Grice e Gracco: la
ragione conversazionale e il concetto di stato -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A Roman statesman and reformer, a
friend of Blossio di Cuma. He may have followed the Porch himself. He was
killed by a mob. He was influenced by Blossio di Cuma. Tiberio
Sempronio Gracco.
Grice e Gramsci: la ragione conversazionale contro
Croce – partito socialista italiano – il comune – l’élite – Mosca -- filosofia
italiana – filosofia sardegna -- Luigi Speranza (Ales). Filosofo italiano. Filosofo sardo. Ales, Oristano, Sardegna. Grice:
“Some Italians don’t consider Gramsci Italian on account of the fact that
Gramsci is not an Italian last name!” Fu
tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone esponente di primo
piano e segretario, ma venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi.
In seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la
libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni
di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei
suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista,
analizza la struttura culturale e politica di Italia. Elaborò in particolare il
concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri
valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di
saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le
classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli antenati paterni derano
originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in
Italia durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti
d'archivio attestano che nel Settecento il trisavolo G., sposato con Blajotta,
possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del distretto di Castrovillari,
delle terre poi ereditate da G.. Questi sposa Fabbricatore, e dal loro
matrimonio nacque a Plataci G., che intraprese la carriera militare nella
gendarmeria del Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposa
Gonzales, figlia di un avvocato napoletano. Il loro secondo figlio fu
Francesco, il padre di G. Le origini albanesi sono conosciute dallo
stesso G., che tuttavia le immagina più recenti, come scrive alla cognata
Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di
origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra, ma si
italianizza rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente
questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due
mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi è
albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza: casa museo Antonio
Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il padre; dovendo trovare
subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del
registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti,
conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune
terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari, rimasti in Campania, che
consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria dal punto
di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino alla terza
elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che Francesco G. fu
trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. Gramsci nasce secondo il
registro delle nascite dello stato civile del comune e registrato con i nomi di
Antonio, Francesco. Scondo il registro dei battesimi della parrocchia di San
Pietro nasce il giorno dopo, e viene
registrato con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Il padre fu
trasferito, come gerente dell'Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero
gli altri figli, Mario, Teresina, e Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott,
una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli
impedì una normale crescita: adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza;
i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e
anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute
delicate. Soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai
medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura.
Il padre Francesco fu arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità
in atti, e venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve
valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del
sostegno dello stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema
miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a
pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo
camicie. Proprio per le sue delicate condizioni di salute Gramsci comincia
a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il
massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al
ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo
all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di
Ghilarza per 9 lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo
«registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi
doleva tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre
mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in
un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in
conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del
catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli
abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel
Ginnasio cdi Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti
professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque
classi». Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì tuttavia a
prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo classico
Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via
Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme
con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio di leva a Torino,
lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo
sardo. La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si fece sentire,
perché inizialmente G. nelle diverse materie ottenne appena la sufficienza, ma
riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare erano i suoi
impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto perché avrebbe
potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché l'unico vestito
che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a frequentare né gli amici,
né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato interesse per le discipline
umanistiche e per lo studio della storia, anche perché il cattivo insegnamento
ricevuto in matematica gli fece perdere l'interesse per la materia. Nel
frattempo, il giovane G., iniziò a seguire le vicende politiche. Il fratello
Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, divenne cassiere
della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari: «Una
grande quantità di materiale propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva
a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche
un'uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei
giornali». Leggeva anche i romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Barrili
e quelli di Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando
folkloristica la visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva
Il Marzocco e La Voce di Prezzolini,
Papini, Cecchi «ma in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di
ritagliare gli articoli e di custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e
Salvemini». Alla fine della seconda classe liceale, alla cattedra di
lettere italiane del Liceo salì Garzia, radicale e anticlericale, direttore de
L'Unione Sarda, quotidiano legato alle istanze sarde, rappresentate, in
Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in una dura opposizione al ministero
di Luzzatti. G. instaurò con Garzia un buon rapporto, che andava oltre il
naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del giornale,
ricevette la tessera di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie
di pubblico interesse. Ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo
scritto pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel
paese di Aidomaggiore. In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è
conservato, Gramsci scriveva, tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il
commercio, non per la civiltà la Rivoluzione francese ha abbattuto molti
privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una
classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i
privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della
natura, possono essere sorpassate». La sua concezione socialista, qui
chiaramente espressa, va unita, in questo periodo, all'adesione
all'indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva, insieme con la denuncia
delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle disuguaglianze sociali,
l'ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra le quali venivano
compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli stessi
operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori
salariati. Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà operaia di una
grande città del Nord: il conseguimento
della licenza liceale con una buona votazione tutti otto e un nove in
italianogli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università. Il
Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli
studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo 39 borse di studio, ciascuna
equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare Torino. Fu uno
dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a
Torino. «Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo
55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100
avute da casa». Conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo
posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. Si
iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano
nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve
pagare venticinque lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora
Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce,
della pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i
pasti«non meno di due lire alla più modesta trattoria»e la legna e il carbone
per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo
non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i
piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima
gelata». Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte
sua, non se la passava di certo molto meglio. L'Università degli Studi di
Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Einaudi, Ruffini,
Manzini, Toesca, Loria, Solari e poi Bartoli, che si legò di amicizia con
Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana Cosmo, contro il quale indirizzò però un
articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in
carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo del Cosmo un ricordo
pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia tuttora di una grande
sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che
è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando anche che, con questi e con
molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado
divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in
tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in
Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno
può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro
si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla
cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani. Si
ritrovò a casa per le elezioni politiche, dopo la fine della guerra italo-turca
contro l'Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima
volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse
delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base
elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le
forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico
da battere. In quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti"
si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. G. scrive di
quest'esperienza elettorale al compagno di studi Tasca, dirigente socialista
torinese, il quale affermò che G. «era stato molto colpito dalla trasformazione
prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle
elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro
della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece
definitivamente di Gramsci un socialista». Tornò a Torino, andando ad affittare
una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento
nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito
socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il rischio di perdere il
contributo della borsa di studio, a causa di «una forma di anemia cerebrale che
mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per
ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul
letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo».
Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli
esami nella sessione di primavera. Prese anche lezioni di filosofia da Pastore,
il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già
mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi voleva rendersi
conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione come fa
il pensare a far agire come le idee diventano forze pratiche». G. stesso
scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di
pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del
secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da
villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il
superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo come il
Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che aveva le sue profonde radici
nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». L'iscrizione
al partito gli permise di superare in parte un lungo periodo di solitudine: ora
frequentava i giovani compagni di partito, fra i quali erano Tasca, Togliatti,
Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni di partito mentre gli ultimi
nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo le nostre discussioni,
intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel
regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che ha dichiarato la propria
neutralità nella Prima guerra mondiale in corsoneutralità affermata anche dal
Partito socialistascrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese
Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità attiva e operante in risposta a
quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di Mussolini Dalla neutralità
assoluta alla neutralità attiva e operante, senza però poter comprendere quale
svolta politica stesse preparando l'allora importante e popolare esponente
socialista. Sostenne quello che
sarà, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università; il suo
impegno politico si fece crescente con l'entrata in guerra dell'Italia e con il
suo ingresso nella redazione torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte
delle sue giornate all'ultimo piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa
Torinese al numero 12 di corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre
stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le
redazioni de Il Grido del Popolo e del foglio piemontese dell'Avanti!, che
comprendeva la rubrica della cronaca torinese, Sotto la Mole; in entrambi i
giornali Gramsci pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed
estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica
politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica
teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in dieci anni di giornalismo «tante
righe da poter costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine, ma
esse erano scritte alla giornata e dovevano morire dopo la giornata» e di aver
contribuito «molto prima di Tilgher» a rendere popolare il teatro di
Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da mettere insieme un volumetto di
duecento pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: Pirandello
era o sopportato amabilmente o apertamente deriso». Della commedia di
Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse che «è tutto uno sfogo di virtuosismo,
di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono su un solo
binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di
approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che in
una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la
caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia,
più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che osserva la vita con
l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio simpatico dell'uomo artista
e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale più che
visione sincera e spontanea», mentre considerò Liolà «il prodotto migliore dell'energia letteraria
di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue
abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso troppo
spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude
retorica di una moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità
inutile». Il fu Mattia Pascal, secondo G., è una sorta di prima stesura
del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica della vita, si è rinnovato
diventando una pura rappresentazione, «una farsa che si riattacca ai drammi
satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte
figurativa vascolare è una vita ingenua,
rudemente sincera una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale
la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità
irresistibile prorompe da tutta la materia organica». Severo fu invece il
giudizio sul Così è (se vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in
sé non esista, Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a
rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un
significato fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice
fatto di letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una
verità né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha
accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita,
l'intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come
pedine della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da
solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui
mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti
riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua
formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce,
superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto
di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e
io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente
rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee,
che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato
governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di
rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa
del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani
«borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di
democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese,
mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed
essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista i rivoluzionari socialisti non possono essere
giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che
gli organismi borghesi non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in
Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della
consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. G. è convinto
che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni
bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il
socialismo». G. nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni
obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi
«sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il
pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte
le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua
realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e
integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito
dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre. Anche in Italia
la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di
mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la
stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a
Torino sfociarono in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal
governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di
guerra con la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a catena
che colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente, anche
gli elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della
sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In
conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista
torinese venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale fece parte
anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del Popolo che cesserà
le pubblicazioni. I bolscevichi avevano preso il potere in Russia ma per
settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate,
finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La
rivoluzione contro il Capitale, firmato da G.: «La rivoluzione dei bolscevichi
è materiata di ideologia più che di fatti essa è la rivoluzione contro il
Capitale di Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi,
più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che
in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si
instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse
neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua
rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare
gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto
svolgersi secondo i canoni del materialismo storico se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni
del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non
sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una
dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il
pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del
pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di
incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In realtà Marx, almeno negli
ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse giungere al
socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare
tanto la visione di G. ancora idealistica, volontaristica, dell'azione
politica, quanto la critica che di fatto G. rivolgeva ai dirigenti socialisti
europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico in modo
meccanicistico. Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti
torinesi del partito, G. lavora unicamente all'edizione piemontese
dell'Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni
giovani colleghi: Amoretti, Leonetti, Montagnana, Platone; ma egli e altri
giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano
ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove
nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione
nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre
riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura
proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un
orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando
pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo numero
dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della
rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu
l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi
concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale
letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per
"cultura" intendeva "ricordare", non intendeva
"pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose
logore, la paccottiglia del pensiero operaio fu una rassegna di cultura
astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline
orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei
suoi primi numeri». G. intende invece definirlo su posizioni nettamente
operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle
fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica,
sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale;
il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7
della rassegna il problema dello sviluppo della commissione interna divenne
problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come
problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della
"libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci
seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono
l'Ordine nuovo perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se
stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli
dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore:
"Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?".
Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture
intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori,
elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle
Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano
elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano
essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto
degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma
porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della
gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel s, alla FIAT
furono eletti i primi Consigli. La Confindustria, nella sua Conferenza
nazionale, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro
attinga in se stessa il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e
illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De
Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere
all'arma della serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le continue
esorbitanti pretese degli operai». Così quando in occasione di una controversia
sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne
furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione
degli industriali metalmeccanici rispose con la serrata di tutte le fabbriche
torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino e in alcune province piemontesi, mentre il
governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli
ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei
maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai
furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla. Lo
sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in
cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla
costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i
lavoratori torinesi; l'8 maggio G. pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua
relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza
e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione
dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che
desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa
nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari
terrieri, appoggiati dallo Stato, G. rilevava che «le forze operaie e contadine
mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli
organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere
assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e
internazionale attraversa nell'attuale periodo il Partito socialista assiste da
spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere
non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo
generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria il Partito socialista
è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare,
che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese».
Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di omogeneità nella
composizione del partito, in cui continuavano a essere presenti riformisti e
«opportunisti», contrari agli indirizzi della III Internazionale. Non solo:
«mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non ha avuto una espressione
del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel
giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e
hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro
posizioni parlamentari e sindacali se il Partito non realizza l'unità e la
simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo
burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente
tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze anarchiche ».
Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di educazione e di spiegazione
di quanto sta avvenendo nella scena internazionale, dalla quale esso è assente,
non partecipando nemmeno alle riunioni dell'Internazionale comunista, le cui
tesi non sono riportate nell'Avanti!. Analogamente, le edizioni socialiste non
stampano le pubblicazioni comuniste: «valga per tutte il volume di Lenin Stato
e rivoluzione». Occorre pertanto, secondo Gramsci, che il Partito socialista
acquisti «una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo
borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta
per l'avvenire della società comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere
eliminati dal Partito ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e
internazionale deve essere immediatamente commentata per trarne argomenti di
propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie le sezioni
devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative,
nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti l'esistenza di un Partito
comunista coeso e fortemente disciplinato [.è la condizione fondamentale e
indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet il Partito deve
lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico
sia posta in modo esplicito ». La risoluzione dell'Internazionale comunista che
chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa
dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e
dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso
dell'Internazionale, alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di
Bologna, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta
politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra. In Italia, le
rivendicazioni salariali, rese necessarie dall'elevato indice d'inflazione, non
trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a
seguito della serrata dell'Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli
operai: la FIOM appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le
fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale, estrema
iniziativa provocasse l'intervento del governo a favore di una soluzione delle
trattative. All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano
occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo
rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di
Agnelli prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di
fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande
fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario. Giolitti
Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della
Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide
riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi
ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito,
che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la
proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del
paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un
accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla
fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche. Quell'esperienza
dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto l'impreparazione
degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali occorrevano
organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII Congresso del
Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del Partito comunista
crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera nostra: liberati
dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili,
liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare
contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di
dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro
fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro
positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di
organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà». NSi riunì
a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e
Bordiga, Repossi, Fortichiari, G., Bombacci,
Misiano e Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione
comunista del Partito Socialista. La fondazione del Partito
comunista Il congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel Teatro
San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione
italiana dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli
astensionisti (Bordiga, Grieco, Parodi, Sessa, Tarsia e Fortichiari), dagli
ex-massimalisti (Bombacci, Belloni, Gennari, Misiano, Marabini, Repossi e
Polano) e dagli ordinovisti G. e Terracini. Diresse l'Ordine nuovo,
divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste
e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto
deputato alle elezioni: G. non ha capacità oratorie, è ancora giovane e anche
la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti
elettori. Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare
il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già
malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di
Mosca. Qui conobbe una degente russa, Schucht, membro del Partito, figlia di
Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico personale di Lenin, che aveva
vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Julka che, violinista, aveva abitato diversi anni a
Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia. Giulia, ventiseienne, è
bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il
primo giorno che non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al
giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada
attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare
tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo
grande e terribile ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi
hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso
cattivo e torbido. E quell'immagine di
lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di
distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco
d'argento ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto
a lungo a vederti allontanare così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi
brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così
pittoresca». Si sposano e avranno due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di
quest'ultimo porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica
medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. La
moglie di G e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto inteso a
salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a
qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, Gramsci
guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le
contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che potevano
rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di
Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è
allora tra i maggiori rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926
ribadisce che l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la
dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si
riscontrano critiche al regime sovietico. Nel III Congresso
dell'Internazionale comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria
rappresentata dalle sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria,
si decise la tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la
maggioranza dei dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di
Roma, base programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma. G. vi
adere ma scrive di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano
presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale
comunista] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così
unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse
fare ad Amadeo questa concessione senza nuove crisi e nuove minacce di
scissione nel seno del nostro movimento». Nel IV Congresso dell'Internazionale,
di fronte all'avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu
posta con ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista
degli internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di
costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario
a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia e, a
Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo Esecutivo: G. resta
così il massimo dirigente del Partito e si trasferì a Vienna per seguire più da
vicino la situazione italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere
con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino
all'assurdo ci obbliga a prospettarci il problema di costruire il partito ed il
centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di
principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la
polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad
ogni evenienza». Uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista
l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del quindicinale l'Ordine nuovo. Il
titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità
dell'«unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e
dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo
italiano nella lotta contro il fascismo. Alle elezioni venne eletto deputato al
parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto dall'immunità parlamentare.
Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei
dirigenti delle Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano
dipendenti di un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici
discorsi fascisti e inni a Mussolini, mentre, a parte, discutevano dei problemi
del partito. Nel convegno si affrontò il caso Bordiga, il quale aveva
rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza
dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze
politiche di sinistra. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre
correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di
Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della
grande maggioranza dei delegati, confermando la notevole importanza di cui il
rivoluzionario napoletano godeva nel Partito. Il 10 giugno un gruppo di
fascisti rapì e uccise il deputato socialista Matteotti; sembrò allora che il
fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei giorni
percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la linea
sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione
dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Monarchia, che non
venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi
ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. G. avanza al «Comitato dei
sedici»il nucleo dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare lo
sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal
«Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo G., non aveva alcuna
volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e
quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo Matteotti
Malgrado le divisioni dell'opposizione antifascista, G. crede che la caduta del
regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è
riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle
classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi
consiste nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del credito,
il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola
impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si
è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato
industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un
abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione
dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e
politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa
nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza
nella zona industriale. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella
ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio
dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni
un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel
Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si
ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la
maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le
opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette
la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un
normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del
dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento
della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare
alla storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che
nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché
l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in
cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i
fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una
delle tante viene aggredito anche Gobetti. E quando il militante comunista
Corvi uccide in un tram il DEPUTATO FASCISTA Casalini, per vendicare la morte
di Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose
vanamente che l'opposizione aventiniana si costituisca in Antiparlamento, in
modo da segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento
di soli fascisti; ipartì per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale
del partito e per rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre,
che non avrebbe più rivisto. Il deputato comunista Repossi rientrò in
Parlamento, dove sedevano solo i deputati fascisti e i loro alleati, per
commemorare Matteotti a nome di tutto il suo partito; vi rientrò anche tutto il
gruppo parlamentare comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana.
Il quotidiano di Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Rossi, già capo
ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è
successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la
complicità del duce» e MUSSOLINI, in un discorso rimasto famoso, a confermare
quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il
via a una nuova azione repressiva. In febbraio G. anda a Mosca, per stare
con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia tenne
il suo primoe unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex compagno di partito MUSSOLINI,
ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno prima come un capo che «è
divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e
ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel viso: conosciamo
quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro
ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato.
Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. MUSSOLINI è il tipo
concentrato del PICCOLO BORGHESE ITALIANO, rabbioso, feroce impasto di tutti i
detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli
stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il
dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica».
Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo aveva predisposto un
disegno di legge per disciplinare l'attività di associazioni, enti e istituti:
continuamente interrotto, G. respinse il pretesto che il governo si era dato,
«perché la Massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una
tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di
grandi organizzazioni operaie e contadine». E ironizzando: Qualche
fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri,
di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa
rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza
che essa abbia un partito e un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore
e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli
insegnamenti marxisti». Conclude: «Voi potete conquistare lo Stato,
potete modificare i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di
esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere
sulle condizioni obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete
che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin
oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire
al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le
forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido
sogno non riuscirà a realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il
III Congresso del Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori
responsabili, Bordiga, G., Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi
era anche Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era
stato a lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale,
Humbert-Droz. Gramsci presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con
Togliatti. Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia
nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e
proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della
maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale
omogenea e organizzata rispetto alla PICCOLA BORGHESIA URBANA e rurale, che ha
interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che
per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la
società.» Secondo G. il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga,
l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della
piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il
potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione
della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori
del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società
italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria,
una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due
forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del
Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito anda
bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una
"disciplina di ferro" negando al suo interno la possibilità
dell'esistenza delle frazioni. Il Congresso approvò le Tesi a grande
maggioranza (oltre il 90%) ed elesse il Comitato centrale con G segretario del
Partito. Da allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo
influente nel Partito. Le Tesi di Lione, realizzate da G., ribadirono con una
certa durezza le posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia ancora
la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la
sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata
non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della
borghesia e come tale deve essere smascherata». In questa relazione venne
sviluppata la cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti al partito russo
una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale
communista. La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni
momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal
Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di
ferro deve regnare nelle sue file. La centralizzazione e la compattezza del
partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali
assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo
profondamente dai partiti socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si
era trasferito in via Morgagni ebbe il tempo di passare alcuni mesi con la
famigliala moglie Giulia e il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e
Tatianache abitano tuttavia in un altro appartamento, in via Trapani: le
squadre fasciste, superato da tempo lo smarrimento provocato dal delitto
Matteotti, avevano piena libertà d'azione e non era prudente coinvolgere i
familiari in loro possibili aggressioni; a Firenze, era stato ucciso
l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa casa di G. era stata messa a
soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre gli esponenti dell'opposizione
antifascista prendevano la via dell'emigrazione Gobetti, che muore ia Parigi,
in conseguenza delle bastonate squadriste, Amendola, Salveminiun processo farsa
condanna a una pena simbolica gli assassini di Matteotti, difesi dal
capo-squadrista Roberto Farinacci. La moglie Giulia, che aspettava il
secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e il mese dopo fu la volta della
cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio Delio: Gramsci non l'avrebbe
più rivisto. Giustino Fortunato Elaborando temi già affrontati
nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò a scrivere un saggio sulla
questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla quistione meridionale, in
cui analizzò il periodo dello sviluppo politico italiano dai moti dei contadini
siciliani, seguito dall'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo
Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da
Giolitti, di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali
e degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che
avrebbe dovuto comportare una politica di libero scambio e di bassi prezzi
industriali, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la
conseguente scelta del protezionismo doganale, unita a concessione di libertà
sindacali. Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia,
manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un
accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora di perseguire
una politica di opposizione che rompa l'alleanza borghesia-contadini, facendo
convergere questi ultimi in un'alleanza con la classe operaia. La società
meridionale, secondo G., è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e
contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che
non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di
vivere in città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il
lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini
poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a
loro volta contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con
personalità del valore di Croce e di Fortunato e sono, con quelli, i principali
e più raffinati sostenitori della conservazione di questo blocco agrario. Croce
e Fortunato sono, per G., i reazionari più operosi della penisola, «le chiavi
di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi
figure della reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe
la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del
consenso fra le due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini
poveri con il proletariato urbano. Tuttavia G. non ha un'opinione positiva sui
contadini, scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina
meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho
mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e
non solo a stare in prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho
dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli
qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono
conservare il loro onore e la loro dignità di uomini» (Antonio Gramsci,
Lettera alla madre) In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza
di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata
da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale
favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla
rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un
solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il
dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del
Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in
frazione della minoranza e si era esteso anche all'interno del Partito comunista
tedesco, provocando una scissione. Il New York Times, forse su ispirazione di Trotsky,
pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul carattere di
Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere che la carica di
segretario del Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio politico, G.
scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del Partito sovietico. Egli
si mostra preoccupato per l'acutezza delle polemiche che potrebbero portare a
una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la
minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i principi
fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel
condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le
democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di essere
stati «l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di
tutti i paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi
degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il
partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare
che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli
aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che
i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel
quadro degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del
fondamento del contrastola contraddizione di un proletariato formalmente «dominante»
in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata» G.
appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile fare della
demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è
stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del
leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato è in questo elemento
la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli
latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica
del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della
socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato
occidentale di organizzarsi in classe dirigente». G, conclude esortando
all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito
potentemente a educarci per la rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A
loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale
situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato
centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e
sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito fratello
di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie
mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere
disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito
unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata
condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti,
allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le
ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le
responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità
di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora
in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai
difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per
approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale
comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, MUSSOLINI subì a Bologna
un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione poliziesca
da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto per
l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia. Il governo sciolse i
partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. In violazione
dell'immunità parlamentare, G. venne ARRESTATO NELLA SUA CASA e rinchiuso nel
carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo è dichiarato decaduto, insieme
agl’altri deputati aventiniani. Dopo un periodo di confino a Ustica, dove
ritrova, tra gli altri, Bordiga, è detenuto nel carcere milanese di San
Vittore. Qui riceve la visita del fratello Mario, le cui scelte politiche sono
state opposte alle suegià federale di Varese, ora si occupa di commercio e,
soprattutto, quella della cognata, la persona che si manterrà sempre, per
quanto possibile, in contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché
vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: è anche fatto
avvicinare da due agenti provocatori prima un tale Romani e poi un certo Melanima
senza successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali
Terracini, Scoccimarro e Roveda, inizia finalmente a Roma. MUSSOLINI ha
istituito il TRIBUNALE SPECIALE FASCISTA. Presidente è un generale, Saporiti,
giurati sono cinque consoli della milizia fascista, relatore l'avvocato Buccafurri
e accusatore l'avvocato Isgrò, tutti in uniforme. Intorno all'aula, un doppio
cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la
baionetta in canna G. è ACCUSATO D’ATTIVITÀ COSPIRATIVA, istigazione alla
guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe. Il pubblico
ministero Isgrò conclude la sua requisitoria con una frase rimasta famosa. Bisogna
impedire a questo cervello di funzionare; e infatti G. venne condannato a la reclusione.
Raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari. Fin da quando si trova
in carcere a Milano, è intenzionato a occuparsi intensamente e sistematicamente
di qualche soggetto che lo assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore. Il
detenuto 7.047 ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e inizia la stesura
dei suoi quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza
di argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri
ancora svolti solo in parte. Caratteristico è il suo modo di lavorare. Quasi
tutti i giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, riflette
sulle frasi da scrivere e poi si china sul tavolino, scrivendo senza sedersi,
un ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare.
A fare da tramite tra G. e il mondo esterno, e in particolare con SRAFFA e
tramite questi col Pcus e il PCd'I, è la cognata Schucht, essendo la moglie di
G. tornata in Unione Sovietica. Intanto, il Congresso dell'Internazionale
comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità di accordi con la
social-democrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi
di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trockij, eliminava anche
l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra di Trockij, era
rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo orientamento
dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo ndovevano
adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i dissidenti. Il
Partito comunista d'Italia si adegua alle scelte dell'Internazionale,
espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l'accusa di
trotskismo, prima, iBordiga, poi, ifu la volta di Leonetti, Tresso e Ravazzoli.
Teneva, durante l'ora d'aria, dei "colloqui-lezioni" con i compagni
di partito: non esistono dirette testimonianze delle opinioni espresse da
Gramsci riguardo alla «svolta» politica del movimento comunista, ma può
costituire un indiretto riferimento un rapporto che un suo compagno di carcere,
Athos Lisa, amnistiato, inviò subito al Centro estero comunista. Secondo quella
relazione, riferì la teoria della necessità dell'alleanza fra operai del Nord e
contadini meridionali che già stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per
la conquista degli alleati diviene per il proletariato cosa estremamente
delicata e difficile. D'altra parte, senza la conquista di questi alleati, è
precluso al proletariato ogni serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende
che il proletariatola classe operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola
borghesia: «Se si tiene conto delle particolari condizioni nei limiti delle
quali va visto il grado di sviluppo politico degli strati contadini e piccoli
borghesi in Italia, è facile comprendere come la conquista di questi strati
sociali comporti per il partito una particolare azione. La lotta per la
conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno
solo accedere per gradi il primo passo attraverso il quale bisogna condurre
questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul problema
istituzionale e costituzionale. L'inutilità della Monarchia è ormai compresa da
tutti i lavoratori a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito
senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri
partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine della Costituente». Ma
l'azione del partito deve essere intesa a svalutare tutti i programmi di
riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come la sola soluzione
possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria». La richiesta
di una Costituente, e dunque di un'iniziativa politica che si ponesse obiettivi
intermedi, avrebbe comportato necessariamente una convergenza, per quanto
temporanea, con altre forze antifasciste, e se è difficile considerare tale
linea politica come «social-democratica», durante le discussioni nel cortile
del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che egli era ormai fuori
del Partito comunista. Probabilmente le reazioni di alcuni erano esasperate dal
clima di detenzione» ma certo le posizioni dovevano apparire in contrasto con
la linea politica indicata in quegli anni dal Partito comunista. È in questo
periodo chevenne a contatto con Pertini, esponente del PSI e detenuto anch'egli
alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri politici differenti,
divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso
nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che
lo stroncavano. G., oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall'infanzia,
fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cerca
di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni
politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute
continuarono a peggiorare e in agosto ha un'improvvisa e grave emorragia. Anche
la moglie, in Russia, è sofferente di una seria forma di depressione e rare sono
le sue lettere al marito che, all'oscuro dei motivi dei suoi lunghi silenzi,
sente crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento. Scrive alla
cognata: Non credere che il sentimento di essere personalmente isolato mi getti
nella disperazione io non ho mai sentito il bisogno di un apporto esteriore di
forze morali per vivere fortemente la mia vita tanto meno oggi, quando sento
che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado di concretezza e
di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso di sentirmi
isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la grettezza di una
vita che sia esclusivamente volontà. Quando la madre muore, i familiari
preferirono non informarlo. Ha una seconda grave crisi, con allucinazioni e
deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni sul suo immediato futuro. Fino
a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l'intelligenza e ottimista
con la volontà. Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di
arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita
concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze. Eppure lo stesso
codice penale dell'epoca, all'art. 176, prevede la concessione della libertà
condizionata ai carcerati in gravi condizioni di salute. A Parigi si costituì
un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri, Rolland e Barbusse, per
ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici, ma venne trasferito
nell'infermeria del carcere di Civitavecchia e poi nella clinica del dottor
Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all'esterno. MUSSOLINI accolge
finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma G. non rimane libero nei
suoi movimenti, tanto che gli è impedito di andare a curarsi altrove, perché il
governo teme una sua fuga all'estero. Solo il poté essere trasferito nella
clinica Quisisana di Roma, dove giunge in gravi condizioni, poiché oltre al
morbo di Pott e all'arteriosclerosi soffre di ipertensione e di gotta. Passa
dalla libertà condizionata alla PIENA LIBERTÀ, ma era ormai in gravissime
condizioni. Muore d’emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il
giorno seguente la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono
soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana. Le ceneri, inumate nel
cimitero del Verano, sono trasferite nel cimitero acattolico di Roma, nel campo
Cestio. I quaderni del carcere, non destinati da G. alla pubblicazione,
contengono riflessioni e appunti elaborati durante la reclusione. Sono
definitivamente interrotti a causa della gravità delle sue condizioni di
salute. Sono numerati, senza tener conto della loro cronologia, dalla cognata Schucht,
che li affida all'Ambasciata sovietica a Roma da dove sono inviati a Mosca e,
successivamente, consegue Togliatti. Dopo la fine della guerra i quaderni,
curati dal dirigente comunista Platone sotto la supervisione di Togliatti, sono
pubblicati dall'editore Einaudi unitamente alle sue Lettere dal carcere
indirizzate ai familiarii in volumi, ordinati per argomenti omogenei, con i
titoli “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”; “Gli intellettuali e l'organizzazione della
cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo
Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e presente”. I quaderni sono pubblicati Gerratana secondo
l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati raccolti in volume
anche tutti i saggi scritti da G. nell'Avanti!, ne Il Grido del Popolo e ne
L'Ordine Nuovo. Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire
che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la
politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale
politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia. Vi è distinzione
fra direzione egemonia intellettuale e morale e dominio esercizio della forza
repressive. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a
liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi
affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima
di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali
per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere ed anche se
lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere
anche dirigente. La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche mantenendo
il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più
a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i
problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo.
A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se riesce a indicare concrete
soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare
dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati
sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze
sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un
momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovra-struttura
in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa
nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, e
dunque tutto il «blocco storico», termine che indica l'insieme della struttura
e della sovra-struttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro
riflessi ideologici. Analizzando la storia di Italia e il Risorgimento in
particolare, rileva che la classe popolare non trova un proprio spazio politico
e una propria identità, poiché la politica dei liberali di Cavour concepì l'unità
nazionale come un allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della
dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Rritiene
che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere
rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in
particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione.
Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere
capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le campagne,
appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della
reazione aristocratica. Il partito politico italiano allora più avanzato è
il Partito d'Azione di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema
dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la classe contadina. Garibaldi
in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini
repressero le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare
l'egemonia contro i moderati guidati dal liberale Cavour, il Partito d'Azione
avrebbe dovuto legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino
specialmente per il contenuto economico-sociale. Il collegamento delle diverse
classi rurali che si realizza in un blocco reazionario attraverso i diversi
ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire
ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due
direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e
sugli intellettuali degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani
liberali seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo
tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché
i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che
erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi
rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso
fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud. Il Piemonte assunse
la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe
dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere
nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli
interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e
ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè
volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione,
divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una
funzione paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima
importanza per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo
sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato
come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente
e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza
politica-diplomatica. Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel
dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio”
e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto d’egemonia
si distingue da quello di dittatura” La dittatura uesta è solo dominio, quella
è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura del proletariato”
né espresse critiche significative al regime sovietico in Russia. Le
classi subalterne Courbet, Lo spaccapietre Le classi subaltern esotto proletariato,
proletariato urbano, rurale e anche parte della piccola borghesianon sono
unificate e la loro unificazione avviene solo quando giungono a dirigere lo stato,
altrimenti svolgono una funzione discontinua e disgregata nella storia della
società civile dei singoli stati, subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti
anche quando ad essi si ribellano. Il "blocco sociale",
l'alleanza politica di classi sociali diverse, formato, in Italia, da
industriali, proprietari terrieri, classi medie, parte della piccola borghesia,
non è omogeneo, essendo attraversato da interessi divergenti, ma una politica
opportuna, una cultura e un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che
quei contrasti di interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano
provocando la crisi dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica
dell'intero sistema di potere. In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle
classi dominanti è ed è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla
conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere
l'unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici,
tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che
tuttavia esistono e che essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di
controllare. La Chiesa è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire
che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella
delle anime semplici, una lotta che ha fatto risaltare la capacità
organizzatrice nella sfera della cultura del clero che ha dato derte
soddisfazioni alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con un ritmo
così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei
semplici, sebbene esse appaiano "rivoluzionarie" e demagogiche agli
"integralisti" ».Anche la dominante cultura d'impronta idealistica,
esercitata dalle scuole filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare
una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali,
tanto che essa, anche se ha sempre considerato la religione una mitologia, non
ha nemmeno «entato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione
nell'educazione infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non
confessionali e atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione
è la filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non
metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non
si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle
dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.
Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.
Annota in un Quaderno, che il folklore non
deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una
cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria
e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della
vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del
popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni
forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle
ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra
gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non
tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune,
ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica
realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per
l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi
alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni
a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra
intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per
mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un
blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso
intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che
conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e
morale della società. Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe
operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né
della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara
coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo
trasforma. La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso
opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato,
accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso
una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo
dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della
propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una
determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva
auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza
significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché
per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste
organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate
nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni
Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per
superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola
dalla fine del Quattrocento. Il Principe di Machiavelli non esisteva nella
realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di
immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo,
del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e
diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente
esistente. In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione
perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una situazione
interna economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme di società
feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e non poteva
costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a Francia ha
suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato lo
stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la «borghesia
rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come
classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi sociali
urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà possibile la
formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le grandi masse dei
contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò
intende MACHIAVELLI attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini
nella rivoluzione francese. In questa comprensione è da identificare un
giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno fecondo, della sua
concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il Principe invocato dal
Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e questo
organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima
cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire
universali e totali. Il partito è l'organizzatore di una riforma intellettuale
e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma economica,
divenendo così la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione
di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume. Perché un partito esista, e
diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre elementi
fondamentali. Primo, un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui
partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito
creativo ed altamente organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li
centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si
sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento
coesivo principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e
disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo
elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo
elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più
facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio,
che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo
fisico, ma morale e intellettuale. Gramsci negli scritti compresi ribadì i
principi espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina
ferrea del partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e
sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del
regime fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non
c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn
si può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente
della sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista,
un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole
linea di condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la
funzione dell’ intellettuale. Storicamente si formano particolari categorie
di intellettuali, specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti
e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo
sociale dominante. Un gruppo sociale che tende all'egemonia lotta per
l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali tanto
più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i
propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è il letterato, il
filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati,
filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali, mentre
modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di
intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema non assolutamente il
vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice esteriore e
momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla
tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza
la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale
emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare
alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo,
forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura
con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento.
Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli organismi privati in cui
si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del
consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della
popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella società
politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si esprime nello
Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i commessi del
gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne dell'egemonia
sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso spontaneo dato dalle
grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal
gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di coercizione statale
che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono. Come
lo stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali
tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito
politico, ancor più compiutamente e organicamente dello stato, elabora i propri
componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico,
fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti,
organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo
di una società integrale, civile e politica. Il compito della riforma
intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli intellettuali
organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando
la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova
organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone come sintesi attiva
di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione
politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è
intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e
dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve
costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi
dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non
si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro
astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai
voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali. In
molte linguein russo, in tedesco, in franceseil significato dei termini
«nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un
significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con
popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè
dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai
stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione
è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad
Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Si
è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice
del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi
inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e
di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino
ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia. In
Italia, la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza
di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento
intellettuale italiano è avvertito come “più straniero degli stranieri stessi”.
Fa eccezione, per G., il melodrama
verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha tenuto in qualche modo in
Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Il pubblico
icerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella italiana:
è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori. Ogni
popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo può
essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È
questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di
carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani
grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di una egemonia straniera.
Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di
altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza morale
del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo. La insufficienza
dell’intelletuale è «uno degli indizi più espressivi dell'intima rottura che
esiste tra la religione e il popolo. Questo si trova in uno stato miserrimo di
indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale. La religione è
rimasta allo stato di superstizione l'Italia popolare è ancora nelle condizioni
create immediatamente dalla Contro-Riforma. La religione, tutt'al più, si è
combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio. Sono rimaste
famose le note di G. su MANZONI: lo scrittore più autorevole, più studiato
nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere
elitista della letteratura italiana. Ecco le parole dai Quaderni del carcere,
confrontandolo con Tolstoj. Il carattere aristocratico di Manzoni appare dal
compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare
in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto,
Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno
vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali. Manzoni
è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una società di protezione
di animali niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito
evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi
popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di
condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana vede con occhio severo
tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono
popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in
alcuni della classe alta, in nessuno del popolo non c'è popolano che non venga preso
in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il
Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il suo atteggiamento verso il
popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che muova alla conquista
dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa
espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare
la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che
interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che
entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé
che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima
non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente. Intanto,
nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà
letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis un esempio
privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è
la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della
vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle
opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti
rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in
ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis. Piace sentire
in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti
morali e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo risorgimentale,
in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con Croce,
che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro
affermazione, per cui la passione e il fervore romantico si sono composti nella
serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Quando poi quei valori
culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce sub-entra
una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e
la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e
pertanto non confrontabile con quella di Sanctis. Una critica letteraria
marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve
fondere, come Sanctis fa, la critica estetica con la lotta per una cultura
nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia
della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli
scrittori si trovavano a operare. Non a caso, progettava nei suoi
Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani»,
dal nome di Bresciani, tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà
Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi,
L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio di Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono gli
intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia reazionaria
con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente confessato». Fra i
«nipotini»individua, oltre a molti scrittori ormai dimenticati, Antonio
Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura
normale, Panzini, Bellonci, Bontempelli, Fracchia, Baratono -- l'agnosticismo
del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile -- teorizza solo la
propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria – Bacchelli --
nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche
letterario: la Ronda fu una manifestazione di gesuitismo artistico -- Salvator
Gotta --di Salvator Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del
Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in sagrestia; tutta la sua
produzione letteraria è brescianesca», Ungaretti. La vecchia generazione
degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto
una giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle
brillanti promesse, Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da
piccoletti. Croce, il più autorevole intellettuale dell'epoca, da alla
borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i
confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il
movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario mostrare e
combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia culturale
che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio
italiano. Come tale, Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità
nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia. Il Capitale
di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di
dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla
comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non-scientificità
dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del plusvalore. Per
Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di “plusvalore” rispetto
al “valore”, legittimo concetto economico. Questa critica del Croce è in
realtà un semplice sofisma. Il “plusvalore” è esso stesso valore, è la
differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della
forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx
deriva direttamente da quella dell'economista liberale Ricardo la cui teoria
del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché
allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una
constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di
educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, dove acquistarla
solo con la Economia critica. La filosofia crociana si qualifica come
storicismo, ossia, seguendo VICO (si veda), la realtà è storia e tutto ciò che
esiste è necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica
della sua filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia
speculativa, di astrazionistoria della libertà, della cultura, del progresso non
è la storia concreta delle nazioni e delle classi. La storia speculativa può
essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno
ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in
discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso
Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco
storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si
identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è
niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti,
ma non è storia la storia di Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro,
dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie
dello scrittore. L'operazione conservatrice di Croce storico fa il paio con
quella di Croce filosofo. Se la dialettica dell'idealista Hegel era una
dialettica dei contrariuno svolgimento della storia che procede per
contraddizioni la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare
la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un
annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si
presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche di Croce. La sua
Storia d'Europa, iniziando e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese
e quello napoleonico, non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo
della grande rivoluzione che si iniziò in Francia, traboccò nel resto d'Europa
con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi
regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la
corrosione riformistica. Analoga è l'operazione operata da CROCE nella sua STORIA
D’ITALIA la quale affronta unicamente il periodo del consolidamento del regime
dell'Italia unita e si «prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui
si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto in cui un sistema
etico-politico si dissolve e un altro si elabora in cui un sistema di rapporti
sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma, e invece
Croce assume placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o
etico-politico. Gramsci, fin dagli anni universitari, fu un deciso oppositore
di quella concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel
vecchio partito socialista, per la quale il capitalismo necessariamente era
destinato a crollare da sé, facendo posto a una società socialista. Questa
concezione mascherava l'impotenza politica del partito della classe subalterna,
incapace di prendere l'iniziativa per la conquista dell'egemonia. Anche
il manuale del bolscevico russo Bucharin, e La teoria del materialismo storico
manuale popolare di sociologia, si colloca nel filone positivistico. La
sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza
storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo
evoluzionistico è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di
descrivere e classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri
costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un
tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società
umana in modo da prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede
che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla
base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col
passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e
ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. La
comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile
utilizzando la dialettica marxiana della quale non vi è traccia nel Manuale del
Bucharin perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro
provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica
che trasforma le società. Le società non si trasformano da sé. Già Marx
aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non
esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se
prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il
rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i rapporti tra
struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che
operano nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria,
la prassi, è anche catarsi che segna l passaggio dal momento meramente
economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè
l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura nella coscienza
degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'oggettivo al soggettivo e
dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia
l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà,
in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove
iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così il punto di partenza di tutta la filosofia
della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono
risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di
indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della
realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina
della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della
politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia
integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo
mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali)
sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie
società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che
subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova
dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il
vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva,
esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato
dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si
trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà
oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica dal momento
che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi conosciamo
la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire storico, anche la
conoscenza e la realtà stessa sono un divenire. Come potrebbe esistere
un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di tale oggettività?
La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità
dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze
naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre
alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre
umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente
soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per
tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario;
ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle
contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono
la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie. C'è
dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e
fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del
genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza
ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione
concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario». La
formazione linguistica di G. inizia durante gli anni universitari a Torino con
la frequentazione delle lezioni di BARTOLI (si veda). G. apprende che LA LINGUA
è un prodotto sociale e che non può essere studiata senza tenere conto della
storia generale: ciò vuol dire che non è possibile comprendere i mutamenti di
una lingua senza riflettere sui mutamenti sociali, culturali e politici della
popolazione che la parla. È stato notato che fece aderire le teorie apprese da
Bartoli alle letture filosofiche che lo formarono politicamente; in primo luogo
all'ideologia tedesca di Marx, dove Marx afferma che il tessco, il tedesco, come
la coscienza dei tedesci, appartiene alla sfera degli istituti sovra-strutturali,
cioè al mondo dell'organizzazione politica e giuridica della società. Le più
interessanti riflessioni linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni
del carcere e riguardano da una parte la questione delle lingue in Italia,
ovvero lo studio delle ragioni che hanno reso difficile la diffusione di una LINGUA
per la nazione o tutta la poppolazione, dall'altra il tema dell'insegnamento
linguistico nelle scuole primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale
importanza per G., perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle
grandi masse popolari e la creazione di uno spirito nazionale in grado di
superare ogni forma di particolarismo regionale. I Quaderni del carcere
sono costellati in maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di
caratteri linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della
lingua italiana e racchiudono le riflessioni di G. in merito alla cosiddetta
questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un
altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli
intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A
tal proposito G. scrive: mi pare che, intesa LA LINGUA come elemento della
cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della
nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e
puramente erudito». Nell'affrontare una ricostruzione storica delle vicende
linguistiche italiane G. cerca dei termini di confronto con altri paesi europei
come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima volta
nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere
politico-istituzionale, IN ITALIA il volgare appare per la registrazione di
documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche. L’origine della
differenziazione storica tra ITALIA e Francia si può trovare testimoniata nel
giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla
storia (il popolo-esercito) diventando il garante dell'osservanza dei trattati
tra i discendenti di Carlo Magno. Il popolo-esercito garantisce giurando in
volgare, cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una
funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come
elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto demagogico dei carolingi di
appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per
comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ha la
monarchia come fattore nazionale. IN ITALIA i primi documenti di volgare sono
dei GIURAMENTI INDIVIDUALI per fissare la proprietà su certe terre dei
conventi, o hanno un carattere ANTI-POPOLARE. Traite, traite, fili de le putte.
Quaderni del carcere, Gerratana, Torino, Einaudi. In Francia i gruppi dirigenti
si rendono conto dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia
di cui parla G. è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche
come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi una propria civiltà
statale integrale, in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e
governanti. Il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo
giuramento. Ricorda nei suoi appunti come IN ITALIA l'uso del volgare si
diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione di DOCUMENTI
PRIVATI, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione di opere
letterarie: in particolare, il volgare toscano, LINGUA DELLA BORGHESIA, ottiene
un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze esercita una EGEMONIAculturale,
connessa alla sua egemonia commerciale e finanziaria. Bonifazio dice che i
fiorentini sono il quinto elemento del mondo. C'è uno sviluppo linguistico
unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, rinforzato dai grandi
scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di Firenze, l'italiano
diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata
storica.” Da questo momento si verifica una cristallizzazione della lingua. I
promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non scrivono più
nella lingua della loro classe d'origine perché con essa non intrattengono più
nessun rapporto, nella visione di G. essi “vengono assorbiti dalle classi
reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi, ma aulici. In questo
senso, vede sciupata l'occasione di una diffusione graduale del volgare toscano
su scala nazionale, occasione compromessa soprattutto dalla frammentazione
politica della penisola e dal carattere “elitario” del ceto intellettuale
italianio. Affronta con maggior vigore la questione delle lingue in relazione
al periodo post-unitario. Nella seconda metà dell'Ottocento, lo stato e per
gran parte dialettofono, mentre La LINGUA DELLA NAZIONE venne usata solo a
livello letterario e come lingua dell’istituzioni. La scarsa diffusione di una
lingua per la nazione testimonia la frammentazione politica e culturale della
popolazione italiana. Questo fenomeno venne avvertito come un problema
politico, soprattutto da molti intellettuali di tendenze democratiche come Manzoni.
Nella sua ricostruzione storica G. scrive che “anche la questione delle lingue
posta da MANZONI (si veda) riflette questo problema, il problema della unità
intellettuale e morale della nazione e dello stato, ricercato nell'unità della
lingua. Eppure, sebbene G. riconosca a MANZONI di aver compreso la questione
linguistica italiana come una QUESTIONE POLITICA e sociale, si distingue da lui
nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante il suo
apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di confrontare le
posizioni del Manzoni con quelle d’ASCOLI (si veda), dell’Archivio Glottologico.
Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione sul modello
fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di
origine toscana, ASCOLI concepiva la nascita di una lingua nazionale come il
frutto di un'unificazione culturale prima ancora che linguistica. Secondo
ASCOLI l'unità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro
irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui
provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo,
stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici,
ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico
e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza,
il suo particolare idioma. Per ASCOLI, una LINGUA NAZIONALE altro non può e non
deve essere, se non l'idioma vivo di una data città. Deve cioè per ogni parte
coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di
quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi
stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli, nel suo Proemio, prende la
Francia come esempio per avvalorare la sua tesi. Infatti, l'unità linguistica
di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale di Parigi. La Francia
attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo
in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della Francia intera. Dal
vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell'universa
civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la
Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente del suo pensiero, vi ha
naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo studia e lavora, ma si
commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole. E quindi è
necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di Parigi. Gramsci
ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo di
formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria
avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere
consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di
intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non
bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno
tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata
lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento
organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere
questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di
irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale
linguistico nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili
alla diffusione di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali.
Terzo, gli scrittori d'arte e quelli
popolari. Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto,
le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti
di conversazione tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti.
Ottavo, i dialetti locali, intesi in sensi diversi, dai dialetti più
localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così
il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la
Sicilia ecc. Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola. Per
tradizione, a scuola, gl’insegnanti introducono gli alunni allo studio di una
lingua attraverso la grammatica normativa. G. definisce la GRAMMATICA
MORFO-SINTASSI normativa come una fase esemplare, come la sola degna di
diventare, organicamente e totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in
lotta e in concorrenza con le altre fasi e tipi o schemi che esistono già. Le
riflessioni gramsciane in materia di grammatica si pongono in netto contrasto
con la riforma della scuola realizzata da Gentile, di basi griceiana. La riforma,
in linea con l'impianto idealista gentiliano, prevede che l'apprendimento della
lingua della nazione nelle classi elementari si basasse su quello chi Gentile
chiama l’espressione viva o parlata e non sulla grammatical normativa, considerata
questa come una disciplina “astratta” e meccanica. Nell'ottica di G. il metodo
apparentemente liberale di Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere classista
o elitista, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte
sono avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli
scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare
realizzata esclusivamente in dialetto In questo senso la grammatica normativa si
presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo
a tutti la conoscenza della LINGUA della nazione. Secondo G. la
conoscenza della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è
fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato dialettofono non
può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di crearsi
un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali
tradizionali. Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di
comunicazione familiare o locale che non può garantire, per cause interne al
suo sistema, la comunicazione di un contenuto culturale universale,
caratteristico della nuova cultura esercitata dal proletariato. G. presta
attenzione anche alla LINGUA DELL’IMPERO ROMANO. Espressa in più occasioni che
lo studio del LATINO è particolarmente utile nella formazione filosofica, in
quanto abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare storicamente.
Contesta il nazionalismo degli studi e critica ripetutamente gl’intellettuali
che, durante la grande guerra, chiedeno che fossero messe al bando le edizioni
dei testi romani e la grammatica latina compilate DA AUTORI TEDESCHI! Anche nei
Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e ribadì l'utilità intrinseca
della antica lingua romana, osservando che e uno strumento importante nella fase
della formazione filosofica nella quale è necessario un insegnamento
"disinteressato", cioè non legato a questioni pratiche. Però,
sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue morte avrebbe dovuto
essere sostituito da altre materie: era un cambiamento difficile, ma
necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di intellettuale. Scrive
in un Quaderno: Bisogna sostituire IL LATINO e il greco come fulcro della
scuola formativa e lo si sostituirà, ma non è agevole disporre la nuova materia
o la nuova serie di materie in un ordine didattico che da risultati equivalenti
di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo
fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo infatti lo
studio o la parte maggiore dello studio deve essere (e apparire ai discenti)
disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve
essere formativo, anche se istruttivo, cioè ricco di nozioni concrete. MACHIAVELLI
influenza fortemente la teoria dello stato di G. Marx, filosofo, storico,
critico dell'economia politica e fondatore del materialismo storico Engels
Lenin, Labriola, primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la
principale caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto
nesso fra la storia e la filosofia. Sorel — sindacalista che ha respinto il
principio dell'inevitabilità del progresso storico. Pareto — economista e
sociologo italiano (nato a Parigi di madre francese), noto per la sua teoria
sull'interazione fra masse ed élite. CROCE — liberale italiano, filosofo
anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da Gramsci a critica
attenta e approfondita. Pensatori influenzati da G. Gramscianesimo. Zackie Achmat
Eqbal Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio Angioni Michael
Apple Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Bhabha, Gordon Brown Alberto Burgio, Butler
Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky Cirese Costa Cox
Benoist Biagio de Giovanni Martino, Eco Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin
Eugene D. Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris
Harman David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo
Jaar Bob Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini,
Pigliaru, Pira, Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward
Saïd Ato Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson
Giuseppe Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein
Eric Wolf Howard Zinn. Gramsci al cinema e in televisione Il delitto
Matteotti, regia di Vancini, G. I giorni del carcere, regia di Fra, G., regia
di Maielloserie TV, G., film in forma di rosa, regia di Gabriele
Morleocortometraggio, Gramsci, regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e
terribile, regia di Maggioni, Perria e Laura Perini. G. nel teatro Compagno G.,
di Boggio e Cuomo, regia di Boggio, G. nella musica Quello lì (compagno
Gramsci), canzone di Claudio Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi.
