che
«questa espressione abbia un senso: quello cristiano, + quello di
una etica laica ma generalmente è cripto-cristiana anch'essa
riconoscere per che cosa abbiamo scommesso; chè le conseguenze del nostro
pari atiche se lo avremo perduto non
diventerunno duv- vero peggiori per quest’atto di franchezza.
Rimane inteso che su questa rivista, che non è dedicata a studi
filosofici, non potremo farlo che sotto l'angolo della pittura; ma poichè
è questa arte della quale abbiamo, bene 0 male. una qual che
esperienza vissuta e poichè d'altra parte non crediamo se non ai discorsi
che nascono da questa specie d'esperienza, la cosa non sarà fuori
posto. La coscienza rimane inquieta. E poichè sente che tutto
nel problema implica la discussione delle RAMA Disegno Da «Tendenza,
disegno di Rama. tura risuona dal profondo del nostro sangue ancora
con quell’urgenza come nei quindici anni
quando sostituiva in camuffamenti impegnati sino alle estre- me
ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi o i presentimenti
sessuali”. Geniale, perché collega direttamente, intimamente la pittura
(ma in genere i linguaggi creativi) alla natura, al sangue appunto,
affermando “il carattere profondamente immorale dell'attività artistica”
già sostenuto da Nietzsche, negato o perlomeno arginato invece da
Idealisti e Spiritualisti; e insistendo sulla presenza di una
volontà non risolta nella pura contemplazione, né risolvibile, dato ilsuo
orientamento verso l’immagine. La cosaè particolarmente evidente nelle arti
figu- rative e la multiforme e aperta a direzioni divergenti
attività ne è il paradigma. Ed è appunto ciò che è sfuggito
all’idealismo, a causa della artificiosa distinzione di teoretico e di
pratico, come al confusionismo attualistico che confinando l’arte nella
sfera dell’immediato sentimento cade di fatto in un troppo
semplicistico naturalismo. La distinzione fra teoretica e pratica è certo
valida, ma all’interno di ogni singolo atto spirituale nella sua
integrità, ché la vita spirituale presenta questi due aspetti come facce
sempre distinte, sì, ma sempre inseparabili. Conclude G. (e
in questa direzione trova sostegno nella fenomenologia di Alain?!, ne
“L'Immaculée Conception” dei surrealisti e in Breton, più che nella
poetica di Valery, almeno quando troppo insiste sul pieno controllo
cosciente dell'artista nell’elabora- zione dell’opera): ‘Qui bisogna
pensare ad una volontà tutta inconscia, individuante e non ancora
individuata (come Schopenhauer presente) e ad unopposto momento
rappresentativo che solo giustifi- ca il valore estetico dell'immagine
raggiunta negando nel sogno l’ebbrezza del movimento fisiologico.
Con un salto di parecchi anni, de La pittura, lo spirito e il
sangue ad una autopresentazione Utilissimal’ampia citazione in proposito
da uno saggio inedito di G., riportata da Garimoldi G.: progetto di una nuova
cultura, in Omaggio a G. In Alain ovvero Chartier] l'accento cade molto
più che nell’estetica idealistica, sul momento del fare che su
quello del conoscere , e sulla resistenza del mezzo sentita come
condizio- ne positiva ed essenziale al sorgere del fantasma artistico,
fanta- sma che non sarà più un'immagine al tutto congiunta a priori
ad una materiale estensione che la traduce, ma che sorgerà insieme
all'atto di esecuzione e che soltanto a posteriori rispetto a que- sto
avrà la sua concretezza. L'opera non nasce nella testa o nel cuore,
nell’intelletto o nel sentimento, per poi essere realizzata nella pietra
o sulla tela, ma, direi, nel vivo pulsare del sangue al polso quando
questo gioca le resistenze e le tensioni, gli scatti e le flessioni del
pollice e della mano nell’urto con il resistente ma- teriale. La scultura
e la pittura sono meno la realizzazione visiva di un'immagine mentale che
la materiale traccia lasciata da un gioco di ritmi fisiologici. È in
particolare Merleau-Ponty (AUSTIN HATED HIM – GRICE – after Royamount_ a
sviluppare il tema, per esempio negli studi dedicati a Cézanne.
lino Vieeate colla (o crlize pus (olenda, cuni (aza sr net&uk'
a fr suina und la gut rin % NAM (dA Pene più 0 me0 Ara la rr tn he
Ut forata ME TISHOI: RE Peas LA LALA Les al caso TU
fi e fa dii Lo val poco comi pila est; ua dn AA
Prima pagina della lettera di A. G. a Adriano Villata. — scritta a mano
“quasi si trattasse di una lettera destinata solo all'amico [il “Caro
Villata”, gallerista], nella quale ci si può confidare e divagare
come l'umore o la nostalgia suggeriscono” —, G/ ritorna sul rapporto fra
il concepire e il fare, tra il fare e il decodificare il senso in più o
meno risolutive lettere; ancora una volta mettendosi in gioco, ma senza
alcuna intenzione di assumere valore esemplare o chiedere scusa 0
simpatia, esponendosi in tutto lo spessore di sensibilità e intelligenza,
di impossibilità (a meno che non si scelga o si accetti la rinuncia) di
sottrarsi all'impulso profondo. E anche senza compiacimento
narcisistico: ci si esprime non per coltivare l'emozione ma per darne
testimonianza e, per quanto possibile, esporla a sé e ad una analisi non
priva di crudeltà, comunque oggettiva. È interessante seguire il
filo del discorso, che nella scelta del tono dimesso non è meno
teso del solito. Prima motivazione del movimento pendolare tra
pittura e scrittura, così esposto al giudizio e all’ironia dei colleghi
dell'una e dell'altra banda: l'appartenenza “ad una generazione [quella
di Cremona, di Maccari, di Mollino, per restare tra amici] e ad un
ambiente Ripubblicata in G., La pittura, lo spirito e il sangue.; e in G., Diagnosi del moderno, cit.,
All'inaugurazione di una sua personale. in cui questo male, se
male, era quasi una ragione d’orgoglio. Era la generazione dei nati all’inizio
del secolo, che raccoglieva dai protagonisti del rinnovamento dell’arte
(secessionista o avanguardistico, rappresentato per Albino, in primo
luogo e per sempre, dal maestro Felice Casorati), una eredità che era
non meno di esperienza materiale che di elaborazione intellettuale,
un atteggiamento aperto, anzi tentato da molteplici contraddittorie
curiosità e linguaggi espressivi (ma il quasi suggerisce l’affacciarsi di
qual- che incrinatura nella certezza adamantina esibita dai
predecessori, forse anche per il confronto inevitabile con una
generazione successiva che tornerà a proporre arroccamenti
specialistici). Seconda motivazione. Tutto quantohai odiato o
amato nei giochi e nella noia dell'infanzia alimenterà peruna vita quanto
produrrai, buono o meno chesial. I nutrimenti terreni avranno un bel essere
filtrati in parole, in segni e colori, in note, in spettacolo, il
loro repertorio non muta, non lo hai scelto, ma ne sei stato scelto, e tu
sei quello che essi ti hanno fatto, la tua libertà non può consistere che
nell'essere loro fedele sino alla fine, libertà di adesione non di
ripudio, e libertà nella misura in cui con il tuo ripensamento e il
tuo scavo li trasformi da passivo esser fatto in attivo assecondamento
della sorte che essi ti hanno assegnato, in obbiettivazione in cui il
loro oscuro sgorgo, la loro inconscia matrice, si chiarisce nell'opera,
nel segno formato e consegnato all'oggetto che ti rivela agli altri
e in cui assumi responsabilità di confessione e di 10
proposta”. Insomma, è proprio il rilancio dal fare al pensare e dal
pensare al fare che definisce una identità intuita come destino e
accettata come scelta. Ma se rimane “ovvio” il rapporto fra i
nutri- menti terreni e ciò che uno diviene e fa nel tempo, è anche
vero che “una immagine retrospettiva di sé è sempre un’interpretazione
che porta il peso della mutata identità dell’interrogante, del penoso
carico di nostalgie, ricordi, rimpianti e rimorsi e ogni
interpretazione, specialmente nell'impegno auto-biografico, è anche una
falsificazione”, per quanto cerchi di evitare tanto l’apologia ideologica
quanto la “disgustosa e mimetica” confessione personale. Giusto nel
mezzo, fra le due citazioni (è il caso
di ricordare che è il tempo della svolta neodada e pop che mette in
crisi e addirittura annichilisce alcuni dei pittori più convinti), G.
mostra d’avere di questo destino ironica e malinconica ma anche dura
consapevolezza. Del fallimento egli tesse un sistema, secondo i
miti di Prometeo e Sisifo, riscoperti come”moderni” dal
Romanticismo all’Esistenzialismo. “Finis picturae? Il punto si identifica
con questo estremo di coscienza contraddetta e irritata: la certezza che
la via senza uscita dell’arte oggi non ha nemmeno l'alibi della
professione, del successo, del guadagno, ma soltanto il fascino senza
illusioni di una fedeltà a un impegno individuale, quasi di una scommessa
con la propria intelligenza e con la possibilità e i limiti del
nostro stesso temperamento!”. Diventano così esemplari l’ultima e
penultima produzione di G. pittore, alla quale viene dedi- cata in
questa mostra una intera sezione con i ciottoli le foglie i frutti, i
relitti, proseguita con “i paesaggi (rocce, alberi, isole), i nudi,
le macchie[|...]”:esemplare neltentare una trascrizione di
archetipi, congelati inluoghi comuni della pittura, tipi, generi e
maniere (il fascino baudeleriano dei luoghi comuni! Ma già muovevano
nella stessa direzione ireos e cespugli d'iniziotracce che
regrediscono attraverso lamemoria nella gesticolazione elementare e
prima i segni asemantici, prima ancora (siamo nella seconda metà dei ‘60)
le bandiere, i nastri, i nodi e così via: tutte figure emblematiche,
primarie e coltissime, che niente hanno a che fare con la
semplificazione, la banalizzazione pop. La pittura ivi coincide con la
costruzione delle im- magininominabili (nona caso varianti dell'icona
della cosa, anzi del frantume, astratta da qualsiasi contesto, su
un fondo bianco che è il segno di una definitiva separazione dallo
scorrere fenomenico), e insieme la pittura è automatismo oggettivo,
registrazione fredda della emozione costruttiva (se non creativa):
infatti presentata tipicamente come nodo, descrizione dell’a- G., La
pittura a Torino, cit. »m®) da cor. 4 È ut me rematori
E ua Br su : Pa ù LE a Con Gorza a
Palazzo Te, Mantova zione dell’annodare, avvolgere, intricare-intrigare,
0 dello sciogliere e liberare (vedi la bellissima immagine
scattata, credo, alla galleria Martano). Ma è tutta la vicenda di G.
pittore e critico che val la pena di ripercorrere in mostra, sia pure
per cenni e con discutibili tagli. Danotarel’uso ch'egli fa
dell’insegnamento casora- tiano: del maestro, G. non assume
passivamente il platonismo, consapevole che il rapporto di Felice
con la pittura è dal principio e resta nel tempo un rapporto decadente,
che diventa eticamente sano e formalmente classico solo per un atto di
volontà tanto mirabile quanto falsificante; sarebbe meglio dire
critico, con vettore opposto, sia pure, a quella che sarà la scelta di G..
Che il travestimentosia storicamente giustificato su un modello
rispettabilissimo come quello gobettiano, non vuol dire che la sua
sostanza più vera non debba essere riconosciuta nonostante,
attraverso la corazza ideologica e formale ritrovando il nucleo
profondo, ’malato”ma straordinariamente vitale. Di G. è da
approfondire l’espressionismo che del resto condivi- de con altri della
sua generazione: Nella Marchesini, Montalcini, Martina, Cremona, Rama.
In tal senso ci si potrebbe chiedere che peso abbia avuto, localmente,
Spazzapan che esaltava l'ispirazione e deprecava l'istinto (viene in
mente la teoria di Klages, che insiste sulla attrazione magnetica
traimmagine e “anima”, ben distinta, l’anima ispirata e creativa,
dall’istinto che è del corpo, come dalla volontà decidente e dotata di
facoltà riflessiva che è dello spirito”); e anche Levi, l’unico dei Sei
che partecipi intimamente all’espressionismo europeo, e, fuori
sede, i romani, Scipione in particolare al quale Albino dedicò una
bellissima recensione, che è lo stesso anno della prima edizione del
Casorati. In un saggio intitolato Perché non possiamo non
dirci crociani, in “Numero G. sottolinea che la sua generazione
“decadente” deve a Croce specialmente questo: d'essere stata messa
nella condizione di “accettare senza malafede e senza rimorsi i dati di
quella cultura di tardo romanticismo che, così feconda quanto a ricchezza
e sottile sensibi- lità di ricerche particolari, tanto si è dimostrata
incapace di una sistemazione totale... [insomma di poter essere]
decadente malgrado Croce, grazie proprio al riscatto che il metodo
crociano offriva”. Che è un modo ottimo anche per comprendere come
coerenza di sistema e incoerenza pragmatica siano in G.
strettamente congiunte in dialettica tensione: la coerenza consistendo nella
allarmata coscienza critica, nella responsabilità che non può consentirsi
“nessuna comoda complicità”, l’incoerenza nell'essere ogni scelta
un esito che, per quanto imperfetto, è sempre compromesso e rappresentativo.
Come a dire che la vitalità della ricerca costituisce un valore, non
meno che l'aspirazione ad una sistemazione che finalmente
rappresenti una “identità”, forse meglio “la libertà di essere identici
al proprio destino”. Perciò G. non intende, tanto meno come pittore,
tagliare i ponti col passato (il suo passato, oltre che la storia);
invece semina il cammino di tracce, di residui, vorrei quasi dire
fisiologici, di lapsus, così che in ogni momento il cammino sia
ripercorribile o almeno riconoscibile, ma anche sostituibile. Egli, in
effetti, sa che nulla va distrutto e non consuma sacrifici liberatori.
Per lui in particolare (adatto il titolo di un importante saggio),
La sublimazione astrattista non liquida l'erotismo del Liberty, semmai ne
prende le distanze, per poterlo rimettere in circolo, come in un
processo alchemico in perenne rinnovamento. Così G. passa
necessariamente da un con- cretismo geometrizzante, che di fatto ironizza
ma non banalizza - la geometria come privilegiata ma- G., Per
un'armatura, Lattes, Torino nifestazione
della razionalità e della chiarezza, ad un concretismo informale che
libera la possibilità di una pittura scritta usando il campo come
tabula rasa 0 pagina intonsa, dove il gesto può scorrere ed
intricarsi, e/o come dimensione praticabile in tutto il suo spessore
magmatico, a sua volta ironizzato dalla scoperta di una ritmica, di una
metrica essenziale. Come adire che è nella pittura nell'arte chesi
realizza, assumendo evidenza di mito visivo, feticcio laico, l'unico
progetto possibile senza illusioni razionaliste e moralismi
ideologici. Un momento certamente fondamentale, sarei tentato
di dire il perno sul quale ruota il resto è quello: quando la natura del gesto
s'incontra felicemente conlo schema, generando una concrezione
araldica, l'intenzione simbolica con il simbolo ricono- sciuto nella
memoria collettiva; ennesima variante della tradizione dell’ornato,
raccolta e riavviata dal Liberty: insieme puro gesto e automatismo assolutamente
impuro. In questa mostra, il momento avrà adeguata evidenza. Ma è anche
vero che Galvano si guarda bene dal protrarre artificiosamente quel
momento (diciamolo pure, straordinario, quasi senza confronto in Italia),
tanto che si prenderà negli anni immediatamente successivi una
pausa di riflessione che produrrà anziché pittura saggi teorici che
culminano in Artemis Efesia, per riprendere il filo (la matassa) della
pittura con proposte (in apparenza) assai differenti: le bandiere, i nastri, 1
padiglioni, gli anelli di Moebius. Che cos'è la pittura per G.,
allora? Scrive di lui l’amico / avversario Argan, che ha scommesso sul
progetto ideologico, vincente almeno per un certo periodo storico: “Egli
non risponde una volta per sempre, con una definizione filosofica:
infatti ciò che vuol sapere è che cosa sia la pittura in questa precisa
condizione della cultura, della coscienza, dell’esistenza, e quale
sia il suo grado di vitalità, quali le sue possibilità di sopravvivere in
uno spazio ogni giorno più ristretto. Non gli si potrebbe dar
torto, se non fosse che proprio l’opera e ciò che la sottende, l’opera
come atto critico, questo è appunto il suo contributo filosofico, e
anche la sua testimonianza sapienziale, che trascrivo da una
autopresentazione: Dunque la pittura, una meditazione sulla morte
imminente o il recupero della gioia ottica nello spazio ripercorso in
termini di colore e di luce, sia pure della luce irreale della memoria e
del sogno? O la scenografia di ambigue emersioni dall’inconscio?
Davvero non saprei dirlo, e, forse, è inutile porsi le domande. Forse
anche soltanto la monotona iterazione Argan, in catalogo della personale,
Galleria Unimedia, Genova G., Autopresentazione, in catalogo della
mostra, Piemonte Artistico Culturale, Torino di una passione per il
dipingere, che ripercorre con insistenza sigle che non è più capace di
vivificare colla curiosità e il gusto avventuroso della
giovinezza”. Tante pitture, allora, e però tutte mirate ad essere
presenza di pittura e non illustrazione di concetti. Pittore concettoso,
a volte, mai concettuale nel senso di illustratore di concetti: aggiungo,
nel segno di una ineludibile, per quanto mascherata vocazione poetica.” Si
deve citare, almeno una volta, Sanguineti, allievo e amico, grande estimatore
di G. Mi trovo forzato a pensare che, alle radici del lavoro di G., come
artista e come studioso, stia un'immagine è la parola giusta che
accenna all'uomo come animale che è capace di immagine. E dunque
un’antropologia fondata sopra la facoltà della visione, In
formula perfetta, a conclusione di Storicità e significato dell’arte
astratta, G. precisa. L'opposizione affermata da Mallarmé tra la
concretezza della vue e l’allusività delle visions, l'affermazione di
Alain che il poeta è l'opposto del visionario perché sa di non vedere
sino a che la mano non abbia realmente costruito nello spazio
l'oggetto che la passione progettava, sono divenute nella co-
scienza del pittore concreto l'imperativo di una scelta tra il peso della
memoria e la libertà pericolosa di una iniziativa tutta affidata al
risultato”. Garimoldi, nel saggio più volte citato, sottolinea che G.
pone come centro dell’arte l’insoluto rapporto fra espressione ed enigma”
(che cosa di più chiaramente collocato sulla linea
romanticismo-simbolismo come la vede Albino?), citando una
autopresentazione del La seconda parte di questo scritto elabora
liberamente tre testi: in ordine cronologico, Témoignage de notre dignité,
in Figure d'Arte, artisti a Torino, cur. Balzola, Cavallo, Ghinassi, Mantovani,
Alberti ed., Pescara; A proposito del pittore Albino Galvano, in
Attraverso il Novecento. G. a cura di Pinottini,
Bulzoni ed., Roma; G. pittore, catalogo della mostra, Galleria del Ponte,
Torino Sanguineti, Contro la ragione, “La Stampa Un saggio singolare, dove
Sanguineti è figura nodale nella messa in circolo della linea liberty; linea
che Casorati, Cremona, Mollino e G. avevano mantenu- ta viva con
originali apporti nella prima metà del secolo, è L'altra faccia della
luna Origini del neoliberty a Torino di Elvio Manganaro, Libria ed.,
Melfi. Al saggio citato si deve la conoscenza di un testo di G.: Processo alla
pittura in “Il Selvaggio, che dà originale contributo alla interpretazione
della vicenda artistica della sua generazione, che “si gioca tutto nello
spazio che separa le Uova da quelle, o tra l’”Icaro senza ali e le
ali senza volo del Sogno, di Casorati naturalmente, perché proprio
Casorati è appartenuto paradigmaticamente ai due mondi quello della
figlia di Iorio e quello della Jeune Parque. Manganaro, L'altra faccia della
luna. G., Storicità Garimoldi, G Progetto di una nuova cultura, in Omaggio.
Si dà arte solo quando il non differente operare a fini strumentali o di
puro edonismo è impedito e stravolto dai sedimenti di una vicenda
individuale che s'insinuano e dominano dove pretendeva condurre il
gioco la razionalità del progetto decisionale. A questa condizione in ogni
tempo si è cercato di opporre la dignità dell’autocontrollo, certo
vanamente, ma anche proficuamente perché la possibilità di
coinvolgere gli altri non consiste se non nel pun- tualizzato istante di
tensione in cui lascia materiale traccia di segno o di tocco quel gioco
d’insidie; l'istante in cui l’inspiegata vicenda interiore si fa immagine
ed EMBLEMA Con Bartoli a Palazzo Te, Mantova, La discutibile scelta di
privilegiare la pittura come via di accesso alle molteplici attività di G.
obbliga a segnalare gli autori che affrontano il caso con particolare
intelligenza e puntuale CULTURA FILOSOFICA. Sanguineti, in catalogo
Antologica; Tessari, nello stesso catalogo, e G. e il mito, in Figure
d'Arte, Carchia, Prefazione a Artemis Efesia, nella riedizione, cit.; Fossati, Autopresentazione, mostra personale,
Galleria Weber, Torino Garimoldi, M.C. Mundici (a cura di), catalogo
della mostra al Circolo degli Artisti; A. Balzola, G. e D'Adda:
l'immagine matrice, in Figure d'Arte; Gallino, e Salza, G. e Jung, in G. Ruffino,
Introduzione in G. Diagnosi del moderno, A parte, segnalo il “ritratto”
che ne fa Fossati, presentando Omaggio a G.; e le memorie che in circa
trent'anni di colloqui non di rado centrati su Casorati, Cremona e G. si puo
raccogliere da Gorza, l'unico artista di generazione successiva che per
cultura e gusto potesse essere accostato a G.. È proprio Gino a volere
una mostra comune con il significativo titolo di Sincronie a
Mantova in Palazzo Te; riannodando il filo della presentazione che Albino
gli aveva dedicato dieci anni prima, per l’Antologica nello stesso
luogo. Si ricorda all’inaugurazionela presenza di Bartoli,
documentata anchein una fotografia dove il geniale interprete di Licini
sembra inchinarsi al geniale interprete di Artaud. Più recentemente,
sempre al Te, una giornata di studio dedicata a Bartoli è stata
anche l'occasione per rievocare la figura di G. con Tessari. Anche
Tessari è mancato. Prova di ritratto e un Uomo riservatissimo,
comea volte chi non si neghi alla mondanità, anzi se la imponga come
esercizio. La leggendaria disponibilità, senza ombra di debolezza, realizza
una delle forme più aristocratiche dell'etica, per discrezione in
maschera di rigore professionale. Essenziale un fondo di malinconia, come
misura di una perdita irreparabile, e di nostalgia per una totalità
irreversibilmente frantumata. Tra distacco soggettivo e oggettiva
commozione scorre l’impurità di un continuare a vivere, si scrive
in tracce stenografiche il diario di un sedotto e di un seduttore
per forza di un gentiluomo piemontese. Sensualissimo lettore;
scrittore capace di costruire macchine logiche come trebbie di tortura, e
di avvolgere in sontuose inestricabili ragnatele (costante una
specie di dolcezza, cui tanto meno resistono rigidi baluardi):
trascurabile vi è l'inganno, perché la circonvenzione è ignobile,
specialmente d'incapace. Come un dovere coltiva il diletto: su
questo piano potrebbe essere magistrale se non fosse troppo fine e
pericoloso un tal modello. Nel suo sistema, la pittura rappresenta il concreto.
Distratto semmai da irridu- cibile curiosità, non è mai astratto. Ireos,
sassi e conchiglie sigillano una storia sostanzialmente coerente, perché osano
confronto con il principio e la fine: così su una pietra tombale si
posano cose e il tempo vissuto, relitti nudi, epifanie senza velo. Omaggio
a G. Catalogo mostra antologica, Palazzo Chiablese, Torino Catalogo mostra
antologica, Circolo degli Artisti, Torino. Atti del convegno, a cura di
M. Pinottini, Torino Antologia di scritti di A. G., a cura di A. Ruffino,
Aragno Electa Piemonte G. cur. Pinottini BIBLIOTECA DI
CULTURA BULZONI G.: la fedeltà alla pittura Motto Il magistero
casoratiano e la prima figurazione Galvano nacque a Torino l’anno
d'esecuzione delle Demoiselles d'Avignon di Picasso che segnò l’imporsi e
il susseguirsi delle avanguardie: « che nel bene e nel male
problematico doveno caratterizzare, inconcomitanza concrisi umane,
politiche e sociali ben più gravi, ilnostro secolo sino a porre oggi il
problema della morte dell’arte qualunque cosa si intenda sottolineare con
questo termine apocalittico. G. pur muovendosi nel solco della
modernità, affondava le sue radici in una meditata e personalissima
assimilazione di riferimenti pittorici dell'Ottocento e del primo
Novecento, ben lontano dalla reazione e dall’inattualità. Apparteneva
all'ambiente casoratiano e alla sua scuola «divenuta il centro di
un'opposizione cortese, tacita che non esclude, la cosa è molto torinese, rapporti
amichevoli o per lo meno corretti con gl’avversari. Venne segnata la
temperie di una Torino moderna (tuttavia non futurista) di seguito
enunciata in pochi assunti utili a comprendere l’ambiente artistico nel
quale G. s'introduce: la comparsa di FCasorati alla Promotrice come
artista rivoluzionario e di rottura; la breve esistenza di Gobetti e il
suo cenacolo antifascista; le polemiche e la reazione dell'ambiente
cittadino alle scelte di gusto antinovecentiste di Venturi rivolte
all'arte di nuovi primitivi, gl’impressionisti; il fugace percorso del
gruppo dei sei di Torino (coagulato e promosso dal duo Persico e
Venturi) che rinunciarono a Roma madre per Parigi amica; e la vitalistica
apertura culturale europea del finanziere, collezionista e mecenate Gualino. Dopo
un precoce apprendistato con il pittore Pisano e il maestro di disegno
Vannini, l'educazione di G. all'arte contemporanea si svi- luppò
suriviste di settore (in particolare”“Emporium” e “L'art vivant”) e
attraverso la frequentazione delle Biennali veneziane. Alla rassegna G.
puo osservare dal vivo la pittura di Felice Casorati che rappresentò «la
scoperta del mondo nuovo e spre- giudicato che si apriva alla nostra
cultura: l'ingresso del mondo “moderno. Ai iscrisse alla Scuola Libera
di Pittura di Casorati (sorta a Torino e strutturatasi maggiormente dnella
nuova sede di via Galliari, antistante l'abitazione di Riccardo Gualino.
Il suo magistero, lontano da G., Autobiografia, in Pizzetti e Givone (cur.), G., catalogo della mostra,
Palazzo Chiablese, Regione Piemonte, Torino Galvano, Torino e i «Secondi
futuristi», in G., Diagnosi del moderno. Scritti scelti cur. di Ruffino, Aragno,
Torino G. (al centro, seduto) e (da sinistra, in piedi, tra gli altri) Scroppo,
Maugham, Galvano, Cremona, Casorati, Rama,
Bertolè, Valpellice. Ogni sistematicità d'accademia, non è solamente
estetico ma anche pregno dell'eredità etica e politica gobettiana: un
debito verso quel «fanciullo puro» che esigeva «fedeltà e non lacrime»®.
Per Galvano il punto fondamentale della sua formazione fu il trovarsi
par- tecipe di un ambiente che lo salvò «tanto dal rischio di
un'adesione acritica al regime imperante [...] e da quello ben più grave
[...] di un'immersione o som- mersione nella Torino di quel tipo di
borghesia che amava in pittura Giacomo Grosso». L'insegnamento del
«platonico» Casorati, pervaso «d’una signorile severità», verteva su
l’«insieme» e il «tono». Dal saggio Casorati di G. (Hoepli, Milano) si legge
che il Maestro consigliava agli allievi di «imparare a vedere il più
semplicemente possibile la forma di quella determinata massa
tonale, di quella determinata massa chiaroscurale, non la forma
dell'oggetto. La forma serve qui a distruggere la linea ed a passare al
colore [...]»*. Il clima della scuola di via Galliari fu
efficacemente narrato da Lalla Romano ne Una giovinezza inventata:
«Verso sera venivano sovente visite: Rossi, Soldati, Levi. Levi ridacchia
con lei sull'indirizzo classicistico della scuola, dove gl’allievi più
ambiziosi preparano un bozzetto per il quadro. Ride ma affettuosamente.
C'è UNA BASE CULTURALE COMUNE: IL DISPREZZO PEL FASCISMO. I nomi citati
sono solo una parte delle personalità con cui G., all’inizio degli anni
Trenta, instaurò un duraturo rapporto amicale sulla via del
confronto artistico, tra gli altri: Montalcini, Bonfantini, Chicco, Cremona,
i sei e Gobetti, Iniziative d'arte a Torino, in “L'Ordine Nuovo Casorati,
in “Il Mondo”, G., Autobiografia G., Casorati, L. Romano, Un invento, Einaudi,
Torino Argan, ma anche Mollino, Mila, Ginzburg ed Antonicelli.
La pittura postimpressionista di G. si orienta in un contraddittorio
intento di tenere insieme i valor plastici di Casorati e quelli dei Sei»
il cui risultato «pesante e impastato» fu autocriticamente espresso
dall'artista stesso. Anche una certa l’arte d'oltralpe praticata da
stranieri fascina G. (Vlaminck, Terechkovitch, Krog), mentre i rimandi
nostrani furono indirizzati alchiarismo lombardo eai tonalisti romani. Quei
loro mezzi misi sfasciano ed intorbidivano tra le mani, rimanendo
parentele d’accatto o esperimenti di lettura, ed enorme riusciva la
dispersione e la perdita di tempo. Un repertorio antinovecentista di temi
iconografici ricorrenti segnò quel periodo: pesci, molluschi, conchiglie,
vecchi libri accartocciati, crocefissi e acquasantiere barocchi, nudi
tortili come molluschi e paesaggi incerti tra quegli andamenti sinuosi e
un modesto cezannismo che era nell’aria, G. s’inserì nel circuito
espositivo nell’anno in cui le arti si avviavano verso la loro FASCISTIZZAZIONE
di forma con l'istituzione del SINDACATO FASCISTA a cui venne affidato il
compito di gestire le manifestazioni espositive periodiche sul
territorio nazionale. Il rapporto con la società artistica di un
Novecento sarfattiano (a un passo dallo smantella- mento definitivo) e
della retorica celebrativa di Stato era destinato tuttavia a un
sostanziale fallimento. A Torino G. esordì nell'alveo
casoratiano in due mostre della scuola. Sono regolari le sue presenze
alle espo- sizioni annuali della Promotrice di Belle Arti con più
sporadiche puntate alla Società degli Amici dell’arte. Il filosofo ZANZI
(si veda), in una recensione riguardante un'esposizione di vendita torinese del
1934, sagomava i tratti pittorici di G.: sfuggito anzitempo alla
disciplina rigorosa della scuola di Casorati. Il Galvano in certe
composizioni di nature in silenzio ricorda la chiara e sapiente
pittura del Maestro, in altri quadroni ricerca l’effetto della
pennellatona agile ed abile, cara passione di qualche
post-impressionista»". Alle rassegne di carattere nazionale
Galvano prese parte alla I e alla Il Quadriennale romana dove vi fu una
discreta rappresentanza torine- se e piemontese: Felice Casorati e il suo
discepolato (Paola Levi Montalcini, Nella Marchesini, Sergio
Bonfantini, Emilio Sobrero), Daphne Maugham, G., Autobiografia G., in
catalogo della mostra, Galleria La Giostra, Asti Zanzi, in “La Gazzetta
del popolo G. e Scroppo alla I Mostra Internazionale dell'Art Club,
Palazzo Carignano, Torino. parte dei sei ( Levi, Menzio, Paulucci),
Milano, Mastroianni, ICremona. Alla Biennale di Venezia G. presenzia con
un’opera nella stessa sala di Casorati e allievi, mentre nell'edizione espose
isolato (a Chessa venne dedicata un'ampia retrospettiva, Menzio e
Paulucci comparivano attigui). In questo periodo sono da
indagare infine le par- tecipazioni alle quattro edizioni del Premio
Bergamo. Fuuna manifestazione, insieme al Premio Cremona, che svelò la
dialettica artistica italiana: due componenti antitetiche dello stesso
volto del regime. Il primo (promosso da Bottai), più elitario, «si
riallacciava a un versante dell’arte italiana colto, internazionale e
post-impressionista»!* suscitando polemiche nell’ala più intransigente
del fascismo; il secondo (voluto da Roberto Farinacci) era sintonizzato
sull'onda delle mostre hitleriane. AII Premio Bergamo del 1939 (in
giuria Casorati, Funi, Longhi e Argan) il terzo riconoscimento
venne suddiviso tra cinque concorrenti: si evidenziava la presenza
romana di Capogrossi e quella piemontese con Menzio, Paulucci, G. e Martina
(è presente anche Galante, non premiato). Al secondo Premio Bergamo G.
riceve una particolare menzione e il suo dipinto fu acquistato dal
Ministero dell'Educazione Nazionale. Galvano espose anche alla terza e
alla quarta edizione (vincitore l’intimista Menzio), la rassegna
scandalo della Crocifissione di Guttuso, reinterprete drammatico e
rabbioso di un’iconografia mutuata dal sacro: anticipazione in chiave
cubista della militanza postbellica. Il ventennio
Trenta-Quaranta contrassegnò inol- AA.VV, Gli anni del Premio Bergamo:
arte in I talia intorno agli anni Trenta, catalogo della mostra, Bergamo,
Electa, Milano tre il compimento della formazione intellettuale di G. che
si laurea (con GAMBARO (si veda) ed ABBAGNANO (si veda) con una tesi
sulla pedagogia della religione: atto dell’approfondito confronto con le
tematiche spiritualiste, antropologiche e filosofiche, in primis
l'influenza di CROCE (si veda) e Bergson. Tra le sue prime prove di
critica d’arte si possono menzionare il saggio su Spadini in “L'Arte”
diretta da Venturi; il saggio su Spazzapan in “Orsa”; le collaborazioni con
il periodico milanese “Le arti plastiche e la redazione delle cronache
d’arte torinese per Emporium. Si ricordano inoltre i volumi (per l'editore fiorentino Nemi) L'arte
egiziana antica, L'arte dell'Asia occidentale e centrale, L'arte
dell'Asia orientale; il saggio Casorati edita da Hoepli (uscirà una
seconda edizione) e Tre nature morte: Casorati, Menzio, Paulucci
pubblicato a Torino. È assistente alla Cattedra di pittura di Paulucci
all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino ed insegna storia FILOSOFIA
negli istituti liceali. Tra gl’allievi con i quali mantenne profondi
legami si ricorda Sanguineti. Dalla fase espressionista
verso l'astrattismo, al termine del conflitto bellico per Galvano e gli
artisti della sua generazione s'impose il confronto con l'avanguardia,
l'Europa e il moderno. «Moderna non è soltanto l’arte prodotta nel
periodo in cui viviamo, ma quella che di voler essere moderna ha programmatica
intenzione! [ Che assume come categoria predicativa l'affermazione di novità
rispetto ad una situazione di cultura storicamente conclusa. Il
concetto di moderno si chiarisce, così come un concetto etico per cui l'avversario non è un modesto o
nullo artista, ma il traditore di una causa totale, il reazionario che
non merita pietà e al quale non giova la buona fede». Queste lucide
affermazioni di G. aiutano a delineare un settore della sua linea
di pensiero che contribuì ad animare il vivace dibattito degli
intellettuali torinesi, fautori di quel compatto blocco culturale che tentò
una ricostruzione «morale e civile» della società. La posizione politica
di G. dopo la Liberazione è abbastanza distante dall’ideologia estetica del
fronte comunista. L'urto non è tanto fra tradizione e innovazione,
anche meno tra astratto (o concreto) e figurativo ma tra militanza costruttiva
ed autonomia critica. G., Moderno, in Enciclopedia Universale dell'Arte,
vol. IX, Fondazione Cini, Roma-Venezia Mantovani, Il malessere dell'arte,
in G., La pittura, lo spirito e il sangue, a cura di G. Mantovani, Quadrante,
E; Negli anni postbellici il complesso confronto-
scontro con Croce è ineludibile e la posizione di G. (sviluppata in anni
più tardi nel fondamen- tale scritto Perché non possiamo non dirci
crociani) merita qui qualche breve accenno. L'intuizione pura, come
atto teoretico astorico, non poteva prescindere dalla soggettività
dell’«opera manuale». La polarità non sussisteva tra il bello crociano,
simbolo del bene morale e il suo opposto, quanto tra lo «spirito»
(il momento razionale - contemplativo) e il sangue (il principio
vitale inconscio che in ultimo concretizza l’opera con il linguaggio
scelto). Scriveva Galvano nel numero unico del periodico “Tendenza” (coideato
con Oriani): Questo bisogno del sangue che ignora l’astratto spirito e
gli anatemi e le accuse di naturalismo degl’idealisti o quelle d’immoralità
degli spiritualisti è essenziale all'opera di pittura. Essa cade o
sussiste con il sangue non con lospirito»!. L'attività di critico d’arte
seguitò in quegli anni anche su quotidiani come La Nuova Stampa e Mondo
Nuovo. La pittura di G. si apre ad una fase espressionista slargandosi e
semplifi- candosi in campiture bidimensionali dai contorni lineari
marcati e attraverso l’uso di un cromatismo timbrico. In un testo di
autopresentazione l'artista esplica. Così quando, Guttuso guardando a
Picasso, Birolli e quelli di “Corrente” sbirciando l’espressionismo,
diedero altro indirizzo alla pittura italiana, mi trovai in ritardo
rispetto a quei coetanei e ai loro discepoli molto più giovani di me, e
con un bilancio piuttosto negativo. Tentavo così una soluzione in un
breve periodo di esasperazione “espressionistica” del segno, dove
l’“illusivo” si trasforma in “allusivo” IMPLICATURA COME ALLUSIONE ED ILLUSIONE)
a quelle immagini che puo considerare suoi. G. puntualizzava
inoltre di essere stato tentato verso «esperienze varie di carattere
cultu- ralistico, fra cui un primo richiamo al liberty che allora
fu aspramente rimproverato da certi critici (Podestà) come incomprensibilmente
anacronistico ma che almeno come recupero critico, rappresentava
un'anticipazione di interessi e recuperi diventati di moda un ventennio
più tardi. Nella Torino della Ricostruzione gli spazi espositivi sono
esigui; molto spesso sorgevano in simbiosi con una libreria come per
esempio la Faber, dove G. partecipa
ad una Antologica di Maestri contemporanei. Alla personale di G. presso la Libreria del Bosco «ci troviamo
di fronte ad un artista dalle varie esperienze», denota Torino G., La
pittura, lo spirito e il sangue, in “Tendenza” G., Galleria la Giostra G., Autobiografia
Gatto su “L'Unità”, e proseguiva: «riesce spesso a lievitare le
acquisizioni culturali ed a tradurle in efficienti risultati creativi».
Il molteplice approccio stilistico, confessato dallo stesso G. nell’auto- presentazione, è qui
confermato: «leggero impressionismo, decorativismo un po’
orientale, motivi che tendono a risolversi in figurazioni quasi
astratte». La fase pittorica più recente, concludeva Gatto, «pare
indirizzarsi verso una pittura dominata da una volontà ed un’ansia di
sintetismo formale»?. Alla Biennale di Venezia del 1948 (la prima
edi- zione al termine del ventennio fascista nella quale emersero
le linee essenziali degli sviluppi dell’arte moderna europea) Galvano
partecipò su invito con cinque opere (nudi e nature morte del 1947-48) in
sala con Martina e Paulucci. In quell’edizione fu parecchio vasta
la partecipazione di artisti torinesi sulla via dell’astratto: Sandro
Cherchi, Mario Davico, Garelli, Gorza, Montalcini, Mastroianni, Moreni, Parisot,
Rama, FScroppo. All’edizione, nuovamente su invito, G. è presente con tre opere
(in sala con Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Turcato, Vedova,
Zigaina). Si registrarono nume- rose partecipazioni dell'artista a
rassegne nazionali di verifica diretta degli sviluppi artistici
contemporanei, tra cui la Quadriennale romana e la mostra collettiva Arteastratta e
concreta presso la Galleria Nazio- nale d’arte moderna di Roma (il
comitato esecutivo era composto da Joseph Jarema, Palma Bucarelli e
Giulio Carlo Argan). Il testo di Galvano in catalogo analizzava la
ricerca concretista propria e dei torinesi verso una direzione lontana
dal «formalismo astratto» insenso stretto e intesa attraverso la
«‘“proiezione” nelle strutture dell'oggetto stesso di una carica emotiva,
che asua volta presuppone la totalità spirituale dell'artista
impegnato, ed impegnato “responsabilmente”, in una prospettiva, in una
scelta, in una “Weltanshaung”, cioè in ultima analisi in un punto di
vista etico e metafisico. Non può perciò stupire che anche a Torino siano
proprio gli artisti più responsabili di fronte a un loro mondo interiore
a volgersi a questa pittura. Superfluo cercar nel dato estrinseco del
gusto un’unità “munici- pale” o di gruppo: se mai l’unità “torinese” di
questi pittori è nella condizione di cultura cui lo stesso schivo
etalvolta un poco scontroso raccoglimento della città in cui essi
lavorano, è, per taluna delle ragioni accennate, propizia»”!.
Rilevanti furono inoltre le sortite extranazionali. In occasione della
mostra nizzarda, Peintres de Turin, Galvano definì forme e colori delle
sue com- Gatto, Mostra d’arte. Galvano al Bosco, in “L'Unità”.
G., in Arte astratta e concreta, catalogo della mostra, Galleria
Nazionale d’arte moderna, Roma. Con Paulucci, G. e Scroppo. Conferenza al
Circolo degli Artisti, Torino. posizioni come «feticci laici»,
«costanti di sentimenti e impulsi» che non necessitavano di riportarlo a
una rappresentazione esteriore e imitativa. La topografia
spirituale di questo mondo che non è né meccanica né architettonica, ma
piuttosto organica e determinata soprattutto dalla tensione tra le forze
elementarie vitali pressanti, da una parte, e l'aspirazione religiosa o
me- tafisica dall'altra, che vuole dominarle e oggettivarle nello
spirito delle tradizioni filosofiche e religiose alle quali nei miei
quadri faccio a volte allusione anche attraverso i titoli stessi.
Al Premio Parigi (itinerante anche a Cortina d'Ampezzo) il critico
Luigi Carluccio seguita di rimando: L'artista si è portato sempre su
posi- zioni di ricerca mantenendo tuttavia vivo il dialogo fra i
suoi istinti pittorici e le sue meditazioni. Il temine feticcio laico annota con
felice incidenza che all'origine degli impulsi e dei sentimenti è
sempre vivo lo stesso dibattito tra la pressione vitale di forze
elementari, naturali, e l'aspirazione ad ordinarle in una ragione
metafisica. Il rivolgersi all'arte d'oltralpe (già a partire
dalla mostra Arte francese d'oggi, Roma e Torino) ebbe degli echi a
Torino con le sei edizioni della rassegna Pittori d'Oggi Francia- Italia promosse
da Carluccio e alle quali Galvano partecipò alla prima e alla terza, così
come figurava ai due Premi Saint Vincent messi in piedi dalla
fronda democristiana capeggiata da Carluccio in re-Carluccio, in Mostra
Nazionale del Premio Parigi catalogo della mostra, Cortina d'Ampezzo e Parigi Con
Chessa e Matteis. azione al Premio Torino, troppo
polarizzato a sinistra secondo il critico. È di vitale
importanza ricordare infine il ruolo di G. come animatore culturale nel
clima di fermento postbellico, dapprima impegnato attivamente come
promotore dell’Unione Culturale (raccolse intellettuali antifascisti tra
cui Einaudi, Mila, Antonicelli, Venturi e tra gli artisti Casorati,
Menzio, Levi) e come propugnatore di due rassegne artistiche: la I
Mostra Internazionale dell'Art Club a Torino e la Mostra d’arte
contemporanea di Torre Pellice. La prima con presidente Casorati e
segretario Scroppo, organizzata dalla sede torinese dell'Art Club,
un'associazione apartitica internazionale — mirava a presentare le nuove
voci artistiche italiane e di diversi stati esteri. La seconda, aveva
sede a Torre Pellice, che «pur nella modestia delle proprie
possibilità, possiede, come centro delle Valli Valde- si, una secolare
tradizione di cultura che ha i suoi particolari caratteri di pensiero e
di ispirazione. È stata ideata insieme a Scroppo, artista e critico
valdese, (nativo della Sicilia ma inseritosi dalla metà degli anni Trenta
nell'ambiente cittadino) e da Bertolè notaio e illuminato collezio-
nista di moderno. La Mostra d’arte contemporanea appuntamento estivo annuale
protrattosi per un Mostra d'arte italiana contemporanea, catalogo della
mostra, Collegio Valdese, Torre Pellice quarantennio al quale G. espone
assiduamente—trasformòla cittadina della provincia torinese in un polo
culturale aggiornatissimo sulle ricerche artistiche nazionali e con
qualche non rara puntata internazionale. Il Movimento Arte
Concreta Il confuso ribollire di tendenze astratteggianti, che impera anda
delineandosi verso l’elusione dell’astrazione su base mimetica in
favore del concretismo. Una lucida definizione della corrente venne
offerta da Dorfles in un saggio, il così detto manifesto del Movimento
Arte Concreta fondato a Milano insieme a Munari, Monnet e Soldati. Dorfles
precisa il concetto di concreto che non cerca di creare delle opere d’arte
togliendo lo spunto o il pretesto dal mondo esterno e astraendone
una successiva immagine pittorica, ma che anzi andava alla ricerca
di forme pure, primordiali, da porre alla base del dipinto senza che la
loro possibile analogia con alcunché di naturale avesse la minima
importanza. L'adesione formale al MAC di G. e un gruppo di
giovani torinesi — Biglione, Parisot, FScroppo e in seguito Rama e Montalcini
— avvenne. A Torino il coagulo del Movimento rappresentò una sfaccettata
unione di poe- tiche, abbastanza distante dal rigore costruttivista
delle soluzioni compositive lombarde che fondava le sue basi
nell’Astrattismo storico internazionale e locale degli anni Trenta. In
questa sede non è possibile analizzare la presa di coscienza sulle radici
dell'avanguardia delle personalità torinesi e ci si limita al solo caso
di G.. 1] distacco di G. dal comitato promo- tore del Premio Torino
(la prima manifestazione locale di arte attuale italiana dopola fine
della guerra)non avven- ne solo per posizioni politiche. Come chiariva
Giuliano Martano, nel catalogo della mostra Arte concreta a Torino, per
una parte di artisti si trattava di una scelta di «lettura in quelle
matrici dell'avanguardia europea quasi in contrapposizione alle matrici
trovate allora in un neonaturalismo e del Fronte nuovo delle arti.
Per G. e il discepolato della scuola di Casorati, alla quale
riconoscevano la creazione di «una terra concimata pronta a recepire,
stratificazione di cultura altezzosase vogliamo, ma attenta. Aveva
purelasciato ineredità una figurazione latente, una scansione
dell’og- getto che verrà dai torinesi lentamente e sofferentemente
decantata»°. Uno smarcamento, dunque, in totale buona Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra,
edizioni Schwarz, Milano. Dorfles, Manifesto del MAC, ora in Arte concreta a
Torino catalogo della mostra, Sala Bolaffi, Torino Martano, in Arte
concreta a Torino pace del Maestro, che anche G. intraprese: la via verso
l’astrattismo ben circoscritta e lineare. La sua poetica, tra i
torinesi, era la più distante dal concretismo «proprio perché non è mai
d'origine sperimentale ma la sua avanguardia si pone sempre come una
verifica dello sperimentalismo. Si pone insomma come contrasto immediato
fra una realtà esterna ed una realtà interna quasi avida di controllare
im- mediatamente sul terreno stesso dell’accadimento, la validità
dell’accadere, e di controllarlo appunto in via sperimentale»?
Gli aspetti strettamente contenutistici della pittura di G. sono in
diretto contatto con i suoi interessi in quanto studioso di filosofia e
FILOSOFO e storia delle religioni. Griseri nota che gli entusiasmi
per Kandinskij volto all’astratto e per il primo Kupka giungevano a
una presa di posizione nell’ambito dell’arte non figurativa, chiarita in
numerosi saggi, in cui G.lumeggia la derivazione dalla secessione di
Klimt di molta arte contemporanea in una interpretazione nuova dei
rapporti art nouveau- Liberty e astrattismo. Degli scritti galvaniani
degli anni Cinquanta ai quali Griseri si riferisce citiamo almeno:
Storicità e significato dell’arte “astratta, Dal simbolismo
all’astrattismo, Le poetiche del Simbolismo e l'origine dell’Astrattismo
figurativo. Gl’intendimenti del manifesto del MAC torinese sono
piuttosto netti. Più in generale erano incontrapposizione con il
dibattito dilagante in quegli anni che scindeva gli artisti tra
formalisti e realisti, con- tro il neopicassismo ed estranei al «pudore»
del compromesso dell’astratto-concreto di Venturi. A livello
localelalororicerca era indirizzata all'emancipazione dall’orbita
casoratiana, dal neoimpressionismo dei Sei e dal secondo futurismo con il
quale condividevano lo spirito avanguardistico, ma certamente non gli
in- tenti. Biglione, Galvano, Parisot e Scroppo firmarono il testo
programmatico, con la responsabilità di «lotta contro ogni conformismo
pigrizia intellettuale». «Se il nome stesso di arte concreta sta a
significare il desiderio di rigore di chi ha rotto ogni ponte con
tradizioni storicamente esaurite per sostituire la loro ricerca d'una
diretta presentazione d’oggetti in cui si vengano obiettivando i bisogni
spirituali dell’uomo, come negli strumenti del suo lavoro quo-
tidiano si proiettano i suoi bisogni materiali. G., pur immerso in una
personalissima ricerca non figurativa, nel periodo che all'incirca
si estende, sviluppò una maggior Griseri, G., in Dizionario
Enciclopedico, Utet, Torino Biglione, A. Galvano, A. Parisot, F. Scroppo,
in “Arte con- creta” Caramel, Mac Movimento Arte Concreta Electa,
Milano adesione al MAC. Lo spazio dei suoi dipinti, asciugato
dall'andamento curvilineo delle partiture, si popolò di forme squadrate
dalla linearità spigolosa. Tutta- via, la freddezza costruttivista e il
rigore logico del concretismo erano solo apparenti; l'artista
puntava al contrario «ad un'arte che preservi il dialogo tra gli
schemi astratto-geometrici e quelli compositivamente più liberi, moduli
grafici e forme archetipiche non direttamente razionalizzate.
Un precoce avvicinamento ai concretisti lombardi lo si data. G. èpresente
a Milano in due collettive: con Scroppo (presentati da Monnet) presso la
Libreria Il Salto, cenacolo della pittura concreta milanese e alla mostra
di pittura astratta italiana. Astrattisti milanesi e torinesi allestita
alla Bompiani dove esponevano i piemontesi Costa, Davico,
Mastroianni, Parisot, Scroppo, Spazzapan). I maggiori rappresentanti della
corrente di entrambe le regioni figuravano, G. compreso, anche alla
II e III Mostra d’arte contemporanea di Torre Pellice.
L'allineamento al MAC di G. fu palesato anche dalla sua presenza ad
esposizioni promosse dal gruppo. La sortita d'esordio dei torinesi
(Biglione, G., Parisot, Scroppo ai quali si aggiunsero anche Davico, Merz
eGiannattasio) avvenne alla Saletta Gissi di Torino con la mostra
Pittori astratto-concreti di Milano e Torino. Non fu però la prima
presenza organica del concretismo in città poiché presso Il Grifo
si affacciarono alcuni esponenti milanesi così come alla Quadriennale
Nazionale d’Arte di Torino dove comparve una nutrita schiera di
astrattisti tra cui anche G.. Commentando la mostra presso Gissi,
sul bollettino Arte concreta G, esibe la profonda sicurezza di una non
superficiale accoglienza nell'ambiente cittadino e rilevava la
sfaccettatura di posizioni della compagine torinese che collimavano in
una base comune di principi. Principi che possono riassumersi in una
profonda fiducia nella capacità dell’uomo ad esprimersi e a
comunicare con gli altri uomini, attraverso il puro linguaggio delle
forme, attraverso l’organicità e la coerenza ch’esso sa imprimere ad un
discorso i cui vocaboli non hanno bisogno di essere immagini e
finzioni per legarsi a una sintassi espressiva e, nei casi più felici,
poetica. La politica espositiva del gruppo torinese non Mulatero,
in P. Mantovani, I. Mulatero (a cura di), Lucide inquietudini. Storie
singolari dell’astratto-concreto, Civico Museo d’arte Contemporanea di
Calasetta, Calasetta G., Mostra di pittori concreti di Milano e Torino
alla Saletta Gissi, in Arte concreta n. 9 cit., ora in L. Caramel,
Mac Movimento Arte Concreta Con un'opera dalla serie i Nastri.
ebbe seguito se non l’anno successivo alla Galleria 5. Matteo di
Genova. L'eccezione è rappresentata da G. che figurò in svariate mostre
organizzate dal MAC, si ricordano qui le principali: Pitture di G.
in un esperimento di sintesi, presso lo Studio b24 di Milano (valla pena
rimandare agl’asterischi galvaniani di quel periodo, quasi privati
manifesti sui bollettini Arte concreta che chiariscono la sua posizione
all’interno del movimento) e lo stesso anno a Torino da Gissi
esposero pittori concretisti italiani e francesi (G. presenta collages
polimaterici di ascendenza prampoliniana); sempre al Torino l’anno
successivo G. è presente ad una mostra allestita dallo Studio b 24
in occasione del Salone dell'Automobile. Si menziona a parte la
collettiva presso la Galleria il Fiore di Milano dove G. espone
insieme a Bordoni, Jarema, Parisot e Scroppo. Nello scritto introduttivo
al catalogo elaborò stringenti analisi nei riguardi di un’«arte
figurativa che non ripeta ma continui la natura», invitando il
visitatore a riflettere «che l'apparente chiusura ad una più ovvia
comunicazione di queste opere nulla intende precludere alla possibilità
di uno scambio e di una penetrazione sempre possibili nell'esercizio di
una lettura figurativa per elementi, segno colore, movimento, materia,
ecc., non differenti da quelli che consentono la valutazione di ogni
buona pittura. Non sono da dimenticare infine le presenze
alle Biennali veneziane con la sua produzione concretista e la
ripresa espositiva alle rassegne della Società Promotrice di Belle Arti
di Torino. Dall'Informale al neoliberty floreale, il logico
passaggio all’astrattismo di G. culmina in una fase di tensione tra impaginatura
attenta alle squadrature neoplastiche e colore tonale impastato. La
vibrazione cromatica delle campiture, ottenuta attraverso una libera
stesura di pennellate, lo portò a un lento e graduale sfaldamento delle
sue strutture geometrico-architettoniche a favore dell’indipendenza
dell'immagine e al protagonismo di una componente espressiva. Sul piano
formale il gesto pittorico si faceva emancipato e l’organicità
della materia riprendeva vigore. Si segnò qui il definitivo
passaggio di G. all’Informale, lontano dall’interpretazione del
neona- turalismo propugnata dal duo Carluccio-Arcangeli (è proprio che
sono presentati a Torino l’artisti informali presso La Bussola
nell'esposizione Niente di nuovo sotto il sole, titolo che rivelava la
volontà di mantenere una continuità con il passato e la natura.
L'evoluzione del concretismo impose a G. (e alla compagine torinese
del MAC) un binario doppio di direzioni che nonsiindirizzò
all’antipittura quanto piuttosto alla scelta di rimanere dentro la
pittura nell’opzione di un astrattismo lirico che lo condurrà verso
l’Informale. Un Informale, sosteneva G., affine alla declinazione di un LINGUAGGIO
ASEMANTICO in cui tuttavia potessero trovare esito quelle ALLUSIONI O
IMPLICATURE PRAMMATICHE SIMBOLLISTICHE che hanno un posto ben rivelato
dai titoli dei suoi quadri del periodo astratto-concreto Rica pe
Una delle prime esposizioni che offrirono un G. smarcato
dall’astrattismo di matrice con- creta fu la personale alla
Biennale di Venezia mirabilmente introdotta d’Argan. La radice comune
della sua pittura è la distinzione netta tra i concetti di forma e
immagine. L'idea di forma è inseparabile dall'idea di arte come
rappresentazione, implica sempre un contenuto di nozioni, un riferimento
alla natura, un G., in Bordoni, G., Jarema, Parisot e Scroppo,
catalogo della mostra, Galleria Il Fiore, Milano G., Autobiografia G., in Bordoni, Galvano,
Jarema, Parisot e Scroppo G., Autobiografia processo dioggettivazione. L'idea
diimmagine supera ildualismo dioggetto e soggetto, la relatività
costante di quod significat e quod significatur; mira a designare
un assoluto valore d’esistenza, a sostituire alla rap-presentazione
un'immediata semantica. Segue Argan. La sua è la ricerca di un'immagine
che non abbia determinazioni dirette o indirette nel mondo esterno,
che non si manifesti per via di similitudini o allegorie, che dichiari
esplicitamente le sue origini e le sue ragioni esclusivamente umane, che
si ponga ad un tempo come noumeno e come fenomeno. Così la materia,
non la forma, diventa mito ed immagine; e la materia è il colore, ma
anche IL SEGNO, la linea, il punto. G. venne invitato da Ragghianti per
una personale alla Strozzina di Firenze. Nell’autopresentazione l'artista
tenne a ribadire ancora una volta le convinzioni e la coerenza del suo
percorso pittorico che lo avevano condotto all’Informale. La formazione
spirituale si ècompiuta, esplica G., attraverso la sua adesione
alle correnti non figurative, a quell'inversione del simbolismo
nell’astrattismo che ho cercato di spiegare storicamente in sede critica.
Perciò a Kandinskij e al Kupka agli americani Pollock e Tobey, ai
polimaterici di Prampolini. L'unico germe di “manifesto” è quello sul feticcio
laico. Feticcio cioè metafisica, ma laico cioè antimetafisica. Crede si possa
essere antimetafisici solo nella misura in cui si è contro le false
metafisiche. Nel caso dell’arte contro la falsa ispirazione,
l'evasione sentimentale. Il mezzo informale di G. vira verso
accezioni neoliberty. La copertura totale della tela della prima fase si
distillò per mezzo di uno sfondo neutro solcato da grafismi pittorici
orientati sempre meno verso un'immagine quanto in direzione di
archetipi floreali e calligrammidi scrittura gestuale. Galvano
recuperava, seppur allusivamente, attraverso una nuova definizione di
immagini, la figuratività «trasformando o meglio puntualizzando i feticci
laici in emblemi esplicitati in forme larvali di iris, i fiori
paradigmatici del Simbolismo. Oltre alle regolari presenze alle Promotrici
torinesi e alle mostre annuali di Torre Pellice, si segnalano la
puntata alla collettiva berlinese presso la Maison de France, le
partecipazioni al Premio Bergamo, ai Premi Arezz e Fiorino.
(Firenze) e alla Quadriennale romana. Di particolare rilevanza in quel
periodo furono Argan, in catalogo della Biennale di Venezia, Venezia
G., in catalogo della mostra, Galleria La Strozzina, Firenze G.,
Autobiografia Due mostre. La personale presso Il Canale di Venezia
presentata da Edoardo Sanguineti che così ultimava il suo scritto: «I
fiori Mallarmé ci costringono anche a riguardare di nuovo in faccia
la posizione dell'artista las que la vie étiole, portando cosìla pittura
ad assolvere a un compito, molto forte e molto importante, di
smascheramento dell'avanguardia, nella forma, secondo le possibilità
“moderne” di uno estraniamento. Nella collettiva (G., Scroppo e Montalcini)
al Quadrante di Firenze, Dorfles, accogliendo gl’enunciati di Sanguineti,
alluse altresì ad un significato orientaleggiante delle pitture di
G. che avevano: accolto nella loro matrice compositiva quasi il vuoto il
sunyata di certa arte zenista, purrimanendo lige a una composta
scansione di ritmi dell’Abendland. Pittore dunque in senso
tradizionale si define G. che ricusava le forme antipittoriche, schiuse
alla strada dell’arte-oggetto (della quale si interessò in sede teorica),
per abbracciare una «simulazione d'avanguardia». Un profondo disagio lo
conduce a compiere una pausa dalla pittura causata probabilmente dal
cortocircuito innescato a causa di intendimenti antitetici perseguiti dal
parallelo mestiere di critico e di artista. Come rimarcava Argan: Sanguineti,
in catalogo della mostra, Il Canale, Venezia, Dorfles, Tre pittori
torinesi, in G., Montalcini, Scroppo, catalogo della mostra, Il Quadrante,
Firenze, G., Autobiografia Con Scroppo. la confluenza dei due percorsi di
pensiero (e la sua pittura è tutta pensiero) sono difficili e
interiormente sofferte. Assumono infine un ruolo fondamentale
nella produzione saggistica di Galvano i due volumi pubblicati in
quel periodo: Per un’Armatura (Lattes) e Artemis Efesia. Il significato del
politeismo greco (Adelphi). Sono opere difficilmente classificabili
che attingono alla filosofia, alla storia delle religioni, alla
psicoanalisi e all’antropologia. I due studi affron- tano il problema
dell’interpretazione sia culturale che psicologica di un passato che ci
coinvolge direttamente e sono al tempo stesso processo di autoanalisi in
merito al rapporto tra una figura-feticcio un’armatura tardomedievale e un idolo
greco e l’area psichica della
coscienza. È certamente per G. la fase più feconda di
collaborazione con periodici e riviste tra cui le torinesi Sigma, Cratilo”e
come redattore di Questioni(Galleria di Arti e Lettere”) con Ciaffi, Lattese
e Navarro per Lattes. Una menzione a parte merita il Argan, in catalogo
della mostra, Unimedia, Genova Roberto, G., Dizionario biografico
degli italiani, Treccani, Milano contributo Le tigriimpagliate per il
primo numero d’Azimuth fondata da Manzoni e Castellani. Per “Letteratura”
nG. pubblicò La pittura a Torino, un lucidissi- mosaggio che
inquadra, da testimone diretto, l’arte torinese del dopoguerra.
Successivi furono i notevoli contributi sulla situazione artistica
cittadina tra cui: Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino, Torino
e i “secondi futuristi” e La pittura a Torino. Bandiere,
Nastri, Griffonages e SEGNI ASEMANTICI. Con l'esposizione Erbe e Bandiere,
presso la Galleria Botero di Torino, Galvano sentì «il bisogno di
affiancare e poi sostituire gli emblemi ispirati alla natura con quelli
di carattere artificiale più spogli e tendenti in qualche modo a una
nuova astrazione». In mostra le forme organiche dai tratti
guizzanti dell'ultimo Informale di G. sono accostate, in un felice
trait d'union, con la nuova produzione attraverso la serie delle
Bandiere. In uno scritto critico perla suddetta mostra Chepes sottolinea.
Le sue erbe alghe, le sue flammulae, più che bandiere, sembrano, ad
analizzarle, vive, agitate da sentimenti, da spasimi da aneliti, da
desideri. L'artista perseverò nella coerenza linguistica della sua
ricerca che ancora una volta, nei più nuovi risvolti, non si collocò in
un'immediata e netta inserzione in correnti o gruppi operativi. Gli
estesi panneggiamenti svolazzanti dai colori accesi che si stagliavano su
fon- di neutri riecheggiavano quasi un'antica tradizione araldica.
I riferimenti pittorici non erano di certo estranei al linearismo
sensuale del Liberty, anche nella sua declinazione decorativa,
rammentando inoltre suggestioni neobarocche. Un commento di Mollino,
riguardante un'architettura baroccheggiante di Galvano dipinta degli anni
Quaranta, potrebbe restituire puntualmente le atmosfere delle
recenti Bandiere espresse in uno: «scenario di questo tempo
immobile nella chiara decisione di un arabesco che non si placa che in un
ordine senza indulgenza, ma vivo di un amore disincantato»?
Furono ancora le Bandiere ad essere esposte nel 1968 per una
personale a Cremona alla Galleria d’arte I Portici. Gli stendardi
svolazzanti davano la prova di una profonda conoscenza degli allora
attuali linguaggi pop e forniscono anche un «grave riverbero di
anti- chità» rendendo l’immagine «imminente e insieme assente che
par scelta e fabbricata per un pubblico Tutti gli scritti qui citati sono
reperibili in G., Diagnosi del moderno, G., Autobiografia Chepes, in “Borsa
Arte Mollino, in S. Cairola, Arte italiana del nostro tempo, senza tempo e
d’ogni tempo Proprio per questo è significante perché carica di
intenzioni contrad- dittorie e fortemente drammatiche, nella dialettica
che stabiliscono tra l’esperienza passata e l'avvento, e la
necessità del presente. G. si rivolse alla nuova serie pittorica dei
Nastri mantenendo una viva tangenza allo sviluppo formale del periodo
MAC. L'oggettivazione del dato geometrico si sostituì con una figurazione
elementare di armonica tridimensionalità sull’estensione della
tela. Le masse sventolanti e libere, nelle quali si evidenzia una
ben nota propensione per l’ellissi e il semicerchio, proseguivano
l'indagine sullo spazio volumetrico. Giuliano Martano asseriva appunto di
un'astrazione intellettuale, in cui i segni, i ghirigori, sono veri e propri
simboli codicillari, incognite d’equazione, libertà della memoria. Nastri
che si dipanano nel quadro senza né capo né coda e sono le bandiere di
prima rese a brandelli, sono una forma chiusa che si apre, che da
circonlocuzione diventa INTER-LOCUZIONE. Presso la Saletta d'Arte contemporanea
di Cu- neo, nel 1972, Galvano presentò questa figurazione
elementare di volute concave e convesse di recente produzione, che si
palesavano, secondo Giorgio Brizio, «dall’uso parco e strettamente
pensato delle timbrici- tà cromatiche. Basandosi su toni primari,
operando esclusivamente sulla opacità della parte in ombra, Galvano
può, in una suddivisione doraziana dell’in- fluenza tonale, usare la
direttrice cinetica del timbro per equilibrare il dinamismo globale della
partitura spazio-occupato, spazio-vuoto. La personale alla Galleria
Martano di Torino assunse il significato di una ricapitolazione,
dal MAC al presente, in cui gli elementi nastriformi si erano evoluti, in
forme dall’aspetto cellulare e in moduli verticali e curvilinei. Tracce
realizzate a carboncino, impreziosite da lievi velature scariche di
colore, campeggiavano solitarie sulla tela; la dimensione gestuale fu
affiancata dall'espressione intellettiva dell'atto primario del
dipingere. Questi moduli nella linea filogenetica della sua pittura
non- figurativa «appaiono anche maggiormente legati ai dettami
grafici di una cultura passata attraverso quell’inversione del simbolismo
nell’astrattismo che riaffiora con l’organicità delle sue forme così tese
ed essenziali, rispondenti ancora una volta a quella logica interiore che
resta come la matrice vera di ogni opera di G. Una sala personale della Mostra d'arte
di Torre Pellice venne dedicata a Fezzi, in catalogo della mostra,
Galleria d’arte I Portici, Cremona Martano, G., in “Pianeta Brizio, in
catalogo della mostra, Saletta d'arte, Cuneo Dragone in Stampa sera, G. che vi
espone una ventina di opere. L'artista presentò efficacemente al pubblico
la sua recente svolta pittorica: sente il bisogno di logorare la
forma, di intercettarne la presunzione di organicità, sgranandone il
supporto disegnativo in pochi cenni grafici su cui il colore nonagisse
più come elemento qualificante ma soltanto come sottolineatura allusiva. Come
nel ritmo stesso delle vicende vitali, a una stagione di estroversa
aggressione della percezione dello spettatore si avvicendava una fase di
ripiegamento sulla discrezione, sulla riserva, sultono contenuto.
Coevi furono i Griffonages e i Segni dell'alfabeto asemantico
lavori con scritte quasi illeggibili rese «come puro segno e gioco
lineare non senza un, fra ironico e intenerito, strizzar l'occhio al concettualismo.
Si ha la personale genovese alla Galleria Unimedia per la quale Saguineti
imple- mentò la troppo riduttiva definizione del G. doppio, critico
e pittore, trascendendo anche nella saggistica e nella FILOSOFIA e
invitando a vedere con totale persuasione la forza della sua lezione rispecchiata,
con eguale fedeltà, nelle sue pagine e sopra le sue tele». Il discorso si
reiterava anche nello scritto critico di Argan che chiudeva con un
interro- gativo dal quale G. non si discostò mai: Che cos'è la
pittura? Ciò che vuol sapere è che cosa sia la pittura in questa precisa
condizione della cultura, della coscienza, dell’esistenza, e quale il suo
grado di vitalità, quali le sue possibilità di sopravvivere in uno
spazio ogni giorno più ristretto. Tra la ripresa dopo l'interruzione
pittorica e si ricordano infine le puntuali presenze a collettive
con cadenza annuale come la Promotrice delle Belle Arti e le mostre del
Piemonte Artistico e culturale di Torino; le rassegne estive di Torre
Pellice e due edizioni dell’Incontro di artisti piemontesi e liguri
a Bordighera Si reimpose per G. un nuovo approccio rivolto alle forme
naturali: la ripresa di una figurazione espressionista pervasa d’un
realismo quasi visionario e il fascino recuperato, come confessò lo
stesso artista, per le gidiane nourritures terrestes. G. sembra
sentirsi quasi responsabile d'un tradimento verso la pittura
allorché, per coerenza, operò una sintesi tra l’elemento naturale e il non
figurativo che gli consentì G., Personale di G., in mostra d’arte
contemporanea, catalogo della mostra, Scuole comunali, Torre Pellice G.,
Autobiografia Sanguineti, in catalogo della mostra, Unimedia, Genova Argan,
in catalogo della mostra, Unimedia, SZ Nella bottega
dell'antiquario. un'impaginazione astratta servendosi di forme non
inventate, non di natura cerebrale ma veramente esistenti, Riemerse,
con la serie dei Cespugli, la fascinazione per i cespi di iris, tema
dominante di inizio anni Sessanta, ma questa volta non più giocato con la
«gestualità irruente» del colore spremuto direttamente sulla tela,
eredità del linguaggio informale, ma attraverso un sedimen- tato
approccio di sottili velature di pittura a olio utilizzata come gouache
che si rifaceva alle delicate tinte dei moduli di qualche anno
precedenti. Gli sfondi bianchi svuotati erano percorsi esplicita-
mente da segni grafici e scritte che sembrarono dischiudere uno spiraglio
perfino alla poesia visiva. Fu Galvano stesso, riferendosi a questi
la- vori — esposti in una personale presso la Weber di Torino a
parlare d’archetipo floreale dove il fiore dell’iris scandisce
l’intrico dei segni, grafismi di parole o di immagini, altre volte
rigidamente modulari o, almeno non anco- ra piegati all’allusione
significativa. ‘Cespugli Spinardi, in catalogo della mostra, Piemonte
Artistico e Culturale, Torino perciò in contrapposizione ai glifi
dell’”alfabetico asemantico” e dei griffonages che li avevano preceduti.
Segue la serie dei Motivi vegetali (Ciottoli, Foglie, Frutti, Relitti).
La riappropriazione di una rappresentazione ottica- mente realistica fu
solo apparente; il candore neutro dei fondiesaltava una suggestione di
tridimensionalità attraverso la scansione prospettica degli oggetti.
Tali elementi solitari erano estraniati dal loro contesto naturale
e inseriti negli spazi illusori di questa pittura d’assenza.
Sul cadere diogni riferimento a contenuti simbolici o anche solo
sentimentali della pittura di G., ne scrive Guasco nel saggio che
introduce lagrande mostra retrospettiva dell'artista organizzata a
Torino dalla Regione Piemonte. Tali opere, per Guasco, non sono più
emblemi né simboli che rimandano a un ulteriore significato. Per essi si
può forse parlare di sospensione di senso”(per usare un termine di
Barthes), di un muto stupore di fronte alla vita e alla natura. Le foglie
morte e i relitti di G. rifiutano il significato, e quindi ogni commento,
o spiegazione. Il cespuglio spezzato è solo un cespuglio spezzato;
le foglie, anche se rosse, autunnali, non sono les feuilles mortes.
Con avvio del decennio Ottanta ne i Paesaggi (Rocce, Alberi, Isole) vi fu
il riutilizzo di una stesura cromatica che spesso occupava l’intera tela
con un conseguente recupero dell'effetto tonale. Gli spazi
desolati, le muse inquietanti, che G. propose in questa fase suggerirono
a Fossati richiami alla pittura metafisica. Luoghi, intanto, vuoti,
svuotati di allotrie presenze, come è giusto siano le radure vuote
e silenti, per il camminante che vi si ferma a pensare e meditare. Luoghi
di pensiero e di inconsci sofismi: con i relativi feticci oppure archetipi,
teste in gesso di eroi, manichini nel pictor optimus; rami sassi
acque per G.. L'artista, con le serie di guazzi su carta di
Nudi e Macchie sperimenta infine, una pittura liquida fatta di segni
colantiin un'inversione di «sgor- bi cromatici di netta matrice informale.
Confessa ai lettori del catalogo della Micrò. Ancora una volta ho voltato
gabbana e me ne scuso a chi può dare fastidio, G., in catalogo della
mostra, Weber, Torino, Guasco, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura di), G. cit.,
Fossati, Per un omaggio a G., in P. Fossati, F. Garimol- di e Mundici (cur.),
Omaggio a Albino Galvano, catalogo della mostra, Circolo degl’artisti,
Torino, Electa, Milano .G., in catalogo della mostra, Micrò, Torino ma vuole
ricordare che vi è stata una sua stagione d’eriffonages che a questi fogli
ultimi molto si apparenta, anche se là il segno prevaleva, monocromo.
Perciò dico a mia difesa il diritto di difendersi è sempre riconosciuto
ai colpevoli — versatilità, capricciosità sì, incoerenza no. Molti furono gli
spazi espositivi torinesi che accolsero le personali di G. inquadrando la
sua fase pittorica, tra cui: laWeber, il Piemonte Artistico e
Culturale, la Cittadella e la Micrò.
Occasioni extracittadine rilevanti furono presso la Morone di Milano, la Villata
a Cerrina Monferrato e la bipersonale insieme a Gorza presso Palazzo Te a
Mantova. Si rammentano poi l’antologica presso la La Cittadella di
Torino; la vasta esposizione organizzata dalla Regione Piemonte presso
Palazzo Chiablese di Torino che esplora l’intera carriera dell'artista
(corredata da un notevole apparato critico in catalogo) e le mostre
retrospettive all’Accademia di Torino. Costanti furono inoltre le
partecipazioni a collet- tive come alla Promotrice torinese, alla
Galleria Martano e all'esposizione Torino tra le due guerre presso la
Galleria d’arte moderna di Torino. Infine, nell’ambito della rinnovata
attenzione perlostoricizzato Movimento Arte Concreta, Galvano
figurò in svariate mostre a: Cavallermaggiore, Torre Pellice, Gallarate,
Aosta. G. muore a Torino. La dichiarazione conclusiva sugli
intendimenti di una pratica pittorica perseguita per l'arco di una
vita intera è affidata a Galvano stesso e permette di afferrare almeno un
aspetto di questa multiforme e primaria figura di artista, critico e
intellettuale italiano del Novecento. «Di una sola coerenza credo di
poter- mi vantare, ma è coerenza che in qualche modo mi sequestra
al di fuori di tanta arte contemporanea: la fedeltà alla tela, al colore
ai pennelli. In parole povere ho sperimentato molto, forse troppo e
troppo disper- sivamente, ma non mi sono mai sentito vicino alle
ricerche di chi avevarifiutato o cercato un'alternativa ai mezzi tecnici che
poi vuol dire anche espressivi di una tradizione che va dal Cinquecento
agl’impressionisti, ai fauves, agl’espressionisti. Fedeltà o incapacità
di uscire dalla routine? Non sta a me deciderlo. Ne rivendico la
responsabilità o il merito. G., in catalogo della mostra, Palazzo Te, Mantova Alla
presentazione del volume "La pittura, lo spirito e il sangue, Da discepolo
a interprete. G. e Casorati Botta Quando mi presentai
alla scuola di via Galliari, cioè allo studio di Casorati, ha dietro le
incerte aspirazioni dettate da una pretesa mia attitudine al disegno.
Poco, ma abbastanza, insieme alla passione per la storia dell’arte, perché
seguissi con attenzione sulle riviste (specialmente Emporium) le Biennali
veneziane che mi educarono al gusto per l’arte. Con queste parole G.
apre la sua auto-biografia scritta per una mostra retrospettiva torinese,
definendo sin da subito le proprie origini di formazione e circostanze di
aggiornamento. Nato nell’anno in cui, con le Demoiselles di Picasso,
l’arte occidentale vede chiudersi il ciclo iniziatosi alla fine del
duecento, si iscrive al liceo classico Cavour insie-me ad ARGAN (son vicini di
banco), e presto interrompe gli studi per dedicarsi interamente alla
pittura, seguendo inizialmente le indicazioni di artisti intercettati
attraverso le conoscenze familiari. Un temperamento vivo e curioso, il suo, che
più che seguire le letture e gli studi che il percorso scolastico gli
impongono, preferisce accrescere le proprie conoscenze con una formazione
isolata, fatta di letture personalissime. Si seppelle cinque-sei ore al
giorno in biblioteca sostiene in un'intervista. Lì incomincia a leggere La
Critica. Legge Bergson. Nell’atteggiamento che caratterizza l’artista,
concentrato ad inseguire le proprie passioni piuttosto che le strade già
battute, si può forse leggere una continuità nella scelta di rivolgersi a
Casorati come maestro, una decisione non così scontata in una Torino dove
gl’orientamenti estetici sono ancora influenzati dall’ingombrante figura di Grosso
e dall’insegna- mento della paludata Accademia Albertina. G.
ha una fascinazione improvvisa verso l'artista torinese, arrivata
attraverso l'osservazione di- G., Autobiografia, PizzETTI, Givone (cur.),
G., catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chiablese), Regione Piemonte,
Torino ARGAN, G. [presentazione], in XXVIII Bien- nale di Venezia,
catalogo della mostra (Venezia), Alfieri Editore, Venezia. Non sono tra i primi
della classe. Troppe cose c'interessano, che non hanno nulla a che fare
col programma, e ne discutevamo per interi pomeriggi, dimenticando le
versioni di latino e i problemi di matematica. Forse quell’amicizia di ragazzi
ci costa qualche esame ma, almeno per lui, non è un'esperienza inutile. G.
parla d’un apprendistato presso Vannini, maestro di disegno a cui è stato
indirizzato dal pittore Pisano amico di famiglia, che ha spesso occasione
di veder al cavalletto G., Autobiografia Intervista di Lanzardo ad G., in
Fossati, GarmoLpi, Munpici (cur.), Omaggio a G., catalogo della mostra
(Torino, Circolo degli Artisti), Electa Piemonte, G. alla mostra personale di
Palazzo Chiablese, Torino. Archivio Storico della Città di Torino, fondo Gazzetta
del Popolo. retta di alcuni suoi dipinti presenti nelle collezioni
del museo cittadino: “Alla Galleria di Torino — sostiene egli
stesso nell’autobiografia gli sono cioè piaciuti piuttosto i bianchi di tempera
con il rosso dei coralli o il cielo spugnoso del bozzetto per il ritratto della
signora Wolf che il neo-quattrocentismo del Ritratto della sorella. Indicazioni
sintomatiche di un interessamento che si rafforza man mano e che è
destinato a diventare decisivo per il suo ingresso nella scuola dopo la
visita alla Biennale veneziana, nella quale Casorati espone,” oltre
ad otto dipinti, anche due statue destinate al proscenio per il teatro
Gualino. Galvano è colpito, in questa occasione, ‘“[dal]l’azzurro o il
paglierino di stoffe e legni in Daphne che le pose ricercate dei nudi. G.,
[autobiografia], in Albino Galvano, catalogo della mostra (Asti, Galleria La
Giostra, 1952), Asti; relativamente ai dipinti di Casorati citati si veda il
catalogo generale dell'artista BERTOLINO, F. PoLi, Felice Casorati.
Catalogo generale. I dipinti Allemandi & C., Torino. Da qui in poi
citato come (Bertolino, Poli G. autobiografia Relativamente alla Biennale scrive:
Quella volli visitarla di persona e vi fui impressionato specialmente da
Felice Casorati, sicché decisi, scoperto che abitava a Torino, di
iscrivermi alla sua scuola.” (Ip., Autobiografia; in quell’occasione,
oltre al Ritratto di Daphne Ber-tolino, Poli, Casorati espone l’opera Ragazze
dormenti o Mozart, ricordata da G. nel suo racconto autobiografico.
L'ingresso alla scuola lo vede inserirsi in un ambiente già consolidato,
accresciuto notevolmente d’iscritti rispetto al nucleo fondante di
stretto discepolato del suo studio che sta tra l'accademia e il monastero.
La scuola libera di pittura, inaugurata in via Galliari, è ormai una
realtà pubblica, che riunisce maestro e allievi e li vede impegnati come
fronte coeso nelle esposizioni cittadine e nazionali. La serietà e la
dedizione alla pittura sono le caratteristiche fondamentali che danno l’accesso
alla scuola: lo si rica dalle impressioni che risuonano con
continuità tra i commenti e i ricordi degl’allievi che in tempi diversi
affrontano l’alunnato casoratia- no.! G. non fa eccezione: “L'accoglienza
fu, come era nel suo stile, di una signorile severità”.! Ma, al di
là delle incertezze iniziali, il maestro sem- bra essere più colpito
dalla spiccata vivacità intel- lettuale del giovane allievo piuttosto che
dalle sue capacità pittoriche: “credo che — sottolinea Galvano
raccontando di se stesso — abbia avuto subito per l’uomo la simpatia e la
stima che poi sempre mi di- mostrò, forse assai più scarsa la fiducia
nelle mie possibilità di pittore, il che mi fu ottimo stimolo a
intestardirmi e ad impegnarmi a fondo. Lo scolaro “intelligente ma noioso,
predicatorio, secondo il ricordo di Romano, anche lei discepola di
Casorati, presenta le sue opere per la prima volta con il gruppo di
allievi all’Esposizione d’arte allestita nello studio di via Galliari.
L'esposizione intima, alla sua seconda edizione, è aperta al pubblico di
interessati (a visitarla, sono perlopiù personalità del milieu
intellettuale ANTI-FASCISTA cittadino) e vuol essere una raccolta dei
lavori più notevoli eseguiti dagli allievi nello scorso anno. La prova
generale della scuola non sembra però garantire a G. l’accesso
all’im- G. fissa la sua presenza nella scuola G., Autobiografia GOBETTI,
Felice Casorati pittore, Torino Per uno studio sulla scuola di Casorati e sulle
vicende espositive della stessa si veda Cavallaro, La scuola di Casorati,
tesi di laurea, Facoltà di filosofia, Torino, relatore: Rovati; Poi, Cavallaro
(cur.), La scuola di Casorati ed Cefaly, catalogo della mostra
(Catanzaro, Complesso monumentale di San Giovanni), Rubettino, Soveria Mannelli
testimonianze e memorie dei suoi discepoli, in Pianciola (cur.), Il
critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni,
Fano G., Autobiografia Romano, Un invento, Einaudi, Torino, PauLuccCI, Cronache
torinesi. Scuola di Casorati, in “Le Arti Plastiche Su questo
argomento si veda A. BOTTA, Felice Casorati nelle. minente esposizione
alla Galleria Valle di Genova organizzata probabilmente da tempo che vuol
essere l’occasio- ne per riunire una selezione più stretta degli allievi.
Dove attendere ancora qualche mese, in primavera, prima di assistere alla
presentazione di un suo dipinto (accolto per accettazione dalla Giuria)
alla Biennale. Riuniti attorno al maestro, gl’allievi di Casorati occupano
la sala 30, attigua alla fortunata e discussa retrospettiva di MODIGLIANI (si
veda) ordinata da Venturi, che non manca di far nascere alcune
corrispondenze e letture parallele con le opere dei ca- soratiani.
Da questo momento in poi G. incomincia ad essere presente con continuità
alle mostre della scuola. Una conferma che arriva già a poche settimane
di distanza con la partecipazione alla 88° esposizione della Società
Promotrice delle Belle Arti con ben quattro dipinti. Ancora alla fine
dell’anno il suo nome si registra tra gli allievi presenti alla III Esposizione
d’arte di via Galliari,' mentre viene segnalato come uno dei casoratiani
che espongono - questa volta senza il maestro alla mostra torinese degl’Amici
dell’ Arte. Se fino a questo momento le opere di Galvano non
sembrano sollecitare più di tanto l'interesse della critica forse perché
il modello del maestro è troppo riconoscibile nella sua pittura,
l'occasione della I Quadriennale d'Arte Nazionale di Roma apre ad un
interessamento che coinvolgerà da lì in poi anche il giovane artista
torinese, presente con il dipinto Estate, riprodotto per l'occasione
sulla nota rivista milanese La casa bella. G., ancora coeso al gruppo almeno
fino al marzo di quell’anno (la sua presenza è confermata in una
mostra di “scuola” allestita alla galleria Milano, Esposizione dei
pittori Casorati, Bay, Bionda, Bonfantini, Marchesini, Maugham, Mori,
prefazione di G. Pacchioni, catalogo della mostra Genova, Galleria Valle),
Genova Sitratta del dipinto Paese con un ponte; cfr. Catalogo XVII Espo-
sizione Biennale Internazionale d'Arte catalogo della mostra (Venezia)
Venezia Pautucci, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le arti
plastiche ZANZI, Cronache torinesi. La mostra degli “Amici dell’Ar- te Emporium,
Torriano, Cronache d’arte. Note alla I Quadriennale, in “La casa bella”,
marzo 1931, p. 57. Relativamente alla partecipazione degli artisti
piemontesi alla rassegna romana si veda L. IAMURRI, Levi, Paulucci e gli
altri. Presenza torinesi alla Quadriennale, in M. Cossu, C. MicHELLI (a
cura di), Cultura artistica torinese e politiche nazionali, catalogo
della mostra (Roma, Galleria Nazionale d'Arte), Electa, Milano Cfr. Bay,
Bionda, Bonfantini, Casorati, Chicco, Cremona, Donati, G., Levi, Maugham,
Marchesini, Mennyey, Mori, catalogo del- la mostra (Milano, Galleria
Milano), Milano Copertina del catalogo della mostra alla Galleria Milano,
Milano incomincia a dar segni di cedimento rispetto allo sta- tuto
casoratiano e nei confronti della scuola. Un di- Stacco progressivo che
si rende evidente nell'esercizio Stesso della pittura, che lo vede
ricercare una propria indipendenza e nuove vie di espressione. La Promotrice
diventa per lui un terreno di confronto nel quale presentare le più
recenti ricerche, filtrate at- traverso nuovi modelli nel frattempo
subentrati e maturati, chiariti con lucidità — a distanza di anni dallo stesso
artista. Mi affascina il tentativo di ricostruzione formale del mio
maestro e, contemporaneamente e contraddittoriamente, gl’esiti
dell’impressionismo e postimpressionismo, sia nelle loro accezioni originali
sia nelle riprese locali dei sei e, in genere, la pittura di colore e di
tocco, ovviamente legata a una visione naturalistica. Nel duplice e, in
certo senso, contraddittorio intento di tener Insieme i valori plastici
di Casorati e quelli cromatici dei Sei il risultato diveniva naturalmente
pesante, impasta- to, anche perché subivo fortemente l'influenza di
una certa pittura francese, o meglio di una pittura che si faceva
in Francia spesso da stranieri, che allora agli inizi degli anni trenta
mi affascinava dalle pagine dell’Art Vivant. Assente il maestro, G. è presente
con tre opere. La Composizione con figura, in particolare, riprodotta G.,
Autobiografia sia in catalogo che sulla rivista Emporium, mostra gli
esiti dell'aggiornamento condotto sugli esempi dei post-impressionisti
francesi e sulle proposte figurative dei sei (sciolti ufficialmente, come
gruppo), che si riconosceno nella linea di rinnovamento dell’arte
contemporanea tracciata da Venturi. Il
passaggio, da questo momento in poi, è breve. Complice un disfacimento
generalizzato della scuola stessa, il pittore, alla mostra degl’Amici
dell'Arte allestita nell'autunno del medesimo anno, è considerato già da
tutti un ex allievo. Ma la sua fedeltà al maestro e l'amicizia che li
lega lo vedranno partecipare ancora ad una mostra di scuola, allestita
nel teatro di Pavia. Accanto agli ex compagni, G. diventa una presenza
eccentrica. Le sue opere, che spaziano tra i generi (dalla natura morta
al paesaggio), mostrano la sua indecisione circa la strada da intraprendere,
alla luce delle più recenti scoperte, passando dall’espressionismo all'impressionismo
senza un attimo d’esitazione. La rottura con Casorati o presunta tale,
coincide con il suo esordio di critico e con il suo avvicinamento a Venturi, al
quale viene introdotto dal suo compagno di studi Argan G. pubblica un
saggio sull’illustre rivista trimestrale L'Arte, che vede Lionello impegnato
nella condirezione accanto al padre Adolfo. La presenza del figlio, professore
a Torino, apre il periodico al dibattito sulle arti contemporanee, fino a quel
momento escluso dai contenuti tradizionali della rivista. Il saggio
Armando Spadini e il gusto degli impressionisti? mostra l'avvicinamento
di G. alla critica venturiana, già evidente nel titolo del contributo, che
riecheggia il più celebre volume, e che si conferma nei contenuti e nel
soggetto stesso dell'articolo. ZANzZI, Cronache torinesi. L'Esposizione
Interregionale della Promotrice di B. A., Emporium Rossi sulle pagine dell'Italia
letteraria sottolinea come G. sia ormai “teso a tutt'uomo alla ricerca di
costru- zioni personali Rossi, Una mostra interregionale, in L'Italia
letteraria, mentre Zanzi, sulla Gazzetta del Popolo, rileva come la distanza tra
allievo e maestro sia ormai sensibile sia da un punto di vista cromatico
che formale: G. - fa notare - sta liberandosi dai grigi e dalle
tristezze casoratiane e ora si esperimenta, con accortezza e con gusto,
nelle esperienze di Matisse e di Friesz Zanzil], L'arte al Valentino. Mostra
regionale del Sindacato delle Belle Arti, Gazzetta del Popolo, Cfr.e.z.
[E. Zanzi], Agli “Amici dell'Arte” pittori, scultori, ar- chitetti,
decoratori. La mensa degli avieri ideata da Balbo, Gazzetta del Popolo Sornini,
Alla mostra Casorati II, in “Il Popolo di Pavia Cfr. G., Autobiografia Spadini
e il gusto degl’impressionisti, L'Arte VENTURI, Il gusto dei primitivi,
Zanichelli, Bologna Accanto all'impegno pittorico, piuttosto in crisi in
questo periodo (“per una dozzina d'anni, mi mossi un poco a casaccio”), G.
intraprende gli studi universitari presso la Facoltà di magistero. Una
scelta che è dettata non tanto dalla sua ben nota passione per le
materie filosofiche o dalla sua curiosità innata, ma più semplicemente da
problemi economici che lo obbligano in fretta e furia a prendere una
laurea e ad iniziare l'insegnamento in istituti. La fine del suo percorso di
studi, che si conclude con una tesi sulla pedagogia della religione
discussa con GAMBARO (si vda) ed ABBAGNANO (si veda), coincide con
la ripresa dell'attività di critico ma anche di saggista, che si fa
particolarmente intensa e che lo vede collaborare con le riviste Il
Selvaggio ed Emporium. Al di là dell'abbandono della scuola di Via
Gal- liari, Casorati resta per Galvano un solido punto di
riferimento, non tanto come esempio figurativo o di pratica pittorica da
seguire, ma come rappresentate di un modello culturale autorevole e
indipendente pre- sente in città. L'amicizia tra i due, avviata e
riconfermata in più occasioni, sembra in questo giro di anni
intensificarsi ulteriormente, antici- pando il sodalizio che porterà alla
pubblicazione della monografia per la collana “Arte Moderna Italiana”
di Scheiwiller nel 1940, dedicata integralmente al maestro. Incomincia
a collaborare con Emporium occupandosi di curare la sezione Cronache
torinesi del mensile. Questo nascente incarico gli permette di affrontare
e commentare l’attività artistica piemontese, confrontandosi con un universo
legato ad una rivista nota ed ampiamente diffusa e discussa. Casorati è
sempre presente nei suoi articoli: viene seguito passo passo da G. sia
nelle vesti di pittore che di organizzatore culturale, offrendo in special
modo la propria attenzione all'impresa della galle- G., autobiografia
Intervista di Lanzardo a G. Da ascriversi sempre al rapporto con Venturi sono i
tre volumi di G., apparsi per Nemi di Firenze (L'arte egiziana antica;
L'arte dell'Asia occidentale e centrale; L'arte dell'Asia orientale),
pubblicati nella collana “Novissima enciclopedia monografica
illustrata”. Casorati sa rispettare la personalità dell'allievo
anche quando non era affatto d'accordo sulla visione dell’allievo. Infatti quei
pochi che sono venuti fuori tra i molti che ci sono Bonfantini, Chicco, Montalcini,
ed io, ci siamo subito allontanati da Casorati pur restando suoi amici,
pur essendo sem- pre aiutati da lui sul piano pratico per mostre ed
esposizioni. [Ma Montalcini ed io siamo passati all’astrattismo, poi
all’informale, tutte cose che Casorati ma non ci ha mai tolto né la sua
amicizia né la sua protezione. In questo è veramente un grandissimo signore, Intervista
di Lanzardo a G. G., Casorati, Arte moderna italiana Serie Pittori Hoepli,
Milano ria “La Zecca, avviata dal maestro a Torino insieme a Paulucci in
via Verdi Se appare piuttosto chiaro come G. tenti con i mezzi a sua
disposizione di promuovere e sostenere l’amico Casorati nelle sue molteplici
attività, il maestro, dal canto suo, cerca di aiutare il suo
ex-allievo nel suo percorso di pittore. È lo stesso G. a dichiarare
apertamente, molti anni più tardi, come la sua affermazione al premio
Bergamo sia in realtà frutto di un aiuto arrivato dallo stesso maestro:
“Casorati è molto potente mi fa accettare al Premio Bergamo, mi fa sempre
dare qualche premio, per cui mi trovai agganciato. Presente con
continuità G. si aggiudica per ben tre anni i premi in denaro del concorso.