Canzoni di morte. Canzoni di vita, Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung
contenuta nell'album Pietre della mia gente Nino, canzone dei Gang contenuta
nell'album Sangue e Cenere G., il teatro e la musica È nota la passione di G.
per il teatro e per la musica, che si può leggere nelle lettere scritte a
Tania. Egli ha scritto circa il melodrama “verdiano” che per lui segnava
l’apertura dei teatri al pubblico, svolgendo una funzione conoscitiva,
pedagogica e politica in senso generale. Per Gramsci l’opera diviene l’arte più
popolare e i teatri aperti i luoghi dove si esercitava parte del conflitto
politico. Una frase quasi ironica di Gramsci da citare, per quanto
riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia: “siccome il popolo non è
letterato e di letteratura conosce solo il libretto d'opera ottocentesco,
avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle sue lettere si può
leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli sostiene che questa
musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e aveva creato un vero
fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione meridionale, in Lo Stato
Operaio, Opere, Lettere dal carcere,
Torino, Einaudi, premio Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I
quaderni dal carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Croce (Torino,
Einaudi); “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi,
Il Risorgimento, Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo
stato moderno, Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato
e presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti
giovanili. Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e
fascismo. L'Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, La costruzione del Partito comunista.
Torino, Einaudi, L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1Americanismo e fordismo,
Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, Ultimo discorso alla Camera. Padova, R.
Guerrini, Antologia popolare degli scritti e delle lettere di Antonio Gramsci,
Roma, Editori Riuniti, Il Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, Note sulla
situazione italiana, Milano, Rivista storica del socialismo, 2000 pagine di
Gramsci Nel tempo della lotta. Milano, Il Saggiatore, Lettere edite e inedite. Milano,
Il Saggiatore, Elementi di politica, Roma, Editori Riuniti, La formazione
dell'uomo. Scritti di pedagogia, Roma, Editori Riuniti, Scritti politici La
guerra, la rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, Roma,
Editori Riuniti, Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita del
Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, Il nuovo partito della classe operaia
e il suo programma. La lotta contro il fascismo, Roma, Editori Riuniti, Scritti
Milano, I quaderni de Il corpo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La
nuova sinistra, Paolo Spriano, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, L'alternativa
pedagogica, Firenze, La nuova Italia, I consigli e la critica operaia alla
produzione, Milano, Servire il popolo, La lotta per l'edificazione del Partito
comunista, Milano, Servire il popolo, Il pensiero di Gramsci, Roma, Editori
Riuniti, Il pensiero filosofico e storiografico di Antonio Gramsci, Palermo,
Palumbo, Resoconto dei lavori del III congresso del P.C.D.I. (Lione), Milano,
Cooperativa editrice distributrice proletaria, Scritti sul sindacato, Milano,
Sapere, Aul fascismo, Roma, Editori Riuniti, Quaderni del carcere Quaderni, Torino,
Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, Apparato
critico, Torino, Einaudi, La rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton, Arte e
folclore, Roma, Newton Compton, Scritti Inediti da Il Grido del Popolo e
dall'Avanti. Con una antologia da Il Grido del Popolo, Milano, Moizzi, Ricordi
politici e civili, Pavia,Scritti nella lotta. Dai consigli di fabbrica, alla
fondazione del partito, al Congresso di Lione, Livorno, Edizioni G., Scritti
sul sindacato, Roma, Nuove edizioni operaie, A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano,
I consigli di fabbrica, Milano, Amici
della casa Gramsci di Ghilarza, Centro milanese, Favole di libertà, Firenze,
Vallecchi, Scritti, Cronache torinesi. Torino, Einaudi, La città futura. Torino,
Einaudi, Il nostro Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove
lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di SRAFFA (si veda), Roma,
Editori Riuniti, Forse rimarrai lontana. Lettere a Iulca, Roma, Editori
Riuniti, Gramsci al confino di Ustica.
Nelle lettere di Gramsci, di Berti e di Bordiga, Roma, Editori Riuniti, Le sue
idee nel nostro tempo, Milano, l'Unità, Lettere dal carcere, con nuove lettere
in parte inedite, Roma, l'Unità, Il rivoluzionario qualificato. Scritti, Roma,
Delotti, Il giornalismo, Roma, Riuniti, Lettere, Torino, Einaudi, Per una
preparazione ideologica di massa: introduzione al primo corso della scuola
interna di partito, Napoli, Laboratorio politico, Scritti di economia politica,
Bollati Boringhieri, Torino, Vita attraverso le lettere, Torino, Einaudi, Disgregazione
sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, Piove, Governo
ladro. Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori Riuniti, Contro
la legge sulle associazioni segrete, Roma, Manifestolibri, Lettere, Torino,
Einaudi, Le opere, Roma, Editori Riuniti, Critica letteraria e linguistica,
Roma, Lithos, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma,
Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare
l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria
familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti
rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano,
Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione Sarda, Epistolario, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Antologia, Antonio A. Santucci, prefazione di Guido
Liguori, Roma, Editori Riuniti university press,. Il teatro lancia bombe nei
cervelli. Articoli, critiche, recensioni, F. Francione, Mimesis Edizioni. La
taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione, NovaEuropa Edizioni,.Note
Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco Gramsci, Marmilla Cultura, International
Gramsci Society, su international gramsci society.org. Genealogia dei G., su albanianews. Manias, Ma quando è nato G.?, Marmilla Cultura, Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi,
Marmilla Cultura, Così Gramsci ricordava con ironia l'episodio, nella lettera
dal carcere alla cognata Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero
risuscitato quando lei mi unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a
una Madonna e perciò, quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi
rimproverava aspramente, ricordando che alla Madonna dovevo la vita» Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque
doveva anche accudire alla casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito
rinunziando al sonno». Così ricordava quegli anni la sorella Teresina Gramsci,
in Fiori, Lettera a Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non
eccedere nelle sue preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera
prosegue infatti: Ho conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della
vita e me la sono sempre cavata, bene o male
Lettera a Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al
padre: gli scrive di essere «proprio
indecente con questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi
non sono andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, che «per
non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni interi» Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza
della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato
in G., Scritti politici G., Dizionario
di Storia, Treccani [«io pensavo allora
che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale della regione: "Al mare
i continentali". Poi ho conosciuto la classe operaia di una città
industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che
avevo letto prima per curiosità intellettuale. Cfr. G., lettera a Schucht, in
A. Gramsci, Lettere. Gramsci e l'isola laboratorio, La Nuova Sardegna G. Lettere. Progettando, in carcere, uno
studio di linguistica comparata, mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla
cognata Tatiana, ricorda come «uno dei maggiori rimorsi intellettuali della mia
vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli
dell'Torino, il quale è persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare
definitivamente i neo-grammatici della linguistica. Tuttavia già l'economista
Sen avanza l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Wittgenstein
nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal carcere. In G.
and Wittgenstein: an intriguing connection, Pipero aggiunge nuovi elementi che
dimostrano il collegamento fra G. e Wittgenstein TRAMITE SRAFFA. Infatti il
filosofo viennese venne a conoscenza di un quaderno, grazie proprio al suo
amico SRAFFA (si veda) che conosce a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa G.
ricorda ancora un simpatico e patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a
causa di quell'articolo che fa piangere come un bambino e stette chiuso in casa
il Cosmo per alcuni giorni, essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a
Berlino, dove il professore è segretario. Il Cosmo mi si precipita addosso,
inondandomi di lacrime e di barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché!
Tu capisci perché! È in preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fa capire
quanto dolore gli avessi procurato e come egli intende l'amicizia per i suoi
allievi di scuola. Lettera dal carcere a Schucht In Fiori, In G. Scritti politici, Davico. Lettera dal carcere a Schucht Lettera dal
carcere a Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note sulla
rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in G., I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano,
La rivoluzione contro il Capitale, nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva a
Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere salvata
dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici. Per
salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione
scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze
vive del paese nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento,
allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della
società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime
capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx
ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di
partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso
della lettera alla Zasulič, che G. all'epoca non poteva conoscerne il contenuto.
Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, G., Ordine Nuovo,
G., ibidem Corriere della Sera, Archivio
Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen. PS, Ordine Nuovo, in Scritti
politici, Concluso con un ordine del giorno che prospettava la conquista
violenta del potere e la dittatura del proletariato Per un rinnovamento del Partito socialista,
ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Lenin, nel suo discorso all'Internazionale
Comunista, invitando a espellere dal partito socialista l'ala destra
riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista corrisponde
l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo dell'attuale
maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo parlamentare».
Lenin, Opere, Ordine Nuovo, in Scritti politici, GRAMSCI La sposa mandata da Lenin Lettera, in G., Lettere Lettera dal carcere. Un
profilo di Antonio Gramsci junior, su channelingstudio.ru. Su alcune note di uno sconosciuto bolscevico
Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere a conoscenza di un
tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte di Nitti in
accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche la
conoscenza tra Gramsci e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin in
persona: cfr. Link archivio del Corriere
Amendola, In Togliatti, In
Togliatti, Lettera di G. a Schucht, Lettera a Schucht, La crisi italiana, ne
L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, Camera dei Deputati, legislatura
del Regno d'Italia, Capo, in L'Ordine Nuovo, pubblicato successivamente col
titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, Capo, ne L’ordine Nuovo, in
Gramsci, Anche alle autorità francesi fu nascosto lo svolgimento del Congresso.
Sul III CongressoSpriano, Storia del Partito comunista italiano, Spriano, Spriano,
Spriano, Spriano, G., Tesi di Lione,
Lione, Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, «Alcuni temi della quistione meridionale».
Stato operaio, Citato in Rosario
Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale,
Roma-Bari, Laterza, Antonio Gramsci, Cinque anni di vita del partito, L'Unità, Fiori, Spriano, Lepre, Il prigioniero. Vita
di G., Editori Laterza, Bari, La lettera, non datata, si ritiene sfu pubblicata
per la prima volta in Francia da Tasca. Su tutta la questione della lotta
interna nel partito comunista sovietico di questo periodo Spriano, cit., II, ca
3 e 5 G., Lettere Lettera di Togliatti a
Gramsci, Commissione di assegnazione al confino di Roma, ordinanza contro G.
(“Dirigenti e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini,
L'Italia al confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle
Commissioni provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori, In Fiori, Sentenza contro G. e altri
(“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione, istigazione
alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e
antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di
consiglio emesse dal TRIBUNALE SPECIALE FASCISTA contro gli imputati di ANTI-FASCISMO,
Milano (ANPPIA/La Pietra),
Amendola142. Spriano, Lettera a
Tatiana Schucht, Fiori, Fiori, Fiori, Risoluzione
per l'espulsione di Amedeo Bordiga
Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit. Dalla biografia di Pertini pubblicata dal Circolo
Pertini di Genova. Chiesi al maresciallo dei carabinieri che comandava la
scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi fece il nome di Turi me
ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei incontrato G., un uomo
che ho sempre ammirato per il suo coraggio. A Turi incontro G. in un angolo del
cortile dove coltiva un'aiuola di fiori. È piccolo di statura e con due gobbe:
una davanti ed una di dietro. Mi avvicina a lui, mi presento, gli affermo che
vengo da Santo Stefano e che sono onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo
del lei e lo chiam0 Onorevole G. Lui si mette a ridere, dicendomi, Perché mi
dai del lei? Siamo ANTI-FASCISTI, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io
gli ricordo che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Dice
di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parla
di TURATI e TREVES in maniera che mi sembra offensiva ed io rispondo con durezza.
Il giorno dopo si scusa, dicendo che il suo è un giudizio politico, non ha
intenzione di offendere le persone, e capisce la mia reazione in favore di due
compagni che si trovavano in Francia. DA ALLORA DIVENTAMMO BUONI AMICI. Parlamo
a lungo insieme anche perché è stato isolato dai suoi. Per certi versi costoro
lo considerano un traditore e chiedeno la sua ESPULSIONE DEL PARTITO, come poi
fecero anche con Ravera. In cella G. è perseguitato dai carcerieri. L’ordine di
NON LASCIARLO DORMIRE arriva direttamente da Roma. Io ando dal direttore del
carcere a protestare perché i carcerieri, OGNI VOLTA CHE G. SI ADDORMENTA, lo
svegliano facendo scorrere sulle sbarre della finestra dei bastoni, con la
scusa di controllare che le sbarre non fossero state segate per un'evasione. Dico
al direttore che se la situazione non cambia, avrei scritto una lettera al
ministero. Il risultato è che G., GIÀ GRAVEMENTE MALATO DI TUBERCULOSI PUO
DORMIRE TRANQUILLO. Le mie proteste costrinsero il direttore del carcere di
Turi a concedere a G. anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una
sedia. Così poterono nascere I QUADERNI dal carcere. La mia amicizia mi mette
in contrasto con il direttore del carcere e forse non è estraneo al mio
trasferimento a Pianosa. Lettera a Schucht, Lettera a Schucht, Cominciò a
circolare la voce secondo la quale G. in punto di morte si sarebbe convertito
alla fede cattolica. Tale affermazione venne però ritrattata dallo stesso
religioso che l’ha inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto
della smentita l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le
chiare argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu
riproposta da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di
prove testimoniali, la teoria della conversione di G. non è mai stata
avvalorata dagli storici. Cfr. S.Fio., G. e il sacerdote pentito, La
Repubblica, Il Vaticano: G. trova la fede, Il Corriere della Sera, Daniele,
Togliatti editore di G., Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento,
Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di CROCE Quaderni del
carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana, Cirese, Baratta, Giulio Angioni, Gramsci e il
folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle
culture, Il Maestrale, Note su MACHIAVELI, Gli intellettuali e l'organizzazione
della cultura, Quaderni del carcere, cLetteratura e vita nazionale, Il
materialismo storico e la filosofia di Croce, Rosiello, Problemi e orientamenti
linguistici nei saggi di G., Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A.
Gramsci, V. Gerratana, Torino, Einaudi, G., Quaderni del carcere, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, Gramsci,
Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, G., Quaderni del
carcere, Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', Gerratana, Torino, Einaudi, Rosiello, LINGUA
nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone, Leonardo, Cinque anni che
paiono secoli: Gramsci dal socialismo al comunismo, 1a ed, Carocci,, Fonzo, Bosi, Antonio Gramsci, su scuolalo
divecchio. giovannicarpinelli, Gramsci e la musica, su Palomar, La passione
sconosciuta di Gramsci per la musica, in L’Huffington Post. Premio letterario
Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma, Editori
Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Bari, Laterza, Angioni, G. e il
folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle
culture, Il Maestrale, Aqueci, Il G. di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento AGON,
Rivista Internazionale di Studi Culturali, Linguistici e Letterari, Aqueci,
Ancora G. [cf. Speranza, “Ancora Grice”], Roma, Aracne, Auciello, Socialismo ed
egemonia in G. e Togliatti, Bari, De Donato, Badaloni e altri, Attualità di G.,
Milano, Il Saggiatore, Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col
presente, Roma, Carocci, BOBBIO (si veda), Saggi su G., Milano, Feltrinelli,
Calamandrei e Calogero, La conoscenza di G. in Inghilterra. Una lettera di
Calogero e una nota di Calamandrei, L'Unità, Canali, Il tradimento. G.,
Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio, Carrannante, Sull'uso di
'galantuomo' in G., Studi novecenteschi,
Carrannante, G. e i problemi della LINGUA ITALIANA, in
"Belfagor", Chambers,
Esercizi di potere. G., Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese,
Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Clementi, Le
ceneri di G in Stalinismo e grande terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino,
Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia
Stato partito in G., Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, G. Una nuova biografia,
Torino, Einaudi,. Dubla, Giusto (cur.), Il G. di Turi, Testimonianze dal
carcere, Chimienti editore, Michele Filippini, G. globale. Guida pratica agli
usi di Gramsci nel mondo, Bologna, Odoya,. Fiori, Vita di G., Bari, Laterza, Fiori,
G. Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio Fonzo, Il mondo antico negli
scritti di G., Salerno, Paguro, GARIN, Con G., Roma, Editori Riuniti, Valentino
Gerratana, G. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, G. nel
cieco carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, G. jr., La storia di
una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. GRUPPI (si
veda), Il concetto di EGEMONIA in G., Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, Gramsci
in Europa e in America, Roma-Bari, Laterza, Lepre, Il prigioniero. Vita di G.,
Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, Piparo, “I
due carceri di G.”, Donzelli, Roma, LOSURDO (si veda), G.. Dal liberalismo al
comunismo critico, Roma, Gamberetti, Manacorda, Il principio educativo in G..
Americanismo e conformismo, Roma, Riuniti, Michele Martelli, G filosofo della
politica, Milano, Unicopli, MONDOLFO, Da ARDIGÒ a G., Milano, Nuova Accademia, Mordenti,
G. e la rivoluzione necessaria, Roma, Riuniti, Onnis e Mureddu, Illustres.
Vita, morte e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi,
G. e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, Gramsci. Questione
sociale e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, G. e il blocco
storico, Bari, Laterza, Rapone, Cinque anni che paiono secoli. G. dal socialismo
al comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, G. tra MUSSOLINI e Stalin, Roma,
Fazi, Angelo Rossi, G. da eretico a ICONA. Storia di un cazzotto nell'occhio,
Napoli, Guida editore, Rossi, G. in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli,
Guida editore, Santhià, Con G. all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, SANTUCCI,
G.. Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Torino,
Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I, Torino, Einaudi, Spriano,
Storia del Partito comunista italiano,II, Torino, Einaudi, Spriano, G. e GOBETTI.
Introduzione alla vita e alle opere, Torino, Einaudi, Spriano, G. in carcere e
il partito, Roma, Riuniti, Stamboulis, Costantini, Cena con Gramsci, Padova,
Becco Giallo, Tamburrano, G.: la vita, il pensiero e l'azione, Bari-Perugia,
Lacaita, Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista
italiano Roma, Riuniti, Togliatti, Scritti su G., Roma, Editori Riuniti, Vacca,
G. e Togliatti, Roma, Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo Gramsci a Ghilarza, Fondazione
Istituto G. Antonio Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When
Austin speaks of ‘ordinary language,’ he knows what he is talking about; when
Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they don’t!” -- Grice: “Elites are so
relative; when I came to Oxford, I was regarded as a ‘Midlands scholarship boy’
and thus assigned Corpus; there was no way I would socialise with Hampshire,
Austin, and the others who were philososophising at All Souls on Thursday evenings
– I had just been born on the wrong side of the track. So it was particularly
obtuse for me when Gellner started to criticise me as elitist! Perhaps he had
read too much Gramsci!?” Gramsci. Keywords: “Grice, elite” egemonia della
filosofia del linguaggio ordinario – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Grataroli:
filosofia lombarda – filosofia bergamesca – scuola di Bergamo -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Bergamo).
Filosofo italiano. Filosofo lombardo. Filosofo bergamesco. Bergamo, Lombardia. Bergamo, Basilea è stato un medico e filosofo
italiano. Ritratto di G. dalla biografia di Gallicciolli G. nacque a
Bergamo, in una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana con
la città di Venezia. Questa, originaria del borgo di Oneta, frazione di San
Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a possedere gran parte della contrada e
dei terreni circostanti (tra cui anche l'edificio che attualmente ospita la
casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi membri una folta schiera di medici
(al tempo chiamati "phisici"), tra i quali si segnalarono Simone,
fondatore del collegio dei medici di Bergamo, e Pellegrino, medico presso la
città orobica, rispettivamente nonno e padre di Guglielmo. Gli studi di G.
sono quindi indirizzati fin dall'inizio verso l'arte esercitata dal padre, che
lo educa e lo indirizza allo studio della stessa. Proseguì quindi gli studi a
Padova presso la locale facoltà di medicina, dove si laurea e vi assunse la
cattedra. Nella città veneta, oltre a pubblicare la sua prima opera, una
piccola dispensa inerente osservazioni sul mondo della natura, entra in
contatto con studenti e docenti provenienti da ogni parte d'Europa, venendo
contagiato dalle dottrine religiose predicate da Lutero e Calvino. Si
dedica quindi alla professione esercitando prima a Milano e poi a Bergamo dove
si iscrive al locale ordine dei medici. Dopo aver pubblicamente
manifestato le proprie idee in ambito religioso, che stridevano non poco con il
pensiero cattolico e che si avvicinavano notevolmente a quelle proprie della riforma
protestante, si dedicò attivamente ad un gruppo eterodosso, del quale prese la
guida in seguito all'arresto, con l'accusa di eresia, di Pesenti, il precedente
reggente. Anch'egli venne più volte redarguito dalle gerarchie cattoliche
e costretto a comparire davanti ai tribunali ecclesiastici di Bergamo e Milano.
Questi lo invitarono a ritrattare tutte le sue affermazioni considerate
eretiche tanto da costringerlo ad abiurare. Non rinunciando alle proprie idee,
fu nuovamente sottoposto al giudizio dell'autorità canonica. Il
degenerare della situazione lo obbliga a fuggire dalla città, riparando a
Tirano nel Canton Grigioni, dove dichiarò di non riconoscere l'autorità
dell'inquisizione. Qui trovò ospitalità da esponenti della nobiltà locale
presso i quali ebbe la possibilità di insegnare e praticare la propria
disciplina. Nel frattempo il tribunale ecclesiastico di Bergamo lo
dichiara, in contumacia, eretico colpevole di aver molto straparlato de
le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la autorità del papa...
negare il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti, la venerazione
dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia heretico pertinace
et scandaloso et infame peste contra la fede vietandogli il ritorno nella città
orobica, pena la decapitazione ed il rogo, ponendo sulla sua testa una somma
pari a cinquecento lire e confiscando tutti i beni suoi e della moglie, nel
frattempo rimasta in città. G. comincia quindi a spostarsi in numerose
città d'Europa, tutte poste in ambienti riformati. Si stabilì prima a
Strasburgo ed in seguito a Basilea, città nella quale ebbe modo sia di
praticare medicina (salvando la vita, tra gli altri, a Cardano), che di
assumere la cattedra nella locale università, presso l'ingresso della quale
ancor oggi è presente un suo busto che ne testimonia l'importanza
ricoperta. Muore in terra elvetica, che nel frattempo era diventata la
sua nuova patria. Le sue teorie, che gli valsero la fama di medico e scienziato
tra i più illustri dell'Europa, toccano numerosi punti in ambito filosofico e medico.
Noti sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della memoria,
sulle epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e
veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia, disciplina
abbondantemente sviluppata da Paracelso, che insegnò nell'università di Basilea
soltanto qualche anno prima di G.. Si segnala nel medesimo ateneo sia per
le ricerche che per gli elaborati sulla teoria fisiognomica, in seguito
sviluppata da Lombroso. Menzionato anche in poesie del conterraneo Calvi,
scrive varii saggi filosofici. Tra le altre si segnalano argomentazioni sulle
dottrine del medico greco Galeno di Pergamo e del filosofo ed umanista POMPONAZZI
(si veda), consigli medici per letterati e magistrati, ma anche indicazioni sia
per il mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché
un saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai
viaggiatori di quel tempo. Saggi: De memoria reparanda, augenda ser-vandaque.
De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel peditum, vel
navi, vel curru, seu rheda. Turba Philosophorum. De literatorum et eorum qui
magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque valetitudine compendium,
Pietro Perna, Basilea, Veræ alchemiæ artisque metallicae, citra aenigmata,
doctrina, certusque, Pietro Perna, Basilea, De fato, libero arbitrio et
providentia Dei Pietro Perna, Basilea Alchemiae, quam vocant, artisque
metallicae, doctrina, certusque modus Pietro Perna, Basilea, De balneis,
Bergamo, Della vita degli studi e degli scritti di G. Quaderni brembani Storia
di Milano Caroli, Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a
Freud Meriggi e Pastore Le regole dei mestieri e delle professioni Castoldi
(coordinamento di), Bergamo ed il suo territorio. Dizionario enciclopedico,
Bergamo, Bolis eGallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di G.
filosofo e medico, Bergamo, Stamperia Locatelli, Meriggi, Le regole dei
mestieri e delle professioni: Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, Bottani e
Wanda Taufer, Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento,
Ferrari Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Napoli, Nella Stamperia
de' classici, Maclean, Ian. "Heterodoxy
in Natural Philosophy and Medicine: Pietro Pomponazzi, Guglielmo Gratarolo,
Girolamo Cardano," in Heterodoxy in Early Modern Science and Religion,
edited by John Brooke and Ian Maclean. Oxford. Voci correlate
Fisiognomica Mnemotecnica Peste Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Alessandro Pastore, Dizionario
biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Opere su MLOL,
Horizons Unlimited. Opere su Open Library, Internet Archive. Portale
Biografie Portale Filosofia Portale Medicina Categorie:
Medici italiani Filosofi italiani Medici Nati a Bergamo Morti a Basilea Scienziati
italiani [altre]. Grataroli in sospetto
di ave- re abiurata
la fede Ortodossa
, e divenuto
reo presso i
sacri Inquisitori del
Santo Of- fizio
P vedendosi vicino
ad essere carcera-
to, siccome ben si
meritava, prese il
par.- tiro di
fuggirsene , e
mendico si trasferì
nella Rezia »
. Ma salva
la stima e
la ve- nerazione ,
che si deve
alF autorità di
cosi riputati Istorici ,
esigge V amor
del vero >
che io faccia
riflettere a miei
lettori , che siccome
nessuno de' medesimi
ha citato ve-
run documento in
prova di quanto
hanno riferito , così
io non sono
tenuto a con-
formarmi alle loro
asserzioni, e specialmen-
te a quelle
del Papadopoli , perchè
secon- do che lo
stesso scrive (22),
il Vermilli abbandonò
Padova Tanno 1527.,
tempo nel quale
il Grataroli non
solo per anco
era stato in
quella Città , ma
di piti non
contava allora se
non Y undecimo
anno di sua
età . Prescindendo adunque
dall' auto- rità dei
nominati scrittori sulla
condotta del Grataroli ,
sono d' opinione
, che non
abbia giammai abiurato
la cattolica religio-
ne , né che
mai abbia scritto
proposizioni contrarie alle
dottrine della medesima;
ben- sì varie circostanze
di sua vita
, ed in oltre quanto
hanno scritto di
lui parecchi oltramontani , possano
cagionare gravissimi sospetti
che ancor esso
sia sortito dall'
Ita- lia per motivo
di religione .
Ma certa co- vi
ò che
qualora fosse stato
gravemente sospetto di
errori contro la
nostra Santa Cattolica
Chiesa , e
molto più disseminato-
re palesemente di quelli
di Lutero e
de' Sacramcntarj ,
non sarebbe stato
aggregato al Collegio
de' Medici dalla sua
patria, non averebbe
potuto vivere sicuro
e tranquillo in
Bergamo per lo
spazio di undici
anni -> quanti
ne scorsero dall'
anno della sua
ag- gregazione pìV almo
Collegio de' Medici
si- no all' anno
1550.^ in cui
sortì d'Italia; essendo
senza alcun dubbio
il sacro Tribu-
nale della Santa Inquisizione
in quel tem-
po vigilantissimo, e la
nazione Bergamasca zelantissima
essendo stata in
qualunque tem- po dei
santissimi Dogmi della
Chiesa Ro- mana .
Di più ciò
, che deve
maggiormen- te convincere i
miei lettori, che
il nostro Gii-
lielmo non abbia
abbiurata la sua
religio- ne • pubicamente ,
si è il
leggersi nella Dedicatoria
dell' altre volte
citato libro (23)
» Re girne
n Omnium iter
agentium » questa
protesta » :
riguardo alla mia
per- sona P che
mi trovo profugo
> e lontano
dalla mia patria ,
dalla quale sono
più di dieci
anni , che per
la Dio mercè
mi tro- vo absente
per puro amore
della verità , e della giustizia
»: dunque non
per abbiu- rare
la religione ;
che anzi sulla
fine della medesima
Dedicatoria dopo di
avere nar- rato che
ancora la famiglia
del Principe suo
mecenate si era
già da un
secolo stabi- lita in
Germania , ed
abbandonata V Italia
, fa il
seguente voto »:
voglia però il
poten- te e giustissimo
Dio^ che per
la maggior sua
gloria , se
così piacerà anche
a sua Divina
Maestà un giorno
si possano rivedere
le nostre patrie
-(24), Oltre di
che 12 niente
si trova negli
scritti del Grataroìi
, che lo
dimostri o seguace
degli errori che
infierivano in quello
sfortunato secolo ,
o contrario a
verun dogma Cattolico
Roma- no ; anzi air
opposto posso con
ragione dedurre dalla
Prefazione premessa dal
me- desimo nel principio
della seconda edi-
zione del suo libro
De Incantationibus di
Pietro Pomponacio (25)
che egli per
io meno sino
air anno 1567.,
cioè a di- re
sino al
penultimo della sua
vita si con-
servasse , e si
pregiasse di vivere
attacca- rissimo alla
religione Ortodossa: poiché
ec« co la
sua dichiarazione (26)
» ivi , co- si parla
de' suoi commenti
ai libri di
Poni- jxmacio , si
spiegano secondo le
più sane dottrine
della Fede Cattolica
varj dei più
difficili capi e
quistioni di Teologia
e di Filosofia ,
e da per
tutto vengono illustra-
te da molti diversi
tratti d' Istoria
dall' Autore ,
il quale si
sottomette intieramen- te al
giudizio delle Scritture
Canoniche e elei
Santi Dottori ».
Ora come mai
dopo una cosi
pubblica protesta e
dichiarazione, si deve
scrivere, che il
Grataroìi abbia ab- bi
arato il
Catolicismo , e
professata la re-
ne Protestante, Ma
quella poi che
so- vra ogni altra
ragione mi fa
credere ohe f;li
sopracittati scrittori abbiano
preso sba- glio ,
si è che
il Padre Donato
Calvi , ai- tretanto
religiosissimo quanto minutissimo
compilatore della Storia
di Bergamo e
del- la maggior parte
degli Uomini di
lettere Bergamaschi nella
sua Scena Letteraria
(27), e nelle
sue Effemeridi, (28)
avendo diffusamente parlato
con molta lode
della vita e
delle opere di
questo eccellente Me-
dico , e Filosofo
, non scrive
che per ab-
biurare la religione
abbia abbandonata la
sua patria ;
anzi ne parla
in modo ,
dan- do moltissimi encomj
anche alle sue
virtù morali, che
non lascia alcun
luogo di du-
bitare , che creduto
non Io abbia
Cattoli. co, e
che avesse il
menomo sospetto, che
si fosse portato
in Germania per
professa- rvi T eresia:
perchè ecco come
dice: » Non
si ponno di
questo virtuoso descrivere
le azioni senza
levarsi dalla strada
battuta del- le dozzinali
lodi » .
Quando air opposto
di parecchi altri
, quantunque dottissimi
Letterati , tra' quali Girolamo
Zanchi , che
avendo per loro
infelice sorte abbandona-
ta la Romana Cattolica
Religione per pro-
fessare tra"* Luterani la
pretesa riforma ,
non solo non
ne ha fatti
gli Elogi, sicco-
me kcc del Grataroli,
ma neppure ha
vo- l 34
luto registrare i
loro nomi nelle
sue Ope- re .
Né la pia
e religiosa penna
del colto Poeta
Antonio Tirabosco (29)
Dottore di Sacra
Teologia ^ e
Rettore titolato di
S. Michele dell'Arco
averebbe scritto ed
uni- to all' elogio
del Grataroli composto
dal Padre Donato
Calvi il leggiadro
Sonetto , quantunque
lo stile del
medesimo sia se-
condo il genio del
suo secolo ,
che in- comincia :
» Questa tomba
non è funesto
avello » Conviene
però altresì confessare ,
che la sua
improvvisa partenza dalT
Italia , il
suo stabilimento nelle
Città infette d'
eresia , il
commercio epistolare che
mantenne con Girolamo
Zanchi , e
con Teodoro Beza
, ed ugualmente
con molti altri
de*' più fa-
natici novatori di que' tempi,
come si rac-
coglierà nel progresso di
questa vita ,
ed il latte
infetto succhiato nella
sua fresca età
nello studio di
Padova , abbiano dato
motivo di giudicare,
che facilmente si
fos- se accomodato ancor
esso a pensare
e par- lare ,
siccome facevano tutti
quelli, i qua-
li nel suo secolo
desideravano d' essere
ri- putati sublimi e
peregrini ingegni , e
che però presso
gli imperiti zelanti ,
e gli in-
vidiosi de' suoi talenti,
e del suo
sapere 35 cadesse
in grave sospetto
che avesse solen-
nemente abbiurata la Cattolica
religione , e
pubblicamente professata la
protestante; e questo
sia stato il
vero motivo , che
lo constringesse a
ricoverarsi in Germania
• Non voglio
in oltre ommettere
un' altra ragione,
che hanno tutti
quelli che preten-
dono , che il
Grataroli abbia abbandonata
la patria per
motivo di religione ,
senza però che
abbiano dimostrato ,
che egli giammai
insegnasse errori, o
abbracciasse la setta
di qualche eresiarca
, sebbene lo
sup- pongano li sopraccittati
scrittori . Questa
nuova ragione è
perchè Girolamo Zanchi
scrive quanto segue
a Giusto Voltejo
(30): » Mi
congratulo con voi
della pace ,
e del- la concordia
, che tranquillamente godete
, e che al numero
degli ottimi e
dottissimi Uomini , di
cui abbonda la
vostra scuola abbiate
aggiunto il veramente
pio e vera-
mente dotto Medico Gulielmo
Grataroli . Spero
che ancor esso
sia per diportarsi
presso di voi
in modo che
non abbiate da
pentirvi di averlo
costì chiamato , e
che voi altresì
siate per trattarlo
in guisa, che
non abbia giammai
di lagnarsi di
esservi venuto .
Nella mia , e
sua patria era
tenu- to in
molta stima e
venerazione , ed era
3* molto ricco
. Il zelo soltanto
per la pietà
e per la
religione lo rese
povero in mo- do
j che
ultimamente gli è
stata confiscata persino
la dote alla
di lui moglie
, che ascendeva
a coronati ottocento,
unicamen- te perchè volle
seguire il marito
e la sua religione .
Non dubito pertanto
, che se
vi sta a cuore la
pietà' e la
virtù , vi
sa- rà carissimo questo
uomo illustre sì
per la pietà,
che per la
virtù. State sano
». Ad ogni
modo mi confermo
maggiormente , che
non abbia abbandonata
la patria per
abbiurare la religione
, mentre non
poteva essere malcontento
della medesima 5*
poiché era molto
onorato ed assai
stimato, goden- do tutte
le comodità possibili ,
ritrovando- si molto ricco
e bene accasato
con una moglie
virtuosa ed amorosa
, che con
ra- ro esempio volle
seguirlo in Germania
col sacrifizio di
quanto possedeva .
Si è vedu-
to chiaramente da quanto
ne scrive il
Zanchi nella riferita
lettera, in grazia
del- la quale giacche
si è dovuto
rapportare Y azione
virtuosa della leale
compagna di Gu-
lielmo . Diro
adesso , che
questa era Bar-
bara Nicosi : ma
il tempo in
cui avesse seco
contratto matrimonio ,
e la Città
nel- la quale fosse
nata,, per quante ricerche
ab- 37 bia
usate non mi
è riuscito di
averne preci- sa notizia
« Non posso
affermare con sicu-
rezza in quale
Città della Germania
siasi primieramente ricoverato appena
sortito dair Italia
: nulla di
meno potrei credere
che la risoluzione
presa di abbandonare
la patria sia
nata nel Grataroli unicamente
per quel genio
che hanno tutti
i letterati per
la quiete e
per la tranquillità
; e que-
ste non poteva sicuramente
godere in nes-
suna parte dell'
Italia , perchè
era piena di
confusione e di
disordini cagionati dal-
le passate guerre
, dalie innovazioni de*
governi , e
per la vigilanza
e timori in
cui viveva la
Corte di Roma
, accioc- ché
non s' introducessero in
queste no- stre
parti gli errori
di Lutero e
le oltra- montane
opinioni % siccome
ne parlano tutte
le Istorie di
quel secolo •
Essendo in quel
tempo le Città
della Rezia libe-
re dalle guerre
e da' stranieri
governi ^ godevano tanta
pace e sicurezza,
che sem- bravano divenute V
asilo di tutti
i più ar-
diti genj amanti
di pensare e
di parlare con
libertà • Così
Guglielmo sedotto dair
esempio di parecchi
suoi amici e
conoscen- ti , forse
per questa unica
ragione ^ avrà
abbandonata la patria
, indirizzando i
suoi 2« passi
in quelle parti .
Tanto più che
rile- vo aver sempre
conservata una costante
amicizia ed una
continuata corrispondenza con
Girolamo Zanchi sino
dalla sua prima
gioventù, e ritrovo
una lettera nelle
opere dello stesso
Zanchi allora dimorante
in Mar- purgo
, nella quale
parla del Grataroli
di fresco arrivato
in Germania. Con
questo fondamento , posso
stabilire , che
il primo piede
T abbia posto
in Argentina , e
colà fosse raccomandato
dal Zanchi a
Giovanni Garnero pubblico
Professore in quella
Uni- versità , mentre
nella detta lettera
, che quasi
intiera dal latino
ho tradotto ,
per- chè rara ,
perchè interessante per
le noti- zie che
in essa si
leggono , e
perchè fa egualmente
onore al buon
animo dello Zanchi,
ed alle virtù
del Grataroli, si
leg- ge: (31) »
Ecco finalmente, carissimo
com- pare , che
se ne giunge
presso di voi
il tanto desiderato
non dirò mio
, ma piut-
tosto vostro Gulielmo Grataroli ,
personag- gio veramente ,
siccome in fatti
non du- bito che
lo troverete , in materia
di reli- gione purissimo ed
irreprensibile , e
nello stesso tempo
nella medica scienza
eccellen- tissimo . Voi
ben vi rammentare
te , come
allorché avevo la
bella sorte di
trovarmi 39 presso
di voi, non
cessava di commendar-
lo , e che
ve lo raccomandava appunto
per coteste due
sue doti e
singolari virtù. Non
dubito punto, e
sono pieno di
fidu- cia , che
tosto che Y
averete veduto , con-
correrete con tutti i vostri voti
ad appro- vare
gli encomj giustamente
al medesimo tributati.
Egli è a
dire il vero
piuttosto bruno e
fosco di colore
e di capelli
; ma lo
sperimenterete in tutto
, sì ne
suoi di- scorsi ,
che nelle sue
azioni ed affari
can- didissimo , onesto
e sincero , in
guisa che sovente
a cagione di
tale troppo suo
sin- cero carattere incontra
Y odiosità e
la di- sapprovazione degli uomini
di corta pene-
trazione e di poca
esperienza del mondo
. Voi stesso ,
Compare carissimo ,
vi trovate in
un consimile ruolo
; e per
verità ciò non
ostante , conforme voi
medesimo ave- te imparato
dall' uso e
dalla esperienza ,
è necessario , o
per lo meno
giova più nei
giornalieri nostri discorsi
e conversazioni sa-
per dissimulare e serbare
le nostre giusti-
ficazioni a tempo
e luogo più
commodo e più
opportuno, non essendo
tutti gli uo-
mini dotati dello stesso
candore, della stes-
sa onoratezza , e
della medesima probità
# Sarà dunque
vostrp impegno adesso
, ve- 4°
neratissimo Compare, giacché
avete per cosi
lungo tempo costì
dimorato , e che
avere conosciuto i
costumi ed il
naturale di tat-
ti assai meglio di
questo Medico ,
istruirlo e diriggerlo
come debba condursi
cok tut- ti, conforme
avete usato con
esso meco, al-
lorché giunsi in Argentina
: sostenere ,
di- fendere il di
lui onore ed
estimazione , e prestargli
ogni buon servigio,
come si con-
viene dall' amico air
amico , e
dal fratello al
fratello . Mi e
nota la vostra
pietà , so
quale sia il
vostro amore per
i vostri si-
mili : conosco quale
sia il candore
dell' animo vostro:
so in fine,
ed ho sperimen-
tato quanto sia grande
la vostra benefi-
cenza verso tutto il
mondo . E
però non dubito
che voi non
siate per giovare
ai Grataroli assai
più di quello
eh' io non
saprei da voi
ricercare • Concedetemi
che io vi
rammemori , che
mentre si trovava
ancora in Francia
Pietro Vermilli ,
appena ricevette le
mie commendatizie presso
il Beza a
vostro favore ,
( che effettivamen-
te molto aggradì quanto
di voi scrivevo
in vostra lode
), vi fece
ogni buon ac-
coglimento e buon trattamento ,
e si con-
solo di aver scoperto
•> che tutto
ciò , si era
sparso contro la
vostra persona %
erano 4i prette
calunnie; e non
dubito che se
non vi hanno
ancora invitato ->
presto non sia-
no per invitarvi ,
perchè abbisognano di
soggetti di merito
simili a voi »
. Dopo
di- verse altre materie
, che non
appartengo- no a Gulielmo
, così termina
questa lette- ra »
Averete nuove del
mio stato ,
e di questa
Città dal nostro
Grataroli. State sa-
no, e salutatemi anche
la Comare in
no- me ancora della
mia Conserte »
. Tratte- nutosi poco
tempo il Grataroli
in Argenti- na ,
T amico suo
Girolamo Zanchi effica-
cemente lo raccomandò a
Teodoro Beza ^
, che allora
dimorava in Basilea
> dove era
in grandissima riputazione
, e godeva
un sommo credito
, e con
il quale contrasse
strettissima amicizia •
Benché il Beza
fosse assai cauto
e circospetto nelf
elezione de* suoi
amici ; siccome
osserva il Maizeaux
Commentatore del Critico
ed Istorico Di- zionario
di Pietro Bayle
all' articolo Beza
j ove riporta
le seguenti parole
di S. Fran-
cesco d« Sales (32)
»: non faceva
( par- la de!
Beza ) passo
senza un cumulo
gran- de di precauzioni ,
e senza pigliar
cento e mille
misure ., non
costumando di pra-
ticar nessuno senza esser
sicuro d' una
in- veterata conoscenza
» ; pure
divenne suo 42
intimo confidente ,
come appare dalle
let- tere del Beza
Latine trasportate in
lingua Italiana , che
qui credo cosa
necessaria di intieramente
riportare , essendo
le medesi- me rarissime,
ed assai difficili
in queste no-
stre parti a ritrovarsi
(33) • A
GULIELMO GRATAROLO MEDICO
E FILOSOFO. Mio
caro Grataroli ho
ricevuto la vo-
stra graditissima lettera unitamente
ai con- saputi libri , dei
quali vi rendo
infinitissi- me grazie; ma
averei anche assai
più gra- dito ,
se nello stesso
tempo mi aveste
spe- dita queir opera
del nostro Celio
, (34) »
Dell Amplerà del
regno di Dio
» stam- pata nella
Rezia ^ che
vi avevo ricercata
% e vi
prego che mi
giunga più speditamen-
te vi sarà possibile
. L' importo
della me- desima vi
sarà contato da
questo nostro Crispino .
Circa il libro
di Pomponacio non
ho ancora avuto
tempo di vederlo
: subito che
Y averò letto ,
vi scriverò cori
piena libertà il
mio sentimento •
Riguardo alla connota
confessione (35) intanto
io non ve
ne ho spedito
la copia ,
in quan- to che
supponevo ne andassero
intorno da 4?
per tutto , perche
di questa mi
sono state da
diverse parti scritte
moltissime lettere ♦
Vi auguro perfetta
salute ottimo mio
Fratello . (3
gli prenderanno i
Librari suoi compagni
di viaggio ,
e con loro
comodo mi saranno
portati • Vedete
adesso in che
modo > e
con quanta libertà
mi prevalgo delle
vostre grazie :
comandate ancor voi
scambievol- mente tutto ciò
che io possa
fare per voi ,
ed in vostro
nome , e
vivete sicuro ^
che siete da
me sommamente stimato
ed amato »
Appena arrivato in
Basilea ^ non tan-
to per le raccomandazioni ,
quanto ptrr la
sua virtù fu
ricevuto Professore di
Medi- cina in quella
Città , in
cui esercitando pubblicamente
T arte sua
fece mostra del
suo perspicace talento
e della sua
profon- da dottrina ,
non solo con
le erudite ope-
re j che diede
alle stampe ^
ma eziandio colle
prodigiose cure che
fece . Onde
in brevissimo tempo
in tanta fama
salì ^ che
4* passato appena
il corso di
circa due anni
venne ricercato con
grande impegno dal!'
Accademia di Marpurgo
a coprire la
Cat- tedra di medicina,
essendo mancato di
vi- ta Corrado Kuvnero
: il che
diede giusto motivo
al Zanchi di
congratularsi con il
Voltejo , come
si è veduto
neir enunciata lettera ,
del fortunato acquisto
, che fatto
avevano i Marpurghesi
di un cosi
famoso Professore . Non fece
lunga dimora il
Gra- taroli in
Marpurgo , quantunque assai
sti- mato ed amato
.> poiché appena
passato il corso
di un anno,
con universale dispiace-
re di quella Città
a Basilea fece
ritorno . Quali fossero
i veri motivi,
per i quali
co- sì presto abbandonasse
una Città nella
qua- le era da
ogni sorta di
persone gradito amato
e ben veduto
, dove copriva
una luminosa Cattedra ,
e godeva un
abbon- dante provvisione, non
mi è sortito
di rin- venirli .
Se presto però
fede a Pietro
Ni- gidio (40) ,
il quale per
la particolare sti-
ma , che professava
alla virtù ed
alle rare doti
di questo celebre
Medico Filosofo ne
scrisse in versi
la vita , sembra che
abbia abbandonata la
Città di Marpurgo,
o per- chè l'aria
troppo rigida di
quel clima non
fosse coufacevolc al
suo temperamento ,
o 47 perchè
avesse impressi nell'
animo i piace-
ri , i comodi
, ed i
vantaggi , che
goduti aveva in
Basilea , ove
fece ritorno .
Ecco i suoi
versi : »
Nobilis hunc mìfit
Catàs Bafilea «,
fed anno »
Vix ferrici exacio
rurfus eo redìit
: » Sire
quodHaJJiaco non pojjet
vivere coe/o> »
Sive quod in
votis urbs Bajìlea
forct. Non si
deve però credere
, che do- po
H suo
ristabilimento in Basilea
siasi Gu- lielmo
abbandonato all'ozio ed
alla quiete > e
che abbia trascurato
il lodevole metodo
de' suoi studj
e delle sue
fatiche , perchè
anzi le erudite
Opere date alla
luce in cia-
scun anno in cui
visse , sono
una prova evidente
, che tutto
il tempo nel
quale non era
occupato alla cura
degli infermi > o pure
ad istruire dalla
Cattedra i suoi
scolari, lo impiegava
a comporre delle
ope- re di varie
qualità , che
versavano sopra materie
ed argomenti utili
e necessarj air
umanità , per
soddisfare al vivo
desiderio , che sempre
nudrì di recare
giovamento al- le persone
d' ogni classe
e d' ogni
età • Molte
furono le opere
, che fece
sortire da^ pubblici
torchj di Basilea
, e tra
que- 48 ste
la prima a
me nota fu
quella, che ha
per titolo »
Prognostica natura Ila
de terri~ porum
tnutatìonè perpetua ordine
littera- rum »
impressa da Jacopo
Pareo Y anno
1552., che con
qualche aggiunta nel
suc- cessivo anno fu
parimenti ristampata in
Basilea da Michele
Episcopio, indi in Zu- rigo dal
Gesnero nell'anno * 5 $•
e ^a Gabriele
Coterio in Lione
nell* anno istes-
so, ma più
vicino a noi
da Giovanni Ve-
chelio in Francfor
Tanno 1591. Questo
erudito utilissimo libro
con elegante e
giu- diziosa lettera dedicatoria
primieramente lo indirizzò
alla Maestà di
Odoardo VI. Re
d' Inghilterra rapito
nello stesso anno
ai viventi .
Il Grataroli ,
che bramava per
questa sua fatica
un Mecenate coronato
e potente ,
dedicò la seconda
edizione assai più
corretta ampliata e
perfezionata a Mas-
similiano II. Re di
Boemia, del quale
ono- re fece prevenire
quel Monarca col
mezzo di Giuseppe
Salando Archiatró della
Sere- nissima sua Sposa
, e da
lungo tempo in-
trinseco amico ed affezionato
suo concitta- dino ,
come si rileva
dalla lettera dedica-
toria de7 suoi Opuscoli, dove
scrive (41)» Raccomando
poi umilmente alla
vostra Maestà ,
e tutta intieramente
consagro la 49
mia persona .
Quale io mi
sia^ se da
altri per la
troppa distanza dei
luoghi non vi
fosse noto *
lo potrete agevolmente
sapere da Giuseppe
Salando eccellente e
perspica- ce Medico della
Reale vostra Sposa
, col quale
già da lungo
tempo ci siamo
fami- gliarmente trattati
» . Non
rincresca al let-
tore di questa vita n se
interrompo 1' ordi-
ne della Storia per
inserire alcune notizie
relative ad un
mio Compatriota di
sommo grido e
d' inestimabile merito
nell' arte me-
dica y e che
fece molto onore
alla Città in
cui nacque. Sortì
i suoi natali
Giuseppe Salando in
Bergamo , nella
sua fresca età
studiò medicina in
Padova , conseguì
la laurea dottorale,
coprì nell'anno 1540,
in quella Università
la Cattedra della
seconda scuola di
medicina pratica straordinaria nei
giorni di vacanza
, che tre
anni innanzi era
stata occupata da
Guglielmo Grataroli (42).
Dopo due annij
cioè l'anno 1542.
succedette il Salandi
a Girolamo Donzelli-
no nella Cattedra della
seconda scuola di
medicina teorica straordinaria
: esercitò la
me- dicina in diversi
luoghi e Città
della Lom- bardia :
indi passò nella
Stiria , in
cui per la
felicità delle sue
cure si rese
così cele- bre e
rinomato , che
Ferdinando Impera- 4 tore
verso gli ultimi
anni di sua
vita lo fece
venire alla sua
imperiai Corte ^
e fu dichiarato
Archiacro Palatino sotto
Massi- miliano II. Passato
a miglior vita
Massimi- liano , il
Salando si trasportò
in Milano ,
dove esercitò per
lungo corso di
tempo con favorevole
sorte la sua
professione • Finalmente
carico d' anni
, ma nello stes- so tempo
forte e vigoroso,
si ritirò in
Sa- lò territorio Bresciano,
in cui stabilì
il suo soggiorno
, e dove
mori Y anno 1
6 ;
o. nella sorprendente
età di cento
e più an- ni
, Ebbe
un figlio professore
anch' esso di
medicina chiamato Ferdinando,
il quale as-
serisce , che il
padre suo diede
alle stam- pe in
Milano un volume
di consulti me-
dici , ed in
Venezia un erudito
trattato » De
Panacea , feti
clixìr vitti? »
, e dicesi
essere lui stato
il primo ,
che un cosi
ef- ficace rimedio ritrovasse
» (43) Ritornan-
do alle opere di
Gulitlmo stampate in Ba- silea trovo
che nell'anno 15 67.
con le stampe
Heripetrine diede alla
luce il libro
di Pomponacio »
De Incantino nìhus »
che in quel
secolo ed in
que* tempi faceva
grandissimo strepito, siccome
a nostri gior-
ni è s:guito delie
opere di Voltaire
e di Rousseau
appresso di coloro,
che non ama-
5* no le
letture troppo serie
e profonde ,
e lo dedicò
a Federico Conte
Palatino suo protettore
, siccome aveva
fatto dieci anni
prima dell' opera
stessa con il
Principe Ot- tone Enrico
Elettore Palatino , benché
ac- cresciuta e decorata
la prima di
molte no- te ,
ed osservazioni eruditissime; per
le quali si
rileva dalla dedicatoria premessa
alla seconda edizione
, che venne
il Gra- taroli
onorato di obbliganti
ringraziamenti fatti con
graziosa lettera scrittagli
di pro- prio pugno
da quel magnanimo
Elettore , dove
dice » (44)
La parte di
questo li- bro, che
tratta delle cause
degli effetti na-
turali , o sia
degli Incantesimi , fatta
da me stampare ,
sono già più
di dieci anni
, T avevo
dedicata e spedita
air Illustrissimo Principe
Ottone Enrico di
felice memoria, e
sua Altezza non
isdegnò di ringraziarmi
con lettere di
suo proprio pugno
, e di
assicurarmi di esserne
memore in avveni-
re , lo che
potrà seguire nell'
altra vita , poiché
poco dopo per
grave infermità ces-
sò di vivere ».
L'altra vantaggiosissima fa-
tica { che nel
tempo stesso sorti
da torchj di
Vindelino Richelio in
Argentina , fu quella ,
che ha per
titolo » Regimen
omnium iter agentiurn
» consagrata ad
Ege- 52 nolfo
Barone, e Signore
di Bapolstein Ho-
chen Ack e
Gerolzeck presso Vassichin
# Scelse quesxo
Principe per suo
Mecenate , essendo
originario anch' esso
d' Italia ,
e sortitone per
i medesimi motivi
di Guliel- mo ,
benché in tempi
assai più rimoti ,
leggendosi nella sopracitata Prefazione .
(45) » Finalmente
lo splendore della
vo- stra nobiltà, che
non va disgiunto
da una sincera
pietà e da un rispettabile
dominio, è penetrato
sino nelle mie
stanze ; ed
es- sendo ancor'
io Italiano ,
ho potuto age-
volmente avere contezza anche
della forza dell'
antichissima Italiana vostra
origine ; e
se fosse lecito
paragonare le picciole
cose con le
grandi , vedo che
nei siamo stati
costretti ad abbandonare le
proprie abita- zioni
per motivi non
affatto dissimili ., ben-
ché in tempi assai
differenti . Faccia però
1' onnipotente e
giustissimo Dio per
la maggiore sua
gloria, se così
piacesse anche a
sua Maestà ,
che un giorno
si possano rivedere
le nostre patrie
» . Fu
stampato ancora in
Basilea da Lodovico
Lucio il dottissimo
suo trattato ,
che intitolò »
Po jlis Dcjcripuo
i Caujja y
Signa omnigena *
& Vrocjervaùo »
, il quale
venne dedicato al
Nobile,, e Magnifico
Ascanio Marzo Ani-
5? basciatore Cesareo
presso gli Svizzeri,
ami- cissimo sino da
lungo tempo di
Gulielmo. Devo altresì
alle sopracitate Opere
aggiun- gere un libro
sopra un importantissimo argomento,
quale è quello
della sanità dei
Letterati , con questo
frontispizio » De
hit- te rato
rum , & eorum
qui Magiftratum gc-
runt confervanda valetudine
» . Questi ebbe
così fortunato incontro ,
che venne tradot-
to da Tommaso Neuton
nella lingua In-
glese, e fatto
stampare in Londra
Tanno 1574. Effettivamente il
Grataioli ha trat-
tato un tale argomento
del tutto nuovo
sino a sue
i tempi con
tanta chiarezza e giusto
criterio, che non
la cede né
al Ra- massini,
né al Pujati,
né al Tissot;
i qua- li hanno
recentemente versato sopra
una così rilevante
materia . Dal Catalogo
dell* altre sue
opere , che per
minor noja del
lettore riporterò terminata
che sarà intera-
mente la presente vita,
si vedrà essere
que- ste in sì
copioso numero, che
recherà sor^ presa
a chiunque in
quale maniera le
ab- bia potute scrivere
, massimamente riflet-
tendo che questo celebre
Medico dalla sua
giovanile età d'
anni ventiuno sino
all' ul- timo giorno
di sua vita
, si trovò
sempre nel gravissimo impegno
di parlare daila
, 54 Cattedra
con incomodissima fatica,
che re- ca irreparabile danno
al petto ed
ai pol- moni ,
ed a tutto
questo aggiungendo i
disagi dei lunghi
e disastrosi viaggi
da es- so fatti
, la mutazione
del clima , la
pas- sione di dover
vivere lontano dagli
amici , dai congiunti,
e dalla patria,
e sopra ogni
altra cosa le
continuate esperienze chimi-
che , alle quali
era veementemente inclina-
to, secondo che me
lo rappresenta il
Lin- denio ,
(46*) accusandolo di
essere procli- ve air
Alchimia » In
Alchimia proclivis »
, si conoscerà
che questo infaticabile
Filoso- fo non poteva
godere lunga vita
. In fat-
ti , benché avesse
sortito un sano
e robu- sto temperamento ,
e sempre fosse
vissuto assai moderato
, lontano dalle
brighe po- litiche, e
dai dissidj scolastici
a segno che
in que' torbidi
tempi di controversie
ripie- ni egli non
impugnò giammai la
penna contro alcuno
, né si
trova eh' altri
abbia scritto contro
di lui e
che anzi moltissimi
Apologisti si ritrovano
, patrocinatori de'
suoi scritti ,
e delle sue
opinioni : ad
ogni modo contratte
alcune infermità, alle
quali vanno soggette
le persone di
lettere , con-
forme egli stesso aveva
istrutta l'umanità) dovette
soddisfare dopo una
penosa inalar- ss
tia di molti
mesi all' ultimo
tributo della natura
nel maggior v'gore
de' suoi anni *
e nel tempo
appunto della sua
più lusin- ghiera fortuna nell'
ancor fresca età
d' an- ni cinquantadue ,
quattro mesi ,
e venti- tré giorni
, avendo cessato
di vivere neli'
anno 15 £8.
il giorno decrmosesto
di Apri- le .
Da ogni classe
ed ordine di
persone , non
solo della città
di Basilea e
di tutta la
Germania , ma
ovunque era giunta
la fama della
virtù e della
dottrina di Gua
lielmo, fu compianta
la sua morte,
poiché avevano perduto
uno de' più
esperti Medi- ci ,
ed uno de*
più riputati Filosofi
di quel secolo
• Dove si
tratta degli uomini
di singolare virtù
e di non
ordinaria dot- trina tutto
deve interessare :
non ommet- terò
per ciò di
far osservare ,
che il Gra-
taroli era di
una figura assai
bene pro- porzionata ,
ed aveva la
cute e la
barba di colore
bruno , per
quanto ha lasciato
scritto Girolamo Zanchi
nella sopracitata lettera
(47) a Giovanni
Garnero . Argo-
mento incontrastabile della celebrità ,
che si era
acquistata, si è
il ritatto ,
che tro- vasi nella
Biblioteca Calcografica di
Gio- vanni Boissard degli
uomini illustri per
virtù ed erudizione
di tutta Y
Europa stara- 5*
pata iti Francfort
nell'anno 1^50. a
spe- se di Giovanni
Ammonio , inciso in
rame da Sebastiano
Furehio , sotto
del quale ritratto
si leggono i
due seguenti latini
versi : i'ìGratarolusV atriaw linquens,
acque Itala nira,
» Germano^ inter
clami t arte viros .
Da questa calcografica
Biblioteca appunto ho
tratta V effigie
di Gulielmo ,
che ho posto
nel frontespizio di
questa vita .
So- pra tutti gli
altri però che
maggiormente si addolorassero
per questa perdita
fu f inconsolabile sua
fedele sposa Barbara
Mi- cosi , che
dopo di avere
continuamente seguite le
varie vicende del
marito , ab-
bandonando amici , congiunti
, patria ,
e persino la
sua dote istessa
, intraprenden- do lunghi
e disastrosi viaggi.,
dovette dell' amato
sposo restarne priva
. Cotanto però
fu sensibile ad
una cosi improvvisa
dis- grazia , la
quale era senza
alcun dubbio la
maggiore che le
potesse accadere, che
con raro esempio
di costante benevolenza
con- iugale que-ta grata
e virtuosa moglie
per dare anche
dopo morte al
marito un du-
revole testimonio
dell'amore, che gli
ave- S7 va
sempre conservato , fece
chiudere le fred-
de sue ceneri in
un avello di
marmo, so- pra del
quale fece scolpire
la seguente iscrizione
. (48) GULIELMO
GRATAROLO BERGOMENSI ARTIUM
AC MEDICINA DOCTORI
MEDICIQUE FILIO IN
MEDICORUM BASILIENSIUM COLLEGIUM
COOPTATO OB RELIGIONEM
EXUI4 CONIUGI CARISSIMO
BARBARA NICOSIA F.
C, OBIIT j£TATIS
SU E ANNO
LII. CHRISTI MDLVIII.
DIE XVI. APRILIS.
Non fu soltanto
il Grataroli onorato
e stimato finche
visse , ma
ancora dopo che
più non si
trovava tra i
viventi ha costantemente
e senza alcuna
inteìruzzione goduta la
stima, e si
è tenuto in
altissimo pregio da
tutto il mondo
dotto . Nessun
Medico di grido
, nessuno Bibliografo
, e nessuno
Scrittore di Storia Letteraria
di qualunque nazione
e religione ha
tralascia- to di fargli
giustissimi elogi e
di profon- dergli infiniti encomj
sino a questi
ultimi 58 secoli
. Pietro Nigidio
(49) il Seniore
Iia composto un
latino Poema per
decantare la virtù
e la dottrina
di questo Medico
Filosofo . Giovanni
Jacopo Boissard (50)
lo chiama Medico
e Filosofo eccellentissimo e
sagacissimo. 1/ erudito Signore
de Thou (51)
l'appella famoso Medico
di Bergamo. Antonio
Teissier (52) lo
caratterizza per un
uomo di una pietà e
di una dottrina
straordinaria. Luigi Moreri
(53) gli dà
il titolo di
Medico Filosofo degno
di cele- brità .
Il Signor d'Eloy
(54) scrive che
fosse uno de'
più celebri medici
del suo secolo.
Nicolò Comneno Papadopoli
(55) gli da
l'elogio, qual soggetto
nobile, di profondissima
dottrina , e che
ha decorata Y
Università di Padova
. I dotti
Autori del nuovo
Dizionario Storico Portatile
(56) lo nominano
Medico valoroso . il
nostro Padre Donato
Calvi (57) benemerito
rac- coglitore della civile
e letteraria Storia
di Bergamo gli
dà i gloriosi
epiteti di pro-
fondità di sapere e
di sublimità di
dottri- na , di
lume della medicina
, e di
virtù e di
azioni superiori ?d
ogni lode .
Tribu- tarono simili meritati
panegirici a Guliclmo
Grataroli , dovunque
ebbero l'opportuni- tà di
rammentarlo nelle loro
opere anche a
59 dottissimi Michele
Gulielmo Linghelscheim (58)
. Abramo Bucholcer
(59); Elia Rus-
nero {do); Ermanno
Coniugio (£1)5 Pas~
quale Gallo {62)
; Paolo Frehero
(tf j) ;
Giovan Antonio Vander
Linden (64); Gior-
gio Abramo Mercklino (6 f)
; Giovanfran- Cesco
Niceron (ótf) ;
Ermanno Boerha- ve
(6*7) ; Alberto
Haller (6"8) ;
Giovan- Jacopo Mangett
(69) ; Antonio
Kiccobo- ni (70):
Filippo Tomasini (71);
Jacopo Facciolati (72) ; 1/ autore
delle Amenità Letterarie
(73); Il celebratissimo Andrea
Pasta (74) ;
ed innumerabili altri
dotti scrittori , che
fatica troppo lunga
sarebbe il yoìerli
qui tutti riportare
. Mi sia
nulla- di meno
concesso di chiudere
la numerazio- ne di
tanti valorosi Letterati ,
e nello stes-
so tempo terminare la
vita di Gulielmo
Grataroli , col
riferire quanto in
lode del medesimo
hanno lasciato scritto
il vera- mente erudito
e sommo critico
Pietro Bay- le (75),
ed il dotto
Signor Maizeaux (76)
suo illustratore .
Il primo lo
chiama sa-* pientissimo
Medicò , ed
eccellentissimo nel- la scienza
fisonomica ; il
secondo chiude il
Commento all' articolo
» Gratarolus n
? con questo
onorifico e meritato
encomio , il
quale acciocché nulla
perda della forza
6o ed energia
io trascriverò nella
lingua ori- ginale ,
in cui fu
scritto dall' autore
me- desimo • »
On ne lui
fcauroit refusar l" èloge
d! avoir cu à
coeur le bien
public ^ puisqà
il à cherchè
non feulement les
remedes^ qui peuvent
jervir aux Magifrats
, mais aujjl
ceux qui font
propres a toutes
forte s de
vojageurs . Il
ri a pas
oubliè les Hommes
dy etude , il
a tachè de
leur fournir des
fecours et pour
la confervation de
la fan- tè
, et pour
la confervation ,
et V angine n-
tation de la
me moire. Un
homme qui leur
fourniroit la deffus
ce , de
quoi ils ont
befoin, mèriteroit les
honneurs divins dans
la republìque des
lettres . La mèmoire
y ejl prefquc
auffi nèceffaire que
la vie »«,
€i CATALOGO DELLE
OPERE DI GULIELMO
GRATAROL1 CON VARIE
ANNOTAZIONI. N on
avendo potuto aver
^ ne vedere
se non una
piccola parte delle
opere di questo
dotto Medico Filosofo ,
ho dovuto formare
il presente Catalogo
sopra altri Cataloghi
e Notizie de'
suoi scritti lasciati
dagli Scrittori della
sua vita ,
i quali per
essere di differenti
nazioni , di
religione e di
professione diversa ,
e perchè scrissero
in tempi assai
distanti V uno
dair altro ,
t loro Cataloghi
si trovano mancanti
, alte- rati ,
confusi , senza
data né di luogo ^
nò di stampatore
, e quello
che è peggio
pie- ni di difetti
e di errori.
Sono perciò assai
lontano dal lusingarmi
, che quello
il qua- le io
qui sottopongo sotto
ai riflessi deir
erudito leggitore ,
sia riuscito compito
e perfetto ,
sebbene non abbia
mancato né di
fatica } ne di
diligenza; ma tutti
i miei sforzi
sono stati infruttuosi ritrovandomi in
una Città quasi
dei tutto sfornita
di 62 antiche
opere oltramontane .
Prevenuto dalle riferite
circostanze chiunque leggerà
questo Catalogo siccome
era necessario ,
aggiungerò al medesimo
alcune note ,
che credo indispensabili ,
e lo dividerò
in ire Classi
. In primo
luogo le opere
dal Gra- ta roli
composte , in
secondo luogo le
Tra- duzioni da esso
fatte , e
per ultimo le al- trui fatiche,
che in diversi
tempi con sue
note ed illustrazioni
fece stampare . I.
» Prognojlica naturalia
de tempo- rum
omnimoda mtuatione , perpetua
& cer- ùjjìma
Jigna rerum, quoe
in Aere, Terra,
aia Aqua funt ,
aut Jìunt ,
krevìter , & dare
, ordine que alphabetico
de J cripta per Gulielmum
Gratarohun Medicum P/iy/i-
cum y cuni
Addinone undcam fìgnorum
Mo- tus Terra:
, ex Antonio
Mi^aldo . Basilea? apud
Jacobum Pareum .
1552. in 8.
Ibi- dem apud Nicolaum
Episcopium • 1
5 54. in
8. Tiguri 1555.
in 8. Argentorati
16*55. in 8.
apud Iacobum Ofemianum
. V opera
indicata , con
le altre due
» De Memoria
reparanda t e
» De Prje-
diclione morum »
> si trovano
unite tiell* accennata
edizione di Argentina
alli Trat- tati di
Chiromanzia , e
di Astrologia natu-
rale di Giovanni Indagine
, o sia
Giovali- ni Hagen
dotto Certosino del
decimoquin- to secolo ?
ed al libro
» De Sculptura
» di Pompeo
Gauricio Matematico Napolita-
no . Perchè il
Grataroli non venga
taccia- to di superstizione
o di puerile
credulità a motivo
delle cose da
esso scritte parlan-
do dei Pronostici naturali
e della Predi-
zione dei costumi ,
credo cosa necessaria
fedelmente trascrivere la
Protesta , o
sia Avvertimento al
Lettore, che si
trova nel- la edizione
di Argentina (77)
» Devi poi
» avvertire ,
che generalmente parlando
le » cose
dette si verificano
nella gente gros-
» solana y
vale a dire
di coloro ,
i quali »
non sono rigenerati
dallo spirito e
dalla » grazia
di Dio ,
perchè di questi
è vero »
ciò che dicesi
della depravata natura
in » Adamo
, che »
Naturce fequitur femina
quifque fucc »
: Ma air
opposto i rigenerati
» dallo Spirito
Santo mortificano la
pro- « pria
carne con i
suoi vizj ,
e con le
» sue concupiscenze
, sebbene la
concu- » piscenza
ed il fomite
del peccato vi
re- » stino
sempre , e
da moltissimi ,
o Dio ,
» anche pur
troppo si riducano
alla pra- »
tica », A
gloria di Gulielmo
riporterò anche la sua opinione
sopra la causa
del flusso e
riflusso del mare
r avendo preco-
6A Aizzato più
di due secoli
prima quasi in-
tieramente il sistema del
rinomatissimo Ca- valiere Isacco Neuton
circa lo stesso
feno- meno : opinione
approvata ed insegnata
da quasi tutti
i Filosofi posteriori
a quel subitine
Geometra » :
Il moto periodico
del- ia Luna ha
grande predominio sopra
li corpi fluidi
, quindi fa
che il mare
s in- nalzi e
si abbassi ^
singolarmente per una
particolare di lei
influenza , e
ne segua il
flusso , ed
il riflusso secondo
i differenti aspetti
relativi alla medesima
, e secondo
che questi accadono
nella maggiore ->
o minore forza
della sua influenza
: Accade ciò
perchè la Luna
ha bensì certa
in- fluenza coir Oceano ,
ma non già
coi la- ghi e
coi mari di
poco estesa superficie
. Per la
qual cosa mentre
quel Pianeta si
muove dall' Oriente
verso il mezzo
gior- no , fa
che la superficie
del mare s'
innal- zi , e
che conseguentemente ne
segua il riflusso
medesimo . Quando
poi si muove
dal mezzo giorno
verso Y occidente
fa che il
mare si abbassi ,
e però ne
nasce il ri-
flusso . Similmente allorché
la Luna si
muove dall' occidente
verso V angolo
della notte ,
o sia da
settentrione verso V
o- i icnte
, ne segue
nuovamente il riflusso
r> II. »
Guliclmi Grataroli Bergomatis
Artium > &
Mediani? Docloris de
Memo- ria reparanda ,
augenda > fervandaque
, Liber omnimoda
Remedia > &
Pnzceptio- nes continens
cujufivis facultans jhuliofis
apprime utilis «,
immo maxime necejjlvius
, Tiguri ?
apud Andream Gesneruni
1554. in 8.
, Basilea apud
Nicolaum Episcopium 1554.
in 8., Lugduni
, apud Gabrielem
Coterium 1555. in
8., Francofurti apud
Joannem Vichelium 1591.
in 12. Ibidem
apud Viduam Petri
Fischeri 1596. in
12., Argentorati 16$
$. in 8.
» Nel frontespi-
zio dell'accennata edizione di
Argentina si trovano
queste parole :
» Omnia ab
An- afore correcla P
ancia finis >
6' ultimo edi-
ta «. La stessa
Opera » De
Memoria re- paranda »
è stata stampata
unitamente all' altro
libro del Grataroli
» De confervanda
Valetudine » da
Enrico Rantzovio .
Ili » De
Prcediclione morum ^
na- turaque hominum,
cum ex infipeclione
par* tìum corporis
> tutu aids
modis «> Anelare
Gulielmo Gratarolo Medico
, & Philojo-
pho B ergo
mate • Basilea
1554» in 8.,
Ti- guri apud Andream
Gesnerum 1555. in 8.
, Lugduni apud
Gabrielem Coterium , &*
Argentorati 1 6*5
3» Li tre
accennati libri S
66 » De
Memoria reparanda: De
Temporum omnimoda mutatìone
Prognofìica: De Prce*
diclione morum »
furono dati alla
luce per la
prima vo?ta dal
Grataroli in Basilea
, e dedicati
ad Edoardo VI.
Re d'Inghilterra; siccome
pure la seconda
edizione di tali
Opuscoli fatta nella
medesima Città nell*
anno 1554. fu
consagrata a Massimiliano
II. Re di
Boemia lutto questo
evidente- mente si
rileva dal primo
periodo della Dedicatoria
medesima al secondo
dei com- mendati Sovrani ,
la quale cosi
incomin- cia (J9) »
Nello scorso anno,
ottimo Re, per
le pressanti istanze
degli amici e
del- io stampatore >
sono stato costretto
a dare alle
stampe assai più
presto di quello
che averei desiderato
tre miei libretti
intorno ai quali
erano già molti
mesi che affatica-
va , e perchè
essendo assente ,
molti er- rori corsero
nello stamparli, però
riveduta di nuovo
queir opera , non
solo ne cor-
ressi i difetti
, ma in
oltre impiegando ogni
possibile diligenza ed
applicazione , e prestandovi
, come si
suol dire ,
V ultima mano
, F ho
accresciuta di parecchie
belle aggiunte a
segno, che la
presente edizio- ne è superiore alla
prima siccome lo è un
parto di nove
mesi a quello
di soli sette
, *7 o
pure Toro fino
ali* argento •
Avevo de- dicata la
prima ad Edoardo
VI. Re d' In-
ghilterra , il quale
innanzi anche di
aver- ne notizia ,
non che di
averla potuta ve-
dere, fu costretto infelicemente
a cambiare la
vita con la
morte ». Tale
Dedicatoria fu scritta
in- Basilea nel mese
di Febbrajo deiranno
1554. Nondimeno non
posso accertare in
quale città siano
stati stampa- ti li
sopradetti Opuscoli la
prima volta che
dal Grataroli furono
indirizzati alli due
già nominati Sovrani .
IV. » Pejlis
Defcrìptio , Caujjoe >
Si- gnu omnigena
> & Proefervatio
. Anelare Guliclmo
Gratarolo Medico .
Basilea? ; per
Ludovicum Lucium Anno
Salutis Huma- na? J
5 54, Mense
Augusto; Lugduni, apud
Gabrielem Coterium 1555.
• La prima
edizione di tale
veramente aureo Trattato
fu dedicata ad
Ascanio Marzo Ambascia-
tore Cesareo presso i
sette Cantoni della
Svizzera. Personaggio di
molte cognizioni e
virtù fornito ed
amico di Gulielmo
; e questi
appunto furono i
motivi , che lo
spinsero a sceglierlo
per Mecenate con
scrivergli : (80)
» La vostra
conosciuta virtù ,
e la non volgare vostra
mansue- tudine , non
meno che il
vostro amore £8
per tutte le
sane dottrine ,
e per la
pie- tà , mi
hanno costretto a
dedicarvi quest' opera
» . Perchè si
veda quanto amava
le massime di
pietà e di
religione conviene notare
, che dopo
di aver egli
prescritti neir indicata
sua opera li
rimedj fisici con-
tro la Peste
, raccomanda con
fervore li spirituali
con queste parole
(81) » Ma
per brevemente indicare
li remedj più
for- ti , più
giovevoli e generali
, prima di
tutto allontanate da
voi la paura
della morte , ma
non già il
santo timore di
Dio . Non
perciò doverete amare
il peri- colo ,
né incorrervi temerariamente ,
se non sarete
sforzati o dalla
carità cri- stiana del
prossimo , o
dalla gloria di
no- stro Signore Gesù
Cristo > il
quale devesi anteporre
a tutte le
cose » . V. »
De Litteratorum >
& eorurn qui
Magijlratibus funguntur confermando,
proe- fervandaque valetudine
, illorum prcecipue
qui oetate confiftentìoe
0 vel non
lunge ab ca ab
funt > curn
ex probatioribus Aucto-
ribus 3 tum
ex ratione , & fideli
praxi > &
experientìa concinnatum . Basilea
apud Henricum Petri
1555. in 8.,
Francofurti J591. in
12. apud Ioanncm
Vchel ; Ibi-
dem apud Nicolaum
Hofmannum \6 17. ($9
in 8. »
La stessa opera
è stata tradotta
nella lingua Inglese
da Tommaso Neuton
P e stampata
in Londra Tanno
1674. in 1 2 . Questa
dottissima opera è
riferita dal rinomatissimo
Medico Ermanno Roerhave
nel suo »
Methodus (ludii Medicorum
» . VI.
y> De Confervanda
valetudine . Francofurti
apud Henricum Randzov
. Questa opera
fu stampata unitamente
all' ultima registrata
dallo stesso Randzov
• VII. »
Re girne n
omnium iter agen-
tium . Basilea?
apud Hemicum Petri
\66\. Argentorati per
Vendelinum Rihelium 1
s6%. in 12.
Colonia? apud Petrum
Hofmannum 15/1. in
8. V edizione
fatta di tale
uti- lissima opera in
Argentina fu dedicata
dal Grataroli »
alla vera pietà,
(82) e nobil-
tà del chiarissimo Egenolfo
Barone , e
Si- gnore in Rapolstein
Hochen Ack e Ge- rolzeck
in Vassichin »
0 e nel
frontispizio della medesima
vi si leggono
i seguenti la-
tini versi . Ut peregrìnands
vita ejl jubjecla
procellis Aeris , &
varìis undique prejja
malis ; No/ira
procelle* fi vario jìc
turbine mundi Volpi
tur incertis anxia
vita rnodis. 7°
Hoc bene pericolo
Jervans prò tempore
litro Tutìor utque
voles carpe Vìator
iter. VIII# De
Laudibuj Medicina 0
ejus origine >
progrejju ? militate
. Argentora- ti
i 5 £3.
in 8. IX.
De Pefle Thefes.
Basilea? 1565. in
8. Apud Henricum
Petri . X.
De Vini natura ,
Artificio , &
Ufu , deque
omni re potabili
. Basilea , Apud Henricum
Petri . XI.
Equorum P &
Domejlicorum quo- rundam
Ànimalium remedia $ senza data
in tutti i
Cataloghi da me
veduti • XII.
Lapidis Philojbphici nomenda~
turoe . Basilea
1 5 1
• La medesima
opera trovasi inserita
nel Volume in
foglio stampato in
Colonia Tan- no 1571.
da Pietro Orstio
, con il
titolo Veroe Alchimia?
Scriptores . XIII. De
janitate menda .
Argento- rati 15 6
5. Trovo
quest* opera citata
dal Mercklino nel
suo Lindenius renovatus.
XIV. De Thermis
Rhoctias , & Val-
lis Tranjc/ierìi Agri
Bergomenjis . Si
trova stampata tale
opera per la
prima volta da
Tommaso Giunti in
Venezia Tanno 1553.
nella sua copiosa
raccolta di tutti
quelli y fi
che sino alla
detta epoca avevano
scritto sopra i
Bagni , ed
è riportata alla
pagina 192. ,
con questo titolo
Guìlhdmus Gra- tarolus
ad Corradum Gefnerum
Medicum Tis'urimim de
Thermìs Jxhoetìcìs Tutti
o quelli i
quali a mia
cognizione hanno par-
lato di questo trattato
di Guliclmo ,
sia neir occasione
di dare il
Catalogo delle sue
opere , o
• sia per
semplice erudizione ,
e perfino il
nostro Padre Donato
Calvi , non
hanno citata nessun'
altra edizione della
stessa opera ,
che quella dei
Giunti % e
tutti ne fecero
sempre autore il
Grata- roli ,
senza mai mettere
in dubbio questo
punto d' Istoria letteraria .
Ciò nondimeno non
deve recare maraviglia
, particolar- mente delli
scrittori oltramontani ,
e spe- cialmente di
quelli del decimosesto
secolo : ma
fa bensì stupore
, che siasi
continuato ad attribuire
al Grataroli un
simile tratta- to ,
dopo la nitida
e ben corretta
edizio- ne fatta dal
valoroso Cornino Ventura
X anno 1582.
in 4. di
tutti i dotti
Medici Bergamaschi ,
che avevano scritto
sopra i Bagni
di Tres^ore ;
poiché apparisce ,
ed è anche
evidentemente provato da
quel diligente stampatore
, e dagli
eruditi e perspicaci
fratelli Licini suoi
direttori, che il
trattato , che
porta quel titolo ,
appar- tiene sicuramente a
Bartolommeo Albani Medico
Collegiato della Città
di Bergamo., scritto
dal medesimo sino
dall'anno 1470., vale
a dire quasi
un secolo prima
della indicata edizione
Veneta di Tommaso
Giun- ti • Di
fatti T Opuscolo
dell' Albani termi-
na precisamente con questa
data : anno
mìllejìmo quadrigentefimo y
& feptuagefimo de
menje Julii die
vìge fimo Ceptimo .
Per ExeelL Artìum
0 & Me
dicince Dociorcm Bartholomceum
de Albano. Si
fa ancora as-
sai ' più manifesta
tale verità da
quanto afferma il
Cornino alla decimaquarta
pagi- na della sua
edizione degli Scrittori
Berga- maschi circa li
Bagni Trescoriani ,
nella annotazione seguente
posta in fine
dell* Q- puscolo
del sopracitato Bartolommeo
Albani per maggiore
sua giustificazione »
Da un antichissimo
esemplare manoscritto (83)
ri- trovato nella libreria
de" Padri Domenica-
ni , il quale
si vede eziandio
trasportato nella lingua
Italiana , sotto
il nome dello
stesso Bartolommeo Albani,
nelieCase di Bar-
tolommeo Colleoni , lasciato al
Luogo de Ha
Pie- tà, conservato sino
a questo tempo
». Non si
deve adunque più
dubitare , che
il ve- ro Autore
di quel trattato
non sia Bario-
73 lommeo Albani ,
mentre anche il
Padre Cal- vi così
ha lasciato scritto
nella sua Scena
Letteraria (84) >>
Bartolommeo Albano della
Medicina celebre Professore
fiorì verso la
metà del passato
secolo -> e
fu il primo
y che scrivesse
sopra i nostri
Bagni di Tre-
score j leggendosi
le sue degne
fatiche con quelle
d5 altri Autori
nel libro »
De Bal- neis
Tranfchcrii Oppiai Bergomatis .
Ber- gomi 1582.
» Questa è
T accennata edi-
zione di Cornino Ventura.
Si noti in
que- sto luogo , che
lo stesso Bibliografo
indi- cando l'opera del
Grataroli (85) sopra
io stesso argomento
, dopo di
avere scritto De
Thermìs Rhoeticis, &
Vallìs Tranfche- rii
agri ìSergomatis »
aggiunge » Questo
si trova nell'
opeia Veneta De
Balneis » »
Adunque al Calvi
era nota tanto
V edi- zione dei
Giunti , quanto
quella del Co-
rnino : dopo tutto
questo, in quale
manie- ra si potrà
difendere il Grataroli
dalla tac- cia di
plagiario y e
di un plagio
domesti- co ? Ma
niente dì più
facile , Ricercato
Gulielmo da Corrado
Gesnero suo grande
amico , che
si chiamava il
Plinio dell* Ale-
magna , perchè
gli facesse avere
delle no- tizie circa
le Terme ,
o Bagni della
Re- zia ,
e della Provincia
Bergamasca , egli
^ 74 per
fare cosa grata
ad un amico
di tanta rinomanza
, prese in
mano il manoscritto
dell' Albani ,
vi aggiunse qualche
cosa del proprio ,
ed ancora molte
cose di quelle
che aveva scritto
sopra i Bagni
di Tresco- re
il dotto Medico
Lodovico Zimalia ,
le- vando alcune cose
che gli sembravano
su- perflue , o
inesatte , con
purgato stile la-
^inò , e con
veri termini tecnici
rifuse il manoscritto
dell' Albani ,
e cosi riformato
ed ordinato lo
spedì all' amico,
unitamen- te ad una
erudita lettera relativa
alle Ter- me della
Rezia : e
siccome in quei
giorni il Gesnero
si trovava in
Venezia per de-
scrivere i Pesci ,
ed i Crostacei
del mare Adriatico
, averà consegnato
questo scritto a
Tommaso Giunti s
che in quel
tempo era occupato
a pubblicare la
sua grande edizione
di tutti li
Scrittori sopra i
Bagni e le
aque Termali n
siccome ho già
di so- pra notato
. Indubitata cosa
ella è che
il Grataroli chiude
il suo scritto
con queste parole
(86) » Ho
raccolte brevemente, e con chiarezza
tutte le soprascritte
cose a benefizio
, e sollievo
del mio prossimo^
io Gulielmo Grataroli
Dottore di Medicina
: frutto tutto
questo delle mie
oculari osser- vazioni ,
e della lettura
di parecchi ami-
75 chi Medici
della mia patria
» . Appunto
questa sua protesta
dalle persone oneste
e giudiziose deve
essere considerata una
confessione del fatto
, ed ancora
del di- ritto che
aveva acquistato di
appropriarsi quello scritto
; tanto più
che il Grataroli
nello spedirlo al
Gesnero , lo
previene con la
seguente onorata e
sincera dichiarazio- ne (87):»
Vi spedisco l'intiera
Descrizio- ne delie Terme
Bergamasche , le
quali non sono
lontane dalla Rezia
più di due
gior- nate di cammino
• Di queste
niente sino al
presente trovasi pubblicato
con i tor-
eh) ; onde
mi giova sperare
, che diver-
ranno celebri anche in
avvenire , siccome
lo furono in
passato , dopo
che Y occul-
ta, e quasi intieramente
ignorata loro vir-
tù sarà fatta nota
con le stampe
; purché non
vi rincresca accoppiare
le erudizioni Italiane
alle Tedesche » .
Poteva qui espri-
mersi Gulielmo con più
candida , ed one-
sta sincerità ? Confessa
di essere semplice
raccoglitore d^gli altrui
scritti, (88) mentre
dice » Ho
raccolto dagli scritti
di altri antichi
Medici Bergamaschi »
Non chiama sua
quella fatica ,
ma dice semplicemen-
te (89) » Vi
spedisco T intiera
descrizione delle Terme
Bergamasche > delle
quali 7* niente
sin ad ora
è stato pubblicato
» Non si
deve dunque condannare
di plagiario il
Grataroli $ e
certamente non conviene
, che egli
abbia avuto rimorso
di avere commes-
so una cosi vile,
e detestabile impostura
, mentre essendo
sopravissuto quasi quindici
anni dopo l'edizione
Veneta di queir
opu- scolo , sicuramente
non averebbe mancato
di giustificarsi presso
il mondo erudito
cir- ca il preteso
plagiato . Ecco
tutto quello ,
si può dire
in difesa di
questo Medico Fi-
losofo sopra tale inssusistente
accusa , né
altro posso aggiungere
«> se non
che far noto
al mio Leggitore
, che per
quante diligenze abbia
usate «> non
mi è giammai
riuscito di ritrovare
i due citati
mano- scritti , e
che in oltre
il Padre Donato
Calvi , a
cui era nota
Y edizione di
Co- rnino Ventura ,
non ha nella
sua Scena Letteraria
dimostrato di sospettare
dell' o- nestà
letteraria di Gulielmo
Grataroli . Pri-
ma di terminare il
presente articolo dei
Bagni di Trescore,
riferirò il zelante
uma- nissimo Voto, con
il quale Gulielmo
chiu- de la sua
opera stampata dal
Giunti (90); »
Faccia Iddio ,
che la Bergamasca
Re- pubblica abbia diligente
cura di rimettere
nel primiero loro
stato questi saluberrimi 77
Bagni , che
certamente lo può
, e lo de- ve fare
» . Faccio
io pure fervidi
e sin- ceri voti
, perchè abbia
effetto tutto ciò
che caldamente raccomanda
il Grataroli ;
e per maggiormente
incoraggire la mia
Città , ed
i miei Cittadini
a procurare al- la
patria un vantaggio
così rimarcabile ,
vivamente li supplico
a leggere T
erudita ed elegante
latina lettera di
Lodovico Zi- malia
, premessa al
suo dottissimo Trattato
dei Bagni di
Trescore , dedicato
al suo magnanimo
Mecenate Bartolommeo Colleoni
Capitano Generale degli
Eserciti della Sere-
nissima Veneta Repubblica ,
(91) nella quale
prova con una
evidenza che sor-
prende , e che
deve intenerire chiunque
senta amore per
la sua patria
, che quello
famosissimo Eroe deve
senza alcun dubbio
essere ugualmente ammirato
, e commen-
dato sì per le
sue azioni militari
, che per
le sue virtù
politiche , a
benefizio «> ed
eterno vantaggio ,
e decoro di
tutta la sua
amata nazione Bergamasca
. XV. De
Notis Antichrìfli , senza
da- ta, senza luogo,
e senza nome
dello stam- patore .
Tuttavia nominerò ancor
io tra le
opere di Gulielmo
un libro con
tale ti- tolo ,
ritrovandolo registrato dal
Calvi , e
78 dal Papadopoli
suo copiatore ,
ma non dal
Frehero , non
dal Bayle ,
non dai Maizeaux
suo illustratore , non dal
Mer- ci: lino ,
non dall' Eloy
, mentre tutti
que- sti si suppone
avessero molto interesse
di far autore
di un libro
Anticattolico Romano un
erudito e dotto
Italiano - sic-
come era da tutti
considerato il Grataro-
li. Non però
verun altro Letterato
ha po- sto nel
Catalogo delle sue
opere V accen-
nato libro • D'
altronde è cosa
più che cer-
ta , che si
può scrivere dei
caratteri dell' Anticristo
anche dalla più
religiosa e ze-
lante penna cattolica :
ed è certo
di più ,
che il Calvi
, o non
averebbe registrato un
così fatto libro
, o non
averebbe man- cato di
scriverne qualche parola
in dete- stazione del
medesimo . Ma di più anco-
ra quanto al Papadopoli
, probabilmente questi
non averà nemmeno
veduta quest* opera
, essendosi intieramente
riportato al Padre
Calvi , siccome
egli stesso scrive
nella sua storia
dell' Università di
Padova parlando di
Gulielmo Grataroli .
Avendo in oltre
riportati i titoli
delle altre sue
opere senza data
, alterati ,
e confasi no-
tabilmente, non sarebbe stato
egli il primo
a giudicare di
un libro mai
veduto , nò
79 letto •
A me stesso
è accaduta la
medesi- ma sorte y
non solo di
poterlo trovare >
ma neppure di
averne fondata contezza
, per quante
ricerche abbia usate
non sola in
Italia , ma altresì
nella Germania e
nell* Olanda .
Sostengo finalmente ,
che se que-
st* opera esiste
, che io
non credo ,
o se fu
composta da Gulielmo
Grataroli -, non
doveva essere tanto
malvagia e perversa
, quanto alcuni
senza ragione sospettano
; mentre che
tutte le opere
del Grataroli è
vero che sono
poste nell* indice
de' Libri proibiti
? ma con
la semplice cautela
; Quandiu emendata
non prodieri nt
(92) « Dal
che si è
da presumere che
se que- sto fosse
stato un libro
veramente Etero- dosso ,
Santa Romana Chiesa
lo avrebbe posto
nella classe dei
libri empj e
mal- vagi di prima
classe • XV I.
Confilium de Proe fervanone a
Vcnenis . Gulielmo
Gratarolo Aucìore .
Hamburgi 1673. in
8. Ecco registrate
tutte quelle opere
che mi è
riuscito di raccogliere,
le quali furo-
no composte da questo
dottissimo Medico e
Filosofo : ora
passerò alla seconda
classe delle opere
tradotte e fatte
stampare dal medesimo .
8o J. Joannis
Braccfchi de Alchimia
, cum propofìtionibus 29.
Idem argume ri-
rum compendiofa brevitatc
compleclens ex Italico
Aucloris Autographo in latinum
verni -> &
edidit Gulìelmiù Gratarolas
. Basilea 156*1.
in folio. Apud
Henricum Petri .
Non mi è
noto dove sia
stata stam- pata la
prima volta questa
traduzione; ma solo
ne ho trovata
un' altra ed
zione fat- ta in
Amburgo neir anno
1^7 3. in
8. II. Chirurgico
rum quorundam Auclo-
rum Libros Gali
ice fcriptos latine
reddidit ? &
in cap'-ta difiribuit
Gulielmus Grataro- las • Lugduni
1555. in 8.
Apud Gabrie- lem
Coterium , Classe
terza delle opere
d* altri Scrit-
tori fatte stampare con
prefazioni , note y
e commenti da
Gulielmo Grataroli . I. Ve
ree Àlchymìce Scriptores
aliquota cum Praefationibus 9
& D celar ationibus col-
Ifgit y & una
edidit Gulielmus Gratarolas.
Basilea? , apud Henricum
Pctri 156*1. in
folio . II.
Vetri Apone njls de
Vene ni s eo- rumane
Remediis , cum
Additionibus Gu- Udini
Grataroli . Francofurti , apud
Joan- n ìm
Velici 1552. in
8. 8i III.
Hermannl a Ncunare
de no- vo haclenufque inaudito
Germanice morbo ^pompar*
idcft judatoria febre
, quern vulgo
fudorem Britannicum vócant,
libellus a Gu-
lielmo Gratarolo editus.
Colonia? 1569, in
4. Ermanno Ncunare
era Conte e
Pre- vosto della
Cattedrale di Colonia
. IV. Simeonis
Riquinii Judicium do~
clijjimum duabus epijìolis
contentimi de fiutato
r ice Febris cura t ione
editum a Gu~
lielmo Gratarolo Medico
> & Philofopìio
B ergo mate
. Colonia 1559.
in j 6.
V. Joackini Schdlerii
^ o come
altri scrivono Sckilfeni
de Pejìe Britannica
Commentariolus aureus a
Gulielmo Grata- rolo Medico
& Philofopko editus
. Basilea? 1
5 c> 3.
Apud Henricum Petri
in 12. VI.
Alexandri Benedicii de
Pejlilen* tioe Caujjls
s Proe fervanone >
& auxiliorum Materia
Liber Jingularis :
Omnia ex ma-
nufcriptis exemplaribus auxit
y & illujìravit
Gulielmus Gratarolus Medicus 9
& Pialo- fophus .
Basilea? 1559. in
4. Ibidem 1572.
in folio apud
Henricum Petri . VII.
Correcliones , &
Additiones ad librum
Italicum , falfo tributum
Fallopio 7 infcriptum
, Secreta Fallopii
. Francofurti irfoò.
in folio ,
e i6"o£. cum
operimi 6 1
82 Appendice Guliehni
Grataroli Medici Bcr-
gomatis. Girolamo Mercuriali
da Forlì coe-
taneo del Grataroli ,
soprannomato Mercu- rio e
Trimegisto per la
vastissima sua medica
scienza , nell'
erudita opera :
De ratione dijcendi
Mediana/?! , edizione
di Argentina dell'
anno 16*07. >
m proposito dei
libri falsamente attribuiti
a Gabriele Fallopio ,
racconta che vi
furono alcuni ,
i quali o
per malignità ,
o per sordido
lucro cacciarono fuori
opere sotto il
nome del Fallopio
, che affatto
non sono sue
, come il
libro dei Secreti
. Opere indegne
del suo maestro ,
e soltanto capaci
a to- glierli quella vera ,
e soda gloria
, la qua-
le si era
acquistata presso i
dotti • Vili.
Cenjura & Additiones
in Li*- bruni
Alexii Pedemontani , ubi
de Quinta effentia
funplici . Per
Gulielmum Grataro- lum
. Venetiis apud
Jun£hs 1562. in
12. IX. Conjìha
, & Curationes
variorum doclijfimorum Medicorum
de Sudore An-
glico a Guliehno Gratarolo
edita . Colo-
nia apud Franciscum Hofmannum
1602. in folio
. X. Thaduei
F/orenini , che
1' Alido- sio
chiama Taddeo Aledrotto^
& Guliclnù a
Brixia Conjìlia •
Colonia* i^c^. Apud
Iranciscum Hofmannum in 4. Per
Gidid- mum Gratarolum
. XI. Johannis
de Kupecijja de
Extra- tione Quinte?
ejfentioe omnium rerum
prò u fu Medico .
Venetiis apud Juntìas
156*1. in 1 2.
XII. Theatrum G aleni
> hoc eft
uni- verjlv medicince
a Galeno diffupz
*> fpar- f inique
traduce Promptuarium completimi
> & in
meliorem ordinem redaclum
per Lu-> dovicum
Luride llum a Gulielmo
Gratarolo Medico }
& Philojbpho editimi
. Basilea? 15
68. Apud Henricum
Petri in folio
«> Hamburgi apud
Joanneni Neumannum >
& Georgium Volfium
\6j2. in foiio.
XIII. Petri Pomponacii
de Incanta* tionibus
libri III. in
quibus dijficilUma Ca-
pita > &
Quefliones Theologicoe ,
& Philo- fophicoe
ex jana Orthodoxoe
/idei doclrina explicantur
> & multis
rarìs Hijìoriis >
& Glojfulis illujlrantur . Per
Gulielmum Gra- tarolum Medicum ,
& Philojbpkum Bergo-
matem > qui
fé in omnibus
Canonica^ Scri- ptum,
& Janclorum Dociorum
Judicio fub- mittit
. Basilea? Kalendis
Martii ex Offi-
cina Henripetrina 1 5 6*7.
in 8. cum Csesa- rea
Majestatis gratia &
privilegio. Quesra edizione
del trattato deeli
Incantesimi di &4
Pofnponacio tu consagrata
dal Grataroli a
Federico Conte Palatino
con una nobilissi-
ma , e giudiziosissima dedicatoria
impiega- ta parte in encomj della
virtù e meriti
di quel Principe,
e parte in
difendere Y ope- ra di
quel Filosofo Mantovano ,
del quale afferma
e sostiene ,
che fu a
torto impu- gnato ,
e perseguitato ; e che
se fosse sta-
dio con prudenza e
carità Cristiana tratta-
to , sarebbe riuscito
uno dei più
zelanti e forti
Apologisti della Chiesa
Cattolica , co- me
riferisce essere avvenuto
a Giustino Martire ,
al grande Agostino ,
ed a mol-
tissimi altri difensori della
nostra santissima religione
• Di fatti
Pomponacio per atte-
stato di tutti gli
Scrittori della sua
vita mori cattolicamente (93)
: » Voglio
spera- re ,
che Pomponacio prima
di mandare fuori
T ultimo suo
spirito , siasi
per sin- golare grazia
delia divina providenza
e mi- sericordia ravveduto e
pentito , e che
non abbia perseverato
neir ateismo .
Imperoc- ché tale essere
stato il Pomponacio
Y ho udito
spesse fiate a
rammentare da Elideo
Medico di Forli
chiarissimo ornamento del-
la medica scienza , ed uno
de suoi più
cari discepoli » .
Ho ricopiato questo
sen- timento dui
Grataroli acciocché si
cono- sca quanto
grande fosse Sa
sincerità e Tat-
, taccamento verso
la Chiesa Cattolica.
Gis- berto Voet
, o Voezio
^ dotto Professore
di Teologia -,
e delle lingue
Orientali neìl' Università
di Utrecht ,
inimico capitale della
Filosofia e di
Cartesio , ha
parlato con molta
lode della suddetta
edizione, di- cendo (94)
» Gulielmo Grataroli
Medico Italiano , li di
cui scritti vengono
coiti* mendaci per
lo zelo di
pietà e di
religio- ne che vi
traspirano, e per
li encomj de*
quali lo ricolma
Teodoro Beza nelle
sue lettere ,
e per li
suffragj di molti
altri uo- mini dotti,
che lo trattarono
nelle sue ope-
re stampate in Basilea
difende Pomponacio contro
li suoi caluniatori,
ed afferma, che
abbia terminati i
suoi giorni assai
pia- mente » .
Dalla medesima dedicatoria
di Gulielmo da
esso scritta un
anno solo prima
del suo pae-
saggio all'altra vita si
rileva, che già
die- ci anni innanzi
egli aveva fatto
stampare r senza
che mi sia
riuscito di sapere
in qua! parte
^ il Trattato
De ìncantationibus di
Pomponacio , perchè
così scrive al
Princi- pe suo Mecenate
* (9$) »
La parte di questo libro
, che tratta
delle cause ,
e degli effetti
naturali, o sia
degli Incantesi- u
mi fatta da
me stampare sono
già più di
dieci anni ,
T avevo dedicata
e spedita air
Illustrissimo Principe Ottone
Enrico Elettore di
felice memoria ,
e S. A,
non sdegnò di
ringraziarmi con lettere
di suo proprio
pugno » .
Mi è piacciuto
di nuo- vamente riportare quanto
Gulielmo Grata- roli
scrisse in quella
sua elegante Dedica-
toria , perchè dalla
premura e zelo
da es- so dimostrato
sino agli ultimi
periodi del- la sua
vita , e
dalla universale estimazio-
ne , che hanno
sempre costantemente fat-
ta palese in faccia
di tutto il
mondo tanti letterati
del primo ordine
, d* ogni
nazio- ne , e
d' ogni religione
, della dottrina
, della probità
, e dell'
amore del vero
, e del
giusto , che
ha conservato in
tutte le sue
operazioni , possa
invogliarsi qualche valente
ed erudita penna
della sua ,
e mia patria
a tessere ,
ed in assai
miglior modo ordinare
una più compiuta
istoria scevra dai
difetti , dei
quali questa mia
pur troppo è
ripiena , di
un Filosofo e
Medico j che
ha impiegati e
consagrati tutti i
suoi talenti , e
tutti i momenti
de' tuoi giorni
a benefizio e
vantaggio della languente
umanità , ammaestrando
ed illu- minando il
mondo tutto con
le numerose *7
produzioni del sublime
suo ingegno ,
tra- sportando nella lingua
più universale mol-
tissime opere in diversi
altri idiomi com-
poste da più dotti
e famosi scrittori
^ ed in
fine illustrando ed
arricchindo di uti-
lissimi riflessi e profittevoli
commenti un numero
immenso di interessanti
volumi ^ i
quali contengono ogni
genere di scien-
ze e di cognizioni
, siccome ne
forma una evidentissima
prova il copioso
Cata- logo delle sue
opere da me
coordinato , ed esteso .
ANNOTAZIONI (i) Sommario
di antichi Protocolli
esistente nella Pubblica
Libreria della Città
di Bergamo compilati
da Giuseppe Mozzi
. (i) Ex
libro extimi M.
Civitatis Bergomi .
Tom. i. pag.
80. (3) Àrbore
prodotto da! Nobile
Signor Francesco Grataroli
Tanno 1737. li
18. Marzo. (4)
Sommario di alitici
Protocolli compilati da
Giuseppe Mozzi .
($) Creatus fiat
Civis Piligrinus de
Gratarolis . An- no 1507.
Die 12. Novemb
Ex Filtia Rclationum
, & Registro
Conciliorum Tom. 1.
pag. 78. (6)
Donato Calvi Effemeride
Tom. 1. pag.
318 Diario del
Beretta sotto li
1?. Giugno Anno
ijh. (7) Nicolai
Comneni Papadopoli Hist.
Gymnasii Patavini. Apud
Sebastianum Coleri 1716.
Tom. 1. pag.
314. n. 62.
Iacobi Facciolati Fasti
Gymnasii Pa- tavini. Typis
Seminarli 1757. apud Ioannem
Manfrc Tom. 2. pag 296.
(8) Papadopoli Hist.
Gym. Pat. Tom. 1. pag.
300. n. 42.
(9) Papadopoli Hist.
Gym. Pat. Tom.
2. pag. 213.
n. 90. (io) Facciolati Fasti
Gym. Pat. Tom.
2. pag. 337.
(11) Donato Calvi
Scena Letteraria. Bergamo
per li Figliuoli
di Marcantonio Rossi
1664. in 4»
pag» 307» (12)
Argentorati per Uvendelinum
Richelium 1563. pag.
1 io. dì)
Memini ante annos
fexdecim cum Mediala
ni publico in
quodam divergono vemociarem
( nomai aut
in/igne nunc non
fuccurrit , fed
fi Mie ejfe/n
, inverti* rem
, ) aique
alìquot Mie (
ut fere femper
Junt in ea
ampia civitate ,
lufores , &
miri truffatores )
ejfent ex Ma
ìiominum fdd ,
qui tamen fibi
aliquid ejfe videi
an- «9 tur,
quod domefiici urbis
forcnt , cum hojpes
mihi lecbum indie
a fl et fatis bene
flratuin , in
(tuia rei cubiculo
, ubi quanto
r aia quinque
ali) leòli non
incornino de parati
t aliquis ilio
rum furciferorum feiens
quis mihi Uclus
efì'et ajfignatus ,
dunque cubiculum intrans
, ( nam
fere fem- \
:r patent )
& lodice cum
liriteamine Juperiure detratta,
vini frufla fatis
magna & tenuja
per le cium
depofuit a fummo
ad imum inter
duo linteamina ,
putaris me fine
Zumine , incautumque
intraturum lectum ,
ac vulneratum iri
debere , ac ita
fé habiturum occafionem
cum focijs ri-
deridi, Sed curri
more meo prius
lumine leclum antequam
decumbam colluftrem ,
facile fcclus inveni
, ac hofpiti
( licet fruftra
) indicavi :
nemo enim fateri
voluit fé fuiffe
. Certo vero
feio me ne
per f omnium quidem
ilio- rum quenquam
l&fiffc : nifi
l&dere fit non
ludere , aut
perpotare cum talibus
, pag. i
£ f . ,
e li 6. (14.)
Anno isso, menje
Majo in Valle
Camunica agri Brixiani ,
cum effern fub
horam Coen a
in hofpitiurn pluvia
onuftus Ò* equo
feffo veniffem ,
ubi plures erant
hofpiti infcrvientes femifamuli
adolefccntes ccenatus funi fatis y
prò loco ,
laute , Ù* cum
fitirem , non peper-
ei vino opthno &
potenti , fed cura
omnem ebrietatem .
dunque eo vefperi
cum quodam equos
venales ex Ger-
mania puto , vel
ex Foro Varronis
vulgo Vare fio , de*
ducente mercatore , equum
meum parvurn cum
magno & iuvenc
pcrmutafjem , additis
aliquot Coronatis ,
crurne- narn ,
ubi non minus
coronatis quìnquaginta erant ,
IU bere ,
ut in loco de quo
mali quidquam non
fufpicabar, evagino ,
Ó* Coronato s
UH numero .
Parum pò fi
itur dormitum . Datur mihi
proprius leclus ,
famulus hofpitis exuit
caligas , fuppono
cervicali ac capiti ,
eo tamen vi-
dente , peram
: Dormio in
utranque aurern , ut ajunt
, Ó* prof
un de ,
prater more ni
fefjus . Cum
in aurora fur-
gendum efi ,
qu&ro crumenam ,
non iuvenio ;
hofpitem clamito ,
enfemque arripio 9
meque eo nudo
in porta fi-
fio ; minitor
me neri permiffurum
quenquam egredi ,
nifi quod meum
erat inueniam :
erant ibi advenA
aliqui . In- terea hofpes
e lecio furgit ,
qu il profejfeit
, il fé
vit reduit a
une grande pauvrete
, & ainfi
ce fut fa
pieté , qui le rendit
miferahle . (19) Tom.
3. pag. 193.
Dizionario storico della
Medicina. Napoli per
Benedetto Gessari 1763.
(20) Tom. 1
pag 507. e
yo8. Bibliot. Medica
Script. Veter. &
Recent Genevae 173 1.
[zi) At Petrus
Vermillius in hac
ipfa vera fapicn-
iu fede juvenem
veneno infecit ,
atque ita injecia
tabe iorrupity ut
regrejjus in paviani
facra omnia defpicercty
Ó* emendatioris religionis
velamcnto , qua
Luth erano rum , qua
Sacramentariorum dogmata ciani
palam difjeminaret : ergo in
fufpicionem Gratarolus Bergomi
venit cjuratA Or-
thodoxA fidei , reufque
apud Jacros Qus fitorc s
factus , prò-
pe in cancreni
, quem utique
mcrebatur , conijciendus , fuga fibi
con f ululi , atque
inops , &
vùfer ad Rhcetos
fcccffit . Tom.
2. pag 213. n.
90. (il) Papadopoli
. Tom. 2.
pag. 213. n. 90- (zj)
Mihi autem ex
Italia fupra decem
annos , oh ram Da
gratta veritatem &
iufiitiam peregrino •
(24) Faxlt Omnipotens
U* jufiifftmus Deus
, ut in
glorìam [nani edam
fi ita fu&
Mtj e fiati vifum
fucrh , cas 7
ep etere poffiumus (15-)
Ex Officina Henripetrina,
Basilea: IJ67. Pe~
tri Pomponacii de
Incantationibus Libr. in.
{zG" In quibus
diffidi lima capita
, & Qua
filone $ TheolcgicA
, Ó* Philofopiiic*
ex fana Ortodoxsi
fidei do- ttrina explicantur ,
& multis raris
hifioriis paffim illu-
firantur per auciorem ,
qui fé in
omnibus CanonicA Scri-
ttura , Sanftorumque Doc^orum
judicio fubmittit . (27)
Scena Letteraria .
Bergamo 1664. (28)
Effemeride Sacra Profana
di Bergamo .
Mila- no per Francesco
Vigone 1676. Tom.
3. pag. 41^.
(19) Calvi Scena
Letteraria nell* Elogio
del Già- taroli
. (30) Gratulor
vobis veflram pacem
& concordiam ,
quodque docliffimis ,
& optimis viris
, quibus veflra
fcho- la abundat
, mine edam
aecedat & vere
plus , )
Rammenta la sua
Professione di Fede
diretta prima in
forma di lettera
a Melchiorre Voi
mar suo Maestro
, quindi stampata
in lingua latina
in Ginevra T
anno 1 rèo.