Solo nella seconda edizione non compare tra i vincitori, ma la sua opera
viene acquistata dal ministero dell'educazione nazionale a titolo
di incoraggiamento. È data alle stampe il saggio “Casorati” scritto da G.,
apparsa per Hoepli di Milano. Il saggio si inserisce all’interno dell’ambiziosa
collana Arte Italiana inaugurata e coordinata da Scheiwiller, immaginata
per raccogliere uno dopo l’altro
gli artisti italiani più noti del tempo, attraverso piccole monografie
illustrate, introdotte da un testo critico che viene di volta in volta
scelto dall'editore o dall'artista protagonista del volume. In questo
caso, è infatti Casorati a suggerire il nome del giovane critico a
Scheiwiller, incaricandolo di aggiornare radicalmente la precedente
edizione di Giolli, ormai vecchia di quindici anni. Il saggio di G.
non si colloca, all’epoca, come una novità di genere nella
letteratura artistica del pittore, ma rientra in un panorama già
piuttosto sedimentato di studi sul maestro, che si occupano di fornire uno
sguardo complessivo sull'intera produzione raggiunta sino a quel momento.
Il volume La collezione Della Ragione, in “Emporium, Torino.
Maccari alla Zecca, Emporium, Torino. Mostre alla “Zecca”, in “Emporium, Torino.
Mostre alla Zecca, Emporium, Intervista
di Lanzardo a G. G., Felice Casorati, cit. Per uno studio sulla mono-
grafia si veda Botta, G. e Casorati. La mongrafia per la collana Arte Italiana
di Scheiwiller, tesi di specializzazione, Università degli Studi di Udine,
relatore: Fergonzi. Giotty, Casorati, Arte italiana, Serie Pittori, Hoepli,
Milano. lo studio di Giolli, infatti, limitava necessariamente l'indagine
sull'artista. di Gobetti, che si propone come una rico- struzione
cronologica del percorso artistico (nonostan- te la limitatezza della
produzione casoratiana) apre la strada a numerosi tentativi di
interpretazione e ordi- namento dell’opera del maestro, non limitati alle
pubblicazioni di carattere monografico (il caso successivo — come si è
detto — è quello di Giolli) ma rintracciabili anche all’interno di
contributi meno estesi che, a partire dal saggio di Venturi uscito su Dedalo,
diventano sempre più frequenti nei tempi a venire, anche sotto forma di
presentazioni nei catalo- ghi delle esposizioni. La critica contemporanea
studia la produzione di Casorati secondo principi e approcci molto
differenti che, verso la metà degli anni Venti, tendono a farla rientrare
in quel processo di costituzione di un'arte nazionale ufficiale:
un’annessione ai pittori non pienamente condivisa dall'artista che è esplicitata
nel saggio di Sarfatti apparso sulla Rivista Illustrata del Popolo
d’Italia e che contribuirà a determinare una lettura della pittura di
Casorati divisa “tra estetica e lettera- tura”, destinata a rimanere
ancora per molto tempo identificativa del suo lavoro. Intorno
agli anni Trenta il lavoro di Casorati rientra già nell'ottica di una
ricostruzione storica più ampia dell’arte italiana ed internazionale: le
pubblicazioni di Sarfatti, di Guzzi, di Costantini, di Brizio e di Nebbia, esaminano Casorati secondo una
prospettiva generale (con le inevitabili ed ulteriori opinioni contraddittorie),
ma sono tutte piuttosto concordi a identi- Gost, Casorati pittore, VENTURI,
Il pittore Casorati, Dedalo Mostra individuale di Casorati, Esposizione d'Arte,
Venezia, catalogo della mostra, Venezia, Ferrari, Venezia PACCHIONI, Casorati,
in Exposition d'’artistes italiens contemporains, catalogo della mostra
(Ginevra, Musée Rath), Foa, Torino, Rossi, Felice Casorati, in Artistes Italiens,
exposition, catalogo della mostra (Ginevra, Galerie Moos), Richter,
Ginevra BERNARDI, 25 opere di Felice Casorati nel salone de La Stampa,
catalogo della mostra (Torino), La Stampa”, Torino. Per una ricognizione
sulla fortuna critica Casoratiana si veda P. THeA, La critica e Casorati:
profilo e antologia, in LAMBERTI, Fossati, Casorati, catalogo della
mostra (Torino, Accademia Albertina), Fabbri, MilanoSARFATTI, Pittori. Felice
Casorati, in Rivista illustrata del Popolo d’Italia In. Storia della pittura
moderna, Cremonese, Roma; Guzzi, Pittura italiana contemporanea. Origini
e aspet- il, Bestetti & Tumminelli, Treves, Roma-Milano; COSTANTINI,
Pittura italiana, Ulri- co Hoepli, Milano; Brizio, Ottocento Novecento,
Utet, Torino NEBBIA, La pittura, Società editrice libraria, Milano ARTE
MODERNA ITALIANA G. CASORATI HOEPLI. MILANO EDITORE Casorati,
Ulrico Hoepli, Milano ficare nell'opera del medesimo una tendenza interna
e personalissima alla corrente novecentista. Le difficoltà nel
rintracciare una linea condivisa per la sua arte era già stata
evidenziata da Debenedetti (filosofo torinese, come Gobetti, prestato anche lui
alla critica d’arte) con l'articolo Casorati e la critica d'arte, nel
quale sottolineava come L'arte di Casorati pare fatta apposta per
isconcertare gli schemi che la più scientifica critica d'arte s'è data
come sicuri oramai ed incontrovertibili, evidenziando nelle conclusioni tutte
le contraddizioni di una generazione: “Linea, dunque, no: forma
plastica, no: colore, no: o quanto meno né la linea, né la forma,
né il colore intesi come schemi esclusivi ed esaurienti, nell'accezione data
dai critici, che di quegli schemi si sono fatti, non pure gli interpreti,
ma i banditori. E questa è l’involontaria polemica del Casorati contro
la critica d’arte. Davanti a questo insieme di opinioni e
approcci differenti, G. si dimostra sin da subito molto perplesso verso i
suoi predecessori, affermando in maniera categorica come Ciò che è
mancato più ad una critica concludente su Casorati è appunto una
comprensiva ‘lettura’ delle sue pitture, e sintetizzan- DEBENEDETTI,
Casorati e la critica d'arte, L'Italia letteraria G., Casorati do poi, nelle
prime pagine della monografia, i termini di questa fortuna critica che è
anche incomprensione sedimentata verso l’artista, almeno fino alla metà
degli anni Venti: Casorati ha goduto di un momento di fortuna quando
la sua pittura, forse proprio perché meno urtante a prima vista di
quella di altri pittori di avanguardia, ebbe tutti i suffragi e
specialmente a quelli della critica che voleva essere alla pagina, ma
salvando il rispetto per la tradi- zione [...] Erano i tempi in cui la
pittura del novecento appariva come uno sforzo neoclassico in polemica
con l’arte futurista da una parte, con l’aneddotismo elegante dall'altra,
la pittura di Casorati ha una sua funzione in Italia per liberare il
medio pubblico dagli en- tusiasmi per Grosso, per Sartorio, per Dall’Oca
Bianca. Rispetto ai precedenti studi la posizione di G. è fin da subito ben
chiara: risiede nell'approccio preferenziale con cui affronta l’opera di
Casorati, total- mente inedito sino a quel momento, che viene
ribadito in più punti della monografia. In apertura del
volume il critico-pittore sottolinea come la sua analisi non si
circoscriva a una rilettura analitica e distaccata della produzione
casoratiana, ma si sviluppi attraverso una consapevolezza fondata
sul ricordo della propria formazione: Casorati pittore scrive
richiamandosi ai suoi rapporti col maestro è stato per molti della mia
generazione una esperienza di importanza capitale in ordine alla
formazione del gusto e all'orientamento di una cultura non soltanto
limitata a fatti di specie figurativa. La pratica di di- scepolato presso
di lui e la frequente consuetudine di Casorati uomo, hanno valso ad
alcuni di noi come un'esperienza fra le più profonde e decisive anche
per quanto riguarda la vita morale. L'insegnamento di Casorati,
oltre a fornire una solida base di rudimenti pittorici insieme agli
stru- menti per uno sviluppo individuale delle personalità
artistiche, è la chiave sempre secondo G. per la comprensione stessa
dell’opera del maestro, chiarita metaforicamente in un passaggio del
testo. Casorati è uno di quei pochissimi artisti che dopo il rapimento
delle muse non rimangono incoscienti di quanto in loro è avvenuto; lo
capiscono ed aiutano a capirlo agl’altri. Un concetto che viene ribadito,
in maniera ancora più chiara, verso la fine del suo lungo contributo per
Scheiwiller. Non molti di noi allievi hanno saputo da quelle parole
imparare a dipingere decentemente, ma certo tutti a leggere i suoi quadri un
poco meglio. Con queste premesse G. vuole dimostrare come la
vicinanza al maestro gli permetta di avere una visione privilegiata,
lucida e fedele del suo lavoro, elevando la lettura delle opere ad
un’originalità vicina alle intenzioni del maestro, più di quanto gli
altri possano avere. Al di là degli schieramenti e dei tentativi di categorizzazione
che, a più riprese, hanno interessato il lavoro di Casorati tra assimilazione
al gruppo novecentista, ascendenza neoclassica o, ancora, appartenenza
alla poetica metafisica, G. sceglie il sostantivo platonismo per
riassumere gli esiti figurativi ottenuti dall'artista, un’indicazione che gli
permette di liberarsi da ingombranti etichette sino a quel momento attribuite
all'opera del pittore. È un'affermazione di Casorati a suggerire a G. le
basi per un'interpretazione platonica delle sue opere: il critico
recupera esplicitamente una dichiarazione del maestro espressa a margine
di un catalogo della Galleria Pesaro, nella quale chiarisce le proprie
intenzioni quasi programmatiche di esercizio pittorico. Dipingere la
verità, dimenticando la realtà superficiale. Un concetto che viene successivamente
ribadito da Casorati, spogliato delle sue implicazioni categoriche (rinnegate
in un secondo tempo dallo stesso pittore) in una successiva
dichiarazione, riportata nel catalogo della prima Quadriennale
romana, con la quale l’ar- tista sottolinea ancora una volta come il suo
distacco dalla realtà dei soggetti sia prerogativa fondante del suo
lavoro: la mia pittura è staccata dalla vita. La posizione platonica di G.
pone il lavoro di Casorati in netto contrasto con la pittura degli
Impressionisti (che godono invece di una notevole for- tuna, verso gli
anni Trenta, a Torino), collocando il movimento francese e il maestro torinese
su due fronti opposti sia da un punto di vista lirico che tecnico: un sto
di Casorati preferiremmo ad ognuna quella di platonismo. Casorati,
[Dichiarazione], in Arte italiana contemporanea, catalogo della mostra
(Milano, Galleria Pesaro), Alfieri & Lacroix, Milano Scritti interviste
lettere, cura di Pontiggia, Abscondita, Milano Scrissi allora nel catalogo
alcune parole per spiegazione del mio lavoro e quasi per contrappormi
all'arte di quel tempo: affermavo di voler dipingere la verità,
dimenticando la realtà apparente; di voler indulgere agli errori che
spesso sono la sola ragione dell’opera d’arte. Queste parole furono
definite un’eresia estetica; in fondo, però, esse volevano spiegare il
carattere di immobilità, di impassibilità dei contorni decisi di forma,
in con- trapposto al più o meno degenere impressionismo di
sfarfalleg- giamenti colorati, di indecisione ottica, di ricerca del
movimento nel vibrare continuo della luce CASORATI, in G. MascHERPa
[a cura di], Casorati e il religioso, catalogo della mostra
[Milano, Galleria San Fedele, Milano, Milano CASORATI, Presentazione, Arte
nazionale, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle esposizioni), Pinci, Roma
Scritti interviste lettere, E infatti se dovessimo trovare una parola per
definire il gu- IN rifiuto che è categorico e si muove sulla
falsariga delle indicazioni già enunciate dall'artista nella citata presentazione:
“non ho mai capito il movimento qui déplace les lignes’, e adoro invece le
forme statiche la mia pittura nasce, per così dire, dall'interno e
mai trova origine dalla mutevole ‘impressione’ }° consi- derazioni che
vengono caricate di significati filosofici, anche in questo caso, da G.:
Al protagorico impressionismo per cui misura di tutte le cose è l'uomo
individuale, si contrappone dunque il platonico Casorati richiamandoci
all'ordine di una pittura dove le cose appaiono reali in quanto hanno la
maneg- giabilità di ciò che dal flusso delle sensazioni è
ritagliato per opera dell'intelletto. Scodelle o uova, teste o seni varranno
come categoria. Al degenere impressionismo Casorati contrappone, secondo G., i
suoi caratteri di immobilità, di impassibilità, di contorni decisi, di forma.
Alle premesse teoriche fanno seguito le prime verifiche sulle opere che,
a differenza dei precedenti Studi, non seguono uno sviluppo strettamente
cronologico ed organico della produzione casoratiana, ma si Muovono più
liberamente, procedendo secondo l’andamento del discorso. Come nelle
antecedenti occasioni di studio, l’ini- z10 dell'attività pittorica viene
fatta coincidere con le Opere che gli valgono le prime attenzioni
da parte della critica alla Biennale di Venezia ed alla moStra degl’Amatori
e Cultori di Roma. Le considerazioni che investono il dipinto Le vecchie e La
cugina sottolineano nelle ricerche di Casorati un senso drammatico della
vita teso in un’acuta analisi psico- logica in cui non manca una punta di
sensualità, Ma temperata in una specie di serenità letteraria, Motivi che
si pongono in continuità con le formulazioNi espresse in precedenza sia da
Gobetti che da Ventu- Il, attenti entrambi a rilevare l’attenzione
psicologica ed il senso letterario di queste prime composizioni. Il salto
a questo punto si fa subito brusco: l’esclu- Silone di tutta la
produzione degl’anni della guerra, che coincide con il suicidio del padre di
Casorati e con le nuove responsabilità di capofamiglia verso le due sorelle
e la madre, è in linea con le volontà dell'artista, che sceglie di non
conservare le opere di quel periodo, contraddistinte da un simbolismo e
sintetismo decorativo piuttosto anomalo. G., Casorati, (Bertolino, Poli G.,
Felice Casorati, Cfr. Gobetti, Casorati pittore, VENTURI, Mostra di Casorati,
Esposizione d'Arte della Città di
Venezia, cUn passaggio su Le signorine, che libero questa volta da
preoccupazioni di ordine realistico ed orientato verso una completa
subordinazione alla composizione, permette a Galvano di transitare direttamente
su Tiro al bersaglio, anticipando i problemi di annullamento della terza
dimensione già evidenti nel dipinto. Per G. Tiro al bersaglio
rappresenta un’opera cruciale, da cui parte tutta la produzione più
celebrata dell'artista, quella del periodo immediatamente sucCESSIVO: l’opera
significativa Tiro al bersaglio. In essa il colore e la linea collo
scomparire di ogni ricerca della terza dimensione assumono per la prima
volta una organicità che è davvero il segno dell’impostarsi nella pittura
di Casorati dei problemi di cui anche oggi essa si nutre. Ridotto il
qua- dro, colla completa scomparsa delle ricerche chiaroscurali e
mancando ancora l'ulteriore ricerca spaziale, ad un semplice tappeto di tinte
piatte, si comprende facilmente come linea e colore divengano funzione
l'uno dell'altro, tendendo a uno stato in cui la visione inquietante del
pittore raggiunge uno dei più intensi suoi momenti Il dipinto, in realtà, aveva
sino a quel momento goduto di una fortuna alterna: tacciato di
futurismo nella prima presentazione pubblica è per Gobetti un’opera
dai rapporti formali indecisi ancora legata alla produzione dalla prima metà
degli anni Dieci, un lavoro insomma, che Casorati realizza come prova
per testimoniare a se stesso la fine del suo estetismo e la sua
incapacità di fermarsi ormai all'episodio. La rivalutazione di Tiro al
bersaglio, nei fatti trova, prima di G., un precedente mol- to
prossimo all'uscita della monografia Scheiwiller: Cremona (anch’egli
vicino a Casorati, pur non essendo mai stato allievo della sua
scuola), in maniera analoga a G. ragiona sull’importanza del colore e sul
principio di astrazione presente nel dipinto, che anticipa le opere più
compiute e celebrate degli anni Venti: sottrarre le cose dai
variabili accidenti della luce per penetrare invece il colore secondo un
processo di intelli- gente astrazione. In quella curiosa vetrina di
oggetti vivono infatti quei bianchi spettrali, quei colori —finti-, che
sovente ritroveremo nell'aria rarefatta dove respirano le sue figure, anche
quelle delle parate familiari che Casorati ha sovente composto con
sincera affettuosità ma che appaiono pur sempre affacciate a una ribalta,
in uno scenario freddamente preordinato, sul mondo dal quale l’artista le
ha volontariamente allontanate. Bertolino, Poli Bertolino, Poli G., Casorati, GOBETTI,
Casorati pittore, CREMONA, Felice Casorati, in “Primato. Lettere e arti
d’Ita- La rivalutazione del dipinto si pone verosimil- mente
in linea con le volontà dello stesso Casorati: l’o-pera, che trova collocazione
stabile nell’abitazione dell'artista, è ripresentata ad una mostra degli
allievi e riprodotta per volere dello stesso mae- stro come prima tavola
nella monografia Scheiwiller. Un interessamento che viene letto da G.
come un segno che una pittura senza volume ed una pittura di colore
sembra ancora a Casorati rivelatrice del senso profondo della sua arte. Le
opere aprono la discussione sulla funzione e l’importanza del colore per
Casorati, che viene ampiamente discussa nel testo e che caratterizza da
qui in poi tutta la monografia come lettura univoca del decennio
successivo. Accanto ad una premessa platonica, che si confronta nuovamente
con le opere Meriggio, Lo studio e Concerto, allontanandole da facili letture
estetiche, G. vede in quegli slarghi formali di pittura un anticipo d’un’esperienza
di tono che è chiarissima. Contrapponendosi alle interpretazioni che
vede- vano nella linea e nella forma plastica le caratteristiche
fondanti dell’opera di Casorati G. valuta la pittura del maestro come una
pittura essenzialmente di colore,” spingendosi a verificare le intenzioni
dell’artista e giustificare la scelta di determinati soggetti e forme piuttosto
che altre, proprio in funzione del colore: Vi sono dei quadri di Casorati,
e talvolta proprio i più formali a prima vista, come Daphne che non
si afferrano in tutto il loro valore se non riferendoli al colore.
Casorati ama le forme semplici perché sono quelle che permettono al
colore di stendersi con la sua migliore ampiezza. È strano come questa semplice
verità sia stata tanto spesso fraintesa, non mancando del resto di
contribuirvi la stessa interpretazione che il pittore ha dato della
propria opera”. Una sensibilità tonale che porta il critico ad accostare
come esempio di ‘“straordi- lia”, è quanto mai significativo a questo
proposito il fatto che il pittore abbia tenuto in tempi recenti non
lontani ad esporre, ad introduzione e quasi chiave di sue opere più
recenti, quel ‘Tiro a segno’ piatto e ritagliato fra tutti che volle
anche ad inizio di queste riproduzioni G., Casorati, Il nudo e gl’analoghi
Concerto, Meriggio, Studio, ci presentano un mondo che si presta ad
essere interpretato in modo equivoco, come estetistico, da chi non tenga
presente che per Casorati quelle platoniche accolte di figure femminili ignude,
anche se esse presentano molta eleganza, non hanno veramente valore
per questa eleganza ma solo per lo snodarsi ritmico dei volumi Cfr. (Bertolino,
Poli G., Felice Casorati, La forma serve a distruggere la linea ed a passare
al colore: essa è, se si vuole, il punto di partenza, ma è proprio
il colore è il punto di arrivo Bertolino, Poli. G., Casorati, ARTE
MODERNA ITALIANA CASORATI II ed. del volume Casorati, Ulrico Hoepli,
Milano. nario pre-casoratismo” l’opera di Vermeer e diTour piuttosto che quella
di Ingres, riferita dallo stesso pittore come modello di riferimento
alla propria pittura nel “Referendum sul quadro storico. A sostegno di
questa sua tesi sul colore G. recupera ancora una volta i ricordi
dell’insegnamento del maestro, affrontando questioni di metodo e di pratica
pittorica vissuta nello studio dell'artista, dove l’osservazione dei modelli
veniva condotta non tanto sulla forma degli oggetti, ma sui valori tonali
dei medesimi: ci limiteremo a notare come quanto resti nel ricordo
di chi è stato alla scuola di Casorati verta essenzialmente su due
punti: l'insieme e il tono. E soprattutto l’insieme come forma il più sintetica
possibile in funzione del tono. La forma intellettualistica di un
oggetto, proprio ciò che interessa di più al pittore formale o classico,
è ciò che Casorati consiglia all'allievo di disimparare, la for- ma
che l'allievo deve imparare a vedere il più semplice- mente possibile è
la forma di quella determinata massa tonale, di quella determinata massa
chiaroscurale, non la forma dell'oggetto. CASORATI, [Risposta al
referendum sul quadro storico Le arti plastiche; Scritti interviste
lettere, .G., Casorati, cit., p. 14. Analoghe impressioni sì ritrovano in
L. RoMAnO, La scuola di Casorati, in L'Arte La discussione sul colore offre a G.
il punto di partenza per affrontare le influenze cézanniane che,
secondo una critica assodata ormai da tempo, avrebbero avuto un ruolo capitale
nell'evoluzione del lessico pittorico casoratiano, soprattutto per il
genere della natura morta. È Venturi a offrire per primo quest'interpretazione,
individuando nell'esperienza diretta di Casorati alla Biennale, dove, su dipinti
di Cézanne presenti, sono ben sette le nature morte, il passaggio di svolta tra Le uova sul tappeto
verde e Le uova sul cassettone: Le uova sono un motivo di bianco su verde, le uova
sono un motivo di forma geometrica solida e chiara sopra un volume scuro.
Per G., l'avvicinamento al maestro di Aix è da intendersi come esperienza
più morale che pittorica, nella quale l'evoluzione delle sue natu-
re morte rappresenta un processo interno alla pittura stessa piuttosto che il
risultato di quest’incontro. Uova sul cassettone non si spiega con un
riferimento al costruire tonale del Provenzale nella sua essenza stilistica,
puntualizza G., ma solo col metterlo In relazione a quello che la pittura
di Casorati fu prima d'allora Secondo il critico, più che un precedente
stilistico, la lezione di Cézanne offre la verifica di nuove possibilità
espressive; un punto di vista che trova conferma più tardi nelle stesse
dichiarazioni del pittore, che ripercorrono l’incontro con i dipinti alla
Biennale: Tutta la grandezza del Maestro di Aix mi si manifesta improvvisa.
L'emozione che ne provai fu enorme e non fu un'emozione di sbalordimento
o di stupore, che anzi mi sentii preso da quel senso di calma, di
fermezza, di equilibrio, che solo le opere dei grandi può dare.
Equilibrio! Compresi che nella sua pittura trovava il giusto equilibrio
il problema posto e sviluppato in un senso dell'Impressioni- smo e
il grande opposto risolto da tutta la tradizione; compresi l'aberrazione di una
certa critica che non si staccava di insistere sui problemi di Cézanne:
capii che proprio, che Specialmente in quei difetti è il germe della sua
grandez- Relativamente a questo genere si vedano Fossati, Nature
morte di Casorati, LamBERTI (a cur.), Casorati. Mostra antologica,
catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, Electa, Milano BERTOLINO,
Dal repertorio di oggetti alle prime nature morte PoLI (cur.), La natura morta
nella pittura di Casorati, catalogo della mostra (Iseo [Brescia], Sale dell’
Arsenale, Electa, Milano VENTURI, Il pittore Felice Casorati, Dedalo, Bertolino,
Poli; relativamente alle opere si veda In particolare LAMBERTI, Scherzo:
uova (o Le uova sul tappeto verde) e Le uova sul cassettone, Fossati, Casorati
VENTURI, Il pittore Casorati, Dedalo G., Casorati za. Compresi che Cézanne è il
pittore della rinuncia e che la rinuncia è la forza della pittura.
Non cambiai modo di dipingere, ero troppo inconsciamente orgoglioso
per tentare un cambiamento di rotta che non avrei potuto fare in alcun modo.
Credetti allora di approfittare della grande lezione di Cézanne proprio
irrigidendomi sulle mie posizioni e cercando solo in profondità. La
monografia Scheiwiller, pensata per aggiornare la precedente di Giolli, in
realtà affronta solo marginalmente la più recente produzione del maestro, sostenendo
per le opere più prossime la piena attuazione del proposito coloristico
în nuce già nei primi anni Venti. Ai ricordi della Biennale, e
soprattutto a quella, G. contrappone le opere esposte nei primi anni
Trenta: per La lezione, Susanna e Lo straniero pone l'accento su come prevalgano
in questi dipinti certe note di rossi improvvisi, il taglio in
controluce, il gusto, almeno nei due primi, di accostare il nudo ad una
figura maschile vestita, un desiderio di atmosfera serena che suggerisce
lontananze chiare e assolate. Motivi pittorici che, spogliati degli
elementi accessori (come la copertina del Selvaggio nella Lezione o,
ancora, le pantofole rosse di Susanna), trovano un'ulteriore compiutezza
in Daphne e Ragazza in collina” delle collezioni dei Musei Civici
di Torino, soluzioni più aneddoticamente umane dove il motivo del
controluce sulla finestra aperta so- stituisce figure familiari o
umilmente umane ai mani- chini, mentre il paesaggio si fa sereno [...]
ricavato da quei campi di Pavarolo ormai cari all’artista”. Come
già sottolineato da Maria Mimita Lamberti, l'apporto di G. si dimostra
poi piuttosto illuminante nell'individuare nel tema del nudo una possibile
linea di lettura della sua produzione, sino a quel momento trascurata
rispetto al genere più discusso della natura morta. Il passo è riportato
in Caruccio, Casorati, quaderni d'arte del Centro Culturale Olivetti,
Ivrea, All'insegna del pesce d'oro, Milano Noi veniamo dall'esperienza
della generazione per cui i quadri rappresentarono lo scandalo che
ancora confonde la classicità coll’accademismo e che scorgeva in quei
quadtri, visti alle esposizioni colla famiglia deplorante o pronta al
riso di fronte alle stranezze dell'arte moderna, pur qualche cosa di
inquietante e di tentatore che non si poteva dimenticare i quadri della
biennale rappresentarono invece la
scoperta del mondo nuovo e spregiudicato che si apriva alla nostra
cultura G., Casorati, Bertolino, Poli, Erroneamente G. attribuisce il titolo Lo
studio al dipinto La lezione esposto alla Biennale. L’opera verrà distrutta
nell'incendio del Glaspalast di Monaco. G., Casorati (Bertolino, Poli). G.
indica il secondo dipinto con il titolo Estate. Cfr. A. G., Felice Casorati, LAMBERTI,
I nudi nello studio, in (cur.), Casorati. Mostra antologica, G. vi
riconosce una traccia di continuità che, a partire dalle Signorine, opera
che, secondo il critico, non è d’intendersi come gruppo SINTAGMA (cf. I LOTTATORI
della TRIBUNA di Firenze) ma come insieme di figure isolate), arriva sino
alla Venere bionda, punto di arrivo e di dissoluzione di quello che si
potrebbe chiamare il tonalismo di Casorati secondo G. il motivo del NUDO in
Casorati si presenta come figura essenziale, come una forma elementare,
categorica, simile a quelle delle scodelle, delle uova, dei libri”,
caratteristiche che, alla pari dei semplici oggetti che popolano i suoi
dipinti, permettono quegli slarghi formali di pittura, oltre alla possibilità
di un tono uniforme capaci di confermare la sua sensibilità di
colorista. Il saggio di G. su Casorati viene ristampata, aggiornato
in alcune sue parti e rivista totalmente per quanto concerne l'apparato
iconografico. Tra la prima uscita e la riedizione, l’interessamento che il
discepolo dimostra nei confronti del maestro è continuo e si attesta con
modalità simili a quelle che avevano contraddistinto il suo precedente
impegno sulle riviste nazionali. Vi si affiancano però nuove prospettive
lavorative. Accanto alla sua attività di pittore e di critico che in
questi anni, oltre alla corrispondenza per Emporium e alla collaborazione per Il
Selvaggio, si amplia con due contributi sulla rivista Le Arti, G. è
impegnato nella nuova veste di assistente alla cattedra di pittura di Paulucci
presso l’accademia Albertina di Torino, assegnata contestualmente anche a
Casorati per l'insegnamento di composizione pittorica. Incarichi che vengono
entrambi costituiti ad personam dal ministero dell'istruzione nel
contesto dei provvedimenti avviati da Bottai a favore dell’accademie
artistiche. Sono questi, inoltre, gli anni nei quali G consolida una
sicurezza economica stabile tanto auspicata grazie all'insegnamento nelle
scuole: prima come professore di figura disegnata nei licei
artistici piemontesi e poi, come docente di FILOSOFIA nei licei classici.
La mostra Casorati Menzio Paulucci, inaugurata alla Galleria Cigala di
Torino, è l’oc- casione per tornare a parlare di Casorati sulle pagine
di G., Casorati, cfr. (Bertolino,
Poli). sa: Casorati, Arte moderna italiana, Serie Pittori, Hoepli, Milano.
Cfr. Darmasso, Casorati e l'Accademia Albertina, in LAMBERTI, Fossati, Casorati
Copertina e pagine del volume Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Carlo
Accame, Torino. Emporium”, presente in questa circostanza con due
pittori torinesi protagonisti della scena artistica cittadina (reduci entrambi
dall'esperienza del gruppo dei sei, sicuramente vicini a Casorati ma mai
allievi diretti del maestro: Menzio e Paulucci, con il quale
Casorati intraprende da tempo un rapporto di stretta collaborazione.
Il sodalizio dei tre artisti, che non vuol essere un principio di
ricerca comune ma piuttosto un impegno di politica culturale condivisa,
si ripropone più tardi, in modo analogo, con una mostra allestita alla
Galleria Genova del capoluogo ligure. La circostanza è anticipata da
una pubblicazione autonoma di G., intitolata Tre nature morte e stampata
dalla tipografia Accame di Torino (che pubblica, nello G., Casorati,
Menzio, Paulucci, Emporium”, la monografia su Casorati di Cremona), in un
elegante edizione in folio che riporta come Sottotitolo i nomi dei tre
pittori torinesi. In questa occasione che si propone di presentare
sinteticamente tre opere dei rispettivi pittori, con tanto di riproduzioni
a colori G. sceglie la natura morta come genere esemplificativo della
produzione degli stessi. Un'operazione che nell’introduzione viene
definita come didattica e che si pone in aperta polemica nei
confronti della tendenza a considerare questo genere come motivo poco
adatto alla pittura moderna: ad Ogni esposizione abbiamo sentito
deplorare l'eccessiva presenza di nature morte o esaltare per il loro
scomparire di fronte ai quadri di figura. Una difesa per l'autonomia e
dignità del genere pittorico, che non si risparmia nel chiamare in campo
i precedenti noti di Cézanne, Manet ed ancora Renoir. La questione non
è nuova, ma prende le mosse da un pensiero espresso dal maestro anni
prima, che rappresenta verosimilmente il pretesto per il contributo di G.,
che mostra questo taglio così inaspettato. Sulle pagine del quotidiano
torinese La Stampa, Casorati lamentava nell’artico- lo La crisi delle
arti figurative i medesimi problemi di accettazione della natura morta da
parte di pubblico € critica, con presupposti che sembravano essere
gli stessi avanzati ora da G. nella sua introduzione: Ho sentito
dire ed ho letto purtroppo parecchie volte questa frase: troppe nature
morte, troppe mele, troppi aranci, troppi pomodori ecc. poveri oggetti, vo1
siete i modelli più docili e più esigenti degli artisti Nei momenti più
disperati della mia vita di arti- Sta, io ho potuto riconciliarmi con la
pittura dipingendo umilmente una scodella, un uovo, una pera. La scelta della
natura morta casoratiana verosImilmente
selezionata da G. ricade su Le pere verdi, presentata probabilmente per
la prima volta in questa sede: un’opera che gli permette di riba-
dire il principio coloristico sostenuto nella monografia, che viene qui
chiarito con un'attenta analisi Tre nature morte. Casorati Menzio
Paulucci, Carlo Accame, Torino La presentazione di Nature morte, dovute a
tre fra i più autentici pittori operanti oggi a Torino, potrà anche
apparire, ed essere criticata, come una iniziativa a carattere
tendenzioso e polemico. Non sarà forse il caso di affermare che essa ha
piuttosto un intento didattico? E proprio di educazione del pubblico:
degli intelligenti (almeno in potenza, chè degli ostinati per
limitazione Naturale di possibilità, per passione di parte o per
difficoltà di Sclogliersi da presupposti culturali privi di validità non
occorre Hr a comprendere le ragioni per cui, su di una falsa impo-
azione di presupposti, può passare per atteggiamento polemico, peggio, di
conventicola, il semplice intento di chiarificazione Intellettuale e
critica” (Ivi, p.n.n.). i CASORATI, La crisi delle arti figurative, La
Stampa, Scritti interviste lettere, cit., Bertolino, Poli. CY della
sua pittura (non priva di tecnicismi del mestiere), che si concentra sui valori
tonali e sugli accordi cromatici presenti nel dipinto, che sottendono
sempre secondo G. a problemi ed equilibri di natura
compositiva: Sul fondo rosa e paglia un accordo di due verdi:
crudo e spento, e le chiazze rugginose e calde della putredine che
intacca i frutti; solo dal colore prende realtà il fascino di questa
natura morta, eppure il colore qui non evocherà a nessuno la categoria
della forma aperta o la scioltezza di un pittoricismo abbandonato: chè
Casorati è anche ora il pittore delle forme assolute e degli elementari
geometrici, ma il colore ne rivela, per distinguersi dei campi continui
e dilatati, la purezza, anzi il purismo, di impaginazione e ce ne
propone la più castigata presenza. i colori si subordinano ad una ragione
compositiva a priori in essa si giustifica quel disporsi graduale
di intensità pittorica che può far apparire persino sordo (e tale
veramente sarebbe se non servisse a concentrare ogni attenzione
sull’interno ordinarsi del gruppo centrale, ma pretendesse di disporsi
sul medesimo piano di bel colore dei toni vicini) il colore locale; necessario
a staccare nel castigato e serrato gioco compositivo della frutta
ritagliati sul fondo chiaro, dove più i toni non si distinguono
nella vibrante luminosità, la bruciata profilatura delle foglie. Di
respiro ben diverso, invece, è il contributo Casorati e i torinesi apparso sulla
rivista Pattuglia di Forlì. Nel numero dedicato interamente alle arti figurative
e curato da Testori, G. traccia un bilancio della situazione artistica
torinese: accanto a considerazioni su Casorati in linea con la
monografia Hoepli, abbandona i ricordi della scuola di via Galliari
proponendo una lettura totalmente rinnovata, alla luce dei più recenti
sviluppi espositivi. Menzio e Paulucci rappresentano qui (insieme agli
altri sei, che però non vengono nominati) i pittori che si sono
stretti intorno a Casorati e che, seppur non direttamente allievi
dell'artista, non rinnegano il debito contratto col primo ideale maestro,
né sono da lui sconfessati. Anzi la stima, l'amicizia e la
valutazione dei diversi ed ugualmente validi risultati, da parte
del più anziano rimanevano intatti od accresciuti. Una G,, Tre
nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Casorati e i torinesi, Pattuglia. La
rivista, mensile del Guf di Forlì, viene inaugurata e riporta nel
sottotitolo la dicitura mensile di politica, arti e lettere. Il saggio di
G. viene pubblicato nell'ultimo numero della rivista, curato Testori e intitolato
“Omaggio alla pittura”, che si proponeva di fornire un bilancio dell’ARTE
ITALIANA. LA RIVISTA VIENE INTERROTTA E SEQUESTRATA DA MUSSOLINI per i suoi
contenuti non in linea con le direttive in campo figurativo imposte dal
regime. 07 ee (E I TORINESI) E condizioni che
determinarono a To- : sei anni dopo l'altra polemica fra rino
l'orientarsi della pittura degna L. Venturi, a proposito del di
quest'ultimo, di eu- proposito del valore positivo tentici pittori.
Condizioni in cui la eri. tivo delle influenze parigine sull'arte tica ai
pose di per se stessa come po- ita'iana non ha significato diverso. Ora
lemica: © in cui da polemica fu l'one- Gobetti e Venturi sono appunto stà
stessa della critica. La guerra del tra | primi ad esaltare l'opera di Ca
è terminata. Lo stile libe- sorati. A
dispetto danque delle av ty » in architettura, il neo-pre-ralfuel-
versioni del borghese e delle ammira lismo tipo In arte libertas da cui
zioni dell'aggiornato, che esalta insie pure avevano mosso î primi passi
pit- e Carrà 0 © Casorati, l'e tori validi come Modigliani e Spadini
figurativa di quest uveva esaurita ogni pretesa alla forma- —srebbe un
significato diverso, e in certo zione di una coscienza figurativa nella
senso opposto, n quello in cui si è banalità di un'acquiescenza in cui i
svolta la comune esperienza della più fermenti di possibilità che più
tard' vi viva pittura italiana? In parte si deve scoprirà l'accorto senso
del « perver- rispondere affermativamente pEr eg sai 16 gin
lettuale per quello Hgurativo sano ogni evasione dal fatto
pittorico, E che sioo al 1928 la pittura di Casorati quanto per queste
esperienze avveniva anche nelle punte di estrema avanguar- ordine a le
possibilità della linea cur-.ija come in certi distrutti. di- me di
questo è quel complesso frea- —pinti, n quanto si dice. sotto l'influenza F.
Casorati: “Ragazza,. diano avveniva, in modo anche più vol- gel gusto di
Kandiski, cerca i proprii gare è fatuo, mancati Sant'Elia e Boocio
riferimenti non in un mondo mediterra- : ma in uno nordico {quasi a
fedeltà i H È È; i figurativo di
Martino Span- Torino poi: Thover seguitava a eredere viti e di Defendente
Ferrari che guard Memet o di Bestlovea, a confeadero assai più che
quello, volto verso il l'eleganza lineare di MODIGLIANI (si veda) con di
Gaudenzio), non in un'umanità l'imperizia del bambino (e se mai si
assertrice di proporzionata statura mul sarebbe dovuto rimproverargli
un'ele- rondo det orizzonte, ma nel panza sin troppo vicina preoccupazio-
tormento di sentirai oppressa da È ni ostetistiche e contenutistiche
simili amine mirror quelle che limitavano fl eritico) inau- ciò di dramma
per la propria persona, guraodo quella tradizione di contenu- in quanto
finita, Il sottile linguaggio tismo ad oltranza e di cauto e garbato,
formale, la ricerca d'equilibrio compo- ma fondamentalmente deciso, fin de
sitivo, l'astratto rigore della sintesi po- non recevoie » mel riguardi
di una vi- Loveno sì! suggerire, insieme @ certo conda pittoricamente
valide a cui si at- codenze illustrative (i libri aperti, i tiene con
un'ostinazione che ha per io csrtigli) o agli accorgimenti ‘tecnici, meno
2 merito della consequenzialità come l'uso della tempera verniciata, ri-
quel poco di csi valga la pena di rorimenti al quattrocento, mostro. sn
menzione della critica d'arte del quo- non poteva sfuggire ad ‘una
tidiani oggi ancora a Torino. più accorta l'assoluta continuità spi- Un
panorama, come si vede, sostan- rituale che legava il mondo d'allusioni
rialmente simile a quello del resto crepuscolari è le eleganze
cstotizzanti d'Italia, in cui tuttavia, in quegli delle « Vecchie» o
delle Signorine anni dell'immediato dopoguerra, Tori. attraverso 1
paradossi pseudo-formali ba ipo ipa delle Scodelle è delle Uova nella maniera
particolare e gerto senso, doppia redazione, a tappeto ed s vo- fispetto
al resto d'Italia, polemica, su tume. a questo muovo mondo di non di un
doppio piano, intellettuale e figu: 1meno quintessenziate definizioni
umane Rene a pi o spaziali, anche se nel silenzio di IO) essere
esemplificata PO quelle quinte prospettiche ora quei pro- sizioni
reciproche de La Ronda fili proponessero le loro cadenze non di rivoluzione
liberale. Cinscuno più per la via analitica dei compisci vede quanto
diversi gli orientamenti menti particoleristici, ma per quella umani e
culturali. Ma è tipico che pro? delle sintesi ellittiche. prio fra
Cardareti un'occe. Eppure una così diversa afferma- sione polemica, su Leopardi,
porta a zione in ordine a scoperte pittoriche, una discussione do andava
ben una tanto dialettica decisione nel de- oltre i termini della
cortesia. Siamo nel finire il proprio mondo indipendente. Casorati: “ Bambina. Casorati
e i torinesi, Pattuglia, lettura della scena artistica cittadina che esclude
totalmente i primi discepoli dell'artista che continuano nel frattempo a
dipingere ed esporre, non solo a Torino preferendo invece soffermarsi poi
sull’anomalie figurative intese rispetto al tracciato casoratiano proposte da Spazzapan
e Cremona. Il rapporto tra allievo
e maestro, che è innanzitutto di amicizia, rimane solido negli anni a
seguire, nonostante le scelte di G. si avviino, nel frattempo, verso un
fronte non figurativo della pittura, che lo vedono abbracciare
l’astrazione ed aderire al “Movimento Arte Concreta”, fondando
insieme ad Biglione, Montalcini, Parisot, Rama e Scroppo la sezione torinese
del gruppo. Accanto alla sua attività di critico militante, più
orientata verso le verifiche nel frattempo ottenute con- testualmente in
pittura, tornerà solo raramente ad interessarsi di Casorati, soprattutto in
occasione di letture complessive e bilanci di un'epoca, che sembra
ormai essere lontana nel tempo Cfr. G., Casorati, CAIROLA (cur.),
ARTE ITALIANA del nostro tempo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche,
Bergamo, La pittura a Torino, Letteratura. Rivista di lettere e di arte
contemporanea, La pittura, lo spirito e mente da ricerche solo per certi
riguar- questi sforzi d’uomini della cultura mona, Anch'egli amico di Casorati:
ma pre riuscito a cogliere il momento di di parallele, grazie
all'autenticità della universitaria e in tutt'altra la lezione che ne ha
appreso. spontanen concretezza pittorica. Senza realizzazione figurativa
è della schiet ritorno! Un rigore, un'incisività, un'analitica nì- che del
resto questo gli abbia impedito tezza di linguaggio fantastico da essa Nasce
così il gruppo dei sei: tidenza di segno, una predilizione per quell'accorta
coscienza teorica della po- presupposia, s'inseriva nel dialogo della Menzio,
Chessa, Levi, Paolucci, Galanta quei profili nettissimi che gli permettono
sizione di gusto in cui il suo mondo fi- italiana di quegli anni con una
© Jessie Boswell., Fntro e fuari le vidi dare evidenza allucinante d’inganno
gurativo sì determina e del rapporti di validità di proporzioni che
tuttavia man. cende del gruppo, Francesco Menzio isivo alla riproduzione dei i
og- esso col movimento surrealista, di tiene integro il valore
dell'esperienza risulta allora e tale si mantiene, come i: distribuiti poi
questi in un ardine cui, per una curiosa e significativa a della la
personalità più dotata che fosse ap- di fantasia di rara coerenza suggest
vicenda gli interessi destati a Torino memoria 0 più rigorosa- parsa, da
Casorati in qua, fra i pit- rispondere a furono proprio nella cerchia dei
col monte impegnata in un bilanelo della tori torinesi. Un mondo di
compiaci- più profondamente che gene- laboratori dell'originariamente
pittura. Tutti da Fanciullo ad- menti
delicati, d’edonismo controllato rano l'inquietante mondo delle ansocia» sano
Seleaggio, per brev'ora torinese dormentato allo Studio del © schivo, sceglie usa sun umanità d'ele- i
oniriche e dei senza si ppunto, sino alle recenti realizzazioni, al Concerto »ne
henno zione in volti di donne 0 di gnilicato, dei soprasensi di cui non si
itettoniche, nella sede della società nti i risultati più vivi. Poi el si
bambini. Da questo punto di partenza dà lettura , ma cl Ippica di Mollino) che tatti 1 suoli
hnocorse che i valori di tono e di ero appena le due esperienze opposte, ma
frata» per via di quegli emblemi pit- lettori conoscono, ma erano pur
utilizzabili în assai più concordanti nella dissoluzione di ogni e- torici in
cui però Cremona è quasi sem- G. concreto discorso di quanto non si
lamento estrinsecamente contenutistico, facesse dagli epigoni del peggior
otto- del rigoriamo formale casoratiano in- cento. Si afferma che i
Macchiaioli tu-, e del fervore cromatico de rono fra gli artisti
autentici della no- gl’impressionisti per- stra tradizione; si riconobbe
che un ar- misero a Menzio di scontare in puro tista ostile o almeno
appartato di fron- sollecitazioni pittoriche quei dati del te a ricerche
futuriste, metafisiche © sentimento, si defini una visione tanto
neoclassiche era un grande pit- personale quanto coerente dove la mu i si
riscopri l'im- sicalità del colore e la freschezza del pressionismo. Îl
necclassiciamo, nel È È «po vecento » milanese, che
qualcuno git si che delicati non impedirono, anzi fa- definiva
nooromantico, sì innestava, con vorirono lo spiegarsi di una confes-
Tosi, in una tradizione di pittura a- sione umana piena di melanconica
no- perta. Soffici non più cubista predica biltà nel reiterato e come
ansiosamento ed esemplificava un ritorno alla natura interrogato indagare
intorno alla con- in cui l'esperienza di Cézaane non eselu- sistenza
pittorica di quelle persone di deva quella di Fattori: a Torino, do-
drumma, così sottilmente lirico e di ve già intorno a Casorati una scuola
cosi pausate parole, che si muovona tendeva a ridurre a grammatica il sua
nelle composizioni famigliari di Menzio. figurativo, attraverso l’inse-
Tanto Casorati che Menzio del resto guamento universitario, Îl
mecenatiamo qutt'altro che paghi o chiusi nell'au di un collezionista, i
più rapidi con- tosoddisfazione: anzi entrambi sempre tatti con Parigi,
rapporti col gruppo sofferenti dei limiti o della milanese di Persico
anch'esso partito contiagenti stanchezze che potessero cc- in battaglia
contro il neoclassicismo, appannare il gelido speo- la lezione degli
impressionisti è at- chio di formalismi eidetici del primo, tinta
direttamente ai grandi modelli: © Manet, Renoir, Cézanne, in un preciso
pida dell'altro. inquietudine che ci spie senso importante due notevoli
carollari). ga il piegare verso più riscntite ao Paolacei: Piazza Navona l'affermazione
che Cèzanne non meno nitide pro- veva reagito all'impressioniamo, ma lo
filature lineari di Casorati, veva continuato e che perciò la tradi- come
le | ritorni, e, meno zione più viva di movimento an- , da monotonia le
ripetizioni dava proprio cercata in quel discorso 1delle cose meno valide
di Menzio. ln rapido ed atmosferico si, ma tutt'al. modo assai diverso,
ina con accanita tro che occasionale e vedutistico che è commovente
dedizione ad un'ideale stato proprio dei pittori che abbiamo di pura
pittura che esclude tanto citato piuttosto che dei Monet, dei Pis- ogni
intrusione intellettualistica quento surro, di Sisley. Secondo: che
quel- ogni dispersione decorativa Pao l'adesione all'impressionisno non
po. Iucci è venuto sempre più approfon teva che importare, da una parte,
con- dendo una visione grata © improvvisa, Gogh al più libero fsuvinmo,
rivivere il gusto degli impros- che-dn qualche modo e sia pure unilate;
sionisti, proprio di questa fase della ralmente, il linguaggio di Cizanne
ave- pittura torinese, possono essere riat- ivano continuato, Gli strilli
dei varii taccati, in senso diverto, Mar- Ojetti per i salti in lunghezza
da tina, temperamento delicato di colorista Giorgione n Braque naturalmente
non eu cui è stata decisiva l'influenza di si contarono! Ma intanto
quello che te nf gie gi importava fu che la esemplificazione cento
personale una trepida, © vitale dei frutti di quest'esperienza cul- come
smorzata, elaborazione di ogni da- turale fosse data proprio da quei gio-
to tonale degli oggetti, e Spazzavani pittori che sì erano stretti intorno pan
la cui origine è le cui esperienze è Casorati, pur non più così ragazzi
istriano diedero ad una veramente pro da diventar suoi allievi nel senso
sco- digiosa capacità di trasfigurare |pit- lastico della parola, © che
ora nell'inì-1toricamente, attraverso la rapidità della ziare un lavoro
diversamente orientato, acchia e del segno, ogni dato ogget- e vano il
debito contratto col tivo una truculenza cspressionistica re- primo
ideale macatro, nè sono da Jui mota dal raccoglimento degli altri to-
sconfessati: anzi la stima, l'amicizia rincsi e dalla pacata visione
dell'im- © la valutazione dei diveral ed ugual pressioniamo. È di questo
suo pecu- mente validi risultati, da parte del liare atteggiamento ci
restano molti mo- più anziano rimanevano intatti od ec- menti
d'espressione mirabile, speci cootrapporre ai della mano facile è
dell'illustra incomprensioni fra chi incegue un me- tone
occasionale. desio sforzo d'arte, ala pur attra- Opposta invece, per
intento e per ri verso divergenti esperionze di gusto. È
all'impressionismo l'esperienza i sultato, altrettanto si può dire
dell'attenzione a Dittorica inieressantiesima di Italo Cre- Menzio: Ritratto Alla scomparsa del pittore, G.
traccerà un ricordo del maestro, a margine del catalogo della mostra d'arte
contemporanea di Torre Pellice. Non più il colore o il tono, ma quei valori
umani e di rispetto per le diversità appresi durante gli anni di
via Galliari animeranno, in conclusione, questo suo omaggio di discepolo: poiché
è anche la coscienza di questa libertà, prima ancora morale che estetica,
che da Casorati alcuni di noi ricevettero come l’insegnamento più
prezioso, ci è caro chiudere col richiamo ad esso questo saluto al maestro.
Chè le sue opere parlano, per il rimanente, senza bisogno di commento. il
sangue, cur. Mantovani, Quadrante, Torino G., Omaggio a Casorati, mostra
d'arte, catalogo della mostra (Torre Pellice, Collegio Valdese), Tipografia
Subalpina, Torre Pellice. Gli occhi fervidi e il sapore di cenere G.:
Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Olivieri Approssimarsi
all'opera letteraria di un uomo di cospicua cultura quale è G.,
significa penetrare in una eletta densità speculativa sorpren-
dente se commisurata a un intellettuale defilato in vita e ricorrente
oggi nella ferma e attenta riflessione di pochi storici. Come ebbe a
dichiarare G. stesso In una autopresentazione, non gli si perdona
l'ambiguità di essere scrittore e pittore aggravata dalle stigmate
dell’intellettuale, categoria in cui finì suo malgrado per vocazionale
passione per la cultura. Proprio nell’ambiguità, nel marcare un
confine ideologico sottile, ordinandosi orgogliosamente in disparte insieme
alla generazione degli eclettici Cremona, Mollino e Maccari, ci pare che G. trova
un eccentrico terreno di appartenenza sul quale edificare una propria
filosofia personale sistematicamente relata all’erudizione antropologica,
filosofica, religiosa e pedagogica. Formazione altresì integrata
agli interessi misteriosofici G. stesso ebbe a definire le proprie opere evocazioni
esoteriche vagamente connessi alla cultura torinese d’inizio secolo e, in
modo maggiormente probante, con lo studio di Casorati in via Galliari dove
conosce Daphne Maugham che, dopo avere respirato l’aria mistica
della parigina Académie Ranson, si è trasferita a Torino dove la
sorella con Salice, e Markman si dilettavano già, oltre che di
danza, di teosofia. Redattore e pubblicista prolifico, G. che inizia ad
interessarsi a Steiner e Madame Blavatsky batté gl’argomenti indigesti
alla cultura del suo tempo facendo di sé un intellettuale atipico che,
come ricorda Sanguineti, ispira idee ereticali nei propri allievi. Autore
di pochi saggi, che punteggiarono una carriera meno prodiga di
quella del compagno di studi liceali Argan, conosce Venturi che lo accolse
come collaboratore dell’Arte facendogli inoltre pubblicare alcuni saggi
sulle civiltà extra-europee. L'equivocità tra critica militante e pratica
pittorica fu un banco di prova sul quale verificare, tra continui
rilanci e azzardi, la reciproca tenuta delle parti. In questo assiduo
riversarsi delle specificità discipli- nari consiste per G. il senso
estremo della sua Pittura, votata alla vanità dell'atto privato,
smagata d’ogni velleità economica e promozionale ma cro- S!uolo
rovente dal quale estrarre i concentrati succhi di un'urgenza creativa.
L'incessante ritorno all'arte. ni n G., La pittura a Torino, Letteratura, La
pittura, lo spirito e il sangue, P.MAN- ia cur., Il Quadrante, Torino, G.,
Diagnosi del moderno. Scritti scelti, UFFINO (cur.), Aragno, Torino, L'arte
egiziana antica, Firenze; L'arte dell'Asia occidentale centrale, Firenze;
L'arte dell'Asia orientale, Firenze è, Al Gioberti di Torino dA EdO
a ad. come artificio, come fare in sé autosufficiente, è per G.
un difettivo rimedio all’insanabile scissura della natura umana divisa
tra spirito e materia, tra razionalità e intuizione, e un’imperfetta
occasione di confronto tra individui sul piano partecipabile ed
empirico dell'immagine che, pur sempre aderente alla condizione fabrile,
trova la propria natura più autentica nell'essere essa stessa divisa tra
creazione e imitazione. L'attività poietica, l'agire sulla materia
intesa sui presupposti estetici gettati da Alain (pen- satore scomunicato
da Croce), sottrae il discorso di G. dall’osservanza teoretica
idealistica come dall'impegno etico esistenzialista e, abrogando di
fatto la condanna platonica dell’arte, accetta il va- lore estetico come
simbolo del male. L'arte trova allora la propria eretica ragion d'essere
nella forma materiata, così come l’idolo o il feticcio sarebbero la
divinità in presenza e non l’ipostasi divina. Per questo la pittura per
Galvano rappresenta enigmaticamente il dio visto di spalle. Quando Mosè
chiede al Signore di mostrargli la sua gloria il Signore gli risponde: Farò
passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome.
Soggiunse: Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo
può vedermi e restare vivo. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia
gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano
finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma
il mio volto non lo si può vedere. L'espediente divino narrato nell’Esodo
biblico, fatto laicamente La Sacra Bibbia Saccaggi, Alma Natura, Ave!,
pastello su carta applicata su tela, 68x125 cm., GAM Torino. reagire con
esperienze disposte alle proiezioni, tra cui l’idea del dio pagano che
non tace non parla ma accenna, sarebbe da intendersi per G. che si era laureato presso la facoltà di
magistero di Torino discutendo con Gambaro e ABBAGNANO (si veda) una tesi
sulla pedagogia della religione” come metafora dell'immagine (il “dio
visto di spalle” appunto), quale unica possibilità mondana di
riconquistare l’unità primigenia dell’uomo. L'azione esercitata
dall'artista nelle condizioni oggettive della materia è, più di una
tecnica operativa, un’alchimia ai filosofi G. preferisce Helmont e
Della Riviera che permette il verificarsi di un'unione tra
l'esperienza concreta bloccata nell'immagine e l’'epifania del dio inteso
non in senso devozionale. Sì tratta in sostanza dell’allontanamento
dall'idea crociana di un'arte che esisterebbe autenticamente solo
nell’intuizione e non nella funzione estrinsecante della materia. L'arte
sfugge così al concetto di rappresentazione candidandosi come opportunità
che contemporaneamente apre allo sguardo rinserrandosi nell’enigma,
nella manifestazione del trascendente. G. percorre incessantemente questa
terra di frontiera: COME FILOSOFO, come storico, come pittore. Prodromo
del percorso pittorico è l’alunnato presso Casorati, scelto peril
linguaggio sufficientemente decantato, sintetizzato e affrancato dal dato naturalistico
per mezzo di un'operazione intellettuale capace di conferire un ordine
platonico agli oggetti dispensati dalla polverizzazione cromatica
impressionistica. Una lezione estetica essenziale quanto l’austero contesto
della scuola. Esemplarità che si concretizza inunalto profilo morale e
umano che Galvano ritiene in dissolvimento nell'arte moderna con la quale
si conclude un ciclo plurisecolare aprendosene un altro, tumultuoso
nel bene ma anche nel male, dal quale si sentì definitivamente estraneo.
Il mondo del secondo dopoguerra sarebbe affetto da una crisi di moralità
alla quale potrebbe unicamente fare fronte una presa di
responsabilità politica, artistica, religiosa, speculativamente
limpida ed esente da posizioni compromissorie e accomodanti come
quelle sostenute dagli artisti che vogliono salvare i valori della
tradizione pur dichiarandosi moderni. L'intera modernità e l’idea stessa
di progresso tecnico a G. risultano ree di edificare, intorno a un
fulcro di ragioni economiche (Marx) e sessuali (Freud), un presente
depauperato dall’opportunità della variazione imprevista. A una totalità di
costruzione legata alla forma, tipica del Medioevo, si avvicenda
insomma una totalità d'impiego legata allo scopo, decisamente
avvilente come comproverebbe per inverso il moderno carattere apologetico della
narrazione tecnica e scientifica. Giudizio estendibile al fatto estetico
per cui all'arte come atto fabrile, tipico del Medioevo, si
avvicenda l’arte come atto intellettuale, peculiare del Rinascimento. Segue
il periodo reazionario e tradizionalista del romanticismo, caratterizzato
dal recupero programmatico degl’archetipi (Jung) medievali ma rivissuti Per
un'armatura, Lattes, Torino. Senza il contesto sociale entro il quale
quegli ideali si erano formati. La spontaneità medievale diviene nel
Romanticismo programma culturale e come tale è ereditata dal decadentismo
e dal simbolismo, il soggettivismo dei quali impronterà di sé l'espressionismo.
Le avanguardie appaiono dominate dalla pulsione oppositiva alla tradizione
elevando a sistema l'efficienza produttiva di un nuovo codificato
come autoreferenziale, programmatico e inintelligibile ma incapace
di emanciparsi dal dato naturale nonostante esaurirsi dell'esperienza
storica dell’arte illusiva. Gl’epigoni dell’astrazione storica, i concretisti, sono
nvece esonerati da questa soggezione insieme alle retoriche idealistiche
riuscendo, in piena ricostruzione etica e umana, a calarsi completamente
nel dato residuale figurativo, ossia all'evidenza del fatto pittorico. È l’esperienza
che G. intraprende con l'adesione alla branca torinese del MAC, esauritasi
per lui nella spontanea affermazione delle forme curvilinee tipiche del
Liberty su quelle rette e Spigolose dell’astrazione concretistica. In
una sorta di personale contropartita agl’intelessi spiritualistici e
antropologici, G. pensa a Artemis Efesia, Adelphi, Milano. un'arte
come luogo del verificarsi del mito capace di portare a definitiva
decantazione la sua inclinazione espressionistica (rubricata dal
Pallucchini) estraendo- ne la forza panica trasfigurata in una rinnovata
spinta metafisica. Sein ambito artistico risulta evidente come egli
ha risolto insé l’apprendistato casoratiano non assorbendone che un clima d'insieme,
metabolizzando l'aspetto decadentistico della pittura del maestro
celata sotto la rigorosa adesione a una norma di cristallina
evidenza estetica ed etica, sul piano dell'esercizio critico volle
incrinare dialetticamente il sapere con- solidato al fine di cogliere
unitariamente il senso più autentico della modernità. Accostandosi ai
testi suoi maggiori, nei quali dispiega un cospicuo sforzo storico
ma editati in un periodo a loro sfavorevole Per una armatura e Arthemis
Efesia, si ha la sensazione di essere dinanzi a un affascinate
quanto indefinibile prodotto letterario saggio, DISQUISIZIONE FILOSOFICA,
colta divagazione, eccentrico soliloquio, introspezione analitica che,
pensando alla continua permutazione tra scrittura e pittura, indurrebbe
a pensare a una creazione letteraria con statuto indipen-
denteecreativo rifiutato da Galvano incline, viceversa, a una critica
intesa come emanazione di un'attività immanente all'atto creativo.
Permane tuttavia l’eco dell'idea crociana della storiografia e della
critica che, pur non aggiungendo nulla all'opera ma limitandosi a
sancirne la validità poetica secondo l’idea del philo-
sophusadditusartifici- contrapposta all'idea dell’artifex additus
artifici sostenuta da Annunzio e Conti sulla scorta di Ruskin e Pater,
attribuisce facoltà filosofiche e artistiche alla soggettiva sensibilità
intuitiva dello storico. Coscienza temuta e avversata Croce è,
per G., un'autorità intellettuale che in cambio di una piattaforma
teoretica esige la partecipata condanna delle opere che, passate al
vaglio di un accurato approccio metodologico, risultino prive di
valore poetico. Nell’acido corrosivo dell'ironia e dialettizzando gli
argomenti con lo storicismo, Croce condanna il decadentismo nell’accezioni
mistiche, estetizzanti, irrazionalistiche e in quella che crede
inconsistenza filosofica e spirituale, includendo in quel termine tutto
ciò che tende a sviluppi formali astratti e condannando di fatto la fitta
rete culturale e relazionale della modernità. Nonostante ciò Croce ha
il merito di avere reso accessibile e ripercorribile questa fitta topografia
anche nella declinazione contraddittoria e fragilmente raffinata del
vituperato decadentismo. Accettando la condanna crociana, G.
confessa la propria passione per decadenti, esotici, erotici e apostoli
misteriosofici, ponendosi scientemente in una giurisdizione infernale
come critico e come artista nato dalla linea evolutiva del simbolismo.
Identifica anzi quello straordinario momento storico come un estremo
malinconico balenio della civiltà al crepuscolo, un'epoca di
transizione divisa tra spirito e carne, abitata da alcuni tra i più
eletti spiriti dell'umanità capaci di creazioni difformi ma compiute e che
lo sperimentalismo modernista delle avanguardie esaurirà. In una
sorta di ribellione alla figura paterna, G. trasgredisce la
raccomandazione crociana di non leggere Rimbaud, Mallarmé, Valéry e riscopre,
anteriormente a Cremona, il modernismo e la linfa vitale del decadentismo
attraverso il quadro metodologico del filosofo abruzzese inclusivo di
fatti estetici anche diametralmente opposti alle sue idee. G., come
alla sua generazione, fu quindi impossibile non dirsi crociano proprio per
l'opportunità G., Perché non possiamo non dirci crociani, in Numero Arte
e letteratura”, Omaggio a G.”, catalogo della mostra, Circolo degli’artisti,
Torino, Fossati, GARIMOLDI, Munpici (cur.), Electa, G., “Diagnosi del moderno CREMONA, Il tempo
dell'Art Nouveau, Firenze, che quella metodologia offriva nel
sistematizzare l’intera storia. Quello che invece depose fu lo
spirito conciliante dell'estetica di Croce buona, al più, a banalizzarsi
nell’idea d’un museo immaginario. Quando ha il proposito di
approfondire l’immagine cultuale e psicologica dell’efesina Arte-
mide, partì dalla fascinazione prodotta su di lui da un pastello di
Cesare Saccaggi, “Alma Natura, Ave!” (1898), opera collocabile allora,
quando uscì il libro, e tuttora, in un filone di gusto piuttosto
sospetto. Con una serie di pubblicazioni’, si renderà così protago-
nista, a partire dagli anni Cinquanta, del rinnovato interesse per l’arte
Liberty dalla quale trarrà ben più diuna semplice ragione di studio
quanto invece, nella pratica pittorica, una viva permutazione in
allusioni enigmatiche irriducibili a ogni interpretazione, quali il
fiore di iris, destituite dal ruolo di metafore e sim- boli. Questa
continuità formale si chiarisce anche come continuità semantica quando si
consideri come G. e Cremona abbiano ricondotto l’arte astratta in
un comune svolgimento con il Simbolismo e con il Liberty che, di
quest’ultimo, ful’espressione impiegata sul piano della fabbricazione. Da
cui il transitare di G. dalla fase concretistica a quella informale
e, più in là negli anni, a quella araldica di nastri e bandiere per
giungere appunto agli iris. Trascorrere stilistico da non leggersi come
eclettismo quanto piut- tosto come legittimo susseguirsi tra la carica
allusiva assegnata ai reticoli cromatici astratti e la sensibilità
decorativa trasformata in materia fermentata fino alla disgregazione
dalla quale estrarre infine nuovamente il ritmo danzante delle forme
arabescate. Il simbolismo gli consente di riversare il misticismo nella
propria opera di pensatore e, soprattutto, di pittore. L'arte
assume quindi un valore emersivo di forze morali (leggi spirito) del bene
nel momento crociano, del male più tardi in modo nietzschiano prima
ancora che estetiche (leggi sangue); diade debitrice al suo filosofo di
riferimento Klages, altro intellettuale trascurato in ITALIA quanto sospettato
di avere incubato l'ideologia autoritaria tedesca quando invece più
coerentemente dovrebbe essere pensato come un epigono del romanticismo
intuizionista. L'arte tenta un'indiretta conciliazione tra spiritualità e
artificio consegnando alla storia un’estrinsecazione autentica-
mente creatrice e non solo la copia di una copia; non una
rappresentazione ma un esserci immanente. La volontà di accogliere quel male
come necessario gli viene dalla presa coscienza di un'’artisticità, che
arde G., Dal simbolismo all'astrattismo, in “Galleria di lettere ed
arti; Le poetiche del simbolismo e 1‘origine dell'astrattismo figurativo,
Studi in onore di Venturi. Articoli specifici ai quali aggiungere: L'erotismo
del liberty e la sublimazione astrattista, Cratilo, Gabetti Isola, Casa
di Erasmo, Torino. inlui, radicata proprio nelle opere Create nelle
elaborazioni più irrazionalistiche. Come quella immoralità sia
aperta a fertili risultati lo si comprende appoggiandosi all’in-
terpretazione che Galvano offre delle Artemis: bianca come simbolo
coadiuvante di perfezione conchiusa ma Statica, nera come simbolo avverso
di imperfezione e INCompiutezza ma dinamica e che in potenza può
Jenerativamente aprirsi a una riserva di possibilità eventualmente
immanifeste. Per traslato, quindi, la hegatività del Simbolismo si apre a
una plenitudine di risultati. Permane tuttavia il concetto di fondo che
la pittura, come prodotto di una volontà impossibilitata a
realizzarsi nell’ideale, sia il risultato di una caduta la Cul spoglia
materiale sarebbe prova di vanità e disviamento. Come s'accennava sopra, G. si
smarca dall'idea di un'arte quale esempio del bello estetico e del
bene morale, per lui non più coincidenti, ma accetta la disperata
affermazione dell'immagine come a l Me. È
È n IS 18 la . t LI è ®
î unico possibile risultato dell'impulso proiettivo delle
aspirazioni individuali o sociali. Pittura che in ultima istanza è anche
piacere sensoriale, vocazionale istinto a testimoniare (Baudelaire),
“vizio assurdo”, vanitas; pittura come atto cultuale che mantiene in
gioco la proiezione degli archetipi, la ricchezza delle imma- gini
aderenti al mistero, almeno per quel poco che la contemporaneità
consente, poiché ilmondo nega ogni giorno più spazio alla pittura mentre
il pensiero bor- ghese, incapace di slanci estetici e metafisici,
permette che in questa duplice assenza si innesti la tecnica, la
pianificazione, la sterile sistematicità. Per G. la nostra epoca è
irrimediabilmente scissa dal significato più autentifico della vita, dalla
sua forza feticistica poiché ha fatto di quel mondo, in cui la presenza
del divino è costante, una favola bella l'iconografia della quale
non è che una lontana immagine idealizzata priva, per i moderni, di ogni
accenno oracolare. Queste ragioni filosofiche, di estremo interesse, doveno
apparire perlomeno eterodosse all'atto della loro formulazione, divise
tra esistenzialismo e fenomenologia e affacciate all’abisso del mondo
preclassico, alle profondità eraclitee. Scostatosi
dall’irrazionalismo di Klages, G. non intende fare di sé un anti-razionale
quanto piuttosto un convinto a-razionale, come indica la personale
concezione d’arte in equilibrio tra ragionevolezza e vaticinio, secondo
un fare né pienamente consapevole poiché eroticamente privo di
volontà intellettiva, né tantomeno completamente incosciente poiché
contemplativo. Pertanto l'ipotesi di G. è più aderente alla poetica di
Mallarmé piuttosto che al pensiero di Valery, perché dove il primo
disidratando e affinando la parola poetica pone le condizioni per un
superamento del modello simbolistico aprendo di fatto alle avanguardie,
il secondo immagina la creatività come un processo logico
ricondotto alla piena luce della razionalità, alla consapevolezza
dell'atto. Esaltando cartesianamente l’intelletto e la coscienza, il
processo creativo per Valery è un'attività spiegabile analiticamente
senza ricorrere a misticismo, vitalismo e spiritualismo. Carnalità,
sessualità e sensualità – CROCE (si ved) aveva biasimato la sensualità
nell'opera di Mallarmé come priva d’anelito d’innalzamento sono invece le
pulsioni vitali del SIMBOLISMO che interessano G. e che la
razionalità, in un prolifico ripiegamento autoanaliti- co, dovrebbe
avocare a sé integrandole senza ripulse pregiudiziali. Speculazione
intellettuale e artistica che rivela tutta l’enigmaticità di G. che
oscilla tra i termini affermati da Mallarmé, e ripresi da Alain, di “vision”,
intesacome vaghezza di ispirazione, e “vue”, intesa come concretezza
dell'oggetto in sé risolto. Se da una parte, sull'esempio di Mallarmé —
il quale pre- cipitò le parole nell’assoluta perentorietà delle
pure idee aspirando infine a una “poésie sans les mots”, G. pare
decidersi per la “vue” aderendo al concretismo astratto come pars
construens dalla quale pretendere risposte formali di esito certo,
dall'altra, per mezzo del multiforme divenire della sua pittura,
apre obliquamente alla possibilità allusiva dell’apparire, accettando di fatto
unesito provvisorio prossimo al concetto di “vision”. L'oscillazione
dalla vaghezza creativa all'evidenza intellettuale di forme e colori
è l’unica risposta contingente possibile per G. che decide di non
decidere tra i termini antitetici asseriti, approfondendolo sguardo
nell'oscurità della creazione e della vita. Medesimamente il G. scrittore
affronta il passato eludendo la descrizione analitica delle epoche
storiche portandone bensì all’emersione CROCE, Poesia e non poesia,
Laterza, Bari, MALLARMÉ, Divagations, Bibliothèque-Charpentier, Fasquelle,
Parigi i reconditi meccanismi, le contraddittorie spinte pul- sionali;
un’organica prassi opportuna a increspare la ricerca storica attraverso
una molteplicità di punti di vista culturali posti in reciproco dialogo e
liberamente sollecitati. Il rischio nell’approcciare oggi la figura
di G. è quello di appiattirne il pensiero, come avverte Sanguineti.
L'illustre allievo aveva compreso come il decadentismo pittorico di un
Moreau o letterario di un Huysmans fossero considerati dal maestro un
indispensabile momento storico. G. mostra insomma un’idiosincrasia per
quelle “mortificazioni crepuscolarmente schifiltose” che impedeno
ai CAMPANA (si veda), agli ONOFRI (si veda), agli UNGARETTI (si veda) e ai MONTALE
(si veda) di superare, senza rifiutarne la carica panica e mitica,
il naturalismo panteistico dell’Alcyone dannunziano. InItalia, l'assenza
del dissolutivo lavacro simbolista si era in sostanza ripercosso nella
crociana deplorazione categoriale per l’arte moderna insieme
all’illusione di potere produrre un'opera estetica autenticamente
nuo- vaeludendo il peccato originario del Decadentismo. Il
tentativo di emanciparsi dal prestigio delle autoritates latine che aveva
tentato D'Annunzio richiamandosi ai romantici tedeschi, apriva gli occhi
di G. ai pre-socratici e alla filosofia moderna (dall’irrazionalismo alla
scuola ermeneutica) che del classicismo aveva assunto il senso
vitalistico, indefinibile e misterioso di una natura come rivelazione del
divino. Da cui l’idea di una suprema ragion d'essere trascendente
alla quale l’arte, per G., dovrebbe aprirsi ma che invece nelle
enunciazioni contemporanee gli pare, con buona pace di Eco, rinserrarsi
in un'opera chiusa. Con un piglio da lettura sociale dell’arte, G.
scrive dell’esaurimento dei rapporti storici tra committenti e artisti e
di come ciò abbia mutato l'originaria destinazione d'uso delle opere,
ridotte così a gratuite provocazioni. Conseguentemente proponeva le
dimissioni delle categorie di giudizio elaborate perle arti visive del
passato da sostituirsi con un equivalente delle letture psicanalitiche
tentate da Sartre su Baudelaire e da Lacan su Poe. Restato sempre
un pittore tradizionalista, G. si dichiara disinteressato a certi sviluppi
artistici lasciando intendere come il problema dell'effimerità dell’arte compreso
l'amato astrattismo geometrico sia anche un problema della storia
dell’arte come disciplina. Su come debba essere poi questa storiografia G.
non si pronuncia se non dichiarando che il problema della storia
dell’arte debba essere anche e SANGUINETI, Contro la ragione, in La
Stampa, G., catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Torino, soprattutto il
problema dell’uomo! Sovvengono le parole destinate a grande fortuna
critica che scrive Belting nei pamphlet intitolati “La fine della storia
dell’arte o la libertà dell’arte e nel successivo Das Ende der
Kunstgeschichte. Eine Revision nach zehn Jahren nei quali auspica
la fine della storiografia artistica tradizionale a favore di proposte
olistiche e antropologiche avvedute delle mutate circostanze
sociopolitiche, del rimescolamento di cultura alta e bassa, della
suggestione determinata dai linguaggi mediali, dell’emergere di realtà
culturali prima marginalizzate, dell’obsolescenza della funzione
assegnata al lavoro manuale, dell’alterato ruolo di musei e gallerie
d’arte. La prospettiva delineata da G. si tinge di accenti acri quando
denuncia la pacifica cittadinanza ottenuta dagli ismi ridotti alla
non nocenza di prodotti da supermarket immersi in una rete di opportunità
economiche e di complicità professionali. Un terreno culturale desolante
che assume una disillusa trasposizione nella sua pittura ultima,
nei paesaggi desertificati, nella scelta estrema del silenzio creativo
come opzione possibile nonché parzialmente intrapresa. Facendosi
anticipatore di posizioni storiografiche di superamento della canonica
divisione tra antico e moderno e concentrando il periodo rivoluzionario
dell’arte d'avanguardia, in una sorta di personale à rebours G. esprime
l'opinione secondo cui i movimenti artistici successivi si sarebbero
attestati su posizioni di assimilazione manieristica piuttosto che di
irriverente Sovversione peculiare degli ismi nei riguardi della
tradizione rappresentativa. Delinea unastoria dell’arte moderna parallela più
complessa e connettiva come avrebbero potuto scriverla gli artisti ai
quali infine delega idealmente il compito futuro di creare un'ar-
te che, restando nell’ambito non figurativo e senza Impossibili riflussi,
riesca coerentemente a ristorare i Valori artistici e umani del passato.
G. insomma invoca il diritto anon essere moderno, o peggio ancora d
avanguardia, evitando di lavorare sulla contingenza e rifiutando
l'egemonia della critica per privilegiare, In senso dichiaratamente
anticrociano, la poetica degli artisti che al lavoro intellettuale
uniscono la prassi. Insieme alla proposta per un rinnovamento della
Storiografia artistica G. ne affianca un’altra di Natura conservativa
consistente nell’idea di salvaguar- dare le opere minori del modern
style, perlomeno gli Oggetti e gli arredi non ancora distrutti (di
Cometti Per esempio). Immagina la documentazione degli edifici
Liberty finendo per invocare l'allestimento di Una retrospettiva sull’Art
Nouveau internazionale, ma ù G., Cosa nostra, Sigma, Omaggio a G., Diagnosi
del moderno”, avveduta del caso italiano
e piemontese nel dettaglio, da allestirsi nella rinata Galleria di Arte
Moderna di Torino. Caduta nel vuoto la proposta sarà proprio G. a
scrivere un articolo sull’Art Nouveau a Torino e poi, insieme a Balmas e Guasco,
a curare al foyer del Piccolo Regio una mostra dedicata alla pittura
torinese. Sorta di doveroso omaggio a uno stile di vita prima ancora che
d’arte nel quale confluirono la vita delle forme collettive e
l’individualità creativa. Dissentendo da CROCE (si veda), l'interesse di
G. per gl’oggetti si approssima alle idee espresse da GENTILE (si veda) nella
prolusione al corso universitario di storia della ceramica pronunciato
nel Palazzo Comunale di Faenza nel quale il filosofo, saldando arte
e vita, rivendica la dignità estetica dei prodotti artigianali e
industriali di qualità. Si consuma qui l'ennesima contraddizione di un
crociano affine alle idee di GENTILE (si veda) che pur biasima per
densità retorica. Sensibile alle arti dei periodi di transizione e avveduto
della caducità dei giudizi, compresi i propri, per G. ogni critica
obiettiva deve essere sempre un’autocritica. Augurandosi l'avvento di un
esegeta capace di rileggere l’arte tra i due secoli, così come
Sanguineti seppe fare con la letteratura, G. rammenta come la sua
generazione abbia vergato parole sferzanti su Bistolfi fino a pochi anni
addietro valutato un artista di statura europea. Ma fu anche la
generazione di quei giovani i quali, raggiunti gl’anni quando
dovetteroimmaginare una ribellione la fantasticarono conle parole di
Rimbaud, Gide, Lawrence e Huysmans il cui Des Esseintes sembra essere
allora il prototipo di un esteta come MOLLINO (si veda). Dell’amico,
stimato oltre che come professionista di genio anche come
dilettante d'eccezione, G. ammira la capacità di governare con la
formazione culturale crociana (CROCE (si veda)) e il rigore razionale
tipico della sua professione, gl’umori sensuali, avventurosi e ambigui
del suo animo capace di ri-evocare il ritmo aperto e biologico del
Liberty restituendolo nella voluttà degli interni arredati, nell'armonia
architettonica dei pieni e dei vuoti, nella eterogenea e immaginosa
commistione di elementi organici e funzionali. Un'omogeneità che il
termine “surreale” illustra solo parzialmente e che trova una segreta
corrispondenza nelle opere di Cremona come nei molluschi, nelle
conchiglie, negli antichi libri accartocciati e nelle acquasantiere
barocche che G. dipinge. L'identità autopoietica generata da Torino si
manifesta nella condivisione spirituale prodotta da G., Per lo studio
dell'Art Nouveau a Torino, Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e
Belle Arti] questa generazione d’eccentrici intelletti, nella speci- fica
formazione di un genius loci come G. e nel progetto della Bottega
d’Erasmo che Gabetti e Isola disegnano in forme intellettualistiche
neo-liberty. Proprio in quell’anno, “A Rebours” di Huysmans diverrà per G.
il pretesto per puntualizzare le proprie posizioni all’interno del Mac e
più in generale nel modo di intendere il Decadentismo! Quando Borgese
consiglia agl’astrattisti concreti, in chiusura della recensione alla
mostra di G. allestita presso lo Studio di Milano, di rileggersi il
celebre romanzo di Huysmans nel quale, a suo parere, ci sarebbe stato il
necessario per decodificare la loro poetica, gl’aderenti al gruppo
accolsero l'esortazione come una blasfemia da respingersi integralmente.
G. ritenne legittima la protesta dei compagni astrattisti apparendogli
chiaro come Borgese incaricasse l’ipocondriaca, solitaria ed estetizzante
vita del protagonista narrato nel romanzo, di esprimere un'epidermica
quota d’edonismo e di sensualismo ribelle ai disvalori della società
positivistica industrializzata e scientifica, votata al profitto, al
commercio, al nuovo capitale borghese. Dopo di che G., confessando
di aderire parzialmente al pensiero del capitano della brigata
anti-astrattista Borgese, s'inalvea in una lettura sorprendentemente
sincretica aperta al riconoscimento dell’ambivalenza del rapporto tra
astrazione e SIMBOLISMO (SEGNO ASEMANTICO). Al rifiuto delle suggestioni
emotive del SIMBOLISMO, l’astrattismo, secondo G., ne
intellettualizza le allusioni ele corrispondenze, termine apertamente
rimontante a Baudelaire, come strumento oppositivo al dilagare prosastico
del realismo. L'astrattismo del dopoguerra ridurrebbe quindi ai minimi
termini la carica letteraria aumentando quella metafisica, riscattando la
tradizione dei padri nobili dell’astrazione e tesaurizzando nel
contempo (sulla scorta della ricostruzione filogenetica di Pevsner) la
lezione di Toorop, Gauguin, Munch e Klimt insieme a quella degli
antesignani Runge, Blake, ANTONELLI (si veda), Ciurlionis, Kupka; in
sostanza dei precursori che evocarono ancora le leggi del mondo fisico
consentendo agli evoluti linguaggi non figurativi di divincolarsi più
recisamente dalla mimesi. Tra le due guerre, sull'onda della
fenomenologia e della psicologia della forma, si assista a un
aurorale revisionismo storiografico dell'Art Nouveau, anche Persico
ha in animo di scriverne una storia! G. (asterisco di) in, Pitture di G. in
un esperimento di sintesi (testo anonimo), Milano Studio, Arte
Concreta, bollettino Poi in Fossati, “Il movimento arte concreta.
Materiali e documenti”, Martano, Torino, BorcEse, “Corriere della Sera, Pica,
Revisione del Liberty, Emporium, ma sarà con gli anni Sessanta e Settanta che
diverrà condivisa acquisizione la carica anticipatoria ricoperta da
Mackmurdo e dalla cultura figurativa a partire da Blake. Anima nera del
concretismo, Galvano assume un ruolo sovversivo nel movimento proponendo
ine- dite e intelligenti aperture di senso che tuttavia non
giungeranno a ispirare un prolifico dibattito all’interno del gruppo
infragilito dalle difformità tra la posizione intellettuale rigorosamente
metodica dei milanesi e gli arrovellamenti sulla materia fortemente
allusiva espressi dalla linea torinese. Risalendo alle sorgenti
dell’arte astratta, G. riannoda, in antitesi alle letture formalistiche, le
affinità con le fonti spiritualiste di decadentismo e SIMBOLISMO e
pensando alla densità mistica nell'opera di Huysmans sfogata in
occultismo e cattolicesimo con le citazioni della Blavatsky e di
Steiner scritte da Kandinsky, con la prossimità di Mondrian ai circoli
teosofici, con il lirismo magico di segni e colori dell’orfismo di Kupka
e, non ultimo, con uno dei primi testi dedicati all’astrazione scritto d’EVOLA
(si veda). Dandy auto-ironico votato alla marginalità, G. dissemina il
proprio percorso di tracce sulle quali indugiare, trascorrendo
liquidamente da una disciplina all'altra in modo stupefacente per un
intellettuale animato da pura vocazione pedagogica ma riottoso alla
metodicità dello studio scolastico. Attribuire un senso univoco al suo
pensiero equivarrebbe a fraintenderne la filosofia e l’idea stessa di
un'arte come autosufficiente e spontaneistico operare nella ferita aperta
tra vitalismo e intelletto che l’atto artistico non riesce tuttavia a
cicatrizzare. La civiltà intera corrisponde per lui alla fenomenicità
delle immagini da essa prodotte che, in sostanza, aprirebbero al mistero
quale autentico evento metafisico. Intendendo come piani dell’emersione
archetipica i segni dell’arte della quale l’idealismo si limiterebbe a
coglierne l'aspetto teoretico, Alain quello pratico e l’Esistenzialismo
quello etico è troppo semplicistico archiviare la passione di G.
per decadentismo, SIMBOLISMO e modern style, come l'infatuazione
culturale per un'epoca vesperale. Egli si sente invece custode ed erede di
quella lacerante contraddizione, di quella genesi oppositiva, di quella disperata
tensione verso uno spirituale fatalmente arreso alle forme dell’estetismo,
di quella magnifica e perduta sfida, tanto da riversarne la forza vitale
nella personale proteiforme pittura così come nelle progressive
illuminazioni della sua letteratura filosofica e artistica. Opere esposte
Lettrice sdraiata olio su tela 63,5x81 cm Autoritratto olio su tela 23,5x18
cm Astrazione olio su tela 50x60 cm et adi Il giorno olio su
tela 100x80 cm Pacato olio su tela 90x110 cm Composizione in nero olio
su tela 90x110 cm SENZA TITOLO olio su carta 34x48 cm Ercole ed
Anteros olio su tela 85x115 cm Omaggio a Van De Velde olio su tela 80x90
cm 10 Ir1s olio su tela 105x95 cm 10Y1olio su tela 95x110 cm Calligramma
olio su tela 100x85 cm Fiori di lago olio su tela 100x120 cm Le
jardin de cet astre olio su tela 132x116 cm Ireos olio su tela 130x115
cm Proposta olio su tela 135x122 cm Pavese olio su tela 120x110
cm Farfarello e Malambruno olio su tela 80x60 cm Gonfaloni olio su
tela 95x80 cm Nastro olio su tela 90x80 cm Nastri olio su tela 60x50
cm Nastri colorati olio su tela 110x100 cm Nastri olio su tela 60x50
cm Nastri olio su tela 60x50 cm MALI Nastri 60x50
cm ter» IG MOFBEE sie Tre ir" Saitta SEGNO
ASEMANTICO Segni asemantici (dittico) olio su tela 110x90 cm pari #1
=$ Re |a te n ; 26 SEGNO ASEMANTICO Segni asemantici (dittico) olio
su tela 110x90 cm Artemis olio su tela120x110 cm Maioresque cadunt
olio su tela 90x80 cm TITO sal olio su tela 70x50 cm SENSA
TITOLO olio e carboncino su tela 80x60 cm Ireos olio su tela 70x60
cm Iris acquarello su carta 40x30 cm Sa Cespu glio acquarello su
carta 40x30 cm Glotre du lon g desir idees acquarello su carta 40x30 cm Fiori
acquarello su carta 40x30 cm VRREET L6 LL AIA USD GOG VE o VERDE IL I
BEILET DART DIG SPARI DIO RR pia I I LITIO ODE LIL Fiori acquarello su
carta 40x30 cm Une Fleur olio su tela 70x70 cm Scrittura acquarello
su carta 60x50 cm Sassi e foglie olio su tela 80x80 cm Foglie morte olio
su tela 80x80 cm Ciottoli acquarello su carta 40x30 cm Labrit, © di
DASIO LT R EDLI u DILODIAT Ciottoli e rocce acquarello su carta 48x35
cm Ciottoli acquarello su carta 48x35 cm hu ro iiriiRRRE Rocce
e ciottoli olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm Rocce
e sassi olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm Opere
in mostra Lettrice sdraiata olio su tela 63,5x81 cm Autoritratto olio
su tela 23,5x18 cm Astrazione olio su tela 50x60 cm Il giorno olio
su tela 100x80 cm Pacato olio su tela 90x110 cm Composizione in nero olio
su tela 90x110 cm s.t. SENSA TITOLO olio su carta 34x48 cm Ercole ed
Anteros olio su tela 85x115 cm Omaggio a Van De Velde olio su tela 80x90
cm Iris olio su tela 105x95 cm Fiori
olio su tela 95x110 cm Calligramma olio su tela 100x85 cm Fiori
di lago olio su tela 100x120 cm Le jardin de cet astre olio su tela 132x116
cm Ireos olio su tela 130x115 cm Proposta olio su tela 135x122
cm Pavese olio su tela 120x110 cm Farfarello e Malambruno olio su
tela 80x60 cm Gonfaloni olio su tela 95x80 cm Nastro olio su tela 90x80
cm Nastriolio su tela 60x50 cm Nastri colorati110x100 cm Nastri olio
su tela 60x50 cm Nastri olio su tela 60x50 cm Nastri olio su tela 60x50
cm SEGNO ASEMANTICO Segni asemantici (dittico) olio su tela 110x90
cm Artemis olio su tela 120x110 cm Matoresque cadunt olio su tela 90x80
cm SENSA TITOLO olio su tela 70x50 cm SENSA TITOLO olio e
carboncino su tela 80x60 cm Ireos olio su tela 70x60 cm Iris acquarello
su carta 40x30 cm Cespuglio acquarello su carta 40x30 cm Gloire du
long desir idees acquarello su carta 40x30 cm Fiori acquarello su carta 40x30
cm Fiori acquarello su carta 40x30 cm Une Fleur olio su tela 70x70
cm Scrittura acquarello su carta 60x50 cm Sassi e foglie olio su tela
80x80 cm Foglie morte olio su tela 80x80 cm Ciottoli acquarello su
carta 40x30 cm Ciottoli e rocce acquarello su carta 48x35 cm Ciottoli
acquarello su carta 48x35 cm Rocce
e ciottoli olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80 cm Rocce e sassi olio su tela 80x80
cm Rocce e sassi olio su tela 80x80
cm GARABELLO ARTEGRAFICA, SAN MAURO TORINESE. Grice: “I don’t see why
Italians are obsessed with art, but Speranza is Italian, so let it be. Speranza
thinks conceptual artists are the only ones – such as Keith Arnatt – worth
analysing. In his more snobbish ways, he thinks to mould the male body was Pliny’s
idea of art – bronze statuary of the ‘nudo maschile’ – Painting comes only
second or third, and only because of the desegno – i.e . the line of beauty,
which is – as shape, where ‘kallon’ resided for the Greeks!” -- Albino Galvano. Galvano. Keywords: arte naturale, Gallupi,
Peirce, Grice. By uttering x (gestus), U means that p” gesto, gestus, Grice’s
use of gesture. il concreto, l’astratto, Sraffa’s gesture. Il gesto di Sraffa, l’implicatura di
Sraffa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galvano: implicatura concreta”– The
Swimming-Pool Library. Luigi Speranza, “Grice e Galvano”.
Grice e Gangale: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del dia-letto e la dia-lettica – scuola di Crotone – filosofia crotonese
– filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cirò Marina). Filosofo cirese. Filosofo crotonese. Filosofo calabrese.
Filosofo italiano. Cirò Marina, Crotone, Calabria. Grice: “I like Gangale; the
fact that I taught for years in front of the martyrs memorial helps!” Porta a termine gli a San Demetrio Corone. Si iscrive
alla facoltà di filosofia di Firenze. Si laurea con “La logica della
probabilita”. Iniziato in massoneria, nella gran loggia d'Italia. Porta avanti la difesa dell’idioletto e del
dialetto. Opere "Rivoluzione
Protestante" (Torino, Gobetti); “Calvino (Roma, Doxa); “Apocalissi della
cultura arabresca” (Roma, Doxa); “Il Protestantesimo in Italia” (Roma, Doxa);
“Il dio straniero” (Milano, Doxa); “Giacomo della Marca” (Napoli); “Salve
regina”; “Fragmenta ethnologica arberesca medio-calabra, Soveria Mannelli,
Rubbettino. “L’arbërisht:
l’utopia. According to Hjelmslev, semiotics is first and foremost a
hierarchy. Its distinguishing feature is that it is guided by a dynamic
principle by which it is split into dichotomies at all levels, yielding
expression and content, system and process, denotative and non-denotative
semiotics, and, within the latter, metasemiotics and connotative
semiotics. This text may be reproduced for non-commercial purposes,
provided the complete reference is given: Badir, The Semiotic Hierarchy , inHébert
(dir.), Signo [online], Rimouski (Quebec), signosemio.com/hjelmslev/semiotic-hierarchy.asp. THEORY.
he terms semiotics and semiotic designate two a priori dissimilar things.
By semiotics, we mean a field of study in which we can formulate a method for
analyzing signifying phenomena, as well as a theory including all the
particulars of this analysis. By semiotic [sg.], we mean the result of a
semiotic analysis. So for example, there is a musical semiotics that seeks to
map out music as a comprehensive signifying phenomenon. And furthermore, from a
synchronic perspective (the music of a given period and culture), if not from a
panchronic perspective (music in general), we can say that music is itself a
semiotic [sg.], being possessed of both a system (distinctions in pitch,
duration, timbre, and so forth) and a process (consistent relations between
sounds in their various aspects). According to Hjelmslev, the
acceptations of semiotics and semiotic must be articulated in relation to one
another. Semiotics as a field of study is (ideally) conformal to the results of
its analyses. As such, it is also endowed with a system and a process. In order
to preserve the distinction between the two terms, we must understand that
semiotics as a whole contains specialized individual semiotics [pl.], some of
which are useful in developing theories and methods (the ones that Hjelmslev
calls metasemiotics), while others are meant to be articulated into semiotic
hierarchies (this is the role of what he calls the connotative
semiotics). Francis Whitfield, the English translator of Hjelmslev's
works, drew up a chart showing the semiotic hierarchy with its constituent
parts (in Hjelmslev; also translated into French in Hjelmslev). The class
of objects The class of objects NOTE: THE LIMITS OF GRAPHICS The
above chart shows only one aspect of the functions identified between semiotic
components: their paradigmatic functions (the relations between classes and
their members). A more complete diagram designed to include the distinguishing
features of semiotics would also show the syntagmatic functions (relations of
implication) that operate between the different components. Tree diagrams do
not really lend themselves to this kind of representation. This is one
difficulty that Hjelmslev himself was unable to completely
resolve. SEMIOTICS AND NON-SEMIOTICS In his first work, Principes de
grammaire générale, Hjelmslev sets out the principle of classification that is
operative in any language [langage]. "Categories as such", he writes,
"are a fixed quality of language. The principle of classification is
inherent in all idioms, all times and all places" (trans. of Hjelmslev).
Thus linguistics, with its three levels of analysis (phonology, grammar, and
lexicology) is a science of categories. However he adds that "the
science of categories must disregard the categories established in logic and
psychology and venture right into language's territory to find the categories
that are characteristic of it, that are specific to it, and that are not found
anywhere outside language's domain" (trans. of Hjelmslev). Hjelmslev soon
extended this domain to include languages other than verbal ones, but not to
the point of including any system of classification. The semiotics [pl.]
make up this larger domain, and they are distinguished from other systems of
classification by a certain uniformity (or homogeneity) that forms the basis of
their analysis at all levels. We find this uniformity first between the
components of any semiotic. By custom, these components are called the
expression plane and the content plane. The reason for this is that as a
general rule, expression forms are visible in the object (they are
"expressed"), whereas it is in the content forms that signification
resides (the semiotic object contains content forms). However, this is beside
the main point, which is that we always analyze a semiotic object (usually a
text) uniformly, with an initial distinction between two components. In other
words, for Hjelmslev, as for Saussure, neither expression nor content can be
given predominance; they must both be analyzed together
(Hjelmslev). ISOMORPHISM AND NONCONFORMITY. It is true that Hjelmslev
subsequently states that the semiotic planes must also not be conformal to one
another; otherwise the distinction between them is nullified (Hjelmslev). It
would require too many theoretical details to explain the principle of nonconformity
here. Suffice it to say that this principle is not directly related to the
issue addressed in this chapter, which is hierarchical organization, and that,
furthermore, nonconformity does not in any way interfere with the isomorphism
of the semiotic planes (that is, their structural parallelism). Although
it doesn't simplify matters any, we must acknowledge that a diagram of
semiotics actually postulates a classification that is itself non-semiotic: It
is a symbolicclassification, for it can be seen as either an expression plane
(the terminology Hjelmslev adopts in his theory) or a content plane (the
meaning assigned to each of the terms it presents), and each of these planes is
conformal to the other. PARADIGMATIC FUNCTIONS In one aspect of semiotic
analysis, we use paradigmatic functions to establish distinctions within the
individual semiotics. A paradigmatic function can always be expressed as two
elements in an ‘either ... or ….’ relation: "either this or that". In
a semiotic, any element of any magnitude (a sound, word, sentence, idea, or
abstract feature) can be analyzed in terms of these functions. There are three
possible results: two constants are identified; there is no constant
identified, so that the elements involved remain as variables; one of the
elements is considered to be the variable of the other. The three types
of paradigmatic functions either this or that, one excludes the other
constant ↓ constant complementarity either this or that, it makes
no difference variable ↑ variable autonomy either this, or
more specifically that constant –| variable specification For
example, in Italian, the MASCULINE is a CONSTANT (of CONTENT) with respect to an
animate beings. Conversely, with respect to inanimate elements, masculine is
regarded as a variable of content. In Italian we refer to a city (Latin
CIVITAS), which have no designated grammatical gender, sometimes as feminine –
but sometimes as masculine. And finally, with respect to the class 'sex'
itself, each one has a variable, since sex has been selected as the constant of
content. Naturally, linguistics aims first to establish constants, in
either a relation of complementarity or of specification. From a paradigmatic
standpoint, the expression plane and the content plane are complementary in
semiotics (e.g., in a verbal language), whereas in a symbolic system (e.g., in
a computer programming language) they are autonomous. Another aspect of
semiotic analysis identifies relations between elements. A syntagmatic function
can be expressed as two elements in a both... and... relation: "both this
and that". Once again, three kinds of syntagmatic functions may be
identified: if one element is present, the other must also be present, and vice
versa; one element does not have to be
present for the other to be present; one element is required for the other to
be present, but not the reverse. The three kinds of syntagmatic functions
both this and that, by necessity constant ↔ constant
solidarity both this and that, by contingency variable –
variable combination this necessarily accompanied by that
variable → constant selection A verbal sentence is the
necessary association of a noun phrase and a verb phrase; they are the two
syntagmatic constants of the sentence. Conversely, there is no consistent
relation between the categories of verb and adverb: the verb can be present
without the adverb, and the adverb can modify something other than a verb (an
adjective, such as pretty, in very pretty). The verb and the adverb are
variables relative to one another. On the other hand, an article requires a
noun, but the reverse is not true; in this relation, the noun is the constant
and the article is the variable. From a syntagmatic perspective, there is
always solidarity between expression and content. If the analysis identifies an
expression plane for a given object, then it must also identify a content
plane, and vice versa; otherwise, the object in question would not be a semiotic
object (something we are not supposed to know before we begin our
analysis). NOTE ON LINGUISTIC LAWS Necessity in syntagmatic
functions is quite relative; it depends on the corpus under study. Caution
would prompt us to speak of consistency rather than necessity, as language is
replete with exceptions, and its rules are subject to rhetorical
non-compliance. We are keeping this term nevertheless, if only to emphasize the
predictive intent of linguistic analysis: whatever consistencies have been
recorded in attested texts must still be valid for future
texts. DENOTATIVE SEMIOTICS AND NON-DENOTATIVE SEMIOTICS Natural languages
are the first object of semiotic analysis. Their systems are identified through
the paradigmatic functions, and their processes through the syntagmatic
functions on both planes, expression and content. When analyzed, texts are
equivalent to processes, since they constitute chains of semiotic elements that
are put into relation with one another. Semiotic analysis can be applied
secondly to other kinds of language, with no theoretical adjuncts, and it is
from this extension that it has earned the name semiotics. But in
addition, semiotic analysis can be applied to a third kind of target: forms of
language that cannot be reduced to two planes (their components are not even in
number). These languages [langages] are termed non-denotative. There are two
kinds: the metasemiotics and the connotative semiotics. A metasemiotic is
rooted in a semiotic equipped with a control plane, so to speak. Through this
plane, each element of content takes on an expression in a denominative
capacity. This is what we are doing when we say that in a certain
advertisement for French pasta (to take a famous example used by Barthes), the
yellow and green colours on a red background (the colours of the ITALIANA flag)
signify "ITALIANITÀ" (Barthes). ITALIANIT is a meta-semiotic
expression used to designate the signification of a visual element such as colour.
The same function is in operation when we say that the expression arbor
signifies "tree" (Saussure), except that, in this case, both
expression and content take on meta-semiotic expressions through the use of
distinct typographical markers (italics and quotation marks) and different
languages (Latin and Italian). In this case, they are called autonyms. Metas-emiotic
control helps us to avoid any equivocation between expression and content in
our analysis. Finally, metas-emiotic expression also has a power of
generalization, by allowing categories to be designated. When we talk about the
verb, as we do in linguistics, we are attributing a name to several syntagmatic
functions grouped under this common denominator. To put it another way, the
metasemiotic expression verb can be used to describe a syntagmatic function
that is analyzed in each particular verb (Badir). It can be helpful to
include this control plane in a specific semiotic, for the human mind seems to
be adept at juggling metasemiotic expressions (writing being the prime evidence
of this, and so very complex). This is how a metasemiotic is formed: one of the
planes is the control plane, and the other is the object semiotic. By doing
this, the metasemiotic once again becomes a binary structure, but with two
tiers. Metasemiotic structure metasemiotic control plane, object
semiotic, expression plane, content plane, CONNOTATIVE SEMIOTICS The plane that
is affixed to a semiotic does not always perform a control function, however.
In fact, we can always affix a third plane to a semiotic in order to account
for anything that has been missed by the analysis, anything that is considered
to be a special case or exception. Variants are the evidence of this
analytical shortcoming. If we wish to account for them in some way nonetheless,
then we define them as invariants within special or narrowed parameters that
Hjelmslev calls connotators. The third plane, then, is formed by considerations
that were not selected in the first-tier analysis (called denotative).
This plane is ordinarily held to be a content plane, since it is assumed that
semiotic objects cannot be intrinsically modified by these considerations. (One
senses a delicate point here, that is admissible only at the discretion of the
analyst). Connotative structure connotative semiotic denotative
semiotic, plane of connotators, expression plane, content plane. For example,
Hjelmslev maintains that any given language may be analyzed equally well
through its written texts or its oral utterances; in other words, that its
rules of syntax, its morphological formations and vocabulary are common to oral
as well as written productions. Certainly anyone can see that this assessment
is not ill founded. Nevertheless, there are distinctions, which have inevitably
been left as variants in the linguistic analysis. Ensuring compatibility
between the analysis of these variants and the first-tier analysis is a matter
of establishing a plane in which orality and writing can be included as two
paradigmatic invariants of content of a particular type: orality and writing
are set up as connotators. In this way, the first-tier analysis remains valid,
although it can always be customized with respect to the newly established
paradigmatic function (Hjelmslev). From a broader perspective, we can use
connotative semiotics to specify which tier of specialization to use for a
particular semiotic analysis, as semiotic analysis is not apt to be applied
indiscriminately to any element of language (this is only true of its
theoretical components, in particular, the ones presented here). In linguistics
we begin by recognizing the plurality of verbal languages, basing our analyses
on distinct corpora for each language. It is the role of connotative semiotics
to establish each language as a connotator. So when we speak of the
"linguistic analysis of French", French is a connotator, as it
determines in which particular case the analysis is valid. At this time,
the theory of semiotic hierarchy has been developed extensively only in the
application for which Hjelmslev initially intended it: the metasemiotic hierarchy
of verbal languages (as illustrated in Whitfield's tree diagram, reproduced in
section. Metasemiotic hierarchy with languages [langues] as the object
semiotics expression plane analysis content plane analysis
internal semiologies paradigmatic perspective phonology lexicology syntagmatic
perspective "morphology" grammar external
semiologies paradigm of historical and geographic connotators
historical and dialectal phonology historical lexicology and dialectology
comparative and historical grammar paradigm of social connotators
sociolinguistics, linguistics of written language paradigm of psychic
connotators pedolinguistics, psycholinguistics, study of language
disabilities paradigm of cultural connotators rhetoric, stylistics,
narratology internal metasemiologies phonetics
semantics external metasemiologies physics and physiology of
sound extrinsic interpretations We will start by discussing the
table entries. In the hierarchy there are two columns dividing the analysis
into two components, labelled expression plane and the content plane.
However, this subdivision does not hold throughout (as in the case of
comparative grammar), either because two different semiotic analyses bear the
same name in practice, or because the analysis is non-semiotic, as it turns
out. The hierarchy is divided into rows representing the object semiotics.
First they are divided by their rank in the hierarchy (semiotic or
metasemiotic), next by distinguishing the denotative semiotics (addressed by
the internal semiologies) from the connotative semiotics (described by the
external semiologies). Lastly, the denotative semiotics are divided into
paradigmatic and syntagmatic functions. It should be noted that the hierarchical
structure shown here is reversed in actual practice, where one always proceeds
by progressive expansion, beginning with denotative analysis, or more
specifically, paradigmatic analysis. In this table, languages are
denotative semiotics from the standpoint of the internal semiologies and
metasemiologies; however, they are treated as connotators from the standpoint
of the external semiologies and metasemiologies. The operation of the latter is
dependent on the former. In addition, the metasemiologies regulate
the semiologies by allowing us to verify whether they are adequate to account
for the facts of language [langage]; however, there is no one-on-one
correlation between internal semiology and internal metasemiology, nor between
external semiology and external metasemiology. For example, a semantic analysis
can provide the basis for a lexical derivation or for a narrative schema. And
the physiological analysis of sound can be used as a descriptor for a
phonological invariant (e.g., using the physiological feature palatal to
designate an invariant) or as a means to describe child language (e.g., the
term "labial click", which describes the onomatopoeia produced by
babies 12 months old, also known as the "kissing sound" – this example
is cited in Jakobson). Morphology should be understood in a specific
sense, not entirely removed from the common meaning, but in a narrower sense.
Morphology deals with what Hjelmslev calls the functions between grammatical
forms in his Principes de grammaire Générale. Finally, note that while
linguistics can be considered as one metasemiotic among others, there can be no
objection to adopting the point of view that semiotics provides cultural
connotators for a comprehensive linguistic analysis. These two perspectives are
compatible in glossematics (Hjelmslev's theory of language) and are even seen
to be complementary, to the benefit of semiotics. top BADIR, S., Hjelmslev,
Paris: Belles-Lettres. BARTHES, R., "Rhetoric of the Image", in The
Responsibility of Forms. Critical Essays on Music, Art, and Representation,
trans. Howard, New York: Hill and Wang, HJELMSLEV, L., Principes de grammaire
générale, Copenhagen: Bianco Lunos Bogtrykkeri, HJELMSLEV, L., Prolegomena to a
Theory of Language, trans. F. Whitfield, Madison: University of Wisconsin.
HJELMSLEV, L., Résumé of a Theory of Language, Madison: University of Wisconsin
Press, HJELMSLEV, L., Nouveaux essais, Paris: Presses universitaires de France,
JAKOBSON, Child Language: Aphasia and Phonological Universals, The Hague:
Mouton, SAUSSURE, F. de, Course in General Linguistics, trans. Baskin, New
York: Philosophical Library. Grice: “I like Gangale. Of course, the Italians
adored him because he got Danish citizenship; also because he understood
Hjemlslev as nobody does! Gangale was practical; he was into his ethnic
minority. He formed good philosophical bond with Gobetti, against Croce and
Gentile. It is obvious that those who know the Gangale of the Albanian studies
won’t make a connection with his fight for protetantism and his adventures with
Italian philosophy, with Doxa and Conscientia – but he got his doctorate and he
was able to immerse in Hjelmslev’s glottology like nobody else did!” Giuseppe Gangale. Giuseppe Tommaso Saverio Domenico
Gangale. Gangale. Keywords: il dia-letto e la dia-lettica, idiolect, dialect,
ethno-lect, idio-letto, dia-letto, ethno-letto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Gangale: dall’idioletto al dia-letto” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Garbo: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale e la fisiologia dell’amore – scuola di Firenze – filosofia fiorentina
– filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo
italiano. Firenze, Toscana.
Grice: “I like Garbo; for one I like Firenze, for another I like a Renaissance
man – I’m one!” Grice: “Garbo is extremely interesting at a time when physis
did mean ‘nature’ – the physicist and the physician were the natural
philosophers! At Oxford Transnatural philosophy was created against Natural
Philosophy,” – Grice: “Garbo made the greatest comment on “Love unrequited” by
G&S – by focusing on a ditty by Cavalcanti – Boccaccio loved the
pretentious prose by Garbo on ‘eros,’ ‘amore,’ and ‘cupidus.’ –“ Studia sotto Alderotti
a Bologna. Figlio di Bono, medico e chirurgo. Sotto
il consiglio del padre, fu allievo a Bologna di Alderotti, suo cognato, poi uno
dei più importanti rappresentanti di un riorientamento della filosofia, all che
Garbo diede un contributo importante. Studia sotto Alderotti per un breve
period. Torna presso la casa paterna a Firenze a seguito della guerra tra Bologna
e Ferrara e fu iscritto, a fianco del padre, nella gilda di Firenze di medici e
farmacisti. Le condizioni politiche migliorate gli consentirono di riprendere i
suoi studi e si laurea, successivamente si sposta a Bologna, dove insegna. Quando
Orsini scomunicò Bologna e, quindi, escluse i cittadini bolognesi dal
frequentare lo studio generale, fu, ancora una volta, costretto a lasciare
Bologna. Si transferice a Siena, con l'insolitamente alto stipendio di 90
fiorini d'oro come "dotore del chomune di Siena". Saltuariamente si
recasse a Bologna nonostante la scomunica. E fu a Bologna che completa il suo
commento su una parte del libro del Canon di Avicenna, tanto da guadagnare il
soprannome di "espositore.” Torna a Bologna, inizia la sua “Dilucidatorium
totius pratice scientie” un commento sul Libro I del Canon. Insegna a Padova, a
causa del "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel
suo commento ad Avicenna), riprese a peregrinare tra un'università e l'altra
(anche se è un percorso poco chiaro, a causa delle scarse informazioni fornite
dai biografi e dell'assenza dei documenti). Torna a Firenze e completa
Dilucidarium. Sulla scia dell'esodo della Facoltà di Filosofia da Bologna a
Siena, venne nuovamente nominato dal Comune di Siena, questa volta con uno
stipendio annuo esorbitante di 350 fiorini d'oro, più 100 fiorini, perché teneva
letture a casa sua, la sera. Lavora al suo commento al trattamento con piante
medicinali nel libro II di Avicenna, Canon, cioè "l'Expositio super
canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae", che complete dopo il ritorno a Firenze. Commenta sul “Donna mi
prega” di Cavalcanti. Questo commento è conservato in un manoscritto di
Boccaccio ed è stata tradotta in una versione in lingua “volgare”. A causa dell'invidia dei suoi colleghi di
Bologna, fu accusato di essersi appropriato del commento a Galeno di
Torrigiani. Le lezioni riscuotevano
molto successo, allora i suoi colleghi, invidiosi, dettero il compito a un
allievo che viveva con il medico di spiarlo; quest'ultimo scoprì che prepara le
sue lezioni basandosi sul comment a Galeno di Torrigiani, che conserva
segretamente. Il plagio e reso pubblico, addiruttura Ascoli ne fece scherno con
i suoi allievi, e G. e costretto a allontanarsi da Bologna. Sia Tiraboschi che Colle
notarono delle incongruenze cronologiche della vicenda. Torrigiani e co-etaneo
e collega del medico alla scuola di Aldreotti, e successivamente si fece
certosino in tarda età e solo da quel momento, o dopo la sua morte, avrebbe
potuto prendere i suoi scritti. L'episodio,
probabilmente, indica l'atmosfera ostile – tossica -- in cui era immerso G. a
Bologna, per questo è plausibile che decidesse di accettare l'offerta di Padova,
che dopo la crisi causata dalla guerra contro Enrico VII, cerca insegnanti di
fama. Tornato a Firenze, incontra Mussato in preda a un malanno, che
probabilmente aveva conosciuto in precedenza a Padova e che era a Firenze in
veste di ambasciatore di Padova. A Firenze, la sua stima di filosofo si riprese
dai colpi bassi inflitti dai bolognesi; mostra un ritratto cordiale, sapiente
ma non scontroso, con un atteggiamento affidabile e umano, che cercava di
capire i segreti della natura e molto disponibile, questa era la maniera in cui
appariva ai fiorentini. Descritto come una persona arguta in episodi riportati
da Petrarca, che non conosceva direttamente, ma che aveva avuto contatti con G..
Pesso un cimitero, rispose a dei vecchi che lo volevano schernire con queste
parole. La disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché
siete a casa vostra. (Rerum memorandum libri, risposta simile a quella di Cavalcanti
nel Decameròn. Un altro episodio, invece, fu la volta in cui un uomo prende in
giro il suo piccolo cavallo dicendogli: "e gli insegni a camminare, ma
dove hai imparato quest'arte?", e G. rispose: "A casa
tua". Quanto torna scrisse le "Recollectiones in Hippocratem de
natura foetus" (Venezia), con la "Expositio super capitula de generatione
embryonis" di Tommaso Del G., suo figlio, e la "Expositio in
Avicennae capitulum de generatione embrionis" di Torre. Il trattato di G.
mostra quanto fosse dipendente dall'astrologia araba. Distingue l'anatomia
dalla fisiologia. Indaga la causa delle malattie ereditarie, dicendo che
dipendono da un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito che
il seme del padre trasmette al nascituro. Tratta anche di argomenti molto
discussi dai filosofi del secolo, come la trasmissione dell'intelligenza tra
generazioni, dell'origine del calore animale e della nascita di piante e
animali per “fermentazione.” Dice nell'Expositio che torna a Firenze non per la
crisi di Siena, ma per altri motivi di cui non si hanno documentazioni. Per
Tiraboschi e Colle, G. non sarebbe mai uscito dall'Italia, mentre De Sade dice
che ad Avignone avrebbe incontrato Ascoli.
Quest'ultimo è il motivo della grave colpa di cui Garbo, insieme al figlio, fu
macchiato dopo il plagio già nominato. Ascoli venne allontanato da Bologna e
sospeso dall'insegnamento poiché accusato di eresia, successivamente giunse a
Firenze con la fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di
Calabria. Ascoli scrisse "Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de
Sacrobosco", che si ritiene fosse trattato che egli porta sul rogo,
trattato che fu aspramente criticato da Garbo che gravemente accesi di rabbia e
d'odio contro di lui, perché invidiosi che d'Ascoli fosse preferito come medico
dal duca Carlo. I. Garbo accusa Ascoli di fronte al vescovo d'Aversa e
successivamente lo denuncia all'inquisizione. Questo spinse il duca di Calabria
ad allontanare Ascoli dalla sua corte e dopo fu arrestato dall'inquisitore
Bonfantini. L’accusa era di essere "alieno dal vero dogma della
fede". Ascoli fu bruciato sul rogo. E evidente la responsabilità di Garbo
in questa condanna, per invidia e non per motivi religiosi. G. muore poco dopo
l'esecuzione d’Ascoli. Questo, dice Grice, e causato da un incantesimo di
vendetta lanciato da Ascoli. Altre opere: La figura di G. campeggia se
non come il più grande filosofo di Firenze, sicuramente come quello più
nominato, sia nel bene che nel male, a prescindere dal valore che possono avere
le sue opere a livello della storia della filosofia, infatti rappresenta,
nell'opinione comune, il tipo ideale di filosofo, sia con i suoi pregi, che con
i suoi difetti. Tra le opere che sicuramente possiamo attribuirgli ci
sono ricettari, commenti e trattati. Tra
i vari, ci sono i "Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima
commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis
scientiae noncupatur" (Venezia), dedicati agli studenti bolognesi che
l'avevano seguito a Siena; "Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus
et mensuris nec non de emplastris et unguentis" (Ferrara) insieme ad un
trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle giunture ossee di
Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna, Abū l-Qāsim az-Zahrāwī e
ar-Rāzī. In questo e in altri testi, rileva molte inesattezze di Avicenna e
parla con tono di ammirazione dei antichi greco-romani. Altre opere invece non sono state stampate:
"De militia complexionis diversae"; una "quaestio" sulla
flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica) "Recolectiones super cirurgia
Avicennae" (Modena, Bibl. Estense); Tractatus podagre (San Candido, Bibl.
della Collegiata). E non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi
prega" di Cavalcanti: "Scriptum super cantilena Guidonis de
Cavalcantibus" ("De natura et motu amoris venereis cantio cum
enarratione Dini de Garbo", Venezia, introvabile). Il commento riguardo a
“Donna mi prega” considera l'amore (eros) da un punto di vista strittamente patologico,
come passione, e anche se a volte tende a sovrapporsi a “Donna mi prega”,
esponendo le idee sull'amore di se stesso (“amore proprio”) che quelle di
Cavalcanti, resta un importante document. Suddivide il testo in tre parti.
Nella prima parte, Garbo dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si
dicono. Nella seconda parte, Garbo filosofa di quelle, che esser ne determina.
Nella terza parte, la chiusa, Garbo dimostra la sufficienza di quelle cose,
ch'egli ha dette. Nella seconda parte, la più importante, si segue la
dimostrazione sulle *otto* caratteristiche dell'amore: I) dove si produce
(nell’appetito sensitivo); II) chi lo genera? la disposizione naturale del
corpo dell’amante – per non fare menzione digli influssi di Marte su Venere)
quale virtù ha l’amore, dato che è passione d'appetito? Nulla. IV) Quale e
l’effetto dell’amore? La morte che impedisce
le operazioni della virtù vegetativa) quale e l’essenza dell’amore? E una
passione naturale). Che alterazione provoca? Infermità, malinconia, morte. VII)
Che spinge a filosofare sull’amore, dato che non si può celare la passione? Lo
spirito platonico) Se l'amore (o strittamente, l’amare) si dimostri via il
sentire? Si. È evidente che parli come filosofo aristotelico. Per G., l'amore è
una malattia, una passione dell'appetito sensitivo, che può causare a sua volta
molte altre malattie, e per questo va curata, con la dimenticanza e
l'allontanamento, l'"accidente fero" di Cavalcanti è il maligno
influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova
nella casa di Venere. Altre opere: “Dynus super quarta Fen primi cum
tabula” (Venezia: Lucas Antonius Giunta Florentinus); “Expositio super tertia,
quarta, et parte quintae fen IV. libri Avicennae” (Venezia: Johann Hamann für Andreas
Torresanus); “Dilucidatorium totius pratice medicinalis scientie Expositio
super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae (Venezia); “Recollectiones in Hippocratem de natura foetus; “Dilucidatorium
Avicennae (Ferrara) Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae (Ferrara,
André Beaufort); “Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae
Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur
(Venezia); Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de
emplastris et unguentis (Ferrariae); “De militia complexionis diversae; di cui
un saggio è pubblicato da Puccinotti; Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena,
Bibl. Estense); De generatione embrionis; Dizionario biografico degli italiani.
Boccaccio, Cavalcanti’s Canzone “Donna me prega” and Dino’s Glosses The
enigmatic, indeed disturbing figure of Cavalcanti exercised the imagination of his
contemporaries, especially of his fellow poets. Without naming him once, Dante talks about Guido in
his youthful work, the Vita nuova, telling us that Cavalcanti was the “primo de
li miei amici” (VN III), and that he was one of those who replied poetically to
Dante’s first sonnet. Dante also refers
to Guido’s senhal, Gio- vanna/Primavera (VN). The whole of Dante’s treatise, as a specifi- cally
vernacular composition, is dedicated to this first friend (VN). Amongst Dante’s
Rime, also, there is a companionship sonnet addressed to Cavalcanti, “Guido, i’
vorrei che tu e Lapo ed io,” to which the older poet responded in verse. The
most memorable mention by Dante occurs in canto X of Inferno, where Guido is the
“grand absent,” asked after by his damned father, Ca- valcante de’ Cavalcanti.
The accent in the exchange is on Guido’s implied “altezza d’ingegno,” shared
with Dante, and his disdain for some- thing — unspecified — which Dante by now
was pursuing (poetry? theol- ogy?). The poet later resurfaces as an allusion in
Purgatorio XI.97–99, where, in an object lesson in humility, literary primacy
is passed through the Guidos, presumably from Guinizelli through Cavalcanti,
and on to (perhaps) Dante himself. Guido Orlandi, who wrote the enquiry sonnet,
“Onde si move e donde nasce Amore?” which occasioned Cavalcanti’s famous reply,
the doctrinal canzone “Donna me prega,” paints a picture of the poet in “Amico,
i’ saccio ben che sa’ limare,” stressing Guido’s verbal prowess, but also his
consid- erable intellectual ambition, verging on vanity. Cino da Pistoia,
however, in “Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo?” reacts angrily to an
accusation of plagiarism coming from Guido, and hints that his own humility is
more appropriate than Cavalcanti’s self-importance. Amongst the other, almost
contemporary poets who mention Cavalcanti is Cecco d’Ascoli (Francesco
Stabili), in whose astrological apology the Acerba, he seemingly takes Guido to
task, in detail, for an erroneous analysis of love’s [heliotropia.org/02-01/usher.pdf
1 Heliotropia heliotropia.org workings (particularly the function of the
irascible appetite, Mars) con- tained in “Donna me prega.” Chroniclers, too,
were fascinated by him, but as much for his propen- sity to engage in partisan
violence as for his intellectual eminence. His contemporary Dino Compagni
refers repeatedly to the powerful Cavalcanti clan’s readiness for
street-fighting, and refers specifically to Guido’s ex- ploits, including his
failed attempt on the life of Corso Donati, who had re- portedly organised an assassination
plot against the poet on the pilgrimage route to Compostela. Dino characterises Guido as “cortese e ardito, ma
sdegnoso e solitario e intento allo studio.” Villani, writing con- siderably later, draws attention
to the prickly nature of Guido’s intelli- gence: “era, come filosofo,
virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso,” a
description of the philosopher-poet which al- most exactly parallels Giovanni’s
description of Dante himself. Amongst the later novella writers, Sacchetti
would include Cavalcanti as the butt (literally) of a practical joke by a small
child (Trecentonovelle), a jape which in turn is reminiscent of a Boccaccio
novella (Decameron). Cavalcanti figures in the early commentary tradition of
the Comedy, in particular as a response to the pilgrim’s discussion with
Cavalcante de’ Ca- valcanti in Inferno X, and the reference to the two Guidos
in Purgatorio. He also figures to some extent in elucidations of the two
lonely, anon- ymous Florentine “giusti” in Inferno. Commenting upon Inferno X, Guido da PISA (si veda) says
of Cavalcanti “Fuit enim iste Guido scientia magnus et moribus insignitus, sed
tamen in suo sensu aliqualiter inflatus. Habebat enim scientias poeticas in derisum” [This
Guido was great in knowledge and celebrated in character, but nevertheless
somewhat puffed up as to his opinion of himself. For he despised the poetic
discipline]. Guido da Pisa’s interpretation of Cavalcanti’s “disdegno” (Inferno)
as essentially poetical will be influential amongst subsequent commentators. The Ottimo commentary points to Guido’s common
intellectual in- terests with Dante (“similitudine d’abito scientifico”).
Later, when discus- sing the two Guidos passage in Purgatorio XI, the
commentator opines: “E Guido Cavalcanti si può dire, che fossi il primo, che
[le] sue canzoni fortifi- casse con filosofi[ch]e pruove, come si mostra in
quella sua canzona, che comincia: ‘Donna mi prega, perch’io deggia dire.’” The
Selmiano, commenting upon Inferno X, again points to Cavalcanti’s intellectual
im- pact: “Guido fu tenuto del maggiore ingegno e più alto che allora fosse
uomo di Firenze.” The greatest
contribution to the myth of Guido Cavalcanti comes from Boccaccio, who views
the poet essentially through the distorting prism of heliotropia.org/02-01/usher.pdf
2 Heliotropia heliotropia.org Dante and the early Dante commentators. In
the “Introduzione alla quarta giornata” of the Decameron, Boccaccio justifies
his own persistence with amorousness, even in his more mature years, by
claiming that such a trait was shared with Cavalcanti, Dante and Cino da
Pistoia in their old age. He even suggests that he could supply the
biographical justifications to prove it (“istorie in mezzo”). The most
consistent account of Cavalcanti, however, occurs in Decameron where Boccaccio
applies to Guido a widespread anecdote, with a “lethal” punch-line, which
Petrarch, amongst others, had used some ten years previously in the Rerum
Memorandarum (II, 60) about G., the famous Florentine physician. The tale, now
firmly attached to Cavalcanti, thanks to Boccaccio, will subsequently pass into
the Dante commentary tradition when Benvenuto da Imola glos- ses the two Guidos
passage in Purgatorio. The Decameron
tale has been frequently discussed and minutely ana- lysed: what concerns us
here is Boccaccio’s preliminary portrait of the poet: oltre a quello che egli
fu un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale, si fu
egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e ogni cosa che far volle
e a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare; e con questo era
ricchissimo, e a chiedere a lingua sa- peva onorare cui nell’animo gli capeva
che il valesse. [...] Guido alcuna volta speculando molto abstratto dagli
uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli
epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo
in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. (Decameron) Creatively
interpreting Dante, in order to give the punch-line extra signifi- cance,
Boccaccio deliberately confuses (or rather suggests that the vulgar throng
confuses) Guido with his father, Cavalcante de’ Cavalcanti, for it is
effectively the latter who is amongst the “Epicureans” who “l’anima col corpo
morta fanno” (Inferno). A very similar
portrait of the poet is given in the Esposizioni, where Guido is described as:
uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare
meglio che alcun altro nostro cittadino: e oltre a ciò, fu nel suo tempo
reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore
[scil. Dante], sì come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon
dicitore in rima; ma, per ciò che la filosofia gli pareva, sì come ella è, da
molto più che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. (Esposizioni) The phrase
“ebbe a sdegno” clearly shows Boccaccio’s debt to Inferno X.63: “Forse cui
Guido vostro ebbe a disdegno,” and to the view amongst early commentators,
initiated by Guido da Pisa as we have seen, that heliotropia.org/02-01/usher.pdf
3 Heliotropiaheliotropia.org disdain was for poetry, not theology. It is
this Boccaccian portrait, with a distinctly Dante colouring, which will inform
Filippo Villani’s much later biography of Cavalcanti in the Liber de origine
civitatis Florentie [Book of the Origin of the City of Florence]. As we have
seen, the anecdote in Decameron had been previously used by Petrarch, who
places Dino del Garbo as its protagonist. Dino was, in addition to being a
notable physician (a pupil of Taddeo Alderotti at Bologna), a lecturer on
materia medica at various universities. He had a number of commentaries to his
credit, including a reading of the third and fourth fen of the fourth book of
Avicenna’s Canon, dealing with surgery (a relatively new area for medicine,
traditionally hostile to the knife). He also wrote a general handbook, based on
book one of Avicenna, the Dilucidato- rium totius pratice medicinalis scientie
[Clarification of the Whole Practice of Medical Knowledge]. According to
Giovanni Villani, G. was very touchy about his academic standing, and took a
mortal dislike to Cecco d’Ascoli, at the time a lecturer on the astronomy of
Sacrobosco and Alca- bitius at Bologna, who publicly accused him of having
plagiarised a dead colleague, Torrigiano de’ Torrigiani’s commentary on Galen.
Indeed, Vil- lani suggests that Dino was instrumental in the passing of the
death sen- tence on the astrologer: “molti dissono che ’l fece per invidia”
(Cronica). Popular opinion had it that Dino’s own puzzling death, very shortly
after the astrologer’s execution, was the result of a posthumous necromantic
revenge on Cecco’s part. Cecco wasn’t the only one to have an interest in Cavalcanti’s
canzone “Donna me prega.” G. writes a detailed Latin commentary on the poem,
heavily indebted to Avicenna, Haly Abbas and the LICEO, which was partially
imitated and adapted in a vernacular version unconvincingly attributed to
Egidio Romano. Medical and philosophical interest in Cavalcanti’s canzone would
continue into the Renaissance, with Ficino, amongst others, clearly in debt to
it. G.’s commentary is certainly known to Boccaccio. Indeed, it has been convincingly
argued by Quaglio (“Prima fortuna della glossa garbiana a ‘Donna me prega’ di
Cavalcanti,” in GSLI) that the unique surviving manuscript of the commentum (an
insert in Vatican Chigiano) is a Boccaccian autograph. This particular
transcription, one of the later documents reinserted into the manuscript – cf. Ricci
(Studi sulla vita e le opere del Boccaccio, Milan-Naples: Ricciardi. The entire
MS is reproduced phototypically in colour by Domenico heliotropia.org 02-01/usher.pdf
4 Heliotropia 2.1 heliotropia.org de Robertis (Il codice Chigiano L. V. autografo
di Boccaccio, Rome-Florence: Alinari). However, already in the Teseida,
Boccaccio shows some fa- miliarity with the commentary. Perhaps he had obtained
the glosses from Dino’s close acquaintance, the poet and jurist Cino da
Pistoia, who had known and corresponded poetically with Cavalcanti, and who had
been teaching Roman law in Naples whilst Boccaccio was a student canonist
there. The commentary, entitled Scriptum super cantilena Guidonis de
Cavalcantibus [Writing on the Canzone of Guido Cavalcanti] has been ed- ited
and published as an appendix by Favati (Cavalcanti, Rime, Milan-Naples:
Ricciardi). A sectionalised summary translation and secondary commentary can be
found in Bird, “The Canzone d’Amore of Cavalcanti According to the Com- mentary
of G.” (Mediaeval Studies). There is a fine
translation and commentary of the glosses by Fenzi (La canzone d’amore di Cavalcanti
e i suoi antichi commenti, Genoa: Il Melangolo. In the Teseida, Boccaccio furnishes substantial
ecphrases of the abodes of Mars and Venus, the tutelary deities of the two
rivals for the hand of Emilia, Arcita and Palemone. The description of the
temple of Venus in book VII, octaves 50 ff., prompts an immensely long
authorial gloss, part of which is on the nature of love itself. In keeping with
Boccaccio’s implied fiction that the glosses are by somebody else, he refers to
himself in the third person as the “author” and reserves the first person for the
fictive commentator. The gloss labours
on through the various symbolic, almost personified qualities (à la Roman de la
Rose) propitious to erotic passion till it reaches the figure of Cupid, or
desire: Alcune ne pone quasi confermative dello appetito eccitato per le sopra-
dette: tra le quali pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo Amore. Il
quale amore volere mostrare come per le sopradette cose si ge- neri in noi,
quantunque alla presente opera forse si converrebbe di di- chiarare, non è il
mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga la storia: chi
disidera di vederlo, legga la canzone di Cavalcanti Donna me priega, etc., e le
chiose che sopra vi fa G.. (Teseida, gloss) What is important here is that, for Boccaccio, the
poet’s canzone and the physician’s glosses were already intimately linked,
presumably in a single document (as would be the case in the much later Chigian
MS transcribed by Boccaccio himself). The Teseida self-commentary then
continues, after this parenthesis, with further enumeration of the “author’s”
selection of symbolic qualities, beginning with an elucidation of Cupid’s
darts. But the heliotropia.org/ 02-01/usher.pdf 5 Heliotropia heliotropia.org
first sentence of this continuation shows that Boccaccio was still thinking in
terms of technical definitions of love borrowed from other sources: Dice
sommariamente che questo amore è una passione nata nell’anima per alcuna cosa
piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare di piacere alla detta cosa
piaciuta e di poterla avere. The phrasing about fervent desire, in this
definition, is reminiscent of a remark in G.’s commentary: est passio quedam in
qua appetitus est cum vehementi desiderio circa rem quam amat, ut scilicet
coniungatur rei amate. (Favati) [it is a certain passion in which there is
appetite along with fervent desire concerning the thing which it loves, so that
it may join with the thing be- loved] But the presence in Boccaccio’s gloss of
the adjective “nata” (even though it could be construed here as meaning merely
“arising”) almost certainly betrays an older source, namely the opening
definition in Andreas Capel- lanus’ De arte honeste amandi: Amor est passio
quedam innata procedens ex visione et immoderata co- gitatione formae alterius
sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alte- rius potiri amplexibus et omnia
de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri. (De amore)
[Love is a certain inborn passion arising from the beholding of and un-
controlled thinking about the beauty of the other sex, on account of which the
person desires above all else to enjoy the embraces of the other person and, by
common desire, fulfil all the commandments of love in this embrace] Andreas
uses the term “innata” to describe erotic passion twice more, in quick
succession, clearly wanting his readers to understand that its endo- genesis is
an important part of his theory of love. “Innata” in the De amore is clearly
adjectival in function, as shown by the following participle “pro- cedens”: but
“nata” in the Teseida may be more in the nature of a past participle. The
lexical fragment survives, however, despite its possible change of status, as a
tell-tale sign of Boccaccio’s prior reading. For Boccaccio, conflating the two
sources was tempting, because G. is clearly indebted, for substantial elements
of his treatise, to the chaplain’s opening remarks on love, as the
characteristic initial combination “passio quedam” already demonstrates.
Boccaccio was not reading Cavalcanti and G. as an inno- cent, then, but rather
as somebody who had already come across authori- tative, if somewhat
obsolescent definitions. The problem for the compiler of the Teseida glosses is
that the two definitions do not match. Andreas heliotropia.org/02-01/usher.pdf
6 Heliotropia heliotropia.org believed that love was intrinsic
(“innata”), the line which Guinizzelli would famously take in his canzone “Al
cor gentil,” whereas G., following Ca- valcanti, declares that this passion was
definitely exterior in origin “cau- sans ipsum principaliter est res
extrinseca” (Favati). Boccaccio at the time of his writing of the Amazon epic
seems totally unaware of the in- consistency between these auctoritates. One
might doubt that Boccaccio had anything more than circumstantial knowledge of
the existence of Dino’s commentary. In other words possibly he hadn’t read it.
But certain of the key words (“appetito” and “generare,” markedly Aristotelian
terms, though present in the De amore, are simply not used as technicisms in Andreas)
imply that he has a good idea of the philosophical slant of G.’s vocabulary.
Unlike Cino da Pistoia, who is quoted unambiguously in the Filostrato and Rime,
textual traces of Cavalcanti in Boccaccio’s fictional and creative works are
rare and tantalising. The meagre harvest of possible (and hardly provable)
intertextuality has been traced by Letterio Cassata, passim in hisedition of
Cavalcanti (Cavalcanti, Rime, Anzio: De Rubeis, esp. index). Branca furnishes more detailed examples (Rime; Teseida)
in Boccaccio medioevale e nuovi studi sul Decameron (Florence: Sansoni). One could add to this list,
tentatively, perhaps. There is possibly a hint that Boccaccio had a “cultural
memory” of the opening of “Donna me prega” when writing the Filocolo, for
Florio’s love is there de- scribed by an experienced Ascalion as “sì nobile
accidente. It could be, however, that this particular use of “accidente”
(generically a very common term in the early Boccaccio) derives from a reading
of Dante’s Vita nuova, where the distinction between substance and accident in
love theory, probably as an echo of Cavalcanti, is also made (VN). Another
possible reprise of Cavalcanti occurs in the Teseida sequence which generates
the gloss which mentions “Donna me prega” and G.’s glosses. In octave 53 of the
seventh book, Boccaccio describes the musical and visual environment of Venus’
garden, indicating Palemon’s soul in prayer as it visits the bower: ripieno il
vide quasi in ogni canto di spiritei, che qua e là volando gieno a lor posta. Though
“spiritus” was a technical term in medicine, referring to the transmission of
vital and animal forces through the body, the diminutive “spiritelli” is a
characteristic Cavalcantian usage, denoting the hypostatic emanations of
fragmented consciousness characteristic of the “anima heliotropia.org /02-01/usher
Heliotropia heliotropia.org sbigottita.” Guido
even parodied this verbal tic in a sonnet, “Pegli occhi fere un spirito
sottile.” More persuasive
again, in terms of intertextuality with Cavalcanti, is one of Boccaccio’s early
Rime: Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui accidente noioso, pien di
spavento, cupido e ritroso, Though Branca does not expressly say so in his
commented edition of the Rime in volume V of Tutte le opere (Milan: Mondadori),
this sonnet seems to parodically contrast a pessimistically Cavalcantian view
of love in the first quatrain with a more Guinizellian, positive stance in the
remainder. All in all, though, compared with the massive early presence of
Dante, and later of Petrarch, the verse of Cavalcanti seems to have had little
prac- tical impact on Boccaccio. He seems to have been much more interested (as
the layout of the glosses and the title of the autograph Chigiano LV 176
transcription shows) in “Donna me prega” as a vehicle for G.’s commentary,
rather than as a composition in its own right. G.’s commentary became more
useful to Boccaccio when he came to write the Genealogie and the Esposizioni.
By this time, his appreciation of the question of substance and accident, and
of intrinsic and extrinsic causality, had markedly improved, though his
interest is still anything but scientific. The Genealo- gie passage occurs in
the biography of Cupid, begotten from the illicit cou- pling of Mars and Venus.
Cupid had been the figure, as we have seen, who had given rise to the mention
of G.’s glosses on “Donna me prega” in the Teseida. This time, though used much
more ex- tensively, the Garbian source is not explicitly acknowledged. Est
igitur hic, quem Cupidinem dicimus, mentis quedam passio ab exte- rioribus
illata, et per sensus corporeos introducta et intrinsecarum vir- tutum
approbata, prestantibus ad hoc supercelestibus corporibus aptitudinem. Volunt
namque astrologi, ut meus asserebat venerabilis Andalo, quod, quando contingat
Martem in nativitate alicuius in domo Veneris, in Tauro scilicet vel in Libra
reperiri, et significationem nativitatis esse, pretendere hunc, qui tunc
nascitur, futurum luxuriosum, fornicatorem, et venereorum omnium abusivum, et
scelestum circa talia hominem. Et ob id a phylosopho quodam, cui nomen fuit
Aly, in Commento quadri- partito, dictum est quod, quandoque in nativitate
alicuius Venus una cum Marte participat, habet nascenti concedere dispositionem
phylocaptionibus, fornicationibus atque luxuriis aptam. Que quidem aptitudo
agit ut, quam cito talis videt mulierem aliquam, que a sensibus exterioribus
commendatur, confestim ad virtutes sensitivas interiores defertur, quod
placuit; et id primo devenit ad fantasiam, ab hac autem ad cogitativam heliotropia.org/02-01/usher.pdf
8 Heliotropia heliotropia.org transmictitur, et inde ad memorativam; ab
istis autem sensitivis ad eam virtutis speciem transportatur, que inter
virtutes apprehensivas nobilior est, id est ad intellectum possibilem. Hic
autem receptaculum est specie- rum, ut in libro De anima testatur Aristoteles.
Ibi autem cognita et intel- lecta, si per voluntatem patientis fit (in qua
libertas eiciendi et retinendi est) ut tanquam approbata retineatur, tunc
firmata in memoria hec rei approbate passio (que iam amor seu cupido dicitur) in
appetitu sensitivo ponit sedem, et ibidem, variis agentibus causis, aliquando
adeo grandis et potens efficitur, ut Iovem Olympum relinquere, et tauri formam
su- mere cogat. Aliquando autem minus probata seu firmata labitur et adni-
chilatur; et sic ex Marte et Venere non generatur passio, sed, secundum quod
supra dictum est, homines apti ad passionem suscipiendam secun- dum corpoream
dispositionem producuntur; quibus non existentibus, passio non generaretur, et
sic large sumendo a Marte et Venere tanquam a remotiori paululum causa Cupido
generatur. (Genealogie) Rather than provide a translation into English here, we
can go straight to Esposizioni V litt., which is an outstanding example of
Boccaccio’s self-volgarizzamento. The passage occurs in Boccaccio’s literal
commen- tary on the episode of Paolo and Francesca, and is occasioned by
Dante’s famous line “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” (Inferno). Whereas
in the Teseida Boccaccio indulges in a long account of Cupid’s iconography and
dismisses (“per ciò che troppa sarebbe lunga la storia”) the aetiology of love
with a curt reference to Cavalcanti and G., here in the Dante commentary he
inverts the process, omitting the lengthy account of details Cupid’s portrait
(“alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga storia”) so as to concentrate
on the explanation of love’s workings. The passage is prefaced with an
apparently perfunctory explanation of Aristotle’s tripartite distinction of the
kinds of love (Nicomachean Ethics), of which more later. Only the very last
periods suffer any change from the content of the earlier Genealogie text. The corresponding passage in the Esposizioni, the
volgarizzamento of the Gene- alogie text, reads: Ma, vegnendo a quello che alla
nostra materia apartiene, dico che questo Cupidine, o Amore che noi vogliam
dire, è una passion di mente delle cose esteriori e, per li sensi corporei
portata in essa, è poi aprovata dalle virtù intrinseche, prestando i corpi
superiori attitudine a doverla rice- vere. Per ciò che, secondo che gli
astrologi vogliono, e così affermava il mio venerabile precettore Andalò,
quando avviene che, nella natività d’alcuno, Marte si truovi esser nella casa
di Venere in Tauro o in Libra, e truovisi esser significatore della natività di
quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce,
dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alì nel comento del
Quadripartito che, qualunque ora nella natività d’alcuno Venere insieme con
Marte parti- cipa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che
nasce una heliotropia.org/02-01/ usher. pdf 9 Heliotropia heliotropia.org
disposizione atta agl’inamoramenti e alle fornicazioni. La quale attitu- dine
ha ad aoperare che, così tosto come questo cotal vede alcuna femina, la quale
da’ sensi esteriori sia commendata, incontanente quello, che di questa femina
piace, è portato alle virtù sensitive interiori e questo pri- mieramente
diviene alla fantasia e da questa è mandato alla virtù cogita- tiva e da quella
alla memorativa; e poi da queste virtù sensitive è tra- sportato a quella
spezie di virtù, la quale è più nobile intra le virtù apren- sive, cioè allo
’ntelletto possibile, per ciò che questo è il recettaculo delle spezie, sì come
Aristotile scrive in libro De anima. Quivi, cioè in questo intelletto
possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di sopra è detto, portato v’è
se egli avviene che per volontà di colui nel quale è que- sta passione, con ciò
sia cosa che in essa volontà sia libertà di ritenere dentro questa cotal cosa
piaciuta e di mandarla fuori, questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora
è fermata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi
chiamiamo Amore, o vero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua
stanza ferma nell’appetito sen- sitivo e quivi in varie cose adoperanti divien
sì grande e fassi sì potente che egli fatica gravemente il paziente e a far
cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne; e alcuna volta,
essendo meno aprovata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e
torna in niente. E così non è da Marte e da Venere generata questa passione,
come alcuni stimano, ma, secondo che di sopra è detto, sono alcuni uomini
prodotti atti a ricevere questa passione secondo le disposizioni del corpo: la
quale attitudine se non fosse, questa passione non si genererebbe. The translation diverges only
at the end. Out goes the Ovidian reference to a love-struck Jupiter preparing
to ravish Europa (Metamorphoses), clearly inappropriate for a commentary to a
Christian poem, and in comes a limp and vague reference to shameful behaviour.
Similarly, the very last concessionary formula of the Genealogie passage,
conceding at least the indirect operation of Mars and Venus, is removed in its
entirety, leaving the earlier categorical denial of astral influence intact.
But what of the content? The making of such contentious horoscopes, predicting
a libidinous disposition, could be dangerous. Villani intimates that one of the
reasons for Cecco d’Ascoli’s misfortune at the stake was his disconcertingly
accurate prognosis for his patron, the duke of Calabria, that his daughter
Giovanna, the grand-daughter of Robert the Wise and future queen of Naples,
would be subject to scandalous erotic excesses on account of her birth under
the sign of Mars in the house of Venus. Though at first sight, Boccaccio is
implying that his source in both pas- sages is the Genoese astronomer Andalò
del Negro (almost certainly dressed up as Calmeta in Filocolo) and that he is
quoting from Ptol- emy’s commentator Haly Abbas and from Aristotle’s De anima,
a large section of this treatment, including the reference to these
auctoritates, is in fact lifted from various, almost contiguous places in G.’s
glosses. The heliotropia.org /02-01/usher.pdf 10 Heliotropia heliotropia.org
opening sentence is an extremely reductive paraphrase of a section of Dino’s
commentary where the physician indicates the role of the stars in creating the
dispositions of the soul. Dino writes: Alia res concurrit ad causandum aliquam
passionem, que est res ex- trinseca que suam ymaginem vel speciem causat in
virtute sensitiva, ad quam cognitionem vel apprehensionem consequitur appetitus
talis vel talis, in quo appetitu iste passiones fundantur. Ideo auctor, ut
complete ostenderet que est res generans istam passionem, primo ostendit que
est dispositio naturalis corporis que reddit hominem aptum ut faciliter istam
passionem incurrat; secundo ostendit que est res extrinseca ex cuius ap-
prehensione consequitur in appetitu passio amoris. Secunda ibi: “Vien da veduta forma”; vel posset
incipere ibi: “D’alma costume.” In prima parte quod dispositio naturalis, per
quam aliquis inclinatur ad incurrendum faciliter in aliquam passionem, ex
principiis proprie nati- vitatis hominis contraitur et, inter ista principia
nativitatis alicuius, precipua et principalia sunt corpora celestia: nam, ut
dicit Philosophus in Phisicis, homo hominem generat et sol; et in De
Generatione Animalium dicit quod in spiritu genitivo est natura existens
proportionalis ordinationi astrorum. (Favati) [Something else is involved in causing any
passion, and that is an exte- rior thing causing its image or “species” in the
sensitive faculty, upon the cognition or apprehension of which there follows an
appetite for this or that, in which appetite these passions are established. So
the author, in order completely to show what is the thing which generates this
passion, first demonstrates what is the natural disposition of the body which
makes man suitable for incurring this passion easily; secondly he demon-
strates what is the external thing from whose apprehension the passion of love
follows in the appetite. The second starts “Vien da veduta forma”; or can start
at “D’alma costume.” In the first part he shows that the natural disposition,
by which some- body is inclined to incur some passion, is contracted from the
principles of a person’s own birth, and, amongst these principles of a person’s
birth, the foremost and most important are the heavenly bodies: for, as Aris-
totle says in the Physics, man and the sun generate man; and in The Generation
of Animals, in the generative spirit a nature exists proportion- ally to the
ordering of the stars] Boccaccio’s reference to his astrological mentor, Andalò
del Negro, is an opportunistic amplification of a far less specific passage in
Dino. The Garbian passage, commenting on the canzone, reads: Hoc autem ostendit
in verbo illo quod premisit cum dixit “La quale da Marte viene et fa dimora”:
nam ista passio dicitur procedere a Marte isto modo, quoniam astrologi ponunt
quod, quando in nativitate alicuius Mars fuerit in domo Veneris, ut in Tauro
vel in Libra, et fuerit significator nativitatis eius, significabit natum fore
luxuriosum, fornicatorem et omnibus venereis abusivis scieleratum; unde quidam
sapiens qui dicitur Aly, heliotropia. org/02-01/usher. pdf 11
Heliotropiain “Comento Quadripartiti,” dicit quod, quando in nativitate
alicuius Venus participat cum Marte, dat inamoramentum, fornicationem, luxu-
riam et talia similia, que omnia pertinent ad passionem amoris de quo loquitur
auctor in hac cantilena. (Favati) [He shows this, however, in that word he
placed before when he said “La quale da Marte viene et fa dimora”: for this
passion is said to proceed from Mars in this way. Astrologers claim that,
whenever, at the birth of somebody, Mars is in the house of Venus, as in Taurus
or in Libra, and there is a person to do the child’s horoscope, he will signify
that the child will be lustful, a fornicator, and wicked in all venereal
excesses. Whence a certain sage called Haly in his commentary to the
Quadripartitum says that, when at the birth of somebody Venus participates with
Mars, it grants enamourment, fornication, lust and such like, which all are
con- cerned with the passion of love which the author talks about in this can-
zone.] Boccaccio’s reference to Andalò is rather disingenuous, if the evidence
of the Calmeta episode of the Filocolo is to be believed. For there the empha-
sis in that passage is almost entirely astronomical, with no hint of judicial
astrology, and the authorities consulted are almost certainly limited to
Ptolemy’s Almagest, Andalò’s own Introductorium, rather than the simi- larly
titled work by Alcabitius, and to the Alfonsine Tables. Of Haly’s commentary to
the Ptolemaic Quadripartitum there is not a trace. Boccac- cio’s early
astrological culture, under the sway of Andalò, has been examined in an
important study by Quaglio (Scienza e mito nel Boccaccio, Padua: Liviana) and
its narrative consequences (possibly more tending towards judicial astrology)
in the Filocolo have been investigated by Smarr and Grossvogel. The adventitious
references to Haly in the love definition in the Genealogie and Esposizioni are
a sure sign that the late Boccaccio, whilst acknowledging his youthful
enthusiasms, was now passively accepting and reproducing G.’s quotes and
mentions, rather than referring to material he knew and remembered intimately
and at first hand. What then follows in Boccaccio’s account, namely the
sequence of inter- iorisation, comes from G.’s gloss to the line. G.’s ordering
of the inner processes is, according to Bird, untypical, yet Boccaccio accepts
it without demur: Hic autem est ordo in apprehensione humana, sicut declaratum
est in scientia naturali: quod primo species rei pervenit ad sensus exteriores,
ut ad visum vel auditum vel tactum vel gustum vel olphatum, deinde ab illis
pervenit ad virtutes sensitivas interiores, sicut pervenit ad fantasiam primo,
deinde pervenit ad cogitativam et ultimo ad memorialem. Ab istis autem
virtutibus procedit postea ista species ad virtutem nobiliorem, que virtus in
homine est altissima inter virtutes adprensivas, et ista est virtus possibilis.
(Favati) [For this is the sequence in human apprehension, just as it is
declared in natural science. First of all the species of the thing reaches the
exterior senses, for instance sight or hearing, touch, taste or smell, thence
from these it reaches to the inner sensitive faculties, so it comes to fantasy
first, then comes to the cogitative and lastly to the memorative faculty. From
these faculties this “species” reaches to the nobler faculty, which in mankind
is the highest amongst the apprehensive faculties, and this is the possible
faculty] G. then provides a brief explanation of the difference between the
intel- lectus agens [active intellect], the reasoning function of individuation
and universals, and the passive or possible intellect, merely concerned with
the processing of species resulting from sensibles. The discussion is not
otiose, for G. is aware of Cavalcanti’s dramatic positioning of love right at
the crucial borderline between rational and sensitive activity. Boccaccio is
not at all interested in such technicalities, and moves on to a matter of much
greater concern, namely the question of the relationship between love and will.
The relevant passage from G. glosses Guido’s assertion that love is “di cor
volontate,” but Boccaccio characteristically leaves out G.’s proessionally
inspired mention of the difference of opinion between Aristotle and Galen
concerning the seat of the sensitive faculties, in the heart or in the head. G.
writes: Et nota quod istum appetitum vocavit voluntatem, que videtur
intellectui attinere, ut ostenderet quod, licet amor fiat in aliquo ex
dispositione na- turali per quam quis inclinatur ad incurrendum faciliter hanc
passionem, tamen fit etiam ex proposito et per electionem, quod pertinet ad
volun- tatem, que est libera et liberi arbitrii, cum se habeat indifferenter ad
op- posita; et est simile hic, sicut etiam est in aliis passionibus ut, verbi
gra- tia, de ira. Nam aliquis, licet sit dispositus ex natura ad faciliter
incurren- dum in iram, tamen per voluntatem potest se retrahere ab ea, et
potest etiam in eam incurrere; et simili modo etiam de amore. (Favati) [And
note that he calls this appetite the will, because the latter is seen to
appertain to the intellect, in order to show that, although love can happen to
somebody through a natural disposition whereby that person is in- clined easily
to incur this passion, that person does so nevertheless on purpose and by
choice, and so that is a case of will, which is free and by free choice, when
it is faced equally with opposites. And it is the same here, just as it is with
the other passions, like anger, for instance. For somebody, even though he may
be disposed by nature to get angry easily, nevertheless through his will he can
draw himself back from it, and he can even indulge in it; and it is the same
with love. For Dino, the question is one of classification: given the working
of erotic passion specifically in the sensitive appetite, it follows that
engaging in or disengaging from love is necessarily a voluntary act, and
therefore in part subject also to the operations of the rational soul, where
choices are made. Boccaccio’s rewording changes the emphasis substantially
towards moral philosophy: love is no longer an ineluctable force, and the
potential lover, being free to choose, is therefore responsible for his own
actions in this field as in any other. Love, as a phenomenon of the soul, is
consequent on an initial act of the will, by accepting or refusing to be drawn
further into passion. Though Boccaccio’s direct quotations from the Garbian
glosses are all located in a compact area, he may have been encouraged to
under- line this aspect by his reading further on in the commentary, for G. refers
to the will obliquely later on, drawing on Haly’s Pantechne, to state more
clearly than elsewhere the voluntaristic nature of passion: amor est
sollicitudo melanconica, similis melanconie, in qua homo iam sibi inducit
incitationem cogitationis super pulcritudinem quarundam formarum et figurarum
que insunt ei. (Favati) [love is a melancholic anxiety, similar to melancholy,
in which a man actually brings upon himself the rousing of cogitation upon the
beauty of certain forms and figures which are within him.] A fragment of this
reading of G. can be found in the Decameron, when Boccaccio describes the
aegritudo amoris of the pharmacist’s daughter Lisa, as she struggles with
cumulative “malinconia.” What is more important in the Garbian gloss is the
accent on the will. The lover “sibi inducit incitationem.” And later again, G.
will return to the topic, to explain why nobles have a greater propensity for
erotic pas- sion than those whose existence is marred by the struggle for
economic survival: Secunda causa est quia, licet in amore, quando est multum
impressus, appetitus non sit liber, imo est servus et ducitur secundum impetum
huius passionis, tamen in principio, quando incipit hec passio in appe- titu,
adhuc appetitus est quasi liber, ita ut possit amare et possit desistere ab
amore. Et ideo initium huius passionis incipit multotiens ex proposito. (Favati)
[The second cause is because, though in love for instance the appetite, when it
is much pressed, is not free, indeed it is enslaved and is led by the impetus
of this passion, nevertheless in the beginning, when this passion starts in the
appetite, at that point the appetite is almost free, so that it can love or
desist from love. And so the beginning of this passion frequently starts from
choice.] heliotropia.org/ 02-01/usher.pdf
Heliotropia heliotropia.org Whereas in the Genealogie the highlighting of the
question of free will served no particular purpose, and was not set within a
moralising context, in the Esposizioni the moral discussion is crucial.
Boccaccio has a precise task, for he is explaining the sin of those who “la
ragion sommettono al talento” (Inferno). Boccaccio’s
own prior interpretation of this line is rather odd: Eran dannati i peccator
carnali, Che la ragion sommettono al talento, cioè alla volontà. E come che
questo si possa dire d’ogni peccatore inten- dere, per ciò che alcun peccatore
non è che non sottometta, peccando, la ragione alla volontà, vuol nondimeno
l’autore che per quel vocabolo “carnali” s’intenda singularmente per i
lussuriosi. (Esposizioni V
litt. 46) Boccaccio, never very consistent when adopting others’ philosophical
sys- tems or terminology, seems to see no difference here between “will” and
“desire.” He seems to have no real understanding of the complexities of
appetition. Perhaps he was thinking of the passage in Dante’s Vita Nuova, where
the poet admits to a struggle between appetite (“cuore”) and reason (“anima”).
Maybe he is using “volontà” to stand for “voglia,” the term Meo Abbracciavacca
uses when he writes “e qual sommette a voglia operazione” (Contini, Poeti del
Duecento, Milan-Naples: Ricciardi). It is no surprise, therefore, to find that
Boccaccio now moves straight from his paraphrase of G. on love and will to a
discussion of whether Paolo, “atto nato ad amare” (Espo- sizioni V litt.) was
obliged to fall in love with Francesca. Boccaccio freely admits that Paolo is ‘flessibile,’
in other words easily swayed, be- cause of his complexion. It is the same concept Boccaccio applies to Dante’s
amorous disposition in the Chigi version of the Trattatello: “inchinevole molto
a questo accidente” (again a fairly Garbian formula), but when it comes to the
famous line: “Amor, ch’a nullo amato amar per- dona” (Inferno), the moralist
suddenly swings into action: Questo, salva sempre la reverenzia dell’autore,
non avviene di questa spezie di amore, ma avvien bene dello amore onesto
(Esposizioni V litt. 169) Here
Boccaccio is returning to the Aristotelian distinction between the three
varieties of love (Nicomachean Ethics VIII.3) with which he had prefaced his
discussion in the Esposizioni. There, he had indicated that the sensual love
indulged in by Paolo and Francesca is the morally inferior “amore dilettevole,”
where the pleasure principle is foremost. It is a defi- nition totally missing
from the Genealogie account of Cupid, even though it had been promised much
earlier. Now he claims that Francesca’s declaration of the inevitable
reciprocity of love is misplaced, for such reciprocity can only happen with
“amore onesto.” He backs this up with the definition to be found in Purgatorio
(where Statius’ love for Virgil causes a corresponding affection in the older
poet). But the lovers of Inferno V are seekers of pleasure only, not seekers of
goodness (the “amore onesto” of Aristotle). But why did Boccaccio, between the
Genealogie and the Esposizioni accounts, suddenly introduce the Aristotelian
distinction? What does it have to do with G.’s commentary? Once again,
Boccaccio has been searching around in the glosses, and has found that the next
argument G. engages in is concerned with is the dual nature of love. One is the
common definition: uno modo comuniter et large, secundum quod est quedam passio
per quam inclinatur et movetur appetitus in aliquam rem que videtur sibi bona
propter complacentiam eius, ratione cuiuscumque actus illius rei: et isto modo
non accipitur hic: nam amor est circa multa, de quo amore non est presens
intentio. Et de omnibus amicis ad invicem est hoc modo amor: quia amici amant
se ad invicem, et tamen non amant se amore de quo est hec presens intentio; et
potest etiam esse amore in uno respectu alterius, et tamen non erit amicitia
inter eos: omnis enim qui est amicus alicui amatur ab illo, sed non omnis qui
amat aliquem amatur ab illo; et ideo, licet omnis amicitia sit cum amore, non
tamen omnis amor est cum amicitia. (Favati 371–72) [one way commonly and widely
defined, according to which it is a certain passion by which the appetite is
inclined and moved towards something which seems good to it on account of its
pleasurability, by reason of whatever agency of that thing: and it is not
accepted in this way here: for love concerns many things, about which love it
is not Guido’s present intention to speak. Concerning all mutual friends, love
is of this kind: for friends love each other reciprocally, and yet they do not
love each other with the kind of love which is the topic here; and it can be a
question of love in one regarding the other, and yet there will not be
friendship between them: for everybody who is a friend to somebody is loved by
that other person, but not everybody who loves somebody is loved by that
person, and so, even if every friendship is with love, not every love is with
friendship.] In his round-about way Dino is dealing here with the distinction
between love “per concupiscentiam” [for desire’s sake] and “per amicitiam” [for
friendship’s sake]. The first is properly the subject of Guido’s canzone,
whereas the second is Aristotle’s true friendship, what Boccaccio calls “amore
onesto.” Dino’s purpose is to go on to define the pathology of the illness that
derives from amorous excess, the so-called “ereos,” richly in- vestigated by
Massimo Ciavolella (La “Malattia d’Amore” dall’Antichità al Medioevo, Rome:
Bulzoni, 1976) and before that by John Livingston heliotropia.org /02-01/ usher.pdf
16 Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Lowes (“The Loveres
Maladye of Hereos,” Modern Philology). Boccaccio, uninterested in the minutiae
of such medical matters (though he refers to them in his Valerius Maximus
inspired episode of Giacchetto Lamiens in the novella of the Count of Antwerp
(Decameron), retains the distinction but uses it for a moral purpose. Paolo and
Francesca were free to retreat from their passions, as theirs was an “amor
dilettevole.” Their obstinate refusal to avail themselves of the free- dom of
choice inherent in the birth of such sensual passion led to their damnation.
This issue of free will clearly exercised Boccaccio, for he re- turns to it
belatedly in the allegorical exposition to the canto. The com- mentator has
been explaining why carnal sinners, guilty of excess in what is otherwise a
natural process, are punished more lightly than the other damned souls, in a
circle further from the pit of hell and nearer to God. He then has another go at defining the relative roles
of astrological disposition and free use of the rational faculty of choice:
L’origine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia
nell’attitudine a questa colpa datane da’ cieli; la quale parrebbe ne do- vesse
da questo scusare, se data non ci fosse la ragione, la quale ne dimo- stra quel
che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò, il libero albi- trio, nel
quale è podestà di seguire qual più gli piace. (Esposizioni V all. 78) But this moralistic view of
erotic passion, prompted by a public reading of the Paolo and Francesca episode
and shaped, selectively, by G.’s glosses to Cavalcanti’s canzone, represents a
very late position, beginning with the first redaction of the Genealogie, and
perhaps impli- citly coeval with some of the thinking behind the remedia amoris
of the Corbaccio. Boccaccio’s earlier allusions to the Inferno V episode seem
to show, instead, that the involuntary nature of love, propounded by Fran-
cesca, prevails. In the Filostrato, for instance, after much sighing and
tearful pillow-soaking, Troiolo finally admits to his friend Pandaro the cause of
his melancholy: he has fallen in love. Boccaccio’s writing at this point is
saturated with reminiscences of the Paolo and Francesca passage from Inferno V.
Troiolo is grateful that Pandaro is inclined to hear of his “martiro,” rhymed
with “sospiro” (Dante: “sospiri” and “martiri”) and is responding to Pandaro’s
“priego” since he is incapable of opposing a “nie- go” (Dante: “priega” and
“niega”). Troiolo then indicates how love took
over: Amore, incontro al qual chi si difende più tosto pere ed adopera in vano,
d’un piacer vago tanto il cor m’accende, ch’io n’ho per quel da me fatto
lontano ciascheduno altro, e questo sì m’offende, (Filostrato) This is a clear
echo of Francesca speaking of how love “al cor gentil ratto s’apprende e ’l
modo ancor m’offende” (Inferno). Boccaccio in paraphrasing “Amor, ch’a nullo amato amar
perdona” here, further em- phasises the involuntary nature of such passion. The
same emphasis can be seen in the Filocolo: in the “court of love” in book four,
Clonico has asked the queen for a judgment on whether an unrequited or a
jealous lover should be more pitied. The
queen passes sentence, saying that the unrequited lover will finally get his
reward, for true love induces inevitable reciprocity in the beloved: ché, ben
che ella si mostri verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non
vi ami, però che amore mai non perdonò l’amare a niuno amato. (Filocolo IV.38.11) The same
concept lies behind that other enamourment clearly inspired by Dante’s Paolo
and Francesca, the Ovid-inspired passion of Florio and Biancifiore in Filocolo
II: their love, too, is caused by Cupid’s agency, they too are apparently
coerced by mutual delight. Florio
clearly considers that such a situation is universal, and affects not only
mortals but gods: Padre mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il
risplendente Apollo, da voi ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe
all’amorevole passione resistenza; né tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto
di virile forza armato, che da simile passione non fosse oppresso. (Filocolo) But perhaps the
most memorable examples of such love apologies come in the Decameron. In the novella of the count of Antwerp, the queen of
France lays bare her passion for the count: Egli è vero che, per la lontananza
di mio marito non potendo io agli sti- moli della carne né alla forza d’amor
contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini non che le
tenere donne hanno già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io
negli agi e negli ozii ne’ quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore
e divenire innamorata mi sono lasciata correre. (Decameron) Though the power of love is emphasised, a
subtle change has now taken place. We now get at least a fleeting admission
that an element of volition was involved (“mi sono lasciata correre”). When we
come to look at the famous justification of Ghismonda, caught in flagrante with
Guiscardo by her jealous father (Decameron), we see the same refined con-
cession. Her speech begins with a reminiscence of the Paolo and Francesca
episode, audible in the pairing “né a negare né a pregare sono disposta.” Ghismonda, at various points, then outlines the sheer
power and durabil- ity of the passion which has overtaken her: Egli è il vero
che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amer e se
appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo. (Decameron) Though the
wording has been altered, the influence of Francesca’s per- during love in
Inferno V is clear: “ancor non m’abbandona” and “che mai da me non fia diviso”.
But then the speech gets down to detail.
It is Ghismonda’s youthful appetite, whetted by previous marriage and now
enforced celibacy, which causes her to cede to her desires: Sono adunque, sí
come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che an- cor son giovane, e per
l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disi- dero, al quale
maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata,
conosciuto qual piacer sia a così fatto desidero dar com- pimento. Alle quali
forze non potendo io resistere, a seguir quello che elle mi tiravano, sí come
giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. (Decameron) Yet, here again, we can see that Boccaccio
clearly imagines there to be a moment of decision, an instance of rational
choosing, even if the flesh (and the sensitive faculties) are predisposed to
“incur such passion.” To sum up then, the evidence for Boccaccio having read
Dino del Garbo early on in his career, earlier than the Teseida, is quite
strong. The gloss on “Donna me prega” is not associated, as one might imagine,
with an interest in Cavalcanti’s vernacular verse, but rather with its availability
as a con- venient manual, accessible to a non medical scholar, on the “maladye
of hereos.” For this reason, perhaps, it became associated with Boccaccio’s
constant re-reading of the Paolo and Francesca episode from Inferno V. What
changed over time was the quality of Boccaccio’s reading of Dino, starting from
an opportunistic level, where the distinction between Capel- lanus and Del
Garbo is hardly felt, and ending with an interpretation which consciously
develops the potential in Dino’s understanding of the role of the will. The
moment of transition, however timid, seems to take place in the years of the
Decameron. Grice: “So here is charming Cavalcanti writing a charaming love
lyrics (Donna mi preigha) and Garbo in his worst Aristotelian jargon destroying
it. I dealt with Blake (“love that never told can be”) and the best thing is to
leave poetry to poets (cf. Austin rebuffing Nowell-Smith’s inability to
understand Donne). The physiology of love is beyond philosophy. But in
philosophy, unlike any other discipline, we respect history, and the
longitudinal history of philosophy ensures that every philosopher will be
familiar with the idiocies Plato makes Socrates says in Convitto about Cupido,
Cupidine, Amore, Eros, Erote, Anterote, and Mars, qua symbol of maleness. In
Italy they were concerned about astrology. Since the future queen of Naples had
been born under the House of Mars, she will possibly be a whore!” -- Aldrobrandino Del Garbo. Garbo. Keywords: appetitus, appetitus sensitivo –
spiegatura dell’amore in termine aristotelichi – amare, sentire, il patico –
fornicazione – latino/volgare – Boccaccio – Petrarca – Alighieri – Cavalcanti
--. de militia complexionis diversae, eros, amore, malattia, Aristotele,
passione, ragione, appetite sensitive, amore, sentire – re-cognosenza da parte
dell’amato dell’amore dell’amante – via senso? Marte – self-love, other-love,
amore proprio, amore a se stesso, amore all’altro. Refs.: Luigi Speranza,
“Garbo e Grice: amore, passione, implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gargani: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale d’Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia – filosofia genovese –
filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure.
Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “I like Gargani; many of his essays
are pretty interesting: he’s written on the ‘sense’ of ‘true,’ and on the
‘endless phrase,’ – la frasse infinita – which according to Griceian
principles, must rely on implicature, since it involves a communicational
impossibility!” -- «È un fatto che gli uomini hanno prodotto assai più cose di
quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno eretto nella forma di
costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se fossero separate dal caso e
dal disordine, corrisponde ad un uso che essi hanno fatto della propria vita.” Si
laurea a PISA sotto BARONE (si veda). Collaborando con Lepschy, allora professore
all'University College di Londra, e conducendo le sue ricerche al Queen's sotto
la guida di Geordie McGuinness. È stato il massimo studioso italiano di
Vitters, e ha contribuito alla diffusione della filosofia di D. F. Pears. I
suoi ambiti di studio sono stati prevalentemente la filosofia del linguaggio,
l'estetica, l'epistemologia, e la psicoanalisi. Di particolare interesse è
anche il suo tentativo di una scrittura filosofica narrativa, come in Sguardo e
destino” (Laterza, Roma-Bari); “L'altra storia” (il Saggiatore, Milano); Il
testo del tempo” (Laterza, Roma-Bari). Altre
opere: “Esperienza in Vitters” (Le Monnier, Firenze); “Hobbes” (Einaudi,
Torino); “Vitters” (Laterza, Roma-Bari); “Il sapere senza fondamenti. La condotta
intellettuale come strutturazione dell'esperienza commune” (Einaudi, Torino );
“Vitters a Cambridge” (Stampatori Editore, Torino); “Kafka” (Guida, Napoli);
“Lo stupore e il caso” (Laterza, Roma-Bari); “La frase infinita” (Laterza, Roma-Bari); “Il
coraggio di essere” (Laterza, Roma-Bari); “Stili di analisi” (Feltrinelli,
Milano); “L'organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica”
(Guerini, Milano); “Il pensiero raccontato” (Laterza, Roma-Bari); “Una donna a
Milano” (Marsilio, Venezia); “Il filtro creative” (Laterza, Roma-Bari); “Dalla
verità al senso della verità” (Plus, Pisa); “Mondi intermedi e complessità”
(Ets, Pisa); “Il gesto” (Cortina, Milano); “La filosofia della cura” (ASMEPA
Edizioni, Bentivoglio); “L'arte di esistere contro i fatti” (Lamantica
Edizioni, Brescia); “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere
e attività umane” (Einaudi, Torino). Altri contributi Relazione d'aiuto,
sintonia comunicativa e organizzazione sociale, in Il vaso di Pandora, Dialoghi
in psichiatria e scienze umane, Fondazionalismo e antifondazionalismo, Relativismo
e nuovi paradigmi filosofici, Inquietudine, empatia, identità e narrazione
(Pordenone). Eurialo e Niso coppia di amici, guerrieri troiani nella mitologia
greca e nell'Eneide di Virgilio Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione sugli argomenti mitologia romana e personaggi immaginari
non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Eurialo e
Niso Nisos Euryalos Louvre LL450 n2. jpg Eurialo e Niso di Roman, Louvre
SagaCiclo Troiano ed Eneide Nome orig.Euryalus e Nisus Epitetoinsigne per
bellezza (Eurialo), fortissimo in armi (Niso), Irtacide (patronimico di Niso)
1ª app. inEneide di Virgilio, I secolo a.C. circa (Eurialo) Sessomaschi
Luogo di nascitaTroia (Eurialo), monte Ida (Niso) Eurialo e Niso (in latino
Euryalus e Nisus) sono due personaggi che compaiono in due episodi dell'Eneide di
Virgilio. Guerrieri profughi di Troia, costituiscono un grande esempio di
amicizia e di valori che Virgilio teneva a riportare in vita con la sua
opera. Il particolare rapporto che li lega è definito dall'autore
"amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come serena
manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità
omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici nemici dei
troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani latini
Cidone e Clizio. Il mito Appresentossi in prima Eurïalo con Niso. Un
giovinetto di singolar bellezza Eurïalo era; e Niso un di lui fido e casto
amico.» (Virgilio, Eneide, traduzione di A. Caro, V, 425-428) Eurialo Eurialo
(figlio di Ofelte, un troiano morto durante la guerra di Troia nonché lontano
parente di Priamo) è il più giovane dei due amici, poco più che un fanciullo, e
con la sua grande bellezza riesce sempre a ottenere il favore degli
altri. Partecipa alla gara di corsa a piedi durante i giochi funebri per
Anchise, nel quinto libro dell'Eneide, a fianco dell'amico Niso e riesce a
vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di Salio, un
altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le sue
lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per
lui. Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere
Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani,
approfittando dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici.
L'inesperienza di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba
nell'accampamento nemico diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo.
Saranno proprio quei trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una
parte il riflesso dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due
compagni, dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai
soldati nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un
bosco vicino all'accampamento rutulo. In quel momento Virgilio richiama
alla mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia
l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa
il capo durante la pioggia. NisoModifica Niso appartiene a una famiglia
illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - del
nobile troiano Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata da Priamo,
chiamata anche Ida. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto, avendo
combattuto insieme ai fratelli nella guerra di Troia. Nel poema è ricordata tra
l'altro la sua passione per la caccia, trasmessagli da entrambi i genitori.
Compare per la prima volta nel quinto libro al fianco di Eurialo nella gara di
corsa, in cui scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie a uno
stratagemma. Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per
uscire dall'accampamento dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea,
ma Eurialo vuole seguirlo. Dapprima Niso non acconsente ritenendo il ragazzo
non ancora pronto per affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua
insistenza, parte con lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi
giovani italici sopraffatti dal sonno, dal vino e dall'inesperienza, imitato
poi da Eurialo. Tenterà invano di salvare l'amico fatto prigioniero dai
cavalieri di Volcente. Il suo affetto per il giovinetto lo spinge a vendicarne
la morte; egli riuscirà nell'intento cadendo però a sua volta. Quinto
libro - La gara di corsaModifica La prima apparizione di Eurialo e Niso risale
al quinto libro dell'Eneide, durante la gara di corsa a piedi svoltasi a Erice
nei giochi in onore di Anchise, il defunto padre di Enea. L'episodio è peraltro
tratto dalla gara avvenuta nell'Iliade fra Odisseo, Aiace d'Oileo e Antiloco,
vinta da Odisseo. Niso si porta in testa, ma scivola inavvertitamente su una
pozza di sangue sacrificale, probabilmente sparso da Eneaprima della
celebrazione dei giochi. A quel punto Salio, un altro partecipante, tenta
di correre per il primo posto, ma Niso, mosso da un profondo affetto per
l'amico, fa uno sgambetto all'avversario che finisce a terra. Di
conseguenza Eurialo sorpassa Salio e vince la gara. Irritato per la
vittoria ingiusta di Eurialo, Salio si lamenta da Enea, ma il pubblico,
commosso dal pianto e dal bell'aspetto di Eurialo, parteggia per il
giovinetto. Enea consegna comunque un premio di consolazione a Salio e a
Niso, rispettivamente una pelle di leone africano e uno scudo forgiato da
Didimaone, e offre al giovane vincitore il premio che gli sarebbe spettato di
diritto, ossia un cavallo con borchie. Nono libro - La sortita notturna e
la morte dei due giovaniNella sortita notturna del nono libro, Virgilio
s'ispira a quella di Diomede e Ulisse nel decimo libro dell'Iliade, dove i due
achei sorprendono nel sonno il giovane re trace Reso e dodici suoi
guerrieri. L'esercito di Turno sta cingendo d'assedio la cittadella dei
Troiani sbarcati nel Lazio; Enea, alla ricerca di alleati, si è recato tra gli
Etruschi. Niso si propone di uscire per andare a raggiungere Enea e avvertirlo
del pericolo imminente, ma Eurialo vuole rimanere al suo fianco, pur sapendo di
essere ancora molto giovane per un'impresa così rischiosa e di poter avere
ancora una lunga vita davanti a sé. Dopo aver ricevuto il consenso dei compagni
riguardo alla loro proposta, Eurialo e Niso si preparano a partire per la loro
missione. Ascanio, il figlio di Enea, promette loro grandi premi, tra cui tazze
e cucchiai d'argento, cavalli, armature, donne e schiavi, mentre gli altri
troiani li equipaggiano con armi adatte all'impresa. I due amici
penetrano nel campo dei Rutuli addormentati. Niso mette al corrente Eurialo
della sua intenzione di farne strage e passa immediatamente all'azione,
aggredendo un amico intimo di Turno, il borioso re e augure Ramnete, che stava
russando nella sua tenda su un cumulo di sontuose stuoie, e con la spada lo
colpisce alla gola; introdottosi quindi negli alloggiamenti di Remo, altro
importante condottiero italico, sgozza l'auriga disteso sotto i cavalli per poi
staccare la testa al suo signore coricato nel letto e ancora al bellissimo
giovinetto Serrano riverso a terra nel suo sonno di ubriaco dopo aver dedicato
al gioco dei dadi buona parte di quella che sarebbe stata la sua ultima notte.
Questi sono i più noti tra i numerosi guerrieri che finiscono vittime di
Niso. Anche Eurialo non resiste alla tentazione di uccidere qualche
italico; un certo Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di nascondersi
dietro un cratere, ma viene ucciso proprio da Eurialo. A questo punto Niso
esorta il compagno a cessare la strage; i due troiani escono dal campo nemico.
Eurialo porta via con sé alcuni oggetti di valore, tra cui l'elmo di Messapo
(un alleato italico dei Rutuli, che non è tra le vittime). Proprio per la
vanità di Eurialo i due amici vengono avvistati da un drappello di trecento
maturi cavalieri rutuli guidato da Volcente; accade infatti che i bagliori
dell'elmo e il suo vistoso pennacchio attirino l'attenzione dei nemici, che
incominciano allora a inseguire la coppia di troiani, rifugiatasi nel
bosco. Gli uomini di Volcente si sparpagliano quindi attraverso passaggi
sconosciuti a Eurialo e Niso, che cercano una via di fuga.
Improvvisamente Niso si ritrova da solo e, correndo a ritroso per cercare
l'amico, lo vede circondato da soldati italici. A quel punto, disperato, scaglia
le sue armi contro i nemici e riesce a uccidere Sulmone e Tago, due cavalieri
di Volcente, il quale, non capendo chi possa essere l'autore di quelle
uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada, trafiggendolo mortalmente.
(LA) «Talia dicta dabat; sed viribus ensis adactus transabiit costas et
candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus it cruor,
inque umeros cervix conlapsa recumbit: purpureus veluti cum flos succisus
aratro languescit moriens lassove papavera collo demisere caput, pluvia cum
forte gravantur. Mentre così dicea, Volscente il colpo già con gran forza
spinto, il bianco petto del giovine trafisse. E già morendo Eurïalo
cadea, di sangue asperso le belle membra, e rovesciato il collo, qual
reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch'a
terra il capo inchina. -- Trad. Caro. Niso allora grida disperato e si scaglia
con tutta la sua violenza contro Volcente, conficcandogli quindi la spada nella
bocca spalancata e uccidendolo. Il giovane viene però attaccato dagli altri
soldati presenti e, morendo, si getta sull'amico e si dà finalmente
pace. At Nisus ruit in medios solumque per omnis Volcentem petit in solo
Volcente moratur. Quem circum glomerati hostes hinc comminus atque hinc
proturbant. Instat non setius ac rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis
in ore condidit adverso et moriens animam abstulit hosti. Tum super exanimum
sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum morte quievit. In mezzo de
lo stuol Niso si scaglia solo a Volscente, solo contra lui pon la
sua mira. I cavalier che intorno stavano a sua difesa, or quinci or
quindi lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre addosso a lui la sua
fulminea spada rotava a cerco. E si fe' largo in tanto ch'al fin lo
giunse; e mentre che gridava, cacciogli il ferro ne la strozza, e
spinse. Così non morse, che si vide avanti morto il nimico. Indi da
cento lance trafitto addosso a lui, per cui moriva, gittossi; e
sopra lui contento giacque.» (Caro) Conseguenze della morte di Eurialo e
NisoModifica Sùbito dopo la morte di Eurialo e Niso, Virgilio interviene nella
narrazione, assicurando ai due amici un eterno ricordo da eroi tragicamente
sconfitti: Fortunati ambo! Siquid mea carmina possunt, nulla dies umquam
memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet
imperiumque pater Romanus habebit. Fortunati ambidue! Se i versi miei tanto han
di forza, né per morte mai, né per tempo sarà che 'l valor vostro glorïoso non
sia, finché la stirpe d'Enea possederà del Campidoglio l'immobil sasso, e
finché impero e lingua avrà l'invitta e fortunata Roma. (Caro) I corpi esanimi
di Eurialo e Niso vengono portati all'interno dell'accampamento rutulo, e quivi
sottoposti a decapitazione. Le teste recise dei due giovani vengono
quindi conficcate su lance e portate davanti al presidio troiano con grande clamore.
In seguito la Fama avverte la madre di Eurialo della morte del figlio. Ella,
sconvolta dalla notizia, corre fuori di casa strappandosi i capelli e urlando.
Ha così inizio un commovente discorso in cui sembra rimproverare il figlio per
non averla nemmeno salutata per l'ultima volta prima di partire per la sua
pericolosa missione, e rimpiange di non aver potuto guidare le sue esequie e
rivedere il suo corpo. La donna sembra non aver più nemmeno la forza di
vivere e implora di essere uccisa dai Rutuli, trafitta dalle loro frecce.
L'ultima memoria a Eurialo e Niso è offerta dai troiani che li rimpiangono con
gemiti e lacrime e riportano in casa la madre di Eurialo. Vittime di
Eurialo e Niso Vittime di Eurialo Le vittime di Eurialo, tutte uccise nel campo
dei Rutuli, sono perlopiù anonime; fanno eccezione: Abari Erbeso Fado
Reto (l'unico che non viene ucciso nel sonno). Colpito di spada al petto, muore
vomitando l'anima insieme al vino e al sangue. Vittime di Niso Cavalieri uccisi
in scontro aperto: Sulmone, colpito mortalmente da un dardo al petto
Tago, ucciso con un dardo che gli trapassa le tempie Volcente, il comandante,
cui Niso conficca la spada nella bocca spalancata Guerrieri sorpresi nel
sonno: Ramnete, augure e re italico Remo, condottiero rutulo Lamiro e
Lamo, guerrieri rutuli al seguito di Remo Serrano, giovanissimo guerriero
rutulo famoso per la sua bellezza, anch'egli al seguito di Remo In questo
elenco vanno aggiunti i tre servi di Ramnete e l'auriga di Remo: ma il verso
«armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis, da alcuni tradotto sopprime
l'auriga ed armigero di Remo è da intendersi per altri come sopprime lo
scudiero di Remo e l'auriga, quindi il numero complessivo delle vittime di Niso
può variare da 12 a 13. In ogni caso Niso è, dopo Enea e Turno, il guerriero
che uccide più nemici nel poema; e tra gli italici che egli sorprende nel sonno
sono ben quattro quelli che subiscono la decapitazione, ovvero Remo, Lamiro,
Lamo e Serrano. Virgilio mette anche un certo Numa tra gli italici uccisi
nel sonno, ma solo nella sequenza che descrive la scoperta della strage. Per
molti studiosi il punto in questione sarebbe uno dei tanti sfuggiti alla revisione
definitiva dell'opera: e poiché Numa viene citato insieme a Serrano, si pensa
che il poeta abbia scritto erroneamente "Numa" in luogo di
"Lamo" o "Remo". Peraltro in un passo del libro X il nome
Numa ritorna, insieme a quelli di Volcente e Sulmone: quest'ultimo viene detto
padre di quattro giovani guerrieri catturati da Enea, che poco dopo appunto
uccide, in mezzo ad altri nemici, un guerriero chiamato Numa, e il figlio di
Volcente, Camerte, biondo signore di Amyclae. Raffronto con
l'IliadeModifica Nel compiere la strage, i due giovani vengono paragonati dal
poeta a un leone vorace che entrato in un ovile affonda i denti sulle inermi
pecore; la similitudine proviene dal modello omerico con la strage dei Traci.
La pagina del massacro compiuto dalla coppia troiana si caratterizza però
soprattutto per la presenza di particolari cruenti, come l'immagine di Reto che
vomita la sua anima intrisa del vino bevuto, e le decapitazioni operate da Niso
(Diomede riserva questo trattamento a Dolone e non ai Traci addormentati); il
giovane eroe tuttavia si astiene dall'incrudelire sulle teste recise delle sue
vittime, divergendo in questo da altre figure epiche (Agamennone e Achille
nell'Iliade; Turno e lo stesso Enea nell'Eneide). L'immagine di Eurialo
morente, col giovinetto che piega il capo come un papavero, è anch'essa mutuata
dall'Iliade, ma richiama un altro passo, quello dell'agonia di Gorgitione, uno
dei figli di Priamo, ucciso in battaglia da Teucro nell'ottavo libro del poema.
Il testo virgiliano contiene anche alcuni tratti di comicità nera (l'augure
Ramnete, amante del fasto, che non riesce a prevedere la propria morte; e
l'uccisione del bizzarro auriga di Remo, sorpreso mentre giace tra i suoi
stessi cavalli). Benché l'episodio della sortita notturna sia modellato
su quella compiuta da Odisseo e Diomede, i troiani presentano tratti che
rimandano più ad Achille e Patroclo per il rapporto che li unisce, ovvero
quello di due guerrieri-amanti. In Niso peraltro si può riscontrare una
personalità molto simile a quella di suo fratello Asio nell'Iliade,
caratterizzata da audacia e irruenza; oltretutto anche Asio soccombe dopo aver
tentato di vendicare un commilitone caduto, Otrioneo, al quale però non è
sentimentalmente legato, così come non risulterebbe avere un coinvolgimento
erotico col proprio auriga, destinato a perire subito dopo di lui. [1].
Interpretazione dell'episodio Affiora in questi versi lo sgomento di Virgilio
di fronte agli orrori della guerra, che miete lutti su lutti. La guerra non è
tra buoni e cattivi: i troiani cercano una nuova patria, gli italici si sentono
minacciati. In nessun altro punto del poema soccombono così tanti eroi giovani:
se si eccettuano Volcente e i suoi due cavalieri, padri di famiglia, tutti gli
altri personaggi dell'episodio vanno incontro a morte prematura, non ci sono
solo Eurialo e Niso, dato che i guerrieri che i due troiani uccidono nel sonno
sono più o meno loro coetanei: in IX, 161-63 si dice infatti che Turno sceglie
per l'assedio 1.400 giovani («bis septem Rutuli muros qui milite servent /
delecti, ast illos centeni quemque sequuntur /purpurei cristis iuvenes auroque
corusci»). Gioventù che va di pari passo con l'imprudenza: i Rutuli si lasciano
sopraffare dal sonno, un elmo sottratto da Eurialo ai nemici sarà all'origine
della sua morte. Ma morire giovani in guerra significa anche guadagnarsi la
fama eterna, e a questo provvede Virgilio che manifesta lo stesso senso di
rispetto per tutti i caduti: guerrieri aristocratici come Niso, Remo e Ramnete
(che pur bollato dal poeta in un primo tempo come superbus per l'ostentazione
del suo doppio potere è uno degli italici che Virgilio metterà tra le vittime
maggiormente rimpiante dall'esercito italico, essendo indiscutibile la sua
amicizia per Turno), e soldati di estrazione non nobile come Eurialo e
Serrano. Fortuna dell'episodio Nell'Orlando furioso di Ariosto i due soldati
saraceni Cloridano e Medoro compiono una sortita notturna nel campo dei
cristiani per cercare il cadavere di Dardinello, il loro signore caduto in
battaglia, e vi uccidono diversi nemici sorpresi nel sonno. Fin qui Ariosto
segue Virgilio: diversa è la conclusione, che vede soccombere il solo
Cloridano, mentre Medoro è destinato a essere salvato dalla bella Angelica;
inoltre mancano descrizioni relative al ritrovamento dei guerrieri uccisi nella
strage. Eredità culturaleModifica A Eurialo e Niso sono stati dedicati
due crateri di Dione, uno dei satelliti di Saturno. Massimo Bubola ha preso
ispirazione dall'episodio virgiliano per una sua canzone scritta in
collaborazione con i Gang e da questi incisa in primis, intitolata Eurialo e
Niso, in cui si narra di due giovani partigiani - omonimi della coppia di
personaggi virgiliani - autori di una sortita notturna contro i nazisti. Anche
in questo caso la vicenda si conclude con la morte di entrambi gli amici. Fonti
VIRGILIO (si veda) Eneide. Asio è invece molto più legato al principe troiano
Deifobo, che subito dopo la sua morte decide di vendicarlo Iliade (Monti) Voci
correlateModifica Temi LGBT nella mitologia Irtaco Arisbe Asio (figlio di
Irtaco) Ippocoonte (figlio di Irtaco) Salio Volcente Cloridano Medoro (Orlando
furioso) Ramnete Remo (Eneide) Serrano (Eneide) Lamiro e Lamo Reto Cidone e
Clizio Decapitazione Reso. Eurialo e Niso Portale Letteratura
Portale Mitologia Scienza e filosofia della complessità. Studi in
memoria di G. A cura di Marinucci, Salvia, Bellotti Collana “I Tempi e le
Forme” (Carocci) G.: la filosofia come analisi delle possibilità di Alfonso
Maurizio Iacono Introduzione di Angelo Marinucci e Stefano Salvia 1.
Determinismo, linearità, prevedibilità. Il problema dei tre corpi da Newton a
Poincaré di Salvia Genesi e sviluppo di un problema scientifico/La prima
formulazione esplicita del problema Dalla geometria analitica all’analisi
algebrica/La controversia intorno a 1 r2 Il problema dei tre corpi ristretto Il
Sistema solare è stabile? Dall’analisi algebrica alla meccanica analitica La
meccanica razionale e l’analisi classica Il teorema di Poincaré: limite
invalicabile o nuovo spazio di possibilità? Il problema della previsione in un
sistema deterministico classico di Cintio Il problema dello studio delle
evoluzioni temporali/Sistema dinamico/Il determinismo e il problema delle
previsioni delle evoluzioni/ Evoluzioni caotiche/Dalle singole orbite alle
famiglie di sistemi Il problema della previsione e la dipendenza sensibile
dalle condizioni iniziali 3. Ordine e caos nella scienza moderna di Fronzoni
Introduzione La riscoperta del caos Le biforcazioni Coerenza e
autorganizzazione La turbolenza Stati coerenti localizzati: i solitoni La
sincronizzazione Coerenza e disordine nella meccanica quantistica Entropia e
complessità Network Conclusioni Su
Turing, gli algoritmi, le macchine, la prevedibilità di Bellotti Turing: una
brevissima biografia Una digressione: Penrose contro Turing Algoritmi Macchine
di Turing Un’osservazione finale: sulla prevedibilità del comportamento delle
macchine di Turing 5. Come il futuro dipende dal passato e dagli eventi rari
nei sistemi viventi di Longo Introduzione Storia e dipendenza dal cammino in
fisica: qualche confronto/La memoria: un esempio d’invariante storicizzato/Gli
osservabili biologici e le loro dinamiche evolutive Verso il futuro: sapere e
imprevedibilità/ Tracce invarianti di una storia/Spazi relazionali costruttivi
e invarianza Conoscenza del presente e invenzione del futuro/Il ruolo della
diversità e degli eventi rari Conclusione Possibilità e realtà tra fisica e
biologia di Angelo Marinucci Introduzione/Fisica classica La meccanica
quantistica La biologia Scienza e filosofia della complessità: Studi in memoria
di G., a cura di: Marinucci, Salvia, Bellotti, Carocci, Roma, Il volume
raccoglie i contributi, ampiamente elaborati, presentati al convegno
Possibilità al di là della determinazione. Matematica, fisica e filosofia della
complessità, tenutosi all’Università di Pisa in memoria di G.. Del filosofo sono
ben noti gli interessi filosofici per la questione, nata nella fisica moderna e
in altri saperi, dell’emergere – in sistemi complessi – di possibilità che
vanno, irriducibilmente, al di là della determinazione. Aldo Giorgio Gargani.