(56) GUL1ELMO GRATAROLO
MEDICO ET PHILOSOPHO
Mi Gratarole gradarti
tibi habeo prò
tua in me
he- ncvolentia ,
rogoque ut fi modo quo
fieri pojfit ,
id mihi pr&fies
, de quo
poftremis tuis literis
ad me fcripftfti ,
ui tempeftive refpondeam
. Ab ilio
nihil fané metuo
, immo cupidiffìme
hanc occafionem amplecìar
, improbi/pimi homi-
nis nomiti aùm appellandi
, quod adhuc
facere noluì ,
ne omnem ci
refipifcienù& f petti viderer
pr&cludijfe . Veruni
hoc amabo ,
referibe fi quam
fecero in mea
refponfione mentionem ,
Belli/ , Ò*
Thcologisi Germanica, 9
Óf* Me fé eorum librorum
autorem inficiami' , num id poffit
ita fecure affannare
, ut fi
neccie fuerit tefiibus
etiam , atit
idoneis argumentis convinci
poffit . Nam de re ipfa
id eft , quin
revera libros illos
, ac pr&fertim
Prafationent Bcllianam ediderit,
non dubito .
Sed videndum nobis
eft, ut non
tantum detegatur ifte
, veruni etiam
convincatur , ut
tandem omnes norint
qua. fu fancii
iftius viri confeien»
ùa • Coeterum
quia venturus eft
ad nos ifte
qui has lite-
ras reddidit , rogo
ut ci committas
duos ex meis
libellis 9 quos
apud te habes
, nempe Aefchili
, Ó* Pindari
qu&- dam y
fìcut ex titulis
cognofees . Iis
vero fi adjunxeris
tuum illum Pomponacium
, & Ccelii
librum » De
Ampli- tudine regni Lei
» gratijfimum mihi
feceris . Sed &
hoc 94- rogo
ut mlhi prApes ,
ncmpc ut perconteris
ex Oporino, num
Henricus Stcphanus ifihac
nuper tranfiens ab eo accepc-
rit aliquot Etìlico
rum Gr&co-Latinorum cxemplaria ,
quo! fi ita
effe compereris ,
vellem , &
illud ex Conradi
Re* fchìj Viàna
refeires , ubi
nani ea reliquerit .
Mea enim funi ,
quod idi affifmare
poteris , & commode
per hos ad
me afferentur. Quod
fi nulla acceperit ,
tum iflì recipiente
& ad me
perjerent . Vides
quo/nodo , &
quam facile opera
tua mar . Tu
viciffim impera ,
quìdquid a me
prdfiari tuo nomine
peffe credideris ,
£r te a
me pluvi- mimi
diligi , ubi
perfuade . Genève
Apud Eufiachium Vignon
i$7$. Epifl. 46.
(57) Era costui
Claudio de Santis
suo nemico ,
il e in
certo suo scritto
contro il Beza,
che si legge
nel tomo IL
delle Opere del
suddetto Beza alla
pagi- na 361- gli
fece questo rimprovero.
» Qeneva pedem non
audes efferre ,
ne te quifquis
invcneril , ut
alterimi Cain occidat .
» A questa
minaccia, così rispose
il Be- ?.a
. » Et fi mihi
appofuos a tuis
illis & veneficos
, o. (8f)
Calvi. Scena Letteraria.
(so) Hac ego
Gulielmus Gratarolus Dottor
Me- dicxs ,
cum ex mea
oculata obfcrvatione , tum aliorum
Bergomatum Medicorum veterum
fcriptis , Ó* longa
pra- ti , b revita' ,
& non obfcure
collegi ad proximi
conu modum .
(81) Cttemrn mino
de] cripti onem integram Bergo*
matura Thermarian ,
quéi a Rhcetia
non plus quam
li- dia itinere difiant
; de his
nihil unquam typis
excufum :ji ,
ac [pero , ut antea
fuere , in f
munirti quoque fa-
mofas futuras , pr&fertim , cum
pene occulta earum
vir- vis palam
fatta literis cernetur ,
ni te pigeat
Italica Gcr- manlcis
mifeere . De Baìneis
Omnia qnx extant.
Vene- tiis ;
apucl Jundks 1
^7. pag. 192.
(ss) Tum aliorum
Bergomatum Medicorum Vete-
rum fcriptis ,
Ó* lunga praxi
breviter , &
non obfcu- ì
e collegi .
(se,) Mino deferiptionem
integram Bergomatum Thcrmanim
de quibus nihil
unquam typis excufum
eft . (pò) Faxit
Deus ut Refpublica
Bergomatum in prifti-
num re fimi
bue faluberrima Balnea
fedulo cui et ,
quod tquidem &
poteft , &
deb et . ($1)
Ludovici Zimalire Bergomènsis
Medici Dcscri- ptio
Balneorum Vallis Transclierii
. De Balneis
Tran- scherii Oppidi
Bergomatis cjux extant
omnia . Bergo-
mi anno ifSi*
Typis Gpmini Ventane
Typographi (91) Index
L'brorum Prohibitomm. Roma:
17 il. ex Typographia
Rev, Cam. A
post, in 8.
pag. 101. (91)
Pomponatium ante redditum
fpintus extremi halitum
refìpuiffe ex fingulari
Dei mi] esattone ,
nec per- ni anfuiff
e Atheum fp erare
volo . (g^
Gulielmus Gratarolus Medicus
Italus ( quem
propria f cripta uno
volumine in ottavo
Bafìlea edita ,
O* tefiimonium Bcza
in epiflolis ,
& ut in
dedicationc Libelli cuiufdam
, aliorumquc pr&terea
dottorum virorum f uff
ragia , quorum
fa millantate B
a file a
, Ò* alibi
ufus eft ,
ac pietatis \elo
covnnendant ) cum
contra calumnia- torcs
tuetur, IT pie
prò co tempore
vitam cum morte ,
99 commutale fcribìt
. Voétius :
Dlsputat. Thcolog. Tom-
i. pag. 197.
(ys) Huius libri
partati eam> qu&
de naturalìbus effettuum
caujfis , feti
de Incantationibus a
me alias an- te
annos decem Adita
ni nuncupaveram ,
ac miferam II-
luftnjfimo foelicis memoriti
Principi ditoni Henrico
eh: (lori ,
cuius Celfitudo haud
dedignata eft literis
fuis nu- li ì
grati as agert >
loo Neil5 esaminare
che ho fatto
tutti i libri
degli Istorici dell'
Università di Padova
per ritrovare qual-
che notizia intorno alla
Vita, agli Studj ,
ed agli Scrit-
ti di Gulielmo Grataroli
, ed ancora
per rammentare tutti
quelli , i quali
nella medesima furono
suoi Precet- tori ,
o suoi Comprofessori
, molti ne
ho trovati spet-
tanti alla mia patria
, onde ne
ho trascritti tutti
i loro nomi
dalla istituzione di
quel celebratissimo Studio
sino ai nostri
giorni, ed ho
creduto di fare
co- sa piacevole agli
eruditi miei Concittadini
formarne un Catalogo
, ed aggiungerlo
alla presente Vita
di Gulielmo Grataroli
, intorno al
quale registro io
non ho altro
da avvertire ,
se non che
per la Cronolo-
gia non mi sono
servito di verun
altro Scrittore fuorché
dell' eruditissimo Jacopo
Fa:ciolati nei suoi
Fasti dello Studio
di Padova .
CATALOGO DE' RETTORI
, SINDICI , E
PUBBLICI PROFESSORI DELL'UNIVERSITÀ* DI
PADOVA. di nascita
, o di
origine Bergamaschi. 12.71.
Bartolommeo Sago ,
Rettore. 1 3 8y- Gulielmo
Suardo. Ret. Prof, di
Legge. 1407. Gasparino
Barziza. Ret. Prof,
di Filosofìa Morale
. 1411. Giacomo
della Torre. Ret.
Prof, di Medicina.
1414. Alberico Avogadro,
Prof, di Legge
. 1450. Antonio
Piceni. Ret.
Prof, di Teologia,
e d' Eloquenza
. 1434. Gio.
Lodovico Radici. Prof,
di Legge .
1434. Cristoforo Barziza
. Prof- di
Medicina. i 4
4*- Francesco Michele
Carrara. 145-0. Giovanni
Agostini. H19. Girolamo
Albani. 1468. Cristoforo
Odasi . 1471.
Giacomo Ragazzoni .
1478. Rafaele Regio
. 1480. Maestro
Corradino. 1481. Bernardo
Carrara . 1494.
Niccolò Marchesi .
1497. Gio. Battista
Barziza. 1497. Francesco
Niccolò Carrara. 1499.
Michele Albano. 1501.
Giovanni Tebaldi . 1
5-01. Andrea Benzoni.
ifoy. Cristoforo Albrici.
1 509. Sebastiano
di Bergamo. 15-19.
Girolamo Grataroli .
15-10. Gio. Battista
Botani. 1 fio.
Francesco Vitalba. 1
fio. Marcantonio Cucchi.
x f li.
Scipione Boselli . 1
f 11. Gio.BattistadiMartinengo. 1
yii.BernardinoCardinaleMarfei
ijxi. Ventura Foresti.
15-11. Marzio Agazzi.
15-14. Giovanni Gandino.
1514, Flavio Querenghi.
15-1$-. Francesco Albani .
iji6. Girolamo Rivola.
1 f 17,
Gio. Pietro Giordani .
15-17. Girolamo Tirabosco.
1^17. Agostino Mozzi.
ifi8. Giacomo Salvetti .
1 5-18. FrancescoVittorio Memoria
1 5-19. Francesco di
Lovere . 15-19.
Francesco Assonìca. 15-30.
Francesco Gaioncelli. 1530.
Alessandro Monaci. 101
Rct. Prof, dì
Filosofia. Ret. Prof. di
Medicina. Ret. Prof,
di Medicina . Ret.
Prof, di Medicina ,
Prof, di Filosofìa.
Prof, d* Eloquenza .
Prof, di Teologia .
Ret. Prof, di
Legge. Ret. Prof,
di Legge. Ret.
Prof. di Medicina. Ret. Prof,
di Legge. Ret. Prof,
di Medicina. Ret.
Prof, di Legge.
Rettore. Prof, di
Legge. Prof, di
Legge. Prof, di
Filosofia. Prof, di
Legge. Ret. Prof,
di Medicina. Prof,
di Legge . Prof,
di Legge. Prof,
di Legge. .
Prof. d'Eloquenza. Prof,
di Medicina. Prof,
di Legge .
Prof, di Medicina.
Prof, di Filosofia
Mo rale .
Prof, di Medicina .
Prof, di Filosofìa
Mo« rale ,
Prof, di Legge .
Prof, di Medicina.
Ret. Prof, di
Legge . Prof, di
Legge. . Prof,
di Medicina. Prof,
di Legge . Prof,
di Legge. Prof,
di Legge. Prof,
di I-eggc. lei
2 f 3 1.
Marcantonio Passeri. i j
3 i.
Cristoforo Federici. i
f 3 1 . Bernardino
Licini. M51» Domenico
Albani . 1552.
G10. Maria Fini.
1^51. Alessandro Cannelli
.. 1 f
3 5. Andrea
Paganelli . 1 H3«
Paolo Calvi . i)53.
Galeazzo Lano . i)'5j.
Gio. Elice Piceni
. 1 f.3,3.
Giovanni Marinoni. tv 54.
Stefano Giordano. 1 H j.
Lodovico della Torre .
1^36. Gio. Battista
Rota. 1537. Gulielmo
Gratarolo. 1 ^37.
Simone Vertova .
1^39. Leonardo Passeri.
i^3^. Girolamo Lolini
. i;4o. Gio.
Battista A migoni. 1
Ho. Sebastiano Bravi
, 15*40. Girolamo
Olmo. iJ4r- Giuseppe
Olmo. 1741. Giovanni
Solza. 1 Hi.
Giuseppe Salandi .
1 f 43. Giovanni
Grataroli. i f44.
Girolamo Albani. 3.9 f
ft Paolo Lanzi .
1 $ f
j. Francesco Cima .
ifyj. Gio* Battista
Manara. IH7. Agostino
Mozzi . :
n^« Francesco Mozzi.
1 y6o. Ettore
Tiraboschi . iy6o. Giovanni
Terzi. i)-'>i. Pietro
Mazzoleni. lyél. Pietro
Alzano. 1 y6z.
Antonio Cerri. 1 y6
3. Giulio Passera
. 1 f*>o.
Antonio Zonca .
ij^ì- Niccolò Cologni.
Prof, di Medicina
» Prof, di
Medicina. Prof, di
Medicina. Prof, di
Legge. Prof, di
Legge. Prof, di
Legge* Prof, di
Legge . Prof,
di Legge . Prof,
di Chirurgia. Prof,
di Medicina. Prof,
di Medicina. Prof,
di Medicina. Prof,
di Legge. Ret.
Prof, di Legge.
Prof, di Medicina.
Prof, di Legge.
Prof, di Legge.
Prof, di Filosofia .
Prof, di Legge.
Prof, di Legge.
Prof, di Medicina.
Prof, di Legge .
Prof, di Legge .
Prof, di Medicina.
Prof, di Medicina.
Ret. Prof, di
Medicina. Prof, di
Medicina. Prof, di
Medicina. Prof, di
Legge. Prof, di
Filosofìa. Prof, di
Legge . Prof,
di Legge. Prof,
di Teologia. Prof,
di Legge. Prof,
di Legge. Prof,
di Legge. Prof,
di Medicina. Prof,
di Legge. Prof,
di Filovia Morale .
X]9y Agostino Mozzi .
i6c8. Mario Mazzoleni
. 1621. Benedetto
Baselli . 1627.
Pietro Bossi. 1632.
Dioneo Albani. 1632.
Tommaso Zilioli . 1 65
s • Ambroggio Agosti .
1636. Gio. Battista
Rota. 165-5-. Francesco
Cima . ié8 5-.
Jacopo Viscardi. 171 1.
Giovanni Graziani. 1716.
Gio. Battista Ceffis.
1721. Pietro Domenico
Ceffis. 1727. Gio.
Antonio Voipi. 1730.
Fantino Maria Donati.
1732. Gio. Battista
Volpi. 1739. Antonio
Terzi. 1740. Angelo
Schiavetti. 1780. Alessandro
Barca. I03 Prof,
di Filosofia, e
d Legge .
Prof, di 1
ilosafia. Prof, di
Medicina * Sindico
Rettore v Sindico
Rettore. Prof, di
Filosofai. Sindico Rettore.
Sindico Rettore .
Sindico Rettore. Prof,
di Logica .
Prof, eli Filosofìa
, d' Istoria
. Prof, di
Legge. Prof, di
Legge. Prof, di
Eloquenza ■ Sindico
Rettore. Prof, di
Anatomia. Prof, di
Legge. Prof, di
Metafisica* Prof! di
Legge. NOI RIFORMATORI DELLO
STUDIO DI PADOVA,
XX vendo veduto
per la Fede
di -Revisione, ed Ap-
provazione del P F.
Serafino Bonaldi Inquisitor
Ge- neral del Santo
Ofrizio di Bergamo
nel Libro intitola-
to Della Vita, degli
Studi* e degli
Scritti di Gvlielmo
Grataroli MS, non
vi esser co-
t a alcuna
contro la Santa
Fede Cattolica , e
parimen- ti per attestato
del Segretario Nostro
, niente contro
Principi , e
Buoni Costumi ,
concediamo Licenza a
Fraiicefco Lo catelli
Stampator di Bergamo
, che possa
essere stampato ,
osservando gli ordini
in materia di
Stampe , e
presentando le solite
Copie alle Pubbliche
Librerie di Venezia,
e di Padova.
Dat. li io.
Marzo 1787. (
Andrea Q verini
Riformat. ( Cav.
P.° Morosini Riformat.
( Zaccaria Vallaresso
Riformat. Registrato in
Libro a Carte
15-7. a,l num.
zooS. Giufcppc Gradcnigo
Segr. ! '.,•
Pressboard Pamphlet Binder
Gaylord Bros. Inc. Maker
s Syracuse, N. Y. PAT.
JAN 21, 1908 Guglielmo Grataroli. Gratarolo.
Grataroli. Grice e Grataroli. Luigi Speranza.
Grice e Grecino:
la ragione conversazionale alla Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). FIlosofo italiano. An amateur philosopher. Seneca
describes him as man of distinction, but
with little serious philosophical ability of interest. Giulio Grecino.
Grice e Gregorio: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale dell’arte grammatica degl’angeli – filosofia
italiana – filosofia lazia – filosofia romana – scuola di Roma -- Luigi
Speranza (Roma). Filosofo Italiano. Filosofo
Lazio. Filosofo romano. Roma, Lazio. Da roma -- il grande: Grice: “For one, he
is the punning Pope!” Grice: “What WAS Gregorio’s
implicatura? A complex one, since he uses the counterfactual: “si angeli
fuessent.” Grice: “In The Sellars/Yeatman rewrite, the meta-implicata is that
you must have read Bede!” Grice: “Poor Gregorio Magno had to fight with the
Lonbards, and the sad thing is he lost!”
-- Grice takes inspiration on
Shropshire’s argument for the immortality of the soul from Gregorio Magno
(Dialogo). Figlio di Gordiano, appartenente
all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante di Roma che mantene prestigio
economico e sociale, nonostante la caduta dell'Impero. La sua "ars
grammatica" e limitata e lo stile
che denota i suoi scritti è in linea con quello dei filosofi tardo-antichi. Di questi imita, in
particolare, solo poche figure retoriche come l'anafora ed il gusto
dell'esempio e dell'aneddoto moralizzante. La sua conoscenza del diritto si
centra in CICERONE, da cui riprende anche definizioni e nozioni filosofiche del
PORTICO. Insegna su colle Celio. Secondo la tradizione, mentre Gregorio
attraversa, alla testa della processione, il ponte che collegava l'area del
Vaticano con il resto della città (chiamato allora "Ponte Elio" o
"Ponte di Adriano", oggi Ponte Sant'Angelo), ha la visione
dell'Arcangelo Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfodera la sua spada.
La visione (che secondo alcune fonti e condivisa da tutti i partecipanti alla
processione) venne interpretata come un “segno” celeste pre-annunciante
l'imminente fine dell'epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i
romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana Castel Sant'Angelo e, a ricordo
del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di un angelo in
atto di rinfoderare la spada. Ancora oggi nel Campidoglio è conservata una
pietra circolare con impronte dei piedi che, secondo la tradizione, sarebbero
quelle lasciate da Michele quando si ferma per annunciare la fine della
peste. Vede alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita,
bellissimi di aspetto e pagani, tanto da aver esclamato, rammaricato. Non
Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati. Comunque in meno di II anni
diecimila Angli, compreso il re del Kent Ethelbert – e la famiglia di Grice --
si convertirono. Obietta invece sulla proibizione ai soldati imperiali di
diventare «soldati di Cristo», ovvero di entrare a far parte del clero. G.
detta suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause. Il
monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo
separava dal pontefice, per vedere cosa egli fa durante i lunghi silenzi,
assistendo così al miracolo di una colomba (che rappresenta naturalmente lo
Spirito Santo), posata su una spalla del papa, che gli detta a sua volta i
canti all'orecchio. Opere: “Expositio super Cantica canticorum – “Cantico dei
cantici”; “Moralia in Job (Giobbe); “Homiliae in Evangelia”, omelie sui
Vangeli; Homiliae in Hiezechihelem prophetam, oomelie su Ezechiele; A
Sacramentarium Gregorianum con cui riformò il canone della messa, rendendola
più semplice ma più solenne; Antiphonarius centola nuova redazione del libro
dei canti liturgici; Dialoghi; Libro su santi italiani a lui coevi; “San
Benedetto da Norcia” “Sul destino dell'anima” “Su alcune profezie”; “Regula
Pastoralisun manuale per la vita e l'opera dei vescovi e in generale di coloro
che ricoprono il ministero pastorale; Le Epistolaeun registrum,«12 marzoA Roma
presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto il grande, la cui
memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione.» «3
settembreMemoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere
intrapreso la vita monastica, svolse l'incarico di legato apostolico a
Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le
questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre.”“Si
mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i
bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque
la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Il proprio
del santo in rito romano contiene la seguente colletta: Deus, qui populis tuis
indulgentia cónsulis et amore dominaris, da spíritum sapiéntiae, intercedénte
beáto G. papa, quibus dedísti régimen disciplínae, ut de proféctu sanctárum
óvium fiant gáudia aetérna pastórum. Per Dominum nostrum Iesum Christum La
Chiesa di Manduria custodisce un frammento d'osso del suo braccio destro. La
Chiesa di Casola custodita un frammento d'osso della sua mano destra. G. Pepe,
Il Medio Evo barbarico d'Italia, Dizionario
Biografico degl’taliani, Roma, Mareschini, G. Magno e la cultura classica” G.
scrisse di sé ego quoque tunc urbanam praeturam gerens pariter subscripsi, ma
poiché in una variante del testo praeturam è sostituita da praefecturam, dalle
sue epistole non è possibile sapere con esattezza se è prefetto dell'urbe o
piuttosto pretore dell'urbe. Gasperri, ITALIA
LONGOBARDA, Laterza, Dialogi, Roma, Tipografia del Senato, Dizionario
biografico degl’italiani, Opera Omnia dal Migne patrologia Latina con indici
analitici. Grice: “Gregory
did not know what those were: ‘angeli,’ his companion answered. Adamant,
Gregory corrected him: “No. They are Anglicans, they are not angels!” -- The
grammatical structure of Latin of the seventh to eighth centuries had changed
in comparison with the Latinitas of the fourth century. Although Bede builds
his argument on the grammar textbooks of Antiquity, he adopts G. the Great’s
directive to subject the grammar rules to the language of the Scriptures and
not to ancient grammar textbooks. G. THE GREAT, Moralia in Iob, PL -- quia
indignum uehementur existimo, ut uerba caelestis oraculi restringam sub regulis
Donati’ (‘I consider it strongly unworthy to restrict the words of divine
revelation to the rules of Donatus’). G. did NOT write an ‘ars grammatica’ –
Bonifacio did! – G. does mention the ‘sub regulis Donati’ – which is worth
transcribing: “sed tam pueriliter istum labi non indignum fortasse fuit, qui
litteras fastidit et pro nugis habet, iisque studere episcopum, impium et
profanum putat – et alibi pene gloriatur se artem loquendi, quam magisterial
disciplinae exterioris insinuant, servare despexisse, non barbarism confusionem
devitare, situs motusque praepositionum, casusque servare contemnere, quia
indignum (inquit) vehementur existimo ut verba caelestis oraculi restringam sub
regulis Donati – quasi vero humani divinique sermonis leges addiscere et
observare, id sit caelestia oracular subiiere. Non metacismi collisionem fugio,
non barbarism confusionem devito, situs motusque et praepositionum casus
servare contemno, quia indignum vehementer exisitimo ut verba caelestis oraculi
restringam sub regulis Donati. Non
rifuggo dalla collisione del metacismo, non evito la mescolanza di barbarism,
non tengo conto della posizione, degli spostamenti e delle preposizioni con I
casi che esse reggono, perche repute cossa assai indegna coartare le parole del
celeste oracolo entro le regole di Donato. Ep. Miss. C. PL. Cio che a G. sembra
indegno non e l’obbedire alle regole della grammatica – anche in questo e uomo
di disciplina – ma la retorica di Donato, che teoreizza e prescribe, contro la
LIBERTA dell’espresione originale, il capriccio del maestro. Ructat corde bonum
sine lege Donati verbum. La parola buona erompe dal cuore senza le leggi di
Donato. Sommamente disdicevole assogettare le parole dell’oracolo celeste alle
regole di Donato. L’esegeta del libro di Giobbe non trascura di continuo le
norme grammaticali. G. sa scegliere tra due letture di un medesimo vesetto,
indicare i tropi di paragone e di metonimia, il valore della congiunzione di
coordinarzione, l’etimologia di una parola. Insomma, G. non esclude dall sua
esegesi il ricorso ai metodoi di i spegazione grammaticale classica. Facendo
mostra di una conosenza ostentata della tecnologia grammaticale G. si preoccupa
evidentemente di far comprendere che il suo NON-VOLERE non e un NON-Sapere. It was said a pigeon dictated
his Gregorian chants. Not only did he see the angel land on ponte sant’angelo,
but was able to retrieve the stone and give it to the Campidoglio – he joked on
the anglii being potentially angels, should they were Roman!” – I limite dei
arti liberali in Gregorio. Grice: “It was a good thing for Western civilization
that Gregorio could care less about Greek!” -- Gregorio il Grande, Gregorio I – Gregorio
Magno. Gregorio. Gregorio da Roma. Keywords: angeli,
ars grammatica – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gregorio: implicatura e
grammatica” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grandi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del progresso all’infinito della rosa di Grandi -- implicatura
infinita – filosofia lombarda – filosofia cremonese – scuola di Cremona -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cremona).
Filosofo italiano. Filosofo lombardo. Filosofo cremonese. Cremona, Lombardia. Grice:
“I like Grandi – and Grandy – for one, Grandi (if not Grandy) proves that
geometry is a branch of mathematics with his rose curve – a geniality!” – Figlio
di Piero Martire, ricamatore, e Caterina
Legati, compì i suoi primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi
nel locale Collegio dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero
camaldolese di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli
originari Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti. Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna
a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole”
al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (serie di G.)
a segni alterni di numeri può non convergere (serie di G.). Divenne membro
della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la curva
algebrica da lui chiamata rodonea per la forma che ricorda il rosone delle
chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide, Venezia, Savioni. Fu
il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis infinitorum”; “Trattato
delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum problematum”
(Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite parvorum ordinibus disquisitio
geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica de momento gravium in planis
inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la controversia eccitatagli
contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad exceptiones clari varignonii
libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas circa magnitudinum
plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli contactus” (Pisa, Bindi); “Del
movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze); “Relazione delle
operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini); “Trattato
delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni coniche
d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze, Tartini);
“Instituzioni Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di aritmetica
pratica” (Firenze, Tartini); “Sectionum conicarum synopsis” (Firenze, Giovannelli);
“Idraulici italiani."Rodonea" deriva dal greco Ροδή, rosa. La curva
rodonea è anche chiamata "rosa di Grandi" in suo onore. G. Ortes,
Vita del abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia, Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre camaldolese matematico. Francesco
Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I have two ways to deal with ‘mean’:
‘no sneaky intention allowed, including this – (o) all intentions are open
ones, including this one – self-reference; or ‘optimal infinite’ potential
infinite/actual infinite – titular versus de facto. In any case, both are
better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say, “Schiffer and others,” it
should be pointed out that the first to show this was, of all people, my tutee
Strawson – Stampe and Patton came close! (I love them guys! Patton is a gentleman,
and Stampe, too! Both brilliant philosophical gentlemen,
too!” -- In geometria è detta rodonea la curva algebrica o trascendente
il cui grafico è caratterizzato da una serie di avvolgimenti attorno ad un
punto centrale. Nei casi più noti tali avvolgimenti producono figure a forma di
rosone, da cui deriva alla curva il nome rodonea (dal greco rhódon, ròsa). La
curva rodonea è chiamata anche rosa di G. da G., il matematico che la battezzò
e studia. Rodonee ottenute per valori diversi del parametro
{\displaystyle \omega ={\frac {n}{d}}} Tartapelago rosa Grandi 04.gif
Vari modi per la costruzione di Rose di Grandi. Animazioni realizzate in
MSWLogo[1] La rodonea si può considerare un caso particolare di
ipocicloide. Equazione della curvaL'equazione delle rodonea in coordinate
polari {\displaystyle (\rho ,\theta )}è: {\displaystyle \rho =R\sin
\omega \theta }, dove R è un numero reale positivo che rappresenta la massima
distanza della curva dal centro degli avvolgimenti, e \omega è un numero
reale positivo che determina la forma della curva. È possibile anche scrivere
la rodonea come {\displaystyle \rho =R\cos \omega \theta }, che produce una
figura analoga, ma ruotata di un angolo pari a {\displaystyle {\frac {\pi
}{2\omega }}}radianti. Proprietà Se \omega è un numero intero, la
curva ha un numero finito di avvolgimenti, tutti passanti per l'origine degli
assi, che generano una serie di "petali" componenti la figura a forma
di rosone; il numero dei petali è pari a: \omega , se \omega è
dispari; {\displaystyle 2\omega }, se \omega è pari. Osserviamo che non è
possibile ottenere rose con un numero di petali pari a {\displaystyle 4n+2}.
Per {\displaystyle \omega =1} si ottiene un unico petalo, ovvero una
circonferenza non centrata nell'origine. L'area della superficie
racchiusa dalla curva è pari a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{2}}} per k
pari, a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{4}}} per k dispari. Se
\omega è un numero razionale {\displaystyle {\frac {n}{d}}}, la curva ha
un numero finito di avvolgimenti, che si intersecano in più punti creando una
serie di petali parzialmente sovrapposti; nella figura a fianco sono
visualizzate le rodonee ottenute per alcuni valori di n e d. Come caso
particolare, per {\displaystyle \omega ={\frac {1}{2}}}, si ottiene il folium
di Dürer. In entrambi i casi precedenti, la curva ottenuta è algebrica;
se invece \omega è un numero irrazionale, la curva è trascendente ed ha
un numero infinito di avvolgimenti che non si chiudono e formano un insieme
denso, passando arbitrariamente vicino a ogni punto del cerchio di raggio R. Pietrocola,
Curve storiche, Rose di G., su Tartapelago, Maecla, Rhodonea Curves, in The
MacTutor History of Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics,
University of St Andrews, Scotland. Voci correlate Ipocicloide Figura di
Lissajous Sistema di coordinate polari sistema di coordinate
bidimensionale Atomo di idrogeno atomo dell'elemento idrogeno
Metodo simbolico Il progressus in infinitum (in italiano progresso
all’infinito o regressus in infinitum regresso all'infinito, è un'espressione
della filosofia scolastica che indica un modo di argomentare logicamente,
quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un termine, il quale però rende
necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo a un ulteriore termine; e
cosi via senza che si possa mai giungere a un punto di spiegazione ultimo e
definitivo. Questo procedimento logico, usato largamente da Aristotele e dagli
scettici, vuole quindi dimostrare l'insufficienza di un'argomentazione. La
differenza tra le due espressioni consiste nel ricercare la causa prima (ad
esempio: causalità ideale platonica) o spiegazione definitiva di una cosa (ad
esempio: causalità naturale aristotelica) procedendo logicamente in avanti
progressus o all'indietro regressus. Un esempio di un procedimento logico
basato sul regressus in infinitum si ritrova nell'"Argomento del terzo
uomo" di Aristotele. Kant nella settima sezione della sua Critica
della Ragion Pura chiama progressus in indefinitum questo infinito per
addizione che non ammette nessuna limitazione se non quella provvisoria che gli
può essere assegnata ad ogni suo passo, prima di procedere al passo successivo.
Si tratta di un infinito irraggiungibile, non potendosi contare effettivamente
infiniti numeri naturali. Per questo motivo Aristotele nel LIZIO afferma
che il numero è infinito in potenza, ma non in atto. come appare chiaro se si
rappresentano i numeri naturali con una serie di punti equidistanti, che si
susseguono senza fine lungo la retta in una successione infinita discreta nel
senso che tra due elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come
assenza di elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di
questi infiniti elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il
terzo, e così via. L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto
per divisione; «la caratteristica di tale infinito, che Kant chiama regressus
in infinitum, è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata:
dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole, risulta
evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e
presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad
una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati
durante un processo all’infinito che inevitabilmente li raggiunge tutti.
La differenza tra progressus in infinitum e regressus in infinitum
secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gl’elementi vanno cercati al
di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di
ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente. Note Dizionario
internazionale Enciclopedia Treccani alla voce "Regressus in infinitum Bocconi
- Aristotele e l'infinito Mathesis Portale Filosofia: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di Filosofia. Luigi Guido Grandi. Grandi. Keywords:
infinite implicature – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grandi: implicatura
infinita” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grassi: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale -- d’Ovidio a Vico: la metafora inaudita e il
concetto di stato in Machiavelli – filosofia fascista – filosofia lombarda –
filosofia milanese – scuola di Milano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Filosofo Lombardo.
Filosofo milanese. Milano, Lombardia. Grice: “I like Grassi. He philosophised, like I did,
on the metaphysics of Plato.” Grice: “Grassi has the gift of the gab: ‘metafora
inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’ –“ Grice: “Grassi has mainly explored
Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s general use of ‘imago’ to re-approach
rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto Martinetti. Opere: “Metafisica
platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on H. P. Grice on the axioms of
metaphysical Platonism --. “Apparire
ed essere” (Nuova Italia, Firenze). “Il bello e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger
e umano – Mann in Heidegger” (Guida, Napoli). “La preminenza della metafora”
(Mucchi, Modena). “La filosofia dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi,
Napoli). “La follia -- Umanesimo e retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza
dell'immagine -- ivalutazione della retorica” (Guerini, Milano) “La metafora
inaudita, -- cf. la lingua inaudita -- Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza
della fantasia” Guida, Napoli Filosofare noetico non metafisico (Congedo,
Galatina); “Vico e l'umanesimo” Guerini, Milano Il dramma della metafora. Ovidio,
Massimo Marassi, Tipografica, Roma,“Arte e mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole,
Napoli; “Tra antropologia, logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico
nell'antropologia di Grassi”; “Platone nell’onto-antropo-logia di Grassi Dizionario
Biografico degli Italiani. “La risposta
(Antwort) del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger,
Poscritto a Che cos’è metafisica?“L’espressione metaforica è in sé e per
sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo
carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E.
Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocaleAccostandoci ai lavori
di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione
di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di
esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe
culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile
grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi
stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e
Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare
alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento d’anabasi
e catabasi, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci
restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella
sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra
analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come filo conduttore il tema
dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per
comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che
la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una
ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita.
La RISPOSTA (ANT-WORT) del pensiero è l’origine della PAROLA (WORT) umana,
M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica? “L’espressione metaforica è in
sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e
con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica
dell’esistenza”, E. G., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale
Accostandoci ai lavori di Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento,
l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e
minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte
le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello
stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli
ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a
Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di
portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il
movimento d’anabasi e catabasi, dalla superficie al fondale, dal suolo al
sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano
l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante.
Nella nostra analisi del pensiero di G. abbiamo seguito come filo conduttore il
tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata
per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch
che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una
ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita
dell’autore su cui autorevoli interpreti si sono diffusamente espressi1. Il
coacervo di autori, prospettive e tematiche, pone in luce i numerosi ambiti
toccati dal filosofo: Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica,
ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, Palermo, Centro
Internazionale di studi di estetica, Civati, Un dialogo sull’umanesimo. Gadamer
e G., l’Eubage, Aosta 2003; R. J. Kozljanic, Ernesto Grassi. Leben und Denken,
München, Fink; W. Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia
Humanitatis di Ernesto Grassi, in “Giornale critico della filosofia italiana”, Grassi.
Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, München, Alber; J.
Sànchez Espillaque, G. y la filosofìa del humanismo, Sevilla, Biblioteca
Viquiana- Fenix Editora; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia
di Ernesto Grassi, Vaprio d’Adda, GDS, La svolta metaforica dell’ontologia
fondamentale, Vaprio d’Adda, GDS, Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi
scritti, La città del Sole, Napoli] mitico/metaforologico, antropologico,
filosofico, storia delle idee e storia della cultura. In questo contesto
teorico emerge la centralità del concetto di Lichtung, il quale consente di
comprendere la direzione metaforologica del pensiero grassiano che nei saggi
giovanili si era concentrato maggiormente su una tematizzazione dell’ontologia
fenomenologica. Si tratta di una Lichtung di evidente sapore heideggeriano che
allarga il suo raggio di incidenza sulla cultura e sulla società trasformandosi
nelle vichiane luci della Scienza Nuova. La nostra attenzione si concentrerà
sui temi che accompagnano l’iter grassiano dall’ontologia alla metaforologia.
In questo percorso ovviamente alcuni temi o spunti resteranno sullo sfondo –
come l’agire delle condizioni storico-politiche (magistralmente ricostruite da
Büttemeyer) – e si privilegeranno quegli autori e quei temi che più ci appaiono
attinenti con l’argomento grassiano che vogliamo mettere in risalto. Dal nostro
punto di vista la prospettiva grassiana va interpretata come il tentativo di
approntare una nuova filosofia, nell’epoca in cui se ne è decretata la morte,
che sia innanzitutto esperienza del mondo e non solamente conoscenza. O meglio:
di conoscenza pur sempre si tratta, il punto di riferimento è pur sempre la
ragione, ma una ragione non classica: una “ragione fantastica”. La svolta
grassiana è verso la fantasia e la metafora2, da una teoria del concetto a una
teoria dell’inconcettualità per usare una ben nota espressione blumenberghiana.
Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta la sua problematicità l’eredità di
quel discorso posto a partire dal Settecento in modo sistematico
all’interrogazione filosofica: il conflitto tra ragione e sentimento che agita
le pagine degli empiristi, dei poeti, della critica kantiana fino alla
tematizzazione husserliana. La questione è ancora una volta quella di
riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una
soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a
un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della
razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura
si intersecano. Sulla svolta metaforica dell’ontologia fondamentale di G. cfr.,
S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit. !
5! In questo orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti continui di
demitizzazione: una delle mitologie da sfatare per il filosofo è quella della
ratio e dell’atto dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero moderno. Ma
tale operazione decostruttiva, tale filosofia col martello, per usare una ben
nota metafora nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione, di segno
opposto, della crisi della ragione, del tramonto della civiltà in cui cultura e
civilizzazione si sono definitivamente separate, con la conseguenza di una
dilagante inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in G. una
rassegnazione al declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico
della dissoluzione delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro
inizio del pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle
immagini. Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3,
esemplarmente condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve,
raccontato agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e
ricordato da Grassi in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno
della questione più generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra
linguaggio dimostrativo e indicativo già avvertito in maniera problematica
dalla riflessione sofistica gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a
ritroso, i termini della questione ci conducono sulla strada di un’esatta
definizione della teoria della visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa
definizione: “se infatti la forma dimostrativa, come pure quella indicativa,
del discorso hanno le loro radici nella teoria, nella vista, si deve allora
riconoscere che il vedere, la visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che
l’immagine, l’eidos, giunge in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto
l’inadeguatezza del linguaggio razionale quanto di quello indicativo, dato che
essi si basano sul vedere quale atto più originario dello stesso linguaggio?”5.
L’immagine si riferisce non solo all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al
senso che diviene rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni
qualitative proprie. Husserl ha parlato non Grassi usa il termine immagine
nella sua identità con l’eidos come forma, schema e tipo. Cfr. E. G., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989, p. 17. 4
Ivi, pp. 15-16. 5 Ivi, p. 17. ! 6! a caso di sintesi passiva come
genesi del simbolico, lezione che Grassi accoglie nel suo tentativo di
ricostruire un intero, una realtà dotata di sensi molteplici e stratificati,
senza il sacrificio di alcuna dimensione dell’esperienza. La
concettualizzazione messa a punto da Grassi dei grandi temi della filosofia,
dell’arte e della letteratura, mostra l’attenzione verso le dimensioni del
mondo storico, delle passioni dell’uomo, delle tradizioni drammatiche, teatrali
e metaforiche dell’Occidente. La luce gettata su questi campi di esperienza
spesso è offuscata dal tono della polemica e della rivendicazione degli ideali
del passato, che spiegano anche l’andamento della pagina grassiana: si tratta
di uno stile sempre mosso da un’inquietudine esistenziale, che si traduce in
un’espressione non sempre pacata e in un linguaggio lineare, ma in una parola
che ora è invettiva, ora icastico assioma. Il linguaggio non raggiunge mai la
trasparenza della deduzione sillogistica o della spiegazione logica,
configurandosi piuttosto come un linguaggio assiomatico e arcaico, che forse
trova una spiegazione nella critica grassiana al deduttivismo logico e ad un
sapere schiavo della mathesis universalis. Il discorso non può prendere che una
piega allusiva e indicativa, propria di un altro modo di relazionarsi alla
realtà. Grassi in qualità di cultore attento delle scienze umane, mostra quella
partecipazione esistenziale ed emotiva ai temi cruciali per l’esistenza
dell’uomo tipica di coloro che esperiscono la filosofia come bios pratico e
teorico, e solo secondariamente come gnoseologia e epistemologia. Dalla sua
prospettiva la ricerca logico-deduttiva urta definitivamente contro
l’indimostrabilità dei principi, tema, questo, che ricorre in gran parte dei
suoi saggi. Ma, allora, qual è la via di accesso a ciò che ci sovrasta e ci
governa? Come esperire l’archè originaria? Non attraverso la ratio si accederà
ai principi, ma attraverso il pathos: un sapere arcaico, un theorein che non si
limita ad usare i principi, ma a rifletterci sopra nel modo giusto. L’essere si
rivela attraverso un vedere che è patire poiché “la passione svela la realtà
del nulla che chiama a decidere, a violare il silenzio dell’abisso svelando il
senso segreto che in esso ci parla” 6 S. Limongelli, La svolta metaforica
dell’ontologia fondamentale, cit., p. 4. ! 7! A una pars destruens,
a cui è dedicato parte del pensiero del filosofo, si accompagna anche una pars
construens, che si concretizza nell’ipotesi metodologica ed epistemologica del
sapere arcaico – che coinvolge tutta la riflessione riguardo il mito, il
pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium e la phantasia. L’apogeo della
critica alla deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione
della intima correlazione delle nozioni aristoteliche di pistis e di episteme.
Il filosofo afferma in Significare Arcaico che “la pistis, intesa come fondamento
dell’inspiegabile, perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo
originario e, come tale, solo il mondo della fede è fecondo”7. Per pistis G. intende
non un’opinione o una forma di persuasione ma il modo di realizzarsi in noi
dell’originario che comanda. La pistis diviene il fondamento della retorica
originaria che ha carattere ingegnoso e arcaico. Il collegamento istituito tra
nous/ingenium e archè mette in luce la stessa matrice originaria dell’episteme:
l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni
indicativi colti attraverso la passione. Secondo G. ogni discorso dimostrativo
razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale
scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della
facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”9.
Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della filosofia
e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e
storica. Il fondamento del reale, del mondo storico e del mondo umano, è
quell’abissale fondamento di ogni fondamento, che, sulla scia heideggeriana, il
pensatore individua sia in Il dramma della metafora, quando la riflessione si
concentra sull’abissale nous passionale, sia in Das Reale als Leidenschaft.
L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla
matematizzazione di ogni discorso, non compromettono tuttavia lo spessore
speculativo della proposta di G. che resta
7 E. Grassi, Significare arcaico, in “Archivio di filosofia”, Roma,
1966, p. 490. 8 Ivi, p. 489. 9 Ivi, p. 491. ! 8! filosofica proprio
nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione
dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. La sua
prospettiva, che abbiamo scelto di definire onto-antropo-logica, può essere
annoverata all’interno del più ampio dibattito che anima la filosofia del ‘900:
quello che vede incrociarsi i temi dell’antropologia filosofica con quelli
della riflessione sulla retorica. Sullo sfondo agisce il paradigma
dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il filosofo, sensibile alla
riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi a lui coevi, è convinto
che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista
morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi,
inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al
mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso;
da qui il suo disorientamento e condizione di estraneità. Per il pensatore “la
differenza essenziale tra vita animale e umana sta nella razionalità di
quest’ultima che (contrariamente a quanto siamo soliti credere) in un primo
tempo non segnala una superiorità, bensì una certa inferiorità dell’uomo di
fronte all’animale”10. Tale inferiorità – il paradigma della carenza – appare
in tutta la sua evidenza se si tiene in considerazione che nell’animale la
“regia dei sensi”11 restituisce il significato immediato dei fenomeni. Il
disancoraggio umano da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’umo
compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella
riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità
di conservazione della vita. Nascono la techne, che “ordina i fenomeni in
funzione a fini da realizzare”12, e l’episteme, che “delimita i fenomeni in
funzione a principi, a ragioni”13. La prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon,
come compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come
trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione Ivi, p. 489.
11 Ibidem. 12 Ivi, p. 490. 13 Ibidem. ! 9! dell’ambiente che solo
così diviene mondo. In tale processo antropogenetico per G. la retorica occupa
un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di
quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Essa ha un
doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano
e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria
che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel
meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana.
All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei SEGNI
(SEMATA), SEMIOTICA, e teoria del senso, SEMANTICA arcaica, ben lontana dalla
semiotica formale. Una teoria del SEGNO e del senso per il filosofo dove essere
in grado di elevarsi al livello di filosofia in quanto dottrina del SEGNO sulla
base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano, ergon anthropinon. La
questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del
mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, la
SEMIOSFERA da cui si dipartono mondi possibili dell’umano. Su questo sfondo
teorico denso e complesso nella sua ricchezza tematica si staglia la questione
della rivalutazione dell’umanesimo, connessa alla tematizzazione della
co-originarietà di logos e pathos (dove il trascendentale dell’esperienza è il
sostrato patico che va a fondare la stessa vita cogitativa), e alla critica del
moderno. L’interpretazione grassiana dell’umanesimo è lontana dai presupposti
teorici e metodologici a lui coevi che privilegiavano il contributo ficiniano
nel superamento del pensiero immaginifico e retorico: lo scopo di G. è quello
di mostrare come l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con
l’attività razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia
e della parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e GENTILE ad essere
messa in discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di
spostare i termini della questione sul versante ontologico- Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli; La filosofia
dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli 1988, pp.
17-36. ! 10! ermeneutico che si concreta nella retrodatazione
dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al Rinascimento – contro la tesi che
individua in Cartesio l’inizio della modernità – in cui emerge la questione
della connessione tra soggetto e oggetto nell’espressione linguistica. A
partire dalla messa in discussione del pregiudizio heideggeriano nei confronti
dell’umanesimo, sia esso considerato come epoca storica ben determinata o
piuttosto come Weltanschauung inautentica, G. porta avanti la direzione della
Humanistische Bibliotek per l’editore Fink contribuendo alla pubblicazione di
cinquanta volumi a tema umanistico, come le opere di Petrarca, Salutati, Valla,
Pico. La questione dell’Umanesimo non è ristretta nei confini della paideia che
ha a cuore la rivalutazione della dignità dell’uomo ma ha una vocazione
metafisica e ontologica in quanto aperta al problema dello svelamento. Come è
stato messo in luce dagli interpreti l’attenzione è spostata verso l’Umanesimo
problematico anziché verso quello sistematico, verso la ricchezza del possibile
e non verso l’unilateralità del vero16. Gli autori prediletti da Grassi
mostrano tutti una critica verso gli schemi astratti ed aprioristici e
un’apertura verso la giurisprudenza, la retorica, la religione dei miti e la
politica. La dimensione retorica va considerata secondo il filosofo non come
elocutio ma come inventio: non si tratta di un ornamento edonistico del
discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge
al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che
tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che
opportunamente si salda in G. alla centralità della metafora, stabilendo con la
topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre
provvisorio”17. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete
degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale
della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a G. di porre
l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero, più che alla sua fase
declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose, che
altro non è che Cfr., A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto
Grassi, pp. 385-404, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, La Città
del Sole, Napoli] “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova,
Degnità), Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione
optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e
ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico che divengono le due
allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare
quale bersaglio polemico di un discoro che vuole scardinare l’impostazione
razionalista del pensiero. Riconosciamo in questa impostazione l’agire delle
categorie interpretative del maestro degli “anni mitici”, Heidegger, il quale
sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione
ontologica, valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo18,
tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non
ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile
leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da
Cartesio19avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda
che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema
del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento
poi si riconduce – ad esempio , nelle suggestive pagine di Il nichilismo
europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare
metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi
cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato
dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo21, poiché l’uomo diventa
subiectum22, il fondamento e la misura di ogni Sull’interpretazione
heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr. M. Heidegger, Essere e
Tempo, Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione heideggeriana del
pensiero di Cartesio cfr., J. F. Courtine, Les meditations cartèsiennes de
Martin Heidegger, Les ètudes philosophiques 2009/1, n ̊ 88, p. 103-115. 20 È
fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel Discorso sul
metodo (CARTESIO, Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p. 72). Tale
espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che nonostante l’ergo non
ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì quella di una
certezza intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una esperienza
incontrovertibile, poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più
importante della filosofia, come è possibile leggere in Id., I principi della
filosofia, parte I, § 7. Per un approfondimento circa la questione del cogito
cfr. G. Mori, Cartesio, Carocci, Roma; Heidegger, Il nichilismo europeo,
Adelphi, Milano, p. 158. 22 Ivi, p. 168. ! 12! certezza e verità.
“La tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si
trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della
via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”23.
Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione
heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio
cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il
pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia
moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie
dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”24.
Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul
piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e
temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic
et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica
e topica, è posto per la prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente
articolato nella filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum
del quale G. ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le tappe della
critica del napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di partire da un
primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde;
esclusione del verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena
deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde
pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare
quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico
di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica,
immaginativa, fantastica, ma anche politica, della vita umana, ridotta al suo
puro aspetto cogitativo. Sebbene il rapporto di Vico con il cartesianesimo si
presenti come un problema storiografico e filosofico complesso26 si può
senz’altro convenire con Grassi sull’opposizione vichiana alla critica Ivi, p.
169. 24 E. Grassi, Vico e l’Umanesimo, Guerini, Milano; Badaloni, Introduzione a G. B. Vico,
Feltrinelli, Milano 1961. ! 13! cartesiana nel contesto della
rivendicazione della priorità della topica: “giacchè, come l’invenzione degli
argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la
dottrina topica dev’essere preposta a quella critica” Non è la deduzione che
precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile
unicamente sulla base di un ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte
“topica che si chiarisce così come una dottrina dell’invenzione”29 di cui
Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in
Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti
e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia
possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”30. La questione è
ancora una volta quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della
realtà tenendo conto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da
interpretare in tutta la sua ricchezza. La ricerca del vero particolare,
circostanziale, storicamente determinato ci spinge a concordare con Bons
riguardo alla centralità dell’idea di agire situativo31, sullo sfondo del quale
si comprende la proposta retorica grassiana. Si tratta di un agire situativo
che alla formula cogito ergo sum sostituisce la formula coactus sum ergo ago32:
non “penso, dunque sono”, ma “sono costretto, G. B. Vico, Sul metodo degli
studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa
2010, cap. III, p. 39. 28 Sulla figura di Vico in Grassi Cfr. G. Cantillo,
Ratio e inventio nell’interpretazione dell’umanesimo, pp. 371-378, in AA. VV.,
Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ivi, A. Verri, Ernesto Grassi:
Linguaggio e civiltà in Vico, pp. 405- 423; ivi, S. Roic, Vico, Grassi e la
metafora, pp. 425-435; A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di E. Grassi,
cit.; ivi, A. Pons, Vico e la tradizione dell’umanesimo retorico
nell’interpretazione di Grassi, pp. 437-446; ivi, L. Amoroso, Vico, Heidegger e
la metafisica, pp. 447-470; ivi, J. Vincenzo, La ripresa grassiana di Vico,
l’unità di pietà e sapienza, pp. 471-491. Cfr., sull’incidenza
dell’interpretazione grassiana di Vico nel panorama degli studi vichiani
contemporanei G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota 5; Id., Verità e filologia.
Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema”, n.
2, 2011, pp.1-15, riviste.unimi.it/index.php/noema; J. M. Sevilla, Prolegòmenos
para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos in Vico y Ortega,
soprattutto il III capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico, Heidegger, Grassi y
el problema del humanismo retòrico, pp. 146-227. 29 E. Grassi, Vico e
l’umanesimo, cit., p. 34. 30 Aristotele, Topica, 101 b 3. 31 E. Bons, Il
pensiero di Ernesto Grassi. Una breve sintesi, pp. 75-98, in AA. VV., Studi in
memoria di Ernesto G., cit., p. 81. 32 R. Wisser, Ricordo di Ernesto Grassi.
Arte e mondo, pp. 159-191, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi,
cit., p. 188. ! 14! quindi agisco”. Proprio la ricchezza del
reale viene salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso capace di apprendere
maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato all’interno della
catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper
ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle
quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Si
comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici che per il filosofo sono
la base del discorso retorico e filosofico. La metafora è il luogo, lo
spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività dell’essere e il suo appello.
Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo significato è trasposizione la
parola metaforica sarà l’unica in grado di accogliere l’appello dell’essere34.
Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di
singole espressioni metaforiche, ma ciò che questo trasferimento nasconde, ciò
a cui supplisce. Su questo sfondo si può comprendere la declinazione
antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce
come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”35
in cui la metafora riveste un ruolo particolare. Essa si configura come un
fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola,
ma su cui si fonda. Seguendo le tappe fondamentali della sua ricerca teoretica
riscontriamo che l’elemento riflessivo – sia esso orientato verso l’attualismo,
sia esso ispirato dalla “metafisica immanente” di Heidegger, sia, infine,
caratterizzato dalla propria originale prospettiva del filosofare noetico non
metafisico – è tutto spostato verso la pratica filosofica nel suo farsi e
compiersi e non verso un astratto razionalismo. Accompagnandosi costantemente
ad una filosofia attenta alla correlazione uomo-essere, mai chiusa in una
dimensione esclusivamente ontologica, Grassi si misura con una continua
operazione di E. G., Retorica come filosofia, cit., p. 75. 34 Id., La metafora
inaudita, Aesthetica, Palermo 1990, p. 62. Sul tema della metafora in G. cfr.,
D. Di Cesare, Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger, pp.
25-48, in AA. VV., Un filosofo europeo: G., Aesthetica, Palermo 1996. 35 W.
Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida
della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi,
cit., p. 113. ! 15! storicizzazione delle strutture del mondo
storico umano: il bello, il buono, il vero, la triade concettuale alla quale il
filosofo riconduce la totalità del mondo storico. L’avventura filosofica di
Grassi mette al centro il soggetto umano e la sua coscienza – la coscienza
temporale umanistica – senza cadere nell’idealismo vecchio e nuovo, né in un soggettivismo
di cartesiana memoria, proprio perché la coscienza per il pensatore è un
compito, uno sforzo e un impegno. Concetti, questi, che scandiscono i momenti
della vita pratica e politica del mondo umano e vanno ad intrecciarsi con le
idee di disancoramento, oggettività e coscienza temporale umanistica. Il
compito, lo sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa in Il reale come
passione. L’esperienza della filosofia36 hanno una connotazione ermeneutica,
non solo pratico-politica, poiché permeano anche il processo
dell’interpretazione. La formazione umana – il cuore della retorica grassiana37
– fondata sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli
sostiene che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima
co-appartenenza, come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che:
“l’interpretazione è il risultato di un ipotetico progetto in cui viene in
seguito verificato se contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e
tutti gli elementi; questo procedimento è l’essenza dell’atto
dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un essere aperto al mondo e non dispone di
schemi già pronti, la sua formazione acquista un carattere esistenziale.
Esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se
stesso e con il mondo senza evitare la decisione che è sempre richiesta”38.
L’esistenza interpretante secondo Grassi ha carattere trascendente, dove la
trascendenza è sempre intra-mondana poiché “si fonda sulla necessità di
formare, di portare ad uno schema, ad una forma [...] la teoria della
formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla
luce dell’origine del nostro divenire; G., I primi scritti, e Id., Prefazione a
Der tod des Sokrates di Guardini, Retorica come filosofia, Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. ! 16!
diventa una ricerca arcaica, nella misura in cui si riferisce agli schemi
fondamentali (archai) dell’autorealizzazione umana”39. L’analisi grassiana mira
a proporre un’idea di “totalità del fatto umano” il cui pieno sviluppo è
obiettivo dichiarato della sua proposta neo-umanistica. G. sostiene che “il
fine degli studi umanistici è il pieno sviluppo di tutte le capacità dell’uomo,
dell’!"#$% &%'"()*%$%”40. Se la coeva concezione del sapere si
concentra solo sul suo aspetto di utilità all’uomo, misconoscendo la diversità delle
fonti dell’esistenza umana (il vero, il buono, il bello) per il filosofo
occorre svoltare verso una scienza che “riconosce che ci sono capacità
differenti, autonome l’una rispetto all’altra e nondimeno appartenenti tutte
quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e che dal loro pieno sviluppo
sorgono le diverse opere dell’uomo”41. Per il filosofo bisogna ammettere che il
sapere, il bello, il buono, non dipendono dall’applicabilità e che “solo
liberando le fonti della vita e rispettando la loro autonomia, sia può
realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella totalità che era anche
l’antico ideale della comunità politica, ossia della comunità umana”42.
L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e passione – in cui
riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage tedesco degli anni
giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio tra uomo e mondo
circostante caratterizzano una nuova visione del tempo che non trova più il suo
fondamento nell’a-priori formale della ragione ma nelle concrete e sempre nuove
connessioni che l’uomo istituisce attraverso le espressioni linguistiche,
artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi grassiani muovono dal rifiuto
di assolutizzare un’essenza universale dell’umano e dal proposito di rendere
ragione della condizione umana attraverso l’indagine dei possibili punti di
mediazione di ragione e passione, logos e pathos, tramite una ricerca che
potremmo definire ivi, p. 74. 40!Id., Prefazione a Die Totenrede des Perikles
di Tucidide, in Id., I primi scritti, cit., p. 979.! 41!Ibidem.! 42
Ibidem. ! 17! fenomenologia storico-ermeneutica – almeno per quanto
riguarda gli scritti tardi come La potenza della fantasia, La potenza
dell’immagine, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Retorica come filosofia,
La filosofia dell’umanesimo, Vico e l’umanesimo, La metafora inaudita, Il
dramma della metafora – che fa capo ad un concetto sintetico-trascendentale
della fantasia che si costituisce come strumento indispensabile di mediazione
tra l’esperienza storica e pratica finita e la generalizzazione dei miti, delle
metafore. Lungo questo processo complesso e ricco di articolazioni nel campo
della psicoanalisi (Freud), della letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide,
Ovidio, Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust,
Wagner, Hölderlin), dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler,
Plessner, Gehlen, Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (CICERONE
(si veda), Quintiliano, Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia,
avviene quello slittamento verso una “teoria dell’atto metaforico” che è
l’esito della sua filosofia. La ricerca sulla metafora non si configura
semplicemente come una fenomenologia metaforologica che si limita alla
descrizione delle metafore che ha prodotto la storia umana, ma come una teoria
che indaga il plesso azione-metafora. Si tratta di una teoria che guarda
all’energheia metaforica e al processo del metapherein segnando una distanza
netta dall’astrazione concettuale. Quest’ultima fissa il reale bloccandone il
flusso e la vita in una staticità, cristallizzazione e immobilità, mentre la
teoria grassiana pone in luce l’aspetto arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto
metaforico che genera il mondo umano proprio attraverso un atto di
trasposizione che agisce su due livelli: linguistico (linguaggio metaforico);
pratico-politico (fondazione della comunità umana a partire dalla umanizzazione
della natura tramite pratiche di trasposizione di significato). L’accento della
riflessione si sposta dalla ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul
come il reale si impone alla nostra percezione. Il reale, l’originario,
l’essere si impongono nell’urgenza dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela
la propria mutevolezza e l’uomo la propria risposta agli appelli dell’essere.
Nel corrispondere all’appello dell’essere si impone all’attenzione il pathos e
la sua funzione manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura
mondana e il logos, la parola, emergono come “rottura del sacro”, destino della
Menschwerdung. Logos come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens
sylva, che dice del fondamento il suo essere al contempo puro apparire e
progetto creativo. Il pathos arcaico, luogo del manifestarsi dell’abissale
potere dell’essere, non può che trovare espressione in un logos lontano
dall’astrattismo intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte poetico,
che più che essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso
all’interno della filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di
ricerca del senso. É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre
l’orizzonte di comprensione dell’essere. In Grassi si ravvisa la traccia di un
pensiero “integrale o integrativo”, sottratto alle rigide categorie della
ragione metafisica ma aperto all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si
costituisce allora come indagine dei punti di mediazione, di unità e
distinzione delle forme dell’essere. La questione suprema è la domanda sul
luogo e le modalità originarie in cui accade la nostra apprensione della
realtà. Il logos metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere,
come espressione della dualità creativa e patica dell’esperienza dell’originario.
Un’esperienza in cui “la poiesis diventa un momento della praxis”43, e non
un gioco effimero del dire, e la metafora si tramuta nella “serietà del pensare
filosofico”44. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non
concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il
concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare”45.
Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel silenzio tragico dell’aperto,
quello spazio abitabile dall’uomo. E. Grassi, La metafora inaudita:
originarietà e paradossia della metafora, in “Quaderni di italianistica”, La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale] Jaspers in una lettera
indirizzata a Heidegger scrive: “il messo di questa lettera, Grassi, di Milano,
desidera parlarle di persona. Studia filosofia tedesca, ha letto il suo libro e
ne ha una conoscenza sorprendente – naturalmente con tutti i fraintendimenti
dovuti alle interferenze della tradizione, ma tuttavia con una buona,
stupefacente approssimazione. Credo che il suo vivace interesse le farà piacere.”
Heidegger risponde: “Grassi mi ha fatto
in un primo momento una grande impressione per via della sua intensità e di una
particolare sensibilità. Ma mi è poi venuto il dubbio che si tratti di una
natura giornalistica” Anche Jaspers, poi, si pronuncerà in un modo altrettanto
poco benevolo definendo Grassi un brillante intervistatore ma non di certo un
filosofo. Oltre questi giudizi, in fondo sbrigativi, possiamo ricordare quelli
di CALOGERO (si veda), il quale in riferimento al primo libro di Grassi, Il
problema della metafisica platonica, pubblicato dall’editore Laterza grazie
all’interessamento di Croce, e dedicato a Heidegger, afferma che egli avrebbe
fatto meglio a scrivere un libro su Heidegger dopo aver studiato Platone invece
che scrivere un libro su Platone dopo aver studiato Heidegger. Croce scrive:
“insegnante in Germania, Grassi si propone il problema di avvicinare e indurre
a concorde collaborazione la filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema
non ha consistenza, perché non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana,
ma solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a
italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo” Heidegger-Jaspers, tr. It. Di A. Iadicicco, Milano Cortina.
Calogero, Recensione a G. “Il problema della metafisica platonica”, Bari, in
“Giornale critico della filosofia italiana”. B. Croce, Pagine sparse, Laterza,
Bari. E così De Ruggiero, Vanni-Rovighi, Ottaviano50. Insomma, negli anni in
cui il filosofo milanese ambiziosamente cerca di ritagliarsi un posto nella
cerchia degli intellettuali più prestigiosi dell’epoca i giudizi sulle sue idee
non furono troppo favorevoli. Grassi appare un brillante intervistatore a
caccia di filosofi, la cui opera è da considerare al massimo come prova cattiva
di un ingegno Ottimo. Ma stanno proprio così le cose? Quanto di vero c’è in
queste affermazioni e quanto, invece, di approssimativo? Un breve
ripercorrimento dell’itinerario speculativo di Grassi consentirà di comprendere
la plausibilità o meno dei giudizi critici ora ricordati. Dopo aver brevemente
assistito ai corsi di Scheler e di
Jaspers – andai a Marburgo da Heidegger che si dichiara disposto a seguire il
mio lavoro di libera docenza. I luminari dell’università di Friburgo erano
Husserl (che tene il suo ultimo corso come professore emerito), Heidegger (che assume la cattedra di filosofia), Grassi,
ripercorrendo le tappe salienti della propria autobiografia intellettuale,
pensa a quegli anni friburghesi definiti mitici. Si tratta, infatti, degli anni
mitici e indimenticabili delle lezioni di colui al quale Grassi guarda sempre –
nonostante le prese di distanza di natura politica – come ad un autentico
maestro: Heidegger. L’arrivo a Friburgo di G. è stato preceduto da un lungo
periplo intellettuale, oltreché geografico, che ha indotto alcuni interpreti,
come CACCIATORE a definire quella di Grassi filosofia del viaggio. Ruggiero,
G., Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari, “La
Critica”, Ottaviano C., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München,
in «Sophia», Napoli, Vanni-Rovighi S., Recensione a G., Vom Vorrang des Logos,
München, «Rivista di filosofia
neo-scolastica», Milano, E. Grassi, La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Sul tema del viaggio e del
resoconto di viaggio in G. come fenomeno non meramente odeporico ma
innanzitutto cognitivo cfr., G. Cacciatore, América latina y pensamiento
europeo en la “filosofìa del viaje”de Ernesto G., pp. 79- 91, in Id., El bùho y
el còndor. Ensayos entorno a la filosofia hispanoamericana, ed. e trad. di M.
L. Mollo, Planeta Bogotà 2011. “Serìa entonces un error garrafal esperarse del
libro de G. elementos meramente descriptivos o G., nativo di Milano, dopo aver
conseguito la laurea in filosofia con MARTINETTI (si veda) discutendo una tesi
dal titolo L’unità formale della vita e l’impostazione del problema teologico,
trae orientamento decisivo nel suo iter filosofico dall’incontro con CHIOCCETTI,
uno dei primi maestri della neo-scolastica milanese aperto al confronto con i
temi della modernità. Autore di un importante volume, La filosofia di CROCE, frutto
di studi, Chiocchetti porta avanti ricerche sui temi del modernismo, del
pragmatismo e della gnoseologia e su autori come Gentile e VICO che affascinano
molto Grassi, i cui primi lavori apparsi sulla rivista Rassegna Nazionale, di
stampo nazionalista, conservatore e cattolico, mostrano idee ispirate al
pensiero del carissimo ed onorato Chiocchetti e a valori liberali e
cattolico-attivisti, come si evince soprattutto dai saggi A proposito di un volume
dedicato alla figura di Mazzini; Germania, un resoconto di un viaggio alla
ricerca di idee che affratellino i tedesci e italiani; Il partito popolare
italiano. momentos narrativos de situaciones, paisajes, modelos de vida,
costumbres, mentalidades hay que leer las pàginas grassianas ante todo como una
experiencia personal que enterpreta el viaje (y la secuencia de sus
movimientos: la preparaciòn, la espera, el acercamiento, el estar y el
retornar) como un sìmbolo, como una metàfora del pensamiento occidental en
busca de sus orìgines. Y se trata de una bùsqueda que se afina y se perfecciona voluntariamente,
con la adeguadeza de la reflexiòn y con la dilataciòn de la perceptiòn,
precisamente en la situaciòn lìmite de una experienza espacio-temporal
distinta, de una apropriaciòn continua de imàgenes inèditas de naturalezas
diversas, de olores que nunca se han sentido, de sensaciones visuales y
tàctiles que nunca han sido experimentadas”. Mi
permetto di rinviare al mio saggio La hora de Pan en Reisen ohne Anzukommen.
Eine Konfrontation mit Sudamerika -- Grassi, pp. 323-336, in A. Scocozza-G.
D’Angelo (a cura di), Magister et discipuli: filosofìa, historia, polìtica y
cultura, Penguin Random Hause, Bogotà 2016; Ead., Meditazioni sudamericane: la
tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia di Grassi in cds in “Studi
Interculturali”, Trieste, Proposito della rivista era quello di collocarsi a
metà strada tra i contributi dedicati unicamente ai settori storici e
scientifici e quelli di carattere politico-religioso: “Cattolici e italiani,
pur rispettando sempre le convinzioni e le credenze altrui, noi coopereremo,
per la nostra parte, a conservare le istituzioni religiose, morali, sociali,
civili e politiche dell’Italia. Le istituzioni religiose, poiché noi cattolici
e sincerissimamente devoti alla Chiesa cattolica, quando sorgano questioni di
attinenza tra la religione e lo stato, pur riconoscendo la necessità che lo
stato mantenga i diritti propri, ci proponiamo di insistere e raccomandare la
sacra necessità di rispettare i diritti della chiesa e delle coscienze: non
rispettati i quali, si offendono o prima o poi anche i diritti della civile
società”, La rassegna nazionale, I, 1879, vol. I, p. 5. 54 E. Grassi, L’impatto
con Heidegger, in Olivetti (cur.), La recezione italiana di Heidegger, pp.
73-82, Cedam Padova 1989. 55 Id., Germania, in “Rassegna Nazionale”, ora
contenuta in E. Grassi, I Primi scritti. I successivi lavori grassiani, a
partire da Il tragico – che espone in nuce nodi concettuali che il filosofo
avrebbe più estesamente tematizzato negli ultimi lavori: La metafora inaudita e
Il dramma della metafora – per proseguire con Scolastica e storia dello stesso
anno e Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di STATO, mostrano
uno slittamento da una concezione negativa del principio di immanenza ad una
considerazione molto positiva del contesto politico, quale nuovo luogo di
emancipazione umana dopo la crisi del primato della trascendenza. Soprattutto
dopo la stesura del saggio su MACHIAVELLI (si veda) possiamo riscontrare una
“prima svolta” grassiana dovuta con molta probabilità ad un’analisi dettagliata
del pensiero di CROCE (si veda), GENTILE (si veda) e degli umanisti, primo fra
tutti ALIGHIERI (si veda). Ci sembra convincente l’ipotesi di MESSORI secondo
la quale a partire da questo momento, ossia da quello saggio, l’Umanesimo
diviene il terreno privilegiato della riflessione grassiana, la quale, grazie
al pensiero politico di MACHIAVELLI (si veda), riscopre un altro inizio del
pensiero, un altro ingresso alla filosofia, non gnoseologico e teologico, ma
unicamente antropologico. Si tratta di un risultato di grande importanza poiché
il filosofo milanese mette a tema quell’endiadi concettuale – il nesso
logos-pathos, in cui il pathos appare come a priori dell’esperienza umana nella
sua totalità, e dunque anche del momento cogitativo – che ritroveremo
costantemente espressa e concettualizzata nella successiva produzione, da
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, a Potenza della fantasia.
Per una storia del pensiero occidentale, a Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, fino ai Heidegger
e il problema dell’umanesimo, Umanesimo e retorica. Il problema della follia,
La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, Vico e l’umanesimo, che
raccoglie una serie di saggi pubblicati singolarmente. Almeno in questa fase,
tuttavia, occorre sottolineare che la considerazione dell’antropologica
umanistica si pone ancora fortemente come una visione antropocentrica, mentre
solo [Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto I cap. ! 23!
successivamente all’incontro con Heidegger e alla scelta del concetto di
Lichtung quale filo conduttore del nuovo approccio all’umanesimo, approccio da
noi definibile onto-antropo-logico, tale visione sarà più orientata verso una
tematizzazione del nesso uomo-essere. In questo periodo G. collabora anche con
l’informatore bibliografico del Circolo Filologico milanese, la Rassegna di
coltura, sul quale pubblica una serie di contributi dai quali traspare uno
studio di CROCE e dell’attualismo gentiliano. Conseguita la laurea, incomincia
per il filosofo l’ambiziosa avventura europea, in Francia e in Germania, alla
ricerca di un proprio accesso alla filosofia. In seguito al soggiorno a Aix en
Provence, durante il quale conosce Blonde, scrive La più recente attività della
filosofia dell’azione in Francia, in cui la filosofia dell’azione è considerata
come filosofia della trascendenza che non nega i valori dell’immanenza,
ponendosi, piuttosto, come condizione di possibilità della processuale
manifestazione dei valori immanenti, e Il platonismo cristiano di Blondel, il
cui merito sarebbe stato quello di liberare la metafisica dal presupposto
gnoseologistico. È a partire da questo saggio che si profila
quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si sarebbe coniugato con
la questione filosofica heideggeriana e che spinge G. ad approfondire la
cultura filosofica tedesca. Ad un peccato di ambizione si deve, con buona dose
di probabilità, l’adesione di G. al PARTITO FASCISTA. Secondo la documentata
ricostruzione di Büttemeyer, l’iscrizione al fascio è fatta per ottenere la
tessera senza la quale non è possibile partecipare ai concorsi in Italia. Cfr.,
Büttemeyer, G. Humanismus ZWISCHEN FASCHISMUS UND NATIONALSOZIALISMUS. Sui
rapporti Grassi-Blondel cfr., il lavoro di S. D’Agostino, La metafisica di G.
tra Platone e Blondel, in P. Pagani- S- D’Agostino- P. Bettineschi (cur.), La
METAFISICA IN ITALIA TRA LE DUE GUERRE [cfr. Urmson, Philosophical analysis
between the two wars], Istituto della Enciclopedia italiana, Roma. Cfr.,
Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e “Studia Humanitatis” di G.. La
prima formazione filosofica di G. è dovuta al suo tutore CHIOCCHETTI (si veda),
la cui concezione di una neo-scolastica moderata si mostra negli scritti
dell’allievo. Mediata da Chiocchetti, vi si aggiunge la conoscenza
dell’estetica di CROCE e della sua gnoseologia nonché del modello dialettico
della storia della filosofia che si concretizza nell’interpretazione gentiliana
del Rinascimento. G. mostra momentaneamente simpatie per Unamuno, per il
concetto martinettiano – MARTINETTI (si veda) dell’Unità assoluta e per la
filosofia di VARISCO (si veda), che gli è stato anche maestro con i suoi saggi;
ma essi non esercitano se non un’influenza marginale. Rimane invece escluso
l’attualismo e immanentismo di GENTILE (si veda): pur avendolo conosciuto nei
seminari di Chiocchetti e poi sulle opere, lo recepisce positivamente soltanto
dopo aver già presentato una ventina di pubblicazioni. Dopo aver
affannosamente girovagato per la penisola italiana in cerca di una propria via
al filosofare G. approda finalmente nella terra materna e lì, nella riflessione
heideggeriana, trova un punto di partenza per una Weltanschauung più ampia
rispetto a quella giovanile, ancora troppo influenzata dall’ambiente
neoscolastico. In questi anni pubblica numerosi saggi apparsi sulla “Rivista di
filosofia”: Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea;
Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, in cui G. rimprovera a Husserl la mancanza di una solida base
storico-filosofica, in particolare una superficiale interpretazione
dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della filosofia italiana, da
SPAVENTA (si veda) a GENTILE, pur riconoscendo alla fenomenologia il merito di
aver trovato uno spazio di riflessione oltre la linea psicologista e
naturalista e storicista. Secondo Grassi “da un canto la scuola neo-kantiana si
era isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti astrattamente
concepiti e quindi insolubili, della conoscenza filosofica e scientifica,
naturalizzando le categorie e risolvendole parzialmente nelle leggi naturali.
D’altro canto lo storicismo e la superficiale conoscenza del pensiero di
Dilthey non aveva portato nessun nuovo contributo, cosicché nella generale
crisi e disorientamento, tutti si rifecero a Husserl”60. Insomma, il filosofo
di Prossnitz, in quello che per Grassi è quasi un deserto filosofico –
psicologismo, neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale
che, tuttavia, ha molti limiti e non solo di natura storico-filosofica: l’astrattismo,
e la disattenzione per il pensiero pensante a favore del pensiero pensato,
l’incomprensione del pensiero concreto. Per G. gli aspetti negativi sono tali
da rendere la filosofia husserliana attiva solo per lo spazio di vent’anni e
cieca a quella concretezza del pensiero e dell’esistenza che solo Heidegger
avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo “realizzando per primo in Germania
la critica della fenomenologia di Husserl”E. G., Sviluppo e significato della
scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in “Rivista di
filosofia”, Milano XX, aprile-giugno 1929, n. 2, pp. 129-151, ora in Id., Primi
scritti, cit., pp. 186-187. 61 Ivi, p. 187. ! 25! In questo periodo
Grassi opera quella collocazione della proposta filosofica heideggeriana
all’interno della propria formazione intellettuale, formulando l’ipotesi del
possibile incontro tra la teoria gentiliana dell’atto e la questione del
Dasein, quale luogo storico del disvelamento dell’essere di stampo
heideggeriano, che aveva proprio lo scopo di destrutturare quella categoria di
coscienza rappresentativa che dal cogito cartesiano era rifluita nelle teorie
di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger diviene il perno principale attorno al
quale gravita l’attenzione filosofica di Grassi che si concretizza nella
stesura del saggio del 1930 Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger e de Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger del 1937.
Il merito del filosofo di Messkirch sarebbe stato quello di proporre una
visione dell’uomo come Dasein, come esistente, atto immanente, metafisico e
autorealizzantesi62 che amplifica l’interesse per la concretezza e la fatticità
dell’esistenza contro ogni razionalismo e astrattismo, superando la
contrapposizione tra soggetto e oggetto. Intanto appaiono i saggi Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico e Paideia e neoumanesimo che
riprendono tematiche trattate in Il problema della metafisica platonica e che
mostrano una coniugazione della proposta filologica di Jaeger con il ripercorrimento
teoretico heideggeriano del pensiero greco nel contesto più generale di un
progetto paideutico e umanistico che recuperasse il senso autentico
dell’humanitas attraverso l’esperienza filosofica della grecità, per Jaeger e
Heidegger, e della LATINITÀ, per G.. L’incontro tra la proposta jaegeriana e
heideggeriana circa il tema del neoumanesimo si affianca all’altro intreccio,
quello tra l’ontologia fenomenologica ermeneutica di Heidegger e l’attualismo
di Gentile. In Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da Linee della filosofia
tedesca contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro Heidegger-Gentile
sono espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero accompagnato Grassi in tutto
il suo cammino di pensiero: il carattere elenchico del principio di non 62 Id., Il problema della metafisica
immanente di Heidegger, Giornale critico della filosofia italiana”, Milano-
Roma, ora in Id., Primi scritti, contraddizione, fondamento di ogni
dimostrazione ma a sua volta non dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio;
concetto di apparenza, manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come
abbiamo ricordato all’inizio, la prima formazione di G. fu di carattere
neoscolastico, con un’attenzione particolare alle questioni riguardanti la
trascendenza, come emerge dal saggio La dialettica dell’amore in cui il
filosofo milanese afferma che “il pensiero umano, la filosofia, è condotta
dalla propria immanenza verso la necessità della trascendenza che appunto
perciò non può conoscere, realizzare, creare, ma solo ricevere come una
“grazia” proprio nel senso teologico della parola”63. Un’impostazione di questo
tipo spiega anche una originaria critica dell’immanentismo gentiliano, e della
sua scoperta fondamentale, l’autocoscienza come pura forma, che induce Grassi a
porsi come un fiero oppositore di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la
difesa della trascendenza messa in campo dalla neoscolastica è avvertita da
Grassi come insufficiente: in questo spazio si innesta la figura di Heidegger
che diviene quasi un antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello
stesso attualismo, che lascia non tematizzata la differenza ontologica tra
essere e ente, nonostante l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare
nel suo stesso compiersi o come autorealizzantesi processo esistenziale e non
come oggetto del pensiero. Secondo l’interpretazione di G. il superamento
gentiliano della dicotomia soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione
dell’esperienza approda allo stesso risultato husserliano e Id., La dialettica dell’amore. Il dolore di
Tristano, in “assegna Nazionale”, Roma, XLVI, dicembre 1924, seconda serie,
vol. XLVII, parte I, La richiesta dell’amore, pp. 137-148, parte II, La
sofferenza del Tristano, pp. 148-162; XLVII, febbraio 1925, seconda serie, vol.
XLVIII, parte III, La dialettica del dolore, pp. 101-109, parte IV, La gioia
può spingere alla vita, pp. 109-114 ora in Id., Primi scritti, cit., p. 122. 64
Ivi, p. 120: “Il concetto di forma pura, inobiettivabile, è proprio
caratteristico della realtà infinita eterna, in qualsiasi concezione immanente
o trascendente del reale, ed è quindi naturale che il processo di immanenza del
pensiero moderno abbia voluto ad esse ridurre la realtà del divenire umano.
Infatti se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste
più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di
ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso
stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso stesso l’unico
illimitato. L’autocoscienza come pura forma è certo la più grande scoperta di
tutta la filosofia dell’immanenza e lo è proprio, merito di Giovanni Gentile.
In ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori
del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio
il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere”. Per una
ricostruzione della presenza di GENTILE in Grassi cfr. R. Messori, Le forme
dell’apparire, cit. ! 27! heideggeriano: quello dell’intenzionalità,
della relazione originaria di io e mondo. Una relazione che non può essere
messa da parte o a tema attraverso un processo di epochè65: l’esperienza
dell’oggetto non consente un’oggettivazione dell’esperienza. Lo spazio di
relazione e compromissione tra io e mondo resta uno spazio di indeterminazione
e di esperienza che rende l’atto gentiliano simile alla nozione di aletheia di
Heidegger e che è merito di Grassi aver sottolineato. Volendo suddividere per
comodità, e con tutte le riserve del caso, l’unità di pensiero di G. in tre
fasi principali, otteniamo lo schema seguente: la fase giovanile formativa,
dominata dai temi della scolastica cattolica emergenti nei saggi degli anni
Venti66; la fase metafisico-immanente, in cui abbiamo la correlazione
dell’attualismo gentiliano con il contributo blondeliano della filosofia
dell’azione, con quello crociano dell’estetica e dell’autonomia delle forme
dello spirito, e con la metafisica esistenziale heideggeriana67; la fase matura
neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già Sottolinea molto bene questo
aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati
Boringhiei, Torino. Gentile attraverso la radicalizzazione dell’immanenza
supera l’opposizione e la separazione astratta di soggetto e oggetto e attinge
a pienamente quel piano dell’intenzionalità che per altre vie viene guadagnato
dalla fenomenologia di Husserl. Ma Gentile si porta oltre l’orizzonte della
fenomenologia. La relazione intenzionale di impianto fenomenologico, se da un
lato supera l’astratta separazione tra soggetto e oggetto, dall’altro lato ne
tiene tuttavia ferma la polarità [...], lo sforzo della fenomenologia è quello
è quello di svuotare l’io dal mondo perché il mondo appaia nella sua purezza,
di svincolare la coscienza dal flusso della vita per far sì che i contenuti
d’esperienza appaiano nella loro pura e semplice datità. Questo vuol dire
andare alle cose. Non così in Gentile. Alle cose non si va, con esse si è da
sempre compromessi. L’attualismo che pure rigorosamente guadagna il piano
dell’intenzionalità si rende tuttavia conto che essa non è suscettibile di
nessuna epochè”. 66 Cfr., E. Grassi, A proposito di un cinquantenario, pp. 3-8,
in Id., I primi scritti, cit.; Id., Germania, ivi, pp. 9-18; Il tragico, ivi,
pp. 27-48; Scolastica e storia, ivi, pp. 49-54; La dialettica dell’amore, ivi,
pp. 89-128; Tilgher e La visione greca della vita, ivi, pp. 19-22. 67 Cfr.,
Id., Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, ivi, pp.
55-86; La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, ivi, pp.
137-162; Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, ivi,
pp. 163- 179; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella
filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 181-202; Il problema della metafisica
immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-233; Il platonismo cristiano di M.
Blondel, ivi, pp. 235-254; Dell’apparire e dell’essere, ivi, pp. 273-298; Linee
della filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 299-332; Il problema del logo,
ivi, pp. 371-406; Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, ivi,
pp. 419-435; La filosofia tedesca e la tradizione speculativa italiana, ivi,
pp. 553-575; I rapporti tra filosofia tedesca e filosofia italiana, cit., pp.
753-776; Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la
tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 777- 809; L’inizio del pensiero
moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, ivi, pp. 811-850;
Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, ivi, pp. 967-974; Il
reale come passione e l’esperienza della filosofia, ivi, pp. 995-1029; Vom
Vorrang des Logos. Das Problem der
Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher
Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68 Id., Il problema filosofico del ritorno al
pensiero antico, ivi, pp. 255-271; Paideia e neo-umanesimo, ivi, pp. 357-369;
Filosofia tedesca, filosofia italiana e l’antichità. Il problema di una
tradizione filosofica, ivi, pp. 851-864; Sul problema ! 28!
ritroviamo in alcuni saggi giovanili69 – che declina la metafisica
immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi dell’essere, del logos, del
pathos attraverso la lettura dei contributi letterari e filosofici
dell’Umanesimo e del Rinascimento con un’attenzione particolare ai temi della
retorica, della fantasia e dell’ingegno, e della metafora. In tutto il percorso
speculativo emerge la radice dell’avventura speculativa del filosofo: la
“passione per la vita” in cui l’esercizio intellettuale della filosofia diviene
una funzione vitale, un prolungamento della vita stessa, dell’esistenza in
situazione. Il pensare diviene metamorfosi esistenziale, impegno nella
circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo dare per acquisito, dunque,
che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella riflessione di Grassi
un’ipotesi di accostamento tra attualismo e fenomenologia70 che incide
profondamente sulla successiva analisi dell’apparire dell’originario e della
manifestatività nelle sue diverse forme e che coglie un aspetto critico
paradigmatico che rende i numerosi contributi grassiani non una collezione di
posizioni filosofiche eterogenee, un coacervo di notizie dell’ultima moda
filosofica71, come i giudizi di Jaspers e Heidegger riportati all’inizio
sembravano voler asserire. della parola e della vita individuale. Riflessioni a
partire dalla tradizione italiana, ivi, pp. 901-915; Il problema del sublime,
ivi, pp. 917-943; Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale
italiana, ivi, pp. 945-950; Del vero e del verosimile in VICO, ivi, pp.
951-966; 69 Come tenteremo di spiegare nel secondo capitolo, per l’impostazione
del problema umanistico risultano fondamentali le osservazioni espresse da G. nel
saggio su MACHIAVELLI. Messori così riassume l’incrocio grassiano di attualismo
e fenomenologia: “le due filosofie si intersecano su almeno tre punti
essenziali [...] rifiutano di attribuire l’originarietà all’ente, al pensato,
di qualsiasi rango esso sia; in secondo luogo entrambi avvertono la necessità
di identificare l’originario con un processo che, divenendo, si determina. Il
primato del logos come atto, che lo si intenda in senso gnoseologico o
ontologico, comporta, in terzo luogo, il superamento della logica tradizionale
e quindi del principio di identità e di quello correlato di non
contraddizione.”, R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e
umanesimo nel pensiero di Ernesto G., cit., p. 34. 71 Si sofferma su questo
“merito” grassiano Marassi nelle pagine introduttive a I Primi scritti: “così
l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra inogettivabile, ossia
riassume in sé i tratti distintivi della soggettività kantiano-idealistica e
anche quel movimento, non certo conciliabile con la trascendentalità del
soggetto, di donazione-sottrazione assimilabile piuttosto alla nozione
heideggeriana di aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che piega il
soggetto al confine del mondo e del suo apparire, lo conduce allo svelamento
dell’origine. Qui mi pare che si inserisca il contributo specifico di Grassi
dopo l’intuizione della convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la
trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere. In altri termini
si potrebbe dire che la sua interpretazione non fosse una semplice sommatoria
di posizioni eterogenee, bensì cogliesse un aspetto critico paradigmatico”, M.
Marassi, Introduzione a E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 44. !
29! Si impone all’attenzione teorica di Grassi la tematica della
multiformità del reale (metamorphein) e della sua costitutiva polidimensionalità
che affannosamente il filosofo cerca per tutta la vita di interrogare al di
fuori dei parametri tradizionali. La questione “urgente” diventa quella di
cogliere l’essere nell’atto del suo manifestarsi, nell’attimo arcaico, iniziale
e, pertanto, mitico, del puro apparire attraverso un logos adatto (la
metafora). Da un lato il pensiero pensante gentiliano72, dall’altro la
manifestatività dell’essere heideggeriana, consentono a Grassi di guardare
all’idea di fondamento come a quell’originario indeducibile razionalmente che
può essere patito e vissuto nell’esperienza della parola più autenticamente che
in quella del pensiero tradizionalmente inteso. Secondo Grassi “l’originario
non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di
un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un
manifestarsi, un distinguere se stesso”73 e proprio per questa identità di
manifestazione e processo, di essere e divenire, è possibile radicare la
trascendenza nell’immanenza, il fondamento nel reale e non in un oltre, ciò che
non è manifesto in ciò che invece lo è. Secondo il filosofo “il processo deve
quindi esser inteso come un auto manifestarsi. È importante notare che la
nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione
tra manifestazione ed essere”74. Il punto di partenza è quell’indeducibile
originario che si mostra e si rivela in un metamorfismo e polimorfismo della
realtà che non è un dato semplicemente presente, bensì un divenire storico che
continuamente si distingue, Occorre sottolineare che il pensiero gentiliano
dell’atto è a metà strada tra una una impostazione soggettivo- trascendentale e
un’idea di soggetto come Dasein, come puro evenire, spazio di esperienza, cfr.,
sul tema S. Natoli, op., cit., p. 90: “l’attualismo gentiliano si tiene a mezzo
tra il soggetto trascendentale e il Dasein, tra la determinazione positiva e
costituente del pensiero e l’atto come esperienza del puro accadere. In questo
tenere il mezzo, l’attualismo finisce per non occupare né una posizione né
l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno spazio di indeterminazione. L’atto
infatti se da un lato è ancora inscritto nei termini della soggettività, sia
pure interpretata come attività o come prassi, dall’altro non può essere mai
colto come un fatto, non può mai darsi a modo di una semplice presenza”. 73 E.
Grassi, Il problema del logo, in “Archivio di filosofia”, Roma, anno VI,
aprile-giugno 1936, fascicolo II, pp. 151- 183, ora in Id., I Primi scritti,
cit., p. 376. 74 Ibidem. ! 30! si differenzia e si scompone in un
divenire metamorfico che trova unità nell’esperire patico ed estatico del
Dasein. Appare evidente come sullo sfondo di tale posizione teorica resta una
domanda cruciale: in che modo occorre ripensare il logos per non ridurre
l’essere e la manifestatività ad una realtà monolitica e cosale? Come superare
una concezione oggettivistica e soggettivistica? Si tratta delle domande che
agitano le pagine teoreticamente dense di Il problema del logo apparso in
Archivio di filosofia nel 1936 e in cui Grassi si chiede: “Se ciò che si
manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione può solo essere
intesa come uno scindersi e distinguersi di sé – giacchè ogni apparire
immediato, oggettivistico è stato già escluso – come deve essere inteso questo
processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui
traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il logo sia effettivamente il
primo, la ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone
esso un momento prelogico? Questo è il problema contro il quale urtiamo
definitivamente”75. L’operazione di accostamento tra l’ontologia heideggeriana
e l’idealismo gentiliano, che ad alcuni interpreti parve una mossa teorica
insostenibile76, è per Grassi la condizione di possibilità per sviluppare una
riflessione intorno all’umanesimo italiano. Proprio l’approccio a GENTILE e a
Heidegger, originalmente interpretati attraverso il filtro di una visione del
logos molto ampia e ricca, che sembra talvolta porsi come polarità antitetica
al pathos, talaltra come macrocategoria che ricomprende in sé la stessa
dimensione patica – oscillazione che viene sottolineata con vigore da alcuni
interpreti77 che parlano di un irrisolto dualismo nel pensiero grassiano, ma
che, come vedremo in seguito, si giustifica tenendo conto proprio della visione
complessa e ampia che Grassi ha del reale – offre a Grassi l’opportunità di
delineare un percorso teoretico che guarda al reale, all’essere e alla
manifestatività senza la mediazione gnoseologistica ed oggettivistica, bensì
tramite una pre- 75 Ivi, pp. 376-377. 76
Nella Recensione all’articolo di G. Il problema del logo afferma Ottaviano:
“dirò subito che la tesi, che cerca di fondare una interpretazione idealistica
del pensiero sostanzialmente realistico di heidegger, è, in linea assoluta, per
mio conto insostenibile”, C. Ottaviano, Recensione a E. Grassi, Il problema del
logo, cit., p. 398. 77 Cfr., la posizione di M. Marassi in G. e l’esperienza
del fine, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 7-24.
! 31! intelligenza pre-categoriale fortemente radicata nella dimensione
dell’affettività, del patico e della Stimmung. Emerge così un programma
filosofico ambizioso che giungerà ad una riqualificazione della Romanitas e
della cultura umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma mediterranea e
latina in senso lato. G. si chiede: “in che senso possiamo affermare che il
logo come atto, come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli enti in mezzo ai
quali ci troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che chiamiamo mondo – e
in che relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario riporre sotto
un nuovo punto di vista tutto il problema della originaria svelatezza
dell’essere. Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della concezione
oggettivistica nel suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più precisa e
approfondita determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del logo”78.
Tale precisa e più approfondita determinazione dei molteplici significati del
logos avviene nella metà degli anni Trenta, anni cruciali per la storia
d’Europa e per le vicende personali dello stesso G. Che si iscrive il 3 maggio
1933 al partito fascista più per motivi di “opportunismo” accademico che per
convinzione, e in un clima di generale espansione europea delle ideologie
fasciste. Ricordiamo che soltanto dodici professori in quegli anni rifiutarono
di prestare giuramento e che l’esplicito e dichiarato antifascismo di Croce
resta isolato e chiuso nelle mura di palazzo Filomarino, mentre GENTILE raccoglieva
intorno a sé il meglio della filosofia. In tale contesto bisogna inquadrare il
compito teoretico e culturale che G. da alla sua ricerca di una ri-valutazione
della FILOSOFIA ITALIANA. Così ritroviamo G. a Berlino, dove assume il ruolo di
professore incaricato di FILOSOFIA ITALIANA nei suoi rapporti con la filosofia
tedesca. Nei saggi scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia
tedesca e italiana fino a Del Vero e del verosimile in Vico G. Il Problema del
logo, Cfr. la dettagliata ricostruzione
di Büttmeyer , Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo della cultura cfr.,
Cacciatore, Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della storia
italiana, in A. d’Orsi-F. Chiarotto, Intellettuali. Preistoria, storia e
destino di una categoria, Aragno, Torino] passando per i contributi sul poetico
e sul politico nella riflessione italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento,
sale in superficie la questione della parola, indagata, secondo G., dagl’umanisti
non con uno spirito antiquario, erudito, storico-filologico, storiografico,
bensì con lo spirito di una lotta per una visione e una costruzione del mondo
storico-sociale, che non è un mondo di pura contemplazione, ma è innanzitutto
una vita attiva, in cui i valori del passato romano, che gl’umanisti
sostenevano di aver scoperto CONTRO le interpretazioni ebbraizanti medievali,
potevano contribuire all’educazione e alla formazione della civiltà. Come ha
sottolineato Vasoli nell’Introduzione italiana all’opera grassiana Heidegger e
il problema dell’umanesimo: “G. considera vero problema centrale dell’umanesimo
italiano non tanto la riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti, quanto
piuttosto l’illuminazione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in
cui appaiono l’uomo e il suo mondo dalle analisi di G., svolte in un ampio
arco, da ALIGHIERI a BOCCACCIO e a SALUTATI, da BRUNI a VICO, emerge un tema
costante: la poesia epica degl’antichi eroi – ENEA E ROMOLO -- come fondazione
della COMUNITA umana e della storia, svelamento luminoso dell’essere, e –
soprattutto in VICO – principio e ragione della stessa humanitas, con la sua
inquietante presenza storica. L’umanesimo è, dunque, interpretato alla luce
dell’ESPERIENZA LINGUISTICA che caratterizza il mondo umano e della
individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e originaria che G. ri-elabora
sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul concetto di LICHTUNG – lume
-- si tratta di un umanesimo onto-antropo-logico, che non è un approccio
antropologico antropocentrato, poiché la relazione primaria èquella di uomo e
mondo, Dasein e Sein. Lo slittamento dell’interpretazione dell’umanesimo da un
piano gnoseologico-epistemologico ad uno ermeneutico-ontologico spinge G. ad un
più serrato confronto con Heidegger e la sua inappellabile condanna
dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che ogni umanismo rimane metafisico.
Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione
del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga
una simile questione, perché a causa della sua provenienza metafisica,
l’umanismo non la conosce e non la comprende. Vasoli, Introduzione a G., Heidegger
e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida; Heidegger, Lettera sull’umanismo; Segnavia,
a cura di Volpi, Adelphi, Milano. Tale critica in Heidegger si collega ad una
precisazione della sua filosofia che non ha mai avuto l’intenzione di essere un
esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero che con uno Schritt zurück, con
un passo indietro, rispetto all’umanesimo e alla metafisica, cerca di proporre
il problema dell’essere. Tenendo in considerazione il tema
dell’ultra-metafisica heideggeriana G. ha dato una caratterizzazione per così
dire non umanistica in senso heideggeriano dell’umanesimo individuando in esso
numerose analogie con Heidegger. In questo modo, tra un approccio apologetico
della modernità ed uno decostruttivo, quale è quello di Heidegger, secondo il
filosofo milanese l’umanesimo resta schiacciato in un limitato settore
storiografico senza anima propria ma interpretato solo in riferimento ad altre
epoche. G. si chiede se sia plausibile una simile posizione o se non si tratti,
forse, come già accaduto per Cassirer, Kristeller, SPAVENTA, Hegel e altri, di
un errore di prospettiva. Per tentare di rispondere a queste domande, emerse
con vigore negli anni Quaranta, G. impiegherà tutta la sua esistenza. In un
importante testo, apparso in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto della
collaborazione con Otto e Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno. Della
passione e dell’esperienza dell’originario, G. porta avanti una vigorosa
critica del cogito cartesiano che non tiene conto di quella passione a partire
dalla quale soltanto avviene il theorein che è proprio della filosofia. Un
theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è una visione puramente
indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche
pateticamente e quindi retoricamente. A fondamento del pensiero c’è una
necessità esistenziale che non può CHE rivelarsi e apparire attraverso
l’esperienza della parola poetica e META-FORICA. Unicamente la META-FORA
(TRAS-LAZIONE) può rendere conto del poli-morfismo ontologico, che non è un
fatto, ma un continuo divenire, all’appello del quale [G. La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., soprattutto il primo capitolo, Il
problema della parola poetica; Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica. “L’essenza della presenzialità immediata – che dov3 essere l’essenza
della svelatezza empirica – non è dunque ciò che è diventato e che si è
cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi il dato
originario, come immediata presenza di alcunchè, è il divenire, il processo,
cioè ciò che non è ancora diventato, fatto, e in quanto già l’uomo è chiamato a
rispondere in modo plurale e non univoco. G. afferma che poiché il vedere, la
visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si
attuano attraverso una META-FORA (TRAS-LAZIONE). Allora la META-FORA
(TRAS-LAZIONE), che ricorre per lo più alle immagini non va considerata un
mezzo solo letterario ma è INDISPENSABLE per esprimere l’Originario [cf. GRICE,
ESCHATOLOGY]. Oltre alla collaborazione all’annuario, occorre segnalare anche
la progettazione dell’Istituto Studia Humanitatis in cui la partecipazione
degli esponenti della cultura italiana e tedesca è inquadrata anche alla luce
di un intento politico-culturale: quello di affermare la specificità della ROMANITÀ
nei confronti degl’ideali del mondo tedesco privilegiando soprattutto tre
ambiti problematici. In primo luogo, l’antichità nel suo particolare
significato per LA TRADIZIONE ITALIANA. Inoltre il rinascimento e l’umanesimo
infine, una terza questione riguarda il modo in cui si ha compreso e giudicato
l’umanesimo e il rinascimento. Per G. fin dall’inizio gli studia humanitatis
hanno un legame con l’agire creativo dell’uomo, che si realizza soprattutto
nella comunità politico-sociale. G. si reca in Svizzera in cui progetta con
Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore Francke di Berna incomincia
la sua attività di insegnamento a Monaco e di direzione del Centro di Studi Filosofici.
In conclusione di questa breve introduzione alle idee dell’emigrante con la
vocazione per la filosofia, basti dire che negli anni densi e intensi
dell’apprendistato filosofico si gettano le basi di quei grandi temi che
percorrono i decenni successivi: la rivalutazione dell’umanesimo e della
latinità come luoghi di riflessione sulla questione onto-antropo-logica, sul
nesso uomo-essere; LA CENTRALITA DEL LINGUAGGIO E DELLA PAROLA POETICA, DEL
DIRE METAFORICO e della svanito, non più presente. Il dato come oggetto, e
quindi come qualcosa di già fatto, non è il dato, bensì una falsa
interpretazione del dato. G. Il Problema del logo; Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica; Studia humanitatis come essenza della tradizione
spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des Institutes,
Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin, verlag Helmut
Küpper, ora in I scritti. Del
periodo berlinese ricordiamo anche l’attività editoriale realizzata con
l’appoggio di Küpper.] retorica. La questione è, ancora una volta, quella di
riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una
soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, ma di
attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e
della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo
struttura si intersecano. L’umanesimo della complessità offerto da G. può
essere concepito come un atto di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare
è quella della preminenza della ratio. Ma tale operazione decostruttiva non si
risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione. Del
tramonto della civiltà, in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente
separate; del tramonto dell’uomo che da animale pregnante, passa ad animale
carente, diventando, infine, animale obsoleto e antiquato o, addirittura, come
testimoniato dagli attuali studi post-umanisti, segmento di un processo
ibridativo con la techne. Nei prossimi capitoli cercheremo di ripercorrere le
tappe grassiane del discorso sull’umanesimo che viene a configurarsi come un
itinerario onto-antropo-logico in cui il discorso sull’uomo si intreccia
indissolubilmente con la questione ontologica. Sarà concesso spazio a quegli
scritti nella convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è possibile
comprendere la ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo gravitante
attorno al concetto di Lichtung. Le questioni sollevate da G. costituiscono un
contributo fondamentale alla filosofia del Novecento e non possiamo pensare
alle sue riflessioni come a temi da “vagabondaggio filosofico”, come dai
giudizi dei filosofi ricordati all’inizio di questo capitolo sembrava emergere,
ma come l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a partire dalle proprie
strutture immanenti e dal proprio essere-nel- mondo. Uno dei risultati più importanti della
indagine filosofica grassiana portata avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è
la scoperta della co-originarietà tra logos e pathos: la dimensione patica
dell’esperienza umana si pone come un a priori dello stesso ambito cogitativo.
Possiamo rintracciare un doppio binario della ricerca: la critica al pensiero
moderno è condotta, da un lato, attraverso l’individuazione degli effetti
negativi di un divorzio tra logos e pathos, dall’altro, tramite la ricerca di
un certo “luogo” della tradizione culturale umanistico-rinascimentale che il
dibattito storiografico ha sempre ritenuto privo di spessore filosofico, o
almeno non carico di una serie di motivazioni teoriche che G. rintraccia.
Secondo il pensatore milanese il “grande rimosso” del pensiero moderno è, di
fatto, un momento epocale: la tradizione ha obliato il valore filosofico e
storico del linguaggio poetico, nel quale egli rintraccia la possibilità di
uscire dal conflitto tra ratio e pathos. Solo fuoriuscendo dal circolo vizioso
di ragione e passione è possibile esperire una dimensione dell’umano nuova ed
autentica. Ma come nasce per Grassi l’esigenza di rinnovare la questione
dell’uomo e del suo rapporto con il mondo? Sappiamo quanto vivo e vigoroso
fosse il problema: lo dimostra la tenacia speculativa che, in qualità di
direttore della Humanistische Bibliothek dell’editore Fink, mostra patrocinando
la pubblicazione di una cinquantina di volumi intorno a temi umanistici, nella
speranza che la conoscenza diretta di Petrarca, Salutati, Valla, Pontano,
Gianfrancesco Pico potessero rendere giustizia ad un’immagine dell’umanesimo
lontana dalle interpretazioni tradizionali. Inoltre, [Affronteremo la questione
del nesso pathos-logos in maniera analitica nel terzo capitolo. il nostro
autore, sotto il patronato dell’Accademia d’Italia, ha l’incarico di fondare e
dirigere l’Istituto Studia Humanitatis a Berlino, anche grazie
all’interessamento di CASTELLI ZUBIENA (si veda). Accanto a questa opera di
edizione e direzione c’è il percorso di ricerca teorica portato avanti per
tutta una vita e che pone Grassi in un confronto serrato con i più noti
interpreti dell’Umanesimo e del Rinascimento e con due autori in particolare
secondo la convinzione di gran parte degli interpreti: Vico e Heidegger, ma noi
vorremmo aggiungere anche Cartesio, Aristotele e LEOPARDI (si veda). Da un lato
Cartesio ha avuto un ruolo centrale nell’analisi grassiana del logos attraverso
la fecondità individuata nei concetti di dubbio e cogito che rivestono
un’importanza fondamentale nell’analisi della Leidenschaft. Dall’altro
Aristotele ha espresso concetti, quali quelli di archè e pistis, che secondo G.
gettano luce su un altro percorso possibile per il pensiero: il filosofare
noetico non-metafisico in cui si condensa la proposta retorica del filosofo
tutta gravitante intorno al nesso phantasia-ingenium-metafora che costituiscono
la triade della retorica del significare arcaico. Poi c’è Vico che appare come
l’erede della tradizione umanistica: il De antiquissima e la Scienza Nuova ci
guiderebbero verso un mondo la cui nota dominante è costituita dalla fantasia e
dall’ingegno, che con spirito anti-cartesiano VICO (si veda) avrebbe
contrapposto alla ratio calcolante e al deduzionismo matematico di Cartesio, in
difesa delle humanae litterae. LEOPARDI (si veda) con il concetto di illusione
avrebbe teorizzato una filosofia dell’esistenza in cui il pathos avrebbe
raggiunto le vette di una tematizzazione poetico-filosofica che guida la
riflessione verso il tema del fondamento e dell’antropogenesi. Infine Heidegger
si mostra come il più fiero oppositore dell’Umanesimo e del Rinascimento,
trattati alla stregua di espressioni di una mera antropologia ontica che ha
come centro della riflessione l’ente e non l’essere. Eppure le riflessioni di
Heidegger sul linguaggio e sulla parola poetica, sull’opera d’arte come evento
del disvelamento dell’essere, sono richiamate all’attenzione da Grassi che con
Heidegger va oltre Heidegger compiendo un vero e proprio iter di
oltrepassamento, nel duplice senso di Verwindung (accettazione-approfondimento)
e Überwindung (superamento). Secondo l’interpretazione grassiana, quella di Heidegger
sarebbe una prospettiva che, nonostante la messa in mora della modernità e
l’opera decostruttiva condotta nei riguardi dell’impostazione soggettocentrica,
cade preda di quel pregiudizio hegeliano e di tutta la concezione idealistica
dell’umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che
“Heidegger sottolinea che il termine umanesimo si affermò per la prima volta al
tempo della repubblica romana come equivalente del termine greco paideia. Per
Heidegger è un dato di fatto che ogni umanesimo principia col definire
l’essenza dell’uomo, quindi con una filosofia antropologica”90. L’umanesimo
come mera antropologia è l’equazione posta da Heidegger che Grassi mette in
discussione attraverso un’analisi storico-filosofica che rintraccia nelle riflessioni
sul linguaggio un altro inizio del pensiero. Benché Heidegger avesse sviluppato
una concezione del linguaggio e della poesia come luoghi del disvelamento
dell’essere, la tradizione poetica degli autori italiani del Quattrocento non
era ritenuta funzionale al discorso relativo alle “circostanze della
manifestatività” ma frettolosamente liquidata in quanto proseguimento della
Romanitas, posta da Heidegger in contrapposizione con l’esperienza greca
presocratica. Grassi tenta di ricostruire con spirito critico-problematico, più
che filologico91 in senso tecnico, la tradizione di quegli autori come
Salutati, Valla, Poliziano e Landino che mostrano una ricchezza del possibile
in alternativa all’unilateralità del vero. Nelle sue analisi, infatti, emerge
quella volontà di far parlare direttamente i testi senza diaframmi, mettendo in
evidenza quella mutevolezza del particolare e del contingente senza prescindere
dalla situazione data. Denunciando i gravi limiti di ogni inerte visione
aprioristica e razionalistica, quegli autori costituiscono per Grassi il polo
ineludibile di una riflessione che è attenta a tutte le dimensioni del E. Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 58. 91 Del resto le forzature storiografiche che
talvolta sono presenti nelle riflessioni grassiane sono state sottolineate da
Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di E. Grassi, Heidegger e
il problema dell’umanesimo: “Grassi è infatti convinto – e lo ripete nel modo
più esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal Ficino e la forte
ripresa della tradizione aristotelica, nel corso della prima metà del
Cinquecento, siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia umanistica o,
almeno, alle sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone, naturalmente, molti
problemi di natura storiografica [...] anche se non può tacersi che anche il
giudizio umanistico sul valore fondante della poesia deve non poco a tipici
loci platonici e che il tema del furor proprio del Ficino (si pensi soltanto ad
alcune notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo dominante
nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di theologia
originaria”, C. Vasoli, Introduzione, pp. 7-16, in E. Grassi, Heidegger e il
problema dell’umanesimo, cit., p. 12; titolo originale Heidegger and the
question of Renaissance Humanism, Centre for Medieval and Early Renaissance
Studies, Binghamton, New York[ pensiero: non solo la logica e la teologia, ma
la giurisprudenza, la mitologia, la politica, la retorica, la poesia divengono
oggetti teorici degni di una riflessione sulle molteplici forme dell’apparire
dell’essere. In tale percorso di rivisitazione delle tematiche umanistiche
Grassi segue itinerari poetici e teatrali, generi, quali il poema cavalleresco,
la lettera familiare, l’elogio, che pongono in luce un senso della parola
poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad
una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è
nelle parole, nei verba, nella ricchezza e complessità di un universo
linguistico non chiuso nei ristretti limiti della logica formale che possiamo
attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici,
contingenti, transeunti. Da ciò deriva che il principale compito della nuova
filosofia umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione del reale non a mezzo
“del processo razionale del pensiero che col concetto (horos) e la definizione
(horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed astraendo dal tempo e dal
luogo, ne stabilisce il significato”92; ma attraverso la parola
storica-poetica-metaforica che “è una eikasia (una somiglianza e un apparire)
del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali che sorgono
nelle diverse situazioni”93. L’attenzione alla polidimensionalità del reale che
si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa opera grassiana
non suscettibile di sistematicità: leggere Grassi tentando di rintracciare
nelle sue pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato, occorre
piuttosto seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della
meditazione94. Del resto questo è un risultato, più che un Id., La filosofia dell’umanesimo un problema
epocale, cit., p. 37. 93 Ivi, p. 146. 94 Secondo l’interpretazione di D.