Gargani. Keywords: Eurialo e Niso;
ovvero, dell’empatia, scambio, organisazzione condivisa – communicazione –
implicatura come condivisa – empatia – d. f. pears --. Mcguinness, Gargani on
Grice – ragione – Treccani -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gargani” – The
Swimming-Pool Library. Gargani.
Grice e Garin: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale del rinascimento – scuola di Rieti – filosofia
rietesi – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rieti). Filosofo rietese. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Rieti,
Lazio. Grice: “Garin is a serious student of what we may call the longitudinal,
rather than latitudinal, unity of Italian philosophy! If ever there is one!” --
Italian philosopher, author of a very
rich, “La cultura filosofica del rinascimento italiano.” And “L’umanesimo
italiano” Grice was Lit. Hum. Oxon, so he knew. Linceo. Studia sotto Limentani. Frequenta il Liceo
classico Galileo. Si laurea sotto Limentani. Vari studi sull'Illuminismo che confluiranno
nel volume sui moralisti inglesi. Subito dopo la laurea sostenne e vinse il
concorso per insegnare nei licei, cosa che continuò a fare fino a quando vinse
la cattedra da ordinario all'università. Tra i commissari del concorso liceale
c'è GUZZO (si veda), una figura che costituirà un punto di riferimento per G.
quanto meno fino ai primi anni del dopoguerra. I suoi riferimenti culturali non
erano costituiti da intellettuali e politici come Gramsci, ma da filosofi di
matrice spiritualista e cattolica come Lavelle,
Senne, Castelli Gattinara di ZUBIENA (si veda), SCIACCA (si veda) e lo
stesso GUZZO (si vedea). Iscritto al Partito Nazionale, pronuncia al liceo di
Firenze una commemorazione a GENTILE (si veda). Una svolta nelle prospettiva
politica, filosofica e storiografica (le tre cose non vanno separate) si ha con
l'uscita dei Quaderni del carcere di Gramsci, che hanno fortemente influenzato
la sua filosofia nel costante riferimento alla concretezza del pensiero, e con
la pubblicazione delle Cronache di filosofia italiana, fortemente sollecitato
da Laterza. Storico della filosofia molto legato al rigore filologico e al
lavoro sui testi, rifiuta la definizione di filosofo. È tuttavia considerabile
tale proprio in virtù delle sue polemiche anti-speculative e come influente
teorico della storiografia filosofica. Insegna a Firenze. Si ttrasfere a PISA a
causa dei perduranti disordini della rivolta studentesca, di cui non condivide
le modalità di lotta e che considera espressione di astratto
rivoluzionarismo. La sua infaticabile avidità di letture filosofiche lo rende
consigliere prezioso. I lincei gli confere il Premio Feltrinelli per la
Filosofia. Altre opere: “Pico: vita e dottrina”; “Gl’illuministi inglesi. I
Moralisti; “Il rinascimento ITALIANO”; “L'Umanesimo ITALIANO”; “Medioevo e
Rinascimento”; “Cronache di FILOSOFIA ITALIANA”; “L'educazione in Europa”; “La
filosofia come sapere storico”; “La filosofia nel Rinascimento ITALIANO”; “La
cultura ITALIANA”; “Scienza e vita civile nel Rinascimento ITALIANO”; “Storia
della FILOSOFIA ITALIANA”; “Dal Rinascimento all'Illuminismo” “FILOSOFI ITALIANI”; “ Rinascite e
rivoluzioni”; “Lo zodiaco della vita”; “Tra due secoli”; “Cartesio”; “L’Ermetismo
del Rinascimento”; “Gli editori ITALIANI”; “La cultura del Rinascimento”. Ciò
non toglie che l'importanza della interpretazione del Rinascimento che G. ci dà
nei suoi scritti e ci documenta nelle sue edizioni, pubblicazioni, finissime
traduzioni di testi umanistici di ogni tipo (filosofico, politico, critico,
letterario) possa essere, senza iperbole, confrontata con l'importanza della
evocazione del Burckhardt» in Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, la
Repubblica, Mecacci L., La Ghirlanda fiorentina e la morte di Gentile, Adelphi,
Milano, su lincei. Fondo G., Il percorso storiografico di un maestro, Firenze,
Le Lettere, Biondi, Dopo il diluvio. G., l'ombra di Gentile e i bilanci della
filosofia, in Un secolo fiorentino, Arezzo, Helicon,,Olivia Catanorchi e Valentina
Lepri, Dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze), Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura,. Ciliberto, G.. Un intellettuale nel
Novecento, Roma, Laterza,. Raffaele Liucci, Quelle ombre sul delitto Gentile in
"Treccani Magazine", La Ghirlanda fiorentina e la morte di Gentile,
Adelphi, Milano, "Il Gramsci di G., in Archetipi del Novecento. Filosofia
della prassi e filosofia della realtà, Napoli, Bibliopolis, Umanesimo e
umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di G., Milano, FrancoAngeli, Treccani
Enciclopedie Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Eugenio Garin, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di G.. Quando con ritrosia è portato a
farne un sobrio bilancio, G. insiste a dire di essere stato soprattutto un
insegnante. Ho sempre insegnato, ripete. E insegnante lo è stato alla scuola
di avviamento al lavoro di Fucecchio, dei ragazzi di buona famiglia
delle Mantellate di Firenze, alle quali fa lezione sorvegliato da una
severa suorina, dei suoi quasi coetanei del Liceo Cannizzaro di Palermo, poi di
quelli del Liceo Vinci di Firenze, mentre sostituiva uno dei suoi
maestri, SARLO (si veda), nell’insegnamento universitario di filosofia. Insomma,
sempre insegna e, come si dice, in ogni ordine di scuola dall’università
in giù. Non saprei dire di G. insegnante di liceo. Vorrei dire solo qualosa di
G. docente universitario. Credo che ognuno possa sostenere, e con
ragione, di aver conosciuto e di aver avuto un suo G.. Non già perché
egli avesse la facoltà di adattarsi a chi per dovere o per diletto lo
volesse ascoltare. Anzi. Ma perché ciascuno era messo in grado di reagire
a quell’incontro con il proprio carattere, con la propria formazione, con
è scomparso G.. Al maestro fiorentino e alla sua opera la Biblioteca
Roncioniana aveva dedicato un convegno (cfr. Giornata di studi, omaggio a
G., Bollettino Roncioniano; del convegno sono poi usciti gli atti: G.. Il
percorso storiografico di un maestro, cur. Audisio e Savorelli, Firenze,
Le Lettere. Pubblichiamo qui un ricordo di G., che Tonini legge nela cerimonia
svoltasi in Palazzo vecchio , aha quale sono intervenuti il Sindaco di Firenze,
Domenici, Cacciali, Ciliberto, Luzi e Rossi. Il testo è apparso nella brochure
Per G., Napoli, Bibliopoli, edita a cura di Tonini e Franco, che si
ringraziano per averne acconsentito la ristampa in questa
sede. Tonini le proprie attese. In altre parole egli non intende
plasmare l’ascoltatore, ma solo offrire occasioni, occasioni cui ognuno
doveva e poteva rispondere a suo modo, liberamente.Non che il suo insegnamento è
univoco, uguale dappertutto e per tutti. È un insegnante troppo navigato
per sapere che una cosa è far lezione al pupillo di filosofia assieme,
un’altra ai soli filosofi, come ci chiama, un’altra cosa ancora ai laureati e
laureandi. Sa bene che è diverso rivolgersi ai colleghi in un convegno
di studio, o parlare in una casa del popolo, oppure rivolgersi a tutti,
ai cittadini, come spesso gli è capitato proprio qui nel palazzo vecchio della
sua Firenze. Cambiano i contenuti, mutano i toni, mai il carattere,
l’alta professionalità, medesima sempre la passione. G. non spezzetta mai
il pane della cultura: ovunque, o a chiunque avesse da parlare o da
insegnare, lo sconosciuto pupillo che si presenta all’esame, l’amico e collega,
lo studioso straniero, il laureato, tutti meritano sempre la stessa
attenzione, il medesimo trattamento. Sì che nella sua produzione letteraria le
conferenze lincee e le lezioni al Collège de France stanno insieme agli
scritti, diciamo, d’occasione, senza che il lettore ne colga, se non con
l’aiuto di riferimenti bibliografici, la loro provenienza e la loro
destinazione. Niente gli è più alieno, fisicamente e metaforicamente,
dell’espressione prendere per mano. G. non prende per mano nessuno. Apre un
libro, i cui capitoli anda narrando di volta in volta. Un libro sempre nuovo.
Per chi sa apprezzarlo, quel libro conduce a altri libri, poi a una
collana, infine a una biblioteca, spesso la sua. Un libro somigliante a quello
di un autore a lui carissimo, Sterne, La vita e le opinioni di Shandy
[LIFE AND OPINIONS – GRICE], fatto di parentesi, di divagazioni apparenti,
di vie traverse che sembrano far perdere di vista il contenuto promesso
fino a farlo dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è
necessario per cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un
libro ciascuno, per proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi, se
volete, la propria strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E come con
un libro, ciascuno instaura con lui un rapporto individuale: per quanto
paradossale, la sua lezione non consentiva alcuna lettura corale, alcuna
possibilità di dispense, alcuna versione ufficiale. Considera la cultura,
lo ha scritto, la conquista di una più profonda coscienza di sé. E l’università
è cultura. In questo senso il suo non è mai stato un insegnamento
demagogicamente democratico, né si è mai considerato un missionario, né
ha considerato il proprio lavoro una missione. Piuttosto un funzionario, come
amò talora definirsi, civettando con il motivo del trasferimento della
sua famiglia a Firenze, che assicurava un viaggio su un treno sicuro,
tecnicamente aggiornato, ben condotto, ma che, al pari di un capotreno,
non era, e non si considerava, poi responsabile se i viaggiatori scendevano
alle stazioni intermedie e prendevano altre direzioni. Non credo si sia mai
sentito coinvolto nelle scelte altrui, né voleva esserlo. Non si prestava, pur
avendone le doti, a essere il pifferaio fascinatore di candide giovinette
e di timidi giovinotti. Lo considera un tradimento, un traviamento del
suo compito, che è appunto, e solo, quello di insegnare la filosofia, di
insegnare a capirne la storia, di fare cultura, ma sempre altro da
convincere o da portare su una strada che non fosse già in qualche modo
segnata, e segnata individualmente, in chi lo ascolta. Un pescatore anche,
ma un pescatore che getta reti larghe e profonde nelle quali si aspettava che i
pesci entrassero spontaneamente, mai che venissero catturati. I suoi
pesci erano e dovevano essere pupillo non venivano infatti da un esame che ne
aveva certificato proprio la maturità? che egli considerava suoi pari,
almeno per quel che riguarda il cartesiano bori sens, la bona mens, la cosa più
diffusa e più equamente distribuita tra gli uomini, sì che la differenza
tra lui e noi riguardava, galileianamente, l’estensione del sapere, non la
capacità di comprendere. Il severo, severissimo G., che tanto spaventa le
matricole, è un benevolo confessore dell’ignoranza del suo pupillo. E quelli
più maturi imparavano subito che la migliore risposta alle domande che
fioccavano in aula era quella di confessarla subito quella ignoranza,
anche quando si era quasi sicuri della risposta -- ma chi è sicuro di
fronte a G.?. Certo, quell’estensione del sapere costituiva una barriera,
una differenza di cui era consapevole lui e consapevoli noi, una barriera
quantitativa, ci faceva credere, scalabile e riducibile, quasi come una
differenza di età, mai come un’inattingibile diversità, che mai si
trasformava in paternalistica condiscendenza. Quella barriera si sgretolava
nella generosa disponibilità a fornire indicazioni e libri, al reiterato
prestarsi a spiegare non solo le tematiche del proprio corso, ma a
offrirsi di guidare piccoli gruppi alla lettura dei testi (Hegel, Kant o
Husserl) dei corsi di altri colleghi che ci risultassero particolarmente
difficili. Il grande intellettuale non dimentica in nessuna occasione la sua
professione: non solo nel rigido adempimento dei suoi obblighi di docente,
nella proverbiale puntualità, nella scrupolosa preparazione dei corsi (i
‘bauli’ di libri che partivano anzitempo per la montagna), nella paziente e
tanto prodiga lettura dei capitoli delle tesi di laurea, nella curiosità
con cui ogni anno rinnovava l’incontro con i suoi giovani interlocutori.
Aveva trasformato una precoce vocazione in una professione, in un affetto per
il proprio lavoro, prima ancora che per chi dovesse usufruirne, in una disciplina
che scherzosamente at- [G. La lezione di un maestro tribuiva alle
lontane origini savoiarde, ma che forse è la chiave per cogliere la sua
straordinaria e mai dismessa operosità, la freschezza di ogni suo
intervento. G. non è mai stato altro cheun insegnante: poche, modeste e
occasionali le cariche accademiche, nelle quali emergeno un’insofferenza e una
scontrosità imprevedibili nel professore, altrettanto rare quelle
istituzionali o editoriali e solo al termine, o quasi, della sua carriera
scolastica, nessuna, ovviamente, carica politica, in un uomo che ha, come
sa, una grande e perdurante passione civile, per la sua scuola, per la
sua città, per il suo paese. Credo che nulla gli è apparso più estraneo e
spiacevole di esser considerato a capo di qualcosa, fosse un istituto, una
rivista o una cordata accademica. Di fatto non c’è mai stata una scuola
di G., ci sono stati, e ci sono, tanti che hanno studiato e si sono
laureati con lui, che lavorano con lui, che condivideno aspetti e momenti
del suo lavoro, che si sono incontrati con lui, ma niente di più. Incauti,
invidiamo gl’allievi di PRA, che il maestro raduna a S. Margherita o sul
lago di Garda, cui apre la Rivista critica di storia della filosofia, la
collana del centro milanese di storia della filosofia. O quelli di Paci, che si
ritrovano su aut aut, che si incontrano nelle edizioni del Saggiatore,
ricordiamo e riconoscemo quelli di Banfi o quelli emergenti di Geymonat, che
attendeno a imponenti opere collettive, e tanti altri che andano sorgendo
vicino e lontano. G. non ha nulla. Non ha mai diretto opere collettive, non ha
mai organizzato convegni né li ha fatti organizzare, mai collane editoriali.
Quando ciò è avvenuto con l’ISTITUTO NAZIONALE DEL RINASCIMENTO o con il Giornale
critico della filosofia italiana, tutto si è potuto e si può dire, fuori che
fossero espressioni di una scuola o di un gruppo che in lui si
riconoscesse o che in lui fosse riconoscibile. Neanche quando a PISA gli si è
offerta l’opportunità di cogliere ancora una volta una straordinaria e
entusiasta messe di studiosi, è venuto meno il carattere del suo
insegnamento. Lì, come in S. Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha
mancato di offrire opportunità, un’occasione irripetibile, anzi,
generosamente resa disponibile, ma sempre e solo per chi aveva modo e voglia di
coglierla e di realizzarne le potenzialità, ma lasciando a ciascuno la libertà
di decidere, di interpretare quell’incontro, di farne ciò che voleva. Il
severo G. non rimprovera mai. Non gli è mai venuto in mente di
riprenderci, come capita al suo amico e collega CANTIMORI o a RAGIONIERI, se mancamo a una seduta di seminario e veniamo
sorpresi in biblioteca o, peggio, al bar. Ma neppure gli è venuto in mente
di TONINI portarci nello stesso bar a prendere un aperitivo o un caffè,
come capita spesso con Cantimori e occasionalmente con Ragionieri. Non
vuole essere né un padre, né un maestro di vita. Non credo neppure che
volesse additarci un modello. È piuttosto una lezione di maturità, di
piena e consapevole democrazia intesa come rigoroso rispetto dei ruoli, quella
a cui ci chiama, e che per molti è anche la prima. Il suo dovere è quello
di insegnare, del nostro doviamo rispondere noi. Scende dalla cattedra
per aiutarci a leggere un testo, per offrirci un’indicazione, per
mostrarci un passo di un libro, sede tra noi a discutere di Cartesio o di
Platone, e la lezione puo proseguire nella biblioteca di facoltà, o vicino ai
tavoli della Nazionale o tra i libri di Seeber, ma senza mai abdicare
alla sua funzione. Non è mai sceso a discutere con noi il corso, la sua
organizzazione, le sue modalità. A ciascuno il suo. Non discute le nostre
scelte di vita, i propositi di lavoro, le carriere. Li considera su un
altro piano, nel quale l’insegnante non dove né puo intromettersi: li
accetta. Al massimo inarcava le ciglia, come nei lavori che gli
sottoponevamo, e continuamo a sottoporgli, quando un impercettibile segno
di lapis segnala i dubbi e gl’errori di sintassi. Cittadino di forti
passioni civili, le lascia tutte, fuorché quella di insegnare, fuori
dall’aula. Ë facile sapere come la pensa, lo leggemo su Paese sera, sull’Unità,
su Rinascita, lo seguimo nelle Case del popolo, al Circolo di cultura, ma non
si è mai innescata, con lui, una forma qualsiasi di intesa, di complicità,
oserei dire, che prescindesse da quella unica e prevalente di insegnante
e studente. G. ci ha lasciato centinaia, migliaia di pagine in cui ci ha
insegnato come ricostruire figure di pensatori grandi e piccoli, da ASTORINI
a Cartesio, da CITTADINI a PICO. Ha ricostruito squarci del nostro passato
culturale e civile, da CROCE a GENTILE, da GRAMSCI a LABRIOLA, da CAPPONI a
VILLARI, ci ha dato testi e momenti del nostro passato FILOSOFICO che
hanno costituito e costituiscono un’eredità operante, viva e vitale per ognuno
che voglia fare una professione simile alla sua. Non ci ha potuto
lasciare, ed è purtroppo destinato a perdersi, quello che gli pareva più
importante: la sua lezione. Mi accorgo, nel concludere, di aver ricordato
una scuola, un’università che non c’è più. Non saprei dire se l’attuale, nella
quale molti di noi si trovano ora, sia
migliore o peggiore di quella. Mi auguro, e lo auguro soprattutto ai più
giovani, di potervi incontrare ancora un insegnante come G. L'insidia implicita
nel concetto stesso di genere letterario ha non di rado contribuito a falsare
la prospettiva necessaria a ben collocare la produzione filosofica
dell’umanesimo. Eta in cui vennero predominando preoccupazioni critiche, in cui
tutta l'attivita spirituale e impegnata
a costruire una respublica terrena, degna pienamente dell'uomo nobile, trova la
sua espressione piu alta in opere di contenuto in largo senso moralistico e di
tono retorico, in cui non solo si consegna un modo di concepire la vita, ma si
difende e si giustifica polemicamente un atteggiamento originale in ogni suo
tratto. Per questo chi voglia andar cercando le pagine esemplari dell’epoca, le
piu profondamente espressive, dovra rivolgersi,
non gia a testi per
tradizione considerati monumenti
letterari, ma alle opere in cui veramente si manifest6 tutto 1'impegno umano
della nuova civilta. Cosi,
mentre chi prenda
a scorrere novelle
umanistiche non potra
non uscir deluso
da talune, piu
che imitazioni, traduzioni,
o meglio raffazzonamenti, di
modelli boccacceschi, quali
troviamo, tanto per esemplificare, in Fazio, pagine di insospettata bellezza, capaci di
colpire ogni piu
raffinata sensibilita, ci si
fanno incontro nei
trattati e nei
dialoghi di Bracciolini, e perfino
nelle opere d’un filosofo di professione, dall’andamento talora
scolasticizzante, qual e
Ficino. E proprio
Ficino nella Theologia platonica,
presentando gl’uomini travagliati
dalla malinconia della
vita e desiderosi
che tutto sia un
sogno (wforsitan non
sunt vera quae
nunc nobis apparent,
forsitan in præsentia
somniamus), defmisce nei
suoi particolari espressivi
un tema di
larghissima risonanza in
tutta la letteratura europea. Sempre
FICINO, nel Liber de Sole, pur
parafrasando talora l’orazione famosa
dell'imperatore GIULIANO, fissa i
momenti di quella lalda
del sole che, attraverso VINCI (si veda), arriva
fino all’inno ispirato di Campanella. VINCI (si veda) rimanda
esplicitamente all'apertura del
terzo libro degli
Inni naturali del
Marullo; ma chi
veramente, ancora una
volta, in una
prosa di grandissimo
impegno, ci offre tutti i temi di quella si. L'omo nato nobile e in citta
libera- come diii PICCOLOMINI.
FICINO, Opera, Basilea,
Petri. (Theol plat.). lenne
preghiera di ringraziamento alia
fonte di ogni
vita e di ogni luce,
e proprio Ficino. Del
quale e la non dimenticabile
raffigurazione di una
tenebra totale, ove
e spento ogni
astro, che fascia
lungamente i viventi,
finche di colpo
il cielo si
apre per mo-
strare colui che e sola
forma visibile del
Dio verace. E
ficiniana e 1'opposizione del carcere
oscuro e della luce di vita, della tenebra di
morte e dei germi
rinnovellati dalla luce e dal
calore solare, in
cui si articolera il
metro barbaro di
Campanella. Ma per rimanere agli scritti
d’un medesimo autore,
ALBERTI, non grande
imitatore del BOCCACCIO,
raggiunge invece la
sua piena efficacia
quando costruisce i
suoi dialoghi, e
sa essere perfettamente
originale pur intessendoli
di reminiscenze classiche.
Perfino la tanto
celebrata Historia de
Eurialo et Lucretia di Enea Silvio perde tutto il suo colore innanzi
alle pagine dei Commentarii'*e sono piu facili a dimenticarsi i casi di Lucrezia che non le stanze delle antiche
regine divenute nidi di serpi, o le porpore
dei magistrati romani
rievocate fra Tedera
che copre le
pietre rose dal
tempo, o i topi
che corrono la notte nei sotterranei di un convento e il papa che caccia
sdegnato i monaci negligenti. Per non dire di quella feroce presentazione dei
cardinali, fissati in ritratti nitidissimi con rapide Imee mentre
per complottare trasferiscono nelle latrine
la solennita del
conclave. Poggio consegna
a trattati di
morale narrazioni scintillanti
di arguzia, spesso
molto piu facete
di tutte le
sue Facezie. I
mari di Grecia
percorsi sognando d’Ulisse,
il fasto delle corti
d'Oriente, le belve
africane, i fiumi
immensi, et per Nilum
horrifici illi anguigeni
crocodiliw, si alternano
a discussioni erudite
sulle iscrizioni delle piramidi nelle
lettere agli amici
e nel taccuino
di viaggio di
quel bizzarro e
geniale archeologo che
fu Ciriaco dej Pizzicolli
d'Ancona. E forse
il grande Poliziano ha scritto
le sue pagine
piu belle nella
prolusione al corso
sugli Analitici primi
d' Aristotele e nella
lettera alPAntiquario sulla
morte del magnifico Lorenzo. Lettere
dialoghi e trattati,
orazioni e note
autobiografiche, sono i
monumenti piu alti
della letteratura del
Quattro cento, e tanto piu
efficaci quanto meno 1'autore si chiude nelle
i. «La novella era
un genere troppo
definite, troppo condizionato
nelle sue linee
essenziali da una
tradizione ormai piu
che secolare, perche
PICCOLOMINI (si veda) puo
eluderne il colorito
e gli schemi»
(PAPARELLI, Piccolomini, Bari,
Laterza). forme tradizionali,
quanto piii si
impegna nel problema
concrete che lo
preoccupa,1 o si
accende di passione
politica nel discorso
e nell'invettiva, o
si dimentica nella
confessione e nella lettera. Poliziano,
che della produzione
letteraria del suo
tempo fu il
critico piu accorto
e consapevole, e
che ha dichiarato
con grande precisione
i suoi princlpi
dottrinali nella prefazione
ai Miscellanea, nella
lettera al Cortese
e, soprattutto, nella
grande prolusione a STAZIO
(si veda) e Quintiliano,
ha visto molto
bene come all’umanesimo
sono intrinsiche particolari
maniere espressive. Proprio nelle
prime lezioni del
suo corso sulle
Selve di STAZIO (si veda) , con
la cura minuta
che gli era
propria, si sofferma
a dissertare abbastanza
a lungo intorno
a due forme
letterarie tipiche, Fepistola
e IL DIALOGO, accennando insieme
al genere oratorio,
da cui gli
altri due si
distaccano pur non
senza svelare un'intima
parentela. L'epistola egli dice e
il colloquio con gl’assenti, siano
essi lontani da
noi nello spazio
oppure nel tempo:
e vi sono
due specie di
lettere, scherzose le
une, gravi e
dottrinali le altre --
altera ociosa, gravis
et severa altera. Ma
1'epistola deve essere
sempre i. In
una compilazione erudita
come i Dies
geniales di Alessandro
d'Alessandro la discussione filologica si inserisce con eleganza fra il ritratto
e il ricordo senza togliere a questi
alcuna grazia, cosi che la discussione di un testo classico si colloca nella
descrizione d’un compleanno del Pontano o
d’una cena di Barbaro,
o fa seguito a
una lezione romana
di Filelfo (cfr. CROCE,
Varieta di storia letteraria e civile, Bari, Laterza. A proposito del DIALOGO e dell'epistola
come forme caratteristiche dell'umanesimo e da
vedere quanto dice RttEGG, Cicero und der Humanismus, Formate
Untersuchungen über Petrarca und Erasmus, Zurich,
Rhein-Verlag, anche se a proposito
della sua tendenza
a ricondurre tutto
a CICERONE e da tener
presente la nota
che CROCE stese
appunto sull'opera del
Rxiegg (Mommsen e
CICERONE, in Varieta). II commento del
Poliziano e nel ms. Magliab.
vn, (Bibl. Naz. Firenze). II
testo in questione e a
c. 4V-5V (est
ergo proprie epistola,
id quod ex
Ciceronis (CICERONE (si veda)) verbis
colligimus, scriptionis genus quo certiores facimus absentes si quid est
quod aut ipsorum aut nostra interesse
arbitremur. Eiusque tamen et aliæ
sunt species atque
multiplices, sed duæ præcipuae altera
ociosa, gravis et
severa altera. Atqui neque omnis
materia epistolis accommodata
est. Brevem autem concisamque
esse oportet simplicis ipsius rei
expositionem, eamque simplicibus verbis. Multas epistolæ inesse convenit festivitates, amoris significationes, multa proverbia,
ut quæ communia sunt atque ipsi multitudini accommodata. Qui vero sententias venatur quique
adhortationibus utitur nimiis,
iam non epistolam,
sed artificium oratorium. Epistola velut pars altera dialogi.
maiore quadam concinnatione
epistola indiget quam
dialogus imitatur enim hie
extemporaliter loquentem at epistola
scribitur.] breve e concisa,
semplice, con semplici
espressioni, ricca di brio, di affettuosita, di motti, di
proverbi (amulta proverbia,
ut quae communia
sunt atque ipsi
multitudini accommodata). Nella lettera
deve prendere un
tono troppo sentenzioso
e ammonitorio, altrimenti
non si ha piu una lettera ma una elaborata orazione
-- iam non epistolam,
sed artificium oratorium.
L'epistola e come la battuta singola, e
die rimane quasi
sospesa, di un dialogo (velut pars
altera dialogi), anche
se deve essere formalmente piu curata del
dialogo, che per
essere schietto deve
imitare IL DISCORSO IMPROVISATO, mentre l’epistola e per sua
natura discorso meditato e scritto.
In tal modo un carteggio viene ad essere un dialogo compiuto e vario; e non va dimenticato come proprio il curioso epistolario di Poliziano ci
offra un esempio
caratteristico di simili
colloqui. Non a caso, con la
sua grande sensibilita critica,
Poliziano batte proprio
su queste forme:
ad esse infatti si puo ricondurre
quasi tutta la piu significativa produzione latina in prosa, poiche anche il diario,
il taccuino di viaggio, si
configura di continue
come lettera ad
un amico. Cosi, per
ricordare ancora l’Itinerarium di
Ciriaco d'Ancona, noi vi troviamo
riportati di peso
i temi e
le espressioni medesime
delle epistole.] stato
detto, ma non
del tutto giustamente,
che l’umanesimo è una rivoluzione
formale. In verita la profonda
novita formale adere esattamente
a una rivoluzione sostanziale che facendo centro nella CONVERSAZIONE
CIVILE, nella vita civile, po- [Itinerarium: ego quidem interea magno visendi orbis
studio, ut ea quæ iamdiu
mihi maximæ curæ fuere antiquarum rerum monumenta undique
terris diffusa vestigare perficiam. Hinc ego rei nostrae gratia et magno utique
et innato visendi orbis desiderio. Epist.
Boruele Grimaldo (ins.
Targioni, Bibl. Naz. Firenze): cum
et a teneris
annis summus ille
visendi orbis amor
innatus esset. Del resto tutta l’opera di
Ciriaco e una serie di variazioni di questo appassionato motivo: summus ille
visendi orbis amor,antiquarum rerum monumenta vestigare, quæ in dies longi temporis
labe collabuntur litteris mandare. La sete di conoscere il mondo,
il bisogno di vincere spazio
e tempo, di
riconquistare ogni piu
lontano frammento d'umanita
e di sottrarlo
alia morte, e
insieme questo senso
concrete del passato
trovano in lui
una espressione singolare.
Nella medesima epistola
a Bruni abbiarno in sieme notizia di
un'iscrizione inviata da
Atene ex me nuper Athenis e della difesa di Cesare contro Bracciolini spedita
dall'Epiro ex Epyro hisce
nuper diebus. Cosl, appunto,
il Riiegg, (der Humanismus
ist eine formale,
nicht eine dogmatische
Revolution). neva IL COLLOQUIO COME FORMA ESPRESSIVA ESEMPLARE
(GRICE, CONVERSAZIONE). E se la lettera deve
essere considerata velut
pars altera DIALOGI,
l’attenzione si polarizza
sul DIALOGO: ed IN
FORMA DI DIALOGO e in genere
il trattato, di
argomento morale o politico o filosofico
IN SENSO LATO, che rispecchia la vita d’una umana respublica e traduce perfettamente questa collaborazione
voita a formare uomini ccnobili e
liberi, che costituisce 1'essenza stessa della humanitas rinascimentale.
La quale celebrandosi nella societa
umana tende a
persuadere, a far
culminare ogni incontro
in una trasformazione degli
altri attraverso una
riforma interiore raggiunta
per mezzo della
politia litteraria. Limiti e
prolungamenti del colloquio
ci appaiono da
un lato la
notazione autobiogranca, dall’altro
il pubblico discorso,
1'orazione, che attraverso
la polemica arriva
all'invettiva. I cancellieri fiorentini, Salutati e Bruni, ci offrono
esempi insigni di questo intrinsecarsi di filosofia e
politica, di questa prosa che dell’efficacia e potenza espressiva si fa un'arma piu valida delle schiere combattenti. La lode
famosa di Pio II alla
saggezza di Firenze, e ai suoi dotti cancellieri le cui epistole spaventano Visconti piu di corazzate truppe di cavalleria, non e che la proclamazione
del valore di una propaganda fatta su un piano
superiore di cultura in una societa
educata ad accogliere e a rispettare la superiorita della cultura. L'incontro di politica e
cultura a Firenze e a Venezia ritrova la valutazione della retorica di un Poliziano e di
un Barbaro, e giova a
definire un'epoca che cerca
i suoi titoli
di nobilta al di fuori
dei diritti del sangue. La VIRTÙ, che
non e certamente
un bene ereditato, e sempre intelligenza,
humanitas, e cioe consapevolezza e
cultura. Anche quando, nelle discussioni non
infrequenti sull’argomento, si
riconosce il valore
della milizia, s’intende una
sottile dottrina, ove il valore
personale del capo e intessuto di
sapienza. Montefeltro e
poco ci importa
se il ritratto è fedele e
profondamente addottrinato, e sa che i filosofi
descrivendo le battaglie
possono divenire anch'essi maestri
dell’arte della guerra. Alfonso il
Magnanimo reca seco al
campo una piccola
biblioteca, e pensa sempre a filosofi,
e sa che la parola bene adoprata, ossia
veramente espressiva, e piu
potente d’ogni esercito. C'è appena
bisogno di ricordare
che si tratta
dei titoli delle
opere di Palmieri
e di Guazzo. E ancora il
titolo di un'opera
significativa, quella di Decembrio in
cui si rispecchia
la scuola di Guarino. II suo motto, racconta Vespasiano da
Bisticci, è che un re non letterato
e un asino coronato. II che non significa,
si badi, che ser
Coluccio è un vuoto retore,
o Alfonso un
re da sermone,
ma che la
cultura è, essa, viva ed
efficace e umana,
e perfetta espressione di
una societa capace
d'accoglierla. L'uomo che
nel linguaggio celebra veramente se
stesso -- l'uomo si manifesta
uomo essenzialmente nella
parola, come si costituisce in
pienezza definendosi attraverso
la cultura (le
litteræ che formano
la humanitas), cosi raggiunge ogni
sua efficacia mondana
mediante la parola
persuasiva, mediante la retorica intesa
nel suo significato profondo
di medicina dell'anima, signora
delle passioni, educatrice
vera dell'uomo, costruttrice
e distruttrice delle
citta. Tutto e, veramente, retorica,
sol che si
ricordi ch, d'altra
parte, retorica e umanita, ossia
spiritualita,
consapevolezza, ragione, DISCORSO di
uomini; perche', veramente,
l’umanesimo, in cui
tutto è inteso
sub specie humanitatis,
e humanitas e UMANO COLLOQUIO, ossia
tutto il regno
delle muse figlie di Mnemosine che
e il piu vero e il piu bello dei miti. Con
semplicita francescana frate
Bernardino da Siena,
che vede in ser
Coluccio un maestro
e in Bruni
un amico, scrive
cristianamente le medesime
cose. Non aresti tu
gran piacere se tu vedessi o udissi
predicare Gesu Cristo, san Paulo, GREGORIO (si veda), santo
Geronimo o santo
Ambruogio? Orsu va,
leggi i loro
libri, qual piu
ti piace e
parlerai con loro,
ed eglino parleranno
teco; udiranno te e tu udirai loro.
E, come dice altrove,
le lettere ti
faranno signore. II
grande Valla parlera di
un sacramentum il modesto Bartolomeo
della Fonte dira
di un divinwn
mimen: quel nume che da agl’uomini anozze e
tribunali ed are. Per
questo le litteræ sono
una cosa terribilmente
seria, e la
responsabilita di un
termine bene usato e
gravissima, e non
v'e posto per Fozio. Per questo la poesia in senso vichiano
e da
cercarsi la dove si
traducono e si
consegnano i discorsi
essenziali per la
vita dell’uomo. Cosi FLORA, Umanesimo, Letterature moderne, Ecco secondo
Fonzio quello che
ottiene la parola:
fidem inter se
homines colere, matrimonia inire, seque
in una mœnia
cogere viribus eloquentiæ
compulit. Per tal modo quella
poesia che talora e
lontana dai versi
e dalle novelle,
e presente ed
altissima nella pagina
di un filosofo
o nell'appassionata invettiva
di un politico. La
dolcezza del dire
(dulcedo et sonoritas
verborum), la luce della
forma (lux orationis), che
si invoca per
ogni espressione di
vera umanita, vuol
far poesia d’ogni
UMANO DISCORSO; e nel
momento in cui
riesce a tanto
toglie ogni privilegiato
dominio alle dettere
oziose. Perfino un oscuro erudito
come CASSI d'Arezzo sa dirci
che in tal
modo nell'eloquenza si unificano tutte le umane attivita, e tutto in essa si umanizza davero,
e non perche come
taluno ha fantasticato,
si celebri solo
il letterato ozioso,
ma al contrario
perche 1'uomo e
presente in ogni
momento dell'agire: perche,
faccia egli il matematico, il
medico, il soldato
o il sacerdote,
sempre e innanzitutto e uomo, e il
suo sigillo umano imprime
ad ogni sua
opera umanamente esprimendola,
ossia rivestendola della
lux orationis. Di
qui l’importanza centrale che vengono ad assumere le TRATTAZIONI SULLA LINGUA, sulla
sua storia, sulla
eleganza? ove LA DISCUSSIONE GRAMMATICALE si trasforma
di continuo in
discorso finissimo d’estetica:
e quel trapassare
dal vocabolario, e
magari dal repertorio
ortografico basti pensare
a Perotto o a
Tortelli nell’analisi
critica e nella
dissertazione storica. Mentre, contemporaneamente, la storia,
che intende farsi
vivo specchio della
a vita civile)),
e per eccellenza
eloquente discorso, ossia
prosa politica e
trattato pedagogico-morale. Bellissima cosa e infatti come afferma
Bruni raccontare 1'origine prima e
il progresso della propria citta, e conoscere
le imprese dei popoli
liberi (est enim decorum cum propriæ gentis originem et
progressus, turn libe- i. Quasi unum
in corpus convenerunt
scientiæ omnes, et rursus temporibus nostris eloquentiæ studiis studia sapientiæ
coniuncta sunt (d’una lettera di
Cassi a Tortelli,
contenuta nel Vat.
lat. e pubblicata
da GAMURRINI, Arezzo e r Umanesimo, Arezzo, Cristelli, miscellanea in
onore di Petrarca dell'Accademia Petrarca). A proposito dell’eleganze di Valla scrive
Cortesi, De hominibus doctis, ed. Galletti, Florentiæ, Mazzoni, conabatur
Valla vim verborum exprimere et
quasi vias ad structuram orationis. rorum populorum res gestas cognoscere. Cortesi, in quel felice dialogo
De hominibus doctis,
che e una vera propria storia critica della letteratura, appunto discorrendo delle storie di Bruni, batte su questo incontro della
verita con 1'eleganza, che e tutt'uno con quell’armonia di sapienza ed eloquenza che Accolti celebra quale dote precipua
dei fiorentini e dei veneziani del suo tempo nel dialogo De præstantia virorum sui
aevi. Per la stessa
ragione per cui
tutto sembra divenir
DIALOGO, tutto anche e libro di storia; e storia e, ancora, colloquio
con le eta antiche, con i grandi spiriti del passato.Bruni nell'introduzione ai commentarii confessa
che la grande
filosofia classica fa si che i tempi lontani ci siano piu vicini e piu noti
dei tempi nostri (mihi quidem Ciceronis
Demosthenisque tempera multo magis
nota videntur quam ilia
quae fuerunt iam
annis sexaginta), e
dichiara che e compito della storia immettere
nella nostra vita e nel nostro colloquio il passato, farlo
vivo con noi, quasi picturam
quondam viventem adhuc spirantemque. Palmieri innanzi
alia vita di
ACCIAUOLI ci insegna che la
storia e una specie
di immortalita terrena
di quanto in noi e,
appunto, vita mondanala
storia e culto e salvezza
di quella parte
mortale che le lettere
redimono da morte
dilatando la società
umana oltre i limiti del tempo e salvandola dall’oblio
e dal destino. Si
aprono qui, tuttavia,
a proposito della
prosa latina, due questioni fra
loro strettamente connesse e
che sembrano in
qualche modo, gia
nella loro impostazione,
venir contrastando con
quei Cosi nel De studiis et litteris
in BARON, BRUNI Aretino humanistisch-philosophische Schriften, Leipzig.
Una giusta valutazione dell’opera
storica di BRUNI presenta Ullman, BRUNI and humanistic
historiography, Medievalia
et Humanistica e, per quanto si e sopra osservato su retorica, politica
e storia, son da vedere i tre
saggi di BARON,
Das Erwachen des
historischen Denkens im
Humanismus, Hist. Zeitschrift; di
RUBINSTEIN, The Beginnings of
Political Thought in
Florence: A Study in Mediaeval
Historiography, Journal
Warburg Inst.; di CANTIMORI, Rhetoric and
Politics in Italian Humanism, Journ.
Warburg
Inst.; Corpoream vero partem non
omnino negligendam ducunt,
sed tamquam suam
in terra recolendam,
ideoque desiderant illam oblivioni et fato præripere caratteri
stessi che si sono voluti
definire. Come, infatti,
parlare della’umanità di una produzione
che si serve di UNA LINGUA CHE NESSUNO ORMAI USA e che, dunque, gia nel mezzo
espressivo pone come suo canone l’imitazione. In che modo una FILOSOFIA
MIMETICA, RICALCATA SU MODELLI CICERONIANI,
puo oltrepassare i limiti
della erudizione? Ma i
due gravi problemi, del LATINO umanistico e
dell’imitazione classica, gia tanto
dibattuti, hanno oramai offerto anche
1'avvio a una soluzione. Quanto infatti si obbietta intorno all’uso del latino,
in luogo del volgare, e ad una
presunta frattura che
si opera rispetto
alla tradizione, deve
essere corretto coll’osservazione che i generi
di prosa a cui ci riferiamo, orazioni,
trattati, epistole politiche,
DIALOGHI dottrinali, hanno
sempre fatto uso del
latino. Non e quindi esatto
dire che da un presunto uso del volgare
si torna al latino. È vero invece che al
LATINO MEDIEVALE definite BARBARICO, e cioe GOTO
O PARIGINO (dai franci, non gallii),
si oppone un *altro*
latino
che si determina
e si definisce
rispetto ai modelli
classici. II quale
latino, che si
dichiara — come dice esplicitamente PLATINA — integrate da tutta la più feconda tradizione post-ciceroniana, ivi
compresi i Padri
della Chiesa, intende
rivendicare i diritti
di una lingua
nazionale romana contro
l’universalita di un GERGO
scolastico (lo stile PARIGINO
della Sorbonna, no di Bologna), ed innanzi
tutto nel campo di una produzione
costantemente espressa in latino. Giustamente
SANCTIS (si veda) sottoline la frase del VALLA che proclama lingua
nostra il latino vero, che si contrappone al LATINO GOTICO dell’uso medievale.
La quale nostra lingua romana degl’umanisti, che SI PRECISA CON CARATTERI
PROPRI COSI RISPETTO AL LATINO CLASSICO COME A QUELLO BARBARO DEI BARBARI
FRANCI, va vista
per quello che
essa veramente e,
anche rispetto al
volgare: un nuovo
latino, in cui
la complessita antica
cede il posto
alia scioltezza moderna. Il latino degl’umanisti, lingua
veramente viva che aderisce in pieno a una cultura affermatasi attraverso una
consapevolezza critica che si colloca chiaramente nel
tempo defiendo i
propri rapporti cosl col mondo antico come con il medioevo. Il latino dei grandi
umanisti, lungi dal rappresentare
una battuta d'arresto o un momento
di invo- [Cosi
nella prefazione alle
Vite, che riportiamo
per intero. Rilievi utili in proposito
ha Sabbadini sia nella Storia del ciceronianismo
CICERONE (si veda) (Torino,
Loescher), come nel
Metodo degl’umanisti (Firenze,
Monnier). luzione, si colloca
nella storia stessa
del volgare. Il latino insegna al
volgare l'eleganza la misura la forza e 1'eloquenza, e il volgare imprime ne’filosofi
umanisti le leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta, dei suoi
trapassi intuitivi, della sua eloquenza
interiore. Fra il latino, in cui si rispecchia pienamente tutto un
atteggiamento culturale, e il volgare v’e una collaborazione che del resto si
traduce quasi materialmente
nel fatto che gl’autori spesso
scrivono 1'opera loro
in latino e
in italiano. Non sempre
si e posto mente al fatto che da
MANETTI (si veda) a FICINO gli stessi
trattatisti, siano pur filosofi, stendono anche in volgare le loro meditazioni.
E come il loro latino e davvero una lingua
low., cosi il
volgare che adoperano
non e per
nulla oppresso da
una imitazione artificiosa
di modelli classici. Giungiamo cosi
a quello che
forse e il
punto piu delicato
ad intendersi dell'atteggiamento di questi:
l’imitazione degl’antichi. Che la posizione assunta dagl’umanisti rispetto agl’autori
classici sia alimentata da
una preoccupazione storica
e critica; che essi sono dei
filologi desiderosi innanzitutto di
comprendere gl’autori del
passato nelle loro
reali dimensioni e nella loro
situazione concreta: e cosa ormai in complesso pacifica. Ora gia questo definisce il
senso di quella
imitazione che indica un atteggiamento molto caratteristico. ACCOLIT dichiara
nettamente la parita
di valore fra
i nuovi autori
e i classici.
POLIZIANO (si veda) nella polemica
col CORTESI, che e
un testo capitale,
confuta tutte le
istanze del ciceronianismo, e
proclama il valore di un'intera
tradizione afferrata nel suo
sviluppo, rivendicando il senso di tutto il periodo piu tardo della FILOSOFIA
ROMANA (neque autem statim detenus dixerimus quod diversion
sit). Ma dice
soprattutto 1'enorme distanza
fra una poesia
che fiorisce come
libera creazione su una
cultura meditata e fatta proprio sangue, e l'imitazione pedestre — ilia poetas
facit, haec simias. SPONGANO, Un capitolo di storia della nostra
prosa d'arte, Firenze,
Sansoni, E cosi
sono spesso notevoli
le version! di
scrittori celebri come
latinisti: TAurispa che
traduce Buonaccorso da
Montemagno, Donate ACCIAIUOLI che volgarizza
BRUNI, e cosi
via. interessante ritrovare, distesi
e volgarizzati, i
concetti di un
Valla e di
un Poliziano nei filosofi
francesi. Per esempio
Bellay, scrivendo dopo
aver tratto da Valla il concetto che Roma è grande per la
lingua imposta all'Europa non
meno che per l’impero (la
gloire du peuple Romain n'est moindre, comme a dit quelqu'unen
l’amplifacation L'Umanesimo e in questa singolare imitazione-creazione, come la
chiama RUSSO: l'umanita fatta consapevole attraverso il rapporto stabilito con
gl’altri uomini nell'operoso sforzo di raggiungere una sempre pifc alta forma di
vita. Di qui, appunto, il
particolare carattere delle sue piu felici espressioni letterarie. de son langage
que de ses limites) eccolo riprendere POLIZIANO: immitant les
meilleurs aucteurs, se
transformant en eux,
les devorant, et
apres les avoir
bien digerez, les
convertissant en sang
et nouriture. Solo cosi l’imitazione e giovevole allo scrittore.
Autrement son immitation ressembleroit celle du singe. Cfr. WEINBERG, Critical prefaces
of the French
Renaissance, Northwestern,
Evanston, Illinois, Russo, Problemi
di metodo critico,
Bari, Laterza. G. Antonio Nasce a Rieti, figlio di Francesco e di
Teresa Barbagli. Il nonno, intendente di Finanza, si è trasferito dalla SAVOIA
in Toscana con l’Unità d’Italia; la madre è originaria di San Giustino nel
Valdarno; il padre – allievo di Vitelli, in rapporti amichevoli con Pasquali,
che scrive il suo necrologio su Atene e Roma – è un valente filologo, con
particolare interesse per la storia del romanzo greco, per Teocrito e per i
commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura e quasi improvvisa ne
stroncarono la carriera e costrinsero il figlio ad assumersi, precocemente,
pesanti responsabilità. G. ha, anche per questo, un'infanzia e
un'adolescenza assai difficili e tormentate, che hanno un peso nel rafforzare i
toni disincantati e pessimisti del carattere, controllati, in genere,
dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti però a esplodere nei momenti di
particolare amarezza o di maggior contrasto con i tempi in cui gli toccò di
vivere e di lavorare. Fin da quegli anni – duri e mai dimenticati –
comprese però quale era la sua vocazione e individuò nei libri, e in uno studio
assiduo e disperatissimo, la bussola con cui avrebbe costruito, con tenacia, la
propria vita: bruciando le tappe, si iscrisse alla facoltà di filosofia a Firenze
e si laurea col massimo dei voti in filosofia con una tesi su Butler [cf.
GRICE, SELF-LOVE, OTHER-LOVE], preparata sotto la guida di LIMENTANI (si veda).
A Firenze aveva compiuto anche gli studi elementari e medi, frequentando il
Liceo Galilei, nel quale insegna il padre e dove incontra Maria Soro, nata a
Sassari, che sarebbe poi diventata sua moglie, con rito civile. G è nato a
Rieti in seguito al trasferimento in quella città del padre, che come
professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta l’Italia; ma si considerò
sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un ricordo assai vivo degli anni
liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella facoltà di lettere di
Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto di vista sia
personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico; stabilì rapporti
con personalità come PASQUALI (si veda), e conosce compagni di studi ai quali
resta legato tutta la vita, italiani e non italiani: Teicher, Rubinstein, LUPORINI
(si veda), il quale, rievocando gli anni della sua formazione (Qualcosa di me
stesso, in Luporini, a cura di Moneti, Il ponte), ricorda come G. eccellesse
già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei per maturità e
sapere. In quegli stessi anni, G. conosce due maestri che incisero segni
profondi nella sua mente e nella sua personalità intellettuale e scientifica: SARLO
(si veda) e, soprattutto, LIMENTANI (si veda), che lo avviò agli studi
sull'Illuminismo inglese, confluiti nel volume L'Illuminismo inglese. I
moralisti (Milano). Dopo aver insegnato nel Regio Convitto delle Mantellate, G.,
ottenuta l’abilitazione in storia e filosofia riuscendo tredicesimo nella
graduatoria generale, fa il concorso per l'insegnamento di filosofia e storia
nei licei per sedi determinate, e lo vince, dopo essere stato esaminato da una
commissione presieduta da GUZZO (si veda). Prende servizio come professore
straordinario di filosofia e storia presso il Liceo Cannizzaro di Palermo, dove
rimane fino a quando – dopo molti tentativi giustificati da motivi sia
familiari sia filosofici – è trasferito a Firenze per insegnare, come
professore ordinario, filosofia e storia al Liceo Vinci. Gli anni
palermitani sono assai importanti e fecondi per G.: per gli incontri umani e
intellettuali che fece e per le ricerche che condusse, preparando l'importante
volume PICO (si veda) Vita e dottrina, pubblicato a Firenze, ma già pronto a
Palermo. È a Palermo che scrive in gran parte il suo primo saggio di argomento
umanistico, servendosi dell’eccellenti biblioteche pubbliche della città, e
frequentando la Biblioteca filosofica a Palazzo Reale, col suo singolare
fondatore e direttore, POJERO (si veda), l'amico di GENTILE (si veda) e primo
editore dell'Atto puro, il bizzarro filosof' noto dappertutto, sempre teso a
cogliere una battuta e a fissarla per scritto (Una collaborazione lunga una
vita, in Belfagor). A spostare G. dagli studi iniziali sull'Illuminismo
inglese verso le ricerche umanistiche e rinascimentali contribuì una pluralità
di fattori: certo agirono la presenza, e il magistero, di Limentani, che in
quegli stessi anni studia il BRUNO
'inglese' sulla scia della importante monografia su La morale di Bruno. Ma alla
base di quello spostamento ci furono due altri motivi, forse più rilevanti: la
centralità assunta a quella data dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella
ricerca filosofica europea intorno a problemi decisivi come la libertà, e la
dignità, dell'uomo; il rapporto tra uomo, mondo, Dio; il carattere e il
significato dell'esperienza umana. È stato, peraltro, G., in un testo degli
anni Settanta (lettera a Chemotti, la cui minuta è conservata presso il Fondo G.
della Scuola Normale Superiore di Pisa), a segnalare la complessità delle
questioni che, negli anni Trenta, si concentravano nella discussione sul
Rinascimento: domande di ordine sia filosofico sia religioso, ma tutte
convergenti in una generale interrogazione sul significato dell'uomo e del suo
destino, in un momento tragico della storia del mondo. È in questo
contesto che si inseriscono sia il saggio su PICO sia il saggio su La
"dignitas hominis" e la letteratura patristica (in La Rinascita)
in cui questo intreccio di motivi si presenta in modo esemplare, con un netto
primato della problematica di tipo religioso – anzi esplicitamente cristiano –
e, simmetricamente, con un consapevole distacco dalle impostazioni di tipo
idealistico, comprese quelle risalenti a Gentile. Come testimoniano anche
i molteplici richiami alla interpretazione
Burdach – messa in circolazione in Italia, anche da Cantimori –, a
quella data G. era su un'onda assai diversa rispetto a Gentile che, pure, fin
dal primo momento apprezzò molto i suoi lavori su Pico, invitandolo a
collaborare al GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA, sul quale aveva
cominciato a pubblicare con un saggio su L’etica di Butler. Non si
trattava solo di una distanza di ordine storiografico, evidente, per esempio,
nella importanza che già in questi anni G. comincia ad assegnare alla
tradizione ermetica, avviando una ricerca che avrebbe continuato, sia pure con
toni e forme assai diverse, fino ai suoi ultimi anni -- il saggio su Una fonte
ermetica poco nota. Contributi alla storia del pensiero umanistico, destinato a
essere ripreso e profondamente modificato, uscì originariamente in La Rinascita.
Al fondo, rispetto a Gentile, c'era una forte distanza di carattere
strettamente filosofico, come risulta dai principali riferimenti filosofici di
G. in questi anni: Senne, Marcel, Gilson, Lavelle, forse il più importante di
tutti, quello al quale si sentì a lungo più vicino. Sono tutti
autori di area francese e di matrice cristiana, convergenti, sia pure con toni
differenti, nella prospettiva di un esistenzialismo religioso che appare ben
presente negli scritti storici di . sul Rinascimento di questo periodo, pur
mediati, e filtrati, da una armatura di carattere filologico ed erudito molto
forte già in quegli anni (ne è una conferma il ricco e aggiornatissimo corredo
bibliografico del libro su Pico). Mancano, invece – con l'importante eccezione
di Cassirer, presente già nel saggio– riferimenti altrettanto significativi ad
autori di area tedesca, a cominciare da Heidegger che, in quegli anni, era
invece interlocutore privilegiato di altri importanti esponenti della
generazione di G., come Luporini, suo amico fin dagli anni della Università, ma
assai diverso sia per interessi filosofici che per le strade che avrebbe poi
preso sul terreno politico. È una mancanza che non stupisce, se si
considera che la cultura di matrice francese fu una componente centrale della
formazione di G., e che essa – insieme al pensiero inglese, ma con maggiore
forza – ebbe un ruolo centrale nella sua attività scientifica e anche
editoriale, come testimonia l'imponente opera di presentazione e traduzione di
testi capitali del pensiero francese svolta insieme alla moglie – da Rousseau a
Malebranche, a d'Holbach e gl’enciclopedisti. Il primato della cultura di
matrice francese era, del resto, un tratto diffuso della generazione di G. e,
in modo particolare, dell'ambiente culturale fiorentino: quello che si
esprimeva in istituzioni di notevole rilievo come il Gabinetto Vieusseux – di
cui è bibliotecario e direttore Montale –, e LA BIBLIOTECA FILOSOFICA di
Levasti e Marrucchi, una personalità notevole, alla quale G. rimane sempre
legato e che ricorda in pagine molto intense, rievocando quell'ambiente e
quell’atmosfera, in cui vive il ricordo di una figura come Michelstaedter, alla
quale anche G. dedica, a più riprese, molta attenzione. Tornato a Firenze,
ha un incarico di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia.
Ottenne, poi, la libera docenza in storia della filosofia. Quando per
effetto delle leggi razziali LIMENTANI (si veda) lascia la cattedra di
filosofia morale, la facoltà decide di NON chiamare su essa un altro ordinario,
ma di conferire l’incarico a G., discepolo – pupillo -- di LIMENTANI (si veda).
Nei modi possibili in quei tempi difficili, G. espressa pubblicamente la sua
fedeltà al maestro e tutore con cui si è formato, tenendo una conferenza presso
la BIBLIOTECA FILOSOFICA Biblioteca di Firenze in cui attacca a fondo ogni
forma di storicismo identificato con il
relativismo rivendicando, da un lato, il valore della lotta, e dell'ostacolo,
sulla scia di Senne. Ribadendo, dall'altro, e con massima energia, la
distinzione tra vittima e carnefice, tra perseguitato e persecutore, che
nessuna provvidenza storica avrebbe mai potuto, in alcun modo, risarcire. Dopo
la morte di LIMENTANI (si veda), ne redatta un commosso necrologio, pubblicato
in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi scritti (Limentani, Firenze).
Comincia, intanto, a partecipare a concorsi per ottenere una cattedra universitaria,
che riuscì a vincere quando risulta primo ternato in quello per professore
straordinario alla cattedra di storia della filosofia a Cagliari -- la
commissione èformata da Aliotta, presidente, Lamanna, segretario, Abbagnano,
Banfi, e Spirito. Precedentemente partecipa, venendo dichiarato maturo, a tre
altri concorsi, banditi, rispettivamente, da Messina e da Napoli -- quest’ultimo
si svolse in due tornate, per l’annullamento, a causa di un ricorso, dei
risultati della prima. Difficili sul piano accademico e anche personale,
quegli anni sono però fertilissimi dal punto di vista filosofico. Oltre a una
serie di saggi assai importanti usciti, in genere, su La Rinascita diretta da Papini,
con il quale ha, allora, un rapporto intenso, G. pubblica due importanti
antologie: Il Rinascimento italiano, Milano, commissionatagli da VOLPE (si
veda) e stampata nella collana dell'ISPI; e Filosofi italiani, Firenze, uscita
come pubblicazione dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. Si
tratta, in entrambi i casi di opere fondamentali, destinate a lasciare una orma
profonda negli studi rinascimentali. Ma lette con attenzione – e tenendo conto
della inclinazione dissimulatoria tipica dell'epoca –, esse svelano con
precisione quali fossero gli atteggiamenti filosofici e politici di G. in quel
momento: una posizione nettamente antifascista, trasparente nelle pagine
dedicate alla critica del tiranno; un profondo interesse di tipo religioso, già
emerso nei primi saggi rinascimentali della seconda metà degli anni Trenta, e
ora pienamente dispiegato nella lunga Introduzione ai Filosofi italiani, a
cominciare dalle pagine scritte sulla morte, discorrendo di Salutati. Sono
temi nei quali la nota religiosa risuona con particolare forza e vigore, e non
solo nei testi sull'Umanesimo. Pubblica per una piccola casa editrice
fiorentina, Cya, una antologia di testi tolstoiani, Ultime parole, nei
quali è affermato con nettezza il primato della 'riforma interiore' come
condizione di ogni riforma di tipo economico e sociale. Sarebbe stato, del
resto, lo stesso G. ricordare che anni prima, nel pieno della guerra, attraversa
una vera e propria crisi di tipo religioso, subendo a fondo l'influenza di
Tolstoj. Sul terreno filosofico è una inclinazione che si rivela, oltre che sul
piano del linguaggio, nel forte ruolo assegnato a SAVONAROLA (si veda), un
autore che gli è sempre carissimo, ma che arriva ad affiancare al Platone della
Repubblica per il Trattato sul reggimento di Firenze. Spicca anche il
lavoro di presentazione e di traduzione dei testi fondamentali di PICO (si
veda): De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno, Firenze; Disputationes
adversus astrologiam divinatricem -- un'impresa imponente, che contribuì a
mutare in profondità sia l'immagine tradizionale di Pico, sia quella corrente
del Rinascimento, ponendo le basi della interpretazione generale che G. propone
ne “Der italienische Humanismus, pubblicato nella collana diretta da GRASSI (si
veda) per l'editore Francke di Berna, ristampato poi nel testo originale presso
Laterza. Sono saggi resi possibili anche dal forte sostegno di una figura
singolare, ma più importante di quanto in genere si pensi, della cultura
italiana: CASTELLI ZUBIENA (si veda), il quale – oltre a pubblicare le
traduzioni di PICO (si veda) nell'ambito dell’edizione nazionale dei classici
del pensiero italiano promossa dal REGIO ISTITUTO DI STUDI FILOSOFICI da lui
presieduto e del quale G. è anche segretario della sezione toscana, si impegna
con molta tenacia e costanza, a tutti i livelli, per fargli ottenere un
distacco dal Liceo Vinci che gli consentisse di svolgere con maggiore
tranquillità il suo lavoro. G. sottolinea più volte che non c'è un
rapporto meccanico tra storia della cultura e storia politica, precisando, per
esempio, che la crisi e la fine dell'idealismo crociano si compiono nel 1968,
non nel 1945. Non c'è però dubbio che con la fine della guerra sia iniziata una
nuova fase della sua lunga vita sul piano sia intellettuale sia politico. Dopo
un periodo connotato dalla vicinanza a posizioni di tipo liberal-democratico
(come appare chiaro dagli articoli che pubblica sull'Italiano), si avvicinò
infatti, sia pur progressivamente, al Partito comunista italiano, senza mai
iscriversi a esso, ma diventandone, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno
dei principali intellettuali di riferimento. Alla base di questo netto
spostamento di campo ci furono motivazioni di ordine intellettuale e di natura
politica. Sul primo punto, è decisivo l'incontro con le Lettere dal
carcere di Antonio Gramsci, che recensì subito su Leonardo, la rivista di cui, divenne
redattore – cioè, in effetti, direttore –, avviando un intensissimo
colloquio che sarebbe continuato lungo tutta la sua vita e che avrebbe inciso
sia sulle sue ricerche umanistiche sia sulle Cronache di filosofia italiana
pubblicate per i tipi di Laterza ma preparate dagli articoli su Leonardo e sul GIORNALE
CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA fondato da GENTILE (si veda) e diretto da
SPIRITO (si veda). Dal punto di vista strettamente politico, per quanto
possa apparire paradossale, in quella scelta agì il profondo, e mai venuto
meno, interesse religioso di G.: e infatti profondamente LAICO, NON LAICISTA. Ritene
necessario distinguere con chiarezza ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio,
anzi pensa che dalla confusione dell'uno e dell'altro potesse derivare una
degenerazione di entrambi. Il partito della Democrazia cristiana gli apparve
come la realizzazione concreta di questo rischio, con la ripresa, e il
potenziarsi, di quelle tendenze che durante il Regime si erano espresse nel
clerico-fascismo, contribuendo, a suo giudizio, a corrompere il carattere
morale degl’italiani. Perciò considera negativamente l'inserzione dell'articolo
7 nella Costituzione repubblicana, ma fu per questi stessi motivi che si
avvicinò al Partito comunista: per una scelta di ordine anzitutto morale e,
alle origini, religiosa. Pur nel dissenso con il Partito comunista nella
valutazione dell'articolo 7, G. vide in esso la forza più intransigentemente
schierata a favore di una concezione laica dello Stato e, in genere, della
vita, contro il riaffiorare e l'imporsi di una nuova forma di clerico-fascismo,
dannosa, ai suoi occhi, sia per la politica sia per una autentica esperienza
religiosa. I due piani – quello culturale e quello politico – si
intrecciarono e si potenziarono a vicenda, nella concretezza del suo lavoro, sia
in quello sul Rinascimento sia nelle ricerche sulla filosofia italiana. A
quest'ultima aveva già dedicato, per incarico di Gentile, due volumi pubblicati
da Vallardi. Si tratta dell'opera: La filosofia, da non confondere con la
Storia della filosofia uscita per i tipi di Vallecchi: uno de suoi libri più
belli, più vivaci, più liberi. Le Cronache di filosofia italiana erano, in effetti, un'altra cosa: una sorta
di autobiografia di una intera generazione, quella nata al tornante del primo
decennio del secolo – la stessa di Bobbio, nato anch'egli, come G., e autore di
Politica e cultura, l'altro grande testo 'autobiografico' della loro
generazione. A considerare oggi quegli anni, non appare casuale che due
intellettuali di quel livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la
necessità di confrontarsi con la propria storia, sia pure da punti di vista
diversi e con strumenti differenti. In G., assai più che in BOBBIO (si veda), e
infatti presente la lezione di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La
filosofia come sapere storico (Bari) si conclude con un lungo saggio su
Gramsci, nato come relazione al Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma
l'anno prima, ma anche sul piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di
uomini e cose, come Togliatti rileva nella sua recensione a Cronache di
filosofia italiana (Rinascita). Non solo: la lezione di Gramsci, in forme
assai mediate e controllate, è visibile anche negli scritti che G. dedica al
Rinascimento. Nonostante che, in questo caso, i giudizi di Gramsci e G.
fossero, proprio nel merito, profondamente differenti. L’UMANESIMO CIVILE,
IL TRAMONTO DI UN MONDO Quando si parla di G. si pensa, in genere, alla
sua interpretazione del Rinascimento come 'umanesimo civile'. È giusto, ma
riduttivo per due ordini di motivi. In primo luogo, essa svolge funzioni e
ruoli diversi, anche a seconda del mutare dei contesti storico-politici. In
secondo luogo, a cominciare dagli anni Settanta G. riformula in modo profondo
la sua interpretazione, dislocando l'Umanesimo civile in zone progressivamente
laterali, rispetto al nucleo centrale del suo discorso (in questo senso è
fondamentale Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali, Roma-Bari: uno dei
suoi lavori più importanti, insieme a La cultura filosofica del Rinascimento
italiano. Ricerche e documenti, uscito per i tipi di Sansoni, nel quale spicca
in apertura il saggio – capitale dal punto di vista dell'Umanesimo civile – su
I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina da Salutati a Scala,
pubblicato originariamente in Rivista storica italiana. All'interpretazione
del Rinascimento come Umanesimo civile G. lavorava, in effetti in convergenza
con le ricerche di Baron, del quale fa pubblicare su La Rinascita un importante
saggio. Ma allora esso aveva una funzione parallela, anzi secondaria, rispetto
ai motivi ermetici che G. tendeva maggiormente a valorizzare, anche in
relazione a quell'esistenzialismo religioso nel quale allora si riconosceva.
Negli anni Cinquanta e Sessanta il quadro muta in modo deciso, e
l'Umanesimo civile diventò il motivo dominante della sua interpretazione, come
appare dall'antologia, fortemente lodata da Cantimori, Prosatori latini del
Quattrocento (Milano). I motivi messi a fuoco nella seconda metà degli anni
Trenta erano ripresi, e anzi energicamente sviluppati, a cominciare dalle
tematiche magiche e astrologiche, cui dedicò due saggi fondamentali; ma essi
ora venivano riformulati (per esempio, cambiò in modo consistente il giudizio
sull'astrologia) ed inseriti in una prospettiva che privilegiava, in primo
luogo, la dimensione mondana, terrestre – appunto, 'civile' del Rinascimento –,
dando rilievo centrale al problema del rapporto tra 'vita contemplativa' e
'vita activa', e valorizzando in questa luce i grandi cancellieri fiorentini
come SALUTATI (si veda) e BRUNI (si veda). Ne scaturì una nuova immagine
del Rinascimento, entro cui assunsero valore centrale discipline come LA
RETORICA, l'arte della memoria o esperienze filosofiche prima trascurate, o non
comprese in modo adeguato, come, per esempio, il lullismo. Su questo
sfondo, G. si pose in termini nuovi rispetto agli scritti degli anni Trenta
anche il problema della genesi e dei caratteri della scienza moderna,
sforzandosi di mostrare come un moto di cultura strettamente legato nelle sue
origini alla vita delle città italiane debba considerarsi una delle premesse
del rinnovamento scientifico moderno (come scriveva nella Premessa al volume
Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, pubblicato con Laterza: una
linea di ricerca, sia detto tra parentesi, che non ebbe ulteriori sviluppi,
anche per i mutamenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo storico,
coinvolgendo a fondo anche il mondo storiografico). In questa
accentuazione della dimensione civile agì certamente la lezione metodica di GRAMSCI
(si veda), che appare con ancor maggiore chiarezza nei lavori che G. dedica alla
filosofia contemporanea, specie a quella ITALIANA. Sono importanti, da questo
punto di vista, sia La cultura italiana (Bari); sia, e soprattutto, quello
sugli Intellettuali italiani (Roma), che
costituisce, per molti aspetti, il vertice della presenza, e della influenza,
di G. nella cultura, e anche nella politica, italiane. Se si
considera il corso della sua vita, si può azzardare un giudizio: forse furono
proprio quelli gli anni in cui G. riuscì a stabilire, nel complesso, un
rapporto positivo con il proprio tempo storico, e non solo per i molti
riconoscimenti pubblici che ebbe in quel periodo, dentro e fuori l'Università,
in Italia e all’estero. E diventato professore ordinario di storia della
filosofia medievale a Firenze, insegnamento che tenne per incarico. È poi
subentrato a Lamanna come titolare della cattedra di storia della filosofia
presso la stessa Università. Riconoscimenti, e onori, altrettanto
importanti stava avendo anche al di fuori dell'Università. Socio effettivo
dell'Accademia toscana di scienze e lettere 'La Colombaria', ne era anche
segretario generale; eletto socio corrispondente dei lincei, diventandone socio
nazionale. Riceve dalla British Academy la Serena medal for Italian studies (gl’ultimi
italiani che l'avevano ottenuta – scrive, con orgoglio, al direttore della
Scuola Normale comunicandogli la notizia – sono Longhi e Bandinelli. Al
fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, G. è, a suo modo, un
animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Riusce a esserlo come
non gli era accaduto prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando
un'attività scientifica di alto livello con un impegno civile assai intenso sui
temi che gli interessavano maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui
intervenne anche con una relazione molto dura letta al Teatro Valle di
Roma pubblicandola poi in volume, La cultura nella società italiana, Torino.
La situazione muta profondamente. Quell'equilibrio, sempre fragile e precario,
si incrina e G. si distacca, progressivamente, fino a contrapporsi, dai
movimenti culturali e politici che comincia a scuotere il paese fin dalle
fondamenta, nel bene e nel male. Il punto più aspro del contrasto, anzi la vera
e propria rottura, si produce quando – si legge in una lettera al preside della
facoltà di lettere, Sestan -- minuta nel Fondo G. della Scuola Normale
Superiore – e costretto a interrompere la lezione per il contegno oltraggioso e
provocatorio di uno studente. È una scelta assai meditata, anche se amara,
quella di lasciare Firenze, che è stata la sua alma aater, trasferendosi alla scuola
normale superiore di PISA come professore e anche questa scelta è significativa
di storia della filosofia del Rinascimento. Come scrive al direttore della
scuola, Bernardini, sarebbe stata quella la conclusione migliore, certo la più
onorevole , di un lungo insegnamento (minuta). Questo non significa che
da quel momento si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a
cominciare da quella italiana. Anzi: pubblica, con l'editore barese Donato, un saggio
importante, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia, riprendendo in
forme nuove il problema del positivismo e riaprendo, in generale, la questione
del rapporto tra eredità positivistiche e filosofia, nelle sue varie
diramazioni. Ma il saggio non ebbe un successo paragonabile a quello tributato
al volume sugli Intellettuali italiani. Nel giro di pochi anni, la situazione
era profondamente mutata e i temi trattati in quel testo, pur così importante,
avevano perso peso e rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai
aprendosi, e su vasta scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione
nazionale, nel pieno di una crisi che investiva lo stato italiano fin dalle
fondamenta. Effettivamente, un intero mondo sta cominciando a finire.
Tanto più colpisce, in questa situazione, il saggio che in
controtendenza, G. dedica a Gentile pubblicandone, con l'editore Garzanti, le
Opere filosofiche. Aveva ormai 82 anni: nel 1979 era uscito dai ruoli
dell'insegnamento, nel 1984 era andato definitivamente in pensione, nel 1986
era diventato professore emerito della Scuola Normale. Lascia anche la
presidenza dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. E dunque
diventato un libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine
istituzionale, e forse anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e
l'atteggiamento 'non conformista', si potrebbe dire – con cui si confronta con
Gentile nella lunghissima introduzione che premise ai testi, spiegando il senso
della sua scelta. Non è un'impresa facile. I rapporti di G. con Gentile e
con Croce sono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con
il tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine
generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a
Gentile. Basta leggere le pagine che gli dedicò nella Storia della filosofia, e
accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere come ne
apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce. Certo, come
dimostrano le cronache, il suo giudizio sull’idealismo si approfondì col tempo
e divenne assai più ricco e articolato. Ma la distanza di G. dalla 'filosofia
dello spirito' non venne mai meno, perché essa coinvolgeva un punto centrale,
allora e poi, della sua posizione. Alle origini, le ragioni di quella
scelta stano precisamente qui. Sul piano filosofico GENTILE (si veda) appartene
a quella filosofia della libertà, specie di matrice francese, in cui G. riconosce
il carattere principale della filosofia e anche le proprie radici filosofiche. Filosofia
della libertà: cioè azione, praxis, atto, volontà. Sono i motivi che erano
presenti anche in Marx, quelli che gli avevano fatto apprezzare GRAMSCI (si
veda), sentire affine la ricerca dei Quaderni del carcere, e che, nel volume,
sottolineò anche in GENTILE (si veda), vedendo anzi nella sua lettura di Marx
la via attraverso cui si era affermato nel nostro paese il principio della
praxis, dell'azione, della volontà. È per queste stesse ragioni –
strutturali, non contingenti – che G. fu, invece, in sostanza, lontano da CROCE
(si veda), pur apprezzandone il rapporto stabilito tra politica e cultura e
l'immenso lavoro: non ne condivideva la concezione del circolo spirituale; lo
sentiva distante per l'incapacità di afferrare la intima, e insuperabile,
tragicità della vita; rifiuta la dissoluzione dell'individuo empirico, che
invece per lui era fondamentale. Certo, con il tempo maturò un giudizio
assai più ricco di quello espresso negli anni Quaranta; ma alcuni elementi in
cui si esprimevano un distacco, e un dissenso, perfino di ordine generazionale
non vennero mai completamente meno. In occasione del centenario della nascita
di Croce, scrive un bel saggio sui suoi rapporti con Serra (SERRA (si veda) e
Croce, in Belfagor) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ha esitazione a
schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo. Iniziò
una profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere, in vari
modi, nel mondo storiografico, compreso quello di G., che operò mutamenti
profondi nella sua posizione, a cominciare dalla concezione dell'Umanesimo
civile, che nel ventennio precedente era stato il centro della sua
interpretazione del Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale; anzi
una ideologia nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come appare nel
Ritratto di Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca di Lettere,
Arti e Scienze di Arezzo), mentre assunsero rilievo essenziale altri temi,
altri autori, come risulta chiaro dal libro Lo zodiaco della vita. La polemica
sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento (Roma-Bari), che raccoglieva quattro
lezioni tenute al Collège de France. Fin dall'inizio della sua attività G. da
rilievo alle tematiche magiche, astrologiche, ermetiche, sistemandole, poi, nel
contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse ridiventarono centrali, con una
particolare sporgenza dei testi e dei motivi di carattere astrologico. Alla
base di questo c'era, come sempre in G., un convincimento di ordine
teorico. A lungo era stato persuaso che nella cultura europea fosse
stata presente, e dominante, quella che egli chiama la 'linea PICO (si veda)-Sartre',
secondo cui l'uomo non ha una natura (una specie, una forma), ma è un atto che
si sceglie, per riprendere una sua battuta contenuta nella lettera a Amoroso minuta
nel Fondo G. della Scuola Normale Superiore di Pisa. È un convincimento
coerente con la sua filosofia della libertà, della praxis, del primato della
volontà. Negli ultimi anni furono proprio questi capisaldi che si infransero e
vennero meno sbalzando in primo piano, al posto dei cancellieri fiorentini, filosofi
come POMPONAZZI (si veda) e, soprattutto, ALBERTI (si veda), sostenitori, l'uno
e l'altro, di una concezione totalmente disincantata dell'uomo e della vita,
ridotta o a gioco privo di senso o a una eterna vicissitudine di uomini, di
cose, di sorti. E qui si può osservare come in un microcosmo in che modo lavora
G., e quanto fosse profondo nella sua ricerca l'intreccio tra autobiografia e
storiografia, a loro volta sostenute da una posizione teorica precisa, ma
destinata, al tempo stesso, a importanti variazioni e mutamenti. ALBERTI e s infatti
sempre al centro della sua attenzione, ma venne a lungo inserito nella
prospettiva dell’Umanesimo civile, mentre negli scritti dell'ultimo periodo si
configurò come uno dei principali esponenti di una concezione che vede
nell'uomo niente altro che un ludus deorum, per riprendere l'espressione
utilizzata da Platone nelle Leggi e ripresa nel De fato da POMPONAZZI (si veda). Sono
precisamente questi temi, e queste espressioni (citate puntualmente nello
Zodiaco della vita, e rafforzate dalla scoperta che fa di alcune Intercenali
inedite di Alberti, pubblicate su Rinascimentonel), che attrassero G. quando si
convinse che la linea PICO (si veda)-Sartre si era infranta ed èstata
sconfitta. Né è facile dire quanto in queste posizioni storiografiche avesse
inciso la crisi che fin dalla fine degli anni Sessanta sta travagliando il
mondo storico, dandogli progressivamente il senso – e poi la persuasione – che
una intera epoca della cultura europea stava tramontando, dissolvendo quegli
ideali e quelle utopie che ne avevano sostenuto il cammino, specie nei momenti
più gloriosi come il Rinascimento e l’Illuminismo. In un intreccio
profondo di autobiografia e storiografia, le pagine dell'ultimo G. sono solcate
da toni assai disincantati e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in
questi scritti, egli si presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo
forte era stata la persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della
volontà perché essa potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la
sorgente originaria della sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa –
nonostante tutto – aveva cercato di restare fedele, dipanando il filo
essenziale della sua esistenza, nelle diverse situazioni in cui gli toccò di
vivere, per quasi un secolo. Quando muore, a Firenze non ha smesso di pensare all'utopia di un
mondo diverso: come gli avevano insegnato a fare i rappresentanti più eminenti
dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta parte della sua esistenza. G.
Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, Giornata di studio,
Prato, Biblioteca Roncioniana a cura di Audisio - A. Savorelli, Firenze (si
vedano in particolare i saggi di Cesa, Momenti della formazione di uno storico
della filosofia e di C. Vasoli, Gli studi di E. G. Su Pico; G. e il Novecento,
numero monografico del Giornale critico della filosofia italiana; Ciliberto, G.
Un intellettuale nel Novecento, Roma-Bari; G. Dal Rinascimento all’Illuminismo,
Atti del Convegno, Firenze, a cura di Catanorchi - Lepri, con Premessa di
Ciliberto, Roma-Firenze; Il Novecento di G., Atti del Convegno promosso dalla
Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia
Italiana, Roma, a cura di Ricci - Vacca, Roma. Grice: “Don’t expect philosophical insight from Garin.
He is at most an amanuensis. But like Gentile, it is helpful, if you are into
minor philosophers, or minor figures, to go through the indexes of his many
compilations. As with Gentile’s Storia della filosofia italiana, Garin’s is
just as boring. Garin makes it more difficult in that he uses two or three
words which we don’t use at Oxford: ‘pensiero’ for philosophy, ‘intellectual’
(‘intelletuali italiani del novecento’) and ‘culture’ (cultura italiana del
ottocento’). By these monickers, he is attempting to include as philosophers
people who we should not!” Eugenio
Antonio Garin. Eugenio Garin. Garin. Keywords: cicerone come umanista –
umanesimo e unamenismi – garin, umanista del Novecento – umanisti e il ritorno
dei filosofi antichi – umanesimo, ovvero, il primo secolo del rinascimento – il
ritorno dei filosofi antichi – retorica umanista – castelli e garin -- le
griceianisme est un humanism!” humus, human, homo sapiens, homo sapiens
sapiens, human vs. person, sapientia, persona -- human, umano, umanesimo – filosofia
romana -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garin – umano, troppo umano – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Garroni: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di Pinocchio – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo Italiano. Garroni. Grice: “I like Garroni; he writes very
Griceianly: on lying, on Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --,
and on sense perception (‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura,
communicazione’). Inizia
la sua attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come
intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo
lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica,
grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni
cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte. Insegna a Roma.
Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La
crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento
dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione
della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza
di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura
Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo
linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle
riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia
Einaudi.Cura Benedetto, Bottari, Melis,
Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non
speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni
artistiche ("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad
una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza
del “senso” (il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la portata
iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che trascendono lo
stato empirico delle scienze e vivono
operanti nel meglio degli indirizzi novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli.
(L’orizzonte di senso). Altre opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica
ed estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico”
(Bari, Laterza); “Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari,
Laterza); “Pinocchio uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia.
Riflessioni sulla "Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni);
“Ricognizione della semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna,
Il Mulino); “Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari,
Laterza); “Estetica. Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e
il mentire” (Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari,
Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro
Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo
letterario. Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà
di giudizio” (Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti
sul cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Bruno e Cervini,
Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno, Macerata, Quodlibet);
“La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen quartett. Una storia” (Parma,
Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e della lontananza, Roma, Editori
riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti morali, Parma, Pratiche); Lettere
alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e della Televisione italiana,
Marsilio; Una puntata, tratta da Rai Teche, del programma TV "Arti e
Scienze", in cui G. parla del Bauhaus e intervista Zevi e Gropius Presentazione della mostra dell'Autoritratto;
Articolo de La Repubblica; Intervista che riassume la nozione di estetica come
"filosofia non speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia
multimediale delle scienze filosofiche. Treccani
L'Enciclopedia italiana". Legalità / Creatività.: G. legge Kant di Romeo
Bufalo, in Studi di estetica, Bologna. LORENZINI, Carlo (Collodi). Nasce a
Firenze, primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del marchese
Carlo Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina) Orzali,
figlia del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri (frazione di
Collodi). Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero il terzogenito
Paolo, Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del L.,
Ippolito. È probabile che il L. abbia frequentato le scuole elementari a
Collodi, dove risulta ospitato dagli zii materni Giuseppe e Teresa (forse per
le disagiate condizioni della famiglia a Firenze); l'anno successivo, con il
sostegno economico del marchese Ginori, entrò nel seminario di Colle di Val
d'Elsa. Decise di interrompere gli studi in seminario, iscrivendosi nel maggio
dell'anno successivo al corso di retorica e filosofia delle Scuole pie di S.
Giovannino a Firenze. Terminato il corso trovò subito un impiego nella libreria
Piatti di Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi
mantenere agli studi. La libreria, anche casa editrice, era fra le più
importanti di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra
i quali G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato
dal giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di
redigere notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle
novità della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore
dell'impresa ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato
tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che ottenne l'autorizzazione alla lettura
dei libri proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne accompagnò le
prime prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e come critico
musicale nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da C. Tenca, dove
apparve il primo articolo firmato del
L., L'arpa. L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio Piatti,
proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e
combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle
Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità
d'osservazione e descrizione. In estate il L. tornò a Firenze e dovette
trovarsi un altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla
malattia del padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per
interessamento di Aiazzi fu nominato "messaggiere" (segretario,
commesso) del Senato toscano e arrotondò il modesto stipendio con un'intensa
attività di collaborazione a diverse testate, in particolare, al periodico
democratico Il Lampione (1848-49) di cui fu tra i fondatori. Qui pubblicò
numerosi articoli, per lo più non firmati, tra i quali spiccano alcuni pezzi
anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la serie di ritratti intitolata
"fisiologie" in cui già con matura incisività satirica tratteggiava caratteri
e tipi contemporanei, come quelli contrapposti del "codino" e del
"crociato" (cioè il falso volontario): in essi più che
"mazziniano sfegatato" (come lo definì Martini, p. 168), manifestava
tendenze repubblicane e democratiche derivate da Mazzini solo "in termini
generali" e in "modo indiretto" (G. Candeloro, C. Collodi nel
giornalismo del Risorgimento, in Studi collodiani). Con il ritorno dei
Lorena nel Granducato, L. dapprima rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato),
poi, in giugno, fu reintegrato, ma la sua condizione lavorativa dovette restare
precaria, tanto che l'autunno dell'anno successivo si dedicò alla traduzione
dal francese del romanzo La figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a
puntate nel periodico milanese l'Italia musicale, per il quale compì un lungo
giro tra Emilia e Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista
continuò a collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per
i suoi impegni giornalistici) e quando perdette definitivamente il suo
impiego. Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si
intensificò ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del
periodico artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I.
Nievo). Nel periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica
musicale, teatrale e letteraria (tra cu una feroce stroncatura del poema
Rodolfo di G. Prati che anticipava di netto le prese di posizione negative di
F. De Sanctis e G. Carducci sul poeta trentino) e prose umoristiche: tra
l'altro, condusse una battaglia contro la pittura accademica convergendo sulle
posizioni dei macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T. Signorini, A.
Tricca, S. Ussi) incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo. Il tutto
"con uno stile rapido e di presa immediata, che si segnala per il valore e
la modernità del linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere).
Contemporaneamente, fondò e diresse il periodico teatrale Lo Scaramuccia, per
il quale aveva reclutato collaboratori di livello, tra cui P. Fanfani e il
giovane P. Ferrigni (Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo pseudonimo di
Yorick. Ormai dedito a tempo pieno alla sua attività di pubblicista e
scrittore, estese il raggio delle sue collaborazioni giornalistiche a periodici
quali Lo Spettatore (cui collaboravano, tra gli altri, G. Giusti, N. Tommaseo e
R. Bonghi) e al giornale umoristico La Lente, in cui per la prima volta usò lo
pseudonimo di Collodi (nell'articolo Coda al programma della Lente,
1856). Il L. coltivava anche ambizioni di scrittore teatrale e compose
il dramma in due atti Gli amici di casa ispirato a un episodio reale e in cui
si ritrovano evidenti influssi del romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici:
tentò invano di farlo rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura,
cosicché più tardi poté pubblicarlo (Firenze), ma non riuscì a farlo mettere in
scena. Pubblica Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida
storico-umoristica, nato come opuscolo-guida per viaggiatori in occasione
dell'inaugurazione della ferrovia Leopolda, che collegava appunto Firenze a
Livorno. In esso il L. contaminava e stravolgeva, tentando un'inedita forma di
giornalismo umoristico ispirato al modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C.
Collodi, Opere), il genere "popolare" del romanzo e quello
"borghese" della guida di viaggio. Così la narrazione romanzesca, che
procede in modo parodisticamente caotico e con l'intreccio ingarbugliato della
narrativa d'appendice, è inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o
curiose per il viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia.
Confortato dal buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si
dedicò alla stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I
misteri di Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857,
preannunciata dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e
spontaneo. Il romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo
volume, intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice
alla E. Sue (I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto
fine del romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina,
moralmente e politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente
espressivo e satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali.
Durante la stesura di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua
intensa attività di pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse
l'incarico di segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da
G. Servadio, facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze
e intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano
Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa la sua attività di segretario della
Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove ripartì
improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione amorosa) la
primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico del periodico
L'Italia musicale. Nella capitale sabauda si arruolò nell'esercito
piemontese e partecipò come soldato semplice alla guerra. Dopo l'umiliante
armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu posto in congedo e ritornò a
Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a collaborare come "cronista
settimanale" al giornale La Nazione, diretto dall'amico A. D'Ancona,
espressione del gruppo moderato che faceva capo a B. Ricasoli. E proprio dalla
cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli venne chiesto di scrivere una
replica all'opuscolo La politica napoleonica e quella del governo toscano del
conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri, uscito (con la falsa
indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di dicembre del 1859. In
esso, con un violento attacco contro i toscani filopiemontesi, i plebisciti e
il partito unitario, si propugnava l'istituzione di un Regno dell'Italia
centrale, da assegnare, secondo il desiderio di Napoleone III, a Gerolamo
Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il sig. Albèri ha ragione!(
Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a Firenze alla fine di
dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del professore
bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando come
sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei
Toscani. Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e
di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato
della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La
Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi
successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione del quotidiano umoristico
Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e direttore (mentre il
fratello Paolo ne era l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione
del giornale interrotto, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non
solo del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo
lealismo annessionistico. A questa amara e disillusa evoluzione politica
corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione
lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il
L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a
segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi,
nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté chiese e ottenne di
essere collocato a riposo. Le non onerose incombenze del suo
impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con crescente intensità
delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore teatrale e, infine, di
cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860, recandosi a Milano per
contattare Tenca e il gruppo del periodico Il Crepuscolo, fu cooptato come
segretario aggiunto nella Commissione promotrice del Panteon italiano, cui era
collegato il progetto di un'edizione nazionale delle opere di Dante. Nel
1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle porcellane di Doccia, steso
(probabilmente per iniziativa del fratello Paolo, direttore della fabbrica
Ginori) come guida storica e illustrativa dell'industria dei marchesi Ginori in
occasione dell'Esposizione italiana che si tenne quell'anno a Firenze.
L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza fedelmente la linea espositiva
di un analogo volumetto compilato ancora da Albèri circa vent'anni prima, era
anche un "elogio della politica illuminata dei marchesi Carlo
("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per migliorare le condizioni di
vita dei propri operai" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Ne Il
Lampione, apparve la commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata con
il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno
trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli
amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di
commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime
consenso ricevette la vivacità linguistica del testo. Al teatro il L.
continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio
(fa parte della Società d'incoraggiamento teatrale e nella Gazzetta d'Italia
apparve un suo importante articolo tecnico sulla Censura teatrale in Italia)
sia come critico e in qualità di autore. Pubblica a Firenze la commedia in tre
atti L'onore del marito, rappresentata per la prima volta al teatro Niccolini,
rivolta non tanto alla condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la
vitalità della borghesia attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia
italiana. In quel periodo attese anche alla stesura della commedia in quattro
atti Antonietta Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; risale
inoltre la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi,
rappresentata con scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo.
Subito trascritta in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a
puntate nel Fanfulla con il significativo sottotitolo Bozzetti e studi dal
vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata lucidità con
cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio, dall'agiatezza e
dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il "vero"
che si prefiggeva L., più che quello del naturalismo letterario, era quello
nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente chiaroscurato en plein air della
contemporanea pittura toscana. Del resto, anche nell'intensa attività
giornalistica esercitata dal L. nel quindicennio che va dall'Unità, in
particolare in La Nazione, La Gazzetta del popolo e nel Fanfulla, la sua
attenzione di notista politico e di osservatore e commentatore di costume andò
concentrandosi, con toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei
problemi, dei conflitti e degli scandali dell'Italia appena unificata, con
attacchi sempre più ironici e velenosi contro personaggi e provvedimenti
politici (come M. Coppino e la sua legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e
la tassa sul macinato, il corso forzoso e la politica fiscale dei governi della
Destra) e soprattutto contro tipi, costumi e mentalità dominanti, fino all'acme
paradossale e sferzante della Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M.
Minghetti, pubblicata il 30 genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla
ventata antitoscana successiva alla polemica sul privilegiato esercizio delle
ferrovie, era esposta la paradossale e sferzante proposta di sopprimere la
Toscana stessa, cancellandola dalla carta geografica del Regno d'Italia.
A questa oltranza polemica, pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato,
in quanto dipendente del ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi
dal pubblicare articoli politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di
orizzonti. In primo luogo, al giornalismo etico-politico militante
subentrò una fase in cui L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in
volume del meglio della propria produzione pubblicistica (racconti e cronache)
nelle raccolte, dai titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano
1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (Firenze). In esse riunì, senza alcuna
revisione, semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva
non senza autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più
tipiche della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature
e tagli narrativi" (Asor Rosa) a formare un antinaturalistico ritratto
"alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal
vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei
"profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).
Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai
fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più
chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo ènominato
dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la compilazione
del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro, dette scarso
contributo. L. si indirizzò, dapprima casualmente e occasionalmente, poi
con impegno, assiduità e adesione personale sempre più convinti, verso la
letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di illimitata libertà
fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e insieme la
possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente
pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo",
dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della superficie"
delle cose (Asor Rosa), dal quale prendevano le mosse i due diversi ma in fondo
convergenti filoni della letteratura verista e della letteratura moralistica e
normativa alla De Amicis. L'occasione per quella svolta fu offerta al L. dalla
dinamica casa editrice fiorentina dei fratelli Paggi, all'avanguardia nel
fiorente mercato dell'editoria scolastica, che gli propose di tradurre i Contes
e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le favole della Contessa di Aulnoy e di
Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La versione, condotta dal L. con leggere
variazioni rispetto agli originali e con stile piano ed elegantissimo, uscì
l'anno seguente con il titolo Racconti delle fate e le illustrazioni di E.
Mazzanti. Da allora, pur riprendendo la collaborazione al Fanfulla e
continuando la sua attività di critico teatrale, il L. si mosse quasi
esclusivamente nel campo della letteratura scolastica e per ragazzi. Così,
sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito i due libri di lettura
Giannettino, che sin nel titolo riprendeva il fortunato romanzo pedagogico
Giannetto di L.A. Parravicini, e Minuzzolo: entrambi erano storie di bambini
discoli o svogliati, ricondotti alla scuola e alla normalità dalle famiglie e
da esperienze che li inducevano a riflettere (lo schema è già quello di
Pinocchio, ma le peripezie dei due protagonisti si svolgono sullo sfondo della
Firenze contemporanea). Ormai accreditato tra i più ricercati
autori di libri scolastici e per l'infanzia, il L. (che per le sue opere
pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina a cavaliere della Corona d'Italia e ricevette
da Conti, assessore alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di compilare
i libri di testo per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita metodicità
alla compilazione di una lunga serie di opere che configuravano una sezione
autonoma, personale e sistematica, all'interno della "Biblioteca
scolastica" della casa editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie
di volumi imperniati sulla figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di
Giannettino: Italia superiore, seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato
all'Italia centrale e nel 1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La
grammatica di Giannettino; L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di
Giannettino; fino a La lanterna magica di Giannettino. Con la loro formula
innovativa questi testi costituirono una novità ben accolta dal mondo
scolastico, ma non sempre apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del
ministero della Pubblica Istruzione (cfr. Raicich): le diverse discipline,
infatti, erano esposte in forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso
apertamente dialogica nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del
testo e rendere l'apprendimento il più possibile piacevole e "naturale".