Pietropaolo l’assenza di sistematicità nella filosofia di Grassi costituisce un
limite, uno “svantaggio considerevole”, ma secondo il nostro punto di vista si
tratta di un riflesso dell’impianto fenomenologico del metodo seguito da
Grassi. Se la realtà è multiforme e sfaccettata anche il modo di dire tale
realtà procederà per aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a mostrare la
ricchezza dell’essere. D. Pietropaolo,
Grassi, Vico, and the defense of the Humanist Tradition, in “New Vico Studies”,
1992, X, p. 5. Opposto il giudizio di A. Battistini
secondo il quale quello di Grassi è un metodo che “rispecchia una ricerca
sempre in progress, inappagata, dinamica”, A. Battistini, Vico e l’umanesimo
inquieto di Ernesto Grassi, p. 391, in E. Hidalgo-Serna-M. Marassi (a cura di),
Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 385-404.] limite, raggiunto dal
filosofo in ossequio all’insegnamento degli umanisti che con la riflessione
sulla storicità dell’esperienza umana che parte da bisogni concreti elaborano
quella che è una rivoluzione epocale ben più importante di altre rivoluzioni
culturali: attraverso la teoria dell’ingegno, che interviene nelle diverse e
varie situazioni, in funzione delle necessitates e dell’hic et nunc, tramite
l’attività analogica, che assurge a meccanismo catalizzatore del sistema
antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale
che “l’umanesimo, non muovendo più dal problema della definizione razionale del
reale, realizza un rovesciamento dei procedimenti del pensiero filosofico ben
più radicale della così detta moderna “rivoluzione copernicana” del pensiero
cartesiano e idealistico”95 e ciò è espresso, dal nostro punto di vista, in
conformità alla generale impostazione onto-antropo-logica del pensiero di G.,
che vede nella indagine linguistica e poetica la possibilità di scorgere
quell’appello dell’essere che spinge l’uomo a rispondergli creativamente in
base alle molteplici circostanze esistenziali. In tale contesto l’agire umano
per Grassi “implica la necessità di realizzare non cognizioni astratte di una
metafisica ragionata ma una metafisica metaforica, fantastica ma non arbitraria
perché risposta oggettiva alle urgenze vissute differentemente nelle varie
situazioni”96. Ma torniamo al problema dal quale siamo partiti: come giunge G,i
alla domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo? Decisivo è stato
l’incontro con il maestro degli “anni mitici di Friburgo”? Oppure dobbiamo
attendere quella che, secondo alcuni interpreti, è la svolta vichiana?
Domandarsi della genesi del problema onto-antropo-logico in Grassi è una
operazione teorica non semplice, poiché si tratta di percorrere un iter in
absentia: il filosofo non usa esplicitamente l’espressione “onto-antropo-logia”
per qualificare la propria riflessione, ma, a dispetto di quest’assenza
terminologica, possiamo riscontrare le tracce – non tanto nascoste – di tale
ambito problematico che si costituisce come l’orizzonte di pre-comprensione
imprescindibile per accedere ai settori teorici toccati dal filosofo di Milano:
retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi al E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale, cit., p. 96. 96 E. Grassi, VICO (si veda) e OVIDIO (si veda).
Il problema della preminenza della metafora, in “Bollettino del Centro di Studi
Vichiani”] contesto onto-antropo-logico
ci consentirà agevolmente di sfatare anche un’ipoteca storiografica che pesa
sul suo pensiero, talvolta preda di un’interpretazione che lo ritiene mera
espressione eclettica o privo di una adeguata articolazione teoretica97. Grassi
affronta i temi dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani già nel 1924 nel
saggio Il pensiero di MACHIAVELLI (si veda) e l’origine del concetto di stato
apparso sulla rivista Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con
Heidegger, ben prima dell’incontro con Vico dunque. In questo saggio Grassi
offre un’interpretazione degli scritti machiavelliani puntando l’attenzione sui
concetti di uomo e umanità, riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua
prospettiva onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria.
L’impostazione teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare
credito ad alcune interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità
umana come valore immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema
concettuale il pathos della ricerca; la collocazione entro la cornice teorica
della modernità dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di
Milano ciò che emerge dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di
immanenza che permea tutta la riflessione moderna. Grassi afferma che “il
medioevo e il rinascimento - secondo una distinzione larga – nascono come
espressione di due pensieri fondamentalmente distinti: mentre il pensiero
antico, medioevale cercava la razionalità del reale – ossia il principio di ogni
realtà in un principio trascendente, che ci supera – il pensiero moderno – di
cui il rinascimento e l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la
razionalità del reale in un principio immanente, che è in noi”99. Pur
accogliendo tale distinzione tra Medioevo e Rinascimento il filosofo riconosce
tuttavia il limite di un’impostazione di questo genere poiché la realtà storica
e filosofica risulta pur sempre più ricca e complessa di rigidi schemi che non
tengono conto delle mille sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli
intellettuali. Emblematico è il caso di Dante che in questo scritto appare
essere !! Cfr., l’interpretazione di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla
prospettiva filosofica di Ernesto G., pp. 77-88, in AA. VV, Un filosofo europeo.
Ernesto Grassi, cit. 98 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., in
particolare il terzo capitolo, Umanesimo e modernità, pp. 89-125. 99 E. Grassi,
Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi
Scritti] un Giano bifronte, proteso sia verso l’impostazione classica e
medioevale, che rintraccia nell’“essere per essenza – o per seguire la loro
denominazione – Dio – l’essere da cui tutto proviene e in funzione del quale
tutto si distingue e supera il soggetto di cui è origine e causa”100; sia verso
un aspetto proto- moderno che troverà nell’epoca successiva un dispiegamento
considerevole. Secondo Grassi nella concezione politica di Dante abbiamo un
primo embrione della modernità: “la nuova epoca non si – può – far nascere dal
secolo XV, ma molto prima, come ci rivela l’espressione volgare della Divina
Commedia, del Convivio, e il ghibellinismo di Dante”101. La riflessione della
modernità matura sarà contraddistinta da una serie di elementi che metteranno
in crisi l’impostazione medievale ma anche classica. Contro l’idea che proprio
gli umanisti proporranno nell’auto-interpretazione della propria epoca, secondo
Grassi lo stesso classicismo del Quattrocento e del Cinquecento non è che
“semplice scorza con cui la nuova epoca inviluppava le sue tendenze...fredda
cenere sotto cui troviamo il primo fuoco dello spirito moderno, l’uomo che
ricerca e trova se stesso”102. Nel nuovo contesto culturale la figura di MACHIAVELLI
(si veda) è assunta come baluardo della costruzione del Rinascimento: nel clima
generale della critica verso i “barbari medievali” alla vis destruens degli
umanisti Machiavelli sa contrapporre una vis construens che si concretizza
nella messa a tema del concetto di patria, del valore dell’individuo e della
verità effettuale che, secondo G., riveste un’importanza massima:
“l’affermazione della verità effettuale è della massima importanza, egli
giungerà logicamente col suo metodo induttivo alla concezione della storia come
creazione umana”. La centralità della nozione machiavelliana di verità
effettuale viene posta in correlazione con la teoria vichiana del verum ipsum
factum, secondo cui il verum storico è conoscibile solo ed unicamente nel
factum umano. Il criterio della convertibilità, che ha una tradizione antica, di
ascendenze giudaico-cristiane104, e che è possibile definire come il vero
assioma di VICO (si veda), viene esplicitamente espresso nel De nostri temporis
studiorum ratione. Qui il criterio del verum-factum viene legato all’ambito
geometrico: “pertanto queste cose della fisica, che in forza del procedimento
geometrico si presentano come vere, non sono se non verisimili, e dalla
geometria ricevono sì il procedimento, non la dimostrazione: dimostriamo la
geometria perché la facciamo; se potessimo dimostrare la fisica, la faremmo. Vorremmo
sottolineare che il “vichismo” di MACHIAVELLI (si veda) individuato da G. in
questo saggio risente fortemente dell’impostazione crociana. L’inconsapevole
vichismo di Machiavelli o il non voluto machiavellismo di Vico compare in
numerose opere del filosofo di Pescasseroli. U no dei primi riferimenti
crociani al Segretario fiorentino risale a Filosofia della pratica in cui CROCE
(si veda), trattando della categoria dell’utile, e quindi della politica,
riconosce Machiavelli come il capostipite delle dottrine che hanno considerato
la politica come attività indipendente dalla morale e che hanno stabilito dei
precetti “empirici” della “ragion di Stato”. Ma allo stesso tempo osserva che
la questione “se codesti due termini potessero mai tenersi immediatamente
identici” è stata indagata da Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo
pensiero è stato lungamente non compreso “non essendosi inteso il valore
spirituale della volontà utilitaria, considerata per sé senza interferenza
della ulteriore determinazione morale” Per una sintesi ben documentata della
storia della teoria del verum-factum prima e dopo Vico cfr., M. Martirano,
Vero- Fatto, Guida, Napoli, 2007, in particolare i capp., Il criterio del vero
e del fatto prima di Vico, pp. 41-101; e Il criterio del vero e del fatto dopo
Vico, pp. 105-172. 105 G. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura
di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, pp. 49-51. 106 Croce, Filosofia della pratica.
Economia ed etica, Laterza Editori, Bari, 1945, p. 266. 107 ivi, p. 267.
Secondo Croce solo a partire dall’analisi critica di Francesco De Sanctis si è
cominciato a comprendere il carattere complesso della tesi di Machiavelli e
quindi a valorizzare il pensiero del Principe giustificandolo a dispetto delle
condanne provenienti da correnti moraliste. Nella recensione dell’edizione del
Principe curata da Federico Chabod nel 1924, Croce precisa come sia necessario
non tanto affermare che la politica si identifica con la forza bensì “insistere
e mettere bene in chiaro che cosa sia veramente la forza, e come quella forza,
che è la virtus politica, rappresenti un aspetto, necessario bensì ed eterno,
ma un aspetto solo della totalità ed integralità umana” – B. Croce, “La
Critica”, giugno 1924, p. 314. In seguito nel 1932 in Storia d’Europa nel
secolo decimonono ad integrazione la necessità della virtù nella politica] Su
questo sfondo crociano l’interpretazione di Grassi pone in luce il nesso di
verità effettuale108 e verum ipsum factum che dischiude una nuova visione del
mondo: dire che “coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo veramente
l’affermazione che precorre e già contiene implicitamente il verum ipsum factum
di Vico”, significa porre nella realtà l’unico valore, identificando valore e
realtà, essere e valore, e ha come conseguenza anche l’adozione di un metodo
innovativo di indagine del reale. L’importanza di questo saggio giovanile è
degna di nota se consideriamo che proprio qui emergono alcune dicotomie
concettuali che ritroveremo nella produzione successiva e che sottolineano
quanto già a partire dagli anni Venti la questione onto-antropologica fosse
viva nella riflessione del filosofo. Risulta evidente allora che la questione
onto-antropo-logica, il problema dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e
Sein nell’orizzonte della Lichtung non compare in G. solo ed unicamente a
partire dall’incontro con Heidegger o dalla svolta vichiana di un fantomatico
“secondo G.” ma affiora già nelle riflessioni sulla “scienza nuova”
machiavelliana. La “scienza nuova” offerta da Machiavelli secondo il pensatore
milanese è innanzitutto una scienza induttiva e non deduttiva, è una
intelligenza dei fatti che può realizzarsi solo abdicando al principio di
autorità e all’a-priorismo e la denuncia della mera attività politica senza
responsabilità è lampante: “se alla libertà si toglie la sua anima morale...si
toglie la purezza del fine; se alla disciplina interna alla quale essa si
sottomette spontanea si sostituisce quella della eterna guida e del comando non
rimane se non il fare per fare, il distruggere per il distruggere...ne vien
fuori l’attivismo. Il quale è dunque in questa traduzione riduzione e triste
parodia che in termini materialistici compie di un ideale etico,
sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà” – CROCE (si veda),
Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza Editori, Bari. CROCE risolve in
maniera definitiva la questione posta da MACHIAVELLI (si veda) saldando assieme
l’etica alla politica sia nella sua concezione della storia, sia nella sua
filosofia politica tanto da unire nell’unica opera Etica e politica i precetti
morali alle riflessioni sulla politica. In questo testo egli cita VICO (si
veda) come il solo ed autentico successore dell’impostazione di Machiavelli,
ritenendo che i suoi veri prosecutori non sono né coloro che elaborano una
precettistica della “ragion di stato”, né coloro che escludono qualsiasi
commistione tra politica e etica e predicano l’avvento di un regime basato
sulla pura bontà e giustizia, né chi non cerca di risolvere l’antinomia tra
politica e morale ma la relativizza a carattere meramente accidentale della
storia. Vico è ai suoi occhi colui che più di tutti è “pieno del suo spirito,
che egli chiarifica e purifica, integrando il suo concetto della politica e
della storia, componendo le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo” – B.
Croce, Etica e politica, Laterza Editori, Bari, 1931, p. 254. 108 L’espressione
verità effettuale compare nel XV capitolo del Principe: “ma sendo l’intento mio
scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto
alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, N.
Machiavelli, Principe, XV, 280 A. Cfr., su questo aspetto V. Raspa, Della
verità effettuale della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al
XV capitolo del Principe, pp. 152-184, in AA. VV, Machiavelli: immaginazione e
contingenza, a cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa
2006. 109 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di
Stato, in Id., Primi scritti] logico. La grandezza del segretario fiorentino
risiede nella ricostruzione politica del Rinascimento, che è allo stesso tempo
una restituzione alla storia di una razionalità intrinseca. Ma in che modo è
possibile offrire al dominio di Dio o del caso – la storia – una propria
razionalità? La domanda che secondo Grassi Machiavelli si pone trova nelle
pagine del Principe una risposta, l’unica possibile. Assodato che con il
Rinascimento registriamo una rottura, un crollo dell’impalcatura teorica e
pratica del Medioevo, la dissoluzione dei valori religiosi e l’affermazione
della forza dell’individuo, come garantire l’integrità della vita activa, come
riparare la nuova idea di azione umana dal pericolo di una dispersione irrazionale
di energia? Secondo Grassi la stessa affermazione del soggetto empirico va
superata e si supera con Machiavelli: “l’affermazione del soggetto empirico
andava superata e condotta a un concetto di unità di individualità superiore,
ma il problema doveva essere posto negli unici termini possibili: superare
l’individualità empirica per mezzo dell’affermazione dell’individualità
stessa”110. Il problema dell’individualità si pone come un dato di importanza
considerevole per due ordini di ragioni: innanzitutto l’ascesa del soggetto è
individuata come un tratto distintivo della modernità, sebbene in questo
contesto l’autoaffermazione assuma una valutazione positiva che in seguito
perderà, a fronte di una impostazione teorica che vede nella compagine
soggettocentrica della filosofia un aspetto negativo; poi mostra l’aporia
aperta dalla figura di Machiavelli e che rifluisce nella tematizzazione
grassiana successiva: l’aporia tra la componente irrazionale, quella che
successivamente sarà definita patica, e l’esigenza di un inquadramento
razionale e logico. Il Principe ha un valore emblematico e attesta un tentativo
di coniugazione estremamente importante: “l’affermazione del Principe di
Machiavelli è così il passaggio dal concetto dell’Umanesimo, dell’individualità
empirica, a quello di nazione”111. Passaggio, questo, che fa emergere quanto
Machiavelli percepisse “l’irrazionalità in cui si dibatte il Rinascimento: il
contrasto delle varie affermazioni di tirannidi”112 e che rende la sua opera
una sorta di “fisica delle forze umane”113. Si tratta di un’aporia che nel
Principe si struttura come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e unità
del principe-centauro; e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra il
conflitto socio-politico e l’unità istituzionale. Una contesa che è connotata
positivamente da Machiavelli per il quale le “dissensioni”, i conflitti, non
sono elementi esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie e
proficue114. Alla figura di MACHIAVELLI (si veda), all’importanza della sua
teoria politica nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e
all’impronta innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al
“cambiamento di paradigma” del Cinquecento, per usare una fortunata espressione
kuhniana, Grassi dedica molta attenzione tra gli anni Venti e Quaranta. Ciò è
testimoniato dalle pagine conclusive del saggio Pensieri sul poetico e sul
politico del 1939, in cui si asserisce che “l’essenza politica di Machiavelli
consiste quindi nell’aver riconosciuto l’urgenza della politica (necessità), il
suo imporsi, come una forma autonoma e in sé indipendente da ogni altra forma
del dischiudersi della realtà [...] questo inarrestabile realizzarsi del
politico è ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte,
bensì la concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo”115. Qui viene
espresso quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale
esercita sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché
quello di Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a
costituire una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di Grassi, la
quale ha di mira l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei
dispositivi che sono fortemente radicati nella situazione particolare,
nell’Appello dell’essere e Ibidem. 114
Cfr. Barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento, Carocci, Roma 2008, in
particolare le pp. 39-75 dedicate a Machiavelli. 115 E. Grassi, Pensieri sul
poetico e sul politico, in Id., Primi scritti, cit., p. 793. Il saggio appare
originariamente in tedesco con il titolo Gedanken zum Dichterischen und
Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens nel
1939 in Schriften für die geistige Überlieferung, Erstes Heft, herausgegeben
von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1939. Nel saggio rifluiscono
due conferenze, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des
Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen
Tradition.] del reale, la cui carica di estraneità è oltrepassabile solo
tramite l’azione concreta e storica che ha struttura metaforica. L’attività
metaforologica ha infatti una connotazione onto-antropo-logica in Grassi:
riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose,
il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante. Non un orpello
linguistico, una fictio retorica, la metafora è per G. un dispositivo
antropo-poietico. Come si afferma in Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica: “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di
parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale
trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle
somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di
rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione
di qualcosa ancora nascosto ma dobbiamo andare più a fondo del piano
letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si
radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi
tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro
mondo”116. In conclusione possiamo dare per acquisito che la lettura di
Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario fiorentino e alla politica pongono
in luce la fondamentale importanza che in tale ricostruzione di un nuovo
paradigma assume la conoscenza storica del passato117, il tema della fortuna –
la concreta situazione storica – e quello della virtù – come abilità di
commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118, quello dell’autonomia dell’agire
politico119. Questi elementi ci dicono che “non Id., Retorica come filosofia.
La tradizione umanistica, cit., p. 76. 117 Id., GIUCCIARDINI (si veda) e il
concetto della politica nel Rinascimento italiano. Prologo alla prima edizione
tedesca dei Ricordi, pp. 887-900, in Id., Primi scritti, cit., p. 891. Il
saggio appare nel 1942 con il titolo Francesco Guicciardini und der Begriff der
Politik in der italienischen Renaissance. Prolog zur ersten deutschen Ausgabe
der “Ricordi”, in “Europäische Revue”, Stuttgart-Berlin, XVIII, 1942, n. 3. 118
Id., Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, pp. 967-974, in
Id., Primi scritti, cit., p. 971. Il saggio appare con il titolo Theorie der
Politik in der Ueberlieferung der Renaissance, in “Neue Zürcher Zeitung”,
Jahrgang, Morgenausgabe, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze
per determinare la tradizione spirituale italiana, in Id., Primi scritti] possiamo
sottrarci di fronte all’occasione, alla circostanza, alla necessità impellente
di prendere posizione nei confronti di ciò che accade. Perciò la nostra
situazione si trova sempre nel mezzo di un aut-aut”120. L’essere in mezzo ad un
aut-aut ci costringe a decidere, a scegliere, ad affrontare il reale come
impegno e compito come Grassi afferma nel 1942 in una lettera-saggio
indirizzata allo “stimatissimo amico” W. F. Otto, Sul problema della parola e
della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che
mostra un metodo “inattuale” di fare filosofia: si tratta di esercitare la
riflessione con “lettere aperte, denunciando così il carattere particolare di
questo impegno comune, per il quale esso si distingue e deve distinguersi
rispetto alle occupazioni scientifiche”121. Si tratta di quel metodo inattuale,
difeso anche da Husserl, che solo i filosofi autentici possono realizzare nella
consapevolezza di essere “funzionari dell’umanità”, orientati verso un telos che
può trovare concretezza solo nell’esercizio dell’atto filosofico. Umanesimo e
pseudo-umanesimi: la pars destruens del discorso grassiano. La riflessione
sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro spessore filosofico elaborata da
Grassi a metà degli anni Venti e Trenta si concretizza, come abbiamo visto, nel
saggio su MACHIAVELLI (si veda) proseguendo nelle produzioni saggistiche
successive al 1924. In queste ultime è presente anche un intento di
chiarificazione storiografica e di presa di distanza dalle coeve
interpretazioni della “tradizione epocale”. Riferirsi ad un’epoca
storico-culturale, come quella al centro della riflessione Id., Sul problema
della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione
italiana. A Walter F. Otto, pp. 901-915, in Id., Primi scritti, cit., p. 912.
Il saggio appare in tedesco nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes
und des individuellen Lebens. Erwägungen aus der italienischen Überlieferung. An Walter F. Otto, in
Geistige Überlieferung. Das zweite
Jahrbuch, in Verbindung mit Walter F. Otto und Karl Reinhardt, herausgegeben
von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper] Husserl, La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. a cura di Filippini,
il Saggiatore, Milano 1960, p. 46, “Noi siamo dunque, e come potremmo
dimenticarlo, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra
responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella nostra
vocazione interiore personale, include anche le responsabilità per il vero
essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un telos, e
che se può essere realizzato lo può soltanto attraverso la filosofia. È
possibile di fronte a questo sè esistenziale sfuggire?”] di Grassi, significa
innanzitutto prendere in considerazione un “mito storiografico”. Inoltre, il
concetto grassiano di umanesimo è bivalente: accanto all’idea di Umanesimo come
categoria storiografica limitata ad un periodo storico circoscritto e ad autori
precisi troviamo un concetto di umanesimo come macro-categoria che comprende
una riflessione generale sull’humanitas. A partire dal grande affresco
burckhardtiano del 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien e dal saggio di
Michelet Histoire de France au sezième siècle, il mondo moderno e i suoi tratti
distintivi sono stati legati alla riscoperta dell’uomo e del mondo e dei valori
immanenti i cui prodromi erano già presenti nella civiltà italiana del Trecento
e del Quattrocento. Del resto questo era il punto di vista degli stessi umanisti
che per primi parlano di una rinascita della civiltà contro i “barbari
medievali”, che erano barbari non “per avere ignorato i classici, ma per non
averli compresi nella verità della loro situazione storica”124. Posizione,
questa, che importanti cultori di studi medievali contemporanei hanno messo
profondamente in crisi propugnando una rinnovata idea di Medioevo come età
della sperimentazione e dimostrando l’alto grado di sviluppo intellettuale
raggiunto dalla cultura filosofica e letteraria del Medioevo, contro un
atteggiamento che si è consolidato anche nell’immaginario collettivo, oltreché
in quello filosofico e storico-culturale: quello che vede nel Medioevo un
altrove – sia esso negativo (la prospettiva umanistica) o positivo (la
prospettiva romantica) – o una premessa. Come ricorda Sergi “nell’altrove
negativo ci sono povertà, fame, pestilenze, disordine politico, soperchierie
dei latifondisti sui contadini, superstizioni del popolo e corruzione del
clero. Nell’altrove Cfr., per una
discussione particolareggiata delle molteplici interpretazioni dell’umanesimo e
del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, pp.
3-25, in AA. VV, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino,
Mondadori, Milano, 2002. Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma-
Bari 1964. 124 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 21. 125 Cfr., G. Sergi,
L’idea di medioevo, pp. 3-41, in AA. VV, Storia medievale, Roma 1998; C.
Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, pp. 7-12, Il Muligno, Bologna,
2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni
dell’antirinascimento della rivolta dei medievisti, cfr., C. Vasoli, Il
rinascimento tra mito e realtà storica, cit., soprattutto le pp. 18-22. !
50! positivo ci sono i tornei, la vita di corte, elfi e fate,
cavalieri fedeli e principi magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del
medioevo come generica premessa”127. Per introdurre il discorso decostruttivo
grassiano faremo riferimento innanzitutto alle interpretazioni messe in discussione
dal pensatore milanese, soffermandoci in particolare sulla figura di Cartesio e
infine sul capo di imputazione principe – Heidegger – e sul significato che la
riflessione sull’umanesimo riveste nell’ambito dell’onto-antropo-logia
grassiana. II. II. Che cos’è l’umanesimo? Grassi parte dal quesito: “che cosa
significa umanesimo?” e risponde individuando la genesi del termine nell’ambito
politico: “questo termine nasce per la prima volta in Italia nel XIV secolo e
lo troviamo negli scritti politici di Coluccio Salutati, il primo segretario
politico di Firenze”128. La domanda è il punto di partenza di un saggio scritto
in occasione di una conferenza tenuta nel 1938 durante la seduta della
Klopstock Gesellschaft a Quedlinburg, Deutsche Dichtung und die italienische
Tradition des Humanismus, rifluito insieme ad un altro saggio, Politisches und
begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition, in Gedanken zum
Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen
Tradition Italiens. Per Grassi durante l’epoca umanistica si esprime per la
prima volta un nuovo atteggiamento dell’uomo verso il mondo, si tratta del
passaggio dall’“uomo greco”, a quello medievale”, per finire con l’“uomo del
Rinascimento”. Una linea evolutiva che può essere condensata nelle note ed
efficaci immagini proposte da Vernant, Le Goff e Garin: la transizione
dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di Aristotele129, all’homo
viator e penitente130 e all’uomo moderno131. Cfr., G. Sergi, op., cit., p. 5.
128 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per
determinare la tradizione spirituale italiana, pp. 777- 802, in Id., Primi
Scritti 1922-1946, cit., p. 780. 129 Cfr., J. P. Vernant, Introduzione, in Id.,
(a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 3-23. 130 Cfr., J. Le
Goff, L’uomo medievale, in Id., (a cura di), L’uomo medievale, Laterza,
Roma-Bari, 2005, pp. 1-38. 131 Cfr., E. Garin, L’uomo del Rinascimento, in Id.,
(a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari] Per quanto sia
discutibile l’ipotesi grassiana di una frattura così radicale tra due visioni
del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in tutti i suoi scritti tale
dicotomia non tematizzando estesamente la plausibilità del presunto iato
storico-culturale: ovviamente Medioevo e Rinascimento non sono entità
metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili, ma soprattutto Medioevo e
Antichità greco-romana, spesso da G. accomunate in un disegno sintetico, non
sono sovrapponibili nella difesa del principio di trascendenza. Eppure è lo
stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno problematico di
un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel saggio su MACHIAVELLI
(si veda), e nelle pagine di Il problema filosofico del ritorno al pensiero
antico in cui si afferma: “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto
di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in
Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno.
Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo
soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste
contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in
esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi
abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa
piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella
rinnovata posizione delle medesime domande?”132. Tali riserve espresse con
convinzione tuttavia non impediranno a G, di assumere una prospettiva teorica
di forte impianto idealistico che pone la questione in termini di slittamento
dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il filosofo ciò che è in
gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione contraddistinta
dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione della finitezza
umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e non come una
mancanza: “pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere anzitutto come
concezione e affermazione politica; perché tutta la storia, l’arte, la
filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla realizzazione di un
nuovo mondo storico “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di
filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in
Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno.
Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo
soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste
contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in
esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi
abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa
piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella
rinnovata posizione delle medesime domande?”, Id., Il problema filosofico del
ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., Primi scritti] Infatti, per G.
lo sviluppo dell’uomo nelle sue estreme possibilità accade innanzitutto nel
contesto, nell’apertura originaria, che è un’apertura comunitaria, nella quale
soltanto l’essere umano può istituire nessi e relazioni con il contesto
circostante, può stare al mondo in una relazione che è innanzitutto
comprendente: si tratta di comprendere e di cogliere le molteplici forme
dell’essere e del suo apparire che ritroviamo soprattutto nella parola poetica,
prima che nella parola logica. La valutazione autentica dell’Umanesimo sarà
possibile allora solo tenendo conto dell’aporia ineludibile che il problema
dell’umano ci pone dinanzi e consentirà di elaborare quel filosofare noetico
non metafisico che tenta di tenere insieme l’ontologia e l’antropologia senza
chiuderle in un orizzonte logico ma immettendole nel mondo metaforologico: si
tratta della coniugazione “inaudita” che Grassi cerca di realizzare lungo tutto
il suo percorso filosofico, dalle riflessioni sulla manifestatività in
Dell’apparire e dell’essere e Il problema del logo degli anni Trenta, a quelle
sulla dimensione patica dell’esperienza dell’originario in L’inizio del
pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario e Il reale
come passione e l’esperienza della filosofia degli anni Quaranta, per finire
con gli scritti sul valore della metafora e del pensiero noetico non
metafisico. Lo scopo dell’interrogazione sull’umanesimo come epoca storica
determinata e come proposta di una rinnovata visione del mondo è dominata
dall’esigenza di “un indicare a partire dal destino, dalla necessità entro la
quale appaiono gli enti, e non da una loro astratta definizione. Ora lo studio
di questa problematica compete a un sapere particolare che dobbiamo chiamare
ontologia, distinguendola dalla metafisica tradizionale e intendendo con questo
termine il rapporto che lega gli enti in situazione all’origine comune che li
attraversa e perciò insieme li unifica e differenzia: ontologia non logica ma
situazionale”134, ontologia noetica e non metafisica, e pertanto
metaforologica, in cui l’ente appare solo nella parola umana che costruisce
universi di senso. La critica di G. si appunta innanzitutto contro
l’assolutizzazione di un aspetto particolare della filosofia
quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli elementi della modernità
che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia primitiva. Tale posizione se, da
un lato, può sembrare a Id., Il problema
della morte: l’Alcesti di Euripide. Filosofare noetico non metafisico. Vico, in
E. Grassi-E. Hidalgo- Serna, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il
Don Chisciotte, Congedo Editore, 1991, Galatina] prima vista contraddittoria
rispetto all’ipotesi interpretativa esposta nel saggio del 1924 – in cui la
centralità di Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della veste moderna
che le riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova una spiegazione
se la critica che va conducendo Grassi a certi luoghi del moderno viene
inserita nel contesto più generale di una messa in questione della supremazia
che l’ambito logico-gnoseologico assume nelle opzioni storiografiche
analizzate. Si tratta di una messa in discussione dello stesso concetto di
ragione e di logos, che non enuncia un congedo dalla ricerca filosofica – che
cerca di istituire una relazione comprendente tra uomo e mondo – per mettersi
sulla china dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario, l’esigenza di
costruire o ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale momento patico
e logico trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza individuale e
vissuta. In Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Grassi passa in
rassegna diverse tappe interpretative rifiutate per una sostanziale
misinterpretazione dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità
con il saggio L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare.
Il macigno che pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e
liberarsi da questo fardello è il compito verso cui il pensiero di Grassi sarà
rivolto sviluppando le problematiche degli scritti onto- antropo-logici di
Grassi: Macht der Phantasie 1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosophy;
Heidegger and the question of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo
aggiungiamo, sebbene nell’elenco stilato direttamente da Grassi non fosse
annoverato135, Vico e l’Umanesimo136. Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger
offre all’attenzione del suo allievo eterodosso? Prima di rispondere a questa
domanda, analizzeremo di seguito le nove posizioni “inautentiche” proposte da
Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale. Sullo sfondo della
polemica diretta contro precisi personaggi abbiamo anche la censura al pensiero
della filosofia analitica di cui, almeno in questo La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 29. 136 Ovviamente Grassi non poteva annoverare questa opera
perché essa vedrà la pubblicazione nel 1990 in lingua inglese. Si tratta di una
raccolta di saggi che coprono circa due decadi di riflessione filosofica, dal
1969 al 1985 e che comprendono i testi americani di Grassi. Cfr, D. P. Verene,
Prefazione a E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 19-24. Il testo è
pubblicato in lingua inglese due anni prima con il titolo Vico and Humanism.
Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric, Lang New York] luogo, G. non esplicita
i rappresentati. Più chiarezza è rintracciabile in altri testi, come Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, in cui è esplicito il riferimento
polemico a Wittgenstein, portavoce dell’impostazione scientifica del pensiero e
autore di quel Tractatus logico-philosophicus che riduce il mondo alla triade:
dire, mostrare, tacere137. Come è noto i sette Sätze del Tractatus si chiudono
con la nota proposizione: “ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”138.
Affermazione, questa, da cui traspare per il pensatore italiano un’attenzione
esclusiva al piano denotativo del linguaggio che riduce il logos a tecnica di
formalizzazione, a calcolo scientifico in cui l’uomo e la sua storia
travagliata scompaiono. Afferma Grassi che “è considerato scientifico quel
pensiero che procede nella struttura di un processo razionale, cioè nella sfera
della dimostrazione. Nella teoria logica moderna questa tesi è portata avanti
in modo significativo nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein [...]
al di fuori del mondo simbolico del sistema abbiamo solo silenzio e
mistero”139. Dalla prospettiva grassiana nell’orizzonte wittgensteiniano della
filosofia l’unico linguaggio accettabile è quello del calcolo, della
formalizzazione, della logica che esclude dall’orizzonte di significatività la
dimensione retorica del logos ordinario – che esprime il sensus communis – e
del logos patetico della poesia. Eppure Wittgenstein riabilita in qualche modo
il livello connotativo del linguaggio, quella dimensione del mistico e
dell’etico, relegati nel Tractatus nell’ambito del silenzio, attraverso la
riflessione che si condensa nelle Ricerche filosofiche. Grassi non prende in
considerazione la riflessione wittgensteiniana contenuta in questo testo, che
possiamo definire come una sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di
Wittgenstein contro se stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del
Tractatus. Afferma Wittgenstein che “questo chiedere [il nome degli oggetti] e
il suo correlato, la definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un
gioco linguistico a sé. Ciò Cfr., L.
Perissinotto, Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2003. 138 L.
Wittgen stein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr.
it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, proposizione 7. 139 E. Grassi,
Retorica come filosofia] vuol dire propriamente: veniamo educati, addestrati a
chiedere “come si chiama questo?” – e a ciò segue la denominazione
dell’oggetto”140. La definizione allora appare come un particolare gioco
linguistico che non si identifica sic et simpliciter con l’atto originariamente
istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco linguistico è una “reazione”
sulla base della quale possono innestarsi le forme più raffinate di linguaggio.
Esso inoltre non si origina dalla riflessione ma è una porzione141 del gioco
linguistico. Colpevole142 di aver escluso “dall’ambito della filosofia le
discipline umanistiche (filologia, storia, poesia e retorica)”143, che non
consentono di rendere chiaro e distinto il linguaggio filosofico ma al
contrario lo oscurano, il Cartesio di Grassi diviene un altro bersaglio
polemico. La critica è diretta alle affermazioni contenute negli scritti
cartesiani Regulae ad directionem ingenii (Regola III) pubblicate postume nel
1701144 e al Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La III regola cartesiana
delle Regulae recita: “riguardo agli oggetti da trattare si deve fare ricerca
non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi stessi congetturiamo,
bensì di ciò che da noi stessi si possa intuire con chiarezza ed evidenza, e
dedurre con certezza; poiché solo così si acquista scienza”145. Secondo Grassi
in questo passo si afferma che il ricorso all’esempio degli Antiqui è un
escamotage del tutto empirico, mnemonico, che produce storia, mai scienza.
Questa si costituisce a un livello differente, nella trasparenza
dell’intrinseca dinamica dei nostri processi cognitivi, come emerge dalla
riflessione matematica. Secondo Grassi l’emarginazione dell’esperienza, lo
svuotamento di senso scientifico della tradizione proposti da Cartesio sono
riconducibili alla generale impostazione che muove dal paradigma matematico. In
questo orizzonte di ricerca è esclusa ogni forma di congettura probabile, Id., Ricerche filosofiche, tr. it. di R.
Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, I, § 27. 141 Id., Zettel. Lo spazio
segregato della psicologia, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, §
391. 142 E. Grassi, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, cit., pp.
31-32. 143 Ivi, p. 31. 144 La stesura delle Regulae risale agli anni compresi
tra il 1625 e il 1629. Sulla questione della datazione delle Regulae cfr., G.
Mori, Cartesio, Roma 2010, pp. 37-38. 145 Cartesio, Regole per la guida
dell’intelligenza, tr. it. di G. Galli, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I,
a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, p. 21. ! 56! che pretenda
di mescolarsi e assimilarsi sulla base dell’abitudine a conoscenze certe e
evidenti. La stessa valutazione dei saperi umanistici compare in I principi
della filosofia. Qui il filosofo afferma che “se desideriamo consacrarci
seriamente allo studio della filosofia e alla ricerca di tutte le verità che
siamo capaci di conoscere, ci libereremo in primo luogo di tutti i pregiudizi,
e faremo conto di respingere tutte le opinioni da noi un tempo accolte in
nostra credenza, finché non le abbiamo esaminate da capo. Faremo in seguito una
rassegna delle nozioni che sono in noi, e non raccoglieremo per vere se non
quelle che si presenteranno chiaramente e distintamente al nostro
intelletto”146. La scienza, così, è in ultima analisi tale nella misura in cui
si concentra rigorosamente su ciò che non può essere intaccato dal dubbio.
Inoltre, nel primo libro del Discorso, nell’ambito dell’esposizione del proprio
iter autobiografico, Cartesio rende manifesta l’insoddisfazione verso quei
saperi, gli studia humanitatis ai quali si era tanto dedicato durante gli anni
della formazione a La Flèche, insofferenza dovuta agli inestirpabili dubbi ed
errori che quelle discipline per il loro oggetto e metodo intrinseco non
potevano non contenere. La critica a quei saperi, che spinge Cartesio a dire
che leggere i libri antichi è come viaggiare e conversare con uomini di altri
secoli147, dimenticando ciò che caratterizza il tempo presente, trova il suo
esito più compiuto nella difesa della mathesis universalis, del nuovo metodo,
della scienza nuova che unisce matematica, logica, geometria seguendo lo schema
tetravalente di evidenza, divisione, ordine ed enumerazione. Da questo tipo di
impostazione del discorso filosofico, matematizzante e logicizzante, occorre liberarsi
per Grassi che afferma, con tono polemico in riferimento a Cartesio, che “egli
rinfaccia alla retorica – disciplina fondamentale per gli umanisti – di
turbare, influenzando l’emotività degli uditori, la chiarezza e la coerenza del
pensiero razionale, deduttivo. Egli rifiuta pure la validità del senso comune,
giacchè solo il rigore logico è garanzia del filosofare” Cartesio, I principi
dellafilosofia, p. 64, in Id., Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A. Tilgher e
M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr. it. di M.
Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, cit., p. 295, “Conversare con
gli uomini di altri tempi è quasi come viaggiare [...] ma se si passa troppo
tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel proprio paese; e
quando si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei secoli passati, si
resta per lo più molto all’oscuro di quel che si fa al giorno d’oggi”. 148 E.
Grassi, La filosofia dell’umanesimo] Vorremmo sottolineare tuttavia che il
filosofo italiano non tiene conto di una certa riabilitazione da parte di
Cartesio dei concetti di verosimile, tradizione e pregiudizio nell’ambito della
riflessione morale, come si evince dal Discorso, dai Principi e dalle Passioni
dell’anima, oltre che dalla corrispondenza. Secondo la nostra interpretazione
ciò accade per diversi ordini di ragioni: innanzitutto incide l’impostazione
idealistica che Grassi riceve negli anni di apprendistato alla Cattolica, per
cui l’inizio del moderno e la nascita del soggetto avrebbero in Cartesio un
punto di partenza fuori discussione149; inoltre, l’impostazione heideggeriana
che, come è noto, si concentra molto sulla critica a Cartesio, interpretato
come colui che avrebbe compiutamente formalizzato un passaggio cruciale nella
storia della metafisica, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a
quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile
la comprensione dell’ente. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti,
Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione
dell’uomo150, poiché l’uomo diventa subiectum151, il fondamento e la misura di
ogni certezza e verità. In Il nichilismo europeo si asserisce che “la tradizionale
domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio
della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale,
[...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”152: tale metodo è il
cogito e le sue strutture. Infine la forzatura grassiana della contrapposizione
Cartesio/Vico è finalizzata a delineare una nuova via d’accesso alla filosofia
le cui radici storico-culturali egli rintraccia nell’Umanesimo di matrice
latina e mediterranea in senso lato. Ritornando a Cartesio e agli aspetti meno
teoreticisti del suo pensiero, tralasciati da Grassi, possiamo prendere come
riferimento il significato della nota metafora della casa153 del Discorso
che “Devo richiamare alla mente la
situazione filosofica della filosofia italiana negli anni ’20, periodo in cui
compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia hegeliana predominava in Italia
grazie a Croce e Gentile ed era stata introdotta fin dalla fine del XIX secolo
da Bertrando Spaventa”, E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica, cit., p. 31. 150 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it. di F.
Volpi, Adelphi, Milano 2003, p. 158. 151 Ivi, p. 168. 152 Ivi, p. 169. 153
“Prima di cominciare a ricostruire la casa da abitare, non basta demolirla e provvedersi
di materiali e architetti, o impegnarsi personalmente nell’architettura, e
averne tracciato inoltre un accurato progetto; bisogna essersi procurati un
altro alloggio dove si possa dove si possa stare comodi nel corso dei lavori;
allo stesso modo, per non restare indeciso ! 58! vuole comunicarci
la necessità di prendere delle posizioni in ambito morale: ciò che
assolutamente era precluso in sede di conoscenza, ossia il fare affidamento ai
pregiudizi e a ciò che sembra ragionevole e sensato, seppure privo di certezza
assoluta, è consentito in ambito morale: “tuttavia si deve notare che io non
intendo che noi ci serviamo d’una maniera di dubitare così generale, se non
quando cominciamo ad applicarci alla contemplazione della verità. Poiché è
certo che, in quel che riguarda la condotta della nostra vita, noi siamo
obbligati a seguire bene spesso delle opinioni che non sono che verosimili
[...] la ragione vuole che ne scegliamo una, e che, dopo averla scelta, la
seguiamo costantemente, come se l’avessimo giudicata certissima”154. Il
concetto cartesiano di sagesse humaine è bivalente: ha una valenza teoretica e
pratica, e la nozione di bona mens, cui fanno capo tutte le scienze, è quel
sapere del vero e del falso grazie al quale l’uomo riesce ad orientarsi nella
vita. Inoltre già nel cogito abbiamo una co-determinazione da parte del volere,
fattore costituente dell’atto di giudizio: “con la parola pensiero, io intendo
tutto quel che accade in noi [...] non solo intendere, volere, immaginare, ma
anche sentire è qui lo stesso che pensare”155. Del resto lo stesso Grassi
riconosce la portata più ampia del cogito cartesiano nel contesto dell’analisi
del metodo portata avanti nel saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore
milanese afferma che “la metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva
importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con
“cogitare”. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di
distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui
l’attività logica non è che un momento”156. Se l’atto del cogito non è solo un
atto logico, ma anche di sensazione, immaginazione, volontà, per Grassi si
profila il problema del rapporto e della distinzione che passa tra queste forme
nel processo di manifestazione dell’essere157. Ancora più discordante rispetto
all’interpretazione di Cartesio esposta negli scritti maturi è l’affermazione
presente in L’inizio del pensiero moderno. Della passione nelle mie azioni mentre la ragione mi
obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere
quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria,
riconducibile a tre o quattro massime sole”, Cartesio, Discorso, cit., pp.
305-306. 154 Id., I principi della filosofia] G., Dell’apparire e dell’essere,
cit., p. 289. 157 Ivi. ! 59! e dell’esperienza dell’originario in
cui il cogito – a cui precedentemente già era stato riconosciuto quel carattere
elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà a connotare il concetto di
principio del filosofare noetico-non metafisico – è concepito nella sua intima
connessione con il dubbio come espressione dell’urgenza e dell’impellenza
dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito inteso come mentis inspectio
non “significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa di oggettuale; piuttosto il
vedere dell’inspectio coincide con questo soggiacere al dubbio e seguirlo fino
al punto in cui si rivela l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende
possibile [...] di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il
compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra
come il vero fondamento del sapere”159. La posta in gioco che emerge è quella
del riconoscimento della priorità della manifestatività dell’essere quale
fulcro tematico della filosofia. Il reale come punto di partenza della
riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle vie di accesso, che per G. –
questa volta non in opposizione ma in linea con Cartesio – ci pone di fronte ad
una molteplicità di forme che sono in un rapporto di intima co-appartenenza.
Nelle riflessioni appena ricordate traspare un’immagine di Cartesio più
articolata rispetto alla semplicistica riduzione caratterizzante gli scritti
tardi che si condensa nella opposizione Vico /Cartesio (pensiero topico e
pensiero critico) e che sorregge anche l’idea grassiana della presenza di un
cartesianesimo razionalistico nella prospettiva hegeliana. Hegel160 avrebbe
riproposto una visione dell’umanesimo sostanzialmente negativa e l’opera che
Grassi prende in considerazione è Lezioni di storia della filosofia in cui
l’Umanesimo appare come una filosofia volgarizzatrice e non speculativa, che
non realizza in modo adeguato l’idea ma si ferma all’ambito della fantasia e
dell’arte, e le cui radici ciceroniane, sono fortemente criticate. Secondo il
pensatore milanese “Hegel accusa la filosofia degli autori latini, ai quali fa
riferimento l’Umanesimo, di essere Ivi,
pp. 286-287. 159 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I Primi scritti,
cit., pp. 817-818. 160 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale] volgarizzatrice
(eine Populärphilosophie) o non speculativa. Egli rifiuta la tesi che lo
sviluppo del diritto romano abbia un valore filosofico”161. Nell’ambito della
definizione del concetto di filosofia e delle due sfere affini ad essa, la
scienza e la religione, Hegel fa riferimento alla filosofia popolare: “sembra
che vi sia un terzo momento che congiunge i due suddetti – momento soggettivo e
formale della scienza e momento oggettivo in forma figurata o storica della
religione –: cioè la filosofia popolare. Essa si occupa di argomenti
universali, filosofeggia su Dio e sul mondo però anche questa filosofia
dobbiamo lasciarla da parte. Ad essa si devono ascrivere gli scritti di
CICERONE. Lo stesso CICERONE, al quale Montesquieu avrebbe voluto assomigliare,
definito come l’esponente dell’umanesimo universalista è al centro anche delle
riflessioni di Mommsen – come ricorda G. nel catalogo delle interpretazioni
inautentiche dell’umanesimo – che lo valuta come “l’impiastricciafogli dallo
stile giornalistico”. Altra vittima degli strali di G. è il romanista Curtius,
annoverato tra coloro che riducono il caso della filosofia umanistica a mero
esempio d’esercitazione stilistica. Nell’elenco compaiono anche Cassirer, Apel,
Kristeller e Jaeger. Dell’interpretazione di Cassirer per Grassi è
inaccettabile o perlomeno fuorviante il punto di partenza: ricondurre la
filosofia sotto l’egida del problema della conoscenza non consente di
rintracciare nell’età dell’umanesimo alcuna innovazione [Hegel, Introduzione
alla storia della filosofia, introduzione di Pareyson e Plebe, Laterza, Roma-
Bari; Montesquieu, Discorso su Cicerone, in P. Ciaravolo, La personalità
filosofica di CICERONE, Aracne, Roma. Il primo, presso I ROMANI, che ha tolto
la filosofia dalle mani dei dotti e la liberata dall’intralcio di una lingua
straniera. Egli l’ha resa COMUNE a tutti gl’uomini, come la ragione, e nel
plauso che ne ha ricevuto i letterati si sono trovati d’accordo con LA GENTE
COMUNE [cf. Grice, “The lay and the learned”]. Io non sono in grado di ammirare
abbastanza la profondità dei suoi ragionamenti in un tempo in cui i saggi non
si distinguevano che per bizzarria dei loro vestiti. Vorrei soltanto che fosse
venuto in un secolo più illuminato e che avesse aiutato a scoprire la verità. Uso
l’espressione di Battaglia contenuta in Le virtù moderne di CICERONE. Appunti
sulle Tusculanae disputationes, in P. Ciaravolo; Grassi, La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale; Mommsen, Storia antica di Roma antica,
Sansoni, Firenze; Grassi, La filosofia dell’umanesimo] significativa. I testi
citati polemicamente da G. sono Individuo e cosmo nella filosofia del
Rinascimento e Storia della filosofia moderna. Curtius, di formazione neo-kantiana,
si occupa intensamente dei problemi matematici e fisici della modernità, e la
predilezione per alcuni autori, quali GALILEI, Keplero, Newton, Cartesio,
Spinoza e Leibniz, ci fa comprendere quanto potesse valere nel tragitto
filosofico tracciato da Cassirer il ruolo affidato all’umanesimo. Secondo G.,
per Cassirer laddove nell’Umanesimo filologia e filosofia si congiungono, non
si giunge nella filosofia a nessuna vera innovazione nel metodo. Se prendiamo
in considerazione il testo Dall’Umanesimo all’Illuminismo, che raccoglie i
contributi cassireriani sulla storia del pensiero occidentale dall’Umanesimo
all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a pagine di considerazione scarsa circa
lo spessore filosofico dell’Umanesimo. Nel saggio La posizione del FICINO nella
storia della filosofia – recensione al libro di Kristeller La filosofia di
Ficino – Cassirer afferma che, alle sue origini e per il suo scopo principale, l’umanesimo
non può dirsi un movimento filosofico. Tra gl’umanisti più noti non troviamo
grandi filosofi veramente indipendenti. Il loro interesse e l’erudizione e la
letteratura, non la filosofia. L’unica importanza dell’Umanesimo e del
Rinascimento e la mutazione della dinamica delle idee e lo slittamento dal
particolare all’universale. In questa fase la riflessione sui principi della
conoscenza non ha trovato ancora un motivo cosciente e la filosofia sembra
avere una efficacia limitata. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del
Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze. G., La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale; Cassirer, Il FICINO nella storia del pensiero, in
Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di Kristeller, Federici, La Nuova
Italia, Firenze; L’originalità del Rinascimento, in Dall’Umanesimo
all’Illuminismo; Storia della filosofia moderna; Dall’umanesimo alla scuola
cartesiana; La rinascita del problema della conoscenza, Arnaud, Einaudi, Torino.
Sembra trovare una parziale giustificazione allora la critica grassiana rivolta
al pensatore tedesco: Cassirer preoccupato di rintracciare nella tradizione
umanistica ciò che per lui costituisce l’essenza della filosofia – ovvero il
problema della conoscenza – dovette ammettere di rilevarne solo poche tracce
nell’Umanesimo. Ma si tratta di una critica solo in parte condivisibile poiché
G. e Cassirer non sembrano tanto lontani nella comune attenzione rivolta verso
il mondo del SIMBOLICO. Nonostante questo punto di contatto G. pone una netta
differenza tra la sua teoria di una logica della fantasia e quella cassireriana
della FORMA SIMBOLICA. Afferma G/ che e un errore e un fraintendimento molto
grave interpretare VICO come se la logica della fantasia e limitata a una pura
logica di la FORMA SIMBOLICA nella maniera che Cassirer usa quest’espressione.
In particolare all’interno dell’opera Filosofia delle forme simboliche,
Cassirer analizza la funzione del mito, inteso come originaria forma di vita,
essenziale per la scoperta e la comprensione del mondo storico. Le produzioni
mitiche prendono evidentemente origine dall’immaginazione, anche se il filosofo
non si sofferma sulla relazione specifica tra mito e immaginazione, bensì
insiste sulla relazione tra mito e immagine. Quest’ultima ha una funzione più
importante del mero SEGNO in quanto, secondo il filosofo, l’immagine contenne l’essenza
stessa delle cose. L’immagine, espressione di un fenomeno, non ha un semplice
carattere di rappresentazione, che indica qualcosa di oggettivo al di là di
essa, ma in essa si dà per noi qualcosa di reale, in essa qualcosa di
demonicamente vivente viene colto e posto dinanzi a noi in piena presenza. Dal
passo sopra citato emerge la ricerca di una struttura originaria che permetta
la ri-elaborazione dei processi storici dell’uomo dei tempi antichi, a partire
dalle sue creazioni mitico-simboliche. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. La
priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di VICO
oggi, in Vico e l’umanesimo; Cassirer, Filosofia delle forme simboliche,
Arnaud, La nuova Italia, Firenze. Queste strutture non hanno una funzione
solamente COMUNICATIVA ma agiscono da mezzo col quale si determina la
compiutezza dei loro contenuti. A partire da questa premessa dobbiamo
considerare il mito, la religione, IL LINGUAGGIO, non come forme di dominio sul
mondo, bensì come forme essenziali per la scoperta del mondo storico dell’uomo.
La formazione simbolica costituisce così il medium tra l’elemento
trascendentale e il mondo storico-reale. La funzione di sintesi, affidata alla
formazione simbolica, diviene fondamentale strumento di concezione della storia
che vuole liberarsi da una visione assolutistica e assoluta o da qualsiasi
riduzionismo empirico- descrittivo. Dice Cassirer in Saggio sull’uomo che, per
semplice che esso possa sembrare, ogni fatto storico può venire determinato
solamente in base ad una preliminare ANALISI DI SIMBOLI. La prima e più
immediata materia della conoscenza storica non è costituita da cose e da
avvenimenti, bensì da documenti e monumenti. Soltanto grazie alla mediazione e
con l’introduzione di questi DATI SIMBOLICI si può avere una idea della realtà
storica, degli avvenimenti e degli uomini del passato. Riprendendo la teoria
vichiana del mondo storico come creazione dell’uomo, aggiunge: “in nessun altro
campo, la mente dell’uomo è più vicina a se stessa che nella storia. Non il
mondo fisico, ma il mondo storico è creato dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà.
Il campo di studio elettivo dell’uomo non è dunque il mondo matematico né
quello fisico, ma il mondo storico, la società civile. Quel che VICO chiede è
una filosofia della civiltà: una filosofia la quale sveli e spieghi le leggi
fondamentali che governano il corso generale della storia e lo sviluppo della
cultura umana”180. Se non sapessimo che è Cassirer l’autore potremmo pensare
che questo passo esce direttamente dalla penna del Grassi autore di VICO e
l’umanesimo. Per entrambi i filosofi i linguaggi del mito e della fantasia
permettono agli studiosi moderni di comprendere la coscienza storica
dell’umanità. Il mito è una forma comunicativa, espressiva e esplicativa di
eventi e fenomeni e va ben oltre una Id., Saggio sull’uomo. Una introduzione
alla filosofia della cultura umna, a cura di Carlo d’Altavilla, Armando, Roma; Desartes,
Leibniz e VICO, in Id., Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene,
Ferrara, Laterza, Roma- Bari] rappresentazione illusoria che nasconde il vero
stato delle cose. Cassirer lettore di VICO mostra non pochi punti di contatto
con G. che del filosofo napoletano sottolinea proprio la priorità di quegli
ambiti mitici, poetici, simbolici, fantastici su cui il filosofo delle forme
simboliche a lungo si è soffermato. Se G. esplicitamente menziona la presenza
di una logica della fantasia in Vico – in cui il concetto fantastico e
immaginativo cristallizza un essere attraverso l’atto dell’ingegno, con una
visione diretta di una totalità pittorica –, Cassirer si riferisce a VICO
indicandolo come il creatore di una logica dell’immaginazione. L’umanità,
secondo lui, non poteva cominciare con il pensiero astratto e il linguaggio
razionale. Dovette passare per lo stato del LINGUAGGIO SIMBOLICO, del mito e
della poesia. I primi popoli non avrebbero pensato in concetti ma in immagini
poetiche; in realtà il mondo in cui vive sia il poeta che il foggiatore di miti
sembra essere lo stesso. L’uno e l’altro sono dotati dello stesso potere
fondamentale, del potere di personificare. Non possono contemplare nessun
oggetto senza dargli una vita interiore e una forma personalizzata – “Those
spots mean measles, dark clouds mean rain, smoke means fire]. La breve sosta
sulla filosofia cassireriana ci ha consentito di istituire un interessante
confronto G.Cassirer che ha come scopo quello di mettere in luce un comune
terreno di ricerca filosofica sugli ambiti del simbolico, del mitico, del
poetico e del fantastico. Altri due autori inseriti dal filosofo milanese
nell’elenco delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo sono Apel e
Jaeger, entrambi colpevoli di aver misconosciuto l’essenza autentica
dell’Umanesimo183. Per il pensatore italiano Apel sostiene la tesi che gli
umanisti nella loro disamina della logica scolastica usano un armamentario
filosofico poverissimo sostituendo agli argomenti razionali asserzioni
patetiche”184. Infatti Apel afferma che “da questa programmatica polemica d’un
nuovo Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 54. 182 Saggio sull’uomo, G. La
filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 35; Id., Il problema
della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 209; Id., Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico, in Id., Primi scritti, cit., 255-
271; Id., Paideia ed umanesimo, in Id., Primi scritti, cit., 357-369. La
filosofia dell’umanesimo] metodo gnoseologico, così come essa è caratteristica
dell’epoca umanistica di passaggio fra scolastica e scienza moderna, non si
potrà trarre una profonda intelligenza della logica formale (una sensibilità
per il formalismo dell’astrazione logica, e quindi per le autentiche acquisizioni
della logica da Aristotele in poi, fece difetto a tutti gli umanisti)”185. Dal
suo canto Jaeger riconduce lo spessore dell’approccio umanista a mera
prosecuzione degli ideali greco-romani186: secondo Jaeger le origini
dell’umanesimo non sono rintracciabili nel pensiero degli umanisti italiani del
Quattrocento. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo che “Jaeger dichiara che
l’Umanesimo è solo la manifestazione di un particolare ideale culturale che ha
per meta la formazione dell’uomo, Jaeger, infatti, asserisce in Paideia che
“sin dalle prime tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo al centro del
loro pensiero. Gli dei antropomorfi, il predominio assoluto del problema della
figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il procedere
conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel
quale culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema
inesauribile, da Omero in poi e per tutti i secoli seguenti, è l’uomo in tutta
la estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la natura
solo chi lo intenda quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza:
tutti questi sono raggi di un medesimo lume”. E aggiunge che si tratta di
“manifestazioni di un sentimento umanistico della vita, che non trova ulteriori
derivazioni o spiegazioni, e che compenetra ogni creazione dello spirito greco.
I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza [...]. Siamo ora in
grado di enunciare più precisamente che cosa costituisca l’originalità dei Greci.
La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquisita
coscienza della legge universale della natura umana. Il principio spirituale
dei Greci non è l’individualismo, bensì l’umanesimo” Apel, L’idea di lingua
nella tradizione dell’Umanesimo d’ALIGHIERI a VICO, il Mulino, Bologna; Jaeger,
Paideia. La formazione dell’uomo greco, Emery e Setti, Bompiani, Milano. La
concezione di Jaeger la paideia ha un ruolo prepolitico, intendendo l’attività
educativa come punto di incontro tra antichità e presente. Secondo l’esponente
del cosiddetto terzo umanesimo. Per l’età moderna, il concetto di umanesimo è
legato alla relazione consapevole della nostra cultura con l’antichità. Ma
questa non si fonda, a sua volta, se non sul fatto che la nostra idea della
cultura universale dell’uomo ha colà, appunto, la sua origine storica.
L’umanesimo, in questo senso, è sostanzialmente una creazione dei Greci. La
paideia greca ha in effetti caratterizzato, per Jaeger, sia il Cristianesimo
che il Rinascimento, in quanto il fine della stessa era la formazione di una
umanità superiore. 187 G., La filosofia dell’umanesimo. Infine, nel catalogo
grassiano degli pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller che secondo il
pensatore italiano non avrebbe avuto attenzione per quell’umanesimo non
platonico che al contrario egli cerca in gran parte della sua produzione di
mettere in luce. Afferma Kristeller in Retorica e filosofia dall’antichità al
Rinascimento che “gli umanisti non erano filosofi di professione, e i loro
scritti su diversi argomenti mancano della precisione terminologica e della
consistenza logica che abbiamo il diritto di aspettarci da filosofi di
professione in altre parole, anche se potessimo ricostruire una filosofia
coerente per un determinato umanista, non possiamo trovare una filosofia comune
a tutti gli umanisti, e quindi non è possibile definire il loro contributo in
termini di dottrine specificatamente filosofiche”189. Secondo G. Kristeller “al
quale dobbiamo uno studio su Ficino e molte ricerche erudite sull’Umanesimo
[...] valorizza il pensiero umanistico soprattutto nel ripensamento della
tradizione platonica e neoplatonica”190. II. III. Il maestro degli anni mitici
di Friburgo Il confronto grassiano con l’umanesimo non poteva non relazionarsi
alla filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si era espresso molte volte.
Il testo La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale è significativamente
dedicato alla memoria di Heidegger eletto da G. a suo maestro. Eppure
Heidegger, come ricorda G. stesso, “ha negato radicalmente qualsiasi valore
alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale tradizione l’ideale
romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato grazie al concetto di
paideia [...] afferma che la concezione umanistica non coglie l’essenza
dell’uomo. Kristeller, Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento,
Gargano, Bibliopolis, Napoli. Afferma Kristeller: che, diversamente dalle arti
liberali del primo Medioevo, gli Studia humanitatis NON INCLUDENO la logica o
il Quadrivium -- aritmetica, geometria, astronomia e musica --, e diversamente
dalle Belle Arti del Settecento gli Studia humanitatis non comprendevano le
arti figurative o la musica, la danza o l’arte dei giardini. Non comprendevano
neppure le materie principali che si insegnavano alle università del tempo,
cioè la teologia, la giurisprudenza o la medicina, o le materie filosofiche
all’infuori dell’etica, cioè la logica, la filosofia naturale o la metafisica.
In altre parole, diversamente da ciò che si è pensato molte volte, l’umanesimo
non costituisce il sapere e pensare intero o completo del Rinascimento, ma
soltanto un suo settore parziale, ben limitato, per quanto importante.
L’umanesimo ha il suo centro e la sua base negli Studia humanitatis. Le altre
materie del sapere, compresa la filosofia, con l’eccezione della filosofia
morale, hanno un loro sviluppo separato, che e in parte determinato dalla
tradizione medievale, ma che fu poi lentamente trasformato da osservazioni,
problemi e teorie nuove, trasformazione in cui anche l’umanesimo ha la sua
parte, ma agendo piú che altro dall’esterno e indirettamente”, Id., L’umanesimo
italiano del Rinascimento e il suo significato,Gargano, Istituto italiano per
gli studi filosofici, Napoli, G., La filosofia dell’umanesimo. Dedicare un
testo sull’umanesimo ad un anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita
poiché effettivamente Heidegger appare molto duro nei confronti di una
tradizione culturale che avrebbe meritato, se non un giudizio differente,
perlomeno una più attenta riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale. Il lavoro è dedicato alla memoria di
Heidegger che è stato il mio maestro: anche il mio saggio sotto la sua
direzione e pubblicato (Il problema della
metafisica platonica) e dedicato proprio a lui. Il magistero filosofico di
Heidegger e la sua negazione dell’importanza speculativa dell’umanesimo
sollecitano in G. tematiche speculative che renderanno possibile la
problematica sviluppata in “Macht der Phantasie (1979), in Macht des Bildes
(1970), e nel volume Rhetoric as Philosophy, ma anzitutto in Heidegger and the
Question of Renaissance Humanismus (1983)”193. In Lettera sull’Umanismo
Heidegger tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo
pensiero, che si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in
cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica.
Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la
risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende
qualcosa di metafisico e di esistenziale. “L’umanismo pensa metafisicamente
[...] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment
nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come in Sein
und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a
principalement l’Etre”194. La
tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come è noto, è espressa dal filosofo
francese in L’esistenzialismo è un umanismo195, ed è inserita nel contesto
della metafisica dell’umanismo che ! Ivi, p. 17. 193 Ivi, p. 29. 194 M.
Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di F. Volpi, Adelphi, Milano
2008, p. 61. 195J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano
1996, p. 40. ! 68! “non pone l’humanitas dell’uomo ad un livello
abbastanza elevato. Una metafisica di questo tipo, che eleva l’uomo a soggetto
despota dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo Heidegger, a comprendere
il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il soggiorno dell’uomo197,
la radura- Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando all’auto-interpretazione
heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né inumano. Non è umanistico
perché la questione fondamentale del suo pensiero è l’essere, la Lichtung,
l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad accidente periferico
dell’essere? Umano e inumano sono concetti inadeguati per un pensiero che vuole
andare oltre l’alternativa tra scienza e filosofia. Queste ultime sono per
Heidegger sostanzialmente la stessa cosa. Dopo l’incontro di Grassi con
Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta nera si profila quella tormentata e
difficile rottura con il maestro destinata a non ricomporsi. La connessione
istituita da Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo tedesco tralascia l’umanesimo
in quanto interpolazione romana- latina tra l’uomo greco e l’uomo tedesco,
erede del greco; valutando negativamente anche il Rinascimento come renascentia
romanitatis. Le radici di questa profonda avversione sono rintracciabili nel
contesto più generale della critica alla metafisica che Heidegger conduce:
“ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di
una metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che
presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, l’interpretazione
dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere [...] nel
determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione
del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga
una simile questione”198. Ogni umanismo in quanto tale è un’antropologia ontica
che muove da un ente senza tenere conto del riferimento all’essere – il grande
impensato della tradizione metafisica occidentale, rea di un doppio
occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι); oblio della
ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo dell’ente).
Pensare all’umanesimo antropocentrico e non attento M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p.
56. 197 Ivi, p. 90. 198 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 43.
! 69! al nesso essere-uomo significa pensare innanzitutto a quell’uomo
oggetto dell’orazione pichiana che accende un dibattito filosofico, promosso
proprio da PICO (si veda), e che è dominata dalla centralità dell’uomo
all’interno della realtà, peculiarità riconducibile all’essenza particolare del
suo status ontologico. A differenza degli altri enti l’uomo è quell’ente che
non ha una essenza specifica, una natura propria e definita, chiusa e
circoscritta: “l’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo non ha
che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà”200. Il problema posto
da Heidegger circa lo statuto dell’umanesimo/umanismo non poteva lasciare
indifferente G. che ritiene inaccettabili quelle affermazioni e che trova in
Heidegger se non proprio un momento di svolta201, uno spunto teorico importante
per il tentativo di risemantizzazione del concetto di umanesimo. Leggiamo in
Heidegger e il problema dell’umanesimo che “storicamente dobbiamo osservare che
la definizione che Heidegger dà del pensiero occidentale (una metafisica
razionale deduttiva che sorge e si sviluppa esclusivamente dal rapporto tra gli
enti e il pensiero, cioè nel quadro della verità logica) non regge. Nella
tradizione umanistica c’è sempre stata una preoccupazione cruciale circa il
problema del disvelamento, dell’apertura, dove il Da-sein storico può fare la
sua apparizione. Per questa ragione noi dobbiamo rivedere e rivalutare le
categorie storiche che ancora guidano il nostro pensare”202. Occorre precisare,
secondo Grassi, che accanto all’umanesimo ci sono gli pseudo umanesimi: la
prospettiva onto-antropo-logica grassiana ha come scopo teorico proprio la
chiarificazione del Cfr., GARIN, L’UMANESIMO ITALIANO, Garin, L’umanesimo
italiano] Parla di svolta riguardo all’incidenza di Lettera sull’umanismo di
Heidegger nel pensiero di G. D. Di Cesare in Metafora e differenza ontologica.
Grassi versus Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi,
cit., p. 25: “la Lettera rappresenta pure, di riflesso, una svolta per Grassi,
non solo nel confronto con Heidegger, ma anche nel proprio itinerario. La sua
attesa è rimasta delusa: non vi è traccia, nella Lettera, di un ripensamento
critico, o meglio autocritico, sul valore filosofico della tradizione latina e
italiana, di quel che Grassi chiama Umanesimo [...] per Grassi si produce
allora una difficile e tormentata rottura con Heidegger. Destinata a non
ricomporsi, questa rottura costituirà però il vero e proprio avvio non solo e
non tanto della sua originale interpretazione dell’Umanesimo, quanto di
un’autonoma riflessione filosofica che ha al suo centro la metafora”. Dal
nostro punto di vista, l’incontro a Todtnauberg tra Grassi eHeidegger, sebbene
significativo, non costituisce una svolta. La prospettiva della studiosa non
tiene conto delle affermazioni sull’umanesimo espresse da Grassi nella
produzione giovanile. Infatti, la questione dell’umanesimo si pone già a partire
dal saggio su Machiavelli del 1924, come abbiamo cercato di chiarire nel primo
capitolo e nel ventennio che intercorre tra il 1924 e il 1946 Grassi ha già
maturato le coordinate fondamentali del suo itinerario speculativo, in cui
certamente Heidegger riveste un ruolo centrale ma tuttavia non esclusivo. 202
E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 38. ! 70!
significato filosofico dell’umanesimo. Non l’umanesimo storico, né quello
politico sono al centro della sua riflessione, ma unicamente lo statuto
speculativo di esso. In Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne lo
studioso afferma: “sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un
problema anzitutto filosofico e non storico [...] che significato può dunque oggi
avere un umanesimo?”203. Cercare di dare una risposta a questa domanda spinge
Grassi a misurarsi con le questioni della tecnica, del metodo e
dell’oggettività. Si tratta di accenni polemici che egli non discuterà a fondo
e dettagliatamente ma che ci consentono di comprendere quanto fosse viva in lui
la consapevolezza del declino di una visione globale dell’uomo e dell’emergere
del disancoramento dalla realtà che le scienze naturali cercano di ridurre ma
che al contrario contribuiscono ad espandere a dismisura: “qui nelle scienze
singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare
più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo”204. L’approccio scientifico
è per Grassi responsabile di quella trasmutazione del mondo vero in favola, di
una de-realizzazione del reale, in seguito alla quale la realtà, la dimensione
dell’oggettivo svaniscono, divenendo un’astratta costruzione: “la realtà che
invece mediano le scienze naturali è un’astratta costruzione in quanto il
risultato di un interrogare la realtà fenomenica in funzione a principi
presupposti”205. Accanto a questa ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è
la ricerca filosofica che dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in
cui motivi etici, politici ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente
in quel contesto originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale
che l’analisi sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del
discorso grassiano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo insieme
una serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in cui il
coacervo delle interpretazioni analizzate da Grassi ci aveva condotti:
esaminate Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in AA. VV,
Umanesimo e scienza politica. Atti del convegno internazionale di studi
umanistici, a cura di E. Castelli, Roma- Firenze 1949, p. 202. 204 Ibidem. 205
Ibidem. ! 71! tutte le posizioni critiche rispetto alla tradizione
storica dell’umanesimo italiano ci è consentito ora di individuare il nucleo
attorno al quale la ricostruzione del suo senso autentico diviene possibile. Il
percorso onto-antropo-logico di Grassi staziona a lungo presso il concetto di
Lichtung, e non si tratta di un semplice omaggio al maestro dei “mitici anni
friburghesi”. La co-appartenenza di umanesimo e Lichtung è fondativa della
prospettiva onto-antropo-logica e costituisce, secondo il nostro punto di
vista, il plesso teorico cardine su cui si innestano le riflessioni che
successivamente avremo modo di analizzare: quella sull’ingegno e la fantasia;
quella sulla metafora e la retorica. Prima di sciogliere i nodi del pensiero
grassiano della Lichtung ripercorriamo brevemente la storia heideggeriana di
questo concetto, ciò ci consentirà di mettere a fuoco lo sfondo su cui si
staglia la particolare declinazione che della Lichtung offre G.. II. V La
Lichtung in Heidegger Come ha sottolineato Amoroso quello della Lichtung
heideggeriana è un esempio di etimologia per antifrasi come il latino lucus a
non lucendo, dove il lucus, il boschetto sacro, viene fatto derivare per
antifrasi da lucere, perché esso ha poca luce. La Lichtung ha tre rimandi
principali: al luminoso (Licht e lux), all’oscuro (lucus), e al leggero
(Leicht). Con il termine Lichtung non ci riferiamo ad una espressione
metaforica per indicare ciò che si sottrae all’espressione razionale: siamo di
fronte ad un fenomeno di base di cui fanno parte i domini spaziali e temporali
dell’uomo e la sua capacità di creare corrispondenze ontologiche. Nel pensiero
di Heidegger la concettualizzazione filosofica della Lichtung si dipana
nell’arco di più di 35 anni di speculazione filosofica: dal ’27, anno di
pubblicazione di Essere e Tempo al ’62, anno di
Resta ancora aperta tra i critici la questione di una possibile
traduzione efficace del termine che conservi il senso filosofico originario
senza andarne a ledere le relazioni morfologiche e foniche. Sono note le
riserve etimologiche addotte da Cicero circa la traduzione di Lichtung con radura,
che non renderebbe né l’affinità fonica e verbale con lux e Licht, né quella
speculativa di orizzonte inapparente di ogni apparenza ontica. Altri modi di
traduzione italiana come è noto sono quelli di Chiodi che traduce con
illuminazione; di Caracciolo che rende con radura-luminosa; la traduzione di
Vattimo è apertura-slargo; quella di Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso
traduce con luco; Marini con chiarita; Cicero usa il verbo lucare. Cfr., per
una ricostruzione dei molteplici significati del termine Lichtung il
fondamentale studio di L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg e Sellier,
Torino 1993. Per una ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero,
Parole fondamentali di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, in M.
Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di Cicero,
Bompiani, Milano 2010. Mi permetto di rinviare al mio Saggio sulla
Lichtungsgeschichte in M. Heidegger, pp. 33-67, in “Atti dell’Accademia di
scienze morali e politiche”, Giannini, Napoli] pubblicazione di Tempo ed
Essere, e oltre. Le sue molteplici “apparizioni testuali” hanno sensi e
significati di volta in volta diversi, ma sempre interconnessi e riferiti alla
problematica della ostensione della correlazione e coestensione di Da-Sein,
Sein, e aletheia. Tale correlazione se nella prima fase di pensiero del
filosofo è pensata più a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale,
nella fase tarda, invece, è tematizzata a partire dal legame stesso, da quel
plan di cui si asserisce l’identità con l’essere, come possiamo leggere a
partire da Lettera sull’umanismo207. La Lichtung heideggeriana ha una
articolazione pentavalente: (i) Da- sein, (ii) arte, (iii) mondo-spazio, (iv)
verità e (v) nulla sono i poli con i quali la Lichtung si converte di volta in
volta. (i) Nell’opera del ‘27 la Lichtung appare come Da-sein nel senso di
Erschlossenheit208 con evidente correlazione all’immagine classica del lumen
naturale, dunque alla luce. La caratteristica della non-chiusura o
dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note distintive: la spazialità
propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana – benchè si tratti di
un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta mai al modo dell’ente
semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura dell’essere. Inoltre,
l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché ha una connotazione
duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla Entdecktheit, che
contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice presenza ha come nota
caratteristica quella di essere uno svelato che non può aprire un mondo di
significati ma che si trova già sempre immerso in una totalità di appagatività.
L’esserci, invece, ha una capacità di apertura che lo rende quell’essere che
può scoprire, mentre la semplice-presenza è l’ente che può essere scoperto. Si
tratta di comprendere il denso senso del Da-sein, che esprime sia il
riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale
dell’uomo con l’apertura (il ci) dell’essere come tale. “Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si
dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il ya principalment
l’Etre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’Etre e le plan sono lo
stesso”, M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 61-62. 208
L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: “qui e là sono possibili solo in
un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto la
spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non
chiusura. L’espressione “Ci” significa appunto questa apertura essenziale.
Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) “Ci” è per se stesso in una con
l’esser-ci del mondo [...] che esso sia illuminato significa che è in se stesso
aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro
ente, ma in modo che esso stesso è la radura”, M. Heidegger, Essere e Tempo,
tr. it., a cura di, Longanesi, Milano, p. 165. ! 73! (ii) La
relazione tra Lichtung e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il
termine radura è declinato come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità
stessa dei fenomeni. In quanto apertura essa è quell’accadere non solo del
diradarsi ma anche del trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si
evince dalle pagine sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in
L’arte e lo spazio. L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la
messa in opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene
declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: “l’opera
d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera
accade questo far insorgere, ossia: la verità [...] l’arte è il mettersi in
opera della verità”210. Ciò che insorge è la dimensione ontologica della
Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di Lichtung come
mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto della
coniugazione della problematica trascendentale e della dottrina del mondo. L’io
trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale sovrapposizione
tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e di dare risalto
ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso, come originaria
dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di manifestarsi va
rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del soggetto.
Afferma il filosofo tedesco che “in Essere e Tempo la “cosa” non ha più il suo
luogo nella coscienza, ma nel mondo”211, e ciò perché il mondo è la condizione
di possibilità dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci all’ente212,
costituendo l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica esistenziale che
la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento dell’in-essere,
insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello spazio Il termine Offenheit è impiegato soprattutto
in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere aperto e al contempo aprente
contraddistingue la Welt come welten, come farsi-mondo. Il mondo, infatti, come
l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung: istituzione, donazione e fondazione le
quali aprono alla dimensione dell’apparire dell’ente, facendo sì che l’ente
“insorga” in quanto essente, assurgendo a dimensione della donazione di senso.
210 Id., L’origine dell’opera d’arte, p. 51. 211 Id., Seminari, tr. it. Di M.
Bonola, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1992, p. 158. 212 Cfr., V.
Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla
Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Urbino, Argalia, 1976. !
74! omogeneo naturale213. Inoltre, risulta impraticabile la deduzione
dello spazio dal tempo, poiché spazio e tempo sono fenomeni originari, anzi,
cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di cui si parla in Tempo e
Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi dell’essere, al suo destinarsi
storicamente, al suo essenziarsi aletico. Il concetto di spazio come lasciare e
concedere spazio, mondo e soggiorno è strettamente connesso al concetto di
Lichtung che dirada il luogo di ogni manifestatività e presenza, ma anche il
luogo di ogni assenza e oscurità, l’aperto per tutto ciò che è presente o
assente. (iv) Il legame di Lichtung e verità si pone con forza in un suggestivo
paragrafo di Essere e Tempo, che reca il significativo titolo di Esserci,
apertura e verità214. Qui Heidegger afferma che un’asserzione è vera
innanzitutto perché è apofantica, ossia è manifestazione dell’ente215.
Nell’ambito dell’analitica esistenziale la verità è connessa ad un concetto di
Lichtung da intendere, sia, come Offenstandigkeit (come uno stare aperto da parte
dell’uomo), sia, come Offenbarkeit (esser- manifesto da parte dell’ente). La
grande sfida che si apre alla riflessione del filosofo tedesco è quella di
portare al linguaggio quello sfondo sul quale si staglia la stessa
manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo nascosto e oscuro su cui si
pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale possiamo comprendere il
discorso sulla non-essenza della verità. Preminente secondo Heidegger nella
dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del presentarsi della cosa, e non il
Wassein, il contenuto essenziale. E proprio tale separazione tra il contenuto
dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha generato per il filosofo tedesco
quel “riferimento al vedere, all’apprensione, al pensare e Ma soprattutto dall’analitica sappiamo che la
spazialità è possibile solo sul fondamento della temporalità. Nel noto § 70 di
Essere e Tempo lo spazio sembra emergere in netta subordinazione al tempo, alla
temporalità estatico-orizzontale, che sola rende possibile l’entrata dell’esserci
nello spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger ad avvertire
l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione espressa in Essere e
Tempo: “il tentativo di ricondurre la spazialità dell’esserci alla temporalità
compiuto nel § 70 di Essere e Tempo non è più sostenibile”, M. Heidegger, Tempo
e essere, cit., p. 30. Anche nelle dieci conferenze tenute a Kassel del 1925
Heidegger afferma nel contesto della disamina di “ciò che è vivo e ciò che è
morto” del pensiero diltheyano che «lo spazio del mondo ambiente non è quello
della della geometria. Esso è essenzialmente determinato dai momenti usuali
della vicinanza e della lontananza [...] non ha dunque la struttura omogenea
dello spazio geometrico», Id., Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale
lotta per una visione storica del mondo, cit., pp. 34-35. 214 Il riferimento è
al § 44 di Essere e Tempo. 215 Ivi, pp. 264-265. ! 75!
all’asserire”216 della verità che è caduta sotto il giogo dell’idea, con il
conseguente mutamento della verità in orthotes. (v) L’altro concetto
fondamentale intrinsecamente connesso a quello di Lichtung è quello di nulla,
di cui Heidegger parla soprattutto in Che cos’è metafisica?. Qui il nihil è
contraddistinto da una peculiare relatività e rivelatività. Lichtung e Nichtung
divengono sinonimi perché la peculiare funzione di diradamento della prima, e
il ruolo di annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua
luminosità, consentendo ad esso di apparire. Lichtung e Nichtung costituiscono
quella “notte chiara” in cui l’ente appare e il mondo diviene mondo. Nondimeno,
radura e nulla non vengono alla luce alla stregua dell’ente, ma si annunciano
in quella differenza nei confronti dell’ente che appare217. In conclusione di
questa incursione nella teoria della Lichtung heideggeriana possiamo dare per
acquisito che essa si pone come l’inapparente fonte di ogni apparenza ontica.
Si tratta del mero “che c’è”, del fatto, dell’evento. Ma un pensiero così
originario, che nel suo regressus verso l’inizio retrocede verso un
indisponibile e pre-teoretico darsi può ancora edificare? Su quali fondamenta e
a quale scopo? Quale telos l’“uomo della radura” può porsi e come può
orientarsi? Id., La dottrina platonica
della verità, in Id., Segnavia, a cura di F. W. Von Hermann e F. Volpi, Milano,
Adelphi, p. 192 217 Se in Essere e Tempo il discorso si dipana su un piano che
è più strettamente analitico-esistenziale, nella prolusione Che cos’è
metafisica (1929) la questione si pone sul terreno ontologico. Qui il discorso
sull’angoscia si inserisce nella cornice tematica del rapporto tra essere e
nulla. In questo caso ad attirare l’attenzione non è tanto l’Unheimlichkeit –
l’esperienza dello spaesamento – propria dell’angoscia, quanto l’esperienza di
Seinsoffenheit – di apertura dell’essere – della stessa: «solo nella notte
chiara del niente dell’angoscia sorge quell’originaria apertura dell’ente come
tale [...] il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale
per l’esserci umano”, M. Heidegger, Che cos’è metafisica, in Id., Segnavia,
cit., pp. 70-71. ! 76! II. VI. Lichtung, umanesimo, metafisica: la
proposta grassiana Queste sono le sfide che il pensiero heideggeriano pone e
che G. rimedita in modo originale coniugando Lichtung e umanesimo. In
quell’umanesimo in cui Heidegger intravedeva un pericolo per l’esperienza
autentica dell’originario Grassi individua una possibilità, anzi la
possibilità, la scommessa del filosofare noetico-non metafisico da sempre
bandito dalla riflessione formale e razionalistica. Afferma il filoso italiano
in La metafora inaudita, nel contesto dell’analisi del linguaggio e del
pensiero razionalmente intesi, che “qualsiasi umanesimo – nel contesto suddetto
– che tenti di trascendere il pensiero formale tenendo conto dei problemi della
vita e dell’uomo, deve essere escluso e con esso ogni elemento patetico,
proprio del linguaggio poetico o retorico. Il linguaggio razionale e
scientifico deve necessariamente prescindere dalle passioni dell’uomo; il suo
ideale è quello matematico e il legame del mondo umano con la razionalità
genera il terrore di cadere nel soggettivismo, nell’arbitrarietà”218. Per il
filosofo italiano occorre compiere un movimento inverso a questa prospettiva e
la riflessione sul tema heideggeriano della Lichtung, connesso
all’articolazione umanistica e vichiana del concetto, rappresenta un tentativo
di costruire un nuovo accesso al mondo umano. Per Grassi quello compiuto da
Heidegger è un regressus, un movimento di retrocessione dal dato al darsi, che
tuttavia si arresta all’Es gibt, all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella
Lichtung riecheggia quel φύειν greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare,
portare a manifestazione, quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto
del quale sente la meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel
quale ci si sente situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione,
forme, queste, di mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in
quella modalità linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio
come casa dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro
intraprendendo una analisi teoretica e storica delle prospettive degli
antesignani della teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva
metaforologica originale che coniuga l’analisi
E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 11. ! 77! della
metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno
globale di tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico. Nel
contesto della Lichtungsgeschichte di Grassi emergono in primo piano i temi del
non- nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e
il Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto
heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, Grassi afferma
che “uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione
del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il
suo mondo [...] questi problemi non sono trattati dal pensiero umanistico
mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma
piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio”220. Da
questo passo emerge la precisa declinazione che Grassi conferisce a tale idea:
si tratta di una declinazione ontologica perché il problema che la Lichtung
heideggeriana pone è, come abbiamo visto, quello del fenomeno di base
dell’evento, della manifestatività, dell’esistenza e dell’appello dell’essere
al quale è chiamato l’uomo. Ma allo stesso tempo emerge anche una nota
linguistica perché l’appello dell’essere che avviene nella dimensione della
Lichtung coinvolge innanzitutto il mondo linguistico dell’uomo. Inoltre, Grassi
rimarca più volte la retrodatazione della concettualizzazione della Lichtung:
interpretata come riflessione sull’evento originario del rapporto uomo-essere
la Lichtung compare già nelle riflessioni umanistiche, soprattutto in quelle
che riguardano il linguaggio. L’idea di Lichtung che Ortega y Gasset, il
collega di corso di Grassi durante gli “anni mitici di Friburgo”221 faceva
risalire al 1914222, in realtà è molto più antica per Grassi: precede Heidegger
e Ortega di secoli. Id., Heidegger e il
problema dell’umanesimo, cit., pp. 20-21. 220 Ivi, p. 26. I corsivi sono
nostri. 221 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 21.
222 Ortega ha sempre rivendicato la priorità, rispetto a Heidegger, di alcune
intuizioni filosofiche fondamentali: “Ci sono appena uno o due concetti
importanti di Heidegger che non siano preesistenti, talvolta con un’anteriorità
di tredici anni, nei miei libri”, Ortega y Gasset, Lettera a un tedesco (1932),
in Id., Goethe, tr. it. di A. Benvenuti, Medusa, Milano 2003, pp. 15-48: p. 47,
nota 2. I concetti sui quali Ortega, stando alla sua autointerpretazione, si
sarebbe espresso con anticipo rispetto ad Heidegger sono quelli di essere,
verità, cura e lingua. Per una analisi approfondita dei concetti ora ricordati
rimando a G. D’acunto, Ortega critico di Heidegger, pp. 67-78, in “Studi interculturali”,
1/2015 Trieste. Vorremmo richiamare all’attenzione i passi orteghiani del 1914
in cui si dice sia prefigurato il concetto heideggeriano di Lichtung, !
78! Secondo il filosofo milanese, infatti, il problema della radura
risale alle riflessioni dell’umanesimo italiano: “già dagli inizi degli studi
umanistici un secolo fa, con Burckhardt e Voigt, fino a Cassirer, Gentile e
Garin, gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo
nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti. Questa interpretazione,
largamente diffusa, è la ragione per cui Heidegger [...] si è insistentemente
impegnato in polemiche contro l’umanesimo, considerato alla stregua di un
ingenuo antropomorfismo. E tuttavia uno dei
reso con la metafora della radura nel bosco, e che esprime al contempo
l’idea di verità come αληθεια e non nascondimento. Ortega, già nel 1914,
affermava che: “la verità è caratterizzata da una pura illuminazione subitanea
che possiede, però, solo nell’istante in cui viene scoperta. Per questo il suo
nome greco, aletheia – che in origine ebbe lo stesso significato della parola
più tarda apocalipsis –, vuol dire scoperta, rivelazione, o meglio, svelamento,
toglimento di un velo”, J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri
saggi, tr. it. a cura di G. Cacciatore e M. L. Mollo, Guida, Napoli 2016, p.
68. In Ortega, dunque, sarebbe presente quella metaforica presente anche in
Heidegger: la radura nel bosco (Lichtung), intesa come il luogo in cui si apre
lo spazio che lascia entrare la luce e la fa giocare con l’oscurità. Secondo
Ortega “il bosco è una natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo
nome conserva un alone di mistero [...] il bosco sfugge allo sguardo [...] il
bosco è sempre un po’ più in là del luogo in cui siamo [...] Ciò che del bosco
si trova davanti a noi in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto
rimanga nascosto e distante”, ivi, p. 62-63. Vorremmo sottolineare come
l’importanza della metafora in Ortega non sia legata solo alla sua notevole
capacità di espressione letteraria, a quella volontà di stile mai disgiunta da
una chiara coscienza linguistica, ma abbia una radice filosofica molto forte
nell’estetica del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna guardare tra le pieghe
di testi quali Renàn, Ensayo de estètica a manera de pròlogo, Las dos grandes
metàforas, La deshumanizaciòn dela rte per rintracciare un’analisi della
metafora che travalichi l’ambito pittorico e letterario e mostri una componente
filosofico-conoscitiva e una costante preoccupazione antropologica e non solo
estetico-ornamentale della metafora. Questa preoccupazione antropologica si
materializza come è noto nella bella immagine del naufrago a cui la cultura
viene in soccorso come una “zattera”: “la vita è in se stessa e sempre un
naufragio. Naufragare non è affogare. Il povero essere umano, accorgendosi di
affogare negli abissi, agita le braccia per mantenersi a galla. Questo agitare
le braccia, con cui egli reagisce al suo smarrimento, è la cultura: un
movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto questo, essa compie la sua
funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso abisso”, J. Ortega y Gasset,
Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla felicità, tr. it., di C. Rocco
e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994, p. 193. Spostandoci da una
“pragmatica metaforica” orteghiana ad una “teoria sulla metafora” sarà
possibile constatare che il tema della metafora svolge una funzione
fondamentale nell’economia del pensiero orteghiano e umano in generale, poiché
tenta di ancorare il linguaggio alle radici che lo generano. Come leggiamo
nelle pagine di La disumanizzazione dell’arte “ecco così un “tropo” di azione,
una metafora elementare anteriore all’immagine verbale e che si genera
nell’ansia di evitare o eludere la realtà. [...] Ecco l’elusione metaforica”.
J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S. Battaglia,
Sossella, Roma 2005, p. 45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso è
un’operazione metaforica: “il logos stesso è un’espressione metaforica [...]
così, se quanto diciamo non coincide esattamente con quanto pensiamo, si deve
intendere che perlomeno lo suggerisce. E tale dire che è suggerire è la
metafora”, J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, cit., p. 46.
Cfr., G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Mulino,
Bologna 2013 soprattutto il saggio “La zattera della cultura. Filosofia e crisi
in Ortega y Gasset”, pp. 47-77; G. Cacciatore-A. Mascolo (a cura di), La
vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di J. Ortega y
Gasset, Moretti e Vitali, Bergamo 2012; F. J. Martìn, Teoria del linguaggio e
linguaggio ingegnoso in Ortega y Gasset, pp. 313-327, in F. Ratto-G. Patella (a
cura di), Simbolo, metafora e linguaggio nella elaborazione filosofico- scientifica
e giuridico-politica, Sestante 2000; G. D’Acunto, Ortega y Gasset: La metafora
come parola esecutiva, pp. 39-51, in “Studi interculturali”, n. 2, 2014; F.
Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in F. Cambi, A. Bugliani, A.
Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici, Unicopli, Milano 2007,
pp. 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a cura di) Omaggio a Ortega, Guida,
Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio Un intellettuale di vocazione. A
proposito di La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di
Ortega y Gasset, pp. 230-243 in “Studi interculturali”, Trieste 2014; G.
Ferracuti, Il punto di vista crea il panorama: molteplicità di sguardi e
interpretazioni in Ortega y Gasset, pp. 96-118, in “Studi Interculturali”, Trieste
2015. ! 79! problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo bensì la
questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono
l’uomo e il suo mondo”223. L’apertura originaria, definita altrove come
l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle speculazioni umanistiche coinvolge i
temi del linguaggio, della correlazione tra cosa e pensiero. Oltre
all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero per Grassi abbiamo una
tradizione che si preoccupa del manifestarsi storico dell’ente attraverso il
linguaggio, dell’eventuarsi dell’essere in quel rapporto di co-estensione
ineludibile di essere-pensiero-linguaggio. Ma che cos’è il logos per Grassi?
Può ridursi sic et simpliciter all’ambito della razionalità, del concettuale,
del deducibile? Si tratta unicamente di una polarità irrimediabilmente
antitetica al pathos? Ma soprattutto in che relazione è l’idea di logos con
quella di Lichtung? Come vedremo nel prossimo capitolo in maniera più
dettagliata occorre analizzare i molteplici significati di logos offerti da
Grassi e connetterli con le questioni dell’apparire e della passione
dell’originario per meglio comprendere il significato della Lichtung nel
pensiero del filosofo italiano al di là dell’ipotesi dualista225. Vorremmo
anticipare che nel saggio del 1936 Il problema del logo il filosofo milanese
sembra proporre un’idea di logos completamente opposta alle tesi mature. Ma si
tratta di una contraddizione solo apparente come vedremo poiché l’idea di logos
è inteso in maniera complessa. Ad apparire problematiche sono le affermazioni
del periodo a difficilmente compatibili con quelle del periodo b. -! a:
“l’originario atto della differenza ontologica non è la distinzione di enti
precedentemente dati, bensì l’originario rendere possibile la manifestazione di
una molteplicità in cui concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita.
Così il fondamentale carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad
una molteplicità [...] E. Grassi,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 224 Ibidem. Cfr., anche la
versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen
Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 225 Parla di ipotesi dualista M.
Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV., Un filosofo
europeo. Ernesto G., cit., p. 10. Completamente opposto è il giudizio di Rita
Messori che sostiene con fondamento la coappartenenza di logos e pathos. Cfr.,
R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel
pensiero di E. Grassi, cit., soprattutto le pp. 66-84. ! 80! è
radicato nella differenza ontologica, col che si conferma la nostra originaria
tesi della precedenza del logo. La Stimmung, il sentimento, si fonda dunque
nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento
alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein”226. -! b: “il
termine retorico” – che in Grassi indica l’ambito di progettazione del pathos –
“assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere
l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che
costituisce la base del pensiero razionale”227. Come conciliare allora il
periodo a -! “si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo
[...] il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare
modo del leghein” con il periodo b? -! “retorica è piuttosto il discorso che
costituisce la base del pensiero razionale” Grassi stesso avverte durante tutto
il suo iter di pensiero la necessità di una ricomposizione di queste due vie
del filosofare tanto che giunge ad affermare che le analisi svolte
sull’umanesimo sono da concepire come “uno sforzo per gettare un ponte tra
logos e pathos”228. A questo punto si impongono una serie di osservazioni:
Grassi non parla in maniera univoca di logos – così come non parlerà in maniera
univoca di retorica – anzi, individua due logoi differenti, o meglio due forme
di logos: una disgiunta dal pathos, l’altra radicata nel pathos. Ed è proprio
sull’opposizione tra un logo inteso secondo una modalità logico-formale e un
logo intrinsecamente legato alla dimensione patica che si può comprendere il
suo pensiero. Abbiamo un significato di logos da interpretare come “processo
del manifestarsi”, in cui si sperimenta un nuovo rapporto di essere e nulla, un
nuovo concetto di identità che non si fonda sulla logica del pensato ma sulla
logica del pensare, dell’atto E.
Grassi., Il problema del logo, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 227 Id.,
Retorica e filosofia, pubblicato in “Philosophy and Rhetoric, IX, 1976, The
Pennsylvania State University Press, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p.
97. I corsivi sono nostri. 228 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, cit., p. 170. ! 81! pensante, che porta a manifestazione.
La lezione heideggeriana di L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica
coniugata a quella gentiliana della Logica è evidente. Grassi intuisce la
convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein
radicata nell’ontologia dell’essere e forte di questo connubio è in grado di
porre il vero problema che potremmo definire autenticamente fenomenologico229.
La questione che la Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è
quella dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto
fondativo del reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade
la differenza ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che
appare? Come esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio?
Se da un punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta
connesso strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso
logos-pathos (poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della
manifestatività dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una
connessione molto interessante risulta essere quella istituita d Grassi tra la
Lichtung heideggeriana e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben
più complessa della secca alternativa tra logos e pathos. L’intima
coappartenenza del momento patico e di quello logico determina la forma della
manifestatività. Il tema dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo
capitolo è fondamentale per Grassi e mostra quanto la problematica della
Lichtung (espressa in modo esplicito negli anni della maturità), sia già
presente nella produzione giovanile riguardante i temi dell’essere,
dell’apparire, della manifestatività e dell’esperienza patica dell’originario.
II. VII. Lichtung e lucus Come abbiamo sottolineato in precedenza Heidegger
rappresenta un punto di riferimento centrale all’interno della prospettiva
grassiana, sia per quanto riguarda il valore della parola poetica Analizzeremo
in modo approfondito questo aspetto nel prossimo capitolo. ! 82!
come linguaggio originario, sia per il parallelismo istituito tra la Lichtung e
le luci vichiane230. Contro l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come
metafisica dell’ente uomo Grassi – a sua volta con categorie ermeneutiche
mutuate dal maestro – individua un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche
degli umanisti. In questo percorso di riabilitazione del pensiero retorico231
latino Vico risulta essere una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il
problema dell’umanesimo che “il problema della verità logica [...] deve essere
sostituito dal problema molto più originario del disvelamento, dal problema
della schiarita (aletheia) nella quale primariamente appare ciò che è,
l’essente. Ciò assegna un nuovo compito alla filosofia: quello di sostenere il
primato e l’originarietà del linguaggio poetico rispetto al linguaggio
razionale; rammentiamo a questo proposito la spiegazione heideggeriana della
Lichtung. La tesi di Heidegger ci riporta a quel pensatore del XVIII secolo con
il quale la tradizione umanistica raggiunge la sua più profonda espressione e
significanza filosofica: VICO (si veda). In Potenza della fantasia. Per una
storia del pensiero occidentale, la questione dell’apparire, della fantasia,
del lavoro e della Lichtung è esplicitamente connessa con la figura dell’“ultimo
umanista”: Vico. G. pone il seguente
problema: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una
nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa?”233. La risposta è
individuata nella Lichtung. Il divenire uomo dell’uomo (e la conseguente
comparsa del mondo, del cosmo dal caos originario) è un processo che parte
dalla originaria estraneazione dell’uomo, intesa da Grassi come “angoscia
originaria dello smarrirsi nella foresta primordiale”234 e, passando per le varie
tappe storiche dello sviluppo antropologico, approda all’istituzione della
comunità umana mediante la parola. Questa più che configurarsi come
rispecchiamento dell’ente – in tal caso saremmo di fronte ad una teoria
adeguativa della verità e del linguaggio ad essa connesso Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la
metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Scritti in memoria di Ernesto Grassi,
cit.; Id., Lichtung: leggere Heidegger, it.; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para
una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en Vico y Ortega, cit., pp.
146-173. 231 Cfr., Espillaque, op., cit. 232 Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 35. 233 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una
storia del pensiero occidentale, cit., p. 251. 234 Ivi, p. 253. !
83! – assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo umano, mostrando
una virtù onto-poietica. “Nella libera decisione di far luce nella foresta
primordiale per fondare il primo luogo umano”235 Grassi rintraccia l’autentica
caratura onto-antropo-logica del discorso vichiano. Infatti per Grassi la
Scienza Nuova vichiana delinea il problema del disvelamento in cui appare
l’uomo e il suo mondo e solo secondariamente affronta la questione della
storicità e dell’antropologia. Soffermiamoci sul confronto tra la dottrina
heideggeriana della Lichtung e la teoria vichiana delle luci. Nella Scienza
Nuova appare la problematica principale del filosofo napoletano: quella del
disvelamento del modo in cui sorgono l’uomo e il suo mondo attraverso
l’interrelazione della parola poetica con lo spazio storico che tramite l’atto
linguistico stesso si istituisce. L’affermazione grassiana fa perno sul passo
vichiano della Scienza nuova in cui la teoria pre-heideggeriana della Lichtung
comparirebbe. In Vico e l’umanesimo il tema della Lichtung è correlato a quello
vichiano della “schiarita della foresta primordiale”236. Mettere insieme Vico e
Heidegger segnatamente al tema della Lichtung è per Grassi un’operazione che ha
come esito un esame della metafisica in generale e non solo di una metafora, per
quanto importante, della filosofia occidentale. Si tratta di un aspetto di non
secondaria importanza. Il gioco delle analogie tra Vico e Heidegger che
possiamo ricostruire – come di fatto è stato ricostruito magistralmente da
Amoroso237 –, per quanto interessante, rischia di rimanere molto generico se
non calato in un orizzonte teorico più ampio che fa interagire i due autori sul
terreno della metafisica. Conscio della grande distanza che corre tra il
tentativo vichiano di una riforma della metafisica e di quello heideggeriano di
un suo superamento, ma nondimeno consapevole della contrapposizione di entrambi
alla “barbarie della riflessione” e ai trionfi della ratio, Grassi pone
l’accento sul tema della Lichtung quale terreno di confronto tra due autori che
alla ritematizzazione di un rapporto autentico-essere-uomo-linguaggio hanno
dedicato gran parte delle proprie opere. La metafora che Ivi, p. 251. 236 Id., Vico e l’umanesimo,
cit., p. 127. 237 Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp.
447-470, in AA. VV., Studi in memoria di E. Grassi, parzialmente modificato in
Id., Nastri vichiani, ETS, Pisa 1997, pp. 99-122. ! 84! Grassi
eredita dal maestro degli anni mitici di Friburgo, come abbiamo visto, declina
la dimensione della luce con quella dell’oscurità e la stessa coappartenenza
viene rintracciata in Vico. Ovviamente la metafisica della luce, che è a
fondamento della scienza nuova, va intesa nel senso di un neoplatonismo
cristianizzato. Nella metafisica del suo De Antiquissima Italorum sapientia
Vico afferma che la chiarezza del vero è come quella della luce. Qui la luce
vale come metafora della verità metafisica di Dio e delle sue idee, le forme
che l’uomo può vedere solo nel contrasto. “Il vero metafisico è sommamente
luminoso, non è racchiuso da alcun limite, e pertanto non lo si discerne con
nessuna forma: e ciò perché è il principio infinito di tutte le forme, mentre
le cose fisiche, opache, cioè formate e finite, son quelle in cui vediamo la
luce del vero metafisico”238. L’alternanza di luminosità e opacità va quindi
letta nel senso di un neoplatonismo cristianizzato e non come l’esempio di
quell’impensato della tradizione occidentale contraddistinta da quell’oblio
dell’essere di sapore heideggeriano. Perché dunque Grassi mette insieme Vico e
Heidegger – che avrebbe definito Vico un appartenente alla costituzione
onto-teo-logica della metafisica – su un tema che sembra segnare, invece, una
distanza tra loro? La risposta è nel linguaggio poetico. Per entrambi gli
autori – l’uno attento alla Provvidenza; l’altro al Geschick, quel destino che
genera la storia, la Geschichte; l’uno sensibile al ruolo fondativo della
poesia; l’altro alla valutazione del linguaggio poetico quale casa dell’essere
– è significativo il tema della intima co-appartenenza di luce e oscurità nella
analisi della genealogia del mondo umano. Secondo Grassi “l’unico pensatore che
[...] avrebbe potuto aprire la comprensione per il pensiero di Vico sarebbe
stato Heidegger”239 poiché la Lichtung heideggeriana è molto affine al tema del
lucus vichiano. Entrambe le nozioni rientrano in un pensiero dell’origine
storica del mondo dell’uomo che ha natura innanzitutto linguistica e poetica.
Come leggiamo nella Scienza Nuova “le prime città, quali tutte si fondarono in
campi Vico, p. 84, La metafisica del
1710, Introduzione, trad. commento di A. Corsano, Adriatica Editrice Bari 1966.
Si tenga conto della funzione del raggio di luce della Dipintura che
dall’occhio divino discende sulla figura femminile della metafisica e si
rifrange su Omero, simbolo della poesia e della scoperta dei caratteri poetici,
della sapienza poetica, la vera chiave maestra per intendere la nuova scienza
quella antropologia delle origini del mondo umano e civile. Cfr., L. Amoroso, VICO
(si veda), Heidegger e la metafisica cit., p. 115. 239 Grassi, Vico e
l’umanesimo, p. 194. ! 85! colti, sursero con lo stare le famiglie
lunga età ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi religiosi, i
quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e, conl’idea comune a
tutte, si dissero dalle genti latine “luci”, ch’erano “terre bruciate dentro il
chiuso de’ boschi”240. Mosso dal convincimento di tale sorprendente convergenza
di temi Grassi sottolinea come la dimensione di apertura del lucus vichiano
analoga a quella della Lichtung heideggeriana mette in questione il tema
dell’origine della storia, del linguaggio, della poesia e del sacro. Il Vico di
G., antropologo delle origini, avrebbe attribuito una centralità a quella
dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo comune241. La
ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto originario – la
Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche linguistiche che
in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e sull’etimologia e in
Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana secondo Grassi è una
mitopoiesi spontanea, nasce come risposta da parte dei primi uomini allo stato
di necessità in cui si trovano e con essa assistiamo alla genesi del
linguaggio, del mito, della religione, del diritto e della storia. La questione
della Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma diversi umanisti che
si sono interessati alla questione della radura, del contesto originario
all’interno della disamina del valore della parola poetica. Se la questione
della Lichtung aperta da Heidegger rimanda al problema dell’individuazione e
dell’espressione del contesto primordiale e del fenomeno originario
dell’antropo-poiesi allora la suggestione grassiana circa la possibilità di
retrodatare la problematica della Lichtung all’epoca umanistica non sembra
tanto peregrina. Secondo Grassi con Vico abbiamo un distacco dalla metafisica
tradizionale razionalistica e la Scienza Nuova viene a costituire non una nuova
teoria della storia o una scienza antropologica tout court ma la scienza “del
disvelamento originario nel quale appare l’uomo”243. Chi volesse interpretare
G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano
2012, p. 795. 241 J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La
sematologia in Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242 E. Grassi, Vico e
l’umanesimo, cit., pp. 115-117. 243 Ibidem. ! 86! il pensiero del
napoletano come un’antropologia o una riflessione sulla storia sbaglierebbe
poiché “il problema di Vico è quello del campo in cui l’uomo appare”244. La
questione del contesto originario si declina in Vico come ricerca arcaica del
“disvelamento della foresta primordiale” che altro non è che il problema del
fondamento del mondo umano, identificato nei principi “universali ed eterni”
che soggiacciono al divenire della storia. Nel passo vichiano prima ricordato
il filosofo milanese individua numerosi punti di contatto con la teoria
heideggeriana della Lichtung: l’utilizzo del termine luce; la spaesatezza e l’angoscia
originaria dell’uomo primitivo; l’atto pratico di umanizzazione della natura.
In questo “atto di disboscamento” viene collocato il punto di origine
dell’umano e la fine del “divagamento ferino dentro la gran selva di questa
terra”245. Il passaggio dal ferino all’umano, la transizione dall’uomo
all’animale, mette in moto una potenza straordinaria che viene interiorizzata
dalle menti primitive – i bestioni – che in tal modo umanizzati si avviano
verso un percorso faticoso che va dalla barbarie agli ordini civili. Il
significato della luce vichiana è infatti innanzitutto civile, politico e
comunitario. Come sottolinea Carillo “il lucus diventa in Vico il primo locus,
il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario”246. Del
termine vichiano luce G. mette in rilievo soprattutto la valenza di
interruzione nella frequenza della selva. Come possiamo leggere in Vico, Marx e
Heidegger nel terrore che coglie l’uomo, nell’esperienza della sua alienazione
dalla natura, questi crea e fonda il primo luogo umano nella storicità, il
regno della fantasia e dell’ingegno”247. Nel bosco primordiale – in cui si fa
esperienza dell’alterità della natura – l’uomo crea il luogo della storicità.
Appare il tema del disvelamento e del disoccultamento come punto di partenza
per una Id., Vico, Marx e Heidegger, in Id., Vico e l’umanesimo, Vico, La
Scienza Nuova, cit., p. 793. 246 G. Carillo, Vico. Origine e genealogia
dell’ordine, Editoriale scientifica, 2000, p. 284. 247 E. Grassi, Vico, Marx e
Heidegger, pp. 173-191, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 181. !