Al centro di tale intensa attività vanno inquadrate la nascita e la complessa
vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di Pinocchio. Il libro nacque
per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L., che lo voleva tra i
collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di cui era animatore e
che era stato fondato da Martini con l'ambizione di rinnovare la letteratura
infantile italiana. L., ormai stanco e disilluso, rispose controvoglia inviando
all'amico i primi tre capitoli di un testo intitolato La storia di un burattino
(dallo stesso L. definito, con la consueta autoironia, "una
bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del Giornale. I capitoli
successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27 ottobre: la vicenda si
concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la presunta morte del burattino.
Forse per le insistenze di Biagi e certo per il successo riscosso dalla storia,
il L., dopo molti dinieghi, si decise a proseguire la narrazione, il cui
seguito, con il titolo ormai definitivo di Le avventure di Pinocchio. Storia di
un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal cap. XVI) dal febbraio 1882. La
pubblicazione proseguì a ritmo irregolare. Velocissima è la pubblicazione in
volume, che uscì nel febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di
nuovo, di Mazzanti; sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite,
una seconda edizione nel 1886 (lo stesso anno in cui Amicis pubblica Cuore),
una terza di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione
uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad &
figlio concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto
personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo
consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu
alterato da refusi e banalizzazioni. Se ci si limita alle sole
circostanze esterne della composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque,
può risultare fondata la qualifica di "capolavoro scritto per caso"
risalente a P. Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace
formula critica la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della
"bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa
carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il
suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni
teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del
giornalismo della seconda metà dell'Ottocento. In realtà,
nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del
capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme profondamente
coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita
e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore
satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano
l'universo del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi
scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è
condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non letteraria e
mediana, che trova piena realizzazione nel toscano "vivo" in cui la
celebre fiaba è narrata. Di tutto ciò non si accorsero né i
contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo
crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre
la fortuna editoriale della "bambinata" veniva crescendo fino a farne
il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della
critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e
A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro
della letteratura mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita
e la carriera del suo autore. Negli anni della composizione e
pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla e
assunse parte sempre più attiva nella gestione del Giornale per i bambini, di
cui divenne direttore e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi non ha
coraggio vada alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e Pipì lo
scimmiottino color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e
memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre
pubblicato nel 1887, sempre presso Paggi. L'anno prima era morta la
madre, presso la quale il L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non
riuscì a riprendersi. Gli anni successivi furono i più tristi e solitari della
vita del L. che, già minato nel fisico, venne sempre più chiudendosi in se
stesso e isolandosi nel suo lavoro. L. muore a Firenze improvvisamente.
Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e lessicografo
purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e Divagazioni
critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze) gran parte delle prose sparse
del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai testi. Rigutini e
il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta raccolta delle sue
carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere (private o d'argomento
politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità del L. e di molti
viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di salvaguardare "il buon
nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo Lorenzini [Collodi nipote]). Le
non molte carte sopravvissute furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito,
alla Biblioteca nazionale di Firenze. Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca
nazionale, N.A., 754: Carte Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di
carte è custodito presso l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad
Marzocco di Firenze, erede della casa editrice Paggi (cfr. Minicucci, Tra
l'inedito e l'edito delle carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti
del I Convegno internazionale, Pescia. Altri documenti sono presso
l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e
presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati
presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi
giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze; Pinocchio
e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di R. Maini
- M. Zangheri, Firenze). Tra le testimonianze biografiche contemporanee,
i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla della domenica
e nella Domenica fiorentina; i profili premessi dai curatori a due successive
edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G. Rigutini, Firenze; a cura di I.
Cortona, Lorenzini); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi,
in La Lettura, Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), I, Firenze;
inoltre Lorenzini, Collodi e Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre
di Pinocchio. Vita e opere del Collodi, Milano, Traversetti, Introduzione a
Collodi, Roma-Bari; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi,
Milano. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato Tutto
Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume (Firenze);
la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle Opere, a cura di
D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C. Collodi dà conto delle
numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e delle opere minori
(narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la ristampa anastatica
della Grammatica di Giannettino, a cura di Geymonat, Firenze. De Le
avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni di particolare rilievo: le
due edizioni critiche, la prima a cura di A. Camilli, Firenze 1946 (basata
sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura di O. Castellani Pollidori,
Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad, l'ultima rivista dall'autore -, ma
corredata delle varianti delle precedenti stampe e dei manoscritti
dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F. Tempesti (tutte pubblicate
a Milano), corredate da un ampio commento e da ricchi apparati documentari;
infine, quella compresa nella raccolta di Opere, a cura di Marcheschi, con
ampio corredo di note. Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con introd. di
S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano) con introd. di P.
Italia e prefaz. di V. Cerami. Per il resto si rinvia (anche per la letteratura
critica) alla Bibliografia Collodiana di L. Volpicelli (Pescia), da integrare
con la citata Bibliografia di D. Marcheschi, aggiornata, , alla consultazione
del catalogo della Biblioteca Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli
su C. Collodi e Pinocchio (on-line su internet), gestiti dalla Fondazione
nazionale Carlo Collodi di Pescia. La storia degli studi critici sul L. in
gran parte contributi su Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da
Collodi a L.: sulla fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di
Collodi, cur. Viola e Rovigatti, Roma; Pinocchio. Breve storia della critica
collodiana di Bertacchini, in C. L.- Collodi nel centenario. Atti del Convegno,
Roma-Pescia Roma. Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli
della critica collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature
enfantine en Italie, in Revue des deux mondes, Pancrazi, Elogio di Pinocchio,
in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze Croce, Pinocchio, in
Id., La letteratura della Nuova Italia, V, Bari; Bargellini, La verità di
Pinocchio, Brescia Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia,
Milano Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze; Baldini, La ragion
politica di "Pinocchio, in Id., Fine Ottocento. Carducci, Pascoli,
D'Annunzio e minori, Firenze; Pancrazi, Capolavoro scritto per caso, in Id.,
Scrittori d'oggi, Segni del tempo. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo
studio della personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo
Collodi, a Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici:
Studi collodiani. Atti del Convegno Pescia; Pinocchio oggi. Atti del Convegno
pedagogico, Pescia-Collodi, C'era una volta un pezzo di legno. Atti del
Convegno La simbologia di Pinocchio", Pescia Milano; Folkloristi italiani
del tempo del Collodi(, Pescia, cur. Clemente - M. Fresta, Montepulciano;
Pinocchio fra i burattini. Atti del Convegno internazionale, cur. Tempesti,
Firenze; Pinocchio sullo schermo e sulla scena. Atti del Convegno
internazionale, a cura di G. Flores d'Arcais, Firenze; Scrittura dell'uso al
tempo del Collodi cur. Tempesti, Firenze; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia cur.
Bernacchi, Firenze; Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda, Lucca.
Per il centenario della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla
Banca Toscana, C. Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con
introduzione di L. Comencini e Suso Cecchi D'Amico, Firenze e le citate
pubblicazioni dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il catalogo C.
L. oltre l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi nel
centenario. Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di grammatica
in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma; G. Cives,
Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il bambino e la lettura.
Testi scolastici e libri per l'infanzia, Pisa, Giachery, Tre compari intorno a
un burattino, in Id., La letteratura come amicizia, Roma, Gómez del Manzano -
G. Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci; A. Asor Rosa, Le avventure di
Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana nel
tempo, Torino, Citati, Il ritratto di "Pinocchio", in Id., Ritratti
di donne, Milano, Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due
fortune molto diverse, in Scuola e città, Farnetti, I notturni di Pinocchio, in
Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico, Pasian di Prato Gasparini,
La corsa di Pinocchio, Milano Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel,
Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino; Tempesti, Pinocchio,
in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a cura di M.
Isnenghi, Roma-Bari, Spinazzola, Pinocchio & C., Milano Toesca, La
filosofia di Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di
burattino, in Forum Italicum, Pizzoli, Sul contributo di "Pinocchio"
alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani, Randaccio, La
"Legge shandyana del nome" nei personaggi di C. Collodi, in Riv.
italiana di onomastica, Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova
Antologia, Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in Studi
cattolici; Campa, La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di
Pinocchio", Lucca; Sterne e Collodi, Lucca, testi di R. Bertacchini, D.
Marcheschi, F. Tempesti, Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la
tradizione delle guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi
d'inchiostro. Note su viaggi e letteratura in Italia, Udine, Iermano, Da
Parravicini a Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra
Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, Carosi, Pinocchio. Un
messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma; A. Gnocchi - M. Palmaro,
Ipotesi su Pinocchio, Milano; Moret, Pinocchio e le pinocchiate in Francia, in
Levia gravia, Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi
piemontesi, Villoresi, La letteratura poliziesca e del mistero ambientata a
Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in Archivi del nuovo, Lavizzari,
Della disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti, Geymonat, Una grammatica di buon senso, in Collodi,
La grammatica di Giannettino, cur. Geymonat, Firenze; Marello, La dubbia
efficacia del paternalismo induttivo, i Castellani Pollidori, In riva al fiume
della lingua. Studi di linguistica e filologia, Roma, ad ind.; Il giro di
Pinocchio in due giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa. Proietti. Ho
intervistato G. presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso, insieme
al mio relatore Amoroso, di scrivere un saggio i sull’estetica di G.. G., molto
gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e mi ha fornito
indicazioni importanti per la stesura della tesi. G., nei suoi testi c'è stato
un progressivo spostamento di interesse dalla semiotica all'estetica, in che
modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi sono occupato molto prima di
estetica che di SEMIOTICA. Ma quando ho cominciato ad occuparmi di SEMIOTICA,
l’interesse non e rivolto solo alle opere d’arte, anche se l’occasione e
questa. Perché mi sono occupato di SEMIOTICA? Sono stato attratto anch’io nel
vortice della MODA della SEMIOTICA. Ma forse ho anche qualche motivo serio per
farlo. Provengo dalla cultura estetica imperante in Italia, di tipo crociano,
dove l’arte viene riportata all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più.
Non si sa in alcun modo come l’estrinsecazione di questa intuizione si
strutturi e sia analizzabile. Lo stesso Croce nelle sue opere critiche conduce
analisi critiche vere e proprie in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e
quasi nient’altro. Anche i tentativi che sono fatti sulla scia 2crociana
nell’ambito di arti particolari, nell’architettura da parte di Zevi , nella
musica da parte d’altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché
resta pur sempre quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto
meno si puo sapere, come pure e nella mente di Croce, se e quando un’opera
d’arte e veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera
d’arte riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte.
Appunto questo intuizionismo mi urta. Non a caso mi avvicinai in un [Questa
intervista nasce dunque come appendice al saggio di Ferrari, Estetica e FILOSOFIA
in G, Pisa. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino] primo momento a
Volpe, citato già nel mio saggio e ampiamente discusso insieme al pensiero di
Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Volpe? Perché in lui c’e
l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un uso specifico del LINGUAGGIO. In VOLPE
insomma l’opera si presenta come analizzabile, ed effettivamente Volpe conduce ANALISI
SEMANTICHE, piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali
analisi semantiche si occupano inoltre anche di varie arti non linguistiche.
L’appendice alla Critica del gusto, che riprende il tema del Laocoonte
lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è
un caso che al proposito si citi Brandi, che non e mai un semiotico, anzi e un
accanito ANTI-semiotico, e tuttavia pone le basi di un’autentica analisi
dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzo tuttora moltissimo Brandi, che ho
sempre letto. Insomma: mi interessa di poter disporre di una teoria che
permettesse di analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro
struttura COMUNICATIVA. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora
adottato frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli
come SEGNI (per esempio,
nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato
invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si
dimostra anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzo cioè di
produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si
conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non
materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità
formali costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una
autentica leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua
costituzione. Non pretendo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di un’opera
a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è un'altra
cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere opera
d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho
intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono
accorto che quel lavoro puo forse essere interessante come mero esperimento, ma
non porta a niente. In realtà non porta a niente né la semiotica materiale di
tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e propria crisi
teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica, saggio semioticamente troppo
ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della semiotica, che è una
dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e un’apertura più
decisa, anche se già più che affiorante nei saggi precedenti, verso altri
orientamenti. Una precisazione importante. Mi sono distaccato dagli studi di
semiotica sulla base di un accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire: tento
di utilizzare opportunamente gli strumenti linguistici anche per i linguaggi
non verbali e di arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma ANALOGHE,
nella definizione del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto che
neanche il codice linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte
codificata, fonematica, monematica e grammaticale. Ma, nell’uso, poi, il
linguaggio è creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono
convinto che sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di [ G., La crisi
semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma. Volpe, Critica del gusto,
Feltrinelli, Milano. G., Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi
non-verbali, Problemi teorici e applicativi, Laterza, Bari. G., Ricognizione
della semiotica. Tre lezioni di, Officina Edizioni, Roma] più da linguaggi
chiaramente ancora meno codificati, come per esempio il presunto linguaggio
figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento della
filosofia di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in
particolare della terza Critica, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di
lezioni. E via via che ando maturando una mia interpretazione di Kant, essa e
sempre più in collisione con una prospettiva semiotica. Non che le opere non
siano analizzabili, ma sono analizzabili con strumenti diversi, non con
strumenti propriamente semiotici. Ma questo è un altro discorso. Come reputa di
inserirsi nella tradizione kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi
riferimenti imprescindibili in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi
sono stati e sono i suoi interlocutori privilegiati? Il riferimento più
significativo è SCAVARELLI. Scaravelli dà un’interpretazione fulminante della
terza Critica, mettendo in evidenza cose che non sono mai state viste, e che
invece, dopo aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare
anche un autore, un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: BARATONO,
che sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio
come un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e
quindi della scienza. È insomma una parziale anticipazione di Scaravelli. Un
ultimo riferimento notevole è MATHIEU, che è giunto a risultati analoghi nei
riguardi del cosiddetto Opus postumum. Questi sono i miei più importanti
riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato anche molte
opere di studiosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da Hinske a
Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un certo
punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani si
sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia
tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano
molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho,
e ottimi. Per esempio MARUCCI, con cui ho avuto anche una corrispondenza che,
come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica». Con Marcucci
sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i suoi saggi e
io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se non siamo sempre d’accordo,
soprattutto sul punto fondamentale dell’interpretazione del principio estetico
della facoltà di giudizio. Ma spesso è più [Le considerazioni più rilevanti
sulla terza Critica sono in: Scaravelli, Osservazioni sulla Critica del
Giudizio, poi in Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze. Cfr.
Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del
Giudizio, Logos. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’Opus postumum di
Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino; Kant, Opus postumum, a cura di Mathieu,
Zanichelli, Bologna. G., Marcucci, Lettere kantiane, Studi di estetica] proficuo
non essere d’accordo, che l’esserlo. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho
scambiato idee, ho letto il suo saggio su Kant che apprezzo molto. Per esempio,
ci siamo visti in occasione di un seminario kantiano a Palermo, e abbiamo
parlato a lungo. E ancora Makkreel, che ho conosciuto a Salle, e Rocca, che mi
interessa molto. A proposito di Salle, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo,
chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che
stavamo entrambi traducendo la terza Critica, rispettivamente: Critica della
capacità di giudizio e Critica della facoltà di giudizio. Ma dovrei ricordare
alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è sempre stato
uno scambio molto forte su problemi kantiani: Giacomo, Montani, Catucci,
Velotti, che ha scritto un bel saggio che si occupa largamente di Kant,
recentemente edito da Laterza. E soprattutto Hohenegger, con il quale ho
lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e
nella stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. Rocca è un caso per
me leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è per
fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme oltre
che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di
Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio
stesso della facoltà del giudizio. Eppure Kant dice, mi pare più volte e
chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della
facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da
quello. Il caso di Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di DESIDERI,
che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’
complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è
uscito un suo saggio, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione,
che a lui sta bene, al contrario di Rocca. Ebbene, [ Cfr. G., Estetica ed
epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni, Roma,
con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano); Marcucci, Epistemologia ed
estetica in Kant, Physis. Amoroso, Senso
e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, Seminario promosso dal Centro
Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a Palermo, Grand Hotel des Palmes,
Tema del convegno: Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente
all’uscita di Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di Tedesco, Aesthetica,
Palermo, Hanno introdotto la discussione Amoroso, Ferraris, G., Russo.
Partecipanti: Carbone, Carchia, Angelo, Giacomo, Diodato, Ferrario, Goldoni,
Griffero, Kobau, Lombardo, Mattioli, Mazzocut-Mis, Montani, Pimpinella, Pizzo Russo, Salizzoni, Tedesco,
Tomasi, e Velotti. La relazione di G. e altre relazioni e comunicazioni sono
state poi pubblicate in «Aesthetica Preprint». A Cerisy si svolgono le attività
del Centre Culturel International cerisy.asso.fr). Il Colloquio su L’Esthétique
de Kant si svolse. Gli atti sono stati poi pubblicati in Kants Ästhetik, hrsg.
H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin. Kant, Critica della capacità di giudizio,
a cura di Amoroso, BUR, Milano. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura
di G. e Hohenegger, Einaudi, Torino; Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza,
Laterza, Roma-Bari; Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia; Desideri, Il passaggio estetico. Saggi
kantiani, Il Melangolo, Genova] curiosamente non ho mai avuto rapporti
personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o
cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo saggio
che questa idea gli è venuta leggendo una serie di saggi, fra cui il mio, ma
anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il
perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono idealmente» in rapporti
di discussione. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia
dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso si prendono in
considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per
un certo verso anche in Senso e paradosso, si argomenta intorno alla
possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come estetici,
rilettura nella prospettiva del senso che è a Lei propria. Come ritiene quindi
fattibile una storia dell'estetica? E con quali limiti? Non ho mai scritto una STORIA
DELL’ESTETICA (Grice: “Bosanquet, a minor, has!”), né mi è mai venuto in mente
di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a uscire
dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica calibrata in
modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia dell’estetica che non
presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale, così come si è
costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono fare distinzioni
opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione estetica, in senso
molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico a quello che noi
chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente in un certo
tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei saggi, somiglianze, identità
parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari oggetti sui
quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo significa che non
si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una disciplina e che
però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni che, in qualche
modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato opere d’arte bella
e che richiedono parimenti un principio non intellettuale. Su questa base è
nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me diretta, dedicata ai
problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica, dove sono usciti alcuni
ottimi saggi, per esempio quello di Angelo sull’estetica della natura e
dell’ambiente. Dunque, estetica fino a un certo punto, che non si occupa di
opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono essere sottoposti a giudizi di
tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai, puramente estetici, ma
coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito poi un saggio di
Guastini sull’estetica ANTICA, particolarmente interessante, perché riesce a
chiarirla senza mai dimenticare che la LA FILOSOFIA ANTICA non possiede una
vera e propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come disciplina, ma
perché i suoi [G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano; G.,
Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari; La
serie di Laterza si chiama: «Temi per l’estetica» ed appartiene alla collana Biblioteca
di cultura moderna; Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale,
paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari] problemi erano alquanto
diversi. Ebbene, in quel saggio si vedono bene, come le dicevo, e differenze e
analogie. Insomma: questo è appunto un modo di fare storia dell’estetica senza
pretendere di fare la storia di una disciplina, ma piuttosto la storia di un
qualcosa di cangiante che circola nella riflessione e che tuttavia richiede una
qualche condizione comune, qualcosa come il principio soggettivo della facoltà
di giudizio. E del resto io stesso, il mio saggio, l’ho intitolato L’arte e
l’altro dall’arte, con questa precisa intenzione. Nei suoi più recenti saggi,
Lei lamenta il fatto che l'arte non riesca più ad essere esemplificatrice di
una prospettiva di senso: essa sarebbe solo una reduplicazione e sostituzione
dell'esistente. In che modo valuta questi cambiamenti? Ritiene inoltre che vi
siano nell'arte propensioni opposte a questa tendenza generale? Sull’arte ho
poco da dire, ho poco da dire perché... Guardi, io mi sono interessato
moltissimo di arte e storia dell’arte, occupandomi dell’arte antica e moderna,
dai greci fino ai nostri giorni, compresa l’avanguardia novecentesca. Mi sono
avvicinato di più all’arte che si sta facendo allora e ho scritto anche qualche
saggio in onore di pittori che mi interessavano. Ma questo interesse artistico
è un po’ scemato col tempo. Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non
sempre testimoniate in saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’
perché credo che il giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione
dell’esistente, con l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia
abbastanza valido. Io non so se esistano casi che facciano pensare il
contrario, può darsi, non so dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati...
qualcosa di «carino», sì, una invenzione che richiama l’attenzione... però
tutto sommato mi pare che l’arte nella sua generalità tenda precisamente a
quella riproposizione dell’esistente, attraverso i mezzi tecnologici oggi a
disposizione. Le stesse installazioni, per esempio, che pure sono qualche volta
opere di grande interesse, sono spesso la raccolta di oggetti trovati, ma con
intenti diversissimi rispetto a Duchamps, e richiamano sempre l’esistente tale
e quale, o quasi. In effetti è significativo che anche in quelle opere ci sia
spessissimo un te- [Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia
nell’antichità, Laterza, Roma-Bari; G., L’arte e l’altro dall’arte, Laterza,
Roma-Bari; Pochi giorni dopo l’intervista, G.mi ha inviato una e-mail con la
bozza di quello che sarebbe stato davvero il suo ultimo saggio: G., Immagine
Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari. Cfr. G.,
Relazione interna, relazione esterna e combinazione delle arti, relazione
presentata al Convegno della Biennale Lo scambio delle arti, Venezia, poi in: G.,
L’arte e l’altro dall’arte, cit.; G., Senso e non-senso, conferenza letta a Coloquio
Latino-americano de Estética y de Critica di Buenos Aires e alla Facultad de
Arquitectura Diseño y Urbanismo, poi in: G., Osservazioni sul mentire e altre
conferenze, Teda, Castrovillari; G., Crispolti, Greco, Biblioteca di
Alternative Attuali, Roma; G., Arte mito e utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari,
Tipografia Fonteiana, Roma; G., Il mito negativo e la pittura di Vacchi,
Officina, Roma; Benedetto, Amore Uno: 6 acqueforti, presentate da G., Il
Torcoliere, Roma; Benedetto, Galleria d’arte internazionale Due Mondi, Roma] levisore,
quasi che si volesse richiamare l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul
fatto che quello che si mostra è proprio quello che potremmo incontrare andando
in una casa che non conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per
il futuro. Può darsi che tutto cambi, basta che emerga una personalità di
talento, che faccia del nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la
verità, io non credo molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I
talenti sono un fatto, ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri
tempi sono tempi di degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali.
Insomma, se l’arte mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degl’artisti,
ma piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai
quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o
telematica. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e
Wittgenstein) è Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più
circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per
quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come
esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi
filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e
Heidegger sono i due filosofi più importanti. Questo forse sarà un giudizio
estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente questi sono
tra i pochi più importanti. Io trovo motivi di interesse per un certo verso più
in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti,
ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato
entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e
con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una
volta un altro filosofo, che non cita più nessuno: CARABELLESE. Carabellese è
stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese
nell’ambito filosofico e stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del
testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche
coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità. Confesso di
preferire di gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono
a metà. Quella era la sua caratteristica principale. Io tento di ispirarmi a
quel metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza.
Cito Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un
estetica precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non
un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma
certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello
del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla
esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con
l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo
in un ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una
crociera, e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è
stato molto impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma
soprattutto per alcuni Sul problema interno della filosofia, cfr. Carabellese,
Che cos’è la filosofia?, Rivista di Filosofia; Per le critiche alla semiotica,
cfr. BRANDI (si veda), SEGNO e immagine, Milano, Il Saggiatore] aspetti
filosofici della sua estetica, guarda caso proprio in riferimento allo
schematismo kantiano, e per la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere
d’arte. Basta leggere i suoi Dialoghi, l’Architettura barocca, Duccio, eccetera
eccetera, per rendersene conto. Da
sempre Lei ha alternato alle opere filosofiche, opere di narrativa. C'è stata
un'influenza tra i due ambiti? L’argomento dei miei scritti narrativi mi
imbarazza leggermente, dato che cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei
miei lavori. Tuttavia non mi imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa
attenzione degli altri scritti, e, per di più, che essi meritavano forse
un’attenzione maggiore, al di fuori della ristrettissima cerchia dei miei
lettori, come dire?, convinti. Non è uno sfogo da autore deluso. E’ una
convinzione, credo non immotivata, che non nasce affatto dalla delusione. Ora
lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i due ambiti. Senza dubbio, non può
non esserci, perché sono sempre io che scrivo, quell’io che ha una certa
storia, personale e culturale, e che è arrivato a certi risultati, buoni,
cattivi o mediocri, questo non importa, in fatto di comprensione. E tuttavia
ciò che scrivo nelle opere narrative non serve a spiegare nulla dei miei saggi.
Anzi sarebbe una fonte di fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire
i miei saggi filosofici. Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una
spiegazione ulteriore da parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una
posizione più arretrata. Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi
deve arrivare ad una vera comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di
personaggi in qualche modo nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste
due parole nel sottotitolo del libretto Racconti morali: lontananza e vicinanza.
Ebbene i miei personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e
la vicinanza al mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione
sia superabile, e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della
vicinanza con gli oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile
guardare da lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti
metafisici che intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura
elaborata, saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte
intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono
fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che
non hanno capito [Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma; Brandi,
Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi, Torino Brandi,
Celso o della Poesia, Einaudi, Torino Brandi, La prima architettura barocca:
Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza, Bari, Brandi, Duccio,
Vallecchi, Firenze G., La macchia gialla, Lerici, Milano G., I tasmaniani,
Bucciarelli, Ancona, G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma G.,
Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma; G.,
Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma G. si dedica non solo
alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni dipinti sono riprodotti nel
libro- intervista: G., Doriano Fasoli, Il mestiere di capire, Edizioni
Associate, Roma; G., Racconti morali, cit.] ciò che io chiamo il
guardare-attraverso. E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del
genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a
quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni
tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una
sorta di postfazione, ai testi filosofici. G. non è stato soltanto uno dei
filosofi italiani più importanti, ma anche una figura di intellettuale
complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai
suoi svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di
questo focus di Syzetesis dedicato ad alcuni Momenti di FILOSOFIA ITALIANA sui
suoi contributi più convenzionalmente etichettabili come filosofici, quali
quelli dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando
tutto il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da
specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica),
l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti
visive, la letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani,
settimanali o cataloghi, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande
impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A
questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fare solo
qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo
un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo,
ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o passione
dominante di G., e che il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano
Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di
capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci
mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo
sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La
bibliografia più completa degli scritti di G,, curata da A. D’Ammando, è dispo-
nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” G. e
Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma
2005. 3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?,
testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi
psicoanalitica, Borla, Roma; G. poi rielabora questo testo in La mente, il
corpo, le cose, in Carignani e Romano, Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e
mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Angeli, Milano; Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale
prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia –
è strettamente legato in G. alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza”
che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da
intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo”
dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella
prospettiva critica adottata da G., ha ben poco da dire), ma neppure come una
dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona
volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo
acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per G. il senso
dell’esperienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma
per niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima-
mente paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso.
Per chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la
sua seconda parte, l’estetica come filosofia non speciale), è bene ricordare
che per G. l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con
un proprio oggetto epistemico o materiale, ma riguarda le condizioni di
possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle
ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte,
semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare. Per G.,
infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non
empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività
empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano
a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piuttosto il compito di guardare-attraverso
le esperienze determinate, per Cfr. G., Sul dover essere del senso, in
appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti, Milano (seconda
ed., Castelvecchi, Roma, con un’introduzione di Velotti, testo presentato
originariamente al convegno dell’Associazione italiana di studi semiotici
“Semiotica ed epistemologia delle scienze umane (Siena). Cfr. G., Senso e
paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Bari G. usa il termine
“guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso tecnico, quale
traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90 delle Philosophische
Untersuchungen, ed. Anscombe e Rhees, Blackwell, Oxford, Trad. it. di Piovesan
e Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi. È come se dovessimo
guardare attraverso i fenomeni, die Erscheinungen durchschauen: la nostra
ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla possibilità dei fenomeni. Velotti
risalire alle loro condizioni di possibilità intellettuali e non
intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica, come orizzonte di
senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e indeterminabile. Il com-
pito di capire è inteso innanzitutto proprio come questo guardare- attraverso i
fenomeni per comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il cosiddetto
«problema interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa questa volta
da Pantaleo Carabellese, che G. ammirava e le cui tutoriale frequenta da pupilo
alla Sapienza – è infatti per G. un problema fondamentale, che riguarda il
paradosso fondante della filosofia, cioè il suo esercitarsi dall’interno della
stessa esperienza dalla quale, a un tempo, si distanzia per comprenderla, senza
mai poter rivendicare un proprio altrove, un suo luogo metafisicamente
appartato. Vorrei partire, però, da qualche spunto di carattere biografico, ma
solo per quel tanto che ci permette di intravedere l’urgenza anche contingente,
socio-biografico-culturale, di quella passione per il capire stesso, che G. non
considera affatto un’esigenza contingente. G. lavora per diversi programmi
televisivi della RAI, in parte dedicati alle arti, in parte ad altre questioni
(si ricorda, per esempio, un bel documentario su AOlivetti, con quella che
divenne la sua ultima intervista. Lavorava alla RAI per necessità, non per
vocazione, per quanto la RAI di allora fosse culturalmente molto più ricca di
quella di oggi. Sono tanti i programmi che potrei citare a cui G. lavora: tra
gli altri, Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e
scienze, Le tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato come trasmissione
radio- fonica nel 1944, con la direzione di Seroni e Piccioni, diventato
programma televisivo come settimanale di lettere e arti, più tardi accompagnato
da una sua rivista a stampa, nel cui comitato direttivo si trovavano alcuni dei
più importanti intellettuali dell’epoca (Bacchelli, Bo, Cecchi, Longhi, Ungaretti,
a cui bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di spicco), per non
menzionare, nella RAI, la presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte
significative, come Carlo Emilio G., Senso e paradosso Cfr. Dolfi e Papini, L’Approdo:
storia di un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma e A. Grasso-V. Trione, Arte in
TV. Forme di divulgazione, Johan & Levi, Monza Il senso dell’esperienza: G.
e l’estetica come filosofia non speciale Gadda (o, più tardi, di CAMILLERI
(si veda), coetaneo di G., o ancora di ECO (si veda), che di G. è un costante
interlocutore. G. dà conto della sua attività televisiva in un’interessante intervista
da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma credo invece
rivelatrice del suo atteggiamento inflessibilmente volto al capire: un curatore
o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti – dice lì G. – deve
essere certamente colto, ma c’è di più: deve essere, nel campo della
letteratura, delle arti figurative, della musica, oltre che colto, anche
intelligente. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi
culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve capire.
Deve insomma essere qualcuno, precisa però subito G. che sia capace di far
vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire
qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono affatto. Emerge qui
quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la
semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto
costante di G., che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una
prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa,
controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica
che oggi seduce molti, anche i filosofi: occupare una casella nell’esistente,
dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima
particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima
riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente –
di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo
compito – inteso da G. come un compito intellettua- le, culturale ed
etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica
come filosofia non speciale, cioè come filosofia tout-court [“LA FILOSOFIA,
COME LA VIRTU, E ENTIERA – GRICE], benché spesso praticata in una sua forma
obliqua anche in relazione all’arte e alla letteratura; non solo il rapporto
con la psico- analisi o lo studio del linguaggio, su cui sono nati,
rispettivamente, il lungo sodalizio con FERRARI (si veda) e la duratura e
profonda amicizia con MAURO (si veda). Ma anche l’attività giornalistica e nelle
modalità proprie, non certo assimilabili a quelle filosofico-argomentative le
stesse pratiche pittorica e narrativa. G. esordisce con una raccolta di
racconti L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino Velotti
a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera singolare, La
macchia gialla, titolo ripreso da un’incisione di Dürer, riportata sulla
copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che indica un punto del
suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice. Là dove c’è la
macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore, direi,
insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo a una
lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro filosofico-estetico
– La crisi semantica delle arti12, su cui non posso soffermarmi. Né mi
soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo autoritratto di G.,
un autoritratto verbale dell’autore, a cui seguirà venti anni dopo un secondo
autoritratto, questa volta dipinto su cui torna in chiusura. I curatori della
collana Narratori dell’editore milanese Lerici sono due nomi di grande rilievo
del mondo poetico-letterario, BILENCHI (si veda) e LUZI (si veda), i quali presentarono giustamente questa
notizia biografica, o autoritratto semi-ironico dell’autore da quasi-giovane,
come segnato d’acume e humour. Ne riporto qualche riga, che suggerisce una
motivazione anche socio-biografica, per reazione all’ambiente di provenienza,
di quella passione per il “capire” che ho indicato come la passione domi- nante
di G.. È nato a Roma in un ambiente abbastanza sciatto e approssimativo, che
non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia, tanto più che certa
piccola borghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue tenerezze. Si è accorto
che anche la sua formazione culturale è caratterizzata dalle stesse
contraddizioni: una cultura apolide e spregiudicata e nello stesso tempo lacunosa
e assai provinciale. Si è LAUREATO IN FILOSOFIA presso la Facoltà di filosofia a
Roma, G., La macchia gialla, Lerici, Milano Il testo, con la relativa
copertina, è reperibile integralmente sul sito dell’associazione “CiEG -
Cattedra internazionale G. 12 Ma, come
ha scritto Ammando all’interno di un’ottima ricostruzione del percorso
filosofico di G. (Il circolo estetico e il guardare-attraverso: la riflessione
sull’arte di G. – Roma”), a cui rimando anche per un’analisi della Crisi
semantica delle arti, si puo affermare, in proposito, che crisi, al pari d’oriz-zonte
e senso, è una parola cara al pensiero di G., almeno sotto il profilo del
problema dell’arte e del suo statuto quanto mai incerto e problematico. Il
senso dell’esperienza: G. e l’estetica
come filosofia non speciale con la quale intrattengo ancora rapporti
abbastanza scialbi. Pubblica saltuariamente saggi, note e recensioni di
filosofia e storia dell’arte su riviste specializzate, settimanali e
quotidiani. La saltuarietà del suo lavoro dipende in parte da una certa
attitudine alla dissipazione, e in parte dalla mancanza di tempo. Da molti anni
collabora infatti alla televisione dove fa un po’ di tutto dedicandomi
prevalentemente in questi ultimi tempi alla redazione e presentazione di
rubriche d’arte, con intenti, dice, nobilmente divulgativi. A queste parole si
potrebbero accostare quelle scritte su richiesta del Manifesto, che aveva
invitato ventisei personalità della cultura a raccontare la propria esperienza
personale di una visita a un museo. G. scelse la Galleria nazione di arte
moderna di Roma: Non so se fosse possibile– con la CULTURA LICEALE imperante,
bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa, volta a capire, non a
accettare, con giornali e riviste non specialistiche di livello assai modesto
che un museo o una galleria d’arte potessero essere immediatamente formativi
per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano sono perlopiù ignoranti e
disinteressate a tutto ciò che non fosse strettamente tradizionale, compresa la
stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e di fatto semisconosciuto,
che vissuta come genuina cultura. Non era un atteggiamento conservatore
retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è riuscito poi a combinare
qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. È in balia della cultura e dei
gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta borghesia romana cui essa
apparteneva, ed ècondotto più volte da certi suoi zii, che si riteneno
intenditori d’arte, alla galleria nazionale d’arte moderna. Vuole solo dire che
quella galleria è, nil luogo della mia diseducazione. Il fatto è che una
galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già preparati a formarsi
mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre, non erano
in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e dogmatiche edizioni
del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo, non mi sia
allontanato per sempre dalle arti figurative. Così che la galleria nazionale
d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante dei miei
zii, di farmi capire G., La macchia gialla, cit., risvolto di copertina. Velotti come
non si guarda un quadro. Che è un’abilità indimenticabile, come andare in
bicicletta. Abbandono ora queste incursioni biografiche – che pur nella loro
rapidità credo siano indicative del modo in cui G. si situa nei confronti della
realtà, e quindi anche della sua attività filosofica per cercare di indicare
sinteticamente il nucleo centrale della sua rifles- sione più matura, intorno a
cui si raccolgono questioni complesse e interessi anche eterogenei. Ha ricordato
CARABELLESE (si veda) – che, al di là degli esiti del suo ontologismo critico,
G. considera uno dei pochi insegnanti che ho avuto all’università che fosse
anche un grande filosofo perché è probabilmente uno dei tre punti di
riferimento italiani più significativi per il suo pensiero, insieme a SCARAVELLI
(si veda) per l’inter- pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a BRANDI
(si veda). È stato infatti proprio CARABELLESE (si veda) ad aver criticato sia GENTILE
(si veda), sia CROCE (si veda) (come poi farà anche con SPIRITO (si veda) e CALOGERO
(si veda) per non aver colto il problema interno della filosofia, la domanda,
cioè, con cui la filosofia diventa problema a se stessa, si interroga sul suo
luogo, la sua possibilità, le sue pretese. In una postilla Carabellese spiega
così l’incomprensione da parte di Croce e di CALOGERO (si veda) del problema da
lui sollevato: Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più
del Croce) continuano a porre il problema della filosofia come problema del suo
oggetto, cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma
soltanto e sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono
questo con quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa
dimostra o consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storicismo)
d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non
porlo neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si
ricerca neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa
dimostra. G., Il piccolo Ottocento italiano”, in MELIS (si veda), La scoperta
del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma G. e Fasoli,
Il mestiere di capire, Carabellese, L’ontologismo critico,saggi, Che cos’è la
filosofia, Signorelli, Roma Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come
filosofia non speciale Il problema della riflessione sul senso, per
Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama il paradosso della filosofia
nel suo saggio intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non
speciale. È forse il libro più impegnativo che G. scrive, e certamente uno
snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì G. cita Carabellese e il suo
saggio, e la replica di Croce, sostenendo che entrambi facciano valere
un’esigenza legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la
filosofia è a se stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la
filosofia si conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza
e del fare concreti e storici. Entrambi, in sostanza, intendevano rifiutare
l’idea di un luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della
parzialità e complementarità delle loro posizioni, che se rettamente intese si
compongono in quello che G. chiamerà appunto il paradosso fondante della
filosofia. Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigura una
antinomia non risolta, formulata da G. in questo modo: Un problema interno
della filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un
suo luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da
Carabellese; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e
questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabellese
insignificante. G. fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure
po- neva un problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo-
samente, era quello di considerare la filosofia, in quanto si pone il suo problema
interno, come una sorta di meta-linguaggio che si esercita su un linguaggio
oggetto già compattamente costituito (una metafisica, o un sistema, quale era
per lo stesso Carabellese il suo ontologismo critico), perdendo di vista
proprio quel paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in
un paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di CARABELLESE
(si veda) e di CROCE (si veda) è invece comprendere la filosofia come risalimento,
o come quel guardare- attraverso che risale dalla concretezza dei fenomeni,
dall’interno dell’esperienza concreta in cui stiamo, alle loro condizioni di
possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia da qualche
parte, e senza G., Senso e paradosso Velotti però neppure vederla
disciolta nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso» deve essere
inteso dunque come «un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice
guardare a meno di un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty [“whom Austin hated” – Grice – “but then
why do you go to Royaumont in the first place?”], G. riassume così la sua
posizione. Una
filosofia di questo tipo include la propria stranez- za, perché non è mai del
tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo. Questa stranezza, questo
paradosso fondante, era presentato da G. come una posizione fedele alla
tradizione critica, in quanto opposta a posizioni metafisiche, nella specifica
accezione di “non criti- che”, sia di stampo razionalistico, sia di stampo
ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli anni in cui in Italia Rorty e il
suo neopragmatismo sembravano raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo
specchio della natura era stato presentato da VATTIMO (si veda) e Marconi, che
aprivano la loro introduzione sottolineando come questo libro si presentasse
esplicitamente come epocale), G. vi scorgeva una delle due prospettive
metafisiche, non critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un
lato, infatti, è certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa
di una God’s eye view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno
“veramente” le cose nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse
che tra noi e il mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o
intuitivi, presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa
situazione al di fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di
chi proponeva l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari –
come Putnam (“He had the cheek to say I was too formal! – GRICE) – per
confutarlo: per G., porlo e comunicarlo è già confutarlo; immaginarlo o
escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non escogitato.
Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione op- posta e
complementare, apparentemente demistificante, di chi, come il neopragmatista
Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra, cioè
inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze, culturali
storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che avanzano
pretese universali, e dovremmo conside- [G. e Fasoli, Il mestiere di capire, Rorty,
Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton, Trad. di Millone e Salizzoni,
La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale rare
piuttosto la filosofia come un genere letterario tra gli altri. G. replica:
Rorty avrà anche ragione, ma commette un unico errore, affermarlo. È questo
quel taciuto guardare-attraverso – negato in teoria, e quindi fatto valere
metafisicamente come un ritorno del rimosso a cui alludeva G. nel passo citato
poco sopra dell’intervista con FASOLI (si veda), cioè la pretesa di stare
sempre alle determinatezze dell’esperienza, di sbarazzarsi di ogni riferimento
alla sua totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella
stessa pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in
volta di esperienze solo con- tingenti e determinate. Per G., infatti, non si
tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in
aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le
chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto
dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta,
saremmo cose tra le cose. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso
i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti
nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di
affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende
le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza
nella sua totalità indeterminabile. È questo movimento che G. ravvisa in
Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger sulla scorta dei quali la
filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma
che includono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere. Questo
paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del- l’esperienza e
può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate da Kant, in
particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che, nel modo più
schematico, Kant formula in questo modo. Tesi: il giudizio di gusto non si
fonda su concetti, ché altrimenti se ne potrebbe disputare (decidere mediante
prove. Questa argomentazione, qui appena accennata, viene sviluppata da G. nell’Estetica.
Uno sguardo-attraverso, anche in relazione ad alcuni autori classici e a
diversi autori contemporanei. Su questo punto potrebbe aprirsi un confronto con
il diversificato universo di alcu- ni nuovi realismi-materialismi oggi in voga
(per esempio quello della flat ontology), che propongono una visione degli
esseri umani proprio come cose tra le cose G., Senso e paradosso Velotti Antitesi:
il giudizio di gusto si fonda su concetti, ché altrimenti, malgrado le
differenze dei giudizi, non se ne potrebbe neppure discutere (avanzare
l’esigenza del consenso necessario di altri con tale giudizio. L’antinomia può
irrigidirsi in una contraddizione, oppure essere composta (non eliminata, ma
compresa e resa praticabile), come fa Kant, spiegando che nella prima tesi si
tratta di concetti determinati, nella seconda di concetti indeterminati. Ora,
la struttura di questa antino- mia, e il modo in cui Kant la compone, è omologa
a quella che G. fa valere, per esempio, in relazione al linguaggio, il motivo
per cui Rorty non può affermare quel che l’uso stesso del linguaggio confuta.
Un saggio dedicato a MAURO (si veda), L’indeterminatezza semantica, una
questione liminare, si apre con una frase che annuncia la riproposizione della
struttura dell’antinomia kantiana della facoltà di giudicare, che G. propone
poco dopo: Che il linguaggio sia stato talvolta considerato atto creativo individuale
e irripetibile oppure realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità
già interamente previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due
ipotesi esclusive e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più,
in quanto entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività –
fanno valere «un’esigenza che non può neppure essere lasciata cadere. E infatti
poco dopo G. riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana, enunciando
una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso del
linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni sua
presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e non
ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone
l’indeterminatezza del- Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in zehn
Bänden, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmastad Trad.
it. di E. G. e H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi,
Torino G., L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza,
Bari. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni
et al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Bari. Il senso dell’esperienza: G. e
l’estetica come filosofia non speciale la sua possibilità, prima di ogni
unità e regole determinate, ché altrimenti non potremmo neppure determinare
unità e regole per usarlo e intenderci. L’antinomia nasce dal fatto che «quando
parliamo, usiamo il linguag- gio così e così, in certe sue espressioni
determinate, e nello stesso tempo lo usiamo nella sua totalità possibile
indeterminata o, detto ancora altrimenti, per un verso il linguaggio richiede
come una sua propria condizione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio
perché la richiede, la nega in favore delle sue determinazioni: non si
darebbero espressio- ni linguistiche determinate, dotate di questo o quel
significato, se non le comprendessimo come tali, cioè nella loro
determinatezza, e dunque a condizione di un riferimento a una totalità
indeterminata che le rende possibili e che esse negano in quanto, appunto,
determinate. È questo il nodo a cui Garroni arriva sempre, che indaghi il linguaggio
o la percezione [cf. GRICE e WARNOCK on SEEING – VEDERE], l’organizzazione
della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura
dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo
e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica
presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in
questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni
sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo
motivo mi permetto di citare diffusamente. Ma l’analogia tra questa antinomia
[kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma
tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni concetto
determinato/ concetto indeterminato e determinazione/indeterminatezza del
linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro
argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di
giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è
possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che
Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio
della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la
ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e
tuttavia sono altrettanto indispensabili Velotti alla conoscenza
empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za, che è, sì,
intellettualmente e sensibilmente determinata procede, per quanto le è dato,
mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi leggi sotto
leggi più potenti, non sarebbe possibile se non si inscrivesse innanzitutto
nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata delle possibili
conoscenze determinate – Kant scrive d’una conoscenza di oggetti dati in genere,
se insomma, sull’occasione di rappresentazioni deter- minate, come nel caso
esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non avessimo coscienza forzatamente
non intellettuale che una conoscenza d’esperienza è possibile. Esperienza
possibile, però, non nel senso della possibilità della conoscenza in genere
della prima Critica, che ci dà appunto solo una tessitura analitica, ma nel
senso che è possibile e ha in generale senso cercare di deter- minarla
intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza sotto il principio della
facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della conoscenza d’esperienza
possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né tantomeno possiamo fare una
conoscenza di esperienza. Non si fa esperienza di un’esperienza in genere. Ne
sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza determinata, cioè non la cono-
sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn, senso o sentimento comune,
che abbiamo in comune, che ci assicura a priori della comunicabilità universale
delle rappresentazioni e delle conoscenze, il quale esibisce sensibilmente e
indirettamente ciò che non è propriamente esibibile e che la ragione può
soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea indeterminata di una totalità,
viene in qualche modo messa in scena sensibilmente mediante la facoltà di
giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso comune o il gusto, cioè
mediante il sentire esteticamente dunque l’interna indeterminatezza del
determinato. Sentire l’interna INDETERMINATEZZA [GRICE INDETERMINACY OF
IMPLICATURE] del determinato è uno dei modi per capire in che modo il paradosso
fondante della filosofia fa della filosofia, come estetica non speciale, una
riflessione sul senso dell’esperienza. Se vogliamo restare sul piano
linguistico, possiamo dire infatti che dare significato ai concetti è
determinarli, per esempio mediante uno schema empirico o trascendentale, sempre
a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento
all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza,
che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in
Rorty), proprio in virtù di un SURRETTIZIO riferirvisi. Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale. Il gioco delle
parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è affrontato da G. in
molte altre occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza, poi
pubblicata in appendice al volume, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il
titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il
senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come
anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati possono
significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso
che rende possibile e traspare in ogni SIGNIFICATO DETERMINATO, non rischiamo
infatti di parificare tutti i significati nel loro essere varianti di
sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’
nel loro proprio far senso? Come se la filosofia critica, spinta fino a questo
punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso
condiziona. Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i
significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi,
convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo
problema, G. lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte l’antropologia
in relazione all’etnocentrismo: l’irrinunciabile rispetto che l’antropologia
moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti, d’altra parte, di
parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza, togliendole
“serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente inaccettabili, avevano
però almeno il pregio di prendere le culture nella loro serietà. Ma era proprio
questo ciò su cui si interroga G.: non tanto la questione delle culture altre,
ma della nostra stessa cultura. E conclude così. Le considerazioni appena
svolte non hanno una vera e propria conclusione. Si può dire solo questo: che
si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del
paradosso G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Cfr. G., Senso e paradosso. Si
potrebbe sostenere che questo imperialismo della sensatezza sia stato
proclamato e poi smentito da Fukuyama nel suo The End of History and the Last
Man, mentre l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro
serietà, e tuttavia prenderle così seriamente da negargli una dimensione comune
di senso – veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash
of Civilizations and the Remaking of the World Order. Le due posizioni,
insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non
composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica, Studi
di estetica Velotti in cui consiste la filosofia, vale a dire: che
il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso,
in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla [...] Forse
il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse, ritroviamo
– come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del
senso e le radici etiche del dover-essere. Il problema del prevalere della
sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso in non-senso è
strettamente legato al problema spinoso della perdita di esemplarità dell’arte,
della questione, cioè, se l’arte non ha progressivamente ceduto a un’aderenza
sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua
ottusità, il suo darsi di fatto, come mero accompagnamento del senso, avendo
per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella regola che
non si può addurre di cui parla Kant nella terza Critica; una regola
indeterminata che, non potendosi addurre, formulare o esplicitare. può essere,
appunto, solo esemplificata in un esempio singolare, inassimilabile a un
esempio inteso come membro di una classe. Nel denso saggio di G. Immagine
Linguaggio Figura troviamo spunti inediti, ma anche una nuova sintesi di
decenni di studi e ricerche. È un libro bello e importante, che attende ancora
di essere esplorato a fondo, in tutta la sua fecondità, anche in relazione a
ricerche in atto nel panorama nazionale e internazionale, ma che qui non posso
affrontare in modo minimamente adeguato. Ricordo solo che il perno intorno a
cui ruota è la nozione d’immagine interna che ha preso forma attraverso l’assiduo
ripensamento del cosiddetto schematismo” kantiano, e che non è confondibile in
alcun modo con l’idea di poter spiegare qualcosa della percezione o del
riferimento al mondo – rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte
dalle figure che nell’uso comune chiamiamo immagini, ma che non possono essere
altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni dell’immagini interne, l’immagini
interne sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi,
degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e
ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi ogni obiezione legata alla
presuppo- [G. Estetica. Uno sguardo-attraverso, G., Immagine linguaggio figura.
Osservazioni e ipotesi, Laterza, Bari G., Immagine linguaggio figura. Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come
filosofia non speciale sizione indebita e circolare di un
homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella testa”. Figure
nella testa non ce ne sono. In questo libro tornano anche temi antichi come
quello, centrale, della metaoperatività, un concetto già introdotto oltre
trent’anni prima, in Ricognizione della semiotica. È l’anticipazione di uno dei
temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il titolo di metarappresentazioni,
ma che in G. si estende già all’intero ambito dell’operare umano un operare che
è senso-motorio, pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo. In analogia e
in correlazione con la funzione metalinguistica che è sempre implicata nelle
funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur
sempre una funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello G.
introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in tutte le
operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che distingue, in
sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da un’operazione che
include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un chiodo con un
martello è sì un’operazione determinata, concreta, e dotata di uno scopo
preciso, ma come operazione umana contiene già dentro di sé una famiglia o una
classe di operazioni possibili qualcosa, dunque, che potrebbe essere chiamato
uno schema operativo. In Immagine linguaggio figura la nostra capacità
metaoperativa viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro
di quella che G. chiama complessivamente facoltà dell’immagine, che è
responsabile sia delle sensazioni come precedenti di un’immagine, sia delle
percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo),
sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto
riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione e immaginazione
sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non fissabili in
un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile, [G.,
Ricognizione della semiotica, Officina, Roma Cfr. per esempio Sperber, Metarepresentations.
A Multidisciplinary Perspective, Oxford. Una formulazione molto simile dei
rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e metaoperazione all’interno
di una prospettiva enattiva sulla percezione, a cui credo sia riconducibile per
molti versi anche quella proposta da G. è possibile riscontrarla nei saggi di NOË
(si veda). Per un confronto, su questi temi, tra G. e NOË (si veda), cfr. S.
Velotti, Tecnica, in Ferrario, Estetica dell’arte contemporanea, Meltemi,
Milano. G., Immagine linguaggio figura Velotti dunque distinte
dall’immagine-SEGNO materialmente intesa, la figura, appunto, e che è invece
sostanzialmente statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur sempre
capo a figure per quanto possano essere mobili, processuali, evanescenti,
eventuali è considerata da G. come il venire in primo piano di questa
dimensione metaoperativa una rielaborazione della kantiana conformità a scopi
senza scopo interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo
«ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano vengono in primo piano
questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa
a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se
non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza, come
quella d’aggregato. Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente
di uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve
dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto anche il
costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e
proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento
degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che
presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una
pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito solo
percettivamente da un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti
effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un
aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima
somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra
disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente
di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di
eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. Né la funzione dell’aggregato si
esaurisce all’interno della prima infanzia, o nelle ipotesi relative a una infanzia
dell’umanità o in forme di pensiero magico, se, come nota G., Ancora oggi,
nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo alle
considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di Winnicot in Senso e
paradosso, G., Immagine linguaggio figura Il senso dell’esperienza: G. e
l’estetica come filosofia non speciale sere evitati paradossi liminari,
che denunciano in un certo senso la persistenza dell’ufficio, pur
intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini
diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione unitaria e non più
risalibile. Basta pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra
incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro
richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e
non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi,
e così via. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di G.,
molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con
«acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle
pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua
importante eco. È un polittico dipinto da G. sulla soglia dei sessant’anni –
dopo aver subito una seria operazione chirurgica, composto da 13 comparti, che
formano un quadrato di 115 cm per lato. Collezione privata Velotti Alcuni
comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vissuti come oggetti
estranei e familiari a un tempo. Figurano anche strumenti di studio e di
affezione dalla Critica del giudizio a Tempo e racconto di Ricoeur, cose amate,
come il Dissonanzen Quartett di Mozart che dà anche il titolo a un suo
romanzo-saggio. Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti nel
dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione. Quando dicevo che la
passione dominante di G. è quella di capire, di comprendere, pensavo anche a
questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica proprio in
un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su cosa si prova
ad essere un homo sapiens. Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di G. un’occasione per elaborare, anche
operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e
intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire
soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover
essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere
in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le
corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra
determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è
possibile, nota G. in alcune notevoli pagine del suo saggio, mirare a cogliere
l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il determinato.
E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di apparente
non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva intervengono in modo
tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non riconosciamo neppure il
nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo aggrovigliato. Forse vedremmo, per
così dire, solo l’indeterminato e ci sfuggirebbe affatto il determinato
connesso con il riconoscimento di oggetti? Si può rispondere tranquillamente di
no. Salvi i casi di patologie gravi, quando il mondo può forse divenire solo un
magma indecifrabile e viene meno perfino il senso della nostra identità ma
parimenti dovremmo escludere il caso estremo del coma, se non addirittura
dell’essere già morti, il riconoscimento non G., Dissonanzen-Quartett. Una
storia, Pratiche, Parma Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è
stata avanzata da Olivetti, dice. Primi appunti su un Autoritratto di G.,
pubblicato nel catalogo della mostra G. Un Autoritratto, Sala Santa Rita
dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma. G., Immagine
linguaggio figura, Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non
speciale viene meno neanche nel caso di un risveglio depresso e
confuso. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli oggetti e
delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti indipendenti e in
qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il riconoscimento, non
lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede presuppone un
riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo è il nostro piede e per
questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene depotenziato e in certo
senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe esserci estraneo, ma il
fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia cosiffatto e ci appartenga. E
insomma la sensazione della stranezza delle cose del mondo, esterne e nostre.
Il che implica un riconoscimento sgradito, languoroso e stupefatto48. Nelle
ultime pagine, poi, il tono sempre controllato di G., tendente piuttosto
all’ironia e allo humour che allo scoramento, si lascia andare anche a parole
amare sul nostro presente (sono gli anni del ventennio berlusconiano, che
abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a cambiare i parametri della vita
pubblica, la mente dei cittadini): Ormai si è istituzionalizzato il banale ed
espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte, di cui ci importa fino a un
certo punto e solo a certe condizioni, ma soprattutto il comportamento civile,
le ir- rinunciabili esigenze etiche, l’interesse alla comprensione delle cose,
insomma: la mente dei cittadini, di cui invece ci importa molto in primissima
istanza. E con una specie di apologo politico di trista attualità ho messo
termine a questo saggio. La facoltà dell’immagine di G. e il suo contributo
alla ricerca sulla percezione, i contenuti non concettuali e
l’immaginazione . Il saggio di G., Immagine Linguaggio Figura,
è in parte una ripresa e un ripensamento di alcuni temi trattati quasi
trent’anni prima in Ricognizione della semiotica Da una
rielaborazione dei problemi abbozzati in questo volume, e grazie a
un’assidua interpretazione e rielaborazione del pensiero kantiano, G.
arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni irriducibili della
sensibilità e dell’intelletto in termini di facoltà
dell’immagine, da un lato, e di linguaggio e concetti, dall’altro.
Nonostante Immagine Linguaggio Figura nomini fin dal titolo il
problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma kantianamente
irriducibili dell’esperienza umana , lo statuto del linguaggio non è qui
affrontato nella sua problematicità complessiva all’interno di tale
esperie nza, ma solo in relazione all’«immagine interna», che deve essere
considerata «la premessa e la garanzia della realtà del significato delle
parole del linguaggio. Naturalmente, Relazione tenuta al convegno di studi
“G.: determinazioni e dissonanze, Chieti, G., Immagine Linguaggio
Figura. Osservazioni e ipotesi, Roma-Bari, Laterza Ricognizione della
semiotica. Roma, Officina. Immagine Linguaggio Figura, dove G. precisa. Chiamo
complessivamente immagine interna sia il precedente d’un’immagine, sensazione,
sia l’immagine in quanto attualmente prodotta, percezione, sia l’immagine
in quanto riprodotta o ricordata, rielaborata, immaginazione, per distinguerle
complessivamente dalla figura esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno.
Perciò mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è responsabi le facoltà
dell’immagine, tale da riunire in sé sensazione, percezione, immaginazione. Immagine
Linguaggio Figura. non bisogna cadere nell’errore di considerare l’immagini
interne come figure (Bilder, pictures) che avremmo nella mente. G. conosce
bene la critica wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e
insostenibile. Anzi, si potrebbe considerare la teoria dell’immagine interna
come una lunga e meditata replica a chi confonde la critica di
Wittgenstein con un rifiuto di attribuire ogni valore cognitivo o semantico
alla nostra attività percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio.
Per integrare quanto è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor
tuno tenere presente l’articolo che G. dedica a Minisemantica
di MAURO (si veda), caratteristicamente intitolato L’indeterminatezza
semantica, una questione liminare. Sia sul versante della percezione e
dell’immagine, sia su quello del linguaggio e dei concetti, troviamo
infatti in quest’articolo quella correlazione di determinato e
indeterminato che è forse il nodo teorico che G. ha pensato più a fondo e nelle
sue molteplici articolazioni: il paradosso fondante della filosofia, ma a nche
dell’esperienza comune di cui G. parla prima nella voce i paradossi
dell’esperienza scritta per l’enciclopedia Einaudi , e
poi in Senso e paradosso non è altro che un’antinomia inevitabile,
modellata sull’antinomia della facoltà di giudizio della terza Critica kantiana.
La relazione paradossale tra determinatezza e indeterminatezza è al
centro sia della trattazione della facoltà dell’immagine, sia della
facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un verso, mostrare quale aspetto
abbiano assunto nell’ultimo libro certi problemi già impostati in
Ricognizione della semiotica creando MAURO [si veda], Minisemantica,
Roma-Bari, Laterza; G., L’indeterminatezza semantica, una questione
liminare , in Ai limiti del linguaggio, cur. LEONI, GAMBARARA, GENSINI, PIPARO, SIMONE,
Bari, Laterza, poi in G., L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica
e di critica, Bari, Laterza. G., I paradossi
dell’esperienza , in Enciclopedia Einaudi, Sistematica
, Einaudi, Torino; Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non
speciale, Bari, Laterza così un asse verticale, o di profondità temporale,
all’interno de lla ricerca stessa di G.; per altro verso, però, vorrei tentare
qualche rapido confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati in
Immagine Linguaggio Figura e la filosofia contemporanea, soprattutto di
area analitica, con qualche riferimento anche all ’ambito della
psicologia cognitiva e discipline affini. Con il corrodersi della filosofia
linguistica, infatti, o, se si vuole, con l’apertura della linguistic
turn al non linguistico quest’area di ricerca permette di riscoprire
il problema della percezione e dell’immaginazione, creando ambiti
disciplinari anche molto specialistici su questioni strettamente interconnesse:
dal problema della natura della mental imagery a quello dei
cosiddetti contenuti non concettuali della percezione in cui un ruolo di
rilievo assume anche la percezione e la cognizione degli animali non umani, da
sempre tenuta presente da G.; da quello della natura delle rappresentazioni
mentali a quello delle numerose prestazioni assegnate oggi in ambito analitico
e cognitivistico all’immaginazione. A lungo considerata in
area analitica come una “facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da
qualche anno a questa parte l’immaginazione è al centro di molte aree di
ricerca: se ne parla i n relazione ai giochi di far finta games of make believe
sia nel campo delle arti che in quello più generale dell’esperienza
comune 9 Cfr. l’ampio contributo di THOMAS, Mental
Imagery, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, cur. ZALTA plato. stanford. edu/
archives/ win2011/ entries/ mental-imagery/. Si tratta di un buon contributo,
ma è sintomatico che proprio allo schematismo kantiano Thomas dedica uno spazio
molto ridotto, e limitato alla schematismo trascendentale dell’intelletto della
prima Critica: aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo
cui lo schematismo è un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui
vero impiego difficilmente saremo in grado di strappare alla natura per
esibirlo patentemente dinanzi agl’occhi, Thomas mette da parte il problema
concludendo che Kant, -- in attempting to grapple with problems about the
nature of mental representation that the empiricists had failed to solve, leaves
the process of image formation, and the nature of image itself, deeply
misterious. Cfr. WALTON, Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of
Representational Arts, Harvard, (trad. it. di NANI, Mimesi come far finta,
Milano, Mimesis, alle ricerche sull’autismo considerato da alcuni come una patologia
dell’immaginazione, a quelle sull’EMPATIA e sulla simulazione, ai
cosiddetti paradossi della finzione, della suspense o della resistenza
immaginativa, e ai tentativi, o alle rinunce, di fornire una nozione unitaria
di immaginazione che ne comprenda le varie declinazioni: un’immaginazione pr
oposizionale e non proposizionale, una ricostruttiva e una creativa,
e così via 11. Immagine Linguaggio Figura è stato scritto
senza note e senza riferimenti espliciti ad altri autori o ad altre ricerche
contemporanee. Ma è tutt’altro che un libro estemporaneo o isolato.
Anzi, G. lo ha potuto scrivere liberamente, quasi di getto, solo perché sono
almeno trent’anni che anda elaborando quei pensieri. Abituati ormai a
pensare, come è d’uso nella filosofia analitica, sotto l’ombrello
di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici di
fondo nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi nel caso
della mental imagery , per esempio, il primo discrimine che troviamo
è quello fotografato dall’annoso e fuorviante dibattito tra
sostenitori delle teorie analogiche e delle teorie PROPOSIZIONALI,
la riflessione di G. sembra condotta in isolamento, e risulta difficile
da collocare sotto un’etichetta univoca. Mentre non credo che le
etichette servano davvero, in quanto tali, a far progredire la comprensione dei
problemi, credo invece che un confronto sostanziale tra le proposte di G. e
quelle elaborate in ambito anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli
schieramenti. In ogni modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di G.
in quel dibattito che nel bene e nel male è sempre più ristretto,
specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre volte utile a
chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì, magari, non sono
contemplate -, potremmo orientarci verso l’ambito delle teorie enattive, enactive,
della percezione e delle Per il nuovo interesse suscitato
dall’immaginazione in ambito anglosassone negli ultimi decenni, e le
relative indicazioni bibliografiche, rimando a VELOTTI, La filosofia e le
arti. Sentire, pensare, immaginare, Roma-Bari, Laterza, in particolare il
cap. 3immagini mentali, che costituiscono una terza via non computazionale rispetto
a quelle analogiche e a quelle PROPOSIZIONALI (cf. Grice, CONTENUTO
PROPOSIZIONALE). Come che stiano le cose rispetto a questi orientamenti,
il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni di G. e le teorie
della percezione, delle immagini mentali, dell’immaginazione
nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico, estetico, artistico è
un lavoro ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in relazione al problema
dei cosiddetti contenuti non concettuali della percezione, cominciando
però dallo sviluppo interno al pensiero di G. stesso, e in particolare dall’insoddisfazione
per la semiotica denuncia. Alla domanda se la semiotica è sufficiente
a se stessa, G. rispondeva di no, perché
la semiotica non poteva indagare il problema delle condizioni grazie a cui un
qualcosa diviene SEGNO. Lì G. invoca la costruzione di una semantica
trascendentale come metateoria di una semantica empirica e di una semantica
logica, e indica il suo oggetto specifico nei significati trascendentali,
cioè negli schemi dell’immaginazione, affrontati in sede di schematismo
trascendentale nella Kritik der reinen Vernunft. G., d’altra parte, avverte
avendo pubblicato Estetica ed epistemologia l’insufficienza dello
schematismo trascendentale della prima Critica, valido solo per le
condizioni de)la conoscenza in genere überhaupt, ma non per comprendere la
conoscenza effettiva o determinata, e rimanda al principio trascendentale
soggettivo, creativo e costruttivo indagato da Kant nella terza
Critica. Nella Premessa a Immagine Linguaggio Figura si dice
che l’enigma dell’immagine interna, G., Ricognizione. G., Estetica ed
epistemologia. Riflessioni sulla CRITICA DEL GIUDIZIO di Kant, Roma,
Bulzoni, nuova ed. con una nuova premessa, Milano, Unicopli. G., Ricognizione,
vero e proprio tema centrale del saggio, ha preso forma attraverso l’assiduo ripensamento
del cosiddetto schematismo kantiano. Dunque, una continuità con l’opera,
ma certamente anche un’importante discontinuità: lo schematismo trascendentale,
quello dei concetti puri dell’intelletto, passa decisamente in secondo piano
nell’ultimo libro, mentre a venire in primo piano sono lo schematismo
empirico - quello cioè che permette di pensare la costruzione dei concetti
empirici a partire dalla percezione, che Kant nella terza Critica chiama
esempio - e lo schematismo simbolico, quello che funziona per analogia, in
relazione a concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo
delle cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del
nostro linguaggio. Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili grazie
alla distinzione - disponibile solo a partire dalla terza Critica tra
uno schematismo oggettivo e un libero schematismo, si intrecciano sempre nella
produzione effettiva di enunciati e figure significanti, ma devono essere
distinti a livello analitico. Nella Ricognizione della semiotica G.
mette in chiaro come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni
concezione ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una
direzione di ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si dice. Il referente non
è la cosa stessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle
e configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’operazione a
sua volta è questo stesso concreto manipolare, che non può essere
disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le nostre
manipolazioni delle cose, cioè dal nostro prendere le distanze dagli stimoli
immediati, e che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e
parlarne Immagine Linguaggio Figura, Cfr. KANT, CRITICA DELLA FACOLTÀ DI
GIUDIZIO, ed. it. cur. G. e HOHENEGGER, Torino, Einaudi, in particolare l’introduzione
dei curatori. Sull’analogia in Kant v. CAPOZZI, L’inferenze del giudizio
riflettente in Kant: l’induzione e l’analogia, Studi kantiani, G., Ricognizione.
È evidente, mi pare, che l’operazione di cui si parla include anche la
nostra nativa attività percettiva che verrà poi indagata attraverso il problema
della costituzione, della natura e della funzione delle immagini interne.
Distinte dalle figure che non possono essere altro che elaborazioni,
esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini interne), le immagini interne sono
innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni attive e mobili, per scorci sempre
diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte,
rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi ogni
obiezione legata alla presupposizione indebita e circolare di un HOMUNCULUS
(cf. CUMMINS ON GRICE) homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di figure
nella testa. Figure nella testa non ce ne sono. È invece questa
operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i regresso
all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare una
spiegazione, in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un ruolo decisivo gioca
qui la nozione di metaoperatività introdotta in
Ricognizione della semiotica e poi ripresa, anche terminologicamente, in
tutta la sua importanza, solo trent’anni anni dopo. È interessante
come, anche in questo caso, G. anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in
ambito cognitivo, sotto il t itolo di meta-rappresentazioni , ma che in G. si
es tende già all’intero ambito dell’operare umano, un operare che è pragmatico
e corporeo, percettivo, cognitivo. In analogia e in correlazione con la
funzione metalinguistica che per G. è sempre implicata nelle funzioni di
primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una
funzione che può essere solo interna al linguaggio di primo livello G.
introduce la nozione di metaoperatività come interna a qualsiasi o perazione
umana. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del G., Ricognizione,
Cfr. Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, cur. SPERBER, Oxford
genere STIMOLO-RISPOSTA da un’operazione che include già dentro di sé una
generalizzazione. P iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione
determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma come operazione
umana contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni
possibili qualcosa, dunque, ch e potrebbe essere chiamato uno schema operativo:
piantare questo ch iodo, per l’uomo, suppone piantare i chiodi in generale,
cioè un comportamento operativo metaoperativo rispetto a quello volto alla
fabbricazione di strumenti e alla determinazion e di variabili operative; e il piantare
chiodi in generale suppone ul teriormente l’operare in generale in vista d i
possibili variabili operative, cioè un comportamento specificamente
metaoperativo. Persino l’operare per prova ed errore tipico del comportamento
animale non umano - suppone nell’uomo un piano, una consapevolezza di
operare per prova ed errore. Sappiamo che proprio l’attività artistica è
considerata da G. come l’esemplificarsi di questa dimensione metaoperativa, e
che questa dimensione metaoperativa non è altro che una riformulazione
della kantiana «conformità a scopi senza scopo. La terza parte di ricognizione
della semiotica è tutta incentrata sui cosiddetti linguaggi
artistici, che LINGUAGGI PROPRIAMENTE NON SONO, non solo in quanto PRIVI
DI UN CODICE, ma in quanto strettamente condizionati da un’operatività e
da una meta-operatività irriducibili a linguaggio. Tutte le arti di cui G. lì
parla dall’architettura alla musica, dalla poesia alla narrativa alla pittura sono
indagate a partire dal modo in cui in esse prende corpo questa nostra capacità
metaoperativa, di per sé inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in
tutti i prodotti umani, e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa
nozione di stile viene riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici
metaoperativi. In estrema sintesi, questa capacità metaoperativa viene
caratterizzata come una condizione G., Ricognizione nozioni
diverse, quali gli oggetti che Winnicott ha chiamato «transizionali, di quelli
che Dummett ha chiamato proto-pensieri, che sono analoghi poi a quelli che
alcuni studiosi a partire da Evans chiamano contenuti non
concettuali della percezione (c ontraddicendo, dunque, l’idea fatta
valere da FERRARIS (si veda) secondo cui la tradizione kantiana decreta
l’equivalenza tra epistemologia e ontologia, cioè l’assimilazione di tutto
il reale, di quel che c’è, a quel che possiamo conoscerne grazie ai
nostri schemi concettuali, gettando così le premesse del radicale
prospettivismo e costruzionismo nietszscheano secondo cui non esistono
fatti ma solo interpretazioni, e di qui del postmoderno, del neopragmatismo
alla Rorty, del decostruzionismo secondo cui niente è fuori dal testo, e così
via . affidata a un principio estet ico che esprime un’originaria
adesione del soggetto all’esperienza, e insieme un’anticipazione distanziante
di questa. Già in Senso e paradosso, G. s’è riferito in un altro
contesto agli oggetti transizionali di Winnicott mediatori tra il narcisismo
infantile, o primario, e le relazioni oggettuali, obbedienti a quel
principio di confusività che violerebbe appunto il principio aristotelico di
non contraddizione accostandoli da un lato all’ Unheimliches freudiano e,
dall’altro, alla paradossale unità di determinato e indeterminato che ha
nell’opera d’arte e nell’esperienza estetica una sua manifetsazione esemplare. Non
c’è esperienza ben determinata, apparentem ente solo ovvia, che non presupponga
una condizione di transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi
tipici oggetti transizionali non sono che concretizzazioni di un
paradosso-senso. Qui si legittima anche la creatività che viene esemplar
mente e più tipicamente esibita oggi, per noi e dal punto di vista di una
riflessione estetica, da ciò che chiamiamo arte ed esperienza estetica DUMMET, Origins
of Analytical Philosophy, Harvard, ed. cur. PICARDI, Origini della
filosofia analitica, Torino, Einaudi. Il proto-pensiero si distingue dal
pensiero vero e proprio che è esercitato dagli esseri umani per i quali il
linguaggio ne è il veicolo per il fatto di non essere separabile dalle attività
e circostanze presenti non possiamo dare una spiegazione soddisfacente
della nostra capacità di base d’apprendimento e di orientamento nel mondo
trascurando il livello dei proto-pensieri. EVANS, The Varieties of
Reference, Oxford. FERRARIS, tra i tanti testi e articoli in cui sostiene
questa tesi, si veda da ultimo il manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari,
Laterza. Per una discussione più articolata di questadel l’esperienza che
funziona come unità costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e
operative», in dichiarata corrispondenza a quell’unità estetica delle
rappresentazioni di cui si occupa Kant nella Kritik der Urteilskraft. A
questo punto abbandono il saggio per vedere come queste problematiche
vengano riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel saggio. Il nuovo
strumento teorico che G. mette a punto, al di là del riferimento al principio
di una conformità a scopi senza scopo quale senso e sentimento comune, il
Gemeinsinn kantiano, è la nozione d’immagine interna, proprio a
partire da una rielaborazione del libero schematismo della terza
Critica. Qui la nostra capacità metaoperativa resta una nozione
importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo, ma viene reinterpretata e
specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G. chiama
complessivamente facoltà dell’immagine, che è responsabile sia delle
sensazioni (come precedenti di un’immagine), sia delle percezioni (le
immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia
dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto riprodotte
o ricordate- rielaborate. Quella che veniva chiamata per lo più operazione è
qui inn anzitutto l’attività di questa facoltà dell’immagine, dal livello
senso-motorio e non ancora associato effettivamente al linguaggio e ai
concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con linguaggio e concetti, ma pur
sempre all’interno di una non riducibilità dell’una dimensione all’altra.
Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte immagini interne
costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale,
e abitate da qualcosa di non sensibile, dunque distinte dall’immagine SEGNO
materialmente intesa, che G. chiama figura [ETIMOLOGIA INTERESANTE], e che è
invece sostanzialmente statica. G. Ricognizione, G. Immagine Linguaggio
Figura Una delle nozioni di maggior interesse che emerge subito assente,
direi, negli scritti precedenti è quella di aggregato. Si tratta di
qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere in
linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto il costituirsi di
famiglie, in senso wittgensteiniano, e di classi. Un aggregato è ciò che offre
una prima possibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una
famiglia o di una classe che presuppongono appunto una caratterizzazione di
tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali. Un aggregato è
invece costituito solo percettivamente – GRICE, POTCHING, NOT COTCHING -- e
costituisce un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti
effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un
aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una
minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un
cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non
chiaribile intellettualmente di tipo affettivo, emozionale,
fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti,
esaltanti. Mi sembra di poter dire che G. stia cercando di dar conto, con
una rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una sintesi
dell’apprensione, ancora priva di un’unità conc ettuale, della comune
radice di G., Immagine Linguaggio Figura. Ma G. segnala una
revisione tendenziale dell’estetica trascendentale kantiana a un
livello molto più radicale e produttivo, già da Senso e paradosso. Con
la riflessione estetica della Critica del Giudizio , il problema
dell’immaginazione viene in primo piano: nasce u n nuovo schematismo lo
schematismo libero, senza concetti, dell’immaginazione come
capacità originaria di organizzazione delle percezioni. Di conseguenza tende a
ridimensionarsi notevolmente la primitiva estetica trascendentale, nonché
la stessa logica trascendentale, della Critica della ragion pura.
Per esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello
spazio e del tempo non è che un aspetto, forse non il più
originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua elab
orazione nell’immaginazione non più soltanto produttiva e riproduttiva, ma
anche creatrice, non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali
rispetto a una materia sensibile. Il centro della questione, di fronte a
quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla
relazione tra aggregato e oggetto (GRICE OBBLE) transizionale, mi sembra che
uno degl’esempi portati in Immagine Linguaggio Figura non lasci
adito ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive G., prima che il
linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione
di un’intelligenza prev alentemente senso-motoria, si può
ipotizzare che si producano, nel la manipolazione degli oggetti, riconoscimenti,
usi e aggregati di oggetti in essi variamenti disposti. Un burattino può
essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un
vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una copertina o
un lenzuolino possono essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per
coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero della madre, il suo
abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non
ancora propriamente conosciuto e dominato; e così via. In questi casi
l’aggregato è lontanissimo dalla formazione di una futura tassonomia
intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non
fosse preceduta da quello. Se queste forme prelinguistiche di aggregazione e
riconoscimento sono però contrassegnate da una vocazione al linguaggio e
all’organizzazione concettuale, ci si può chiedere se siano pensabili
anche senza questa teleologia evolutiva e se non siano per caso da
pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune specificazioni, delle
rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie di animali non-umani.
A questi, infatti, G. riconosce non una vera percezione interpretante come
quella umana, ma neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente
distinto da un mondo come avevano fatto Scheler e Heidegger sulle orme di von
Uexküll. Forse la distinzione vale per l’ambiente sensoriale della zecca,
ma sarebbe diff icile dire la stessa cosa di un cane o delle grandi
scimmie. tesi rispetto a Kant, rimando a VELOTTI, Storia filosofica
dell’ignoranza, Roma-Bari, Laterza. G., Immagine Linguaggio Figura. G., Immagine
Linguaggio Figura. Un mondo, senza darne qui un’impossibile definizione e
accettando della parola solo l’indicazione di un senso complessivo della vita e
delle cose che la avvolgono, è attribuibile anche agli animali non-umani.
Solo che sembra presentarsi non come mondo in immagine, ma come comportamento,
in cui la sensazione, visiva o non visiva, svolge una funzione segnaletica e
non formativa, essenziale, ma non caratterizzante propriamente una co siddetta immagine
del mondo. Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione infantile e
degli animali non-umani perché è diventato forse l’argomento più
forte portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della
percezione. Questo confronto tra le posizioni di G. e quelle dei
sostenitori dei contenuti non concettuali (un’espressione che Garroni non usa
mai) richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione
tra l’ aggregato e i proto -pensieri di Dummett, una nozione elaborata proprio
per dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio,
proprie sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo
che sia necessario, anche per Dummett [WRIGLEY TO GRICE: MY THESIS WILL BE ON
DUMMETT’S FREGE – PHILOSOPHY OF LANGUAGE. HAVE YOU READ IT? GRICE: NO, AND I
HOPE I WON’T], distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di diventare
pensieri, o vocati a diventarlo, e quelli che non lo sono). Se menziono i
possibili punti di convergenza della riflessione di G. sulla irriducibilità
della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di tradizione
analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero di G. sta
al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di pochissimo
interesse. Il fatto è che G. mette in luce spesso senza portare fino in
fondo i dettagli dell’analisi aspetti, implicazioni e dimensioni del
problema che potrebbero essere molto fecondi se messi a contatto con la ricerca
contemporanea propria di quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non
si tratta solo di un generico auspicio di integrazione di prospettive diverse,
ma di confronti concreti G., Immagine Linguaggio Figura Non
solo in EVANS , cit., ma soprattutto, tra gli altri, in C. A. B. PEACOCKE, Does
perception have a nonconceptual content? Journal of Philosophy, e
Phenomenology and nonconceptual content , in “Philosophy and
Phenomenological Research”, e già anche in DRETSKE , Naturalizing
the Mind , MIT che potrebbero portare a risultati sorprendenti forse
anche in termini di nuove acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il primo,
già accennato, riguarda proprio i contenuti non concettuali. Il secondo
riguarda invece l’indeterminatezza delle immagini mentali A. È
indubbio che le principali ragioni che hanno portato la filosofia della
linguistic turn a occuparsi di fenomeni non linguistici, e in
particolare di contenuti percettivi non concettuali, è legata a una serie di
ragioni che trovano corrispondenze abbastanza puntuali in Garroni. E tuttavia,
nonost-ante la loro raffinatezza, spesso queste analisi sono incapaci di vedere
aspetti della questione che una riflessione filosofica come quella di G. aiuta
a scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al dibattito sui contenuti non
concettuali sono svariate. La possibilità, riconosciuta da G. con la nozione di’aggregato,
di rappresentare nella percezione stati di cose contraddittori o impossibili da
un punto di vista proposizionale e concettuale [SPERANZA MISE-EN-ABYME E GRICE:
l’esempio che si fa di s olito sono le figure di Escher, o la l’illusione della
cascata di Crane, ma l’aggregato di G., come abbiamo visto
rapidamente, coglie questa possibilità percettiva innanzitutto al livello
dell’immagine interna, e nella sua necessità non solo come fatto
accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura. Un
secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale sostene che il
contenuto della percezione è unit-free: percepisco una distanza CRANE,
The Waterfall Illusion, Analysis, Cfr. Immagine Linguaggio Figura, in cui G.
analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di alcune
figure, e il ruolo primario nei riguardi della varia interpretabilità del
percepibile giocato dall’indeterminatezza percettiva propria delle
immagini interne in relazione al mondo reale. PEACOCKE,
Analogue content, Proceedings of the Aristotelian Society, determinata
tra me e un oggetto senza per questo dover usare un’unità di misura.
E queste rappresentazioni sono irriducibilmente nonconcettuali. G., di
nuovo appoggiandosi qui implicitamente a Kant, usa un’argomentazione
analoga per mostrare come la percezione ci appaia legittimamente come
soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia nulla di contraddittorio o
ossimorico, in quanto la percezione fornisce valori oggettivi delle cose, per
esempio quantitativi, tali da poter essere poi
esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle
cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori oggettivi
è nostro [e questo avvertimento è non concettuale: nota mia]
e, tanto più, la nostra misurazione non sta nelle
cose , ma dipende da un’unità di misura da noi stabilita idonea
per l’esplicitazione concettuale di quei rapporti. L’avvertimento dei
valori quantitativi privo di un’unità di misura è dunque la condizione, non
concettuale estetica, direbbe G. con Kant di ogni misurazione oggettiva e
concettuale. 3. Un terzo argomento, avanzato da Evans e poi ripreso da molti, è
la maggiore finezza di grana della percezione rispetto alla grana dei
contenuti degli atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a
G. nella sua rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in relazione
agli aggregati, quanto al libero schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee
estetiche» (una modalità esemplare di «immagine interna», che Kant stesso
designa come «intuizione interna»: « dal punto di vista estetico
l’immaginazione è libera, al fine di fornire, ma in modo non ricercato una
copiosa e inesplicita materia [Stoff] all’intelletto, che questo,
nel suo concetto, non prendeva in considerazione ). E l’analisi,
centralissima, che G. dedica al libero schematismo, non si limita a un
riferimento alle ope re d’arte che sono, per Kant, espressioni di idee
estetiche, ma KANT, Critica della facoltà di giudizio, G.,
Immagine Linguaggio Figura . KANT , Critica della
facoltà di giudizio si allarga alla stessa costruzione di schemi per
concetti empirici. G. precisa infatti che lo stesso schema lo schema
empirico, l’immagine schema o, nel linguaggio della terza Critica
kantiana, l’esempio è possibile dentro il quadro del rapporto
dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi
tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici
percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non
sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no,
percepibili o no, c onfusi nell’indet erminatezza della totalità. Non si
tratta, è vero, di una percezione non relazionata ai concetti (dato il
rapporto dell’immaginazione con l’intelletto) , ma è anche vero che qui nessun
concetto determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e
anzi un concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire
da una totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o
concettualmente classificati. Nella prospettiva di G., la maggiore
“finezza di grana” della percezione verrebbe vista in un quadro più ampio
di quello analitico e cognitivista, che ha conseguenze antropologiche,
semantiche, di teoria dell’arte, mentre probabilmente potrebbe guadagnare
a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il
dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al
precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da Ayers, e riguarda la possibilità di acquisire
e apprendere concetti empirici. Se non si dessero contenuti non concettuali, o
il nostro ragionamento sarebbe circolare (coglieremmo già concettualmente
contenuti percettivi di cui invece, per ipotesi, dobbiamo costruire i
concetti), oppure dovremmo supporre un innatismo fortissimo e insostenibile.
La G., Immagine Linguaggio Figura, C. A. B. PEACOCKE, A study
of concepts, MIT, e Does perception..., cit.; AYERS, Sense experience,
concepts, and content: objections to Davidson and McDowell, in SCHUMACHER,
Perception and Reality: from Descartes to the Present, Paderborn, Mentis, 2ripresa
da parte di G. delle considerazioni svolte da ECO (si veda) nel suo Kant
e L’ORNITORINCO (che a sua volta si riferiva a G.) fornisce un modello per la
formazione dei concetti empirici proprio a partire dai contenuti non
concettuali, in forma di aggregati, che permette un riconoscimento percettivo
anteriore alla costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune.
Veniamo al secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di
provenienza analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche che le
differenzia dalle figure (pictures) è la loro indeterminatezza. Sembrerebbe,
questo, un tratto che li avvicina alla tesi di G. sul reciproco correlarsi di
determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi usa questa
argomentazione è quello di sostenere che le immagini mentali, essendo
indeterminate, sono più simili a descrizioni che a figure. L’argomento di
Dennett è abbastanza noto, e rig uarda il numero delle strisce del manto
di una tigre: in un’immagine mentale il numero delle strisce di una
tigre può essere indeterminato, mentre in una figura le strisce devono essere
numerabili, e dunque determinate. In una descrizione, il numero delle
strisce può essere indeterminato (“questa tigre ha numerose strisce sul
manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle descrizioni che alle
figure. Un’autorità sulla mental imagery come Thomas insieme
a molti altri sostiene che questo argomento non è valido, perché
un’immagine mentale di una tig re potrebbe avere un numero determinato di
strisce, solo che uno potrebbe non fare in tempo a contarle perché
l’immagine mentale svanisce velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una
figura di una tigre potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto
sfocata o sommaria, e G., Immagine Linguaggio Figura. Tra gli altri,
DENNETT, Content and Consciousness , London, Routledge & Kegan
Paul; PYLYSHIN , What the mind’s eye tells the mind’s brain: A critique
of mental imagery , “Psychological Bullettin”; tra i critici di
questa argomentazione, TYE, The Imagery Debate, MIT, anche una tigre
reale – presente alla percezione attuale e non
immaginata -, data la natura frammentaria, confusa e sfuggente delle sue
strisce, porrebbe molti dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra evidente
come Dennett e gli altri autori abbiano colto solo di sfuggita un carattere
delle immagini mentali o interne e ne abbiano tratto una conclusione
affrettata. E come le contro-argomentazioni di Thomas (insieme a quelle di
molti altri) si mantengano sullo stesso livello, senza prendere neppure in
considerazione la relazione, ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze,
colta da G. tra determinatezza e indeterminatezza dell’immagini interne e
il loro rapporto con le figure. L’indeterminatezza dell’immagine interna così
come viene pensata da G. - non è una figura sfocata o mancante di alcuni
particolari, o addirittura una figura che sarebbe determinabile se solo
avessimo il tempo di esaminarla nella nostra mente. La correlazione essenziale
tra determinatezza e indeterminatezza che la caratterizza è condizionata dal
fatto che è un’immagine dinamica e multimodale (visiva, olfattiva,
tattile, uditiva, mnemonica, affettiva, viscerale, e così via) e dunque
non è in nessun modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita o
evanescente. È piuttosto un’operazione nativa e attiva, che, nel caso
della percezione visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi
luminosi a cui è sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai
movimenti saccadici e di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe
neppure un’immagine retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta
attivamente e selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione
interpretante» sullo sfondo di un contesto oggettivo e soggettivo che si
allarga da quello visibile a quello non visibile, fino ad estendersi alle
altre caratteristiche non presenti (associazioni con altri oggetti e memorie
percettive). Il problema dell’indeterminatezza condizionante
dell’immagine interna non è tanto se possiamo contare o meno certi suoi
elementi, quanto quello di darne un resoconto teorico adeguato, che, per
esempio, non si 45 THOMAS, Mental Imagery, 1illuda di
poterla considerare come l’immagine interna di un oggetto già definito e
isolato dagli altri oggetti, dal mondo soggettivo e oggettivo e dal sentimento
della totalità dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si possono anche
costruire modellini della percezione più semplici, avendo in vista la
costruzione di macchine per il riconoscimento automatico di certe
caratteristiche oggettuali nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini
riproducano effettivamente la percezione umana. Per concludere, vorrei citare
per esteso quel che nota G. nel già citato articolo sulla indeterminatezza
semantica a proposito del senso stesso di una riflessione filosofica. Credo che
quel che diceva allora a proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe
essere ripetuto per la percezione e i percettologi, come suggerisce
l’ultimo esempio che ho portato: Si mette in dubbio prima che potessero
esistere puri linguisti o puri percettologi, potremmo dire. Forse è
proprio vero: non esistono. Anzi, se l’antinomia che essi inevitabilmente
incontrano e si sforzano di comporre è sempre presente esteticamente in
loro e in tutti noi, linguisti e non linguisti, nell’anticipazione, all’interno
dello stesso uso, del linguaggio in genere nella sua totalità
indeterminata, è forse addirittura possibile sostenere che la cosiddetta filosofia
si inscrive necessariamente in ciò che abbiamo detto coscienza implicita del
linguaggio. È infatti difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente ma
che essa nasca da un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza e del
linguaggio, consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella
stragrande maggioranza dei casi solo una precomprensione o un
avvertimento oscuro di una comprensione, questo sembra tutt’altro che
campato in aria. Ciò comporta una differenza rispetto a una linguistica
che non vuole saperne, di filosofemi? Forse no, se la differenza va
cercata in positivo, in una determinazione dall’alto di principi e metodi.
Forse sì, se invece va cercata in negativo, nell’esclusione che principi
e metodi possano essere qualcosa di assoluto e unilaterale, si ispirino
poi alla indeterminatezza o alla determinazione. Ciò pare plausibile
soprattutto se essa fa emergere più nettamente la coscienza implicita che
ogni nostro uso del linguaggio non è solo un uso particolare ma contiene
una componente di indeterminatezza che lo fa essere paradossalmente proprio
quell’uso e permette di descriverlo proprio come quell’uso determinato, nello
stesso uso effettivo, in tutti i sensi. Non sarebbe per caso anche un
contributo non del tutto insignificante, da un punto di vista etico e politico,
non sospettabile di ideologismo, alla promozione di una cultura non dogmatica,
non settaria e non particolaristica? G., L’indeterminatezza [cf. GRICE,
INDETERMINACY OF IMPLICATURE] semantica. Emilio Garroni. Garroni. Keywords: l’implicatura
di Pinocchio, Freges Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin cognate ‘sentire’
-- senso, senso fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” – Do not multiply
senses -- mentire/mentare/meinen/mean --
messagio, message, semiotic – sender, recipient, message, emittente, mittente,
recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to ‘out’ -- ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Gartida: laragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. According to Giamblico, G. Succeeds Boulagoras as head of the sect of
Pythagoras. He had spent some time away from Crotonne and returned to the city
that had been badly damaged as a result of a feud between the Pythagoreans and
their opponents. He was so upset by what he found that he is said to have died
of a broken heart. Gartida.
Grice
e Gatti: la ragione conversazionale dell’implicatura conversazioale – filosofia
lombarda -- Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo
italiano. Milano, Lombardia. Filosofia del Linguaggio SAGGIO
SULL’ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA. Je travaille à me rendre voyant. MILANO
GENOVA ROMA NAPOLI SOCIETÀ ANONIMA EDITRICE DANTE ALIGHIERI (ALBRIGHI,
SEGATI & C.) y Spa 9 apart pi DI x î 7 STRIP IMRATI
OA ss =%: STABILIMENTO TIPOGRAFICO LA PERSEVERANZA— POTENZA + £ : AI
MIEI DUE FRATELLI CHE ANSIOSI E TREPIDI VISSERO LE
STESSE MIE ANSIE E TREMORI NELL'AUDACE SOLITARIO MIO ASCENDERE
LE CIME PIÙ IMPERVIE DEL VERO ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA
LINGUA. La grandezza delle statue diminuisce allontanandosene, quella degl’uomini
avvicinandoci ad essi. Quale necessità di DUE DIVERSI LINGUAGGI, l'uno del
sentimento e l’altro dell’inteletto, per esprimere il COMUNE CONTENUTO della
coscienza? Altro infatti è IL LINGUAGGIO
COME LINGUAGGIO, ossia come mero fatto estetico — afferma Croce — e altro
IL LINGUAGGIO COME ESPRESSIONE del pensiero logico, nel quale caso esso rimane
bensì sempre linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio, ma è
insieme [Il presente saggio — capitolo di un ampio lavoro, di prossima
pubblicazione, dal titolo: La logica nella dottrina estetica di CROCE (si veda)
e una nuova concezione dell’arte viene, qui, ristampato del tutto
compiuto, oltre che notevolmente ampliato, trasformato e riveduto, perchè
il direttore della rivista nella quale apparve per prima, anni sono, non
solo, all’ ultimo momento, credette di modificarlo a suo modo, e
mutilarlo, anche, sconciamente, qua e là, quanto, altresì, vigendo ancora
e sempre, nel mondo della vecchia cultura, il costume di condannare
irremissibilmente lo spirito ereticale di coloro che non si sentono in nessun
modo di alimentar d'olio le lampade accese dinanzi ai santi della scienza,
non mi avrebbe, certo, consentita l’odierna stesura dello scritto, pur
rigidissimamente composto nella libertà, franchezza e sincerità della sua
espressione. Tanto più che qui, ora, essendoci anche occorso di avvalorare
magnificamente la tesì che noi opponiamo a quella di Croce con l’ autorità del
pensiero vichiano, siamo stati costretti, pur senza volerlo, a mostrare,
altresì, come Croce non sia riuscito a comprendere affatto affatto quel
pensiero nell’intimo, verace, sostanziale suo significato. Onde, ad un tempo, ed
è ciò che a noi essenzialmente preme, il nuovo abbagliante fascio di
luce, che, sprigionandosi irresistibile dal fondo della dottrina vichiana (VICO
(si veda)), riesce ad illuminarla, oltre che più intensamente, a pieno,
col fugare tutte le ombre che qua e là, finora, si addensavano in essa,
impenetrabili. i e ua ner! A più che linguaggio. Ora, delle
due, l'una: o esso, rimanendo sempre linguaggio e soggetto alla legge del
linguaggio, non può, per ciò stesso, non rimanere sempre ed
unicamente intuizione © immaginazione, e, quindi, sinonimo di sola fantasia
e poesia; ovvero è, anche, 7% che linguaggio, e cioè concetto, e, allora,
come dirlo, più, sinonimo di sola fantasia e poesia, e non anche d'
intelletto e filosofia? Ma, in tal caso, il formidabile scoppio di
un'assoluta contradizione, celata nelle fondamenta stesse dell’edifizio
estetico di Croce, non manda di schianto tutto in rovina tale edifizio,
basato, appunto, sul presupposto dell’assoluta identità del
linguaggio, od espressione, con l’arte, od intuizione? Tranne che la
frase, più che linguaggio, non voglia essere, qui, e non sia che
una di quelle espressioni vuote, non rare nell’ opera di CROCE (si veda),
dirette secondo la maligna INSINUAZIONE, o il perfido SUGGERIMENTO
[IMPLICATURA] di Mefistofele a mascherare col suono della parola
l'assenza del concetto: Zè dove manca 1 concetto, poni la parola; il che,
d'altronde, usa bene anche l’ACCADEMIA, sostituendo il mito al concetto,
ogni volta che non gli riusciva di cogliere col pensiero la soluzione di
qualche arduo problema. Ma, in verità, ciò che non permette di
dubitare in nessun modo di quell’assoluta contradizione è la
seguente affermazione di Croce: per effetto dell’ixcarnazione che
il concetto e la logicità ha nell’espressione e nel linguaggio, il
linguaggio è tutto pieno di elementi logici; il che trae necessariamente
a concludere, che: o non è affatto vero che il linguaggio obbedisce
sempre alla sua legge, perchè, per effetto di tale incarnazione, riesce
senz’altro a violarla, impregnandosi, e quindi contaminandosi, di
elementi logici, Logica come scienza del concetto puro; Laterza,
Bari, ovvero che esso è masura/mente o necessariamente, ch'è lo
stesso, il prodotto non solo della fantasia, ma, altresì, dell’
intelletto, nella loro funzionalità sintetica, e perciò non vi può essere
come non vi è, di fatto che un unico linguaggio esprimente,
indifferentemente, il reale concreto od il reale astratto: e cioè
immagini o concetti, ovvero arte e filosofia. Quale la vera di
queste due conclusioni contradittorie? Altrimenti dovremmo credere che in
un medesimo vestito possano bene trovar posto, ad un tempo, due
individui, oppure che un medesimo vestito possa attagliarsi ugualmente
bene ad un fanciullo e ad un uomo maturo, come potrebbero rispettivamente
considerarsi l’immagine intuitiva, assolutamente alogica, e l’immagine
concettuale, così corpulentemente /ogrca. Salvo unica via di scampo che per l'utilità
del momento il che non disgrada punto, in simili casi, al pensiero
di Croce non si voglia scindere il linguaggio dall’intuizione, per ridurlo
« ad un fatto fisico-acustico, aderente al pensiero, ovvero, ch'è lo
stesso, ad una mera guaina di esso, sì che sia facile, vòlta a
vòlta, alla fantasia ed all’intelletto trovarvi posto,
conformandola, naturalmente, ognuno a modo proprio, vòlta a vòlta. Ma
se ciò è da escludere assolutamente, non rimane, sola conseguenza
possibile, un unico linguaggio, frutto, naturalmente, della funzionalità
sintetica di tutte le attività fondamentali dello spirito? Infatti, ogni
intelligenza sinceramente ersosa di scoprire la verità e non già di far
valere, comunque, un proprio modo di vedere alla presenza di tanti elementi logici
nel linguaggio, non avrebbe esitato un istante a ricredersi del proprio
iniziale errore, conchiudendo per l'appunto in logica dt tal
senso: ma non è così, purtroppo, che la pensano o ragionano almeno presso di noi i seguaci della
dialettica hegeliana, pei quali, invero, non è punto lo schema
mentale, arbitrariamente preconcepito, che deve conformarsi o
risultare conforme alla realtà, ma, per contrario, è proprio quest’ultima,
che deve, comunque, inquadrarsi in quello schema: anche se debba
ritrovarsi in esso precisamente come nel famoso letto di Procuste. E
perciò mentre noi seguaci, in tal caso, della logica del LIZIO conveniamo
bene con Croce che l'acqua non può dirsi vino, sol perchè in essa è stato
versato del vino, egli, a sua volta, non sa in nessun modo
convenire con noi che l’acqua, del pari, non può dirsi, più,
neppure acqua, ma sì acqua mista con vino: e cioè fuori di metafora,
il linguaggio, come noi sosteniamo è pur vero che non è opera di sola
logica, ma non è nè pure opera di sola fantasia, ma, sì, dell’una e
dell'altra; ed anzi, per verità, di quella, essenzialmente, più che di
questa, come or ora cercheremo di provare, dopo aver anzitutto
liberata sì fatta quistione, concernente L’ORIGINE E LA NATURA DEL
LINGUAGGIO, da una grave pregiudiziale opposta dagli intuizionisti in genere, e
principalmente del gran maestro dello intuizionismo, Bergson: e cioè che IL
LINGUAGGIO, in quanto prodotto puramente spontaneo e /oz/ours è faire
dello spirito, è, per ciò stesso, da considerarsi come il flusso perpetuo
d’Eraclito, per concludere, poscia, alla inutilità delle forme
grammaticali, non meno che dell'uso o SIGNIFICATO COSTANTE [GRICE, TIMELESS
MEANING, APPLIED TIMELESS MEANING, “MEAN” used in the historical present – ‘shaggy’
MEANS ‘hairy-coated’] della parola, il cui carattere immobile
immobilizzerebbe, naturalmente, ed arresterebbe senz'altro il moto
perpetuo del pensiero, o la vivente fluidità del reale, così come il
gelo arresta lo scorrere od il fluire delle acque di un fiume, Ma
DALIA Zogica. veramente la parola, nella sua immobilità, riesce a
nascondere e sopprimere, agli occhi nostri, la vivente mobilità del
reale? Ma, forse, l'idea stessa di fiume, non è l’idea di un’ acqua
che scorre? Ha un bell’ essere immobile, ed anche solida, la parola
fiume: essa, tuttavia, non cesserà mai di richiamare il ricordo e darci
l’immagine di un’ acqua che scorre; così, anche, il Corzidore dello
statuario antico ha un bell’essere fermo anch'esso: noi sentiamo e
vediamo benissimo che i suoi piedi lo traggon veloce come se avessero l’
ali. Ancora: l’astronomo che calcola l'orbita di Marte, suppone,
forse, Marte immobile? e l'equazione di un movimento quello, ad
esempio, della cometa di Halley si può negare che corra, anch’ essa,
perfettamente come la cometa, con velocità sbalorditiva attraverso l’infinito?
È ben chiaro, adunque, che nessuno pretende di fare scorrere il gran
fiume del reale con fiotti gelati, giacchè le nostre idee, ben lungi
dall’ essere, evidentemente, delle forme congelate di esistenza del
reale, sono, per contrario, delle perenni, luminose vibrazioni di
quell’intima essenza del reale, ch'è la consapevolezza della coscienza
umana. E non è vero, infatti, ch'è proprio a mezzo di esse, o
son esse proprio che, col singolare vibrar luminoso, ch'è proprio di
ognuna, conforme al singolare vibrar dello stato di coscienza in ciascuna
racchiuso, o da ciascuna espresso, ci attestano la perenne mobilità del
reale, o la vivente sua fluidità, che, altrimenti, noi non potremmo in
alcun modo affermare, in quanto solo a mezzo di esse è a noi
consentito d’innalzarci sul presente e guardar lontano, così nel
passato come nell’avvenire, e scorgere, quindi, in tutta la sua
illimite distesa, il corso evolutivo del reale? E ciò, intanto, non
implica, necessariamente, nella natura di quest'ultimo, la presenza di
alcunchè di essenziale e permanente accanto a ciò ch'è puramente
contingente e momentaneo? Altrimenti come potremmo dire che il
reale si evolve, e cioè, assume, appunto, forme di esistenza sempre
più nuove e più progredite, senza supporre, naturalmente, o ritenere,
necessariamente, sempre zz0 il soggetto che tali forme successivamente
assume? Se così non fosse, noi non potremmo parlare di evoluzione, o
divenire del reale, ma solo di un perenne passare di torbidi « flutti di
sensazioni, perdentisi, senza 77c0rdo alcuno, dans la nuit éternelle
emportés sans retour. E se, adunque, la realtà è sempre zza nella sua
essenza, non ostanti, dirò, tutte le sue mutevoli démarches e i
sempre nuovi suoi /resssaillements, e il pensiero umano,
strettamente conformandosi alla natura di essa, di cui esso medesimo
è parte, non fa che cercare il permanente sotto il successivo, e
cioè, cogliere, costante, l' essenza di essa traverso tutti i suoi
rapporti in cui essa viene a trovarsi in quelle mutevoli sue démarches,
fissando, di conseguenza, in espressioni o idee sempre nuove la sempre
nucva fisonomia che essa viene ognora assumendo, come dire che il
pensiero suppone immobili o inerti i termini tra cui vengono stabiliti
quei rapporti? Immobile, sì, è la legge che governa il divenire del
reale principio di causa e, quindi, la funzione conoscitiva che
mira a coglierne l’ intima essenza (principio di ragione) pur traverso le
più svariate sue manifestazioni, ma non i termini di queste, che non
possono non essere necessariamente mobili, dato il perpetuo divenire
della realtà : e cioè le sempre nuove sue relazioni con sempre nuovi
soggetti d’ esperienza. Ma per mobili, però, o mutevoli che tali termini
possano ° essere, non si può, per ciò stesso, ammettere che essi
riescano, | così, ad infirmare l'essenza del reale, chè questo precisamente come notammo per l’acqua non
viene punto a perdere, anche a traverso le più stranamente mutevoli sue
manifestazioni, l’intima sua essenza o la sua identità
fondamentale. La rondinella, infatti, che fende l’aria, si sente, è
vero, fuggire nel tempo e nello spazio, ma non è men vero che essa
si sente, anche, sempre la stessa. Salvo che non si voglia riporre la
realtà proprio nella innumere varietà di toni, o addirittura sfumature
del sentimento, quindi proprio in ciò che essa ha di più accidentale e
caduco, ovvero ch’è lo stesso nel mero cambiamento o nella mera
transizione come tale, più che nel rapporto assolutamente obiettivo tra
noi e le cose, rapporto fondato zx ze, non meno che in intellectu, posto
che l'essere e il pensiero sono parti solidalmente costitutive del reale.
Onde la. conclusione che, se coscienza vuol dirsi il sentimento perpetuo
diun cangiamento, non è, però, il cangiamento come tale che può dirsi
coscienza: la quale, pertanto, in quanto conserva, evidentemente,
immutabile la sua identità fondamentale, pur traverso le più svariate
ripercussioni del sentimento, che le procurano, appunto, quei sempre nuovi
suoi /ressaz/lements, ci vieta assolutamente di ritenere le singole
espressioni od intuizioni così assolutamente individuali da rimanere PER OGNI ALTRO
SOGGETTO conoscente, che non è il creatore di esse, del tutto intraducibili, inclassificabili, val quanto
dire inesprimibili, almeno adeguatamente. E perchè affermare,
allora, che ad ogni impressione corrisponde un’espressione
immancabilmente adeguata? Salvo che non debba dirsi adeguata solo alla
particolare impressione che un medesimo obietto viene a destare in ogni
singolo soggetto, un'adeguazione, quindi, puramente soggettiva,
perchè variabile da soggetto a soggetto conoscitivo: e come mai,
allora, da intuizioni sì fattamente individuali si può pretendere una
conoscenza di carattere urzversale e necessario? ERE o IO Da
I, TRO L. i si a VR Il pensiero, infatti, non può rimanere in
nessun modo chiuso negli impossibili limiti di un’ intuizione
assolutamente individuale, come pretende, anche, il Mosè di Vigny: O
seioneur, J'ai vecu puissant et solitaire! giacchè la possanza è unicamente
nella commozione e vibrazione spirituale estendentisi a quell’umanità da
cui viene e a cui torna l'onda alterna del pensiero e del
sentimento. E fu, tra altro, precisamente in vista di tal carattere
di universalità e necessità, proprio e inscindibile dall’ attività
conoscitiva, che noi fummo costretti ad escludere dalla coscienza
intuitiva, come particolare ed esclusivo contenuto di essa, il
sentimento, in Quanto precisa e recisa negazione di tal carattere. E,
peraltro, dato, eziandio, per Croce, la natura assolutamente ineffabile
od INCOMUNICABILE del sentimento, come può egli pretendere, ancora più
assurdamente, di contemplare e gustare le altrui opere d' arte,
rivivendole con le singolari vibrazioni del proprio sentimento? Ma non
ci disse egli che tali opere, per l'impossibilità, appunto, da
parte nostra, di rivivere identico lo stato sentimentale dell’ artista
che le creò, sono, per ciò stesso, assolutamente intra- ducibili, sì che
ogni nostro tentativo di tradurle fedelmente si risolve, in realtà, nella
genuina creazione di una nuova opera d’arte accanto ad altra opera
d'arte? E che, anzi, lo stesso artista è incapace esso stesso di rifare
identica la propria opera, non potendo rivivere nè pur esso,
puntualmente, quegli stati di coscienza, che trovarono il loro nitido
spontaneo riflesso nella primitiva sua intuizione? In verità, io non
riesco a comprendere qual gusto possa mai trovare CROCE (si veda) nella
coquetterie; che è anche di Renan di contradirsi per mille versi, ad
ogni piè sospinto, e non solo nella medesima pagina, ma nella
medesima frase. Sai ce! Il maggiore rappresentante dell’intuizionismo
Bergson è vero che attribuisce anch’egli al sentimento LA POSSIBILITA DI
PENETRARE L’ANIMA ALTRUI, non meno che delle cose, ma solo in quanto gli
riconosce quel particolare carattere di COMUNICHEVOLEZZA che ad esso deriva da
« cette espèce de SYMPATHIE intellectuelle, par la quelle on se transporte
à l’intérieure d’un obiet. Ma CROCE (si veda) non nega recisamente sì
fatta COMUNICHEVOLEZZA al sentimento, che, per lui, è 470 di ogni
elemento intellettualistico? E, allora, come può pretendere di rivivere
con le singolari vibrazioni del proprio ineftabile sentimento l’ineftabile
palpito di vita onde vibrano le altrui opere d’arte, per contemplarle e gustarle?
E, d'altra parte, la stessa simpaia intellettuale di Bergson, riesce, forse,
anch'essa senza l’aiuto di tutte
le debite operazioni intellettuali a penetrare a fondo la vita del reale,
fino, addirittura, a coîncider avec ce que il a d’unique et d’INESPRIMABLE?
Ma l’unico e l’INESPRIMIBILE, in quanto tali, non sono, per ciò stesso, INCOMUNICABILI?
Tuttavia, ammessa pure la possibilità di quella coincidenza, noi non diverremmo
senz'altro i sosta delle cose, o le cose stesse, addirittura? e come,
allora, queste sarebbero, più, uniche? Ma, a parte tali assurdità, come
mai LA SIMPATIA, senza tutte ripeto le operazioni dell’intelligenza,
potrebbe farci penetrare l’anima delle cose? Senza dubbio, allorchè io
seguo ad esempio con l'occhio un razzo che sale dritto verso il cielo, io
sento in me un movimento che imita la brillante sua linea di ascesa, uno
sforzo paral- lelo al suo sforzo: può dirsi bensì, allora, che IO
SIMPATIZZO con esso; ma, tuttavia, cotal SIMPATIZZARE non mi rivela punto
ciò che fassa o accade in quel granello di polvere Revue de Metaphisygue.
RT nn (E i ES ardente. Ancora : quando io scorgo
levarsi la luna, e vedo i suoi raggi tremolar nell'ombra della sera
placida e serena, io, pur sentendo l’anima vibrar simpaticamente con
essi, fin quasi a sentirmi dissolvere di .tenera commozione, al pari
della blanda luce, che da quei raggi, tenera effondendosi, si perde sulle
cose, non riesco, tuttavia, in nessun modo, pur nella maniera più vaga
che si voglia, a penetrare, così, la vita di quell’astro notturno. Del
pari, LA VIVA MIA SIMPATIA lper la primavera, che mi fa, invero, provar
nell'anima tutta la freschezza e verginità di vita di tutte le cose
che alla vita si destano fresche e verginali, e nella persona
stessa come una leggerezza o snellezza di ali di farfalla, può
dirsi riesca mai, anch'essa, a farmi cogliere, così, la vita intima
di quella stagione ch'è la gioventù dell’anno? Ma vediamo, se,
almeno nel mondo umano, LA SIMPATIA raggiunga piena e precisa la sua
potenza penetrativa. Io vedo una donna in lagrime uscir dal cimitero :
una tristezza analoga alla sua invade subito l’anima mia; io simpatizzo
intellettualmente con essa, a mezzo del fersiero della causa che
l’affligge: la morte di una persona cara, nel tempo stesso le sue
lagrime tendono a provocare, per sensibile contagio, le mie; io,
dunque, penetro ben meglio nell'anima di questa donna che non nelle
precedenti forme inanimate di reale. Ma chi oserà dire che io ho vera e
piena la intuizione del suo dolore? Ma non accadde, forse, al Guyau, come
egli stesso ci narra in una delle sue più belle liriche, di scambiare
per scoppio di riso l’improvviso singhiozzo di una donna che
tornava dai piedi di una croce levata sur una tomba? D’un cété le jardin,
de l’autre un cimetier; Un seul mur les sépare, et la mèéme lumière Fait
resplendir la feuille inquiète du bois, nen Les blancs marbres des morts
et les rigides croix. dea a Il poeta cammina senza meta, gli occhi
perduti nel fogliame, bevendo a lunghi sorsi l’aria della primavera: nell'ombra
di un sentiero, a passi lenti, una donna procede innanzi a lui; egli non la
vedeva che di lontano: i suoi piedi visibilmente tremolavano, ed egli non
sapeva perchè. D'un
tratto un brivido la scosse tutta, e sembrò ch' ella ridesse di un riso
secco e nervoso ; e, per ridere, ella nascose la testa fra le dita: Quand
j’approchai, je vis, légères et limpides Des larmes qui coulaient entre
ses doigts humides: Car c’était un sanglot que ce rire sans fin,
Et cette femme, errant au fond du doux jardin, Sortait du
cimetière. Sicchè Une larme qui tremble, Un sanglot qui de
loin, pour l’oreille ressemble Au rire, et rien de plus-voilà donc la
douleur! C'est tout ce qu'on peut voir lorsque se brise un coeur.
C'est le sieze fuyant qui, pour un jour à peine, Révèle 1’ infini d’une
souffrance humaine. Les plaisirs les plus doux, les maux les plus
amers S'expriment par le mèéme ébranlement des nerfs Que l’air
indifferent propage dans l’espace: Cri de joie ou d’angoisse, il éclate,
il s’efface Et, sans étre compris, glisse sur l’univers. È
questa, dunque, la corncidenza colle cose che ci dì la stessa simpatia
intellettuale? quella conoscenza infallibile e perfettapromessaci dagli
intuizionisti? Un mero choc en retour di onda nervosa, od anche emotiva?
R Giacchè, in realtà, la mia coscienza, in quanto tale, pur essendo così
vicina all'altra, rimane, nondimeno, con tutta D- evidenza, senza punto
penetrarla od esserne penetrata : n Ainsi jaurai vecu près d’elle
inapersu, Toujours è ses cotés et toujours solitaire! VERS D’UN
PHILOSOPHE: Z’ecla/ de rire, Paris, Alcan. Mi Ah! Que nous sommes loîn l’un de
l'autre, Étant si près! E, forse, Dio stesso può mai
riuscir a sondare le altrui coscienze come la propria? L’oeil était
dans la tombe et regardait Cain ora, se quell’occhio è di Dio, esso pure
non può guardare che dal di fuori; Dio, infatti, non essendo Caino, non
può, di conseguenza, nè sentire nè volere ciò che sente e vuole
Caino, e cioè possedere, appunto, l’anima di quest’ ultimo, Ciò prova
chiaro che la. filosofia non è punto come vorrebbero gli intuizionisti il sentimento di un fiotto mon- tante di
vita interiore, il rapido bagliore di una stella filante, ma una sintesi
razionale e finale di tutta la nostra esperienza, fondata precisamente
sulla determinazione, sempre più ampia € più precisa, delle relazioni che
intercedono tra il nostro stato di coscienza presente ed il nostro we
tutto intero; fra il nostro me e gli altri esseri; fra gli esseri
particolari ed il tutto, perchè il reale è ciò che inviluppa sempre e
dap- pertutto l’infinito. Di guisa che più noi lo conosciamo, e più
vi scopriamo relazioni multiple, le quali, pertanto, trovano la più
perspicua loro espressione precisamente in quella insu- perata
manifestazione del reale che è l’idea, la quale, adunque, così può
rimanere distaccata dall’ intuizione come i fosforescenti bagliori, che corrono
sulle onde del mare ondulato, dalle onde stesse, che quei bagliori
accendono col loro moto. E poichè, intanto, cosa certa o innegabilmente
vera è che il continuo divenire e perenne trasalir dell’essere
coincide col continuo divenire e perenne palpitar del pensiero, è
naturale che, in conformità di questa stessa natura perennemente 22 fieri del
reale, si debba procedere per rag- Prada E giungere una visione
sempre più piena e indefinitamente integrale della realtà infinita ed
eterna, ininterrottamente da un'idea all'altra, all'infinito ed in
eterno. E come, allora, potrebb'essere mai lecito rinunziare ai
precedenti /ermzini della nostra coscienza, e cioè alle precedenti nostre
intuizioni? Ma queste non sono, adunque, le espressioni assolutamente adeguate,
e perciò stesso insuperabili ed immutabili, dell'essenza delle cose, o
del caratteristico, che è in ogni singola forma di reale? E se tali esse
sono, e cioè immagini che attinsero, al fine, preciso, quel limite
assolutamente insuperabile che è segnato dal rapporto esattamente
proporzionale degli elementi o determinazioni onde risulta l'essenza
di ogni forma di realtà; e donde, appunto, deriva alla cono- scenza
intuitiva il suo carattere o valore universale e necessario, come si può
pretendere di andare oltre tali immagini limite, senza che la realtà
corrispondente non cessi, per ciò stesso, di essere quella che è?
Giacchè, si sa l’accennammo innanzi l’essenza d'una cosa può trovare la
sua ESPRESSIONE o RAPPRESENTAZIONE intuitiva veramente adeguata solo in
quelle immagini da cui la conoscenza logica, possa, a sua volta, derivare
immediato e preciso quel concetto-limite che le variazioni della realtà
corrispondente non possono ulte- riormente superare, senza che questa,
naturalmente, non cessi di essere quella che è. È quanto tuttodì accade
in ordine alle mutevoli quanto fallaci immagini al cui gioco soggiace, ingenua,
la coscienza infantile, ch'è, per ciò, continuamente smentita e corretta,
ad un tempo, dall'esperienza, fino a quando essa non sia diventata capace
di scegliere od assu- mere come elementi fondamentali od essenziali delle
sue immagini intuitive, quelli, appunto, che, resistendo alla
doppia prova dell'esperienza e della ragione direttrice, rimangono
indici insuperabili per la funzione di assimilazione e differen- Mento,
marziana Pa E |. = ziazione, ad un tempo, in
ordine a tutte le altre possibili forme della realtà, funzione in cui,
notammo, si assorbe e concentra essenzialmente l’attività conoscitiva. Infatti,
le intuizioni o cognizioni umane costruzioni superbamente armoniche del
nostro pensiero non vivono punto, già, per il colorito emotivo che le
riveste, ma, sì, per l'essenza unicamente ch'è nel loro fondo :
quell’essenza, appunto che nessuna variazione della realtà corrispondente
deve in alcun modo riuscir a superare, E se, dunque, sì fatte intuizioni,
in quanto universali e necessarie, sono, per ciò stesso, immutabili e perenni,
come non dover ritenere ugualmente universali e necessarie, e,
quindi, immutabili e perenni, le corrispondenti espressioni, in quanto
adeguate e insuperabili manifestazioni esteriori di quell’intimo moto
armonico del pensiero, che riesce a individuarsi o concretarsi precisamente in
quelle espressioni? Giacchè, si sa, e non si può negare, che quantunque il
rapporto che lega la lingua al pensiero sia di pura a/tribuzione e non di
z2427a, lo sviluppo dei due procede, non di meno, assolutamente di pari
passo, fino al punto che le imperfe- zioni della lingua sono imperfezioni
del pensiero: il che trae, di conseguenza, a riconoscere che lo sviluppo
del pensiero, senza l’aiuto della lingua, sarebbe stato del tutto
impos- sibile, in quanto per la coscienza, indipendentemente dalla
lingua, è possibile solo uno sviluppo rappresentativo di natura sensibile,
come, ad esempio, le costruzioni geometriche e meccaniche, il gioco degli
scacchi, un motivo musicale, un'immagine visiva e simili; ma non ostante
tutti gli sforzi, noi non saremmo, certo, mai in grado, senza parlare, di
pensare, ad esempio, che BISOGNA DIR SEMPRE LA VERITÀ – GRICE CANDOUR.
Posso bene, anche, rappresentarmi un albero determinato senza il È:
nome corrispondente, ma PENSARE L’ALBERO in generale, senza la parola, è
semplicemente IMPOSSIBILE: il che prova che solo dal concetto e col
concetto comincia, per la mente, la necessità della parola, e, quindi, la
conoscenza che si pretende universale e necessaria, come, appunto, quella
intuitiva. E se, pertanto, può non essere vero che il concetto esista
prima del segno, certo è, però, — come nota Hamilton che il
concetto ricade, appena formato, nel caos dal quale lo spirito l’evoca, se
IL SEGNO VERBALE non lo rendesse permanente nella coscienza. Questo,
perciò, è assolutamente necessario per assicurare i nostri progressi
intellettuali, per fissare quello che è già acquisito per la conoscenza,
e farne un punto di partenza nuovo per ulteriori progressi. Un
esercito si può spargere sur un paese, ma non lo conquista se non vi costruisce
delle fortezze. Le parole sono come le fortezze del pensiero. Esse ci
permettono di stabilire la nostra dominazione sul territorio che il
pensiero ha già invaso e di fare di ciascuno dei nostri acquisti
intellettuali una base di operazioni per farne dei nuovi. Ovvero,
per adoperare un’altra immagine, il rapporto fra la parola e il
concetto è quello stesso ch’è tra lo scavare un zu7%e/ nella sabbia e la
muratura. Voi non potete procedere avanti nello scavare senza fare ad ogni
passo una vòlta. Ebbene, il lin- guaggio è per lo spirito quello che la
vòlta è per il tuzzel. Ogni sviluppo del pensiero dev’ essere seguito
imme- diatamente da uno svilluppo della lingua, altrimenti il primo
si arresta. Dei concetti si possono formare senza la parola, ma sono
scintille che si spengono immediatamente; ci vogliono le parole per dar loro
evidenza, per poterli riunire, per cavar, insomma, una gran luce da ciò
che senza di esse sarebbe stato uno sprazzo di scintille subito spento. Riportato
da MASCI (si veda), Logica; Pierro, Napoli. E, veramente, la moderna
filologia, analizzando e dissecando in mille guise il vivente organismo della
lingua, è riuscita a rintracciare nelle radici gli elementi primitivi
inde- componibili, che SEGNANO, CON LA SIGNIFICAZIONE PRIMITIVA, la
prima unità del pensiero con la lingua, donde, poscia, quel rapporto di
dipendenza reciproca in virtà del quale, mentre il pensiero, nel suo
progressivo sviluppo, e sempre più attivamente all’inizio della sua
produzione, riesce a modificare progressivamente il linguaggio, questo, a sua
volta, non manca di reagire sul pensiero, e dargli un’impronta
individuale e collettiva, ad un tempo. Sappiamo, infatti, che è la lingua
che impone alla coscienza individuale la forma mentale della razza,
e cioè la maniera di fissare (nelle sue forme) le abitudini secolari di analisi
e di sintesi del pensiero di un popolo: onde giustamente è da ritenere,
con Hamilton, che il pensiero senza la lingua o non avrebbe avuto sviluppo,
o ne avrebbe avuto uno del tutto limitato, come ce ne fanno prova i
sordomuti, che, senza l'adozione di un surrogato del linguaggio, non
arriverebbero, con la loro intelligenza, ad elevarsi affatto, o solo ben poco,
al di sopra della intelligenza animale. Infatti, pur la momentanea mancanza,
per momentaneo oblìo, di una data parola, non è, forse, da noi avvertita
a parte la sorda immediata inquietudine che altresì ci procura come un vero
ostacolo che c' impedisce di fissare il corrispondente pensiero, di
isolarlo dagli altri, di porlo con essi in relazione, di riviverlo, insomma,
necessariamente, onde il senso di vera liberazione che noi proviamo,
trovatala, appena, la parola che cercamo? Non solo: ma l’assoluta
mancanza, nella nostra lingua, di date espressioni che valgano a renderci
adeguatamente un dato concetto, non ci costringe a ricorrere ad altre
lingue ni “ SAS per le corrispondenti espressioni,
come, ad esempio, per la parola pietas, che noi siamo costretti a mutuare
dalla lingua latina, non possedendone la nostra una che adegui perfettamente
il concetto da quella espresso? E trovato che abbian, dunque, le
intuizioni la loro espressione adeguata, e cioè posto che siano, davvero,
conoscenza universale e necessaria, come possono, per ciò stesso,
rimanere assolutamente intraducibili, val quanto dire inattingibili nel loro INTIMO
SIGNIFICATO, o nella profonda loro verità obiettiva? Ese, pertanto,
tali esse rimangono, non è giocoforza ammettere ch’esse, ben lungi
dall'essere, per davvero, intuizioni, e cioè precisamente conoscenza universale
e necessaria, altro non sono, in realtà, che particolari espressioni di
singolari ineffabili impressioni di un wzico soggetto: quello, per
l'appunto, che sì fatte impressioni riescì a provare? Giacchè di
assolutamente singolare o insuperabilmente individuale in una forma di
conoscenza veramente universale e necessaria non vi può essere, al più, che
quella frangia o alone, a dir così, che, come ombra il corpo, naturale ed
immancabile accompagna la forma mentis di ogni singolo soggetto
conoscente, quale spirituale riflesso del carattere ch'è proprio di
ognuno di essi, e che prende, comunemente, il nome di stile. Ma cotal
frangia o alone che serve solo a farci
distinguere le crea- ture o immagini d'una medesima ispirazione
creatrice, presso i più diversi artisti: la yarcesca di ALIGHIERI (si
veda) da quella di Pellico ed Annunzio, il Neroze del Racine da
quello d’Alfieri, d’Hamerling, di Costa, di Sinkie- wicz non toglie affatto nulla alla intelligibilità
obiettiva, e cioè fer tutti necessariamente identica, di sì fatte
intuizioni, che, perciò, restano identicamente valide come
espressione e: o conoscenza di quella data forma di reale che
ci vogliono apprendere fer #uéte le intelligenze assolutamente. Qualora |così
non fosse, potrebbero mai le intuizioni essere, ad un i tempo, arte e
scienza: e cioè immagine estetica e verità scientifica? La quale,
infatti, non si sa, forse, che, allorchè tale, per davvero, rimane
assolutamente identica per tutte le intelligenze, non ostante la innumere
varietà di espressioni che essa trova presso ogni singolo uomo di
scienza? E cotale identità, qualora non fosse, già, nella immagine
intui- tiva, dove potremmo mai ritrovarla? Infatti non ci disse
innanzi il Croce medesimo che l’aere spirabile del concetto non possono essere
che /e iwéuizioni? E, in realtà,
qualora quest’ ultimo non fosse in esse, « non sarebbe in nessun luogo:
sarebbe in un altro mondo che non si può pensare, e perciò non è. Ed esso
« permane come qual- cosa che è in esse implicito e deve farsi esplicito:
vale a dire come l'essenza delle cose. Non risulta, quindi, in ogni
modo evidente che il valore universale e necessario della conoscenza non
può ritrovarsi o appuntarsi che nell’
essenza dell’obietto di essa conoscenza il solo elemento, a dir così, per
davvero immutabile e permanente nel divenire perenne della realtà che non
A può, per ciò stesso, non essere riconosciuto tale recessariamente
al e universalmente, se vero è che di un medesimo obietto la
intelligenza umana non può nè deve avere che wr solo e medesimo concetto,
donde, appunto, il carattere di universalità e necessità della
conoscenza? E alla stregua di cotal principio logico e gnoseologico
pienamente riconosciuto dalla stessa Logica di CROCE (si veda) come può esser
mai possibile la concezione o figurazione di intuizioni assolutamente
individuali, nel senso da lui propugnato, e cioè del tutto
intraducibili ed inclassificabili? A parte la tangibile contradizione
# adjecto di una conoscenza universale e necessaria, che può,
nondimeno, assumere i più diversi significati non solo pei singoli
soggetti conoscenti, ma eziandio pel medesimo soggetto, da un istante
all'altro come, appunto, l'intuizione di Croce a noi preme soltanto di chiedere
se non è sempli- cemente un assurdo, e, per ciò, del tutto impensabile,
quanto impossibile, l'esistenza di intuizioni, e, quindi, di forme
della realtà, che sfuggano alla connotazione anche dei predicati
più generali, che Aristotele, prima, e Kant, dopo, ci hanno indicati come
assolutamente indispensabili e, ad un tempo, insuperabili, per la
intelligibilità della realtà: come, appunto, le categorie della
somiglianza e della differenza. Infatti, al di là di tali predicati, o
categorie, non rimane come sappiamo che una sola possibile espressione,
quella formulata dalla mistica: ergo faceamus, ovvero peggio ancora
seguire il malaccorto consiglio del Nietzsche. Penche-toi sur ton propre puits, pour apercevoir
tout au fond les étoiles du gran ciel. Ma chi
non sa che egli, appunto per essere rimasto tutta la vita sospeso a
guardare nel fondo di sè medesimo, fu preso da vertigini, e le stelle del
gran cielo si confusero ai suoi occhi in una immensa notte? E, in
realtà, l'intuizione nel senso
inteso da Croce non è che una oscura buca, in cui non si può discernere
nulla, nemmeno se stessi. Perciò se tacere o rimaner muti non si vuole,
e tanto meno perderci come Nietzsche
nelle tenebre della follia, non
occorre, di necessità, far capo, per la intelligibilità della realtà, a quelle
tanto deprecate categorie del pensiero, che, in quanto predicamenti od
espressioni degl’aspetti e condizioni più generali di esistenza sotto cui a
noi si rivela la realtà, non possono, per ciò stesso, non contrassegnare,
in maniera del tutto obiettiva, tutte le possibili forme dell’
essere? Lg E se, adunque, la realtà non può essere da noi
concepita se non sotto la specie di sì fatte categorie onde il carattere
universale e necessario della intelligibilità che di 3 essa abbiamo come
mai, poi, le intuizioni possono dirsi od essere 2r/raducibili? Ma la
traducibilità di esse non importa l’uso di quelle medesime categorie che a noi
occorsero per la loro zntelligibilità? E come, allora, si può ammettere
la intraducibilità? Ad una condizione, sì: che la intuizione e la
espressione fossero due e non una; e cioè che il moto interiore o
intelligibile del nostro pensiero I’ intuizione appunto fosse tutt'altra
cosa che l’ immagine esteriore, (parola, suoni, linee, colori ecc.), in
cui tal moto si estrinseca, e cioè /a espressione. Ma il Croce non
avverte reciso ed insistente che l'intuizione e l’espressione sono #4 enon già
due, in quanto, ETA RION Ceti, Di SE DE che
venga appena espressa la parte iniziale di uno schema, che subito e
infallibilmente il nostro pensiero preconcepisce l’altra, che completa lo
schema (così come; per quanto pure; tanto — quanto ecc.).
Sicchè la precisione del SEGNO linguistico, e cioè una forma
grammaticale vera, è solo essa che ci dà, rapido e preciso, il rapporto
pensato, senza aggiungere che, anche quando l’attenzione non si rivolge
ad essa, produce ugual- mente l'idea del rapporto e favorisce, così, lo
sviluppo del pensiero logico: e se ciò, intanto, accade, è appunto
perchè l'idea del rapporto vi è scevra di ogni contenuto materiale
: il che trae a concludere che, come il concetto espressione di una
vera e propria 7es, anche se è da esso sussunto a sostantivo una mera
qualità o predicato di essa riuscì a fissarsi nella parola, trovando
nella concretezza ed evidenza di questa la sua rappresentazione adeguata,
così il rapporto, nell’astrattezza della sua essenza, riescì a trovare
nella #m- materialità della forma la sua espressione adeguata. Ora,
dati sì palpabili rapporti d’' interdipendenza fra la lingua ed il
pensiero, rapporti che risultano, per giunta, una condizione size gua non
per lo sviluppo dell’una e dell'altro, come si può, seriamente, ritenere
mero gioco di artifizio del pensiero ciò che è, invece, mezzo
assolutamente imprescindibile per la sua piena esistenza e sviluppo? Ma
son, dunque, un mero gioco di artifizio le naturali incoercibili
tendenze che traggono ogni essere a perseverare nel suo essere, e cioè
pienamente adeguare la propria esistenza alla propria essenza? Ma non s'è
pensato che, se la tendenza del pensiero all'espressione del rapporto
vuoi dirsi o rite- nersi, per davvero, un artifizio, è da concludere,
allora, che le più artificiose espressioni del nostro pensiero, prima e
più dei concetti stessi in quanto senza
paragone, notammo, pnt SII più ricche e complicate di articolazioni
o rapporti logici, in confronto di questi sarebbero precisamente le
nostre intuizioni. Non solo: ma tutte le più elevate manifestazioni od
espressioni del pensiero umano, dalle prime sue riflessioni, o moti intuitivi,
fino alle odierne concezioni dell’intuizionismo e del pragmatismo, assertori,
appunto, di tal gioco sarebbero, forse, tutt'altra cosa che un
perenne, vario, gigantesco, e sia pure smagliante gioco di
artifizio, sottilmente intessuto dal pensiero sulle più varie e
strane e innumerevoli vicende della vita dell’uomo, come della vita
universa? Giacchè, si sa, fuori di ogni rapporto logico, o priva di ogni
rapporto logico, ESPRESSO (EXPLICATURA) espresso o SOTTINTESO (SOUS-ETENDUE,
IMPLICATURA – MILL, GRICE), mon è concepibile nessuna forma od ESPRESSIONE
di pensiero, sia pure la più semplice altrimenti dovremmo negare
che conoscere — come afferma FICHITE significa vedere in relazione: il che sa
precisamente come negare che il sole illumina o riscalda. E
provato, adunque, che la tendenza o funzione essenziale e necessaria del
nostro pensiero è quella di gorre in relazione, come può esser lecito,
poi, negare che le forme grammaticali, che corrispondono a questa
funzione e la esprimono il più analiticamente possibile, non siano
precisamente la più genuina e adeguata sua espressione? E, d'altronde, prova
o testimonianza assolutamente inconfutabile e tangibile della
necessità e adeguatezza di tali forme non rimane vedemmo la stessa
crescente forza di penetrazione, agilità e rapidità, che lo sviluppo del
pensiero trova, per l’appunto, nell'aiuto di sì fatte forme? Ma seguiamo
pure con tutta rapidità, alquanto più da vicino, lo sviluppo del pensiero
nei suoi rapporti con la lingua. Questa, adunque, pur essendo nata
da un bisogno pratico, e, per ciò, tendente immediatamente, wi oi
£ + ES cose, si rivelò, tuttavia, in una fase successiva, col
progressivo affermarsi della intima tendenza del pensiero all’
espressione del rapporto un esperimento di pensare, che doveva dar
luogo alla forma: e n'è prova, precisamente, oltre che il tentativo
di combinazione delle parole, l’ altro, sopratutto, di piegare parole
indicanti oggetti a significare rapporti logici. In una fase ulteriore le
combinazioni di parole diventano costanti, e le parole adoprate ad
esprimere nessi cominciano a perdere il loro significato indipendente.
Segue una terza fase, nella quale le combinazioni delle parole guadagnano
di unità: le parole, segni di nessi, si aggiungono come suffissi alle parole denotanti
oggetti; però il legame non è ancora saldo abbastanza, chè i punti di attacco
sono tuttavia visibili, l'insieme è un aggregato, non ancora una unità:
dai surrogati di forme si passa agli analoghi di forme; la lingua è nel
periodo di agglutinazione. Finalmente il carattere formale della lingua
si afferma decisamente, l’organismo grammaticale si completa; la parola
diviene un’ unità modificabile in conformità delle sue relazioni grammaticali
solo per un cangiamento di suono, che costituisce la /fessione. Ciascuna
parola è una parte del discorso determinata, ed ha, insieme, una individualità
lessicologica e grammaticale. Di più, le parole indicanti relazioni, perduta
ogni traccia dell'ORIGINIARIO SIGNIFICATO RADICALE, che, presente ancora,
avrebbe potuto oscurarne la intelligibilità, rimangono puri SEGNI di
rapporti, come i segni algebrici, esprimendo, essi, unicamente, ciò che al
pensiero importa che significhino. Si spiega, quindi, perchè le
lingue che hanno vere forme grammaticali procurano al pensiero, con una
singolare chiarezza e precisione, una singolare agevolezza e facilità e
rapidità di movimento: onde la formazione parallelamente progressiva e, alfine,
completa, di due stupendi organismi: quello del pensiero, nella rigida
unità e compattezza delle sue forme logiche, e quello della lingua,
nell'unità, non meno rigida e compatta, delle sue forme
sintattico-grammaticali. E, pertanto, quest'ultima, nella connessione delle
parole nella proposizione, nei rapporti sintattici fra esse, e nel
pensiero che quelle connessioni e questi rapporti esprimono, non rivela o
rispecchia, netta, l’attività logica del pensiero? Vario, relativo,
organico il pensiero, nel suo moto verso le cose, o verso la conoscenza
di esse, e tale anche la lingua e la parola, mediante l’ARTICOLAZIONE,
la FLESSIONE, le forme grammaticali, la SINTASSI. Ed è naturale: nutrito e
cresciuto il pensiero, fin dai suoi primi moti vitali, insieme con la
lingua, non poteva, nella sua naturale, invincibile tendenza
all'espressione del rapporto, non piegarla od imprimerle tutti gli
atteggiamenti e tutte le movenze del suo procedere essenzialmente discorsivo,
come innegabilmente ci provano molte parti del discorso, che non sono
infatti come notammo per altro verso che indici di direzione del
pensiero, schemi verbali di direzioni logiche (così come; sebbene pure
ecc.). E si noti, intanto, che codesto intimo rapporto di dipendenza
reciproca, che lega indissolubilmente lo sviluppo del pensiero a quello della
lingua, non è punto punto smentito o minimamente infirmato dalla differenza
talvolta anche sensibile delle forme grammaticali-sintattiche che ci vien fatto
di riscontrare anche presso lingue appartenenti al medesimo gruppo: e ciò
anzitutto perchè quel rapporto non è di natura, ma semplicemente di
aftribuzione, e, poscia, perchè la differenza delle forme grammaticali
dirette ad esprimere le stesse relazioni logiche NON MUTA IL SIGNIFICATO o
la natura di tali relazioni. Particolari disposizioni e, dirò anche,
particolari RIFLESSI DI NATURA PSICOLOGICA, dipendenti dai più varî
atteggiamenti del pensiero, oltre che da forme di sensibilità diverse e
variabili, in connessione, per giunta, con particolari condizioni di
vita e di ambiente le più svariate da popolo a popolo — il tutto.
punto punto determinabile, come non è determinabile la collocazione delle forze
che impongono alla foglia turbinata dal vento quella data direzione — hanno
dato origine alle più diverse forme grammaticali per l’espressione di un medesimo
rapporto. Fatto questo eloquentemente confermato, oltre che dalla
relativa libertà che presiede alla formazione e trasformazione delle
lingue, dalla presenza di radicali di- È versi in lingue derivate da un
medesimo ceppo (la gallica e l’italiana). Infatti cotale persistenza della
funzione formatrice, anche dopo la separazione delle lingue, non può essere
altrimenti spiegata, che con l’esistenza di una identica funzione
originaria, proprio dl come la diversa ed anche diversissima sorte che
accompagna pel mondo, e quasi istrania, i figli mati da un medesimo padre
non può in alcun modo farci negare la comune loro origine, nè,
d'altronde, riesce a distruggere in essi la profonda voce ed i vincoli
intimamente tenaci del sangue. E, peraltro, chi può negare che l'apprendimento
e sempre più facile intendimento di una lingua straniera è largamente
mediato dalla traduzione $i 0 meno consapevole di essa nella nostra ? Il che
sarebbe del tutto impossibile se le lingue, pur nella innumere varietà di
forme in cui sono riuscite a plasmarsi, non dovessero la loro origine ad
una tendenza o manifestazione psicologicamente idezzica della coscienza. Identità
di tendenza che, frattanto, per le ragioni testè ricordate, non può,
naturalmente, non mostrarci del tutto vano quanto infondato il tentativo
della filologia comparata di rintracciare il primitivo linguaggio, donde,
poscia, tutte le lingue sarebbero derivate. Infatti la ricerca filologica si è
arrestata, impotente, dinanzi ad una molteplicità che resiste ad ogni. riduzione,
e spinge, quindi, ad ammettere senz’ altro una molteplicità primitiva,
dominata, nelle sue forme somiglianti, i semplicemente da identità di
fattori, senza nessuna causa cla”: storica di derivazione. Ma
d'altronde non manca un modo veramente e, semplice per convincerci della
validità mecessazia di tutti i sistemi di segni – SISTEMA DI SEGNI --,
che l'umanità è riuscita sin qui ad organizzare e far valere come espressione
universalmente intelligibile ht, di tutti i più
intimi moti del nostro pensiero, ed è questo: spogliate la parola di
tutti i rapporti grammaticali-sintattici, Ned î annullate
tutte le norme inerenti alla prospettiva col solo capovolgere — ad
esempio — un qualsiasi quadro o disegno; alterate i rapporti armonici fra
le note musicali ed avrete, precisa, quella lingua da futuristi, che è,
senza dubbio, meno intelligibile di quella stessa degli idioti o dei
pazzi, ed un È disegno che non sarà, certo, più espressivo di
quella lingua, ed una musica, infine, od un'armonia al cui confronto
quella dei popoli più barbari potrà dirsi una sinfonia. E se,
adunque, tutti codesti sistemi di segni espressivi sono wiversalmente
intelligibili, e, per di più, universalmente identici anche nel loro
aspetto formale salvo, in parte, l’espressione linguistica ciò stesso non prova
ch'essi re- Dez: cano una validità necessaria, la cui sorgente è da
ricercarsi 3 molto, ma molto al di là del capriccio o della volontà indi-
pr viduale? Infatti perchè tutti i tentativi di creare una lingua ®
universale unica come, ad esempio, il Volapwk, l’ Esperanto, il
Deutero-Esperanto, l'Interlingua sono falliti miseramente, ognora? Non,
forse, pa pil S perchè la lingua, come vero mezzo o strumento di
espressione del pensiero, è ben lungi dall'essere così una creazione
arbitraria dell'individuo, consapevolmente compiuta secondo una piano
ordinato a scopi determinati, come il prodotto di P una spontanea
formazione naturale di ogni individuo, così dui come può dirsi del
proprio organismo fisico? E, in realtà, essa, come riflesso obiettivo
nell’ unità organica delle sue. espressioni vocali di quel coerente moto
interiore che anima il nostro organismo spirituale, è meno il
prodotto del singolo che della collettività. Infatti l'individuo
non. riesce a creare, per suo conto, che le singole parti, e cioè le
singole parole o frasi; ma la lingua, nel senso dianzi inteso, non può
dirsi, certo, tutta lì: e sì che essa richiede. ben altro; senza dire che
ogni singolo atto formativo del linguaggio, ogni atto di trasformazione,
ogni uso nuovo della. lingua rimane diretto sempre al fatto singolo, mai
alla | lingua come tutto. E poichè, pertanto, la lingua, come mezzo
o strumento di conoscenza, è precisamente e solo nel risul. tato, o nel
suo tutto, e questo tutto è, in sostanza, od essenzialmente, non solo il
prodotto delle influenze mutue delle coscienze individuali più che solo dell’
azione reciproc dei singoli inventori, che in misura varia lavorano all’
opera comune, come taluni vorrebbero ma eziandio, e sopratutto, il frutto
di una critica sociale che adotta ed elimina onde. quella forma
d'identità di pensare e di esprimersi tutta propria di ogni popolo è
naturale ammettere che il contributo dell’ individuo nella formazione
della lingua scema a misura. che si va dalla parte al tutto, il quale,
perciò, deve senz’ altro ritenersi come il frutto, principalmente, di
quella che noi comunemente diciamo azzzza collettiva. La quale, se è
pur vero che, come realtà obiettiva, è non altro che un’
astrazione, e non può, perciò, al pari dell’ individuo, creare affatto
un mito, un canto, un poema, una religione, è non meno vero, però,
che, al pari, e più dell’ individuo, è dessa che nella maniera testè
indicata riesce ad acquistare a quel mirabile strumento che è la lingua,
quella precisa e stabile forma espressiva universalmente intelligibile,
senza la quale qualsias ‘iii its ue canto, o poema, 0
religione, od altra forma che si voglia di conoscenza estetica od
intuitiva, sarebbe, per davvero, nient' altro che un mito. Onde
giustamente il Feuerbach potè affermare che se l’uomo deve alla natura la
sua esistenza, deve, però, all’uomo di essere uomo, e cioè soggetto
spiri- tuale, in virtù, appunto, della sua libera partecipazione al
possesso di quella infinita ricchezza spirituale, frutto di sforzi
millenari, che proprio la lingua, traverso la infinitudine dello spazio e
la eternità del tempo, ci conserva e consente di far nostra, senz'altro
limite che la potenza o capacità di appropriarcela: e di qui precisamente
la singolare rapidità del progresso nella storia umana, in confronto di quel
procedere sì lento della natura, che, davvero, sembra star. Sì che a buon
dritto il Guyau potè chiedersi ed esclamare, ad un tempo: D’où vient
qu'en chaque mot je cherche une harmonie? Je ne sais quelle voix a chanté dans mon
coeur! C'est comme une caresse, et mon oreille épie Et
s’emplit de douceur! E la ricercata armonia nei
nostri accenti, l'eco e la dolcezza del canto altrui nei DOSE cuori è
precisamente perchè la lingua, quale iisaltante d' infiniti sforzi
individuali e collettivi, per veder sempre meglio e più a fondo
nell'intimo del reale, può dirsi governata, nella efficacia espressiva
delle singole sue voci armonicamente connesse nell’ inviolabile struttura
delle sue forme logico-grammaticali, da norme che ricordano bene quelle
stesse che regolano e determinano l’efficacia espressiva dell'armonia
musicale. Nella quale, infatti, ciascuna nota come sappiamo
echeggia nelle altre : tonica, mediante e dominante risuonano
nell’accordo perfetto, e, inversamente, l'accordo risuona in ogni nota;
di guisa che ciò che noi prendiamo per un suono isolato è, per ontrario,
un concerto. E sì fatta legge dell'armonia è noto anche regola non solo i suoni
simultanei, ma ezianlo i successivi, in quanto gli accordi che seguono
vengo ad essere legati in maniera che il primo si prolunga nell'ultimo.
Aveva, quindi, ben ragione ANNUNZIO (si veda) rivolto agli uomini della sua
terra di affermar loro. La mia parola non è solitaria: è l'eco di un
coro che voi non udite e che pure si compone di vostre intime voci.
Avete dinanzi a voi, rivelata, la vostra essenza. Voi credete che io
trasformi tutto in poesia, mentre non altro io fo se non obbedire al
genio cui voi medesimi siete sog- getti. Voi mi giudicate dissimile,
mentre io vi somiglio come un fratello purificato. » d Qual
mesariglia, quindi, che la lingua, simile, adunque, nella sua struttira e
consistenza — secondo un'altra immagine di Guyau — Ì LI à
ces votes d’église Où le moindre bruit s'enfle en une immense voix,
I «i Ceri cosmico che ci dà il tutto nella vita del
singolo, e il sine nella vita del tutto. Benissimo: ma, allora, il senti
; | così inteso, è, forse, tutt'altra cosa che della ragione
grosso, a dir così, invece che al dettaglio ? Infatti, sol p noi non
riusciamo, bene spesso, a cogliere tutte, ad una 4 una, le ragioni
complesse e profonde che si presenta nol massa al nostro sguardo
interiore, allorchè ci decidiamo agire, è, per ciò stesso, lecito arguire
che noi agiamo, tal caso, alla cieca, ovvero che il sentimento che ci ha
g dato, sol perchè non ragionato, sia, per ciò stesso, non. zionale?
Ma il sentimento non ha, per caso, la sing prerogativa che gli viene,
appunto, dalle innume sue connessioni con le direzioni ancora
inconsapevoli de tenuto della coscienza morale in formazione di a7
in confronto della ragione, le sue vedute, e di av quindi, qual
termometro sensibilissimo della vita spi tutti gli abbassamenti o
deviazioni della condotta dalla segnata dall'ideale morale o dal dovere
non anco tutto chiara alla coscienza riflessa e, perciò, spin;
consapevolmente il soggetto morale lungo le vie del Esso, quindi, non è, in
sostanza, che luce sotto for calore, e solo così inteso può avere ed ha
un signil motto famoso di Pascal: 7 cuore ha delle ragioni
ragione non conosce, in quanto tal conflitto non è, vera pante da
tutta la precedente nostra analisi al rigua non ha nessun contenuto suo
proprio, PES pr Quindi le ragioni del cuore, se veramente
ragioni o sionevoti, non possono, in realtà, rimanere inascoltate o
7 ligibili per la ragione, sempre che questa, a sua volta, venga presa o
intesa in senso astratto, e cioè come sre meramente raziocinante, e,
quindi, affatto « pensosa tutti i 422 concreti offerti alla riflessione
dall'esperienza 4 esistenza concreta della nostra vita; giacchè tra
espe- A e ragione vi ha, per noi, profonda identità: l’ espe-‘enza non è
che ragione concreta vivente ed agente, e la gione non è che l’esperienza
stessa, astratta e quasi con-emplativa delle sue forme essenziali. È chiaro,
adunque, che, per l'umanità, allo stato nor ale, non può esservi che un
solo modo di pensare e di are: pensare e parlare, non solo in armonia e
col con- degli altri spiriti: Wie spricht ein Gcist zu anderm
Geist, eziandio, in armonia e col concorso delle cose, e cioè
conformità di quella vera esperienza, che è un tutto ra- nalmente
collegato e stretto ad unità, in quanto le funzioni nostro pensiero, ben
lungi dall'essere come, cogli ionisti, vorrebbero anche i pragmatisti un
apparec- di forme in certo modo falsificatrici della realtà, sono,
vece, non altro, originariamente, che il prolungamento, in delle funzioni
o processi del reale, come ci attesta, evi- te, la innegabile
cooperazione e solidarietà tra la nostra enza e la realtà delle cose. Si
sarebbe, sì, potuto cre- a tutti i Nietzsche e i James che le forme
e orie del nostro pensiero fossero delle semplici /orgnettes iali,
che noi fuz4iazzo sul reale, solo qualora noi fos- stati al di fuori o al
di sopra della realtà, come un do di forme vuote, senza contenuto, e cioè
fuori di quella LO sj à catena causale universale
causa ed effetto e reciprocità | di tutte le azioni causali che è l’idea
stessa della continuità senza iato nè interruzione della vita del reale,
secondo L gli stessi intuizionisti; ma poichè noi facciamo parte di
tal catena, è, dunque, impossibile ammettere che le forme fon» |
damentali del nostro pensiero non si siano formate e non si esplichino i
funzione, ad un tempo, della nostra propria natura e della natura delle
cose, da cui non siamo separati, ma solo emersi per immergerci,
conoscitivamente, ogni volta che ne veniamo fuori. Sicchè a noi non resta
che ritenere le i funzioni o categorie del nostro pensiero come l’
espressione delle inzer-azioni fra noi e le cose, e cioè i mezzi, direi,
di prendere coscienza delle più diverse azioni reciproche, a cominciare
dalla nostra: esse, quindi, non sono solamente la coscienza della nostra
causalità, ma della stessa causalità È universale; e poichè la causalità
è essenza dell’ essere e la sua rivelazione, le categorie non sono che la
coscienza stessa dell'essere, universalizzate sino ad abbracciare tutto
l'essere: ovvero la diastole e la sistole della vita universa, perchè nel
cuore stesso della realtà, e non già circum praecordia
rerum. Infatti, senza di esse, noi non potremmo dire neppure
esistenti le cose, e tanto meno dotate di tale o tal altra maniera di esistere,
da tutti affirmabile : togliete, invero, dicemmo anche innanzi
l’intelligibilità e l’ insieme dei. rapporti intelligibili, che formano
la realità stessa del reale, e non resterà di essa che quella
inconcepibile astratta poten- zialità, quella mera 3ivqus del tutto
impensabile, che è l'ormai. famoso atto puro di GENTILE (si veda).Il che
prova inconfutabilmente che la realtà è assolutamente inconcepibile, astrazion
fatta. di quanto il nostro pensiero vi mette di suo, precisamente. 2
Age con le categorie: onde quella sintesi organica di rapporti
logici in cui, conoscitivamente, consiste il reale. Ora è precisamente
questa impossibilità di concepire il reale senza le forme del nostro
pensiero che ci costringe, inevitabile, a ritenere tali forme come atti
intimi della vita mentale e, ad un tempo, della vita reale immanente
alle cose, a parte anche l’ imprescindibile necessità di ammettere
un'assoluta unità e continuità di divenire o di sviluppo della realtà; il
che, pertanto, viene ad essere confermato, fra altro, anche da sì fatta
inconcepibilità. Per ciò, più che delle forme astratte, o dei modelli
vuoti, ovvero dei « punti di vista » fotografici isolati come si vorrebbe
anche le categorie sono delle forme viventi e dei modelli flessibili
in cui la realtà entra senza giammai rinchiudervisi : quindi, come
delle vere démarches delle cose, precisamente come la funzione vitale della
locomozione è conforme alle leggi obiettive del movimento, come la
funzione dell’ assimilazione nutritiva è conforme alle leggi
fisico-chimiche delle sostanze alimentari e dello sviluppo vitale. E se è pur
vero, intanto, che le forme della nostra esperienza come Kant afferma
dipendono dalla struttura generale dello spirito umano, non per ciò è
lecito all’ intuizionismo ed al pragmatismo di aggiungere, a mo’ di
conclusione, che « la struttura dello spirito umano è l’effetto della
libera iniziativa di un certo numero di spiriti individuali » (2).
Giacchè, in realtà, pur potendosi ammettere che taluni individui, per
iniziativa davvero intelligente, ma non già « libera » sì da rimanere sottratta
alla natura delle proprie individuali disposizioni, abbiano
introdotto delle innovazioni, fatte delle scoperte, lasciata la traccia
del V. a tal riguardo, G.: Una visione teleologica del manda, Pet. rella, Napoli BERGSON : Preface de Verité et Réalité di
James. Tosh i loro genio nella tradizione, nella lingua e perfino
nel cervello della razza, non per ciò rimarrebbe spiegato il /oxdo della
nostra costituzione cerebrale, e cioè, ad esempio, la rappresentazione
del tempo e dello spazio, il principio di identità e di causalità.
Infatti tali principî non vorranno dirsi, certo, fortunate ipotesi create
da uomini intelligenti o di genio, dato che essi vengono applicati 6
origine da ogni intelligenza nel suo spontaneo moto di orientamento
spiri. tuale tra le cose e tra gli stessi stati di coscienza: e la
prova assolutamente inconfutabile ci vien data dalla presenza od
esistenza di essi anche negli animali, che non, certo, parlano. E,
veramente, non pochi di essi ad un certo grado d’altezza nella scala
zoologica hanno, con tutta evidenza, più o meno confusa e concreta la
rappresentazione dello spazio e del tempo: tutti, poi, hanno una specie
di credenza pratica e irriflessa nel principio d' identità, in
quanto tutti reagiscono nello stesso modo a delle eccitazioni
simili, e in maniera diversa a stimoli diversi; e tutti, anche, se
in qualche modo capaci di riflettere sulle azioni delle cose e
sulle particolari reazioni da essi opposte, ci danno chiara la testimonianza di
questa loro credenza vissuta e vivente: che ogni cosa ha la sua ragion d'
essere, onde la loro tendenza a cercare le ragioni delle cose nella misura
in cui tali ragioni li interessano, e, talvolta, anche per semplice
curiosità. Tutti, ancora, credono ad una realtà indipendente dalle
sensazio vo ed azioni, ad una correlazione determinata tra le loro
sensazioni ed azioni e questa realtà: il gatto [GRICE ETOLOGIA FILOSOFICA] ad
esempio che, sulle mosse di rubare del formaggio, sente che arriv il
padrone e si dà a fuggire per tema del bastone, ha Lalli N il sentimento
della pluralità costituita da sè medesimo, da padrone e dal formaggio. Ha,
inoltre, il sentimento de realtà della pressa del suo padrone, della
possibilità dell Si CATO battiture e, in fine, della relazione
costante tra la scoperta del furto e la minaccia delle percosse, oltre
che, di conseguenza, la somiglianza tra l’avvenire ed il passato. Il
gatto, adunque, è già schiavo anch’esso delle categorie tanto
descritte dai pragmatisti ed intuizionisti? Esso, infatti, si permette di
distinguere il possibile ed il reale, il passeggero ed il permanente, il
fatto e la causa, l'uno e i più, come se avesse avuto falsato lo spirito
dalla lettura dei Dialoghi dell’ACCADEMIA. Il vero è, dunque, che le forme del
nostro pensiero sono innegabilmente dei punti di contatto tra l'essere ed
il pen- siero, dei mezzi per pensar l'essere e far essere il
pensiero, delle identità tra l' intelligibile ed il reale, e tutte si
raccol- gono nella categoria razionale e reale per eccellenza che è
la ragion d'essere, dato che il divenire della realtà non è, in fondo,
che divenire del pensiero. Il che prova che la realtà è ciò che è, alla
volta, obiettivo e subiettivo: l’unità delle cose con lo spirito clie le
conosce e con l’universo di cui quelle e questo sono parti costitutive e
solidali. È naturale, quindi, che la filosofia non possa restringersi nè
al semplice sforzo come pretende Comte di raggiungere la piena conoscenza
del mondo, nè, del pari, all’ altro secondo lo Hegel di raggiungere la piena «
coscienza di sè, perchè i due punti di vista sono veri solo se
inseparabili. E ciò è provato ad evidenza dal fatto che quanto più larga
e precisa è la conoscenza che noi abbiamo del mondo che agisce in noi e
sopra di noi, tanto più piena è la conoscenza che noi veniamo ad avere di
noi stessi; e, per converso, quanto più precisa è la conoscenza di quel
tipo di realtà e di intelligenza ch'è in noi, o che siamo noi stessi
onde la virtù, da parte nostra, di concepire ogni altra esistenza ed ogni
altro pensiero tanto più perspicua e più sicura è la nostra conoscenza del
mondo nella sua realtà e intelligibilità. Quindi, qual valore può avere
una filosofia, che, annullando l’aspetto obiettivo della realtà,
riduca quest’ultima all'aspetto puramente soggettivo, o, peggio
ancora, alla mera astratta 3ivaus dell’affo $u70, come dicemmo? E
questa profonda unità delle cose con lo spirito e degli spiriti fra loro
è provata, in maniera inconfutabile, proprio da quel comune sentimento
che ci fa credere alla verità - la quale, infatti, si afferma
wniversalmente, come tale, precisa- mente ed unicamente allorchè si
manifesta come unità fra il nostro pensiero e gli obietti rivelati dalle
nostre sensazioni, e, poscia, fra il nostro pensiero ed il pensiero
altrui, che ci rivela le nostre sensazioni. È naturale, quindi, che le
nostre espressioni 0 idee sian da ritenere fermamente come scrigni,
a dir così, in cui si celano, come collane di diamanti, le leggi, ad un
tempo, del pensiero e della natura: e perciò non sono da buttarsi via
dopo l’ istante della loro creazione; esse, in altri termini, sono delle
verità immobili che noi cercammo sotto il fluire del reale, o sotto la
fluidità delle nostre sensazioni. La differenza, infatti, tra una ciliegia
ad esempio ed una bacca di belladonna, oltre a non essere puramente
nominale, non è nè pure meramente o individualmente soggettiva, com'è provato
dal fatto che, mentre la prima nutre, l’altra uccide il fanciullo che non
riescisse a rt distinguerla dalla prima. Perciò
ripeto come pretendere che i nostri progenitori avrebbero potuto pensare e
parlare a loro talento, secondo la propria comodità? Allora sì che,
per davvero, non ci sarebbe fanciullo, che, piccolo Descartes, non si
sentirebbe, necessariamente, di yewzeltre loul en question, 138 divenendo,
così, essi proprio, i fanciulli, i veri creatori della lingua, e tanto più
quanto più dimentichi o dispregiatori di ogni eredità sociale o spirituale, e
cioè futuristi ad oltranza. Mentre il vero è che, non solo la coscienza
comune e cioè precisamente di quei grandi fanciulli che sono i
popoli nella loro immensa maggioranza di individui non sogna
neppure la possibilità di far della filosofia novatrice o creatrice onde la
impossibilità, per esso, di yemettre en question alcunchè di quanto
spiritualmente ha ereditato dai suoi ante-nati, ovvero anche solo di agire alla
luce del gran lume della dea ragione quanto, eziandio, gli stessi
filosofi, avendo appreso da Platone e da Kant della naturale originaria
limitatezza del nostro sapere, non si attendono minimamente di porre in dubbio
simile verità, e, per ciò contrariamente al Nietsche, e sì, pure, a qualche
altro odierno pensatore fra noi si guardano bene dal ritenere la
propria opinione personale al di sopra delle condizioni universali
in cui essi vivono, e, a meno di esser folli, non pretendono,
certo, di essere dei supermomini. È, dunque, evidente, che le leggi della
grammatica, ben lungi dall'essere forme arbitrarie del nostro pensiero,
sono, invece, espressioni il più possibile adeguate e
indispensabil- mente zecessarie delle proprie sue leggi, risultanti, tali
espres- sioni, dalla congruenza attiva e costante collaborazione
del nostro pensiero colla natura e col gruppo umano di cui siamo
parte. E, si noti bene, tale collaborazione onde la fissità ed
universalità del linguaggio, nella immutabilità e universalità delle sue
espressioni e delle sue forme logico-grammaticali non riesce punto come piace
di opporre agl'intuizionisti a ricoprire i nostri stati d’ animo
più personali come di una guaina impersonale fabbricata dalla
società. In verità, questa preoccupazione avvertita prima e più di
ogni altro da Bergson è priva di ogni fondamento, in quanto i rigidi
comuni schemi delle forme logico-grammaticali in cui il pensiero, come
contenuto rappresentativo, deve poter essere constretto, qualora voglia
essere, davvero, strumento di conoscenza, se valgono, per l’ appunto, ad
acqui. stargli in quanto tale valore universale e necessario che
altrimenti, abbiam detto, non avrebbe, e non potrebbe in niun altro modo
avere non riescono, peraltro, ad impedire affatto, anzi nè pure minimamente
ostacolare, in quel È suo moto spirituale verso la conoscenza delle cose,
la naturale incomprimibile sua /endenza alla forma soggettiva. E, in
realtà, vi ha, per caso, corrente di pensiero che non presenti delle
particolarità che la distinguano nettamente da quella dello stesso
pensiero presso altri soggetti conoscenti? Senza pur dire che la stessa
particolare corrente di pensiero, che è È propria di ognuno di noi, può,
con tutta facilità, variare da un tempo all’altro. E tali particolarità,
che costituiscono ‘accennavamo come una frangia od alone del pensiero,
possono paragonarsi a quello che sono gli ipertoni rispetto p al tono,
per cui strumenti diversi possono riprodurre diversamente lo stesso tono: ed il
motto comune /o stile è l' uomo vuol esprimere, per l’ appunto, questa
qualità individuale, 0, A dirò così, particolare colorito espressivo, che
il pensiero, pur È nella medesimezza del suo valore oggettivo, 0
significato rappresentativo, tende ad assumere presso le singole
menti, onde la facilità con cui noi riusciamo a distinguere o
riconoscere, come se le avessimo davvero incontrate, od avute _
famigliari, oltre che le creature di ALIGHIERI (si veda0 e di
Shakespeare, e le figure di VINCI (si veda) e del Rembrandt, e i motivi
di Beethoven e del Wagner, le immagini, altresì, rampollate da una
medesima sorgente spirituale d'ispirazione e recanti, | quindi, una
medesima impronta dele, come l’immagine dell'amore cantato da Dante nella
Vita Nuova, e quel offertaci da tutti gli altri poeti del dolce stil
nuovo, non meno de Tue che da Petrarca nel suo Carzorziere e da
Shelley nel suo Epipsychidion ecc. Ed, anzi, quanto più netta e rilevata
è la personalità del soggetto conoscente, tanto più chiaro e
inconfondibile è il colorito espressivo delle sue creazioni intuitive. E
poichè, pertanto, tal colorito raggiunge la più singolare sua tonalità
individuale e la più sicura sua espres- sione caratteristica proprio
nell’ àmbito della coltura dove, appunto, vige assoluto l’imperio delle
forme Jogico-gramma- ticali, più che nell'àmbito di quella esperienza
comune, in cui, invece, è quasi completa /’assezza di tali forme,
ragione per cui il parlare di due persone volgari od incolte
presenta una uniformità o identità formale di espressione che
invano noi cercheremo nel parlare di due persone colte, e più
invano ancora se, per giunta, di diversa educazione mentale, come
un valente letterato ed un grande scienziato
non è gioco- forza concludere che le forme logico-grammaticali, ben
lungi dal distruggere o comprimere, comunque, la naturale tendenza
del pensiero alla forma soggettiva, son proprio quelle, invece, che,
mediante, appunto, la infinita loro varietà d'intreccio, ed intreccio
infinitamente variabile, offrono al pensiero di ogni singolo soggetto
conoscente la più larga possibilità di rivelare ed affermare quella sua
tendenza, nel tempo stesso che prendono ad acquistare alle sue intuizioni
un valore universale e necessario? Altrimenti come spiegare che cotale
tendenza, se non manca del tutto, è, senza dubbio, punto punto
rimarchevole nelle espressioni delle persone incolte, e manca,
altresì, nei fanciulli, che, al pari di queste, igno- rano ancora l’uso
delle forme logico-grammaticali? In ogni modo, non si può negare che
pensare significa, in un certo senso, scegliere: e noi scegliamo,
infatti, così nel ragionamento, in cui cerchiamo come il punto di passaggio da
un pensiero all'altro, come nelle intuizioni, cercando gl’elementi
necessarî maggiormente rappresentativi, ed eliminando gli insignificanti.
E proprio in sì fatta scelta, colla genialità della potenza intuitiva del
soggetto conoscente, si rivela, altresì, e con non minore evidenza, la
particolare tendenza espressiva di esso; giacchè tale tendenza si rivela
precisamente nel configurare (e cioè coordi- nare e subordinare ch’esso
fa) quegli elementi alla stregua, dirò, di un comune denominatore (e cioè
dell’ essenza del reale che è obietto dell’ intuizione, od anche solo di
quel particolare aspetto di esso che si vuole porre in rilievo), e
colorirli, altresì, d'un medesimo zoro (quello offerto od im- posto dal
carattere sentimentale proprio del soggetto conoscente). Ed ecco, in tal
modo, per dirla con parole di
Croce stesso la ballatella di Cavalcanti ed il sonetto di Angiolieri, che
sembrano il sospiro o il riso di un È istante; la Commedia d’ALIGHIERI
(si veda), che pare riassumere in sè un millennio dello spirito umano; le
Maccheronee di Merlin Cocaio, che sghignazzano sul Medio Evo tramontante;
la elegante traduzione cinquecentesca dell’Ewesde di Caro; l’asciutta
prosa di Sarpi e quella gesuitica frondosa di Bartoli. Nessuna meraviglia,
quindi, che cotal forma di pene. sare, propria di ognuno di noi, si
rifletta persino nei singoli È frammenti delle nostre serie di pensieri,
come non di rado ci provano quegli elaborati 4 mosaico di qualche alunno,
nei quali la varietà di stile dei diversi autori, i cui brani di.
pensiero concorsero alla formazione di tal mosaico, si mos Breviario che
noi proviamo all’ improvviso apparire di una parola od espressione di
lingua straniera nella nostra, non devesi, forse, alla interrotta
uniformità di stile o colorito espressivo ? E non è questa, altresi, la
causa della gradevole sorpresa o disgusto, che, lungo il procedere
discorsivo proprio di una scienza, ci procura così l’ incontro di frasi
tutte proprie del dizionario di un’altra scienza, inserite o non a
proposito, come l’uso di forme di ragionamento estraneo alla sua tecnica
logica, dato che ogni scienza, anche, ne possiede una? E la mescolanza
del parlare volgare col letterario non ci procura anch’essa disgusto per la
medesima ragione? Ora, se cotal naturale e, veramente,
insopprimibile tendenza del pensiero a forme espressive
individualmente caratteristiche o caratteristicamente individuali, pur
nella loro universale intelligibilità, riesce ad affermarsi e
raggiungere le più tipiche o singolari sue forme espressive
precisamente nel campo della coltura, in cui il rispetto alle forme
della grammatica e della sintassi è, come sappiamo, condizione sine
qua non per l'accessit in esso dei soggetti conoscenti, non si deve, per
ciò stesso, riconoscere senz'altro, che sì fatte norme sono, per lo meno,
ben lontane dall’oscurare od assorbire, nella loro universale uniformità, il
particolare colorito espressivo di ogni singolo soggetto conoscente ? E
ciò stesso non ci obbliga, d'altro canto, ad escludere, altresì, che esse
possano essere, o siano meri giochi di artifizio, od anche forme
puramente convenzionali da noi arbitrariamente imposte al pensiero?
Giacchè, senza dubbio, in tal caso come giustamente opinano gl’
intuizionisti esse sarebbero riu-scite o bene riuscirebbero come ne fan prova
le forme artificiose del Volapik dell’Esperanto e DEUTERO-ESPERANTO, e
dell’ Interlingua ad impedire l’aftermarsi ed esplicarsi della tendenza
del pensiero alla forma soggettiva, pur riuscendo questa ad estrinsecarsi è
tutto dire anche nei casi di natura patologica, I quali, invero, a
dissoluzione compiuta della personalità normale ci fanno assistere, con
tutta evidenza, alla for- o mazione di nuove personalità, che,
indeterminate dapprima, si vanno, poscia, progressivamente affermando,
fino ad assu- mere fisonomie del tutto diverse dall'antica, e nei
soggetti ipnotici, poi, l'assunzione di fisonomie nuove si mostra
pos: sibile anche dietro la semplice adozione di un nome. Or tutto.
ciò non deve necessariamente convincerci della naturale ragion d'essere
delle forme logico-grammaticali, onde l'estrema assurdità della pretesa di
Croce di volerle soppresse; il che egli credette di poter fare vietando,
con un tratto penna, l'insegnamento della grammatica nelle nostre
scuole? Pretesa che, certo, non sarebbe nè pur balenata alla sua
mente, se questa avesse avuto il potere di accorgersi che sì fatte forme,
oltre che esigenze fondamentali imprescindibili per la funzione
d'intelligibilità del pensiero, sono, altresì, il fondamento stesso della
esistenza di quest'ultimo, in quanto, appunto, condizioni e termini, ad
un tempo, del nostro fersare? Infatti, non riuscimmo noi a provare
innanzi che le forme logico-grammaticali altro non sono e non vogliono
essere, in sostanza, che espressioni pure e semplici delle relazioni 0!
rapporti che intercedono tra le cose, o tra i singoli elementi di esse,
così come le singole voci o parole non sono che i termini puramente
drdicazivi di esse cose, o dei singoli loro elementi? E come potrebbe,
adunque, darsi conoscenza i intuizione di una qualsiasi cosa fuori,
appunto, delle relazioni con altre cose, o dei rapporti che
intercedono i suoi stessi elementi (70%), sì che possa ritenersi,
cotalé intuizione, tutt'altra cosa che una sintesi, appunto, ri
mente coerente di rapporti logici? E se, adunque, cote rapporti sono, con
tutta evidenza, i so/é termini del nos TORRE pensare, non è, perciò,
da ricercarsi unicamente nella loro netta distinzione e preciso loro
significato, o valore logico, la più netta e precisa intelligibilità
della realtà? Nessuno, infatti, ignora la confusione od oscurità che,
immancabile, procura al pensiero la insufficiente distinzione formale
del valore logico-grammaticale di qualche termine del nostro
pensare, come, ad esempio, quella che ricorre nel famoso responso
dell'oracolo a Pirro, che gli ha chiesto se sarebbe riuscito vincitore nella
guerra contro i Romani: Aio te, Aeacide, Romanos vincere posse. E ciò
per di più accade non solo in rapporto al valore logico delle
espressioni, e cioè in tutti i casi che diciamo d’ANFIBOLOGIA, ma in
rapporto, altresì, allo stesso SIGNIFICATO intuitivo della parola, e cioè
anche nei casi in cui questa possiede UN DOPPIO SIGNIFICATO, onde la
famosa quanto ironica lode al debito di Berni: Debito è fare altrui
le cose oneste dunque fare il
debito è far bene. Non solo: ma lo stesso ORDINE DELLE PAROLE nel
discorso non asconde anch'esso il suo valore logico? Quante volte,
infatti, il predicato non occupa esso il posto del soggetto, per
richiamare su di sè l’attenzione e porre, quindi, in vista tutto il valore
in esso riposto dal pensiero? Valgano di esempio le seguenti espressioni.
Mobile e grande, veramente, la persona del Re!; e/ix qui potuit rerum
cognoscere causas. Spesso, ancora, il predicato logico è il soggetto
grammaticale o l'aggettivo che l’accompagna: « 7% sei l'uomo! Tutti gli
invitati sono arrivati, per dire appunto che gli invitati che sono
arrivati sono ## quelli che erano attesi. Invece nella frase, il danaro è
dentro lo scrittoio, quali dei tre elementi può dirsi preponderante o di
maggior rilievo? Non si sa, perchè potrebbe essere così il primo (danaro),
come il secondo (dentro), come anche il terzo (scrittoio). Tutto sta nel
cogliere od indovinare il pensiero o L’INTENZIONE intenzione di colui che parla
[GRICE, UTTERER’S MEANING]; ma dicendo io: è dentro ll scrittoio il
danaro, chi non comprende che l'elemento essenziale è, qui, scrittoio? Ma
potrebb’essere anche dezzro. non ricorriamo, per ciò, in sì fatti casi, e
cioè in manca È. di una qualsiasi specificazione anche in ordine al posto
occupato dalla parola nel discorso, ad una particolare accentuazione o zoro,
col quale prendiamo ad esprimere o pronunciare la parola in questione, e
cioè, nell'esempio addotto, accentuando la voce su denaro, dentro, o scrittoto?
[GRICE: IMPLICATURES OF STRESS]. E se, adunque l’intelligenza ha dovuto
ricorrere fino a simili SOTTIGLIEZZE [IMPLICATURE] pe rendere la lingua
più che mai duttile e perfettamente obbediente ai più lievi moti del pensiero,
non è semplicementi assurdo e ridevole, insieme, chiedere come fanno gl’intuizionisti
l'abolizione addirittura delle forme sin tico-grammaticali per
l’espressione del nostro pensiero? E tuttavia, il tentativo di cotal
soppressione non è stato, fors già, magnificamente compiuto dai
rappresentanti del futurismo? E con quale risultato, per la funzione
intelligibile del pensiero, sa molto bene chiunque abbia avuto occasione di
ammirare qualche saggio dei prodotti artistici di questa nuova
letteratura, il cui merito è precisamente nella mapei imintelligibilità delle
loro espressioni. È Qual meraviglia, quindi, che, in sì fatto caso,
co espressioni, appunto perchè asso/uiamente individuali ri gano,
per davvero, assolutamente intraducibili ed inclascabili? Ma è, dunque, sol perchè
zrsntelligibili, come noi affrettammo a dichiarare innanzi: onde la conseguenza
tangibile, ora, che l'elemento veramente intraducibile in una forma di
conoscenza dichiarata universale e necessaria, non può essere, e non è, che
unicamente e precisimente il particolare COLORITO ESPRESSIVO [FARBUNG – GRICE] di
ogni singolo soggetto conoscente, val quanto dire unicamente la sua forma
mentis, e non già pure il corzerzto oggettivo delle sue espressioni
o intuizioni, come sostiene Croce. Altrimenti saremmo costretti a
chiedergli perchè egli, pur convinto dell’assoluta impossibilità di
renderci, comunque, anche IL SIGNIFICATO ideale delle immagini estetiche,
oltre che la loro forma o COLORITO ESPRESSIVO, potè, nondimeno, decidersi al
tentativo di darci la traduzione sia qualsivoglia il valore di questa
di talune liriche di Goethe: ed in tal caso a lui non rimarrebbe che: o
riconoscere semplicemente pazzesco tal suo tentativo appunto perchè senza
scopo di sorta; oppure confessare il proposito, da parte sua, di darci, a
fianco o di È fronte all'opera d’arte dell’Apollo Musagete della
Germania, DI un’altra opera d’arte non meno grande e perfetta di quella,
E E sia pure: ma perchè, intanto, credette di far passare s0//0 il
nome del Goethe il contenuto ideale di quelle sue tradu-zioni, e non già sozto
il proprio suo nome, se vero è che, col i mutar dell’originaria forma
espressiva di un’opera d’arte, pi. muta, altresì, il proprio contenuto
rappresentativo? È se, pertanto, Croce crede di attribuire al Goethe e
non a sè i fantasmi ideali o l’ideale fantastico espresso da ognuna
i di quelle liriche da lui tradotte, non, forse, ciò stesso vuol È
| significare, anzi testimoniare, che l’intraducibilità è solo della È
forma espressiva e non già pure del suo CONTENUTO RAPPRESENTATIVO [GRICE,
CONTENUTO PROPOSIZIONALE], se questo vien senz'altro riconosciuto e
dichiarato dell’azzore e non già del traduttore? Se così, di fatti,
non vaemtetizizo fosse, con qual miracolo di pensiero, egli
proprio, accanito bi | assertore e propugnatore di cotal
peregrina teoria dell’asso- luta intraducibilità del pensiero altrui,
sarebbe mai giunto, poi, sino a distinguere addirittura dei cicli
progressivi «i SENO di prodotti estetici inerenti ad una « wedesima
materia », R =* sf Da = LL come ad
esempio la materia cavalleresca
durante la rinascenza italiana da Pulci ad Ariosto? Mentre, a
rimanere strettamente fermi o coerenti con la sua teoria, noi, non solo
non dovremmo assolutamente poter distinguere 7224/% di nulla in un'opera
d’arte, ma neppure la szessa maderia di un'opera da quella di un’altra;
fino al punto che, qualsi distinzione come, ad esempio, quella di
attribuire il con- tenuto del Decamerone a Francesco d’ Assisi e quello
dei Fioretti a BOCCACCIO (si veda) sarebbe la più naturale e bene
informata di questo mondo, precisamente come la su contraria ? È questo,
infatti, l’assurdo, possiam dire tangibile, cui direttamente mena »
della. sua dottrina estetica? Il che è tanto vero che proprio io
mancato riconoscimento del valore gnoseologico di tal prin- cipio ha
tratto Croce il preteso interprete autorizzato | della dottrina vichiana
: autorizzato a giudizio suo proprio, o di chiunque si voglia a non
comprendere aftatto nulla di tale dottrina, posto ch'egli è riuscito non
solo a falsarla nell'intimo e vero suo significato, quanto a spogliarla,
altresì, di tutto il suo valore filosofico. E mi darò a provare ciò
rapidissimamente, con l’opera di Vico in una mano, e quella 3 di Croce
nell’altra, sì che ognuno abbia modo di convin- cersi, ancora una volta,
come, in realtà, sia proprio nell’ abito mentale di quest'ultimo
interpetrare @ suo 2040, e cioè | nella maniera più capricciosa ed
arbitraria per le ragioni | più volte dette innanzi il pensiero degli
scrittori di cui| si occupa, e specie allorquando l’opera di questi
rientra più direttamente, od essenzialmente, nel dominio dell’arte, o
delle dottrine estetiche. Mi affretto per ciò ad iniziare senz’
altro l'esposizione del pensiero vichiano, rivolgendomi in
particolar modo a coloro che non hanno avuto occasione di leggere ji
la Scienza Nuova ; ragione per cui comincio proprio come Vico col
ricordare loro la necessità o bisogno da questi avvertito prima di
entrare nella diretta trattazione dell’opera sua di far notare al lettore come
il sistema naturale del diritto delle nazioni di tutti e tre i più celebri
| uomini del suo tempo Grozio, Seldeno e Pufendorfio debba a parere
di lui il suo più grave difetto al
fatto. che nessuno dei tre pensò stabilirlo sopra la
Provvedenza divina. Mentre si sa che, per scuoprire sicuramente | le
vere e finora nascoste origini » di cotal dritto, che investe Principi di
Scienza Nuova; a cura di Ferrari, Milano, e concerne religione, lingue,
costumanze, legge, società, g0- verno, domicilio, commerci, ordini,
imperj, giudici, pene, guerra, pace, rese, schiaviti, allianse, insomma
duéte le cose divine e umane, occorre, anzitutto, ed imprescindibilmente,
ricercare ed ammettere l’idea di un ordine universale ed
eterno. Altrimenti, come spiegare quel senso comune del genere
umano, o che è lo stesso quella certa mente umana delle nazioni, che,
usando per me227 quegli particolari fini perseguiti dai singoli individui
e « per i quali essi andrebbero a perdersi », dispone tai fini,
fuori e bene spesso contro ogni proposito degl’individui stessi, a
un fine wziversale? Non è, quindi, da me- ravigliare che cotale /dea,
sotto l'aspetto, appunto, di Pyrovvedenza ordinatrice di tutto il diritto
natural delle nazioni, debba necessariamente rimanere /a fri2a o
principal fondamento di ogni qualunque lavoro » del genere, e, per
ciò, essa non manca, e tale si dimostra per tutta l’opera sua.
Si noti, però, che, in quanto tale, essa non può, natu- ralmente,
non possedere due propietà primarie, che sono: una /’immutabilità (o
necessità ch'è lo stesso) l’altra /’uzs-versalità; giacchè solo in forza di
codeste proprietà potè venir concesso ad essa « Provvedenza, o Divina
architetta [cf GRICE INGENGNERO] di mandar fuori il mondo delle nazioni colla
regola della sapienza volgare: e cioè di quel senso comune come dicemmo
di ciascun popolo o nazione, che rego. la nostra vita socievole in tutte
le nostre umane azioni, così che facciano acconcezza in ciò che ne
sentono comunemente tutti di quel popolo o nazione. La convenienza,
poscia di questi sensi comuni di popoli o nazioni tra loro tutte è
la sapienza del genere umano. La quale, per ciò, mane, evidentemente,
come il principio informatore delle utilità o necessità umane
uniformemente comuni a tutte le particolari nature degl’uomini: il frutto
avrebbe. qui detto lo Hegel dell'ASTUZIA [GRICE CUNNING] della ragione. Giacchè,
n sostanza, cotal principio universale, o Divina Provvi- denza, non
è, pel nostro, che, per l'appunto, / agwadità dell'umana ragione in
tutti, ch'è la vera ed eterna natu umana: val quanto dire, più
semplicemente, 2° dello spirito, il quale soltanto, in verità, è il
princi reale ed assoluto che informa e dà vita a questo mondo di
Nazioni. E, poichè, intanto, la lingua è l’espressione più
univer. salmente intelligibile e sicura dell'attività spirituale, è
turale e conseguente ammettere, che, qualora essa voglia rimaner,
davvero, una forma espressiva wrzversalmente e e- cessariamente
intelligibile, debba recare quei due medesir caratteri, o froprietà
primarie, riconosciute all’attività spi tuale. Onde la necessità intesa bene da Vico di collegare com'egli fa i due motti
che per lui voglio rispettivamente esprimere il carattere di universalità
e ne di Cfr. anche Degnità: «Il senso comune è un
giudi; senza alcuna rifessione, comunemente sezzizo di tutto un ordine,
da tutto | popolo, da tutta una Nazione, o da tutto il Genere wmano. Principi
di Scienza Nuova°, Ed. Truffi Milano J N i
CI EPA AR, i Da cessità del LINGUAGGIO: «a /ove
principium Musae col quale,
addirittura, egli apre la Scienza Nuova — e « as gentium, © sia la
favella immutabile delle nazioni », a quell’altro motto, espressivo
dell'universal principio ch'è lo spirito : Jovis omnia plena. Ed
ecco, così, nell’ « Z4ea tutta chiusa in questi tre motti i*primi due dei
quali, già, possono dirsi bene sottintesi, o sinteticamente ricompresi dall’
ultimo quella chiave maestra, l’espressione per immagini
allegoriche, col suo mirabile segreto, il carattere di unzversalità,
che ci consente, senza dubbio, la più coerente e stupenda visione
sistematica di tutto quel complesso di verità e prove ti di fatto
intorno all'origine, essenza e sviluppo della lingua, che ci rivela
e dette, davvero, una scienza z%ova. E, in realtà, non si può negare
che il carattere o va-lore intelligibile della lingua o della conoscenza
intuitiva, ch’è lo stesso, è strettamente dipendente e correlativo alle
modificazioni della nostra medesima Mente umana. E poichè questa
raggiunge il suo pieno sviluppo a traverso tre fasi — che preannunziano i
#re stati di Comte, non sono, per ciò stesso, da ammettere tre diverse
forme o gradi di conoscenza poetica o intuitiva? Quella della prima
età, detta « divina », in quanto comincia dagli Dei, « con gli
auspici di Giove, e, fatta, per ciò, tutta di « parlari divini ritruovati
dai Poeti Teologhi, che ben « s' inten- devano del parlare dei Dei. E
quest'età continuandosi in un secondo
momento — per g/i ZEro:, dette luogo alla sapienza eroica, per
ricongiungersi, infine, col tempo storico certo delle nazioni; tempo in
cui si . ù = o dda ebbero, appunto, quei parlari per
rapporti naturali, che dipingono descrivendo le cose medesime che si
vogliono esprimere: della qual lingua si ritruovarono già forniti i Dopo
greci a’tempi d’Omero. i Ora Croce non ha del tutto schernevolmente
quanto inconsapevolmente negato ogni valore filosofico a codesta
distinzione do Vico, distinzione che pure involgé od esprime, | in
realtà, la norma e forma, insieme, veramente fondamentale ond'è governato e si
esplica lo sviluppo della cono- scenza, e rimane, altresì, una delle più
comuni verità della. nostra esperienza ? Infatti, che cosa vuol dire,
qui, il Vico, tenendo bene presenti le premesse da noi dianzi a
bella. posta richiamate della sua dottrina ? Semplicemente questo.
com’egli, poscia, in lungo e in largo si affretta a chife rire e
dimostrare lungo tutta l’opera sua: che i primi uomini, privi ancora di
favella, o di par/ari convenuti, non potevano, naturalmente, intendersi
fra loro che ricorrendo precisamente come i Mutoli a cose ed atti che avevano NATURALI
RAPPORTI ALL’IDEE CHE ESSI VOLEVANO SIGNIFICARE, come, per l’ appunto, ci
provano le cinque parole reali con cui Idantura, Re degli Sciti, risponde
a Dario Maggiore, che gli aveva intimato guerra Man man. E qui, molto
acutamente, Vico nota: e avvenne che quasi tutti i popoli della Grecia
ognun pretese essere Omero s cittadino, è appunto perchè, avendo questi
/essuzo i suoi poemi con i mig parlari di tutta la Grecia, ciascun popolo
avvertì in questi poemi i suoi nai parlari, onde ritenne Omero della
propria terra: il che val quanto dire: carattere più universalmente
espressivo acquistato, appunto, dalla lingua quest’ultimo in confronto di
quella di ogni altro del suo tempo. Le cinque parole reali furono: una
ranocchia, un topo, un uccello, dente d’aratro ed un arco da saettare. La
ranocchia significava ch’ esso nato dalla terra della Scizia, come dalla
terra nascono, piovendo 1’està, ranocchie e di esser figliuolo di quella
Terra ; il 4050 significa, esso € topo dov'era nato, aversi fatto la
casa, cioè aversi fondato la gente; /’wece SME però, il genere umano,
venendo in possesso della favella, cominciò a sostituire alle immagini
yea/ delle cose le immagini 272424ve di esse. E però s'intende di leggieri queste
non sarebbero mai potuto divenire mecessaziamente intelligibili fer #/#,
qualora non avessero avuto a fondamento un'idea universale, 0 un pensiero
(a tutti) comune, come, per l'appunto, una qualche cognizione di Dio o
della Divina Provvedenza, di cui, certo, essuzo andava privo. E
quale idea o cognizione più generalmente nota, o a tutti comune, di
quella di Giove, dato che «7 primi popoli erano incapaci d’universali? Ed
ecco, ora, svelato a pieno, e in tutto il suo valore gnoseologico, il
segreto della chiave maestra dell’opera vichiana: l’idea della divinità, in
funzione di categoria dell'uzzversale, pel suo carattere appunto di
universalità. E così Giove nacque in Poesia naturalmente Carattere
Divino significa, avere in esso gli auspici, cioè, che non era ad altri
soggetto che a Dio; l’aratro significa aver esso ridutto quelle terre a
coltura, e di averle dome, e fatte sue con la forza, e finalmente l’arco
da saeffare significava ch’esso aveva nella Scizia il sommo imperio
dell’armi da doverla e poterla difendere. In conclusione, egli, Dario, «
contro la ragione delle genti », gli avrebbe portata la guerra. Veggasi
Degnîtà LVII, in fine: Alla qual FAVELLA (FABVLA) NATURALE (per atti o
scopi, ch’avevano zazzrali rapporti all’ idee ch’essi volevano significare)
do- vette succedere la locuzion Poetica per immagini, somiglianze,
comparazioni, e naturali propietà. Questa Degnità è anche il principio dei
geroglifici, coi quali si trovano aver parlato tutte le nazioni, nella
loro prima barbarie. E cfr. anche Degnità: Zdee uniformi nate appo
întieri popoli tra essi loro #0n conosciuti debbono avere un mwofivo comune
di vero. Ed altrove: Col carattere divino di Giove, che fu il primo di
tutti î pensieri umani della gentilità, incominciò parimenti a formarsi
la /ineua articolata con l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo
spiegarsi felicemente i fanciullini: ed esso Giove è da’ Latini dal Yragor
del tuono detto dapprima Iovis; dal fischio del fw/mine, da’greci è detto
Zi03; dal suono che dà il fuoco, ove brucia, dagli oriertali
dovett'essere detto Ur; onde venne Urim, la potenza del fuoco, dalla
quale stessa ragione dovett' a’greci venir detto Odpavés il Cielo, ed a'
Latini il verbo Uro bruciare. E così via ancora, per lunghe
pagine. Ù in alte pet ST-PTRE WEST] gie tificazione,
del segno con la cosa significata, per cui non da meravigliare sia
accaduto che il significato immaginativo della radice e noi avemmo testè
occasione di convincercene sia riuscito a cancellarsi, per non esprimere,
poscia, la parola, che il concetto. Non solo: ma giunto il
pensiero. a sì fatto grado di sviluppo, e cioè a liberarsi da
qualsiasi, schiavità rispetto alle immagini sensibili, e divenuto, per
ciò | stesso, padrone assoluto del materiale della conoscenza, è
naturale che la parola, oltre che ogni traccia del significato radicale,
venga a perdere, anche, ogni autonomia, col pren dere a significare
unicamente ciò che al pensiero importa che significhi : diventa, cioè,
quello stesso che è IL SEGNO algebrico, perchè il concetto rimane, così,
definitivamente fissato nella sua generalità; nè basta ancora: chè
essa) acquista, altresì, la capacità di divenire il soggetto di
tutti. nessi possibili, appunto perchè scomparso in esso quel SIGNIFICATO
RADICALE, che, presente ancora, avrebbe ciò reso impossibile, o non poco
difficile. Si spiega, quindi, chiaro, adesso, perchè,
nell’ascoltari un discorso come innanzi osservammo noi, ben lungi dal tradurre le parole
in immagini della fantasia il che
darebbe luogo è facile supporre a quale tumulto e confusione nella
mente! riusciamo ad afferrare
immediatamente, e con tutta precisione € determinatezza, il senso di
esso. Come, quindi, la duttilità della lingua, e cioè la scente sua
perfezione e precisione come strumento d conoscenza, non devesi
essenzialmente all’ intelligenza? noti bene Croce che NON È PER ARTIFIZIO,
o per la natura tut propria dell’Aomo faer come assevera Bergson la
lingua diventa, progressivamente, strumento di conosc o attività
veramente conoscitiva, col progressivo svilu dell'attività
razionale; così come non è per artifizio o STE priccio che il bambino
pure, coll’affermarsi anche progressivamente del potere della ragione, viene
via via dispogliandosi di tutti i più bassi ed oscuri suoi istinti; ma
unicamente e necessariamente perchè solo a mezzo dell'attività
razionale e cioè in quanto %omo sapiens : la pensi pure al contrario
il Bergson è consentito alla coscienza
umana di elevarsi dal mondo della sensibilità a quel mondo di valori,
che è appunto il mondo dello spirito: condizione essa appunto, la
razionalità, di tutti i valori, perchè condizione size gua won della vita
stessa dello spirito. Ora, poichè l’arte
per affermazione di Croce stesso è il fondamento del mondo dello
spirito, in quanto, difatti, non si può revocare in dubbio, che la
espressione per 77224- gini, o poesia, è, « per necessità di natura, e lo
provammo bene innanzi la prima operazione della mente umana », e
per ciò « la lingua materna del genere umano », si può, eo ipso,
concludere col Croce che gli uomini tutti debbono ritenersi poeti ad un
modo? Eppure, oltre la grave fondamentale difficoltà, che in
ma- niera fix che mai varia, pei singoli soggetti conoscenti,
oppone la insufficiente esperienza, che, in generale, noi si ha della
vita interna delle cose, perchè ci fosse dato di cogliere ad un modo la
individualità vera e propria di esse o della vita intima del reale come innanzi ampiamente mostrammo, non,
fors’ anche, giusto l’ altro grave
impedimento posto in luce dal Bergson fra la natura e noi (che dico?
fra noi e la nostra coscienza) s'interpone un velo, velo spesso per
gl’uomini comuni, velo leggero, quasi trasparente per l'artista ed il
poeta? Quel velo che, impedendoci, ‘naturalmente, di farci vedere e
comprendere le cose per sè stesse, ce le mostra, invece, 7 Riso pp.
142-143; Laterza, Bari; . ea DETTO, \
o VI d Y A Ti,
A TRES unicamente sotto il rapporto che esse hanno coi nostri
bisogni, e punto, già, nel loro naturale clinanzer, o tendenza che le trae a
perseverare nel proprio essere. Di guisa che, di solito, noi non vediamo
e sentiamo del mondo esterno | che solo ciò che i nostri sensi ne traggono
per illuminare. la nostra condotta, e, quindi, essi non ci danno della
realtà che una semplificazione pratica », così come noi non conosciamo,
ugualmente, di noi stessi « che quello che affiora alla superficie e
prende parte all’azione, e cioè non altro che È lo spiegamento esterno
della nostra coscienza, e non già i nostri stati d'animo che si nascondono
a noi in quello che i hanno di intimo, di personale, di originalmente
vissuto (1 e. Di conseguenza noi saremmo stati realmente Zulli artisti,
solo se la realtà avesse preso a co/pire direttamente i nostri sensi e la
nostra coscienza », e, quindi, fossimo potuto. entrare in comunicazione
immediata con le cose e noi stessi », giacchè, in tal caso, la nostra
anima sarebbe riuscita a vibrare all’ unisono con la natura. E come,
in realtà, negare che codesto velo abitualmente ed istintivamente se non fatalmente e inevitabilmente,
secondo il Bergson si interpone davvero tra la natura e noi, e fra.
noi e la nostra coscienza, ed è spesso, certo, fra gli uomini comuni, e
leggero e quasi trasparente per gli artisti e poeti, per non ritenere
tangibile, a dir così, l’ assurdità dell’ affe mazione crociana: che noi
si sia #ut: poeti, e ad un modo E sì che è anche comunemente noto,
in quanto cano fondamentale per l’arte e per la vita di essa, e da Cr per giunta, come da niun altro,
forse, di continuo ricordai che
l’opera d’arte dev'essere spoglia di ogni fine inter . 2190902
sato che non fosse, appunto, la più adeguata e genuina espressione o
rivelazione della vita intima del Reale, ragione per cui diciamo, a tal
proposito: che l’arte uéto fa e nulla si scopre, se non appunto tale
intimità di vita delle cose. E allora? i Allora risulta in ogni modo
evidente, che se Croce che pure ha scritto un enorme trattato di Logica avesse avuto una cognizione chiara ed
esatta dei processi logici onde il nostro pensiero tende come ampiamente vedemmo innanzi ad
affermarsi, appunto, compiuto e coerente organismo logico, indubbiamente,
prima stesso di negare ogni valore alle forme grammaticali del
linguaggio, egli si sarebbe ben guardato di non riconoscere alcun valore
alla distinzione delle tre fasi di sviluppo dell'attività conoscitiva.
Fasi, che, in verità, noi possiamo ridurre senz'altro a due, in quanto,
produttrici entrambe, le due prime, d’espressioni per #rasporto o
metaforiche, la distinzione fra esse viene ad essere, naturalmente,
puramente empirica: e, per ciò, mentre l’una
sintesi delle due prime
rimane creatrice di roi poetici: frutto, appunto, d’intuizioni per
serzgdianza di cose conosciute ; l’altra affermasi creatrice d'immagini
proprie: frutto di diretta intuizione della realtà. Ora, con tal
riconoscimento, è chiaro che il pensiero crociano avrebbe evitato
senz’altro di cadere in una posizione davvero sconciamente
contradittoria. Giacchè, mentre, da un lato, egli ammette bene, col Vico,
che alle origini il pensiero umano, non saffiendo la causa delle cose,
non può, di zecessità, non intuire o concepire la realtà che per
immagini (e solo metaforiche, già), ragione per cui l’uomo non può,
originariamente, non essere foeta (e cioè facitore appunto o creatore d'
272722g7777,come udremo più in là proprio dal nostro), dall’ altro,
contrariamente al Vico, e, quindi, in Fi RARO VAL
ARE cn pp o ped Be 5 iti vien ile
x he Masi RUE ITA TIA RITA fg AI #i% Mes
E contradizione con tali premesse, prende senz’ altro a concludere che
l’arte (frutto, adunque, per quest’ultimo, della seconda fase di sviluppo
del pensiero, o, possiamo dir pure, del secondo momento dialettico del
pensiero, in sintesi, già, col primo, giacchè solo allora, in verità,
esso riesce a creare l’immagini proprie delle cose o della realtà) è « il
momento È della barbarie e ingenuità dello spirito: come dire quel
tale « persar da bestie », tutto proprio di quel primo momento, in cui, per
recessità di natura, € necessità
insuperabile lo spirito non può creare
che per simzglianza di cose conosciute, e, per ciò, non altro che
#raslati. E cioè quei tali tropi poetici, o immagini metaforiche, o figure
retoriche, che nessuno, mai, più recisamente e convintamente di
Croce ha dichiarato zon arte, anzi addirittura arzzartistiche 1 Ed è
così che si ragiona? E valeva, allora, la pena, tanti anni sono, di
mettere il mondo a rumore con quella crociata, veramente, e così 7zzz0rosa,
contro lo studio, nelle nostre scuole, della retorica, o anche solo
contro la più semplice considerazione generalmente accordata alle immagini retoriche,
se queste, evidentissimamente, sono originarie quanto necessarie forme
successive di sviluppo del pensiero conoscitivo, e per ciò frutto proprio del
primo momento, quello appunto di barbarie e ingenuità dello spirito,
incapace, com’ esso è tal momento, sia « d’ intendere il ro delle cose,
che appellar (queste) con voci propie? Onde un esprimersi, naturalmente,
solo « con metafore attuose, simiglianze. Quindi, più eterna di così, in
quanto tale, davvero? Giacchè, infatti, « fer necessità di natura, la
mente umana in entrambe le fasi o = it, Za GEA e IT. Si
Pu , se e SVIENE SI e_N II Cap FA e
na al sti RETTE eeti
sas momenti di sviluppo della sua attività conoscitiva, non può
| abbiamo visto riescire ad
esprimersi altrimenti che dex immagini. Ma non per questo, però, le due
specie d’immagini, o forme d’ espressione poetica, dei rispettivi due momenti, sono
senz’altro da identificare; giacchè le immagini assolutamente allegoriche e,
per ciò, del tutto fantastiche della | a Metafisica poetica: espressione
propria del fr7720 momento; rimangono sempre, pel nostro, di fronte a
quelle del tutto ragionate della Logica poetica: espressione del
secondo momento frutto genuino di
un fersar da bestie, ch îa per ciò appunto, oggidì, afpera intendere si
può, affatto imma: guare non si fuò. Giudichi, quindi, ognuno, con
quanto arbitrio ed insensatezza Croce ha preso a identificare le
due forme d' espressione, onde di rimbalzo, nel campo de cultura (dove,
purtroppo, per inerzia o per incapacità mentale, È: si reputa ed usa in
genere di pezsare e sapere col giurare in verba magistri, anche se,
talvolta, il maestro è tale, com non di rado oggidì, cui, a nostra volta,
saria vergogna ess maestro +) quella orrenda confusione tra Arte e Poesia,
pi cui anche persone dell'altezza mentale, per esempio, di t
Cesareo (che può vantare, fra altro, anche lui la concezia di un
saggio sull’Arte) è giunto con un’
ingenuità dovrebbe essere del tutto impossibile in un uomo di cultu
veramente sino ad affermare: quella dell’uomo de caverne poeta è una
figurazione graziosa ma alquanto can- | zonatoria. Canzonatoria?!!
E perchè, di grazia? Avrebb'egli pretes per caso, che quell'uomo, più che
fer immagini, e come alt mai sublimi divine nel senso vichiano, già: e cioè del tu
metaforiche si fosse espresso per concetti, e magari add Saggio sull’Arte
creatrice, Zanichelli, Bologna. RIVE, et rittura nella maniera concettuale
dello stesso maestro dell’ 27/0 puro, od anche dei suoi cuccioli
metafisicanti, dato che a questi riesce in particolar modo impossibile
concepire la realtà per immagini ? Tanto vero, che se, talvolta, vi si
pro- vano, chi non sa per
confessione loro stessa quali
immagini plebee vengon fuori? Ora tale confusione, e nei domini della più
alta cultura, non prova, evidente, che il concetto di poesia,
qual'espressione puramente per immagini, non è stato fin qui, ch'io
sappia, E, in verità, come mai il Cesareo, che, col suo Saggio su 2°
Arte creatrice, ha pur creduto di poter fissare i lineamenti di una nuova
Zsfefica ben diversa da quella del Croce, e pigliando, già, anche lui, le
mosse dalla filosofia del Vico, la quale, al pari del primo, egli pure ha
creduto di poter, qua e là, correggere ed integrare, abbia, nondimeno,
finito coll’intendere anche lui il concetto vichiano della poesia
precisamente a mo’ di Croce, e non già nell’accezione mille volte datane
dal Nostro di immagine allegorica o meta- forica, io non son riuscito a
comprendere. E sì, per giunta, che anche in questo caso il Vico, come
prevedendo l’obiezione del Cesareo come, già, l’altra del Croce non ha
mancato nè pure di indicare esplicitamente le ra- gioni per cui la poesia
nacque prima della prosa. Da tutto ciò e cioè dalla prova datane innanzi
del carattere origizario e necessario delle figure retoriche, per cui |’
indistru/tibilità di queste sembra essersi dimostrato La Locuzione
poetica esser nata per necessità di natura umana prima della prosaica ; come
per necessità di natura umana nacquero esse Favole Universali Fantastici,
prima degl’universali ragionati, o siano Filosofici ; i quali nacquero per
mezzo di essi far/ari prosaici; perocchè essendo i Poeti innanzi andati a
formare la Zavella poetica con la Composizione dell’ idee particolari,
come si è a pieno dimostrato; da essa vennero poi i fofolî a formare i
parlari da prosa col contrarre in ciascheduna voce, come in un gezere, le
parti, ch’aveva composta la favella poetica ; e di quella /rase poetica,
per esempio, mi bolle il singue nel cuore, ch'è parlare per propietà
naturale e/erza, ed universale a tutto il genere umano; del sangue del
ribollimento e del cuore fecero urna sola voce com’un genere che da’ Greci fu
detto oouazoi, da’ Latini #ra
dagli Italiani co//era. Con ugual passo de’ geroglifici e delle /eflere
volgari, come generi da conformarvi innumerabili voci articolate diverse,
per lo che vi abbisognò fior d’ ingegno: co’ quali gezeri volgari e di
voci e di lettere, s'andarono a fare più spedit: le menti dei popoli, ed a
for- marsi astrattive; onde poi vi si poterono provenir i Zi/osofi, i
quali formano i gereri intelligibili: lo che quì ragionato è una particella
della. Storia dell’idee. cita e e bd Sa
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i re cs = dee la 7 faro fida: 0h compreso mai da nessuno? Giacchè,
generalmente, s'è preso ritenere
come si ritiene poesia,
unicamente le espressi per versi, strofe, rime ecc., che non solo udimmo
da Vico sono le x/#me espressioni della ragion poetica, quan
altresì, può darsi bene il caso che con tutto ciò, e cioè più sonori
versi di questo mondo, non si riesca punto a f della poesia, e cioè
creare un organismo di immagini ( goriche o proprie che possano essere),
e solo, invece, organismo puro e semplice di concetti. Infatti non si
ritiene, forse, poesia, ed essenzialmente tale, dall’opera capitale di LUCREZIO
(si veda), sol perchè espressa in versi, e punto tale i loghi dell’ACCADEMIA,
a' quali possiamo aggiungere quelli du Leopardi, non che l’opera capitale
di Schopenhauer, in quanto la vincono, e senza paragone, sulla prima, per
ricchezza e potenza espressiva delle immagini? E, tuttavia, andate a dire
nel campo della cultura che queste ultime 0 sono poesia ben più vera
della prima, e cosa più mirabolante ancora esse sono, ad un tempo; opera
d’arte, appunto perchè le immagini ond?’e esprimono la vita del Reale,
oltre che singolarmente proprie, nutrite, anci più che mai di fersiero,
invece che di puro senzimento, come dal mondo turale, in genere, e da Croce,
in particolare, si pretende debbano esse; immagini dell’arte! Si vedrà
alla fine di questa nostra indagine critica a profonda rivoluzione
filosofica ha tratto il nostro pensiero codesto nuovo cetto dell’arte,
nel riesaminare che a noi, di conseguenza, s’impose stregua di cotal nuovo suo
fondamento conoscitivo, tutti gli altri proble pensiero, che comunemente
noi diciamo massimi: rivoluzione, peraltro, implii idealmente nello
stesso pensiero di Vico, inteso, già, nel senso da no: quì indicato, con
le stesse sue parole. Infatti, non escludeva egli, testè,
quivocabilmente, la conoscenza logica quale funzione origizaria, o conoscitiva
del nostro spirito, non essendo essa, per lui, che una mera plificazione
pratica, od espressione puramente schematica della conoscenza | tiva? e
cioè per dirla con le stesse sue parole una forma co delle parti della favella
poetica, in quanto « composizione delle 3 ticolari (0 note predicative,
diremmo noi oggi) delle immagini intuiti ciascheduna voce, come in un genere:
il corcezfo, appunto? Il che, d’al in maniera inoppugnabile mostrammo
anche noi, innanzi, per nostro Quindi forma vera e propria di conoscenza,
0 conoscenza veramente 0 del nostro spirito, unicamente quella iniziva,
che raggiunge appunto la. piena sua adeguatezza e compiutezza nelle
immagini proprie, 0 dell’a ragione per cui, anche, il nostro credè di
darle lo stupendo quanto af. po Eppure, fin dai suoi tempi, il
Manzoni non solo avvertì come
ricorderemo più dltre che il canto desti- appellativo di « lingua maferna
del genere umano », escludendo eziandio, così, che, in quanto tale, possa
esservene un’altra. E, poi, la stessa /ogica interna della dottrina
estetica di Croce pur affermando
egli il contrario a parole non trae,
furse, alla medesima conseguenza? Egli ci disse, infatti, innanzi, che il
concetto è inconcepibile, fuori dell’ intuizione, o immagine, perchè
quivi soltanto, e in nessun altro luogo, il suo « aere spirabile, salvo
ad ammetterlo in un altro mondo che non si può pensare e perciò non è ».
Non solo, ma chiedendosi anche altrove: Che cosa è la conoscenza per
concetti x ? risponde: È conoscenza di relazioni di cose, e le cose sono
intuizioni. E continua: Senza 2e intuizioni quindi 207 sono possibili î
concetti, come senza la materia delle impressioni non è possibile l’intuizione
stessa (Breviario): onde la conseguenza, perfettamente i regola: che
l’attività logica, dipendendo inevitabilmente da quella estetica, viene ad
essere effettivamente quest’altra attività, serbando, quindi, in fondo,
un’ esistenza puramente putativa o convenzionale. Conseguenza intendiamoci che deriva direttamente da un
principio, e del tutto bene fondato, affermato da Croce stesso: un'attività il cui principio dipenda da
quello di un’altra attività, è, effettivamente, quest'altra attività, e
ritiene su sè un’esistenza puramente $u/afiva o convenzionale (Brev.). Come,
quindi, è mai possibile ammettere, logicamente, altra conoscenza se non
solo pulaliva o convenzionale com'è di fatto la conoscenza per concetti oltre quella intuitiva o per immagini, e
riconoscerle, per giunta, un grad »
o valore conoscitivo superiore, a quello stesso di quest’ ultima,
col ritenerla il secondo gradino della conoscenza, nel tempo stesso che
la suprema istanza del pensiero? Ma se le intuizioni, s’è pienamente riconosciuto, quali immagini
$rogrie delle cose o della vita del reale, ci dànno già una conoscenza
perfettamente adegzaza e compiuta del loro obietto, e, per ciò stesso, di
carattere universale e necessario; e, intanto, codesto valore universale e
necessario val quanto dire
essenzialmente /ogico non devesi,
naturalmente, che al concetto implicito in esse, qual’espressione appunto
dell’essezza delle cose », tanto più che il concetto non può trovarsi od
esistere 7 nessun altro luogo fuori delle intuizioni; è lecito sapere
come e dove si potrebbe e dovrebbe trovare altra e superiore conoscenza
fuori ed oltre di questa offertaci dalle immagini intuitive? Solo, certo,
« 72 x altro mondo che non si può pensare e perciò non é. Ma potrebbe qui opporre Croce la conoscenza
logica o per concetti non è, forse, conoscenza di re/azioni di cose, a
differenza dell’altra per immagini, ch’ è intuizione dell’essezza delle
cose? Sia pure. Ma non è altresì vero che «l’operazione da parte della nostra mente di sciogliere i fatti espressivi (od
intuizioni) in rapporti logici % an * Ae Ue rp
i +0 nato a vivere eterno è quello che la lingua trae dal
fe profondo, quanto, altresì, che « /a poesia contata per nu per raggiungere
appunto la conoscenza delle relazioni delle cose, e pass così, dal primo
al secondo gradino della conoscenza: e cioè dall’ arte filosofia si concreta, a sua volta, per affermazione sempre di Croce ce lo
mostrano, peraltro, ix concreto tutte le più grandiose, geniali
Weztaschauungen, o intuizioni della vita del mondo, che noi dobbiamo all'arte in
un’espressione? E l’espressione non è arte, o intuizione, e punto, già,
; sofia, quindi affatto wferiore grado di conoscenza? Ed affermare,
intanto, che il pensare scenzificamente prende di neces. una forma
estetica, non è, semplicemente, una contradizione in fermi posto che
l’espressione od intuizione non può în nessun modo contenere pensiero
scientifico, e cioè quelle astrazioni a cui essa per dichiarazioni Croce sempre
estremamente ripugna, anzi mon conosce nemmeno #9] Sono contradizioni,
queste, sì stridenti ed insanabili, evidentemente, cui solo la mente del
Croce è in particolar modo capace, come abbiamo vi sin qui. Rimane,
così, pienamente assodato, che per la stessa /ogica interna de dottrina
estetica di quest'ultimo e ce ne assicura egli non meno de mente e
inconfutabilmente anche più oltre, in più altri modi non originariamente,
e per ciò stricto sensu, che un’ zziea forma di cono e suprema istanza,
già, essa stessa, del pensiero: la conoscenza per imm poichè l’altra per
concetti è, in realtà, meramente pufaliva o convenziona Croce ha creduto
di far ammettere anche a Vico un secondo gradino conoscenza, solo per
aver egli preso a scambiare, nell’ interpretare la filo vichiana, il
secondo momento dialettico dell’attività conoscitiva (7r24%i%v4 s che, in
sintesi col primo (la poesia), ci dà le immagini proprie dell’ar cioè la
forma conoscitiva più adeguatamente piena e compiuta che sia di
raggiungere al nostro pensiero con un grado per se stesso wlferior
formalmente diverso della nostra attività conoscitiva. i E sì fatte
illusioni di ottica mentale proprie di
Croce, anche si deb principalmente a quella gioconda quanto facile sua
trovata per interpreti suo dire, il pensiero degli scrittori antichi di
quel tale dialogo di. parla proprio nell’Avvertenza a La filosofia di
Vico dialogo tl antico e nuovo pensiero nel quale solamente l'antico
pensiero viene inte compreso, col piegarlo,com’egli usa, puramente e
semplicemi fargli significare ciò ch'è soltanto nel cervello di lui e
punto già nel p o nella dottrina di quegli scrittori, onde la piena
assoluta sua convinzio aver egli, così, e come altri mai, infallibilmente
inteso e compreso il di quelli, non senza peggio ancora far appello,
quando occorra, all’illusioni, proprio come nel caso in quistione,
ri di sillabe deve finire, rimanendo eterno il suo spirito
nella prosa. E Tommaseo, che gli ha dato sempre ascolto, in
quell'occasione non seppe tenersi come, in altro modo, oggidì Cesareo dal
ribattere. Il metro, il metro ancora più che il ritmo, è un bisogno, non
tanto del senso quanto dell'anima umana e della ragione stessa, che, come
immagine di Dio, ama le cose in misura ed in numero. Quale stranezza!
nota, a sua volta, Borgese. Che c’entra l’infinità di Dio con le dieci o
undici dita, coi numeri della prosodia scolastica e della tombola di
famiglia? Lo spirito si espande, elude regole e strettoie; le dighe fra
prosa e poesia cadono; la prosa diventa il grande organo a mille canne da
cui la ragione parla e il cuore canta. E con ciò si noti nonsi vuol
concludere che la poesia contata per numero di sillabe debba necessariamente
perire. Le matematiche sublimi non aboliscono l’abaco, la danza delle
sfere non prescrive i ballabili, e l’ alto giardinaggio ammette i fiori che si
contano per numero di petali. Bene, quindi, può nascere la pagina del cielo
di burrasca sopra il Lazzaretto nei Promessi Sposi; e accanto ad
essa può sopravvivere, o vivere, il semplice stornello. E non,
forse, lo stesso Canto e perfino il verso, come, già, tutte le figure
retoriche, formano, pel Nostro, parte di « tutta la suppellettile della
favella poetica? Penultima forma espressiva, infatti, della « agion Poetica è il
canto e per w/timo il verso. Ed è ben noto, invero, che i mutoli mandan
fuori i suoni informi carzando ; e gli scilinguati pur cantando
spediscono la lingua a pronunziare; e che, in generale, anche, gl’uomini
sfogano le grandi passioni Degnità dando nel caz/0, come si sperimenta
ne’sommamente addolorati et allegri, E però, mentre, in un primo momento,
gl’uomini mutoli dovettero come fanno i mutoli, mandar fuori le vocali
cantando; di poi, come fanno gli scilinguati, 3 dovettero, pur caz/ando
mandar fuori l’articolate di consonanti. Di tal primo canto de’popoli
fanno gran prova i dittonghi È ch'essi ci lasciarono nelle lingue; che
dovettero dapprima essere assai più in numero; siccome i greci e i francesi,
che passarono anzitempo dall’età poetica alla volgare, ce n'han lasciato
moltissimi, come nelle Degnità si è osservato; e la cagion si è, che le vocali
sono facili a formarsi; ma le consonanti difficili; e perchè si è
dimostrato che tai primi La uomini stupidi, per muoversi a proferire le
voci, dovevano sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si
spiegano con altissime voci; e la natura porta, ch'ove uomo a/zi assaî |la voce
egli dia ne’ dittonghi e nel canto, come nelle Degrità si è accennato ;
onde poco sopra dimostrammo, i primi uomini. Greci nel tempo de’ loro Dei
aver formato il fri0 verso eroico spondaico col dittongo ra, e pieno due
volte più di vocali, che consonanti. E codesto primo verso dove nascere
convenevole alla lingua ed all'età degl’eroi – COME NAPOLEONE, qual È è il
verso eroico, il più grande di tutti gli altri, e propio dell’eroica
Poesia; e nacque da passioni violentissime di spa- 1 vento e di giubilo,
come la Poesia Eroica non tratta che Ri # passioni perturbatissime ». E
nacque, anzitutto, « sfondaico » } I, dappoi facendosi i% spedite e le
menti e le lingue, v’ ammise il dattilo; appresso spedendosi entrambe
vieppit, nacque il Bi giambico, il cui piede è detto presto da Orazio, come
di tali Ti n % P #9 se Degnità. E
continua: Queste due degnità, supposto che gli Mai autori delle nazioni
gentili eran andati ’n uno stato ferino di destie mute; e che per quest’
istesso da/ordi non si fussero risentiti, ch’a spinte di violentissime
passioni, dovettero formare le prime loro lingue cantando di i
4 Origini si son proposte due Degnità; finalmente, fattesi quelle
speditissime, venne la prosa; la quale, come testè si è veduto, parla
quasi per generi intelligibili; ed alla prosa il verso giambico
s'afpressa tanto, che spesso 7ravvedutamente cadeva ai Prosatori scrivendo.
Così il canto s'andò ne’ versi affrettando coi medesimi passi, co' quali
si spedirono nelle Nazioni e le lingue e l’idee, come anche nelle Degwità
si è avvisato, Tal Filosofia ci è confermata dalla Storia. Ed è
perfettamente vero. Perchè noi, pur avendo seguìto altra via del tutto
diversa dalla sua, siamo pervenuti alle medesime conseguenze. Non,
quindi, ha ben ragione anche ANNUNZIO (si veda) di affermare, e del tutto
sprezzantemente: Io sono di continuo minacciato dal sistema metrico
decimale dei pesi e delle misure. Sono di continuo sospinto verso la
bilancia e verso la stadera, verso l’endecasillabo e verso l’ottonario,
verso le clausole ciceroniane e verso le cadenze predicatorie. Odo
vantare la coscienza, odo celebrare l’ inspirazione, odo affermare la
rivoluzione. Il mio sorriso persiste; e fa rilucere intorno a me le
carrucole perpetue e le rotaie inflessibili. Ma che farci, se, pur troppo,
come giustamente assevera Borgese — non si dà, in generale, verità quanto
si voglia decisiva, che riesca a sradicare del tutto un errore;
fosse pure il più secco e stremenzito? E, di fatti, il rivelarsi e
progredire della verità non raggiunge altro effetto che quello, soltanto,
di rendere più secchi e noiosi gli errori! E non, forse, perchè codesti
errori sono in particolar modo alimen- tati e mantenuti in vita proprio
da coloro che prima e più degli altri dovrebbero ripudiarli e concorrere
a farli ripudiare, in Per l’ Italia degli italiani: Bottega di poesia» - Milano. VER” g° CE
TAI Py 9 È ERO POTTER REI TI Ma i / quanto
ritenuti, essi, con qualsivoglia fondamento, maestri È del: pensiero,
rimangono essi proprio i più tenaci e pervi=. caci propagandatori fra i
proprî discepoli o seguaci? Infatti, non, forse, proprio GENTILE (si
veda) che prima e più calo- È rosamente di ogni altro, anche, prese a
giurare 27 verba Crucis, coll’ affermare che il maggiore studio che ci
sia i; intorno al pensiero vichiano è precisamente quello di Croce ha
continuato e continua imperterrito ad alimentare il grave errore in quistione?
E come egli, che ha pur letto e meditato tanto la filosofia di Vico, sia
riuscito ad intenderla e comprenderla proprio nello s/esso modo di Croce lo
sa lui. A noi qui, ora, preme soltanto far notare, che se egli fosse
riuscito a cogliere il significato filosofico e valore conoscitivo della
famosa chia maestra, o principio primo di quella filosofiia,
avrebbi subito compreso, persuadendosi senz’ altro, che se ANNUNZIO (si
veda) ad esempio non avesse scritto pur un verso, ma solo i romanzi a noi
noti, egli sarebbe rimast ugualmente il più prodigioso poeta che abbia
mai visto la stes prima età del genere umano: e cioè il più sublime,
divino quanto inesauribile creatore d'immagini: immagini che em
co gono singolarmente mirabili non solo da brevi insieme di vo ma
quasi, anche, da ogni singola voce, allorchè, almeno, que sono di sua
creazione. E ne abbiamo, tante, in verità, cre da lui singolarmente
immaginose; onde, non a torto, egli ferma di sè: « #ulto m'è visione, e
tutto m'è simbolo. Ma ANNUNZIO (si veda), però, è anche artista, oltre che
poeta, e arti st non meno possente del poeta, per quella « divina
proporzioi che le immagini da lui create recano insuperabilmente,
insuperabilmente, per ciò, immagini proprie delle forme de realtà, che
esse ci vogliono raffigurare, dato che la porzione a dire di Croce stesso, che
ripete sempi mente un concetto di Vico — è la caratteristica
fondamen- tale delle immagini deil’ arte. Ciò posto, come o donde
la esilarante conclusione del filosofo di Pescasseroli : che l’ arte può
ritrovarsi, anche, in un organismo intellettivo o di con- cetti, e
questo, per ciò, irdifferentemente, può ritenersi arte o scienza, a
seconda che si prenda a cortemplarlo od esami- narlo nella verità che
esso esprime ? Uditelo un pò: « Ogni opera di scienza è insieme opera d’
arte. Il lato estetico potrà restare poco avvertito, quando la nostra
mente sia tutta presa dallo sforzo d'intendere il pensiero dello
scienziato ed esa- minarne la verità. Ma non resta più inavvertito quando
dall’ attività dell’intendere passiamo a quella del contemplare, e
vediamo il pensiero o svolgersi innanzi limpido, netto, ben contornato,
senza parole superflue, senza parole mancanti, con ritmo e intonazione
appropriati, ovvero confuso, rotto, impacciato, saltellante. Il che
significa, dunque, nè più nè meno, che l’immagine ed il concetto, e cioè
un fantasma lirico, e un pensiero VICO, infatti, nell’orazione in morte di
Cimini, richiamandosi come di frequente al concetto proprio della poesia, la
quale udimmo raggiunge, per lui, il sommo divino suo artifizio allorchè, a
somiglianza di Dio, dalla nostra idea diamo l’essere alle cose che non lo
hanno, tiene a chiarire e precisare : quelli’ Idea, però, che impossidil
cosa è esserci venuta in mente jer li sensi mortali (come le nostre
proprietà) i quali, quanto s' intendono di tutt’altre cose de’ corpi
#2n/0 z0n san nulla affatto delle certe misure e proporzioni de’ corpi
onde forse per ciò i valenti dipintori che sanno l’ ideal bellezza in
tela ritrarre hanno il titolo di divizi » ve di quì 1’ espres- sione:
divina proporzione ricavata da Croce. Il che vuol dire, in termini
nostri, che solo allorquando noi riusciamo colla nostra mezze, o riflessione,
più che coi sensi, a cogliere l’espressione propria o caratteristica
delle cose, la quale viene a noi fornita unicamente dalla ricerca
dell’ordize e valore logico delle stesse loro zo/e costitutive chè questo
e non altro vuol significare, quì, la cera misura e proporzione dei corpi
noi si raggiunge l’immagine e conoscenza vera e propria di esse
cose, Estetica e Breviario è. Bien e eg RI
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Lau MARTI n Th CAV; - critico sono la stessa cosa,
formalmente e sostanzialmente; come dire: maschio e femmina la stessa
persona. Infatti Croce non inizia addirittura la sua Zstetica
proprio col richiamare la nostra attenzione sulla natura @ carattere
espressivo assolutamente diverso, che distingue la imagine dal CONCETTO, in
quanto la prima è linguaggio del sentimento, e per ciò conoscenza intuitiva o
dell’individuale, e l'altro LINGUAGGIO dell’ z72/e//etto, e per ciò
conoscenza dell’urnversale Non solo, ma non aggiunge, anche, per maggior
distinzione, che l'una rappresenta il $ri720 grado della conoscenza e
l’altro il secondo? È. E, come, allora, anche sotto tale aspetto
l’ux può essere, ad un tempo, de, e il due 0? Sono, evidente.
mente, contradizioni e assurdità inconcepibili, che potrebber nondimeno,
sparire solo nel caso che si volesse ammetteri una precisa distinzione tra
forma e contenuto, sì da ritenere. l’arte non altro, invero, che mero
involucro delle forme. superiori e complessedel pensiero. Cosa che Croce,
per primo, e più recisamente che mai, nega, affermando con SANCTIS (si
veda) che il contenuto è la forma e la forma è il contenuto, giacchè
l’intuizione e L’ESPRESSIONE vengono l'una fuori con l’altra, perchè non
sono due, ma uno. E poichi intanto, l'intuizione, od espressione, non può
rappresentare. che stati d' animo, vale a dire nient'altro che la
fassiozali il sentimento, la personalità, che si trovano in ogni arte
e determinano il carattere lirico », come, per ciò stesso, e può
darci, mai, e, peggio ancora, ad un tempo, il fe dell'artista e del filosofo,
se la contradizion nol consente? di fatti, l’attività intuitiva od
espressiva, al pari dell’ incoe cibile potere posseduto dal re Mida di
trasformare in oi Estetica tutto quello ch’egli toccava con le mani, non
può darci, inevitabilmente, che 7m2m0agizi, e solo immagini e
sempre immagini, e cioè a7rfe e solo arte e sempre arte. E non,
forse, proprio ciò intende affermare Croce stesso là ove dice che L’ESPRESSIONE
non si può neppure paragonare all’epidermide degli organismi, salvo che
non si dica (e forse la cosa non sarebbe falsa neppure in fisiologia), che
tutto l'organismo in ogni sua cellula e in ogni cellula di cellula è
insieme epidermide? Onde la conseguenza inevitabile, e del tutto #2 forma,
che noi, come Prometeo sulla scizia rupe, restiamo sì strettamente ed 7
eferzo incatenati al 97120 gradino della conoscenza da non poter neppure
levare gli occhi a mirare, più che raggiungere, il secondo gradino. Onde
l’ assurdità, per altro verso, da parte di Croce, di porre l'assoluta identità
di arte e linguaggio, defimibili luna per l’altro come dire l’arte col parlare
per sè stesso; giacchè, mentre, da un lato, noi in forza di tale
premessa non possiamo raggiungere, in ess wm20do, il secondo gradino della
conoscenza, e cioè diventare scienziati o filosofi (e, forse, per ciò
Croce non può dirsi filosofo), dall'altro, in compenso, rimaniamo tutti
ver7 e grandi artisti. Che ve ne pare? Non senza fondamento, adunque, il nostro
afferma che la poesia e la metafisica sono naturalmente opposte fra
loro, e per ciò non è mai uno stesso valente uomo insiememente e gran
metafisico e gran poeta della specie Breviario Si noti che questa stessa
sorprendente conclusione negativa, cui, contro ogni previsione e
intenzione di Croce, mena direttamente quanto inevitabilmente la logica interna
della sua dottrina estetica, viene indirettamente accennai a confermare
anch'essa, e magnificamente, tutto il valore gnoseologico del fondamento
teorico di quella tremenda rivoluzione filosofica cui accennammo innanzi, Si
vedrà, si vedrà | sa A bri L |1 NI CITI NL
a MAREA ou Ci EI amo INT TIE Tapi. PH i a Mi
Ò Vedi i Tp, mi I “è Vi SA al ..
e mid e il gua U massima dei poeti nella quale fu
frireipe e padre Omero E potrebb'essere, forse, altrimenti? In possesso
com'è metafisico, o filosofo, della più larga esperienza delle
cose, come potrebb'egli mai concepire la realtà al pari di coli che
è rovesciato nell’ignoranza di tutte le cose, come allorchè si è nella
fanciullezza, per cui la mente, tutta piena di pregiudizi, vi si immerge e
rovescia dentro, mentre, nell'altro caso, « resiste al giudizio dei sensi
e ne fa accorti di non fare dello spirito corpo, onde i pensieri sono
4 tutti astratti, invece che corpulenti, come nel primo caso, in quanto
non altro che immagiri e metaforiche? Ora, generalmente, a cominciare da GENTILE
(si veda) che, oltre vent'anni sono, l’oppose proprio a noi, recensen la
nostra opera su LEOPARDI (si veda) facendosi eco alla interptazione. crociana di
VICO (si veda), tale opposizione tra il poeta e filosofo non viene intesa
STRICTO SENSU (GRICE) e illimitatamente? cioè ritenendosi il poeta non
già nel senso vichiano cui vera quell’ opposizione di creatore d'immagini
a/leg riche, e nutrite, già, essenzialmente di senso, quindi per
nulla verilà, o conoscenza vera, o 72 ze, perchè assolutamen o frutto di rifessione,
e per ciò arte, come potre mai essere in opposizione con le sentenze o
conce di quella mente dritta, ordinata e grave qual a
filosofe conviene, e cioè non valere conoscitivamente nè nè meno che
i concetti stessi, se questi altro non sono c l'essenza astratta od
estratta da quelle, onde solo renza tra essi quella puramente /ormza/e,
per cui mentri prime sono espressioni particolari, o individuate JE.
SL e a rta SETE Pr Sad e, È belt e quindi concrete, le altre generali od
universali, e per ciò astratte? Intanto è accaduto e qui l'origine
del disastroso errore che oggi domina sovrano nel campo della cultura,
in generale, e della conoscenza estetica, in particolare che,
compiutosi il primo passo sulla via dell’ identificazione della poesia
con l’arte, e cioè annullata ogni distinzione fra le immagini
allegoriche, prodotto di « forte inganno di fantasia », (per la mancata
conoscenza, ancora, delle cagioni naturali delle cose, e le immagini
proprie, frutto di riflessione, (e, quindi, conoscenza vera e propria di
esse cose), s'è proceduto senz'altro sino in fondo, coll’attribuire a queste
ultime non solo lo stesso corzezzio delle prime, ad esse fornito
essenzialmente dai sensi, o dal sentimento, quanto, peggio ancora, s'è
preso, altresì, a ritenerle frutto di mera fantasia, senza nè pur l'ombra
dell’intelligenza o della riflessione, e, di conseguenza, senza nessun «» od «
aurori Aurorale una conoscenza che non ignora nè la trasce medievale,
nè la saggia esperienza della vita, non i 74, menti voluttuosi o la
sensibilità animalesca, al pari dell’ eroisn Breviario e del fersiero
della morte; così la commossa dolcezza di un amore tenero e soave, nello
sfondo di una vita tranquilla e serena, come il grido terribilmente
straziante e disperato per la infinita vanità del tutto: cioè, insomma,
nessuno ignora anche dei più vari aspetti e delle forme tutte, le più
diverse, di esperienza. della vita? E se, adunque, l’arte, pur nella
virginea sua purezza di sentimento, si mostra pregna di ogwz sapere,
compreso quello vo/zttuoso, e, per di più, fornita di un gusto, che,
nella sua bocca eloquente, rivela, chiaro, la maturità e perfin la
corruzione, ed in tutto il suo essere vibra l’aridezza di una febbre
insistente che la spinge smapniosa a spremere il succo di tutti gli
ingannevoli frutti che maturano lungo il sentiero della vita, al calore
della più travagliata esperienza umana, come si può non convenire
assolutamente col Vico che l’arte, sia per la filosofia che per la
séorza, come ci disse innanzi più che il momento di barbarie e ingenuità
dello spirito, è, invece, precisamente l’altro: quello della maggiore
consapevolezza e più compiuta esperienza della vita del reale? Di fatti è
solo in questo momento che è dato alla mente umana di cogliere l’immagine
vera e propria delle cose, o il loro caratteristico, onde la più piena e
per- fetta conoscenza che, progressivamente, noi si viene ad avere
della realtà. E poichè, intanto, anche pel Croce, codeste intuizioni che
ci danno le immagini proprie delle cose sono udimmo le vere e sole
intuizioni estetiche, non è, per ciò stesso, da convenire che, anche per
lui, il momento dell’arte è proprio questo e non il primo, che in
wesswur modo, invero, può darci immagini frofrse della realtà? Non
solo: ma non arriva, al pari di noi, sino ad ammettere, sia pure a mezzo
di una tremenda contradizione come empre allorchè gli vien fatto di
scoprire il viso della verità che abbiamo anche una grande arte: ed è
precisamente butta sal -4 ITS. le du dl! quella più che
mai nutrita di fersiero o di filosofia, invece | 3 che di sentimento
(onde il più completo rovescio della tesi sostenuta 27 principio nella
sua £Zstezica? Così ad esempio le grandi tradedie del bene e del male y
si dello Shakespeare (Otello, Macbeth, Amleto, Re Lear) sono, per lui,
come ognuno ricorda senza paragone pi pregevoli, esteticamante, che non
quelle di pura ispirazione storica (Antonio e Cleopatra, G. Cesare,
Coriolano), le quali, a lor volta, ci attraggono senza paragone più delle
comedie d'amore, tra cui vediamo pur grandeggiare e splendere,
mirabilmente vive, figurazioni estetiche come Giulietta e Romeo, i Il
Mercante di Venezia e simili, che non la cedono, per intrinseca bellezza,
nè pure ai più grandiosi fantasmi tragi a dire di lui stesso. E così del
Goethe: il possente fantasma tragico di /azsf, quale espressione,
appunto, di quella urgente e mai appagata ansia dolorosa (die
Sehknsucht), o di qu profondo e segreto travaglio spirituale, che « ange
e marti la coscienza di quelle nobili esistenze, che una volontà,
quasi fatale, sospinge per entro £ profondi abissi alla ricerca
deli dimora delle Madri, e cioè dell’ /4eale, non giudica, egli, se
paragone superiore alla bella favola di ZAermanz un Dorothea, che pure fu
oggetto del più vivo ertusiasmo, non solo da parte dei filosofi e dei
letterati, ma eziandio di tutta la brava gente: degli onesti borghesi,
delle madri di famiglia, delle zitelle e zitellone dei maestri di
scuola i quali vi trovavano ciò che essi vagheggiavano e desiderava
una esibizione di onestissimi sentimenti e di sagge opere S l’amore che
si fa subito fidanzamento, la cura dei genitori per la felicità dei loro
figliuoli la virtà disavventurat: premiata e una ricca copia di
osservazioni e massime quelle che si accolgono dicendo: è vero senza sfor. rente paradosso. È la
fortuna che una volta Hegel disse mancare ai filosofi e abondare ai
predicatori, che subito soddisfano e commuovono a edificazione, perchè ripetono
cose dî cui gli spetttatori sono persuasi e che hanno
familiari. Perfettamente vero, adunque, che la grande arte è quella,
proprio, più intensamente nutrita di erszero, invece che di sentimento,
onde non a torto MANZONI (si veda) credè nell’Urania di cantare: pncroe
sol quaggiù quel canto Vivrà che lingua dal pensier profondo Con la
fortuna delle Grazie attinga; e Schiller, a sua volta, quasi a concludere
: quello che not oggi ammiriamo come Bellezza ci verrà incontro domani
come Verità; onde il fondamento dell'antica credenza che il vate o
poeta fosse indovino. Giustamente, quindi, noi, fin dai primi nostri
scritti sull'arte, affermammo non solo la necessità di
rintracciare V. Goethe, Laterza, Bari; e Shakespeare, (in ARIOSTO (si
veda) Shakespeare e Corneille) Laterza, Bari. E se questa è la grande
arte, come il Croce in lungo e in largo ha creduto di mostrarci con
l’esame delle due maggiori opere d’arte della lette- ratura inglese e
tedesca, è lecito sapere perchè, poi, la lirica filosofica del Leopardi,
come altra mai, forse, così intensamente nutrita di fersiero, ed
espressa, per di più, come quella di niun altro poeta, per immagini, è,
per ciò stesso, da meno delle sue liriche amorose, anzi, addirittura « z0x
poesia », contrariamente a quanto egli ha affermato per i due poeti
stranieri ? E così, anche, l’arte d’ALIGHIERI (si veda): perchè questa
sale, e sale alto, molto alto, con le immagini di senlimzento, e cade, poi,
cade tanto, fino a diventare anch'essa w0x poesia, con le immagini di
fersiero, sì che Padre Dante finisce col rimanere al di sotto o da meno
di Shakespeare e di Goethe? Lo sa egli solo, Croce, pel quale, per ciò,
del tutto erroneamente è stato affermato del divino Poeta; A veder tanto
non surse il secondo? Ah! la fede nel libro tedesco inculcata a Croce da
SPAVENTA (si veda) e rafforzata da LABRIOLA (si veda)! (V. Contributo
alla critica di sne stesso; Laterza, Bari). È stata davvero accecante
cotal fede per lui! E potremmo dir anche perchè, ma non occorre: può
facilmente supporlo ognuno un assoluto criterio di valulazione estetica,
quanto, al tal criterio, invenimmo e fissammo precisamente nel grado d’universalità
razionale posseduto o epresso dal motivo is ratore dell’opera d’arte: e
cioè non si crederebbe proprio in quell’elemento o fattore,
l'intelligenza, che da tutti in generale, per quanto senza piena
convinzione da part di qualcuno e da Croce e sua onrevol gente, in
particolare, viene assolutamente escluso dalla funzione creatrice dell’ arte. E
però, s' è visto anche, a parole soltanto, chè, di fatto, colle
risultanze critiche dei suoi saggi sul Goet e lo Shakespeare, come
abbiamo visto testè oltre c colla logica interna della sua dottrina riconosce
pienament con noi che proprio la razionalità del motivo comunque si
voglia, questo, sommerso o identificato colla forma rimane la variabile
indipendente, come allora dissi, alla qu e si deve la variabile intensità
d’irraggiamento o potenza di attraimento o rapimento che un fantasma
d’arte, più che altro, a parità di perfezione, o dall’espressione in
ciascuno perfettamente Jr0fr72 o compiuta, esercita sullo spirito
umani che, in quel caso, appunto, per dirla col Goethe, viene
sentir davvero l'accordo con sè stesso e col mondo. E per ciò presi a
concludere senz'altro: le intzioni estetiche veramente sovrane son precisamente
quel) che ci danno il brivido di quell’oscuro desiderio e di q muto
anelito di redenzione dal male e di liberazione da gioco degli impulsi
inferiori, che fanno gravitare in giù coscienza umana, soffocata dal peso
greve della materia: che, comunque, dèstino in noi anche la più debole
eco di quel profondo dramma interiore che agita e convelle diutur
namente la coscienza umana, che, affaticata dall’ indigenza dell’ infinito,
mira al di là del finito, o del limite umano, e cio au dela de la vie et
au dela de la mort. Nessuna meraviglia, quindi, che le intuizioni
estetiche che prendono a celebrare questa insuperabile antitesi cosmica,
e cioè questa perenne lotta tra l’uomo mouzzenon e l’uomo faenomenon, nel
tempo stesso che cerca d’ indagare il woisterzo eterno dell esser
nostro, riescon più di tutte le altre, o come altre mai, ad
esercitare un profondo e invincibile fascino sullo spirito umano,
che, nelle immagini d’arte espresse da tali intuizioni, vede chia-
ramente rispecchiate le sue più intime lotte e i suoi più oscuri
tormenti, le sue inconfessate debolezze e le sue più segrete aspirazioni,
le sue più dolorose sconfitte e i suoi più nobili trionfi: e cioè, in
uno, l’immagine e il destino della propria esistenza; di quell’
esistenza, per giunta, di cui noi stessi, giorno per giorno, ed ora per
ora, veniamo liberamente intessendo la trama e amorosamente disegnandone
l’ immagine morale e spirituale, dato che l’arte udimmo da Croce
stesso altro non è, nè può essere, che espressione della vita del reale,
e per ciò della nostra esistenza spirituale, sopratutto. E, pertanto, noi
amiamo in particolar modo si sa ciò che, appunto, è frutto dei nostri liberi
sforzi, e poichè l’z07z0 libero per dirla collo Schiller ama è legami che
lo guidano, s' intende perchè, poi, noi prediligiamo senz’ altro con la
stessa infinita tenerezza di un padre verso quello dei figli, che venne
al mondo sofferente precisamente ciò il cui possesso fè più
dolorosamente, e ad ogni passo, sanguinare i nostri
piedi. Ricordate, infatti, con quanta commozione, profonda tenerezza
e nobile soddisfazione, ad un tempo, il gentile poeta di Barga ricorda
alla sorella i tempi bui e sconsolati della lor triste e dolorosa
giovinezza? Tu scis ut doleant gaudia nostra, soror! E si noti, per
di più, che il sentimento che nasce dalla contemplazione del più arduo e più
universale conflitto, al pari di quello che accompagna e si manifesta
nelle forme della più alta curiosità intellettuale, è, per ciò stesso, il più
atto a tradursi in espressioni che sono le più elevate e più. vere del
sentimento estestico, Il quale, infatti, trova un estremo eccitamento, o
il massimo suo eccitamento, precisamente nell rappresentazione fantastica
della lotta impegnata dalla volontà e dalla passione contro la necessità dell’
ordine oggettivo. della natura, cioè nella rappresentazione idealizzata
della lotta per l'esistenza, val quanto dire completamente trasfigurata in
lotta morale. Per ciò, quello stesso sentimento che, nel dominio
dell’arte, crea quelle sovrane concezioni verament insuperabili nel loro
genere quali sono la Commedi dantesca e la tragedia shakespeariana, la
lirica filosofica di LEOPARDI (si veda) e quella della medesima natura di
Goethe quello stesso sentimento crea, nel dominio della morale, l’azione,
affermandosi come bisogno di operare, del sperare, di combattere e
soccombere utilmente, onde quell: sottile voluttà dolorosa: dolendi
voluptas, che sospinge, inelut À tabile, l’uomo a salir d2 collo in
collo, e celebrare, pur nell: rovina e dea morte della sua esistenza Di
il priag l'elemento o fermento perenne dell’ antitesi a cosmica E,
difatti, nella Commedia dantesca, come nella trage greca e
shakespeariana, nella lirica filosofica di LEOPARDI (si veda), come in quella
di Goethe, nelle quali, $; appunto, come Yale si accenna Mii Sonde
cosmico o°MAE EN carl. ra Figi x « EI sa ta Woo sin Lei =J i. Pacs
it che l’opprime, celebrando, così, tra le forze avverse o paurose
della natura, e al di sopra di essa e della sua muta eternità, il suo
trionfo; e da ciò, o per ciò, le immortali speranze che sospingono
anelante e senza tregua il genere umano lungo le vie che conducono al
regno della Verità, della Bellezza e del Bene, e cioè, per dirla in uno,
al regno di Dio. Ora, cotal mondo dello spirito dato pure che la
lingua fosse riuscita, comunque, a crearne l’ espressione non sarebbe
rimasto ammessa la tesi di Croce nè più nè meno che un nome vano senza
subbietto, ovvero, per dirla più esattamente con parole sue stesse
un'utopia della specie più stolta, perchè utopia del contradittorio »,
appunto perchè in quel 7290 del mondo dello spirito, ch'egli è
riuscito a raffigurarci con la sua Zstezica, base o fondamento di
tal mondo, tutto come in lungo e in largo abbiamo potuto constatare
— ci viene fatto di trovare, razze, appunto, lo spirito? Il quale,
pertanto, — e ne abbiamo avuto, anche, ad ogni passo la prova, nell’aggirarci
criticamente per tal regno mai come nella sua assenza rivela la nececsità
della sua fresenza, precisamente sotto la forma altrettanto
imperiosa quanto inflessibile della recessità logica, e cioè a mezzo,
appunto , di quell’imperio universalmente riconosciuto, ch' è proprio
del principio di zo contradizione. G.: L'arte e la sua funzione
creatrice:; Casa Edit, Albrighi Segati e C. Veggasi anche, presso la
stessa casa: il fascino dell’ arte di Dante, nel quale lavoro i principî
teorici sostenuti nel precedente volume hanno trovato la loro diretta
applicazione nelle maggiori opere d' arte antiche e moderne, E
poichè, intanto, la filosofia per Croce è nient'altro che coesenza mentale, la
quale coerenza si trova anche in uomini che vivono in una cerchia assai
ristretta d’esperienza e che la sicugggta degli addottrinati chiama
ignoranti, laddove può accadere che, in quel che davvero è sostanziale,
7g70 ranti siano gli addottrinati e non essi », non si deve, per ciò
stesso, concludere che Croce è senz'altro non filosofo ed gnorante,
insieme? Chè, in PS Verità, come non filosofi sono coloro che non
soffrono dell’ incoerenza e n si travagliano nel superarla », così non
può non essere filosofo anche colù che non scriva di filosofia e perfino
ignori il nome di questa disciplina, e non- dimeno abbia compiuto e
compia il lavoro di porre ordine nel suo intelletto eu k di formarsi,
come si dice, idee rette sul mondo e sulla vita, e sia aperto ai dubbi,
che hanno sèmpre virtù di renderlo pensoso, e, per vie non scolastic i di
consegua sempre quel tanto di filosofia che gli bisogna. Non senza ragione
si ammira, talvolta, la « filosofia » di certi modesti uomini, e perfino
di popolani e contadini, che pensano e parlano saggi e posseggono con sicurezza
le verità : sostanziali: non si tratta, in quel caso, di uso metaforico
della parola, ma d uso proprio, e metaforico sarebbe da dire piuttosto
l’uso che se ne fa col largirla ai compilatori di tesi e di dissertazioni e ai
recitatori di lezioni, deserti di spirito filosofico. Quando poi
l'attitudine filosofica giunge a quella forma ampia e inten che investe
tutti o quasi gli ordini dei problemi di un'età, si ha il filoso
specificamente detto o addirittura il genio filosofico, da non
confondersi, certo, punto punto, cogli scrittori e professori di
filosofia. Pongo quest’avvertenza perchè non vorrei che altri, rivedendo in
immaginazione certi volti e figure non interrompesse col riso quello che
vado dicendo. Quel genio filosofico, voglio dire, che sembra così remoto
e alto sugli al uomini e pure è loro così vicino, e raccoglie e unifica i
loro sparsi cona = e converte in precise domande le loro angoscie, e dà
loro risposte, che A se anche non intese dai più o alla prima, si vengono
traducendo in comun convincimenti e sentefize e modificano a poco a poco
l’ ambiente sociale storico. Il filosofo di natura*e vocazione è dominato
dal bisogno della coé renza mentale, e, simile al poeta, anche nelle più
vivaci lotte pratiche, e ne più acerbi dolori, non appena gli accada di
avvertire in sè, per effetto di es un dubbio, una contradizione, una
incoerenza, materia a un problema, si astr e si assorbe nella
meditazione, e vi rimane assorto finchè non abbia affermato o riaffermato
il nesso logico che gli sfuggiva; e in tal riassodato possesso ritrova la
serenità e con essa la forza d’animo per resistere nelle lotte e vincere
i dolori e praticamente operare. Cwifica). li Or poichè in forza di
codesti principi del tutto bene fondati, fissati da CROCE (si veda) stesso,
è da escludere senz'altro, adunque, ch'egli, pel primo, sia filosofo,
appunto per la singolare sua insensibilità diremo al dolore logico della
contradizione, onde la invincibile sua incoerenza mentale, che proveremo,
d’altronde, ìî altre sue opere, senza pur tenere affatto conto della
«superficiale considerazione ch’ egli usa nel trattare i problemi che
concernono la vita dello spirito come spiegare che nel mondo culturale egli é
ritenuto, intanto, addirittura della classe più alta dei filosofi; e cioè filosofo
di natura e vocazione, ragione per cui le sue opere, e l’estetica proprio
più di ogni altra, hanno avuto il particolare onore di essere tradotte in
tutte le lingue di tal mondo? Non s potrebbe, a parer nostro, spiegare
altrimenti questo fenomeno paradossale che riconoscendo, davvero del
fondamento alla famosa domanda dello Champfort Combien faut-il de sots tour
faire un public, e col convenire, d'altra parte, collo Stendhal, che le
opere più largamente diffuse e lodate da sì fatto pubblico sono
precisamentequelle più largamente dosate sul grado di cretineria degli
spettatori e dei lettori. In ogni modo, questa disfatta del pensiero crociano,
ammessa e riconosciuta, s'è visto, ex ore suo stesso per essersi immesso in una
via senza uscita, bene può dirsiuna disfatta in gloria, più superba di
tanti trionfi, in quanto coll’ ammonirci che ogni tentativo di ricalcare
quelle orme sarebbe non altro che un vano sacrilegio, sia pur da parte di
gente inconscia, ci fa ritenere esecrabile e sacra quella via. Tale,
almeno, essa rimane per noi, che da essa appunto traemmo l’avviso ed
ammaestramento, insieme, di percorrere con tanta più saggezza quanto
maggiore consapevolezza la via che abbiam preso a seguire, coll’intento
di raggiungere con maggiore affidamento quel torturante segreto connesso
col più oscuro e fondamentale, insieme, dei selle eriomi della vita
universa, secondo Reymond: l’enigma concernente l’origine del pensiero. Pasquale
Gatti. Keywords: filosofia del linguaggio.
Grice e Gatti: la ragione conversazionale e l’impplicatura
conversazionale poetica – filosofia napoletana – scuola di Napoli – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he philosophised on
Aristotle’s Poetics, something we hardly do at Oxford! And many other things,
too!!” -- Nato di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a Napoli
sotto Puoti ed ebbe, come colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora a “Il concetto di progresso.” E a
“Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli. Le fondamenta del suo
pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin, sul quale scrisse “Di
una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua filosofia.” Sostiene
che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole filosofiche e reputa
indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la filosofia cousiniana avvicinandosi
in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo nasce la convinzione
secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e l'evolversi della
storia provengono entrambe da un principio comune: la legge universale della
ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la filosofia attuabile
solo all'interno della realtà storica in quanto è la scienza generale di tutto
l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in “L’arte.” Critica la dottrina
aristotelica secondo la quale l'arte è una riproduzione (mimesi) della natura,
contrapponendole la filosofia hegeliana che ritiene l'arte riproduzione (mimesi)
del sovra-sensibile, delle idee, del noetico. (“L’estetico e mimesi del
noetico). In “Della filosofia in Italia” si sofferma sul pensiero e la cultura
italiani contestualizzandoli nella filosofia europea. Esauritosi il periodo
florido della diffusione della scuola hegeliana, la rivista del Gatti andò
incontro ad un lento declino e fallì anche nella creazione di una nuova testata
editoriale chiamata Rivista napoletana di politica, letteratura, scienze, arti
e commercio. Altre opere: “Della
fenomenologia”; “Fichte e il concetto di scienza; “La filosofia della storia in
Grecia”;“Filosofia”. Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. treccani. Si è detto, ora non saprei più da chi la
prima volta, e poi da moltisièsovente ripetuto che VICO autore di un sistema che
i suoi contemporanei non poteano intendere come quello che dovea esse re la
scienza di un'altra età, e il frullo di nuovi germogliamenti dello spirito, non
aveaperquestaragione potuto raccoglierein vita il premio di quella gloriacheinepotipiù
idoneia giudicare dellapoteoza dellasua mente e del valore delle sue dottrine, glidoveanoalarga
mano prodigare dopo lamorte. Or questo modo di considerer la cosa è senza fallo
giustissimo quando vel filosofo napoletano ,come in tutti i filosofi del mondo,
anziintuttiquelliuominichesonosi più che mezzanamente sollevati
sull'universale, si voglia sceverare due parti es senzialmente diverse insieme,
e che congiunte solo per accidente, co. stituiscono una dualità permanente
nell'unità stessa dell'individuo. Di queste due parti, l'una tulla relativa è
determinata dalle condizioni esteriori della vita,da'luoghi eda'tempi a cui siappartiene,
dagl’uomini da'qualisiè circondato, dall'educazione stessa che si è ricevuta,
dagli studii a cui più si è piega talamente, dal primo libro che si è letto, dalle
prime impressioni d'infanzia, dalle seguenti occupazioni dalla famiglia, da'parenti,
dagliamici. L'altra parte sottratta a tulte queste contingenze non si
appartiene veramente a njun luogo o tempo determinato ma a tutti del pari, nè
ha da far sulla con alcuna speciale condizione di vita. La prima di queste due parti
scende insieme col corpo nel sepolcro e dopo della morte non se rimango no più
tracce, la seconda per contrario sopravvive all'ultimo giorno ed assicura
all'uoino coll'immortalità la perpetuità della sua presenza fra'più lontani
nepoti. Similmente in ogni sistema per quanto nuovo e profondo e fruttifero
essosia, trovasiunaparte che è direltamente determinata non solo dalle proprie
particolarità dell'indole e dell'ingegno del suo autore, ma si ancora da quelle
del luogo e del tempo in cui venne fuori, inmodo che di questi conservando sempre
la special fisonomia, ne parlecipa spesso agli errori e a'pregiudizii. Questa è
quella parte caduca de’ sistemi, la qual e non sopravvive mai a quelle condi
zioni speziali che le hanno dato origine, eche, quando quelle son cambiate, non
ba più niun valore, ed è condannata all'obblio imman. cabile delle età
posteriori, quando caduta nel dominio dell'istoria, non fa più partedella scienza
viva e feconda di conseguenzee di applicazioni le cui tracce si scorgono
presenti, quasi all'insaputa di tutti, in ogni ramo del sapere e in ogni
manifestazione della vita. Conciossiachè non solo ogni nazione, ma ogni secolo haunasua
impronta particolare, ha uno special modo di veder le cose, una sua propria
logica, per la quale anche aquell ecose che tiene per vere dalle età precedenti,
non giunge per i medesimi procedimenti, ma per altre vie, per altri melodi, per
argomentazioni e prove di diversa natura. L'altra parte, quasi l'altro elemento
costitutivo di ogni gran sistema, è per contrario indipendente da ogni
condizione di luogo e di tempo, non ha in sé nulla che sia momentaneo o relativo,
ma stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non rivelasi
lulla intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano uomo, nè
alle investigazioni di niun secolo , imperciocchè è la conquista ideale
dell'umanità che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a poco a poco
conquistando ora una ora un'altra parte in mezzo a errori ed acolpe, a mensognee
da violenze, ainganni ed a pregiudizii d'ogni maniera. L'edifizio intanto del sapere
insepsibilmentema irreparabilmente sia ccresce, atteso che lo spirito umano non
d'altra cosa aiulato che dall'opera del tempo, va d'ogni sistema sceverando le
parti false e vane e relative a cerle determinate contingenze, va spogliando
della superflua ed incomoda scoria quella parte di eterna verità che in
ciascuno si rac chiude, la fa diffinitivamente sua e la trasmetle come sacro
deposito e in dubitabile acquisto alla seguente, che facendone suo pro, l'arricchisce
di nuovi progressi, ne'quali quelli che vengono dopo di essa banno ad
esercitare il medesimo lavoro di purificar l'eredità ricevuta e di accrescere
il patrimonio. Cosi la pianta fecondissima della scienz acresce di secolo in
secolo con non interrotta germinazione, non altrimenti che cresce un albero fra
leassiduecure dell'agricoltore che ne innaffia e lelama diligentemente le
radici, e a suo tempo ne taglia colla scure i sermenti vecchi ed isutili. Questa
è quell'aurea catena di cui, se non vado errato, parlava Platone nell’ACCADEMIA,
per la quale l'un secolo trasmette all'altro l'eredità del sapere, come un
sacro deposito che esso è tenuto di accrescerea suo potere e tramandarlo al susseguente;
benchè non tutti i secoli possono ugualmente a ccrescere quel deposito, non
intuttigli elementi secondarii e contingenti che circondano i frammenti della
verità eterna son della medesima natura e nella medesima proporzione con essa.
E questo è pure quell'ecletismo pon artificiale , quale può farloun uomoouna scuola
e che o manca di criteriooneha uno in cerloe si risolve più tosto in sincretismo,
ma reale ed istorico il quale hapersuo autorelospiritoumano stesso che di secolo
in secolo va sceverando da sistemi la parle condizionata e temporanea da quella
che come frammento della verilà assoluta dee restare senza alterazione niusa in
suo perenne dominio. Cosi il frullone abburrattando la farina de discevera il
fiore dalla crusca inutile , e cosi molte verità da' tempi non dico di Arislotile
nel LIZIO ma di PARMENIDE DI VELIA e di ZENONE DI VELIA (VELINO), sono rimaste
tuttavia sulla terra , dove che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato
nè alla forma nè al fondo del pensiero di generazioni cosi lontane ad essi per distanza
di luoghi e per diversità dit empi. Secondo queste considerazioni è indubitato
che in tutto l'insieme del sistema del VICO trovasi una parte di un valore
assoluto che è ri masta per sempre nella scienza ,ed a cui eran troppo immature
le menti de'suoi conleinporanei, i quali o no a neinlesero affattoosolone
frantesero e ne misconobbero la vera importanza. Ma accanto a que sta un'altra ceneha
per la quale il filosofo napoletano legasi diretta menteco'suoitempi, echemeglio
intesaevie piùapprezzatada' coe. lanei non ha più per noiniun valore , ed è
caduta come cosa vieta in dimenticanza. Sicché a lui, come a tutti igrandi
uomini, è avvenuto che per una parteè uomo assolutamente de'suoi tempi, econessi
perquella partesièmorto, dove che per un'altra è contemporaneo de'suoi nepoti,
e per essa a se medesimo sopravvive. Non giả che i puovi filosofi da lui
abbiano preso il concetto della filosofia dell'isto ria,come alcuni sono andati
dicendo, credendo cosi di accrescere, quando invece diminuivan la gloria e
impicciolivan lavera grandezza di colui che voleano magnisicare. Conciossiache
picciolissima gloria, e che soloapochi, e forse a niuno anche dei mediocrissimi
e mancata, si è quella di comporre un sistemache ad altri inun altro secolo
piacerà poi di seguire. Ma grandissima si è quella d’indovina re e quasi
divinare tutta una scienza per la quale la pienezza de' tempi non è ancor
venuta, ed a cui un'altra età dovrà essere condotta per i nuovi progressi dello
spirito, comunque per altre vie, per altri metodi e come per dialettica
deduzione di principii di diversa natura, siccome appunto è avvenuto per la filosofia
dell'istoria molto tempo dopodel VICO, che primo la presenti. Ma non potendo, com'eranaturale,
presentir tutto, procedette senza metodo e senza principii proporzionati da cui
dedurla, sol per induzione da fatti troppo speciali, e in mezzo a tali tendenze
intellettive che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio
diquelle costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente
stabilirsi. Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che
la stagione più propizia non fu giunta, a cui non furono nascoste levere vie
che poteano condurre alla nuova terra promessa, scoverta da lungida un arditissimo
navigatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea potuto approdare,
ma non prenderne sicuramente possesso. Quasipareche lo spirito travedendo di lontano
la novella scienza, avesse fatto un primo tentativo per conseguirla, ma
destituito degli altrezzi e delle armi che a quella conquista si richiede a no,
avesse dovuto temporpeamente mettersi giù dell'opera per fornirsi in silenzio
de'mezzi che gli abbisogna vano, e quando ebbeli tutti presti ed
apparecchiati, ritornare con m a g gior confidenza all'interrotta impresa, e riuscirvi
con miglior successo. Non si vede egli talora quando già la fióe dell'inverno
si avvicina m a ancora la primavera è di lungi, un solitario fiorellino quasi
racco gliendo i primi caloriche si cominciano a muovere per legelateaiuole,
spuntare tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddo e bianchi dalla Deve? Ma quel
primo sforzo e troppo precoce della natura riman solo, nèèseguitoda altri sino a
che alla stagione avanzata, nuovi torrenti di calore tutte compenetrando le
zolle più mature, covrono di famiglie innumerevoli di fiori la faccia de'prati
e i dossi delle colline. Qui maggiore è la copia e la bellezza, ma più ammirato
è il fiore del febbraio, infrulluoso e solitario indizio d'una ricchezza a
venire di cui tutti largamente godranno, ma che poca o niuna maraviglia non
saprà più ri svegliare agli sguardi assue fatti. Se poi prendiamo quel sistema
di VICO nel quale appunto ha tra sceso i
confini del suo tempo divinando l'avvenire, vitro veremoma pifestada pertutto la
presenza del giureconsulto nepoletano dellafine del decimo settimo secolo, e
accanto a que'principii che si veggono diventati proprietà eterna della scienza
e son passati quasi nella cosienza universale del genere umano,ne troveremo
altria cui nessuno più non saprebbe attribuire alcun valore, e che si posson dire
caduti per terra e dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo
glieseccheche ancora si trovano insu'rami degli alberi a mezzo novembre per lasciare
nudo il tronco che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione si dovrà
rivestire. Troveremo lui aver messo a capo del suo sistema un dualism I cui due
termini non possono stare insieme, quello cioè di una mente, di una ragione, di
un mondo delle idee che fa colle sue proprie leggi il mondo de'fatti, e quello di
una volontà estranea di cui la scienza non puòtenere niun conto, essendo che i suoi
atti appunto per essere volontarii non si possono sottomettere a niuna
costruzione scientifica, cioè a priori, ma sono essenzialmente contingenti.
Troveremo lui aver detto che la sua scienza del la storia è una vera teologia
delle idee divine, la qual cosa se può esser vera in altr isistemi, appunto nel
suo è falsa. Troveremo averegli traveduto il principio che la storia
dell'umanità si va facendo per mezzo di un successivo passaggio da una fortuna
più materiale a una più spirituale, da una più oscura e incerta di sè a una più
chiara e più consapevole, ma non aver potuto vedere né il come nè le leggi d i
questo cammino , nè tutte le sue conseguenze, nè tutto l'insieme delle sue
applicazioni. Troveremo che dopo di aver veduto la correlazione che è tra le
idee e i fatti, la concepi però a rovescio dicendo che l'ordine delle idee dee
procedere secondo l'ordine delle cose, il che sepureè veroinunsenso tutto
psicologico e a posteriori, è falsissimo, anzi privo affatto di senso, negli
ordini dell'ontologia e dell'istoria. Or lutto quanto illibro della scienza
nuova procedendo a questo modo svela costantemente agli occhi del riguardante
la presenza di due uo mini, l'uno giureconsulto napolelano del decimo
settimosecolo,e l'altro filosofo divinatore di un pensiero che dovea esser
quello di al tri secoli a venire, e predicente una scienza che egli stesso non
in tende a che a mezzo. Ma nelle altre opere questa dualità scomparisce, o almeno
il secondo e nuovo uomo si eclissa tanto darestar quasi tutto intero il campo al
primo, cioè all'uomo dotto dell'età incuigli era sortito di vivere. Le opere
contenute nel volume il cui titolo è in capo di questo scritto sono piùtosto di
questa seconda specie che del la prima, quantunque non bisogna dimenticare
quello che del resto è quasi inutile di dire , cioè che la parte più universale
dalla sua mente non si nasconde mai tanto che e'non si veggano sempre e da per
tut topresenti le tracce di quello spirito che ha pensato il primo sulla terra
una scienza dell'istoria. Io non parlerò delle diverse orazioni su varii subbietti,
delle quali le latine son tradotte in italiano da Pomodoro, che con tanto amore
si è volto il primo tra noi a dare una raccolta compiuta delle opere del
filosofo napoletano. Neppure parlerò della sua vita scritta da lui medesimo e
che anche trovasi nel presente volume,importante sopra tutto per questo,che in
essa trovasi delineala la storia intima della mente di VICO, e vi si assiste
alla generazio ne di tutto il sistema nato nel suo pensiero ( cosa
straordinaria e quasi incredibile ) non di un principio metafisico , che dee
essere la sua vera sorgente, m a più tosto da particolari considerazioni
sull'insieme del DRITTO ROMANO e sull'istoria di ROMA. L'opera di cui più
particolarmente mi propongo di ragionare quella dell'antichissima sapienza
degli Italiani,la quale se pure io non m'inganno stranamente, non solo ci
rappresenta più chiaro VICO del suo secolo, ma non ci rappresenta altro che questo,
nèmaisenzalei dee e le teoriche che erano in voga a quell'età, e fino senza i
pregiudi zi i e gli errori del tempo non sarebbe stata concepita, nė mai,
neppure iltitolo, potrebbe ora saltare nella mente di niuno. Io non parlo delle
speciali teoriche professatevi, di cui alcune si hanno o poco o niun v a lore,
e altre ne hanno uno grandissimo m a non si appartengono a VICO propriamente, anzi
a tutta la filosofia da PARMENIDE DI VELIA a Leibnitz e da Leibnitz a Hegel, ma
quello che merita di esser considerato come pro prio di lui, si è il modo di
deduzione e il procedimento con cui vi è pervenuto, pel quale una volta
messosi, ne ha tirato delle conseguenze istorichee creduto di giungereaunaseria
scoverta filosologica, quan tutto riposava sopra due o tre falsi supposti che
sono il perno intorno a cui si aggira tutta l'opera, e ne formano non meno la
conchiusione che la base. Or ecco in che consiste tutto il sistema. Nell'uso di
alcune voci e modi di dire de’ LATINI VICO ha veduto o creduto di vedere un
profondo significato metafisico, che dimostra un gran progresso fatto in questa
scienza presso il popolo che in quelmodo parlava; dall'uso che essi facevano
delle voci causa eeffetto vero e fallo, ed altre simili egli deduce il sistema
metafisico di cui quelle lo cuzioni erano l'immagine e che dovea trovarsi nelle
menti dico loro che le avean irovale e che cosi le adoperavano. A questa prima
scoverta poi tutta filosofica di sua natura, se ne veniva ad accoppiare come
per consegnenza un'altra filologica o istorica intorno al popolo che era giunto
a cosi profonda sapienza, a cosi riposta dottri na da essere autore e di quella
filosofia e di que'modi di parlare. Certo IL ROMANO non potè essere, delquale sisa
indubitatamente non avere atteso ad altro sino al tempo di Pirro che
all'agricoltura ed alla guerra, diche è mestieri di risalire più indietro sino
al popolo da cui quello di ROMA ricevette con la lingua quelle locuzioni, e lui
senza più dichiarare popolo di profonda dottrina, e presso il quale la metafisica
avea dovuto giungere a uno non comune grado di eccelleoza. Nè la storia ci può
la sciare lungamentein certinellascelta, sapendo siche i due popoli con cui I
ROMANI ebbero ab antico più strelte relazioni si furono i Joni della Apao. Questa
serie di dedazioni ci mena alla giustificazione nel titolo dell'opera,
DELL’ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI, ciò sono i Joni e gli Etruschi, i quali
per questa via si scovre aver dovuto essere dollissimi in metafisica, e poichè da
essi presero I LATINI gran parte della loro lingua, si trovò questa come per
eredità o più presto per invasione straniera picha di concelli
metafisici,comunque il popolo che la parla ne fosseesso medesinioin consapevole,
ničsi potesse dasèsolo sollevarea tanla altezza.Ne qui le deduzioni istoriche
si arrestano,anzi partendo da quel lepremesse, siè condotti assai più lungi, fino
acongetturare che gli Egiziani quando fioriva appresso di essi e l'imperio e la
potenza e l'ar. dimento delle lontane spedizioni,navigando per il mare interno
che lutto signoreggiavano, avessero doyuto dedurre floride colonic per le cosle
diquelle, ecosiportare in Toscana la loro filosofia. Quivi poiessendo surto una
ssa i gran regno che diede il nome a lulto quel tratto di mare che Lagna di
Toscana fino a REGGIO l'Italia, anche la lingua degli Etruschi si dovette per
quello diffondere, e di questa più dovellero prendere i popoli più vicini del LAZIO.
Per la qual cosa non si dec credere che Pitagora avesse dalla Ionia portato in
Italia la sua filosofia, m a sibbene esser venuto in Italia ad impararla, e sol
dopo di essersi ammaestrato nella metafisica italiana, cio è etrusca, la quale non
era altro che l'egiziana, essersi stabilito in CROTONE e qui vi fondato la scuola.
Di quila sua filosofia si sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac
ce nella lingua, della quale gran parte passò poi a’LATINI, iu guisa che sc ci
ha voce latina di filosofica signicazione, quella si dee tenere essere stala
prima in Egillo, poi in TOSCANA e quindi passala in Magna Grecia. Per questo modo
ne'fossili della lingua latina si trova tutta la sapienza degl’etruschi, e
dalla notomia di quelli noi possiamo ricavare tutta la anctafisica che era in
voga sulle rive di ARNO prima che il TEVERE ba e magna Grecia e gl’etruschi, dei quali d'altra
parte si sa che furon popoli dottissimi, gli uni avendo dato nascimento alla
filosofia italica dell'antichissima sapienza degli altri facendo ampia fede la
purità del la loro religione, l'augusto concetto che essi aveano dell'ente
supremo, i sontuosi sagrisizii, la teologia civile onorata , la naturale
praticata, e con questo l'architettura antichissima e semplicissima,a far
testimo. nianza che essi furon dotti nella geometria prima de’Greci.
gnasse la città de'sette colli. Con un passo di più ma senza allontanar ci dal
sistema di VICO, anzi seguendolo fedelmente, solo affidandoci al l'uso di poche
parole latine, noi possiamo esser sicuri di essere in pieno possesso della
cosmologia e teogonia egiziana. Ho voluto insisterealquantopiù a lungo sulle
vere pretensioni di questo saggio del filosofo napoletano, sol perchè basta
l'esporle nettamen leperchèsene veggano chiaro i lati deboli che sono nè più
nèman co che tutti isuoi lati, la cui poca consistenza połea essere nascosta un
secolo e mezzo fa, m a ora non ha più scudo che la possa difendere da piun
colpo della moderna critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un
inimico domestico e cognato nel VICO della scienza nuova, il quite le condotto
da altre divinazioni più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a
quella de'suoi, poevade'principiii qual inegano le basi su cui poggia tutto il
libro dell’ ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI. E in fatti in quel sistema che
più lo ravvicina a noi e più lo stacca da'suoi contemporanei, egli riconosce
tutta l'opera del popolo nella formazione delle lingue, e quasi lo riguarda
senza ambagi come una creazione spontanca di quello, quando spiega tutte le diversitàchesono
fra le une e le altre per mezzo della diversità che passa fra la natura o
icostumi de'differenti popoli. Ma questo principio che veduto in tutta la sua plenitudine
esvolto secondo il rigore della logica sarebbe stato fecondissimo d'importanti
conseguenze, non gl'impedi di arrestarsi m a ravigliato innanzi alle locuzioni
che a lui parvero troppo metafisiche DELLA LINGUA LATINA, per tal modo che dimentico
del popolo edelmon do delle nazioni, ostinatamente volle vedere in quelle
l'opera meditata de'filosofi che dopo di averlo composte e sanzionate
coll'autorità del loro sapere, le sparsero e le feccio adottare al popolo, da
cui poi le ebbero in eredità gli altri che la dottrina e ingran parte la lingua
diquelloereditarono. Ora non i principii, comunque ancora incerti, dell ascienza
nuova condussero VICO aquesta scrie d'idee, ma sibbc ne la filosofia del suo
tempo, contro la qualc egli in gran parte prote stava, e tutto il general modo
concuisiri guardavano allora le cose, e che egli senza saperloe senza volerlo, etalvoitapurvolendo
ilcontra rio, avca comune con tutti.Ora uno de'punti principali della
filosofia del secolo passato si è il non aver riconosciuto in piente
l'opera sponla nea dell'umanità e l'aver veduto da pertutto il prodotto
volontario e riflesso e però consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto
della società civile non vide altra cosa che UN CONTRATTO con cui gli uomini si
erano volontariamente convenuti fra sè divivereinsieme per il maggior comodo e la
maggior sicurezza di tutti; nelle religioni non vide che il trovato de’ pochi per
contenere i molti, e farlipiegare coll'au torità di esseri superiori agli umani
, a quelle cose che essi avean risolutoessere d’universale vantaggio o di loro
particolare utilità; nella poesia e nelle arti non vide che l'occupazione di
alcuni uomini di più squisita immaginazione e di maggiore ozio che gli altri, i
quali per loro proprio diletto e per altrui si decideano didarsia quell'esercizio,
seguitando delle regole parte tirate dalla natura stessa delle co se, e parte
stabilite per reciproca convenzione fra quelli che si era no volti al medesimo
non so se mestiero o passatempo; finalmente nelle lingue non iscorse altro che un
sottil ritrovato e una universale convenzione degli uomini, iquali essendosi
accorti di avere l'organo delle voce vie più pieghevole che quello degli altr’animali,
si erano risolutamente decisi, non senza esame, di voler mettere aprofittoquel
Ja flessibilità della gola, e servirsene senza più a render più facili e
speditele loro reciproche relazioni. Da questa teorica non era lungo il cammino
da percorrere per giungere all'ipotesi, o per dir meglio,al la conchiusione del
VICO, il quale, come prima si fu imbattuto in locuzioni che gli par vero avere
del filosofico in sé, subito giudicò non il POPOLO IGNORANTE, ma sibbene
ifilosofiaverne dovuto esseregliautori. Di che senza por tempo in mezzo,si
diede a ricercare dove doveano poter esser que’ filosofi da cui eran venuti
parlari filosofici a un popolo che non ha filosofia, e trovolli nell'ETRURIA e
nella Magna Grecia e, risalendo, nella patria de’ Faraoni. Maisistemi
talvoltasoncuriosi davvero; e curiosissimi sieran questi, i quali negavano le cose
più ovvie, il fatto, la storia, la vita, l'uomo, per accordar tutto a’filosofi;
razza nobilissima e d'ogni considerazione degnissima, ma cosi poco di sua
natura operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un
solverbooun articolo. Ora il fatto si è che il popolo, e qui, intendiamoci bene,
popolo valquanto genere umano o spirito umano, il popolo adunque in cerle
cose non è da meno e in certe altre è da più de'filosofi. Ancora non si dee credere
che nello spirito de'filosofi trovisi assolutamente più di quello che ènello
spirito di ogni uomo, cioè nel popolo. E se nelle coloro menti trovasi tutta
chiara ed aperta la teorica della ragione e degli elementi che la
costituiscono, e la scienza delle sue leggi e del nodo come esse operano, la
mente del popolo per mancare di quella teorica o per ignorar quellascienza non
è men ri schiarata dalla medesima ragione, nè men costituita dagli stessi ele.
menti,nè men regolata dalle medesime leggi,conciossiache se cosi non fosse, la
filosofia non sarebbe più la scienza dello spirito umano, ma lascienzadello spirito
de’ filosofi; il che, se io non m'inganno, dove sufficientemente nuocere alla
sua importanza; la sola differenza che passa tra il filosofo e colui che non è
filosofo, si è che l'uno sa quelche egli ha, laddove l'altro loha senza saperlo;
l'uno possiedee pur possedendo e usando della sua possessione,non ha mai posto
mente a quel che egli possiede, dove che l'altro non solo possiede ma si è
occupato di sapere la natura, il valore, le leggi, l'importanza, gl’elementi, il
modo di operare, le relazioni e le condizioni di quello onde egli è in
possesso. Ora le lingue son come figliuole di due madri,cioèsonoilpro. dotto di
due cause che operano ngualmente nella loro formazione, vale a dire delle
attitudini naturali e delle fisiche condizioni degli orga ni della voce da un
lato, e dall'altro della natura morale dell'uomo e delle leggi sostanziali dello
spirito. Di che ogni lingua se nella parte puramente esterna e fonetica
de'suoni, della loro trasformazione e corruzione, e del loro passaggio adaltri secondarii
e derivati, e in tutto quello che riguarda l'istoria naturale della parola,
segue invariabil mente le leggi naturali dell'organizzamento fisico della gola,
in quanto al contenuto interno di essa parola rappresenta tutti i principii
psicologici del pensiero, tutti gli elementi ontologiciche in esso si
rinchiudono, esecondo le leggi logiche del pensiero stesso coordina e dispone
l'espressione estrinseca di tutto quello ch e il pensiero ha lavorato, e che
nelle misteriose profondità della mente è stato apparecchiato. Certo si nella
formazione che nell'esplicamento delle lingue non tutto si può ridurre e
principii razionali, e qualche cosa ci ha che si sottrae all'analisi e dipende
da quella parte inesplicabile dello spirito umano, che senza essere ilprodotto
o l'espressione di una o di un'altra sua legge determinata, risulta dall'azione
nė descrivibile nè determinabile di tutte quante insieme, e dall'opera
simultanea di tutte quelle forze in cui si appalesa la vita nelle sue infinite
manifestazioni. Ma oltre a questa parte che si sottrae ad ogni investigazione e
ad ogni esplicazione scientifica, l'edificio di ogni lingua è legato per la
parte estrinseca alle leggi anatomiche e fisiologiche del corpo, e per
l'intrinseca alle leggi morali dello spirito, in modo che siccome ogni sintassi
nel coordinamento delle parole e delle frasi è regolata dalle leggi logiche del
pensiero, e cosi ogni etimologia rinchiude in sè un sistema compiuto di tutte
le categorie della ragione; e siccome non può trovarsi nello spiri to più o
meno di quel che trovasi nella lingua , in cui talti i suoi ele menti
raggiungono un'esistenza estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi nelle
lingue nè più né meno di quel che sia nello spirito nel qua leessee le categorie
dicui esse sono l'espressione hanno la loro esistenza intrinseca e soggettiva. Per
la qual cosa non ci è nulla che sia meno arbitrario e meno convenzionale delle
lingu, nè ci LA LINGUA DI POPOLO COSI BARBARO o selvaggio che non rappresenti e
non contenga in sé un intero SISTEMA DI LOGICA [RUSSELL – STONE-AGE
METAPHYSICS], e UN INTERO SISTEMA DELLE PIU RECONDITE CATEGORIE DELLA RAGIONE. Ben
si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere ragiona di quelle parole
latine che sembrano contenere un significato più a stratto e metafisico, senza
avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo progredito assai oltre nelle vie
della dottrina e della filosofia, da cui I ROMANI nè dottiné filosofi abbiano
dovuto ricavarle. Già l'ipotesi di VICO incontra nel fatto di tali difficoltà
che niuno oggidi ancorchè men che mediocramente iniziato in certi studii, non
avrebbela concepita nella mente senza voler che di lui si dicesse col proverbio
che egii fossesi posto a pestar l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui
spezialmente cadono lo investigazioni filosofiche e istoriche di VICO sono di
origine e di formazione cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa
abbian da fare con esse gl’etruschi o į Jonii , o come abbia poluto saltare
altrui in mente che I ROMANI lc abbiano prese dalle costoro lingue, o almeno imitato
da essi il modo di adoperarle. Tan!e più che se in ana lingua si possono
trovar parole di origine straniera, il modo di adoperarle non è ma istraniero
opresoin prestanza da altri, MA PROPRIO DAL POPOLO CHE LA PARLA, il quale
nell'usarne, imprime in esse il suggello della propria nazionalità e le fa sue,
senza dire che un popolo per imparare da un altro ad usare secondo un concetto
metafisico le sue proprie o le altrui parole, dovrebbe innanzi imparare da quello
tutto il sistema della sua metafisica, quando non si vuol riconoscere che ogni
lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni
dojtrina acquisita, è naturalmente e spontaneamente l'espressione di un sistema
di metafisica riposto nel fondo dellaragione, e che costituisce l'essenza stessa
di essa ragione. Per VICO intanto i Latini aveano a ogni modo dovuto imparar
qnelle parole e que'modi di dire du altri popoli più dotti che essi non erano,
e questi popoli non poteano essere che i Jonii e gli Etruschi popoli dottissimi
e con cui I LATINI aveano strette relazioni. Vediamo ora quelche non già ioounaltroma
tutto il sapere del secolo in cui viviamo oppone senza paura di contradizione
al più dotto napoletano del XVIII secolo. Ne è possibile d'incominciare questo
esame senza fermarsi in primo luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente
nonpuò giustificare e che in nessun sistema e in nessuna ipotesi non si può
difendere. E veramente non vi è niuno il quale abbia mai pensato a'Jonii o al dialetto
jonico per sostenere la parentela di filiazione tra il Greco e il Latino, e le colonic
greche di cui parla VICO, ca cui attribuisce nella formazione della lingua
latina un'importanza che non si hanno maiavuta, noneranodiJuniima di Dori.Ilfatto
slorico che la storia latina è posteriore
alla greca unito all'altro fatto della relazione di simiglianza fra le due
lingue avca condotto alla con chiusione che l'una lingua dove essere derivata
dall'altra, nè lasciato alcun luogo a dubitare quale si dovesse essere la madre
e quale la figliuola fra la più giovine e la più vecchia. La stessa
argomentazione poi avea fatto determinare più particolarmente questa relazione
di m a ternità fra il latino e il dialetto eolico, che èquello fra dialetti della
Grecia chepiù di affinità si ha colla lingua del Lazio. Intantolenuo
vescovertedella scienza delle lingue hanno dimostrato questa ipotesi
impossibile, havno scoverto nel LATINO tracce di maggiore antichità che
pel Greco si nel sistema de'suoni e si nelle forme grammaticali non che nella
genesi etimologica e nello stato attuale delle parole ; hanno scoverto la
stessa specie e lo stesso grado di aslioilà , e talvolta anche maggiore,che è
tra il Greco e IL LATINO trovarsi eziandio fra le duelin gue classiche ed altre
ancora o meno conosciute o quasi del tutto igno te prima di a questi ultimi
tempi, sicchè è stato forza di ricorrere all'ai. tra ipotesi di una lingna più
antica di esse lulte, da cui come da comune stipitetutte quanteesse, e le altre
ad esse simili discendessero, allontanandosene quale più e quale meno , quale
in una e quale in un'altra cosa, ma ritenendone tutte e la general fisonomia, e
il sistema grammaticale, e il comune materiale delle radici, in mezzo a quelle
differenze che debbono fra’i varii rami di uno stesso tronco essere cagionale
dalle speziali condizioni fra cui ciascuno di essi si è venuto separatamente
formando ed esplicando , sicché la relazione di parentela è rimasta , anzi la
famiglia si è trovata cre sciutadimoltialtrimembri creduliprimaaffattoestranei,masiè
trovato quella parentela essere di fraternità e non già di filiazione. N ė si
può negare che il dialetto eolico sia quello tra gli altri dialetti dell'antica
Grecia che più si rassomiglia al LATINO, ma invecedi con chiuderne che questo
sia nato da quello, si è dovuto inferirne che esso è come l'anello intermezzo,
il punto di passaggio tra le due diverse forme di una medesima lingua, appunto
come la storia naturale ci dimostra molte specie di animali , molte famiglie di
piante, le quali sono l'anello intermezzo fra due specie di verse del mondo animale
otra due diverse famiglie del vegetabile, e quasi come il ponte per cui
mezzolanatura che non procede per salti,dall'una è passata all'altra.Cerlo
molte paro le si possono trovare nel LATINO che vi si sono introdotte
direttamente dal Greco, ma queste o sono di data assai più recente o
sirisesconoa oggetti speciali, ad usi e invenzioni,a trovati comunicati dal
conımercio e dalle esterne relazioni tra due popoli in quell'epoca e a quella
parte della lingua a cui si riferiscono le investigazioni etmologiche e
istoriche di Vico. Di parole straniere che per accidente sienpassatedauna lin
gua a un altra ancorché di diversa indole e di diverse famiglie se ne trova in
tutte le lingue, m a si è questo un fatto tutto contingente di cui sirende ragioneper
mezzodel fatto delle esterne relazioni senzache nulla se ne possa conchiudere
per la forniazione della lingua stessa. La parola kalamos che è ab antico nel
Greco per dinotare la penna o uno strumento aguzzo, una capna qualunque da
scrivere, non è di origine greca, nè se ne trovala radice nelle lingue affini al
greco, ma è di patria affatto straniera, parendo essere nè più nè manco che il semitico
Kalem che in Arabo dinota la penna. Certo verisimilmente è da credere che avendo
i Greci antichissimi appreso da'Fenici, popoli di stirpe e di lingua semitica,
l'arte dello scrivere abbian preso anche da essi il nome dello strumento da
esercitare la nuova arte. Ma dove sono le parole greche, eoliche, e joniche,
come impropriamente il filosofo napoletano direbbe, corrispondenti a quelle con
cui I LATINI esprimeano non già un utensile materiale, lo strumento di un'arte
ignota prima e poi appresa, ma i concetti più intimi e più astratti dello
spirito senza di cui il pensare stesso è impossibile? Le medesime cose, ma
adassai più forte ragione si vogliono ripetere per l'Etrusco. Che da questa
lingua si sieno potute introdurreuel LATINO delle parole relative ad usi della vita
e a cerimonie sacre , è cosa che facilmente sipuò concedere massime chi pensi
che molti riti religiosi dall'Etruria hauno dovuto passare in ROMA, ma non è possibile
di trasformare questa azione tutta estrinseca, questa introduzione accidentale
di alcune speciali parole , in un'azione più internaequasi primitiva dell'Etrusco
sul LATINO.Vero èche questa non è propriamente l'idea di VICO, nè la
conchiusione a cui egli intende di giungere coi suoi procedimenti etmologici. E
già la qui. stione delle lingue era così poco avanzata , anzi così poco
sopposta a' tempi del VICO, che non ad essa la sua mente si rivolse , non di es
sa egli si occupò come conseguenza e coronamento della sua ipote si, ma sibbenedi
quelladella filosofia. Einfaltinon altrovechein questo punto egli vide
l'importanza della sua scoverta , e assai più che nel libro stesso v'instette
nelle sue riposte a varie obbiezioni mossegli allora contro con una critica,
che non vedea,e in gran parte non poteavedere i veri punti debolie impossibili a
sostenere di tutto il sistema. Quivi si vede che VICO (si veda) pensa di aver
fatto una stupenda sco verta istorica, perocchè vi è detto chiaramente che
essendo gli Etruschi cosi doltissimi in cosi remotissima eti, come si vedea
manife. b'o da' modi di dire metafisici che sol dalla loro lingua avean poluto
passare nella latina, si dovea credere fermamente che la dottrina non avea
poluto passare dalla Grecia in Italia, ma si da questa, cice dall'Etruria in
quella, e quindi coordinando tutte le parti del sistema, ne conchiude che
Pitagora non avesse portato allronde la soa fi losofia inItalia,quando
alcontrariosiavea dacredere che venulo quivi ad appararla, riuscitovi poi
dottissimo, si fosse fermato nella Magna Grecia a formar la sua scuola, sicchè
quest'antichissima filosofia che la rappresentava avea dovuto passare dall'
Etruria nel Lazio e dal Lazio nella Magna Grecia , e in Etruria avea dovuto
primitivamente venire dall'Egitto. Ecco perchè io diceva più sopra che secondo
questo sistema, le vere origini di certe parole e modi di dire della lingua
latina si convengono cercarle senza più nella patria dei Faraoni. Ma tutte queste
ipotesi riposano sul falso concetto che ogni voce di un contenuto edi un valore
metafisico supponga un sistema metafisico divenuto popolare nel popolo che la
parla , ogni sistema metafisico debba essere stato da un popolo portato nel
l'altro. Se i Greci non avean potuto escogitarlo da sè , ma riceverlo da Latini,
e i Latini dagl’etruschi, egl’etruschi dagl’egiziani, non so perchè non si
abbiano da spingere anche più oltre le investigazioni, e cercare da quale
angolo più remoto della terra avessedo vato venir trapiantata sulle rive del
Nilo. La scienza moderna che è meno corriva alle ipotesi, e comunque sia
spesso accusata di sognare, più riconosce l'importanza de' fatti prima di
edificare un sistema, va più guardinga in questa quistione degli Etruschi, e
non ostante la grande abbondanza de'falli che sono a sua disposizione, non ha
sapulo per anche decidere che cosa eglino fossero stati e donde venuteci, nè
che cosa si fosse la loro lingua, se cioè semitica o di origine arja, nè che
relazioni si abbia avu ta la loro civiltà coll'egiziana. A ogni modo le
induzioni per cui giungeva Vico alle sue opinioni intorno all'Etruria niuno è
ora che ardirebbedi crederle di alcun peso o di prenderle in sul serio. Ben
sono stati alcuni più moderni che le hanno sostenute, e avregnacchè l'istoria
dimostri come cosa quasi indubitata che la civillà tenga nel suo corso
ilmedesimo cammino che il sole cioè da oriente în occidente, han voluto che i primi
principii d iessa fossero passati dall'Etruria nella Grecia, ma han cercato con
fatli e argomenti e documenti che a VICO mancavano di sostener la loro teorica,
comunque non sieno mai riusciti a sostenerla tanto da farla aceellare almeno
per medio cremeute probabile a'più dotti in queste materie. E non ha guari
abbiam veduto mancare a'viviio Napoli uno dei suoi ultimi sostenitori, uomo
picchissimo di abbondante erudizione istorica, ina corrivo non so se ad:ingegno
o per la natura stessa del suo spirito. ad abbracciar le opinioni più strane e
le meno simili alle più comunemente ricevute. Spesso si èri posto come una specie
di amorproprio Nazionale a sostenere colesta emigrazione del sapere
dall'Etruria nella Grecia quasi per aggiungere un altro periodo di gloria alle glorie
dell'istoria italiana E veramente pjente non è più giusto o più sacro quanto quel
sentimento per cui un popolo si studia di accrescerei tesoro delle sue
grandezze non meno presenti che future o passate, di queste perpetuare la ricordanza
nella memoria degli uomini. Ma per esser gelosi custodi di questo tesoro noi
altri Italiani non abbiamo a far violenza alla istoria, e volervendicare a noi quelche
non ci appartiene, tanto più che quello di cui non si può dubitare che sia nostro
è più che bastevole a non farci desiderosi di altro. Or la nostra ve ra e
indubitata istoria incomincia da Peoma; il che mi sembra itd'an lichità abbaslanza
remota, e una grandezza abbastanza gloriosa pera. Versenea contentare. Tutto quello
che è prima di Roma, e già è assat in certo che cosa fosse, non ci appartiene. E
veramente Italia non era ancora il paese rinchiuso tra le Alpie il mare, nė Halianiera
noi Greci dell'estremità meridionale, I Siculi o gli Aborigeni del Lazio o gli Etruschi,
Celti o gl'Iberi, se alcun tratto gl'Iberine occupavano, ma bene erano essi gli
elementi primordiali i quali stritura li e fasi insieme dall'opera del tempo e
dalla forza assimilatrice di ROMA, d o veano comporre il popolo dicui ha fatto l'istoria
LIVIO, Macchiavelli e Botta; lavoro lento e gigante scoele con diverse
proporzioni e solto diverse condizioni si è operato per altri popoli ancora; per
questa sola ragionei Macedoni eran Greci, e Alessandro che se fosse nato du'secoli
prima sarebbe stato barbaro, fu al suo Innanzi di conchiudere
questo scritto che avrebbe potuto esser più breve, ma che potrebbe prolungarsi
ancora di molto, non credo essere inutile per meglio far comparire la vera
natura delle obiezioni che homosse al filosofo napoletano, il ricordare comeegli
non avea per cosa affatto nuova il modo delle sue investigazioni etimologiche,
anzi fin dal principio del suo scrillo afferma che egli è per fare quel
medesimo per la lingua latina che avea già fatto Platone per la greca, il quale
dalle etimologie e composizione delle paroledi quella avea voluto scourire
l'antichissima sapienza de'popoli che l'avean parlata. Se non che si forma VICO
un concelto assai ristretto dal Cratilo se credea a questo solo ordinato quel dialogo,
il quale abbraccia tutta quanta la quistione della lingua, della sua origine e
del suo valore, coordinandola colla teorica socratica delle idee. Ben è vero
che Platone anche delle etimologie si occupa in quel dialogo, e che, ove non il
fa ironicamente e come per istrazio, intende di cavare delle induzioni intorno
a'primitivi concetti del popolo fra cui quelle parole aveano avuto nascimento. Ma
adonore del filosofo ateniese, si conviene confessare che il metodo delle sue ricerche
non devia da'giusti confini, nè potea condurlo ad induzioni o false o immaginarie
o arbitrarie o contrarie alla genesi delle lingue o ripugnanti alla vera
palura. Della metafisica che inquelle si può trovare. Non abbiamnoi veduto che OGNI
LINGUA CONTIENE IN SÈ UN INTERO SISTEMA DI METAFISICA (RUSSELL GRICE STONE AGE
PHYSICS), ma di netafisica spontanea che in quella si trova all'insaputa dello
stesso p o t e m p o il rappresentante dello spirito e della civiltà
della Grecia , e u n a delle più alte figure dell'istoria greca.Cosi le felci
gigantesche del mondo antidiluviano non sono ilcarbon fossile ma debbono
divenirlo, poiché , collo scorrere del tempo e coll'azione invisibile delle
forze naturali si macerano a poco a poco , le differenze scompariscono, e da
ultimo si trovano riunite in una sola massa che dee poi divenire uno
de'motoripiù irresistibilinelle mani dell'uomo; ma leproprie tà che fanno
onnipotente il carbon fossile non si appartengono alle umide foglie delle
piante naufragate nel diluvio . Così le glorie q u a si mitologiche de’ Pelasgi
e de' Rasena , de' Tirreni e de'Siculi non siappartengono a'discendenti del popolo
di GIULIO CESARE e di Trajano. polo che la parola , e che ve l'ha senza
saperlo , depositata? Imperocchè le lingue figliuole tulle dell'identica natura
dello spi rito e dell'identica struttura degli organi della voce sol differisco
no nella loro composizione in quanto che quell'identica natura vede da diversi
o opposti lati le cose , e diversamente concepisce le relazioni obbiettive che passano
fra quelle.Per la qual cosa si può dalla natura di una lingua scovrire il modo
in cui il popolo che prima l'ha parla la concepiva le relazioni fra le cose, e
ilmodo con cui iconcetti meta fisici che presiedono segretamente alla
composizione di essa si presen tarono al suo spirito. E se questo lavoro è ancora
oggi pieno d'incertezze e di difficoltà, se era impossibile a'tempi di Platone,
che fae gli cotesto? Basta che il discepolo di Socrate abbia vedulou na verità
che solo i lontanissimi nepoti poteano dimostrare, e tentato un lavoro per
compiere il quale, moltissimi secoli di esperienze e di scoverte non han potuto
somministrare finora tutti i mezzi necessarii. Ma non cre dea Platone che una
setta di filosofi avesse introdotto nella lingua i concetti metafisici, apzili attribuiva
al popolo stesso, che egli per le esigenze del suo linguaggio filosofico, chiama
il legislatore, il quale nella successiva costruzione della lingua ve li veniva
spontaneamente e però inconsapevolmente trasfondendo. Në pensò mai Platone che
da filosofi di altra nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori
gioe, e quindi esser passate a'primitivi abitatori della Grecia, che per essere
ancora ignoragti non le avrebbero potutemai più ritrovareda sè medesimi. Son queste
le due ipotesi su cui è fondato il libro del l'antichissima sapienza
degl'Italiani, ma nè dell'una nè dell'altranon è colpevole l'autore del
Cratilo, Se io ho troppo insistito su queste cose, non è già per desiderio ehe io
avessi di appiccare un'inutile giornata col maggiore de'filosofi napoletani, ma
si per voler mostrare col suo esempio come camminando il sapere collandare del
tempo, e trasformandosi quasi in ogni secolo la sua fisonomia, evedendo gli uomini
nelle diverse età sempre diversamente pur le medesime cose, la grandezza de'grandiuomini
non si vuol misurare dal numero delle verità che eglino possono ancora
inseguare a'lontani ne poli, a cui pure essendo grandissimi, non possono
lal volta insegnare più niente, ma sibbene dal grado a cui eglino si so no
innalzati al di sopra de'loro contemporanei, dalle nuove vie che prima degli
altri hanno aperle allo spirito, nelle quali altri cammi p ando sono si
arricchiti di verità ad essi rimaste ignote, e dagli sforzi con cui hanno
potuto faticosamente e oscuramente veder da lungi quel che alle seguenti
generazioni è stato poi agevole di veder chiaramente e di loccare con mano,
senza che per questo si possano dir sempre seguaci de'primi, alleso che avviene
soventi volte che una verità giunta alla sua maturità e alla pienezza de'tempi,
si mostri per nuove e più facili vie anche aspiri!i meno alli, quando al tempo che
era tuttavia immalura appena si era svelata per astrusissi mi sentieri alla
potenza divina trice di solitarii ingegni. Chi è più grande di Aristotile? m a
quale è oggiscolarecheintutte lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe meglio del
maestro di coloro che sanno? O quale è scuola filosofica a cui basterebbe il
proporre la massima parte de'problemi della scienza in quel modo appunto in cui
si trovano proposti nell'Organo e ne'libri della Melafisica, anche in quei
punti in cui il pensiero arislolelico quanto alla sostanza delle cose è
identico col moderno? L'altra cosa su cui io voleva insistere siè questa, che
un uomo pec quanto grande egli sia, per quanto s'innalzi al di sopra de'suoi contemporanei
e de'suoi tempi, par non si può mai taplo da questi separare che la più parle
delle sue idee, anzi esse tulle non abbiano in quelli lalorora dice, siche egli
non può mai separarsi dal general modo d'intendere dell'età che lo vide nascere,
anzi appuntoperque slo ègrande , che egli tutta la compendia ed esprime ,
aprendole le vie agli altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se
tul teleidee de'suoi tempii nlujsiriflollono, insieme conquelle anche gli
errori e i pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito, nè per quanto egli se
ne distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle. Di che si vede
quanto sia grande la semplicità di coloro che siappoggiano all'autorità de'grandi
uomini in que'punti che eglino hanno in comune con tutta la loro generazione e
che non costituisco no la loro vera e più squisita individualità. Molle volle
mi è avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni; o siele voi più
grande di Alighieri il quale pensava appunto cosi come voi negate di
consentire. Or cerlo il canlore de'tre regni della morle si fu il più grande
uomo del suo secolo, nè ci ha oggidi chi in potenza di menle e grandezza di
comprensione poelica possa venire con lui in paragone, ma il pubblicislae il filosofo
del XIII secolo era figliuolo del medio eroe avea cinque secoli di educazione
filosofica ed islorica meno di noi, e il cilladino di Firenze nato l'anno di
grazia mille duecento sessantacinque in molte cose non potea non pensare come
frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è che vorrebbe piegarsi innanzi
all'autorità di questi nomi? Cerlo, che io mi creda, niuno. Quesle cose poi che
si dicono dell'antorità de'grandi uomini vanno deltealmedesimo modo
dell'autorità dell'istoria in generale. La sentenza di Tullio che dice
l'istoria maestra della vita è veris ima se s'intende in un senso, ma fonte di molti
errorise s'intende in un altro. Verissima è in un senso universale e scientifico
in quanto che l'istoria facendoci come assistere allo spellacolo delle diverse
generazioni clic si sono succedute sulla terra, ci rende quasi contemporanei
del passato. Per mezzo di essa noi possiaino allora formarci un concello
generale del cammino del genere umano, e delle leggi ideali che presie dono al succedersi
delle civilti, delle leggi, degli istituti, delle religioni, degli stati e di
tutte quante sono le manifestazioni dello spirito umano. Allora noi partendo da
queste considerazionipossiainocom prender
il posto che anche no i occupiamo nella storia del mondo, de terminare
le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi affaticale sulla
terra, e divinar quelle che abbiamo colle altre che dopo di noi bagneranno col
loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso veramente la
sloria è maestra della vita, come quella che ne porge il più stupendo ammaestra
in e n t o che si possa , la comprensione della vila slessa in tulle le sue
manifestazioni, in tutte le sue relazioni col passalo, col presente e coll'avvenire.
Ma inetta e principio d'inganni è quella sentenza presa in un senso più
ristrello edempirico,quasivolessedireche las toria insegna agli uomini cogli
esempii de'tempi passati a sapere come eglino si abbiano da con durre ne'casi
agli antichi simiglianti,Il credere a questa specie di aulorilà istorica dipende
dalla falsa supposizioneche gli avvenimenti si ripelano o si possano ripetere nelle
medesime condizioni, il cheè tanto falso quanto è falso il credere che il genere
umano non si muova, e che l'istoria non cammini. Ora ogni clà ha suoi proprii
fatti e un'indole sua propria per la quale anche i fatli che sembrano rasso
migliarsi in certe esterne condizioni, sono diversissimi di significato e
divalore. Il principio che niente è ma lutto si fa, niente permanema tulto si muove,
spezialmente nella storia e nel cammino del genereuma no si verifica. Ben la
nalura fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si ripete,la natura morale
dell'umanità non mai. A coloro iquali dicono: ben così dee avvenire perchè così
altra volta è avvenuto,ben sipuò rispondere che appunto perchè altra volta così
è avvenuto non può più avvenire al medesimo modo.Dove il genere uinano cosi
continua. mente agitandosi finalmente abbia da giungere, chi è che possa pre
vederlo, o quale è filosofiache lo possa al meno verisimilmentepre dire? Ma
quando si pensa quel che era la famiglia umana al tempo delre de' re Agamennone,
per non salire più alto, e quale oggi è divenuta, chi non si sente di
naufragare coll'anima in uti Oceano senza fondo, allorchè volge il pensiero a coloro cui se parerà da noi la medesima
distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade L'Italia era
pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una
eccellenza, che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che
emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia,
la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di
opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto
dal cielo, e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e fio
renti stati pareano quasi cote che affilavano gl'ingegni, af forzavano gli
spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello.
Intanto, fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e
l'adoloscenza delle no stre menti,venne l'età più matura e quasi la virilità
dell' in tendimento, nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui suona
il medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso quello ch
'egli è, e quello che le altre cose sono, le quali in fino a quel punto è stato
contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue immaginazioni. Allora
inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee sorgere dopo la poesia,
siccome la Grecia e l'ITALIA col fatto ne fanno prova . Nè si potrebbe addurre
in contrario la scolastica che è antichissima, e certo precedente alla poesia,
perchè quella, oltre che confinava da presso con la teologia, più presto che
esser l' effetto spontaneo , per così dire , del pensiero nazio nale ,
lavoravasi nel seno della chiesa e nel silenzio de' chio stri , senza che il
pensiero laicale vi avesse alcuna parte. Il quale , quando fu venuto il tempo
propizio, si fece da sè una filosofia che veramente dalla scolastica fu
diversa. Costantinopoli non cadde in vano per noi; perchè la sua rovina che fu
quasi l'ultimo crollo della civiltà antica servi ad arricchirci di gran numero
di monumenti dell'antica sa pienza a noi tuttavia ignoti , e a compensar con
usura i nostri padri dell'ospitale accoglienza per essi accordata ai fuggitivi
figliuoli d'una nazione illustre e generosa, che dopo quattro secoli
d'oppressione, dovea riacquistar l'indipendenza, e, bella delle memorie passate
e del presente trionfo, ricomparire sul fortunoso teatro del mondo, sorgendo,
come Lazaro, dal polveroso sepolcro che avea accolto il suo cadavere. So bene
che da alcuni si è creduto il risorgimento degli studii classici e la
conoscenza più intera dell'antica civiltà essere stati più presto di nocumenlo
che di utile alla moderna, parendo loro esserne stato impedito il libero cam
mino degli spiriti, e turbata l'originalità del pensiero mer cè l'innesto violento
d' un vecchio ramo sovra un più gio vane tronco . Ma costoro non pensano che la
civiltà di un secolo non è e non può esser un fatto isolato e da sè ma che è
iotimamente legata a quella de' precedenti mercè l' aurea catena delle
tradizioni, e che ogni secolo dee, in quanto può, legarsi col passato e
argomentarsi di perfezionarne l'opera, piuttosto che separarsene e disdegnare
di riconoscerlo, o pretendere superbamente anzi puerilmente di incominciar
tutto da capo, e rifar da sè l'opera a cui le generazioni pre cedenti han
lavorato. Però il risorgimento degli studi classici e la conoscenza
dell'antichità, innanzi che nuocere, ha do vuto perfezionar l'edifizio della
civiltà moderna, nè in fatto pud negarsi che a risorgimento delle antiche
lettere sieno dovuti in gran parte i subiti progressi che le scienze fecero tra
noi. Quando si furono rotli i cancelli un po' stretti fra cui la scolastica
volea talora chiusa l'intelligenza, quando si fu meglio e vie più direttamente
conosciuto il pensiero dell'an tichità , ed ecco sorgere di presente una nuova
filosofia, alla quale si può dire che avessero posto mano di conserva il
pensiero antico e il moderno, la sapienza greca e lo spirito italiano. I più
profondi ingegni della penisola si misero a quest'opera, lavorando insieme,
quale in uno e qualein un altro modo , al comune e nobilissimo scopo, e tosto
si vide venir fuori dal loro numero il celebre triumvirato di TELESIO (si veda), CAMPANELLA (si veda), e
BRUNO (si veda), i quali tutti e tre videro la luce in questa meridional parte
d’Italia. Comune ebbero la forza della volontà, l'ardire dell'inge gno e la
potenza della mente; ma il primo restò indietro agli altri due , imperciocchè
la sua opera fu puramente ne gativa, laddove questi poterono crear de sistemi
che nè il tempo nè i seguenti sforzi dello spirito umano non giunse ro a far
dimenticare. A così bei cominciamenti fu possibile di sperare splendidi destini
per la filosofia italiana, ma la speranza anche allora, siccome spesso è, fu
ingannatrice, e l'avvenire mancò a così lieti principii. Del qual fatto non si
può trovare altrove la ragione che nelle condizioni della storia italiana e
nella intima natura della nostra filosofia. E, in vero se, come abbiam veduto,
la filosofia comparve in Ita lia quando il pensiero era abbastanza maturo per
siffatta ma niera di studii, quando questo momento fu arrivato, la nazione
incominciò a declinare. Quella maravigliosa abbon danza di vita che avea
alimentato il movimento dello spi rito e favorito l'innalzamento di tante piccole
nazionalità, nel cui seno eran comparse prima la poesia e le arti , e poi la
scienza , incominciava a indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la conquista
era compiuta; le antiche forme di reggimento eran cadute o avean perduto della
loro importanza; e le nostre sorti incominciarono ad esser , quando più e
quando meno, legate a quelle di altre nazioni. Strana cosa è l'ammirazione di
taluni storici, siccome DENINA, per la beata tranquillità, per i giorni di
serenità e di pace che spuntarono a rallegrare il bel cielo dell' Italia. Più
stra na ancora è la maraviglia del TIRABOSCHI il quale non sa comprendere come
la letteratura, le arti e in gran parte le scienze sien volte in basso stalo
allora a ppunto che la pa ce di cui finalmente godea l'irrequieta terra
italiana , facea sperar nuovi progressi e quasi un novello secol d'oro al
nostro paese. Costoro non intendevano che quando una nazione cade, cade di
necessità con essa tutto quello che è intimamente collegato con la sua vita e
col suo essere . E in fatti allora la bella prosa italiana fini, allora la
poesia spirò sulle labbra di TASSO, e le arti andarono ogni di più declinando.
Allora incominciò la corruzione onde il seicento è rimasto celebre nella
memoria degli uomini, sic come età di decadenza. E' sembra che l'antico spirito
let terario si rifuggisse un momento in Toscana per morir no bilmente nel paese
stesso che l'avea veduto sorgere, siccome la pittura cercò un asilo in BOLOGNA e
parve di nuo vo levar il capo fra le mani de' tre CARACCI, di RENI, del GUERCINO
e d'altri. Ma questo fu come l'ultimo sforzo del gladiatore ferito, o come l'
ultimo canto del cigno che si muore. Egli è facile il concepire come una
filosofia, la quale derivava da un movimento al tutto italiano, e che pe rò era
legata alla fortuna del pensiero onde ella avea da nascere, dovesse cader di
necessità il giorno stesso che quel pensiero veniva a perdere la nazionalità e
l'indole originale. Il medesimo senza fallo sarebbe avvenuto nell'antichità,
ove la Grecia fosse caduta il giorno stesso che il gran disce polo di
Anassagora bevè la cicuta, perciocchè allora a Platone dell’ACCADEMIA e ad
Aristotile del LIZIO sarebbe mancato il tempo di compari re, siccome mancò tra
noi dopo la morte de Socrati italiani. Dopo questo tempo non comparve, si può
dire, nessuno il cui nome fosse degno delle antiche glorie, e le menti ita
taliane sembravano comprese da una mortale stanchezza, quando venne fuori tra
noi VICO quasi a protestare in nome di tutti e mostrare al mondo che il fuoco
sacro del pensiero non era già spento nel bel paese ma solo nascosto sotto
tiepide ceneri. Tra una gran folla di eccel lenti giureconsulti che fiorivano
di quel tempo in Napoli, dalla meditazione del diritto romano egli seppe
innalzarsi alla scienza delle leggi universali che reggono il cammino del
genere umano sulla terra, e dalla meditazione d'una sola città alle leggi
supreme della civiltà e del corso di tut ta quanta l'umana famiglia. Ma poichè
egli precorreva di due secoli i suoi contemporanei, fu non curato e poco avuto
in pregio da quelli, ed è stato sol da'posteri onorato condegnamente alla sua
grandezza; gloriosa ma pur tarda e, che è più , inutile ricompensa al merito
degli uo mini veramente grandi, e a' sudori per esso loro sparsi in pro di chi
o non li comprende e per ignoranza o per mali gnità li dispregia, ovvero di chi
più non può giovarli . Parecchi anni dopo del VICO, e immensamente a lui infe
riore, comparve in Napoli GENOVESI. Del quale spiacemi di dover parlare in modo
che a molti sem brerà per avventura o affatto ingiusto o troppo severo . Im
perciocchè io penso che il suo merito, almeno comefilosofo, chè in quanto
economista non so , sia stato più del giusto esagerato de' suoi compatriotti, i
quali eran pure que' me desimi che avean veduto il Vico morir nella miseria , e
poco o niente avean creduto alla sua grandeza. GENOVESI poi, sendo prete,
credeasi in certa guisa mail'obbligo di rico noscer l'antica metafisica,ma nè
seppe intender quello che veramente di più profondo trovavasi in essa, nè il
più delle volte seppe spogliarla dell' aridità delle forme, non ostante che non
poco pretendesse alla leggerezza dello stile, e fino alle facezie e alle
arguzie il più spesso di cattivo gusto e di sdicenti alla gravità delle materie
per esso lui trattate. Nato poi nel XVII secolo e fiorendo ne' principii del
XVIII, credeasi parimenti obbligato di seguir le dottrine del suo secolo ,
senza scorgere le conseguenze a cui quelle menavano . Per tal guisa mentre come
teologo avea in 198 napzi AQUINO (si veda), intendea come filosofo seguitare l’EMPIRISMO
di Locke e il RAZIONALISMO di Cartesio, allora nuovi e in voga oltremonti, e a
cui l'alta mente di Vico avea mosso infin dal principio potentissima guerra.
Diviso fra due estremi così opposti in sieme, e' travagliavasi pure a volerli
conciliare, e parvegli che l'autore del sistema delle monadi potesse
maravigliosa mente servire al suo scopo, e così volea conseguir la gloria,
tanto per lui ambita , di libero pensatore e di teologo; ma il tentativo riescì
vano alla prova. Chi in fatti apra i suoi libri di leggieri si potrà accorgere
d'un continuo vacilla re e di una enorme confusione, per la quale il lettore si
tro va , siccome l'autore dovea essere, in una strana tenzone di discordanti
dottrine che ben sono accoppiate insieme , ma non sono e non posson essere
ricondotte all'accordo e all'armo nia. E, in vero, quale è la teorica onde egli
ha arricchito la scienza ? quale è il sistema che si chiama dal suo nome? quale
la scuola che ha fondata? Se pure non voglia dirsi , come si potrebbe in certo
modo affermare, che egli sia sta to il primo che incominciasse a introdurre fra
noi la filosofia del XVIII secolo, la quale dovea poi più largamente spandersi
e acquistar quasidiritto di cirtadinanza. Concios siachè, spezzato il legame
sacro che avrebbe dovuto legarci a' nostri più antichi, rotta la tradizione e
in certo modo spenta presso il più gran numero la ricordanza delle passa te
glorie filosofiche, parve più facil cosa il domandare ol tremonti bella e fatta
la filosofia, innanzi che travagliarsi a crearla da sè; tanto più che tra noi
l'uso delle profonde me ditazioni era venuto meno, ei sistemi che lavoravansi
oltre le alpi, tra per la loro comoda facilità e per la popolarità che la
letteratura francese ogni di più andava acquistando, divenivano anch'essi
popolari in gran parte dell' Europa. Or questa filosofia era derivata
direttamente da' sistemi del Bacone e del Locke , e più indirettamente da
quello del Cartesio. Cartesio avea continuato nelle astratte regioni della
filosofia l'opera incominciata dalla Riforma in quelle della religione, più
astratte eziandio e al tempo stesso più positive delle prime, che era senza più
l'idea della libertà del pensiero. Cosiffatta idea era nata da prima in Italia,
do ve non chiedea altro che la libertà del pensiero filosofico; anzi in sulle
prime si fu contenti a quella solo della libera discussione contro l'Aristotile
delle scuole, salvo a costruire un nuovo edifizio con le vere dottrine dello
stesso Stagirita ovvero di altri filosofi dell'antichità, siccome spesso si
vide fare. Ma la Riforma, confondendo i limiti di cose diverse, domanda la
libertà della discussione religiosa, il che era distrugggere la religione
medesima, la quale per sua es senza è fondata sulla fede, sulla credenza e sul
mistero, talchè sì tosto che la discussione e l'esame incomincia, la religione
finisce, dove tra il credere e il non credere , tra il si e il no, alcuna
transazione non è possibile, e ogni ana lisi l' uccide. Della religione avviene
lo stesso che d'una leggiadra fanciulla dalle guance rosee e da'capegli dorati,
la quale sembra contaminata dal solo sguardo troppo cupi do e indagatore
dell'uomo; ma non si tosto l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo i misteri
della sua bellezza, ogni prestigio è finito. Così accade delle religioni, e
tutte quelle che finora hanno imperato in su la terra, vere e fal se, ne son
argomento. I libri sacri degli Ebrei eran conser vati nel luogo più recondito e
segreto dell' arca; l'Egitto che può dirsi per eccellenza il paese della
religione, è la patria de' simboli e de' geroglifici , e in Grecia solo pochi
savi dopo faticose prove erano iniziati a' misteri di Samo tracia e di Eleusi .
In somma è strana cosa il credersi obbligato ad aver pure una religione e non
volerla fondata sul principio dell'autorità. E in questo veramente il principio
cattolico è superiore alle dottrine de protestanti e a quelle delle altre selte
del cristianesimo, come quello che non soffre di discen 200 dere ad alcuna
transazione, ma riconosce in sè la fonte di ogni vero, poggiandosi in sulla
autorità che è potentissi ma, come quella che ha per sè la costante tradizione
e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo spirito umano , ben fa spesso
de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si succedono e i costumi s'
ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi pare che ogni verità sia
destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che lo spirito dell'uo me sia
in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il più che a lui è conceduto
all'unico e immutabile vero , Ma dove è questo vero? chi mai può dire di averlo
ve duto, o chi mai potrà vederlo e indicare agli uomini la meta di tutti i loro
sforzi in su la terra , siccome il sepolcro di Gerusalemme a'Crociati e le
coste di S. Domingo a COLOMBO? Cotesto continuo moto, coteste secolari agi
tazioni stancano l'anima, la quale ha sovente bisogno di fermarsi pure a
qualche cosa di fermo e indubitabile, e di trovar come un'oasi in cui riposarsi
dalle fatiche del suo penoso viaggio fra le certezze e i dubbi , fra le
affermazioni e le negazioni dell' intelligenza. Or la Riforma distrugge questa
proprietà assoluta ed es senziale d'ogni religione, gettandola in un pelago più
con trastato ancora che quello della scienza, e in una bolgia di più inestricate
e spaventevoli quistioni. Ma queste ardue pretensioni della riforma furono
rendute ancor più estreme dal Cartesio , il quale spinse tant' oltre il
desiderio della li bertà che volle quella stranissima di dubitar di tutte
quanle sono le cose create e le increate fipo delle sue conoscenze, delle sue
idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi, se gli fosse riuscito, di costruir
da sè quello stesso che erasi dilettato con una nuova voluttà a distruggere. E
veramente uno smodato desiderio di azione sernbrami dover esser in chi si piace
di distruggere quello che egli ha intorno , per aver poi l'illusione del
creare, e, che è più strano ancora, creare partendo dal dubbio; nuovo e
titanico esempio d' un sublime veramente dinamico, Che cosa è egli quindi
avvenuto? Cartesio dovea egli so. lo ricostruir da sè l 'edifizio della realtà
e dell'universo con solo i mezzi che il ragionamento gli porgea. Ora e' ci ha
nella realtà delle cose alcuni fatti, siccome la religione, l'istoria, le arti,
i quali non sono opera dell'intendimento ovve ro della logica. E' ci ha nella
vita delle cose e degli avve nimenti che non potrebbero derivare e non derivano
dalla intelligenza individuale dell'uomo , quale essa alla logica e alla
psicologia apparisce, ma sibbene da altri principii e da altri motori , a cui
non si può che per diverse strade per venire. Per la qual cosa chi si argomenti
di costruir la realtà delle cose con solo le armi che quelle più ristrette
scienze gli concedono, e' non ginngerà mai ad avere essa realtà, quale nel
fatto è, ma si quale con i suoi mezzi la si può formare, e priva delle sue più
nobili parti, come quel le che di gran lunga son superiori ad ogni costruzione
in dividuale. La quale difficoltà si può muovere a quasi tutta quanta la
filosofia moderna, e nonsolamente a quella del Cartesio a cui essa è
indubitamente debitrice di si superbe pre tensioni. Or delle due cose l'una può
avvenire; o che la fi losofia riconosca la sua impotenza e rinunzii alla
superba impresa, ovvero che presumendo troppo altamente di sè, nieghi di
riconoscer come vero quello che essa non ha po tuto creare. Egli è inutile il
dire che non potendo la prima ipotesi verificarsi per esser la scienza troppo
superba di sua natura e troppo sicura del fatto suo, resta che la seconda si
avveri . Pur tuttavia il Cartesio, siccome suole avvenire, per essere il primo,
non giunse alle assolute negazioni di cui era pure nel suo sistema il germe ,
che poi seppe altri logicamente tirarne , allorchè si vide al fatto qua' si
erano le estreme, ma pur legittime conseguenze delle dottrine cartesiane.
Succedeva intanto in Inghilterra qualche cosa di simile a quello che in
Francia, comunque le forme potessero esser diverse. Quivi il Bacone avea
dichiarato quasi vana ogni scienza, il cui obbietto non potesse cader sotto l'
impero de’ sensi, quando Locke cercò modo di applicar questo me todo alla
conoscenza dell'intendimento umano, e fu di necessità costrello a vedervi solo
quello che ci ha in esso di più apparente, cioè il fatto stesso della
sensazione. Dalla quale, per sofismi che la scienza adoperi , non giungerà mai
a cavare altro che fatti singolari con cui è impossibile di venire ad alcuna
spiegazione probabile di fatti più alti e di più riposta natura, siccome sono
le religioni, le arti, l' istoria. Pure Locke si ostinò nel suo cammi no ma non
seppe o non volle o temè di venire al termine estremo a cui quello conducea.
Non io vorrei entrar mal levadore della verità d'alcun sistema, nè far
l'apologista di una più presto che d'un' altra filosofia, ma mi sdegno di certi
acciecamenti della scienza e della cieca sicurtà con cui sovente si ostina a
perdurare in una via , quando bene si vegga ch'essa non possa condurre se non
alla negazione assoluta di certi fatti i quali essa scienza dovrebbe bensì
spiegare ma negare giammai, ove non volesse, come Alessandro fa del nodo
gordiano, non sciogliere ma tor di mezzo, negandole, le difficoltà. Pertanto
quando il sistema del Locke ebbe passato lo stretto e ſu giunto sulla terra a
lui ospitalissima della Francia, non fu chi non gli facesse buon viso, e venne
accolto non già siccome quegli che giunge nuovo in terra straniera , ma come un
antico amico che dopo lunga lontananza si riduce in patria. E veramen te sua
patria era per esso quella del Cartesio. E' si dice che ogni idea cerca per per
sua natura di venire ad atlo ed es ser messa in pratica. Or se ci ha filosalia
al mondo, de la quale si può affermare che abbia raggiunto il suo scopo, è
certamente quella della sensazione. Conciossiachè la rivoluzione di Francia si
argomento di rifare la civil comunanza secondo quelle dottrine, e tulto un
paese e una nazione no bilissima per amore di quelle fu veduta pronta ed
apparec chiata a rinunziare un bel giorno alla sua istoria , alle sue
tradizioni, alle sue antiche grandezze e alle passate glorie . Concessioni
senza fallo enormi , ma pur logiche , e per le quali può dirsi che Marat,
Danton, Robespierre e gli altri fossero gli estremi e più conseguenti discepoli
di Locke, di Condillac, di Voltaire e d’Elvezio; sebbene al fatto siasi veduto
ove quelle teoriche peccassero, e come è pur mestieri di tener saldi certi
altri e più antichi principii , chi vuol conservare in vita le umane società.
Tale si era lo stato delle cose in Francia quando l'ITALIA legata oggimai a'
destini della politica straniera, cerca ezian dio fuori di sua casa una
filosofia bella e fatta, e potè leggermente trovarla, siccome l'abbiamo
descritta in Francia dove come in un nuovo Eden, cercammo l'albero della scien
za e della verità, benchè il frulto che ci regalo fosse morta le per noi, come
quello che fini di distruggere ogni germe di forza e di natio vigore nella
patria di Gregorio VII e di ALIGHIERI Vero è bene che la filosofia della
sensazione non può dirsi che in Italia fosse stata accettata ciecamente e
compiutamente , ma pur tuttavia ebbe abbastanza di forza per insinuarsi nell'
universale, e produrvi certa maniera di debolezza morale che è l'effetto della
mancanza d'ogni idea più elevata e più generosa. Ma comunque avesse avuto fra
noi gran numero di ammiratori e di adepti, pure, le più alte menti italiane non
si piegarono ad ab bracciarla compiutamente ancorchè non avessero saputo di
scostarsene del tutto. Solamente più tardi e quando già quel la filosofia
incomincia a venir meno nella sua stessa patria, si videro comparir tra poi i
saggi di COSTA (si veda), di GIOIA (si veda) e del napolitano BORRELLI che a
quel le dottrine più da presso si accostavano; tre menti temprate in modo da
non intendersi come abbiano potuto nascere nel la patria d’ALIGHIERI,
BUONARROTI, E VICO. I due ultimi – GIOIA
e BORRELLI -- scrivendo in una lingua a mezzo barbara , intendevano l'uno di
spandere e divulgar nell' universale la parte più positiva della logica del
Condillac, e l'altro di rianimare le teoriche del Cabanis , mercè qualche
dottrina , già forse combattuta e dimenticata, del Locke. D'altra parte il
primo, dico COSTA, purista ma pedante in letteratura , crede che la medesima
lingua che era servita ad ALIHGIERI per narrare i tre regni misteriosi della
morte, e descriver fondo a tutto l'universo; la medesima lingua che era servita
a MACHIAVELLI per disvelare i segreti della politica, e a VICO per dividare il
passato e l'avvenire , e far la Divina Commedia della vita , siccome ALIGHIERI avea
fallo quella della morte; polesse impunemente esser condotta a raccontare le
lepide trasformazioni della celebre statua, che a forza di odor di rosa dovea
tornare uomo, come quella dell'antico Prometeo, mercè la fiamma del sole. Tolta
per tal modo al pensiero l'originalità e l'indole nazionale, la letteratura di
rimbalzo dovea sentire i cattivi effetti dello stato morale del paese. Già essa
avea perduto la sua antica grandezza al XVII secolo, la sua fulgida stella era
tramontata, e quel soffio divino che ne' secoli prece cedenti avea animato le
nostre lettere parea si fosse ritira to dal cielo dell'Italia in mezzo alla
corruzione che invadea d' ogni parte. Per la qual cosa il XVIII secolo ,
trovatici in queste condizioni, ci polè facilmente vincere, chè la strada era
fatta, aperta la breccia , e agevolmente si potea una cor ruzione sostituire ad
un'altra, un nuovo ad un antico vizio. Allora si giunse perfino a sostenere che
l'italiana era quasi una lingua morta la quale non potea più bastare ne alle
nuove esigenze, nè alle nuove idee del secolo , nè agli andamenti più svelti e
più liberi del pensiero moderno, sic chè bisognava al postuito rifarla,
provvedere che ringiova nisse e sopperire alla sua manifesta povertà. Non è chi
ignori come CESAROTTI si e il massimo
campione di questa infelicissima scuola, e come con questo scopo dettò certo
suo trattato che intitolo: Saggio sulla filosofia delle lingue. Se non che
giunta la cosa a questo estremo punto , bisognava di necessità che , secondo il
corso ordinario degli umani eventi, ritornasse indietro. E già nella Francia in
un altro ordine di cose una maniera di reazione era incominciata , concios
siachè l'opera dell'impero può affermarsi non essere stata altro che una
possente reazione contro gli anni prossima mente passati, e una ricostruzion di
quello che negli eccessi della rivoluzione stato era distrutto e che pur
meritava di esistere. In ITALIA, strana cosa ! questa reazione incomincia DALLA
LINGUA. Già poco innanzi PARINI, ALIFIERI, e qualche altro aveano incominciato
a levar la voce contro la servitù dell'imitazione straniera, ma poichè il male
non era an cor venuto a quel punto estremo a cui le cose um ane deb bono
arrivar per ritornar indietro, le loro parole furono im produttrici di effetti
immediati in su le menti de' loro con temporanei, perchè le parole eriandio de'
più grandi uomini non possono riescir proficue ove non trovano gli animi ap
parecchiati a riceverle, e la pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in
vero quando le cose furon più mature, del le voci men possenti di quelle che ho
citate poterono ope rare ciò che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa
cile nell' universale. Vero è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi
alla corruzion generale furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del
tempo e regalati, per più derisione, de’titoli di pedanti (che forse erano) e
di pu risti . Ma tutto fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da
onorar qualunque eroe, e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare
che costoro, non si credendo che i paladini delle parole, combatteano veramente,
senza pur sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero, e, se eran pedanti,
significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro le pretensioni
della filosofia. Duraya giá da alcun tempo questa reazion grammaticale contro
la letteratura allora corrente , quando dalla remota Calabria s' intese
risuonare una voce , che protestava contro la filosofia del senso e le sue
eccessive pretensioni. Colesta da voce era quella di GALLUPPI, rapito pur testè
alla scienza a cui avea consacrato religiosamente la sua vita. Per ben giudicar
questo filosofo è d' uopo distinguere esattamente ciò che egli ha negato da ciò
che ha affermato, cioè la sua polemica col sensualismo dal suo sistema. Con
ciossiachè il suo vero merito si è quello d' essere stato il pri mo in Italia a
sentir la necessità d' una filosofia più ampia opporre alle minute
investigazioni di Condillac, di Tracy e degl’altri di quella scuola. Cotesto è
il vero merito di GALLUPPI, e PER QUESTO SOLO GLI E DOVUTO UN POSTO NELLA
STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Vero è che le sue armi sono il più delle volte
domandate alla scuola scozzese, o eziandio à quel medesimo Locke che era il
vero padre delle dottrine le quali egli volea combattere; ma cotesto non
diminuisce nè il suo merito, nè l'obbligo che la filosofia italiana gli dee
avere. Medesimamente egli si è il primo che abbia in cominciato a divulgare fra
noi il nome e il sistema di Kant, e comunque non manchi chi sostiene che egli
me desimo non fosse giunto a penetrare compiutamente in tutti i misteri e gli
andirivieni e i tragetti della psicologia kan tiana , pure è cosa indubita che
egli si fu il primo ad occu parsene seriamente. Certo è, come innanzi vedremo,
che altri è riescito meglio di lui nell'investigar la mente del filosofo
prussiano e nel misurar tutto il valore e le possibili applicazioni di quelle
teoriche, ma certo è pure che il vanto di essere stato il primo,eziandio in
questo, non può negarsi al calabrese. Quanto poi al suo proprio sistema
composto in parle dalle teoriche del Locke e in parte da quelle del Reid
[CITATO DA H. P. GRICE, “PERSONAL IDENTITY” – Mind, repr. PARRY], non credo che
volendo esser giusti si potrebbe parlarne con alcuna ammirazione. Conciossiachè
debolissima è la sua psicologia , e quasi nulla l' ontologia, la quale egli
spesso non sa distinguere da quella, e sì confonde stranamente le quistioni che
all'una e all'altra scienza si appartengono. Più confusa eziandio è la logica,
che egli discerne in logica pura e mista ovvero applicata, mercè della qual
distinzione che in niun modo non saprebbe sostenersi, è riescito a trattar
della prima delle pure forme del raziocinio, e ad ammassar nella seconda un
gran numero di quistioni di psicologia e di ontologia, che non sapea come
allogare altrove. Non parlo dello strano metodo con cui movendo dalla logica
pura e passando per la psicologia e l' ideologia, giunge alla mista, perchè
quello in cui mostrasi chiaramente tutta la debolezza delle sue teoriche, è
l'applicazione che pure si argomenta di farne alla morale e all'estetica.
Nell'estetica , per esempio, di cui si occupa sol di volo a proposito della
teorica della volontà , senza punto curarsi de' più alti problemi che in essa
si possono discutere, s'in trattiene a sostener l'opinione , un po' veramente
troppo vo luttosa, che il bello può esserci rivelato dalla sensazione del tatto
non altramenti che da quelle della vista e dell'udito, quasi non fosse chiara
la differenza che è tra certi sensi più altaccati alle necessità della vita e
però men nobili, da certi altri che servendo meno immediatamente al corpo son
più liberi, e, se così può dirsi, più spirituali . Del resto e' si può dire che
GALLUPPI non ha veramente una certa teori ca sul bello e sulle arti , ovvero se
pur l'ha , dubito forte non sia quella del Blair e SOAVE, autore di un'intera
enciclopedia d'istituzioni elementari per l'educazione della povera gioventù
italiana, filosofo, matematico, grammatico, relore, novelliere, moralista e SOMASCO,
che per molto tempo continuò e continua ancora in gran parte, ad infestar co'
suoi libri, i seminarii, i licei e le scuo le italiane. Quanto poi al suo
sistema sulla morale e sul di ritto, GALLUPPI non può dirsi che siane uscito
più felice mente che nelle altre parti della sua filosofia, e chi volesse
prendersi giuoco di lui potrebbe leggermente qui, come al trove, trovarlo ad
ogni pagina in contraddizione con sè me desimo. Non son molti anni passati che
il nostro filosofo in cominciò a pubblicare per le stampe un'istoria della
filosofia , ma sembra che per mancanza di soscrittori l'edizione non potesse
andare innanzi , sicchè dovette smetterne il pensiero, e l'opera morì ia sul
nascere. Se in questa, come nelle altre cose, l'induzione è buona, e si può
indovinare che la scienza non vi abbia perduto gran fatto; chè l'autore vi fa
cea mostra d' un'erudizione non molto riposta. E' mi ricor da fra l'altro che
nell'introduzione tentava ancora egli un'in terpetrazione del mito di Prometeo,
e giunse per non so che strane congetture a persuadersi che il celebre
prigioniero del Caucaso si era un anticore dell'Attica, che aveaprima insegna
to a quelle genti i primi rudimenti di agricoltura e sopratut to la
coltivazione del grano. Davvero mi sembra enorme non veder altro che questo in
Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di Mercurio , per comando di Giove
e per decre to immutabile del destino, e mi sembra più che enorme di struggere
il più profondo mito dell'antichità , e conver tire il figliuolo di Giapelo in
un mietitore, con una rovinosa metamorfosi che trasforma di botto il capo
d'opera del teatro di Sofocle in poco più di un'egloga. GALLUPPI e chiamato a
dettar lezioni di filosofia nella regia Università di Napoli, e la scelta del
governo fu facilmente accompagnata dagli applausi unanimi di tutti ,
imperciocchè si aspettavano cose grandissime da un uomo la cui riputazione
potea dirsi gigantesca tra noi, e sul cui merito tanto più si giuraya, in
quanto niuno avea ardito di dubitarne o di esaminarlo seriamente. Ma ora dopo
se dici anni di esperienza deve esser conceduto di affermare che l'aspettazione
pubblica è stata delusa, ed anche il suo insegnamento non ha condotto a nulla
di durevole. Quale si è in fatti la scuola che egli ha fondata? quali le verità
che ha dato a svolgere a' suoi scolari ? quali applicazioni si son potute fare
della sua filosofia al diritto, alle arti, alla politica, all'economia ed alle
scienze naturali ? Per me io tengo che una filosofia la quale non è feconda di
applicazioni di ogni maniera, e che si condanna a restare nel circolo delle
quistioni puramente psicologiche, non meriterebbe il super bo nome a cui
aspira, e più presto dovrebbe aversi quello di logomachia di scuola. Or tale si
è quella del professor napolitano. Però non dee arrecar maraviglia se le sue
parole uon hanno avuto un eco, se il suo insegnamento è stato per duto, e se,
fra tanti discepoli che han frequentato la sua scuola, non ce ne ha pure uno di
cui si possa dire: costui conti nuerà l'opera del maestro ; chè nessun'opera il
maestro ha incominciata, nessuno scopo si era prefisso, e niente vi ha di più
inutile che le parole da lui pronunziale per sedici anni sulla cattedra. Non
ricorderò che di volo i nomi di MANCINI, TEDESCHI, GRAZIA, e WINSPEARE. De’quali
i due primi , siciliani, non possono dirsi, e sopratutto il primo, che seguita
tori , ma nè interi nè profondi, dell' eclettismo, e, poveri non meno di
erudizione che di potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due
scolari che non si ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo ,
calabrese di patria, è un antico militare che ha finito per consa crare i suoi
giorni alla filosofi, ed ha, già sono qualche anni passati, dato fuori per le
stampe un'opera in cui intende a richiamare in onore e Locke e la filosofia
dell'esperienza, ma pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do
vrebbero allontanar le conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto, e che
agli occhi degl' intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter l'autore,
a sua insaputa , in con tradizione con sè medesimo, e l' un principio del suo
siste ma in opposizione con l'altro. WINSPEARE (si veda), giureconsulto di
rinomanza in Napoli, si è ancora egli rivolto agli studi della filosofia, e
come frutto delle sue meditazioni pubblica “Saggi di filosofia intellettuale”.
La sua “Introduzione allo studio della filosofia” contiene un compendio dell'
istoria di cotesta scienza da Talete in fino al Kant. I suo “Dizionario della
Ragione” e un dizionario di filosofia che si propone lo scopo di fermare per
sempre le parole della scienza e il loro significato, affine di renderne il
valore così certo e indubitato come è quello delle matematiche, e distrugger
così alla loro sorgente le quistioni e le difficoltà che lacerano da tanti
secoli il seno della filosofia. Imperciocchè e' sembra che l'autore ha per
ferma la celebre opinione di quasi tutto il XVIII secolo, e che ora alcuno non
oserebbe di sostenere, esser cioè le più profonde quistioni filosofiche niente
altro che controversie di parole, sicchè, fermato bene il valore di queste,
abbiano quelle immantinente da cessare. WINSPEARE traduce i “Nuovi Saggi” di
Leibnizio, dove da un vero modello della LINGUA FILOSOFICA ITALIANA, ancora
così povera tra noi (non credano i lettori che io esageri), pro ponendosi di
più di venir mostrando ne' suoi comenti quello che ci ha di buono e quello che
ci ha di vieto e di rancidu me metafisico nelle pagine del filosofo tedesco.
Ancora qui non fo quasi che ripetere le modeste parole dell'autore. WINSPEARE
expone il sistema del Reid. E qui immagini il lettore il sistema del filosofo scozzese,
che non suole esser creduto, ch' io mi sappia, de'più oscuri ed astrusi,
esposto compendiosamente dal nostro barone, in un gran volume in quarto; chè
questa è la dimensione dei suoi fratelli già venuti alla luce. Secondo WINSPEARE
e' non ci ha che due uomini al mondo a cui la scienza abbia veramente da essere
obbligata; e di costoro il primo visse , già sono trenta secoli passati, in
Atene, e l' altro nacque in Iscozia. Questi due uomini sono Socrate e Reid .
Solo il Leibnizio potrebbe esser terzo tra costoro, ma egli è troppo lordato di
metafisicume per essere accettato interamente dall'illastre giureconsulto ; e
però, come è detto, e' si propone di purgarlo. Salvo adunque il greco, lo
scozzese e il tedesco, così purificalo, tutti gli altri uomini che han
consacrato la loro vita alla scienza e che son giunti a rendere immortali i
loro nomi, voglionsi tenere comepericolosivisionarii, i quali ovvero
s'ingannano per difetto di giustezza di mente, ovvero si lasciano strascinare
dalla loro immaginativa. A purgar la scienza da questi malaugurati sogni è
sopra tutto ordinata ľ opera del WINSPEARE. Innanzi di lasciar Napoli non posso
trascurar di ricordare il nome di un uomo, forse poco conosciuto altrove, e che
eziandio tra noi non risuona molto, ancorchè il meritasse . Ma in tutte le cose
la fortuna è signora, ed anche per giun gere alla gloria è necessaria certa
maniera d'impostura. Co stui è COLECCHI, il quale, sendo già profondo
matematico, allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si potè star
contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in quella
vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella filosofia
che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e a
ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le
analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie
meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. COLECCHI sa penetrarvi
così addentro , che quasi le fece sue proprie, e spesso osò modificarne alcune
parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che egli ha acquistata
col suo autore, ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto la voce a sostener
che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in sieme le loro
dottrine. Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente da altri dubitare
seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della filosofia del Kant, e l'
uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e l'altro dove distingue la
parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen ze, quella cioè che da'
sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine ; cominciando egli dal
porre come fonda mento del suo sistema che tutto il sapere incominci con
l'esperienza ma non tutto da quella derivi. Cotesto è forse il più importante e
il più vero di tutti i principii kantiani , comunque sia assai più antico della
critica della Ragion Pura. Leibnizio, fra gl’altri, avea già insegnato l'anima
escir dalle mani del Creatore con tutte quante le idee necessarie ed assolute,
come quelle che compongono la sua propria essen za; ma che, oscurate e quasi
sepolte sotto il peso della ma teria , han bisogno che l'esperienza venga a
discovrirle e quasi a far che lo spirito se ne avveda, benchè da quelle non
derivino. A questa guisa appunto lo scultore, se una figura fosse impressa da
natura nelle parti più interne d' una pie tra, ove questa tagliasse e
levigasse, non sarebbe egli autore di essa figura , ma si cagione che quella
fosse manifestata. E, assai prima del Leibnizio, la medesima dottrina può tro
varsi insegnata da altri più elegantemente e con maggior di sinvoltura. Platone
nel suo nobilissimo dialogo del Fedone, nel quale narra, come tutti sanno,
della morte di Socrate e delle cose da lui discorse con i discepoli e con gli
amici in nanzi di ber la cicuta , dimostra siccome è nelle nostre menti un'
idea prima dell' uguaglianza (autò pò trov ) così astratta e generale che non
si può in niun modo confondere con l'idea di duecose qualunque che sieno eguali
insieme, come due pietre, due leyni o altro. Perchè dove quella è tale che noi
sempre allo stesso modo la concepiamo e di necessità non possiamo comprenderla
altrimenti col pensiero , questa per contrario è mutabile , sendo che il fatto
quotidiano ne mo stra che quelle medesime cose , che pur ieri ne pareano
uguali, ne sembrano altra volta disuguali, senza dire della differenza de'
giudizii de' diversi uomini, a cui le stesse cose appaiono diversamente. Onde
egli conchiude l'uguaglianza assoluta non si dover confondere con quella delle
singole cose a cui questo attributo ci sembra di convenirsi. Le medesime cose
Platone dimostra del bello , del giusto , del vero e di altre cosiffatte idee,
che non si possono confondere con gli obbietti sensati, a cui si trova che solo
per contin genza alcuno di que' modi di essere si può attribuire, e che sono
come un debil raggio di quegli eterni tipi che sopra di esse cose mutabili
vengonsi a riflettere, e che di quelli solo per accidente partecipano (
METÈYouTQ ). Se non che que sti obbietti mutabili e contingenti son come lo
strumento per cui mezzo l' anima giunge ad aver coscienza delle idee , sendo
che, ogni volta che le cose uguali, belle, vere e giuste le son mostrate da'
sensi, si vengono risvegliando in lei itipi eterni a quelle corrispondenti, i
quali pur erano in lei ab eterno, ma si vennero oscurando il giorno che ella,
lasciata la sua celeste dimora, discese nella prigione del corpo la tal guisa,
secondo il divino Platone, il sapere è solo ricor danza, e l'apparare è
ricordarsi. L'altro punto principale della filosofia del Kant, e pro prio a lui
solo, si è la teorica della ragione che egli tiene per subbiettiva e inetta a
farne conoscere altro che le appa renze, e non mai la sostanza delle cose.
Teorica d'importanza principalissima, come quella da cui dipende il sapere se
l' uo mo ha diritto a credere di poler giungere alla conoscenza di qualche
verità , ovvero se, condannato a vivere fra illusioni e apparenze, dee rendere
immagine del cane della favola, il quale credea un altro cane da lui distinto
la sua propria immagine che vedea riflettuta nelle onde del ruscello. Chi
concede questo punto al Kant, gli dee conceder tutta la sua filosofia e dee
esser tenuto per kantista, siccome io affermo di COLECCHI, quali che fossero in
parti secondarie le loro di vergenze. II COLECCHI pubblica un gran numero di
articoli su di versi subbietti di filosofia speculativa e morale che poi ha
raccolti in due volumi col titolo di quistioni filosofiche, ove assai spesso
prende a combaltere GALLUPPI, e se il faccia con buon successo, e se gli
avvenga sempre di riportar facile vittoria sul nemico èinutile il dirlo.
Conciossiachè il sistema slegato e debole del filosofo calabrese mal potrebbe
resistere a colpi serrati della dialettica del suo avversario. A questi due
volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni estetiche, di cui mi riesci di
aver le bozze di stampa per le mani, poichè il libro non potè veder la luce .
Cotesta estetica, come tutto il sistema del nostro filosofo, è quella me desima
del Kant; un deserto di astrazioni senza mai incon trare un'oasi ove lo spirito
possa alquanto rinfrancar le forze. Egli è quasi che inconcepibile come quel
divino rag gio che domandiamo bellezza, e che risplende misteriosa mente nelle
volte de' cieli e negli occhi delle fanciulle , pos sa esser materia su cui
s'innalzino de' formidabili edificii di aride astrattezze , con le quali è al
postutto impossibile di dar pure una spiegazione del bello e dell'arte, alla
guisa che è impossibile di trovare il mistero della vita nel cada vere, o
quello della luce nelle tenebre. Mentre questa fortuna si aveano in Napoli le
discipline filosofiche, nelle altre parti d'ITALIA non mancarono di essere, ove
più e ove meno, splendidamente coltivate, e in que sti ultimi tempi videro
levarsi chi di gran lunga si lasciò in dielro i Napoletani. In Italia è
succeduto al nostro vivente un fatto il quale è in manifesta opposizione con quello
erasi veduto finora nell' istoria della nostra filosofia, la quale in fino
dalla più remota antichità , ha avuta nel mezzodì della Penisola un' indole
diversa che nel settentrione. Colà il razionalismo ha dominato , qui la scienza
ha più presto incli nato al positivo e alla pratica; quasi queste due diverse
ten denze della filosofia si fossero geograficamente diviso il terreno. E in
vero mentre nell'una parte venivan su LA SETTA DI CROTONE E QUELLA DI VELIA, nell' altra la sapienza
etrusca s'introducea in ROMA, che può dirsi il paese per eccellenza della
politica, della guerra e della legislazione. Vero è che in processo di tempo i
due estremi si andarono ravvi cinando, e l' idealismo si accostò al suo
contrario e quindi risultò l'indole vera della FILOSOFIA ITALIANA, che è
insieme speculativa e pratica , come quella che domanda i principii ma non
dimentica le applicazioni, e , se intende di levarsi. sino al cielo in su le
ale della speculazione non perde però di vista la terra. Se non che è
innegabile che non ostante il ravvicinamento di queste due maniere di
filosofare, pure la differenza non fu mai cancellata del tutto, e i filosofi
del mezzodi restaron sempre più razionalisti, e più pratici quel li del
settentrione; testimonii VICO e BRUNO da una parte, MACHIAVELLI e POMPONAZZI,
per non citarne in fioiti, dall'altra. Ora al nostro vivente, come dicevo, il
fatto inverso si è veduto avvenire, chè i filosofi Napoletani non si son saputi
dipartire dalla psicologia, e quelli della più alta Italia hanno ardito di
sollevarsi infino all' ontologia ; quasi il coraggio delle ardue speculazioni,
venuto meno a noi, si fosse rifuggito appo gli altri. E questi sono SERBATTI,
ROVERE, e GIOBERTI. SERBATI ricorda in certo modo i nostri buoni filosofanti delle
scuole, i quali chiusi fra le mura di un chiostro, alternavano la vita fra la
preghiera e la meditazione, e vedeano scorrere in silenzio i loro giorni
senz'altro pensiero che quello della chiesa e della scienza. Così il no stro
abate, pievano di un piccolo villaggio in quel di Novara, si è dedicato tutto
quanto alla religione e alla filosofia, con una fede e un' anbegazione che
ricordano altri tempi ed altri costumi . Egli era già conosciuto per altri
scritti di filosofia speculativa e di diritto pubblico e naturale, quando
pubblica per le stampe una sua opera sull'origine delle idee la quale per la
profondità delle dottrine, per la forza della dialettica e per l'erudizione non
comune di cui è ricca nel fatto dell'istoria della filosofia, e massime della
scolastica, merita bene di essere allogata fra le più importanti che in questi
ultimi anni han veduto la luce. Gran danno che sia di faticosa lettura per
l'abbondanza non felice e del lo stile e delle parole. Il problema che l'autore
principalmente discute in questo suo saggio è quello onde è travagliala tutta
la filosofia, e che più specialmente occupa la moderna, dico la questione della
realtà della conoscenza. Gran cosa è veramente cotesta che molesta
siffattamente la scienza. Noi siam circondati anche a nostro malgrado da una
tur ba infinita di diversi obbietti ordinati quale alla soddisfazio ne de'
nostri bisogni , e quale a render lieti o miserevoli i pochi giorni che dobbiam
passare su' lagrimosi campi della terra , che pur tanto amiamo ed a cui niente
non ci avrebbe da legare. Or chi mai ha dubitato della realtà di tutte queste
cose ? Certo se a taluno venisse talento di farlo e di dubitar seriamente se
esista la donna che egli ama, l' inimico che odia , le catene che legano i suoi
piedi o l'oro che brilla nella sua scarsella, e' non si dubiterebbe pure un
momento di di chiararlo mentecatto, e condurlo di presente all' ospedale dei
matti. Or la filosofia si è condannata di buona voglia a du bitar di queste
cose e ad ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe stimar folle un uomo agli
occhi de' poveri di spirito. Nè è da credere peròche vengada modestia questo
dubbio della scienza, anzi è figliuolo della superbia. Conciossiache la filosofia
non vuol già conoscere le cose alla guisa medesi ma che gli altri uomini, ma si
bene rendendosi ragione e chie dendo una spiegazione possibile di tutto che
l'uomo pud sa pere. Quindi è addivenuto che essendo gli obbietti esterni parte
della conoscenza, la si è imposto il dovere di non cre dere diffinitivamente in
essi, o almanco seriamente dubitar ne in fino alla dimostrazione. E però si è
messa con una calma edificante a discutere la questione di sapere se ci ha
niente che esista fuori dello spirito. Soventi volte le armi le son mancate per
provar quello che volea sapere, e allo ra più presto che essere incredula a sè
medesima o infedele alla sua divisa , ha consentito ad accettare il nulla con
una rassegnazione da disgradare un anacoreta, e a conchiudere che il genere
umano s'inganna visibilmente allorchè crede alla realtà delle cose. O alliludo!
Or l'opera di SERBATTI è precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta
quistione, a cui egli giunge incominciando da una rassegna istorica de' varii
sistemi antichi e moderni che su lo stesso problema si son travagliati, i quali
tutti esamina con gran sottigliezza e con mirabile profondità ed erudizione. Di
scute da prima la quistione dell'origine delle idee nella mente; quistione
strettamente legata con quella della realtà della conoscenza, e fa vedere in
una maniera non tolta da altri, come i filosofi di lutti i tempi sono andati
errati in questo , o per eccesso o per difetto , dappoichè alcuni non vollero
riconoscere alcuna idea primiliva nello spirito, ed altri cre dettero di
vederne in maggior numero che veramente non sono. Lontano dall'errore degliuni
e degli altri, SERBATTI ni ne ammette sol' una, cioè ľidea dell'essere, forma
uni versale de' nostri pensieri, idea primitiva e necessaria dello spirito, la
quale non ne suppone alcun'altra prima di sè, ma bene da tutte quante le altre
è supposta, come quella che alla loro formazione è necessaria. Or su questa
idea riposa la realtà delle conoscenze, sendo che essa rinchiude il con cetto
dell'esistenza, anzi è l'esistenza medesima ; per suo mezzo noi possiamo
giungere dal mondo de pensieri a quel lo dell'esistenza, da’concetti a’fatti.
Non io qui intendo di difender l'una ovvero l'altra opi nione, ma poichè mi
propongo solo di raccontare, non posso tralasciar di riferire una opposizione
cheè stata fatta alla teo riea detta di sopra. Quale si è la difficoltà
arrecata in mezzo dagli avversarii della realtà? Noi non sappiamo le cose, e'di
cono, ma sì le idee che ne abbiamo; o come si passa all' obbietto da quella
rappresentato? su qual ponte si supera la distanza che è da un'idea ad un fatto
? Or la vostra idea dell'essere, si è opposto a SERBATTI, non è punto diversa
dalle altre, e indarno vi dibattereste a dimostrare che è di differen te
natura; e, se è vero, come è, che la è generale e necessa ria , non è però vero
che a differenza delle altre idee di que sta medesima natur, sia di per sè
stessa obbiettiva e atta a porci in relazione con le cose reali . Sicchè l'
antica quistione non è stata per voi risoluta , anzi rimane tultavia intera,
potendosi opporre all'idea dell' essere le medesime difficoltà che alle altre
idee, non ostante i vostri sforzi per sostenere il con trario . Vero è che
l'autore, dopo cinque faticosi volumi, con una rara, non so se io dica superbia
o modestia , dichiara che non è leggiera cosa l'intendere la sua dottrina , e
che egli in vano si è studiato, per l'impossibilità della cosa , di esser
chiaro e intelligibile. Non tacerò che a taluno è sembrato di vedere nell'opi
passa dall'idea e nione di SERBATTI una pericolosa teorica da cui agevolmente
si può sdrucciolare nel panteismo. Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a
tre cose; la primache siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate
dal suo autore, e che se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti
mamente si possono far discendere dalle sue opinioni, certo pon indugerebbe
pure un momento a ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar
troppo le parole le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in
un'altra a certi estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui
regolarmente non si potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica
che può divenire per que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto.
Ultimamente non bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio
universale, e che troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le
opinioni; e se è vero che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure
strano vederlo sem pre e da per tutto. ROVERE pubblica in Parigi il “Rinnovellamento
dell'antica filosofia italiana.” Oltre al nome dell'autore che già risuona
nella nostra penisola, cotesto titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione
dell'universale sul saggio di ROVERE. Conciossiachè si credette di vedere certo
orgoglio nazionale , e quasi una bella virtù cittadina nell'idea di richiamare
in onore e in vita la nostra antica filosofia. La ste rilità pedantesca de'
nostri filosofi non avea fatto escirle loro scritture dai limiti della scuola,
e privatili così d' ogni maniera di popolarità in un paese in cui gl’uomini
consacrati specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi,
perchè levi gran grido nell' universale un saggio di materie così speciali. Ma
questa difficoltà ROVERE riesci a superar felicemente. Or vediamo qual sia la
sua idea. I filosofi italiani non solo sono slati primi nell’ordine del tempo a
incominciar la guerra contro la scolastica, da cui poi dovea venir fuori la
filosofia moderna, ma ancora sono entrati innanzi agl’altri per la profondità e
dottrina con la quale seppero eziandio trovare il vero metodo con cui
unicamente le scienze speculative possono giungere a glorioso porto,
riconducendole all'osservazion della natura, da cui le astrattezze della scuola
aveanle allontanate; metodo di cui la filosofia moderna mena gran vanto come
della più bella delle sue invenzioni, e della sola armecon cui sipossa giungere
alla scoperta della verità. Ancora fecero di più, e non contenti ad indicare
altrui la strada che si ha da tenere, si posero animosamenle in quella, e ri
ducendo ad atlo il pensiero del loro metodo , riescirono a crear de ' sistemi a
niuno secondi di quanti ne’tempi posle riori si son veduti venir fuori. In
questi sistemi certamente molte cose sono da rigettare, molte da correggere e
da mo dificare, ma molte sono eziandio accanto alle prime, le quali meritano
ben altra cosa che dispregio e noncuranza. La filosofia moderna avrebbe da
studiare attentamente in quelli per tirarne tutto il buono che vi è , e far
tesoro delle altis sime verità che soventi volte han costato a' loro scoprilori
la libertà o la vita . Sopratutlo gl ' Italiani non dovrebbero lasciar perire
sotto a' loro occhi la grande opera incomin ciata da' loro avi con tanto ardire
e potenza di mente, anzi dovrebbero alacremente continuarla , e in vece di
tener die tro astraniere filosofie e trapiantarle siccome piante di al tro
clima della loro patria, dove mai non potrebbero alli gnare siccome frutto
indigeno e nazionale, bisognerebbe che si adoperassero a tult' uomo di
richiamarli in vita e risve gliar la nobile tradizione d'una scienza pur nata
fra essi. Le altre parti del saggio di ROVERE son destinate a svolger la vera natura di
questo metodo, che, secondo lui , è quello dell ' osservazione , il quale a
molti può parere non acconcio a condurre la scienza là dov'essa dee pervenire ,
e che a me sembra egli confonda troppo con i procedimenti I delle scienze
naturali. Ancora ne viene mostrando l' applicazione a parecchie quistioni
speciali , che egli si studia di risolvere seguendo per lo più le orme de'
nostri antichi filo sofi. Per menon esaminerò sino a che punto i grandi filo
sofi italiani del risorgimento abbian seguito il metodo di os servazione,
siccome ROVERE l' intende, nè se questo me todo, sì utile d'altra parte alle
scienze fisiche, sia sufficiente alle metafisiche, chè cotesto mi menerebbe
lungi dal mio pro ponimento e getterebbe in quistioni che non ho in animo di
discutere ; solo dirò qualche cosa del proposto risorgimento della nostra
antica filosofia . L'idea di ROVERE si è di ri chiamar in vita tra noi le
nostre tradizioni filosofiche, per chè la scienza si abbia nella penisola un
tipo veramente ita liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato che ogni pae
se ha da natura una particolar fisonomia,per la quale si di stingue da tutti
gli altri, e che siccome è impossibile di can cellare del tutto così è vil cosa
di non rispettare come up dono della Provvidenza, e di non custodir gelosamente
come un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa differenza
d'indole si mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni popolo,
negli istituti e nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un modo
speciale di vedere e d' intendere e di rappresentarsi le cose. Gl’obbietti sì
del mondo fisico che del morale, si possono giustamente chia mar poligoni, in
quanto che ciascuno ha molti diversi lati, e può , rimanendo sempre il
medesimo, esser considerato in mille guise diverse, e produrre, secondo queste
diversi tà , mille diverse impressioni. Or quanlo più le cose posso no essere
variamente riguardate, tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di ogni
popolo di spaziarsi e mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per esempio,
esercita vastissimo impero, perchè quella abbraccia tutta la vita , nè ci ha
cosa che possa esser considerata sotto più diversi aspetti che la vita umana e
i suoi infiniti accidenti, da cui ogni letteratu ra direttamente sorge, facendo
ritratto dalle più intime qua lità di essa vita . Per contrario poi quanto meno
di realtà è negli obbietti che cadono sotto la considerazione e l’opera dello
spirito, e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si viene a
restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi, appena se
ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali,
occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle
qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma
altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di
cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire
alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo , dell'uomo e
delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità
italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gl’Italiani e per i
Tedeschi d'intendere i medesimi veri, di considerar gli stessi fatti generali,
sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra.
Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese
o tedesca , dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale,
dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a’faiti ed è
quindi più sperimentale o empirica; differenze che trovandosi nell'indole della
scienza, mostrano che ci abbia da esserne un'altra corrispondente nell'indole
delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na zionalità
della filosofia, sendo però necessario di far due os servazioni su tal
proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un intero isolamento
scientifico, ovvero credere che ogni idea straniera possa esser contagiosa e
opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na zionale. La verità
non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la terra, nè è
proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il genere
umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob bligati di
riconoscerla per tale, ove che la sia , e di abbrac ciarla e farle plauso e
festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte e sicuro
di sè medesimo, le darà a sua insaputa quell' atteggiamento particolare, e
quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo dell'indole di uno o di
un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni consiglio su tal proposito
dee tornare quasi inu tile, e che quindi debba riescir vano il raccomandare ad
un popolo di custodir la sua nazionalità nella filosofia. Basta es sere
veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori arsene per avere untipo
da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non avvedendosene, in tutte le parti
della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se un paese è debole e corrotto, se
già ha perduto la sua indole nativa, i consigli de'dotti saran vani, perchè
avendo quelloperduto la suaoriginalità nelle al tre cose, non gli sarà
possibile dicustodirla nella filosofia più presto che nella letteratura , nella
politica e nelle arti. Del resto ho voluto dir queste cose più presto a
proposito di ROVERE che contro di lui perchè nè l'uno nèl' altro de' due
rimproveri gli si può fare. Quanto poi all'idea d' incomin ciar la scienza ove
l'hanno lasciata i nostri maggiori, certo GL’ITALIANI d'oggidi avrebbero ben
torto di dimenticare i no bilissimi lavori de'loro padri e le dottrine onde
hanno splen didamente arricchito la scienza , ma è da vedere se per far questo
si convenga rinunziare a tutto quello che lo spirito umano ha scoperto in
processo di tempo, perchè non è ve rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi
lavori per tre se coli e più. Credo che non sia questa strettamente l'opinione
del nostro autore, ma domando se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua.
Eccomi finalmente arrivato a quello de' filosofi italiani no stri contemporanei
che è giunto ad ottenere una fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io
parlo di GIOBERTI, il cui nome da qualche anno risuona univer salmente dall'
uno all'altro estremo della penisola. Quindi è che ciascuno si è creduto in
diritto di dar la sua opinione e il giudicarlo a sua posta , onde egli si è
trovato esposto a’più contraddittorii giudizii , alla più inetta critica , alle
noiose esagerazioni del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida
ammirazione. Quanto a me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si
lasci volenlieri ac cecare all'odio e all' amor di parte, a' nuovi ed a' vecchi
pre giudizi, dirò franco il mio parere per un uomo di un merito grandissimo,
quantunque io credo che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben giudicare, e
che di lui meglio i posteri che i contemporanei potranno portar sentenza,
perciocchè intorno a molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i suoi nuovi
schiarimenti e la prova del tempo. Intanto per por tare in fin da ora un
giudizio più o meno esatto di quello che egli è, sarebbe mestieri di esaminare
sottilmente il suo yalore come scrittore, come filosofo e come politico. Io, se
condo il mio istiluto, non posso toccare che pe' generali della due prime parti
e quasi niente della terza . Come filosofo, GIOBERTI appartiene senza fallo
alla no bilissima schiera de’ BOTTA, de’LEOPARDI e degli altri che in questi
ultimi tempi han cercato, ritirando la lingua italiana a'suoi principii, di
renderle l'antico splendore, la forza, l'e leganza e la vivacità che ammiriamo
ne'nostri grandi scrit tori de'secoli passati, e che le aveano negato la
fiacchezza degli animi e i pregiudizi comuni del secolo XVIII e de’pri mi anni
di quello in cui noi viviamo, e che ancora regnano appo la maggior parte de’filosofi
di cui innanzi è discorso, la cui lingua, e più ancora lo stile, si penerebbe a
crederlo italiano, e si direbbe compassionevole, se la pretensione non non lo
rendesse più tosto ridicolo. COSTA può dirsi il primo che in questi ultimi
tempi tratta di filosofia con correzione di lingua ed eleganza di stile, ma
oltre a questi pregi, non si può dire che abbia nessuna di quelle doti che co
stituiscono il grande filosofo. La medesima cosa può affer marsi di ROVERE la
cui lingua è pura, lo stile esalto ed elegante. M invano si cercherebbe altro
nella sua prosa. SERBATTI, senza aver nè l'uno nè l'altro di questi pregi, è di
una tale abbondanza, che e'si potrebbe comodamente ridar re alla metà i volumi
delle sue opere senza chiedergli il sa grifizio pur d'una idea. Tull'altra cosa
è di GIOBERTI nelle cui pagine si trova ben altro che purezza ed eleganza sola
mente; qui è ricchezza smisurata, nobiltà e vera eloquenza, tanto che si
potrebbe citar de'passi da valer come modello da imitare. Conservando il tipo
originale e l'antica grandezza della nostra lingua, e’la tratta pur tultavia
come la lingua d'un popolo che è ancor vivo, che ancora ha uno splendido posto
nel mondo, e che forse a nuove e più luminose sorti è destinato da Dio. Chè
nella nostra penisola accanto a quelli che nel fatto della lingua si lasciano
andare ad ogni maniera di novità, ci ha degli altri che per paura di
corromperne la natia purezza, non si vorrebbero allontanare da' limiti del
trecento, e si spaventano d'ogni innovazione, come se fosse morta la lingua
parlata da ventiquattro milioni d'uomini. Niuno di questi rimproveri non può
farsi a GIOBERTI, a cui niente manca per esser giustamente allogato tra i
filosofi di prim'ordine. Pure non saprei negare che, sia effetto del l'ardente
immaginativa, sia naturale impazienza e difficoltà di contenersi , si abbandona
talora un po’troppo alla sua ine sauribile abbondanza, sì che si sarebbe
inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi aleun poeo declamatorio. Non
su che spirito di sofisma viene talora segretamente a turbarne l' ordinaria
chiaroveggenza, per modo che per volere aver troppo compiuta vittoria de' suoi
avversarii e spingerne le opinioni alle più lontane e assurde conseguenze,
scaglia con tro di essi ogni maniera di opposizioni e di ragioni e di ar
gomenti, della cui perfetta convenienza si potrebbe talora dubitare. Ma questo
non giunge ad oscurare per niente gli altri pregi grandissimi che sono in lui.
Dalle cose che abbiamo così brevemente discorse intorno alla presenle filosofia
italiana, si può vedere come i nostri filosofi, attenendosi strettamente solo
alle questioni psicologi che, ovvero non osando che modestamente occuparsi di
quelle di altra natura, si son tenuti lungi da' più alti problemi ontologici
sull'origine, l'essenza e le leggi della realtà , quistioni in cui risiede
tutta la grandezza e l'importanza della filosofia e che l'hanno sollevata a un
sì alto posto nel l'antichità e nel medio evo. In questi ultimi tempi i
Tedeschi sono stati i primi ad avvedersi che la scienza si era messa per vie
troppo ristrette , e che per renderle il suo antico valore bisognava senza più
ricondurla sul terreno che altra volta avea occupato , da cui le modeste pre
tensioni della psicologia l'aveano scacciata, e in cui solo potea incontrarsi
con quelle quistioni che più potentemente importano al genere umano, e
riacquistar così la vita e l'importanza primiera. Quest' obbligo la scienza
deve indubitata mente a’moderni Tedeschi, quali che siano state le conse guenze
a cui sono giunti. GIOBERTI ha tenuto il medesimo cammino, ma con mezzi
alquanto diversi , ed è venuto a conchiusioni di ben altra natura. Anch'egli
vuol giungere ad una scienza più compiuta che esca dalle aridità psicolo giche,
e che, piena del senso della realtà e della vita, cerchi di pervenire alla
causa prima e reale d'ogni causa e d'ogni fenomeno, riproducendo nell' ordine
ideale della scienza l'ordine reale della generazione. Movendo dalla teologia
cristiana, egli si è sforzato di ricondurre la scienza all' ontolo gia, in modo
da conservarla d'accordo con la religione, e in vece di adoperar come i
Tedeschi che fanno entrar la reli gione nella filosofia e vogliono col mezzo di
questa spiegar la, egli, per opposto cammino, seguendo i più antichisistemi
ortodossi, ha voluto sottomettere la filosofia alla religione, in guisa che
fosse questa obbligata a riconoscer da quella ogni suo valore . Il suo punto di
partenza è una formola sin letica, la quale, benchè d'accordo col Cristianesimo
, anzi, appunto perchè è di accordo con esso, spiega l'uomo e l'universo e le
loro relazioni con Dio, onde poi discendę ogni ordine d'idee e di fatti, il
pensiero e la natura, le società e le civili istituzioni, la scienza a l'arte.
Io non mi fermerò su’varii punti del sistema, nè sulle varic applicazioni che
egli va facendo del suo principio, nelle quali dimostra una potenza di mente
mirabile e delle conoscenze non punto ordi narie, ma non posso tacere che
soventi volte, siccome è moda oggidì, si lascia strascinar troppo all'amore del
sistema, e a certa smania di costruzioni a priori, le quali son certamente del
dominio della scienza , ma che oggi si sogliono condurre fino all'esagerazione.
Per questo rispello gli antichi mi pa iono ben superiori a 'moderni, perchè
Platone ed Aristotile si occupano anch'essi di costruire l'universo a priori e
per mezzo delle idee , ma sanno bene fermarsi alle generalità senza discendere
a taluni troppo minuti particolari , i quali sfuggono alla scienza e non si
possono senza esagerazioni far discendere comodamente da' principii generali. E
chi sa se nell'universo , come nell'uomo, non ci ha un punto in cui l'impero
assoluto della legge ha termine, e quello dell' arbitrio , del capriccio e
dell'accidente incomincia? Certo è giusto di volere co' principii razionali
spiegar le leggi e le generalità delle cose, ma è strano il pretendere di
spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la cagione necessaria e razio nale
d'ogni avvenimento, d'ogni legge, d'ogni fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni
onda che la forza de'venti scaglia contro le rive, d'ogni foglia che la brezza
dell'autunno fa. cadere dal ramo; allora si potrebbe ripetere il detto di
Napoleone, che un brieve limite separa dal sublime il ridicolo. Vediamo ora
qual sia la formola suprema e creatrice del sistema di GIOBERTI. Ogni
filosofia, egli dice, la quale muova dalla nozione semplice e astratta
dell'essere, dee necessaria mente smarrire la diritta via. Siffatla nozione,
come quella che si può applicare al Creatore e alle creature, senza alcuna
diversità, e che però nulla può produrre, conduce all'ipotesi d'una sostanza
unica, cioè al panteismo. Ora la teorica del panteismo è falsa perchè non
risponde a tutte le esigenze della scienza, nelle applicazioni non trovasi
d'accordo con la vera natura delle cose, distrugge la morale, ed è contraria al
cristianesimo che è la veritàperfetta ela parola stessa di Dio. Però è mestieri
trovar modo di escire di questa peri colosa ipotesi, la quale ha potuto soventi
volte sedurre le più belle intelligenze e i più profondi spiriti. Ove la causa
che conduce al panteismo eziandio quelli che meno vi vorrebbe ro pervenire, chi
ben guardi la troverà nel punto stesso onde muovono, giacchè la nozione
dell'essere in astratto non può menare alla realtà. Per la qual cosa a fio di
cansar l'errore , è d'uopo aggiungere all'idea dell'essere qualche altra
nozione che sia nello stesso tempo primitiva e sottopo sta all'altra. Se non
fosse primitiva rispetto al nostro spirito, non potremmo acquistarla
altrimenti, essendo la nozione dell' essere di sua natura improduttiva; d'altra
parte se non fosse sottoposta ad essa nozione dell'essere e quasi da essa
ingenerata, e' si cadrebbe io un dualismo assoluto non meno assurdo dello
stesso panteismo. Ma fortunatamente è facil cosa trarre l'essere dal suo stato
astratto, considerandolo siccome concreto e creatore , perchè l' essere così
conside rato rinchiude in sè l'idea di un effetto, cioè di un'esistenza che non
fa parte della natura di quello , ma che essendo un libero prodotto della sua
volontà, è legato con esso lui mercè il vincolo della creazione . Per tal modo
e ' si avrebbe un sol principio da cui partirebbe lo spirito, cioè l'idea dell'
essere puro e necessario che crea l'esistenza contingente, e questa verità-principio
produrrebbe un principio-fatto, cioè la realtà dell'esistenza. Così l'autore
invece di partire dalla nozione astratta dell'essere, è partito da quella
dell'essere che per mezzo della creazione produce altre esistenze a lui sottopo
ste, ed ha espresso il suo principio supremo con la formola: l'essere crea
l'esistenza; e con questo mezzo ha evitato ilpan teismo, ponendo il concetto
della creazione come il lega me fra l'essere assoluto e l'esistenze
contingenti. Pur tutta via questo mezzo non è paruto a tutti soddisfacente; già
non è mancato chi ha detto che il suo sistema era la teorica dello Schelling
battezzata e fatta cristiana, ed altri altre difficoltà hanno arrecato in
mezzo. Cone è egli possibile di costruire a priori una filosofia mercè diun
principio il quale contie ne in sè un dato essenzialmente contingente e di
fatto, quale è quello della creazione ? Se si considera l'idea della creazione
legata di necessità con quella dell'essere, e allora si cade senza più nel
pantei smo, o almeno nella sentenza assai vicina a quello della ne cessità
della creazione; se poi si considera essa creazione come un fatto empirico e
contingente, è impossibile allora di farla discendere dal concetto dell'essere,
e dedurla da esso; anzi, essendo essa libera e volontaria, il principio si
dovrebbe esprimere altrimenti, dicendosi piuttosto: l'essere vuol creare
l'esistenza ; nel qual caso potrebbe domandarsi : chi v'insegna questa volontà
dell'essere? domanda a cui è difficile di soddisfare senza cadere in Cariddi
per evitare Scilla. Conciossiacchè se si risponde che l'insegna il fatto, la
formola a priori è distrutta, e si cade in uo circolo vizio so , col quale si
verrebbe a dire che l' essere ha voluto crear l'esistenza, perchè esiste, e che
l'esistenza esiste, perchè l'essere ha voluto crearla . Se poi, mutando strada,
si rispon de che non già il fatto ma la nozione stessa dell' essere rin chiude
il concetto della creazione, e allora si giunge diritto, come inpanzi dicevamo,
alla necessità di essa creazione. Non insisterò più a lungo su questa discussione,
che, come tutte le altre , ho voluto toccar solo di passaggio, ma osser verò
invece alcuna cosa sull'indole generale della dottrina di GIOBERTI. Nati in un
tempo che è succeduto ad un altro di strani rivolgimenti ed inuditi rumori, e
che ancora è in certo di sè medesimo e più incerto del suo avvenire , noi
possiam dire di assistere al contrasto di due opinioni , le quali si disputano
ostinatamente l'impero dell'intelligenza. L'una, che è la meno seguitata, è
essenzialmente conserva trice, e non crede nè al presente nè all'avvenire, ma
sogna caldamente il passato, i secoli scorsi e quasi il secol d'oro della
favola. L'altra, che domina appresso l'universale, non ha fede che nel presente
e nell' avvenire, dispregia e deride tullo quello che non è nato pur ieri, e
ciecamente crede al progresso infinito delle umane generazioni, al cammino
dello spirito sempre trionfanle e vittorioso. GIOBERTI non può essere accusalo
nè dell'una nè dell'altra estrema opinione, e il suo modo di vedere e giudicar
le cose può dirsi essenzial mente conciliatore dell'antico e del moderno. Non
egli du bita che lo spirito umano cammini , ma non crede che lutto quello ci ha
di bene sulla terra sia nato ieri; nè dubita che lo spirito progredisca, ma non
crede che ogni suo mo vimento sia un progresso; in somma il passato non è per
lui unicamente l'antecedente cronologico del presente, o un ca davere senza
vita e senza importanza, anzi egli vuole che se ne faccia altamente conto come
di cosa che contiene in sè i germi del nostro essere presente, e che non venga
punto messo in dimenticanza nelle nuove combinazioni si della scienza e sì
della vita pratica. Nè punto diverso da questo è il principio delle sue
opinioni politiche, nelle quali ammira il passato ma non lo crede bastevole a
corrispondere a tutte le esigenze del presente , ammira il medio evo in tutto
quello che ha di grande, di nobile e digeneroso ma pon vuole per questo la
ricostruzione del castello feudale; vuol bene che la politica italiana sia
degna del nostro secolo ma non chiama ugualmente degne del secolo tutte le
utopie . Questi sono i filosofi italiani degni di essere ricordati da chi
voglia tessere un quadro dello stato in che trovasi oggi la scienza fra noi .
Il quale , come si può vedere, se non è da esserne troppo superbi, non è neppur
tale da doyercene ver gognare, perchè accanto a nomi mediocri o poco maggiori
della mediocrità, se ne trova pure altri , come quello di SERBATTI e GIOBERTI,
degni di fare onore a qualunque tempo e a qualunque paese. Un'osservazione però
sorge natural mente da tutto quello che finora abbiamo discorso, cioè che se ci
ha de sistemi e de’ FILOSOFI ITALIANI, non ci ha però una filosofia o una
scuola italiana da mostrar le dottrine domi nanti universalmente, poichè
dottrine comuni veramente non ce ne ha, ma ciascuno ha le sue proprie , e
nessuno giunge a diffonderle in modo da formare una scuola forte ed upita da
contrapporre ad un'altra .La medesima cosa mi ricorda d'aver fatto osservare a
pro posito del teatro , ove dicevo che ci ha bene de' drammi e dei drammaturgi
in Italia , ma non un dramma italiano , da po terne indicare l'indole generale.
Sarebbe lungo cercar le ra gioni di questo fatto , ma quanto a' sistemi
filosofici, non può nascondersi che ciha un punto essenzialissimo in cui tutti o
almeno i più importanti si accordano , e questo è l' essere ugualmente
ortodossi e cattolici. I nostri antichi non erano generalmente così solleciti
di trovarsi d'accordo con la reli gione , e spesso con le prigioni, con
l'esilio e co' roghipa garono la pena del loro ardimento . Oggi in mezzo alla
co mune eterodossia delle scuole moderne, e soprattutto delle tedesche , i
filosofi italiani si studiano di mantener collegate amorevolmente la fede e il
pensiero, la religione e la scien za , e compensano con la propria ortodossia
gli errori de'loro predecessori , i quali signoreggiano oltremonti e trovano
nuovi seguaci e arditi rinnovellatori massimamente nelle scuole di Germania .
Certamente sarebbe cosa assurda il negare che la filosofia tedesca in questi ultimi
anni abbia renduti straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare de'passi
che mai non saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que' sistemi
sono altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde
applicazioni a tutti i diversi ramidel sapere e della vita , ma accettarli
interamente come veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto
per poi Italiani la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per
sofferire qualunque maniera d'imitazione , senza che tosto ritorni in
caricatura, ed al cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà
e di vita , mal si convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de'
Tedeschi, e la col trice di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di
avvilupparsi. Oltre a ciò si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la
filosofia tedesca , quando dopo tante pro messe e sì grandi rumori , si è
mostrata inetta a fermar niente d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno
, tace profondamente , e quasi non ha un'idea o una parola comuni per farsi
intendere, e le scuole deboli e divise internamente o più non vivono o vivono
di una vita che molto si rasso miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha
ragione tut tavia di lagnarsi della loro impotenza e della vanità degli sforzi
per esse fatti. Prima di conchiudere sentomi spinto come di viva forza a
ricordare un nome, che pochi forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma
che io non voglio tacere , solamen te perchè colui che il portava ora più non vive
, e perchè al tra meno sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren
dere. Io non so se le poche pagine scritte da CUSANI giungeranno a'posteri, e
molto più dubito delle mie , ma de sidero che i contemporanei sotto i cui occhi
potrà cadere questo scritto , sappiapo che fra’giovani che ora fra noi si oc
cupano di filosofia nessuno forse fu fornito più di lui di mente veramente
filosofica, la quale con più sodi studii e con la malurità degli anni avrebbe
forse , anzi senza forse , dato frutti degni di vera gloria . Nè vorrei che di
lui si giudicasse da quello che finora avea stampalo , perchè chi il conobbe
può far giudizio sicuro di quello che un giorno avrebbe potuto fare se gli
fosse bastata la vita. Non so altri che faccia bene e splendidamente sperare di
sè , ma non dubito che fra tanti dovrà sorgere alcuno degno degli antichi e de'
nuovi nomi , perchè giovami di credere, e i fatti mi confermano nella mia
opinione, che la sacra fiaccola della scienza non sia , non che spenta,
affievolita nella patria del Vico , del Campanella e di Giordano Bruno. Grice: “Gatti is a difficult one to catalogue – not at Oxford! He is a
man of letters and action, by man of letters we mean Lit. Hum. And Gatti, being
the snob he was, would rather be seen dead than referred to as merely a
‘philosoopher’ – He edited the Museo di FILOSOFIA e letterature – and his
passion (if he had one) was Vico – and more, to criticse oters. He would not
speak of ‘italian philosophy,’ but of ‘philosophy in Italia’! – He wrote on
Rovere, and other philosophers – but he was always ready to grade them:
“Genovesi, infinitely inferior to Vico” – Incredibly that this philosopher is
talking the same lingo as Machiavelli or Dante!” – His exegesis of Vico is good
– he refers to the Bruno, Campanella and Telesio as the celebrated triunvirato,
and there are references to some obscure philosophers in his prose – about
which he writes little to enthusiase his reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords:
poetica, Vico, Filosofia Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane –
il vico di Gatti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Gaudenzio: la ragione conversazionale e il filosofo musicista – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He writes an important work on the theory of music
that survives in parts. Grice: “And then I played the piano!” – Gaudenzio.
Grice
e Gaudenzio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo
italiano. The philosophical interest of his essays lies in his discussion of
natural law, for which he borrows from the Porch. He argues that through the
use of reason anyone can come to a knowledge of his moral obligations.
Grice
e Gauro: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. He appears to have been a pupil of
Porfirio, who may have dedicated one of his essays to him.
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