87! ricerca dell’umanità delle origini che non ha solo il significato di
indagine archeologica-filologica ma il senso di una ricerca fenomenologica sui
presupposti del pensiero e sulla possibilità di uscire dalla metafisica. Il
nesso Vico-Heidegger tematizzato da Grassi pone in luce che il concetto
heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui gli esseri
appaiono “coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui appare
sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta (schiarita nel
bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e l’uomo nella sua
umanità, possono apparire”248. Proprio il riferimento al tema dell’apparire e
del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica dell’ipotesi interpretativa
grassiana: il tema della Lichtung non è altro che la metafora pretesto per dare
avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e dell’apparire della realtà. Al
problema del reale, dell’apparire e della manifestatività, su cui ci
soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il già citato Dell’apparire e
dell’essere in cui la manifestatività si costituisce non nella modalità della
pura apparenza negativa, ma come luogo in cui l’uomo è colpito dal reale, ne risulta
affetto, ne patisce la presenza non in una condizione di pura passività, bensì
nell’ambito della sua capacità di progettazione e umanizzazione. L’originario
pensiero vichiano del lucus diviene per Grassi un pensiero epocale poiché “la
tesi fondamentale di Vico è che la metafisica non deve partire né da principi
razionali né dal problema degli enti ma dalla parola che svela la storicità
umana”249. L’epocalità della sua filosofia risiede nel suo carattere
anti-razionalistico e fenomenologico. Il filosofo milanese afferma in VICO (si
veda) filosofo epocale che “la sua opera – quella di Vico – è una vera
fenomenologia, una descrizione di come a poco a poco appaia (phainesthai) il
reale umano”250. Pur non analizzando le numerose sfaccettature del termine
lucus in Vico – luce civile; senso teologico del termine; nesso lux-lucus
(luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 – G. si Ivi, p. 177. 249 Id.,
G. B. Vico filosofo epocale, pp. 193-211, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp.
194-195. 250 Ivi, p. 195. 251 Molto interessante risulta la ricostruzione
etimologica di Latium da litibula. Leggiamo in De Constantia philologiae “donde
il nome Latium (Latium unde dictum)? I Romani custodirono queste altre vestigia
di una siffatta antichità. Dai ! 88! sofferma sul senso
ontologico-trascendentale del termine vichiano coniugando in maniera originale
i temi heideggeriani e vichiani in una prospettiva che vuole essere l’occasione
per un ripensamento della filosofia che riconosce la propria matrice fantastica,
ingegnosa, mitica, poetica. Si tratta di un pensiero che passa “dalla
metafisica degli enti a quella dell’agire, della prassi umana”252: per Grassi
occorre partire dalla tematizzazione delle necessitates come fonti naturali dei
mondi umani. Egli definisce l’ingegno – che non esclude mai il processo
razionale – come teoria che “scopre ora e qui similitudini, connessioni, apre
la premessa per un processo razionale, che deduce dalla scoperta inventiva le
conseguenze e quindi costruisce un mondo”253. L’ingenium è allora l’originaria
capacità di vedere il simile ed è la prima risposta a quelle necessità naturali
alle quali l’uomo deve far fronte nel faticoso percorso di sopravvivenza e di
civilizzazione. L’ingegno può essere comparato per la sua struttura dinamica e
multifunzionale a quel processo che gli attuali studi sull’apprendimento celati
accoppiamenti degli eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli
(latibula) che offrivano i boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la
sua prima origine quella gente”, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere
giuridiche, introd. Di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze
1974, p. 524. Un’altra connessione degna di nota è quella tra il termine lucus
e l’occhio di Polifemo. Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo
che “abitavano in spelonche sulle montagne [...] avevano un occhio solo. Ciò fu
inventato da lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo
al fine di prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e
così è vero quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui
non c’è luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte
dove c’era la luce”, G. B. Vico, Dissertazioni, in Id., Opere giuridiche, cit.,
p. 830. Per ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del
termine vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia
dell’ordine, cit., p. 284 e sgg. L’autore sottolinea come in relazione al
termine lucus “la valenza privilegiata è quella di bosco sacro. Tuttavia in
Vico questa valenza presuppone un lungo percorso disseminato, al solito, di
suggestioni etimologizzanti. Esito di lucere, emettere luce, o di lucesco,
venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano è definibile come un’interruzione
nella frequenza della selva. Aprire un lucus equivale ad aprire una falla, uno
slargo, in un viluppo fittissimo che preclude la vista del cielo. É evidente il
senso teologico-civile di questo diradare la selva per poter contemplare, attraverso
uno spiraglio, il cielo onde interpretare i segni divini, ossia trarne gli
auspici. In questo modo il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo
sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario [...] nel De Costantia
philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto semantico
opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità [...] In quest’accezione in
cui la derivazione di lucus dalla luce si ottiene per antifrasi la sacertà del
bosco sacro deriva dal suo essere nascosto [...] di qui la possibilità di
ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi sacri ai primi
abitatori della regione [...] nelle Dissertationes il lucus si combina alla
descrizione dei Ciclopi omerici [...] l’occhio dei Ciclopi non è che la trasfigurazione
poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco diradandolo”. 252 Id., G. B.
Vico filosofo epocale, cit., p. 204. 253 Ivi, p. 203. ! 89!
definiscono come problem solving254: si parte da una condizione inizialmente
critica: il problema, la necessitas; si approntano strategie di risoluzione: la
risposta alle necessitates; si elabora un pensiero creativo che scalza la
rigidità degli schemi cognitivi classici e mette in moto la creatività:
fantasia/ingegno come facoltà intuitive e ricettive ma allo stesso tempo attive
e creative. L’ingegno – altrove inteso da Grassi nella sua identità con il nous
aristotelico255 – ha come suo primo prodotto il mito che, come vedremo
nell’ultimo capitolo, “costituisce di volta in volta la storicità delle varie epoche”256.
Il mito nel suo carattere sacrale e esemplare, come universale in funzione del
quale “si determina il particolare sotto l’urgenza che segna il tempo”257, non
è inteso solo come praxeos mimesis – racconto mitologico – ma come origine di
un ordine linguistico che non ha natura razionale: si tratta del linguaggio
fantastico che si condensa nella metafora. La struttura topica dell’ingenium,
vichianamente concepito come arte “d’inventare, di trovare, di invenire”258,
produce il mito e allo stesso tempo quella “locuzione poetica che nasce da
necessità di natura”. G. sostiene che “se la poesia come attività ingegnosa è
originaria forma per adeguare le necessità naturali scoprendo similitudini, è
essa che trasforma il reale”259. Emerge da questo passo la vis plastica del
logos che per G. non è astorico, razionale, ma sempre attento alle
circumstantiae storiche. Allora si comprende come tale logos include al suo
interno tutta una serie di elementi che non hanno mai trovato spazio
all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale: “suoni, segni, atteggiamenti indicativi,
semantici, anche il tacere, acquistano Per un’analisi del problem solving cfr.
il classico G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica. Logica ed
euristica nel metodo matematico, Feltrinelli, 1983. 255 Cfr., Significare
arcaico, cit. 256 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 199. 257 Ibidem.
258 Ivi, p. 203. 259 Ivi, p. 206. Il corsivo è nostro. ! 90!
significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che ci
riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come
nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la
storia”260. Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica;
mitico- politica; pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si
compie quella Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della
ingens sylva trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere
dalla Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività
all’attività insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario
– la Lichtung – spinge Grassi a definire tale apprensione del reale non nei
termini di una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli
“invii dell’essere”, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come “mediazione
specifica dell’umano dotata di scopo” – e fondazione etico- politica della
comunità sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica
– corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del
reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi
e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del
reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione
del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione
(Bildung), nelle risposte “umane, troppo umane” alle urgenze patite del reale e
di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non
viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta
il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera
esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx
si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si
chiede Grassi se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 197. 261 Cfr., S. Limongelli, Il problema dell’umano nella
filosofia di Ernesto Grassi, cit., pp. 278-281; G. Petrovic, Marx, lavoro e
abbandono. Lettera a Ernesto G., pp. 127-157, in AA. VV, Studi in memoria di
Ernesto Grassi, cit. ! 91! aprioristica scolastica – con la
conseguente attenzione alla giurisprudenza, alla grammatica e alla retorica –
possano essere in definitiva considerate valide e concrete o ricadano
dell’astrattismo medievale: “Tutti questi canoni, che gli umanisti oppongono
alla filosofia aprioristica della scolastica, soddisfano realmente la loro
pretesa di essere concreti? Qui è pertinente l’obiezione del marxismo. La
sorgente originaria del divenire umano si trova nella trasformazione
originaria, e perciò, nella umanizzazione della natura mediante il lavoro. La
giurisprudenza, il linguaggio, la retorica, sono concrete solo in quanto
manifestazioni della storia di classe [...] la storia del lavoro è la storia
dell’evoluzione dell’uomo”262. Grassi analizza dettagliatamente l’idea del
lavoro in Marx, esposta sia nel Capitale sia nei Manoscritti
economico-filosofici, sottolineando quattro aspetti importanti del lavoro: 1-)
il lavoro umano è distinto da quello degli animali poiché è espressione di una
volontà intenzionale e spezza la relazione di immediatezza che secondo Marx
l’animale ha rispetto al mondo circostante: “la sua relazione con ciò che
produce è immediata”263. Per Marx “l’animale fa immediatamente uno con la sua
attività vitale, non si distingue da essa, è essa stessa”264. 2-) La seconda
definizione del lavoro “consiste nel riconoscere che esso rappresenta il
superamento dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo del
lavoro è un passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò che
diviene realtà [...] il lavoro come processo di metabolismo significa
l’appropriazione della natura a favore dell’uomo” E. Grassi, Marxismo,
Umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pp. 69-94, in Vico e
l’umanesimo, cit., p. 83. 263 ivi p. 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori
Riuniti, Roma 1976, Vol. III, p. 303 265 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 84. ! 92! 3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito
come essere libero: “il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia
libero. Bisogna intendere la libertà [...] come la facoltà di trasformare la
natura in nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per l’uomo”266. 4-) Il
lavoro ha una funzione sociale. Secondo G. l’importanza del lavoro come fattore
di umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte dell’animalità è
rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli ambiti della
giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e in Vico, il
cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e della
fantasia. Per il filosofo italiano “il problema che ora sorge è: che cosa Vico
considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica due
fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia”267. Il
pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della
fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la
triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo “sperimenta la propria
libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale”268; attraverso la
fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e “procede a
costruirsi il proprio ordine, o un adattamento della natura”269 (infatti per il
filosofo la fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime
connessioni e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare
un significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di
concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della
filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge
una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci,
dall’altro Grassi sottolinea come una teoria del lavoro priva di una
teorizzazione antropologica e filosofica dell’umano ivi, p. 85 267 ivi, p. 86 268 ivi, p. 89 269
Ibidem. ! 93! sia concettualmente monca e praticamente
inutilizzabile. Afferma Grassi che “Marx considera il lavoro – come il
superamento dell’immediato impatto con la natura, come l’adattamento di essa –
l’origine della storia. Se però, tale adattamento nell’interesse dell’uomo
differisce da quello degli animali per il fatto che l’animale lavora solo per
il proprio nutrimento e la conservazione della specie, e in accordo con i suoi
modelli congeniti, allora il problema circa il significato dell’adattamento
della natura da parte dell’uomo non può essere risolto col dire semplicemente
che l’uomo è un essere che media e accomoda, né col riferimento alla sua
attività lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo scopo specifico di questa
mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di questo problema, ci troviamo
ridotti a dire che l’animale è un essere molto più alto dell’uomo”270. In
quest’ultimo passo Grassi esprime l’idea secondo la quale se è vero che il
lavoro è il primo atto di umanizzazione ciò è possibile nella misura in cui non
si riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il metabolismo della
natura, il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri come atto di
mediazione guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel concetto di
lavoro più che della prassi lavorativa occorre tenere conto del telos che la
sorregge: qui si inserisce il discrimine tra uomo e animale. Secondo il
filosofo il lavoro, inteso come adattamento della natura, è solo un mezzo in
vista di uno scopo, la realizzazione umana del mondo in cui la fantasia rivela
il suo ruolo fondativo rispetto al lavoro stesso: solo grazie alla facoltà di
visione delle somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare la natura
implementando ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso. L’intima
coappartenenze della componente tecnica (lavoro come fatica) e di quella
fondativa-civile (lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione
grassiana del labor tutta gravitante attorno al tema della produzione del mondo
storico sociale e dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium
e la sua phantasia “per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale
nel suo significato umano facendolo assurgere ad opera; solo in tal modo il
reale diventa storico, si umanizza quale opera dell’ingegno”271. Se, da un
lato, allora, il presentarsi della manifestatività rende affetto l’uomo, e,
colpendolo, ne rivela la componente di passività, il suo essere soggetto-a,
tale che l’uomo non può non patire, non può sottrarsi, dall’altro, l’uomo è
quell’ente capace di rispondere, di offrire una risposta attiva mediante il
lavoro. Per G. infatti ciò che ci circonda, l’oggettivo, la natura, l’essere
“appare solo nei limiti da noi progettati – e tuttavia – è altrettanto vero che
non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La
constatazione di questa oggettività [...] è la risposta che la natura dà entro
i nostri diastema”272. Entro i limiti della nostra progettazione, del nostro
lavoro, della nostra opera – che per Grassi non è un’operazione soggettivistica
e arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae di volta in volta mutevoli,
alle necessitates nelle quali è già da sempre immerso l’uomo – significa entro
i limiti dell’orizzonte della fantasia quale attività ordinatrice della materia
primordiale che per Grassi “ci impedisce di trovare una qualsiasi unità; essa è
materia della facoltà ordinatrice del pensiero”273. Il tema della
determinazione concreta del reale risulta strettamente intrecciata a quello del
lavoro umano nel suo significato ontologico trascendentale e a quello della
fantasia come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base della
visione delle somiglianze”274 e non come “attività che ci presenta qualcosa di
irreale”275, come “rappresentazione dell’irreale, come pura facoltà della
finzione, E. Grassi, Politica e religione. La riscoperta della tradizione
latina, pp. 33-43, in “Archivio di filosofia”, Padova 1978, p. 43. Le
riflessioni grassiane sul lavoro mostrano molti punti di contatto con la
distinzione arendtiana tra lavoro come ergon e come ponos presente in Vita
activa. 272 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, Discorso letto alla
seduta inaugurale del Congresso per il IV Centenario della fondazione
dell’Università di Lima, in “Archivio di filosofia”, 1952, p. 68. 273Id.,
Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 279. In relazione all’attività
ordinatrice della selva originaria Grassi in questo saggio parla di un’attività
fantastica in modo duplice: sia come facoltà sensibile – il significato
secondario – sia come attività del lasciar apparire – significato
ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e leghein. 274
Id., Potenza della fantasia, cit., p. 190. 275 Ivi, p. 276. ! 95!
come capacità di mostrare qualcosa di fantastico”276. In questo caso essa è una
ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa e combinatoria
delle immagini, senza avere come punto di riferimento il referente reale delle
immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La fantasia ontologicamente
intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro è capace di istituire il
mondo storico. Per Grassi “la trasformazione della natura, che l’uomo realizza
con lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce dunque dall’attività
fantastica ingegnosa”278 che, insieme al senso comune, si ritrova nella teoria
vichiana del lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del senso comune e
della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi che “il senso comune,
secondo la definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo ciò che gli è
utile e di cui ha bisogno”279 e prosegue chiedendosi “se e come l’ingegno e la
fantasia contribuiscano al senso comune e quale relazione esista fra di
loro”280 visto che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo umano e
dei suoi bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il lavoro,
catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole
ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. “Le fatiche di Ercole presuppongono
una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione,
cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del
successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come
la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come
un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della
natura, estranea al contesto generale delle funzioni umane” Ivi, p. 191. 277
Cfr., M. Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. 278 E. Grassi,
Potenza della fantasia, cit., p. 241. 279 La priorità del senso comune e della
fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato in Vico and
Contemporary Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in Vico e
l’umanesimo, cit., p. 51. 280 Ibidem. 281 Ivi, pp. 51-52. ! 96! Il
labor appare strutturato metaforicamente poiché è un atto di trasposizione di
significato al mondo circostante, la “funzione mediante cui i bisogni umani
vengono soddisfatti”282. La struttura metaforica operante all’interno del
linguaggio poetico secondo Grassi soggiace anche nel lavoro nel quale si
intrecciano il sensus communis – che non “consiste, quindi, in un modo di
pensare popolare o comune”283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione
storico- esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove
si presta attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della
situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione
del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro
attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: “è
possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte
della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza
filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?”285. Proprio
questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista
costituisce per Grassi la dimostrazione che “il problema concernente il
significato del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia”,
che in qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a
“semplice sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale”286.
Volendo trarre una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può
asserire che nella prospettiva onto- antropo-logica di G. assume un ruolo
centrale la relazione fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di
Vico e Marx. Vico, Marx e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger
qualche Ivi, p. 51. 283 Ivi, p. 52. 284
Parla di connotazione etica del lavoro in Grassi S. Limongelli in Il problema
dell’umano, cit., p. 277 e sgg. 285 Marxismo, umanesimo e problema della
fantasia nelle opere di Vico, pubblicato originariamente in Giambattista Vico’s
Science of Humanity, the John Hopkins University Press, Baltimore (Maryland)
1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 85. 286 Ivi, p. 93. ! 97!
anno dopo287 – concordano nella critica alla filosofia a priori e al pensiero
teoretico contemplativo: il problema vero della filosofia è quello “delle
origini del divenire umano e, conseguentemente, della sua realtà storica”288.
La critica all’impostazione metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia
per il filosofo non riesce a superare lo schema del pensiero tradizionale.
Leggiamo in Vico, Marx e Heidegger che “il rovesciamento della filosofia, che
Marx riteneva di aver compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo
schema del pensiero tradizionale [...], la sfera di un antropologismo”289. Pur
ritenendo fondamentale la teoria dell’alienazione – che “indica l’assenza di radici
dell’uomo occidentale”290 – per delineare una via di accesso autentica
all’umano Grassi – sulla scia di Heidegger –considera poco sostenibile
l’identificazione di umanità e socialità operata da Marx291. Tale
identificazione avrebbe come conseguenza la “riduzione del materialismo a
pensiero della tecnica”292. E sappiamo che Grassi accoglie la lezione
heideggeriana per la quale la tecnica è estrema propaggine della metafisica. Ma
occorre andare oltre la “barbarie della riflessione” e qui interviene Vico che
di volta in volta supera, secondo Grassi, i limiti delle prospettive toriche
degli autori – in questo caso Marx e Heidegger – in una sintesi filosofica che
coniuga giurisprudenza, poesia e retorica con le tematiche del lavoro e della
Lichtung. Asserisce il filosofo milanese che “il lavoro per Vico è un
adattamento dell’impatto diretto e immediato con la natura, un adattamento
mediante il quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli sceglie le figure di
Ercole e Cadmo come simboli di essa”Cfr., Id., Vico, Marx e Heidegger, apparso
in origine in Vico and Marx. Affinities and contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands (New
Jersey) 1983, ora in Vico e l’umanesimo, cit., pp. 173-191. 288 Id., Marxismo, umanesimo e problema della
fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 92. 289 Id., Vico, Marx e Heidegger,
cit., p. 190. 290 Ivi, p. 189. 291 Ivi, p. 190. 292 Ibidem. 293 Id., Marxismo,
umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. !
98! L’uso vichiano dell’universale fantastico294 di Ercole – vera e
propria tipologia poetico-simbolica utilizzata ai fini della comprensione delle
origini mitiche della storia dell’umanità –, o meglio degli Ercoli295, è
finalizzato alla rappresentazione della faticosa impresa umana della
costruzione della società il cui mito, narrato nella Scienza nuova, non appare
a Grassi come una concessione al gusto antiquario della ricostruzione erudita
dell’antichità ma come il simbolo “dell’assoggettamento della natura [...] che
porta all’autoaffermazione dell’uomo”296. Secondo Grassi “Vico costruisce la
sua teoria dei generi e degli universali fantastici non mediante l’astrazione,
ma creando, secondo i suoi termini, i ritratti ideali, i caratteri esemplari
[...] così il concetto fantastico cristallizza un essere attraverso un atto
dell’ingegno con una visione diretta di una totalità pittorica. Esso
rappresenta una figura contemporaneamente esemplare e allegorica”297. Tale
logica della fantasia fondata sui generi universali e fantastici assume il
ruolo di primo coordinamento delle idee che ha carattere arcaico, poiché è
fondante rispetto alla razionalità, e immediato, indicativo, semantico. Sullo
sfondo degli universali fantastici si staglia la figura di Ercole che ha non
solo il ruolo di carattere poetico ma quello di fondatore della comunità
storica dell’uomo. Come osserva lo studioso di Vico Giuseppe Cacciatore “il
ricorso vichiano al genere fantastico aiuta, dunque, a comprendere quella
costitutiva procedura del pensiero che riduce a generi e a caratteri la molteplicità
dispersa delle cose naturali”, Vico: narrazione storica e narrazione
fantastica, pp. 53-70, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 65. Recita la
Degnità XLIX “queste tre Degnità ne danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i
quali costituiscono l’essenza delle Favole: e la prima dimostra la
natural’inclinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro: la seconda
dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del Gener’umano, non essendo capaci
di formar’ i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di
fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o universali fantastici da
ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali tutte le spezie
particolari a ciascun suo genere simiglianti”, in Sn 44, in G. B. Vico, la
Scienza Nuova, cit., p. 872. 295 Vico, infatti, nella sua ricostruzione della
complessa trama della cronologia dela storia universale menziona gli Ercoli, i
Bacchi, i Sesostri quali prototipi dei fondatori delle città che hanno avuto
sempre un eroe nella loro genesi. Afferma Vico in SN ’44 che “questa stessa
Degnità con l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercoli
tralle Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si poterono fondare
senza religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’ lor’
incominciamenti selvagge, e chiuse”, Sn 44, ivi, p. 871, Degnità XLIII. Cfr.
sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili osservazioni di G. Cacciatore
esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di Vico, pp. 169-178, in Id., In
dialogo con Vico, cit. 296 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della
fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. 297 Id., La priorità del senso
comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, cit., p.
54. ! 99! Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola
attraverso il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano.
L’uccisione del leone nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella
quale l’uomo erra nel terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di
fondazione della civiltà. Lo stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura
afferma che “questa scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole
[...] il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi politici”298.
Attraverso la lettura del mito di Ercole Grassi rintraccia in Vico una prima
teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con l’ingegno, la
fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di Lichtung e con
l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si chiede il
pensatore: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una
nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera
decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo
umano”299. Quale importanza G. annetta al ruolo, al contempo storico e
filosofico-speculativo, che svolge, nel complesso del suo itinerario
onto-antropolo-logico, la questione dell’origine dei processi storici
dell’umanità è testimoniato dalla collocazione del tema della Lichtung – che
accomuna Vico e Hiedegger – accanto a quello del lavoro – che vede fianco a
fianco Vico e Marx. Sostiene il filosofo in Vico e l’umanesimo che “secondo
l’opinione di Vico, grazie alla radura aperta nella foresta originaria”,
attraverso il lavoro, “divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani,
ma anche la possibilità di computare il tempo”300. Si intrecciano
indissolubilmente le questioni del disvelamento/Lichtung – la vera “chiave
maestra” della lettura grassiana degli umanisti – quella del lavoro nel suo significato
esistenziale e quella delle strutture dell’esistenza umana. Nella prospettiva
del pensatore milanese è attraverso il lavoro, l’atto di umanizzazione della
natura – il disboscamento G. Vico, Sn 44, cit., p. 786. 299 E. Grassi, Potenza
della fantasia, cit., p. 251. 300 Ibidem. ! 100! della selva
primordiale – che si apre quello spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana
che ha “origini favolose” dicibili solo attraverso un linguaggio poetico. Come
è emerso dalle precedenti riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a
partire dal tema della Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo
piano è una densa concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e
della manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza
umana. Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui
concetti ora ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica
della metafisica immanente o ontologia situazionale grassiana e sul nesso
essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di
ricerca G. enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che
contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica
dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti
– e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di
critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in
Grassi è analizzata da due punti di vista: storico e teoret ico. Egli
afferma l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia
sul terreno speculativo sia su quello storico in un saggio su Jaeger Il
problema filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo Grassi “questa
essenza della natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire
concepita come qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo può avere il suo
fondamento [...] solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il vero umanesimo deve
essere oggi filosofia. Ciò vale non solo speculativamente, ma anche storicamente”E.
Grassi, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte,
Congedo Editore, Lecce, 1991, p. 30. 302 Id., Il problema filosofico del
ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., I primi scritti, cit., p.
258. ! 102! La ricerca grassiana si configura, da un lato, come
riflessione storica sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi degli umanisti
ha l’aspetto di una re-interpretazione filologico-speculativa di quel nucleo
essenziale – la Lichtung – venuto ad espressione consapevole con Heidegger.
L’attenzione accordata alla filologia, che per Grassi non si riduce a “una
mediazione delle opere antiche”303 ma è una “scienza sperimentale”, una
meditazione sull’essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema
della parola304, conduce verso una dilatazione del periodo storico
dell’umanesimo sia in direzione del passato sia in direzione delle epoche
successive. Entrano così a far parte della tradizione umanistica anche gli
autori della latinità quali Cicerone e Quintiliano; quelli barocchi come
Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi e, in ultimo, lo stesso Heidegger,
il quale ha concettualizzato in forma teoretica densa ed esplicita il tema
della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro lato, accanto alla lettura testuale,
affiora un’indagine teoretica sui temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività e sulle strutture d’essere dell’uomo. Proprio su questi aspetti
ci concentreremo maggiormente in questo capitolo prendendo in considerazione
due gruppi di saggi. La selezione di questi saggi – tutti risalenti al periodo
compreso tra gli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta – è stata guidata
dall’idea di una presenza nel filosofo di un’attenzione alle strutture
dell’esistenza umana, connesse alla questione di quella che potremmo definire
“ontologia Id., Il confronto con la
filosofia tedesca in Italia, in Id., I primi scritti, cit., pp. 871-886, p.
883. 304 Per G. occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero,
ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica,
che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione: “come è noto,
la tradizione filosofica italiana ha inizio proprio con l’umanesimo e il
rinascimento. Come ho già accennato altrove, il filosofare italiano non
comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il problema della
parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli
scritti antichi, il mondo antico [...] ricordo solo che il compito umanistico
della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano
estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto
con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di
una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione
si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il
significato delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto
dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...]
conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo,
così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più
crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”, ivi,
p. 881. Cfr., anche Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
p. 72: “Il processo interpretativo, prima di divenire il metodo delle moderne
scienze scienze naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito delle
scienze dello spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della
formazione non è tanto la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo
sviluppo della capacità interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi
tramandatici stabiliamo la relazione con la comunità umana del passato e soltanto
in questa e con questa relazione possiamo giungere al nostro proprium, in
quanto siamo esseri storici.] FENOMENOLOGIA SEMANTICA [cf. AUSTIN] di G., in
cui il tema dell’essere [GRICE, IZZING], identificato con quello della
manifestazione e delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello
SEMANTICO, come campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel
fondamentale saggio SIGNIFICARE ARCAICO in cui è condensato tutto il valore
della proposta retorica grassiana. Solo partendo dall’analisi del contenuto
tematico di questi contributi è possibile una più profonda comprensione delle
indagini grassiane sull’Umanesimo e sul Rinascimento storici su cui la
bibliografia si è concentrata maggiormente. Del gruppo comprendente Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger, Dell’apparire e dell’essere, Il
problema del logo, Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger,
L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza
dell’originario, Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, saranno
selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, i quali
mostrano la volontà grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non
presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar
modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la
complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. In questo tentativo
Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la
teoria heideggeriana della differenza ontologica,305 rielaborando tutto alla
luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito
estetico in generale non come esempio di gnoseologia inferior o teoria
dell’arte ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività dell’essere.
Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti saggi: Il tempo umano. L’umanesimo
contro la techne, L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, Apocalisse e storia,
L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, Assenza di mondo. In
quest’ultimo gruppo di articoli emergono alcuni concetti fondamentali che
trovano un’articolazione in una analitica Per una ricostruzione dettagliata
delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di G. cfr.,
Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra
filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica,
pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti] esistenziale
che mira a svelare le “strutture esistenziali del mondo del Da-sein”306. Le
osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul fondamento teorico
– l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla rivalutazione di Grassi
dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la riflessione grassiana sull’umanesimo
sullo sfondo ontologico e fenomenologico dei saggi giovanili dedicati ai
concetti di apparire, essere, manifestatività e delle idee connesse di
disancoramento, angoscia, coscienza temporale umanistica, oggettività,
dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto, Grassi mostra nella sua
disamina degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei confronti delle letture
storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso gravate dal pregiudizio
idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di una collocazione del tema
onto-antropo-logico sul terreno strettamente speculativo, teoretico. Nella
prospettiva del filosofo “il termine umanesimo è diventato più che mai
polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista storico, si parla di
un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di un umanesimo da un
punto di vista politico [...] sia dunque ben chiaro che ogni affermazione
umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico: si tratta dunque
di delimitare una concezione speculativa dell’uomo che prenda chiara posizione
di fronte ai differenti motivi speculativi nei quali si rispecchia la nostra
attuale coscienza filosofica. Che significato speculativo può oggi avere un
umanesimo?”307. Indagare questo significato speculativo dell’umano, al di là
della polisemia che inevitabilmente lo connota, per Grassi significa affrontare
il problema della reinterpretazione antitradizionale della filosofia umanistica
nella convinzione che la filosofia umanistica abbia costituito il fulcro e la
svolta del pensiero filosofico occidentale, la vera “rivoluzione
copernicana”308. Il compito di questo progetto neoumanistico che già dalla metà
degli anni Venti emerge – a partire dal saggio su Machiavelli analizzato in
precedenza – per rifluire nelle riflessioni filosofiche successive, si articola
come ricerca dell’unità di senso della realtà, come compito preliminare nel
processo di determinazione di una teoria dell’uomo che !E. Grassi, Potenza
della fantasia, cit., p. 243 e sgg.! 307 Id., Il tempo umano. L’umanesimo
contro la techne, cit., pp. 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 261, “Il rovesciamento
della filosofia, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con
Descartes né con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che
derivano dalla nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della
preminenza dell’immagine, possono essere discusse solo sulla base di
un’ulteriore ricerca sull’essenza della tradizione umanistica italiana”.
! 105! mantenga l’originaria integrità e unità delle sue strutture
fondamentali. Negli stessi anni in cui i maggiori esponenti dell’antropologia
filosofica del Novecento – Scheler309, Plessner310, Gehlen311 – Max Scheler in La posizione dell’uomo nel
cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca antropologica come scienza
fondamentale dell’essenza e delle strutture essenziali dell’uomo. Esplorare la
dimensione umana e la sua posizione nel cosmo comporta un confronto con le
dimensioni della spiritualità del conoscere, dell’amare, del volere. Per
Scheler l’indagine sull’uomo della nuova antropologia prende le mosse da ciò
che è esterno all’uomo per poi indagare e definire la sua essenza: “è compito
di un’antropologia filosofica mostrare esattamente in che modo scaturiscano
dalla struttura fondamentale dell’uomo, tutti i monopoli, le funzioni e le
opere specificamente umani: come la lingua, la coscienza morale, lo strumento,
l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo Stato, l’azione di guida, le
funzioni espressive delle arti, il mito, la religione, la scienza, la
storicità, la socialità”, M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura
di M. T. Pansera, Roma 1999, p. 186. Scheler analizza l’impulso affettivo
“privo di coscienza, di sensazione e rappresentazione” che è presente nelle
piante e nei gradi più bassi del mondo organico; l’istinto che è un
comportamento teleologico; la memoria associativa il cui fondamento è il
processo del riflesso condizionato, basato sul principio del successo e
dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in maniera spontanea
ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica caratterizzante la
facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante fondamentale tra
l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di spirito, il Geist che
rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da parte dell’uomo e lo
svincolarsi dal legame con quanto è organico: “la caratteristica principale di
un essere spirituale consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è
organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della
sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con
quanto è organico, dal legame con la vita [...] un essere spirituale non più
legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo.] Per
Plessner occorre partire dal concetto di vita che costituisce la “parola chiave
di un’intera epoca”, H. Plessner, I gradi dell’organico, a cura di V. Rasini,
Bollati Boringhieri, Torino. All’interno della impostazione plessneriana l’uomo
è contraddistinto dalla sua posizione eccentrica: l’eccentricità è la
disposizione dell’uomo rispetto al mondo nei confronti del quale si trova
de-situato. Plessner, a conclusione di I gradi dell’organico. Introduzione
all’antropologia filosofica, passa in rassegna tre leggi antropologiche
fondamentali: la legge dell’artificialità naturale secondo cui l’uomo non vive
in modo rassicurante nel suo ambiente immediato ma in modo artificiale,
costruendo a partire da una natura una cultura; la legge dell’immediatezza
mediata secondo cui l’uomo si appropria di ciò che gli è dato in precedenza in
modo immediato attraverso forme di mediazioni quali invenzioni, scoperte,
conoscenze; la legge del luogo utopico che afferma che l’uomo prende le
distanze dall’immediatezza e volge il suo sguardo verso un fondamento assoluto
del mondo che in sé non ha alcun fondamento. Egli afferma che “la sua forma
eccentrica spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni che possono essere
soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme
imprime loro il marchio della caducità.] Gehlen si pone sulla linea di ricerca
scheleriana elaborando una idea di uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il
suo posto nel mondo, partendo dai risultati multidisciplinari delle scienze
positive. L’antropologia “elementare” gehleniana, partendo dagli aspetti più
semplici che accomunano l’essere umano all’animale sottolinea allo stesso tempo
la specificità dell’umano che consiste paradossalmente nella sua
indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi sono contraddistinti da un
indice di specializzazione alto come testimoniato dallo sviluppo della
percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza che però stimola
latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono l’uomo
autodeterminabile proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di tutto
l’uomo è l’essere determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave per
poter comprendere un essere che agisce sulla natura per trasformarla al fine di
assicurare la sua sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per una
serie di caratteristiche: la “primitività” del suo corredo organico e
istintuale; la sua “incompiutezza”; la sua “non-specializzazione” organica. Già
Herder aveva tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava
all’uomo come ad un “essere biologicamente carente”, un “essere manchevole”, un
essere privo persino di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen “la “deficienza
organica” e le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò considerate alla
luce dell’idea cardine della “non-specializzazione”: [...] primitivo è = non
specializzato = originario, o in senso ontogenetico (embrionale) o in quello
filogenetico (arcaico). Per specializzazione è da intendersi la perdita della
pienezza delle possibilità esistenti in un organo non specializzato, a
vantaggio del grande sviluppo di alcune di queste possibilità a spese di altre,
cfr., A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis,
Milano 2010, pp. 127-128. Accettando il paradigma interpretativo della carenza
si pone il problema di coniugare questa non specializzazione umana con il suo
esser collocata all’interno di una catena biologica evolutiva. La dotazione
organica non specializzata dell’uomo e i suoi primitivismi rendono problematica
la sua esistenza che solo grazie all’azione e alla costitutiva apertura al
mondo continua e progredisce. Categoria fondamentale all’interno ! 106!
elaborano le note teorie sull’uomo, Grassi, forte della sua formazione
culturale a metà strada tra filosofia italiana, filosofia tedesca e francese,
sente l’esigenza di indicare l’insufficienza sia di un approccio scientifico
all’uomo sia i limiti di una impostazione speculativa classica mediata
soprattutto dalle letture heideggeriane di cui abbiamo già detto. Attraverso
l’analisi delle teorie degli esponenti dell’antropologia gehleniana è quella
dell’esonero Entlastung che indica la capacità umana di distaccarsi dagli oneri
del mondo esterno. L’esonero costituisce il primo atto per spezzare il cerchio
dell’immediatezza e per liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve
allontanarsi dalla pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una
distanza sempre maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt,
l’ambiente, in un mondo abitabile, la Welt. ! 107! della biologia
teoretica quali Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315,
Grassi cerca di porre in luce gli aspetti negativi che derivano dalla
confusione del “contributo delle scienze con quello della filosofia”316 .
Accogliendo la critica crociana alla perdita di autonomia del filosofo che [Driesch
è un biologo e filosofo tedesco. Egli lavora a NAPOLI presso la stazione
zoologica e successivamente insegnò a Heidelberg tra il 1909 e il 1920
Filosofia della natura, in seguito anche a Colonia e Lipsia. È convinto
assertore del vitalismo contro la teoria meccanicistica di matrice darwiniana.
Il suo pensiero è diretto verso la valorizzazione del finalismo della natura e
verso il riconoscimento dell’importanza dell’entelechia, concetto ripreso da
Aristotele, interpretata come principio immanente superindividuale. Tra le
opere più importanti ricordiamo Storia del vitalismo, Filosofia dell’organismo,
Corpo e anima, Il problema della libertà, Metafisica. Di Driesch G. mette in
luce il neo-vitalismo presente nelle osservazioni sulla vita organica e
l’importanza del concetto di entelechia esposto da Driesch in Philosophie des
Organischen. G., in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca
contemporanea, sostiene che “in molti ambienti la filosofia rimane concepita
sul fondamento delle scienze, cioè sintesi e classificazione di fatti, ed è
perciò stesso incapace di raggiungere in questa forma un reale valore
conoscitivo e metafisico. L’influenza di concezioni simili si scorge oggi in
tutta quella corrente speculativa della filosofia tedesca contemporanea che ha
vivo l’ideale empiristico di una scienza naturale elaborata in filosofia, filosofia
della natura, che in realtà non diventa che un prospetto empirico di scienze
naturali e di arbitrarie ipotesi naturalistiche. Appartengono a questa corrente
di idee Driesch, o zoologi come Plessner – che con osservazioni scientifiche e
biologiche tentano di raggiungere una costruzione metafisica nella sua
Philosophie des Organischen a mezzo dell’analisi dello sviluppo delle forme
dell’organismo e mettendo in luce con osservazioni biologiche l’originalità
della vita organica, egli giunge ad una concezione neovitalistica. Le sue
osservazioni biologiche, la sua teoria dei sistemi equipotenziali, assumono
un’importanza scientifica ed egli concluse che accanto ai fattori fisici e
chimici, per spiegare un organismo, è necessario ammettere un nuovo fattore,
che egli chiama entelechia”, in Id., I primi scritti, cit., pp. 165- 166. Cfr.,
anche Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit.,
pp. 299-332, in particolare il primo paragrafo dedicato a Driesch, pp. 299-305.
313 Di Plessner Grassi evidenzia i limiti strutturali che l’approccio
scientifico all’umano inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che “una
concezione di una filosofia fondata sulla scienza la troviamo anche in altri
pensatori come Plessner, scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore
di Die Einheit der Sinne. Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più
recentemente di un altro volume Die Stufen des Organischen un der Mensch.
Einleitung in die philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta
di fatti e le osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non
raggiungono una concezione speculativa. Una antropologia non diventa
speculazione e affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico
ai gradini della realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute
gerarchie del reale e risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come
atto dello spirito, ivi, p. 168. In questo passo emerge la convinzione
grassiana – di evidente ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle
coeve antropologie filosofiche che per diventare autentiche meditazioni
sull’uomo devono collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a
partire dall’idea di atto e non di dato. 314 Grassi richiama l’attenzione sul
concetto uexkülliano di cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue
teorie sia nel saggio Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger
(cit., p. 205) sia più diffusamente in La filosofia como obra humana, pp.
1573-1578 in Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad
Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; infine in Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 315 Cfr., Id., La
potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 67-69. Grassi
sottolinea la connessione istituita da Gehlen tra apertura di mondo e cultura.
316 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, In Id., I
primi scritti, cit., p. 204. ! 108! si è messo a servizio della
scienza espressa in Logica317 G. asserisce che la concezione bio- metafisica su
cui l’empirismo si basa “si traveste oggi assumendo nuove forme in veste anti-
positivistica”318. L’empirismo va messo da parte, così come gli altri modi di
accedere all’umano che la coeva filosofia tedesca aveva prodotto, poiché non
supera “gli schemi del procedere naturalistico”319 che si avviluppa in
“pseudo-concetti che sulle generalità scientifiche vorrebbero fondare
distinzioni filosofiche”320. Il riferimento polemico è alle correnti
neokantiane, allo storicismo diltheyano, alla fenomenologia husserliana321
incapaci di elevarsi a quella metafisica esistenziale che solo Heidegger ha
portato ad espressione. A questo punto appare indispensabile soffermarsi,
seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e Husserl, la cui conoscenza
costituisce una tappa importante per la comprensione dell’atteggiamento
speculativo grassiano. In Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger Grassi mette insieme storicismo, fenomenologia, metafisica
esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch “presenta
una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due pensatori,
l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio del XX
iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo”322. In che senso
si parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella metafisica
immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza l’attualismo323? B. Croce, Logica, Laterza, Bari 1920, p. 264:
“perché quando non si tratta d’altro che di classificare e di sistemare quei
risultati, lo scienziato sente a ragione di non aver bisogno del soccorso dei
filosofi”. 318!E. Grassi, Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger, cit., p. 205.! 319!Ibidem. 320 Ibidem. 321 Cfr. sulla critica a
neokantismo, storicismo e fenomenologia gli articoli di indole informativa
generale che seguono: Id., Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca
contemporanea, cit., e Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica
nella filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., 181-202.
322 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209.
Cfr., anche le pagine grassiane su Heidegger del saggio Was ist
Existentialismus?, pp. 75-124, in N. Abbagnano, Philosophie des menschlichen
Konflikts. Eine Einführung
in den Existentialismus, Rowohlt, Hamburg 1957, soprattutto pp. 91-97 e
106-114. 323 Già nel saggio del 1929 Sviluppo e
significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea
(in Id., Primi scritti, cit., pp. 181-202) Grassi, sviluppando in forma più
articolata le poche battute su Heidegger contenute in Empirismo e naturalismo
nella filosofia tedesca contemporanea (p. 174), afferma quell’identità di
problemi tra attualismo ! 109! La “meditazione diltheyana” di
Grassi si focalizza soprattutto sui concetti di Lebenzusammenhang, di
Weltanschauung e di psicologia324. Secondo il pensatore milanese Dilthey fu il
primo a intravedere il problema della realtà e della storia come problema della
realtà vivente, rivendicando l’importanza dei sui scritti speculativi e
tralasciando quella dei testi a carattere maggiormente storico325. In Empirismo
e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (1929) leggiamo che il
problema dal quale muove Dilthey, quello della distinzione tra
Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, di scarsa importanza in sé rileva
Grassi, va ricondotto alla più generale operazione teoretica di ricerca intorno
al fondamento spirituale delle scienze dello spirito individuato in “una
scienza di carattere psicologico. Gli elementi del mondo storico sono gli
individui, quindi lo studio di essi e la descrizione dei vari tipi di vita
spirituale diventa la base della comprensione storica [...] l’esame della
struttura della vita dello spirito cerca di conquistare nella molteplicità di
situazioni coesistenti la sua caratteristica unità”326. La psicologia
diltheyana per Grassi ha il merito di ricondurre ogni concreta realtà storica
alla concatenazione vitale dell’atto di coscienza in cui si realizza il
rapporto tra io e mondo. Tuttavia il e ontologia immanentistica heideggeriana
che in Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger del 1930 troverà
una articolazione teoretica più approfondita. Infatti, in Sviluppo e
significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea
leggiamo che “Heidegger realizzò una delle più importanti speculazioni
metafisiche immanentistiche ed una delle più rigorose critiche del tentativo di
Husserl. L’interpretazione e o sviluppo attualistico del pensiero
fenomenologico assume un significato storico e teoretico tutto particolare”, p.
198. 324 Per una analisi dettagliata di questi temi diltheyani rimando alle
osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e filosofia in Dilthey, 2 Voll.,
Guida, Napoli 1976; Id., Dilthey: connessione psichica e connessione storica,
pp. 211-223, in AA. VV, Una logica per la psicologia, Il Poligrafo, Padova
2003; Id., Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione
fondante di conoscere e fare, pp. 17-58, In Id., Storicismo problematico e
metodo critico, Guida, Napoli 1993; cfr., ivi anche Id., Spirito oggettivo e
oggettivazione della vita: Dilthey e Hegel, pp. 105-125; Id., La tipologia
delle visioni del mondo tra critica storica della ragione ed essenza della
filosofia, pp. 153-172; Id., Il fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e
Husserl, pp. 249-287; Id., Ortega y Gasset e Dilthey, pp. 289-318; Id., Vita e
storia tra Zubiri e Dilthey, pp. 177-187, in Id., Saggi di filosofia spagnola.
Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna 2013; Id., Dilthey tra universalismo e
relativismo, pp. 213-230, in Id., Dallo storicismo allo storicismo, ETS, Pisa
2015. 325 “Durante la sua vita i suoi sforzi teoretici passarono quasi
inosservati e anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per
alcuni anni completamente dimenticato come filosofo, mentre i suoi lavori
storici venivano molto apprezzati [...] i primi suoi lavori sono tra i più
notevoli della storia e della filosofia dei suoi tempi: l’acutezza delle
indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o di una personalità danno ai
suoi saggi grandissimo valore e molti lo considerano come il più grande “Geistesgeschichtsschreiber”
dopo Hegel [...] ma l’importanza e l’interesse che Dilthey desta in seno alla
filosofia tedesca – per cui dobbiamo fermarci in modo particolare sulla sua
figura – è dato non dai suoi lavori storici, ma dai suoi scritti di carattere
speculativo e polemico”, E. Grassi, Empirismo e naturalismo nella filosofia
tedesca contemporanea, cit., pp. 171-172. 326 Ivi, pp. 172-173. !
110! passaggio auspicato dal pensatore milanese da una “teoria dell’atto
di comprensione” ad una “metafisica immanente” rimane incompiuto nel filosofo
tedesco che “non giunse alla chiara coscienza che una volta riconosciuto il
tratto fondamentale del reale nell’atto completo di comprensione, se ne coglie
al tempo stesso il carattere assoluto che impedisce ogni relativismo”327. Così
per il filosofo italiano Dilthey ricade nell’astrattismo di una “tipologia che
prese il posto della filosofia”328, la quale riduce la fondamentale categoria
della Lebenzusammenhang a forme astratte, a classi e tipi e al relativismo329. Se
le riflessioni su Dilthey pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza
concreta e le strutture psicologiche che soggiacciono alla costruzione del
mondo storico umano, quelle su Husserl mettono in risalto il tentativo di
riconquistare il rigore alla filosofia – il progetto di una filosofia come
scienza rigorosa – un rigore metodologico, che invera “la psicologia fenomenale
di F. Brentano”330. In Linee della filosofia tedesca contemporanea Grassi
sostiene che “la meta di Husserl fu la conquista di un fondamento assoluto e
universale su cui costruire con sicurezza la ricerca filosofica [...] egli
scorse con chiarezza l’impossibilità di fondare la filosofia sulle scienze”331.
Una critica radicale in questo senso è costituita dalle Ricerche logiche che
tentano di “raggiungere il concetto della logica, della filosofia come scienza
a priori, libera da ogni empirismo”332. Per il filosofo milanese, Husserl
individua il fondamento del reale attraverso la riduzione fenomenologica, la
quale, sospendendo ogni Ivi, p. 174. 328
Ibidem. 329 Cfr. sulla critica grassiana al concetto di tipologia anche, E.
Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea (1933), pp. 299-332 in Id.,
I primi scritti, cit., soprattutto le pp. 307-311 e ivi Il problema del nulla
nella filosofia di M. Heidegger, cit., soprattutto pp. 420-421. 330 Cfr., Id.,
Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, pp. 181-202, in Id., I primi scritti, cit., p. 182. 331 Id.,
Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 313-314. 332
Ibidem. ! 111! giudizio di esistenza333 – epochè –, guadagna una
certezza indubitabile: “il mondo della coscienza pura coi suoi vari momenti e
significati [...]. Non c’è più il mondo dommaticamente affermato e poi la sua
rappresentazione, ma solo l’immediato essere del mondo come oggetto ideale
della nostra coscienza”334. Questo mondo trascendentale è il Vorurteil, il
quale condiziona ogni nostro giudizio di esistenza e rende possibile quella
scienza fenomenologica che coniuga la ricerca sulle proposizioni formali della
logica con i temi etici ed estetici. Il cuore della fenomenologia è colto da
Grassi nell’andare zu den Sachen selbst tramite la Wesenschauung. Infatti,
sempre in Linee della filosofia tedesca contemporanea, il filosofo sottolinea
come la fenomenologia non sia una metafisica ma “un metodo a mezzo del quale si
isolano degli elementi assoluti, trascendentali, coi quali ciascuno può e deve
costruirsi con rigore scientifico un concetto della realtà [...] le essenze logiche
non possono venirci dimostrate, ma possono solo mostrarsi per se stesse a mezzo
della loro evidenza, chiarezza e distinzione, immediatezza ultima. La
fenomenologia non vuole essere una costruzione, ma semplicemente un esame
intuitivo, uno “schauen” dei concetti [...] coglie così l’essenza delle cose e
pretende di andare direttamente zu den Sachen selbst”335. I concetti
husserliani su cui egli si sofferma maggiormente sono quelli di epochè,
riduzione fenomenologica, Vorurteil, evidenza336. L’analisi di questi temi, da
un lato, sottolinea l’importanza e la fecondità speculativa della fenomenologia
husserliana – poiché seppe con maggior forza contrapporsi all’empirismo e al
naturalismo rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma, dall’altro, G. riesce a cogliere in poche battute tutto
il senso della riflessione husserliana: “se noi ci manteniamo in un
fondamentale e metodico atteggiamento critico rispetto al reale e cerchiamo di
raggiungere un ultimo fondamento sul quale non sia più possibile esercitare il
nostro dubbio, (e che come tale costituisce la base sicura su cui poggiare ogni
altra affermazione o costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere
trascendentale, assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni
giudizio di esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di
molteplici significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così
o così nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso
come inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare
il nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio”, ibidem. 334 Ivi, p. 315.
335 Ivi, p. 316 336 Cfr., V. Costa- E. Franzini- P. Spinicci, La fenomenologia,
Einaudi, Torino 2002. 337 “La posizione di Husserl, come abbiamo visto, è
caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli
universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali,
storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112! getta
luce sui limiti intrinseci di ciò che Grassi definisce “positivismo
razionalistico”. La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce
il “dato empirico al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di
fatto dell’empirismo il dato del mondo razionale”338. Da qui la definizione di
positivismo razionalistico”339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti
della filosofia tedesca coeva secondo Grassi – non hanno declinato queste
ricerche in direzione di una metafisica dell’essere come “concreto sviluppo
storico, processo di autorealizzazione immanente”340. Questo inveramento si ha
con Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno
dell’orizzonte metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger Grassi afferma che nel lavoro del
pensatore di Messkirch “confluiscono così in un fecondo superamento gli sforzi
di Husserl e Dilthey: la medesima analisi del Dasein come fondamentale atto di
rapporto e il suo dettagliato sviluppo seguito piano per piano, attraverso le
varie forme di esistenza, non è che un riprendere il tentativo di Dilthey [...]
la ricerca del significato d’essere attraverso la concreta analisi del Dasein è
sufficiente a mostrare un nuovo orientamento della sua fenomenologia”341 che
non ha una componente intuizionistica – sia essa intesa come l’intuizione
eidetica husserliana o nel senso generale irrazionalistico e vitalistico –, ma
si pone come ricerca della concreta storicità dell’esistente: la fenomenologia
diviene Hermeneutik der Faktizität. Solo sulla base di un’analitica
dell’esistenza è possibile porre la questione ontologica e fenomenologica –
dove per fenomenologia dobbiamo intendere l’analisi di stampo hegeliano dei
vari momenti e sviluppi della realtà storica. Grassi afferma che il pensiero di
Heidegger assume una particolare rilevanza per quanto riguarda il problema
metafisico mostrando una certa affinità con i pensiero segnò un momento
fondamentale in seno alla filosofia tedesca contemporanea contrapponendosi con
maggiore chiarezza di Dilthey all’empirismo ed al naturalismo nelle sue più
varie forme”, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p.
323. Cfr., anche le pagine dedicate a Husserl in E. Grassi, Was ist
Existentialismus?, cit., soprattutto le pp. 80-91. 338!Id., Linee della
filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323.! 339 Ibidem. 340Id., Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 341 Ivi, p.
223. ! 113! temi dell’attualismo. Il filosofo italiano sostiene in
Il problema della metafisica immanente che “pur essendo nato da problemi e
posizioni speculative completamente lontane dalle premesse del pensiero
immanentistico italiano esso giunge a delle conclusioni che rivelano
un’aspirazione metafisica”342. Il significato e l’importanza di quella
originaria “attualità esistenziale – per cui l’essere si dà precedentemente a
qualsiasi riflessione – il suo superamento ed inveramento della logica astratta
nella logica concreta, e a sua volta la posizione che questa logica concreta ha
in seno ad una metafisica esistenziale” 343 ha un’importanza tutta particolare
per Grassi ed implica una serie di problemi decisivi: proprio in relazione alla
questione della metafisica esistenziale “comincia a delinearsi la precisa
posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano e all’attualismo
idealistico di Gentile”344. Sullo sfondo di quanto appena detto, possiamo
comprendere come nelle analisi grassiane degli anni Trenta siano molto vivi i
temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati a quelli
dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture esistenziali umane
che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia attualistica di
Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La coappartenenza di queste
problematiche mette in luce una triplice costituzione del pensiero grassiano:
ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di esporre nel corso della
trattazione, il pensiero di Grassi si configura come riflessione ontologica
perché si muove nell’orizzonte dell’essere e della ricerca del suo senso:
l’essere è inteso alla luce della differenza ontologica (concetto mutuato da
Heidegger) come manifestatività e allo stesso tempo trascendenza, per cui il
piano ontologico che si manifesta in quello ontico – l’ente come ciò che appare
nella sua differenza dall’essere – si sottrae all’orizzonte di pura luminosità
dell’apparire proprio nel suo differire. Attraverso la lezione heideggeriana G.
coniuga il problema Ivi, pp. 226-227.
343!Ibidem.! 344 Ibidem. ! 114! della trascendenza, così vivo nella
sua formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella fase
gentiliana della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui
immanenza e trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni
sulla Lichtung caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro
non è che la parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di
immanenza e trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il
problema dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di
intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo
afferma che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza
dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e
tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la
questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono
l’uomo e il suo mondo”345. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va
concepito come una forma più o meno larvata di antropologia tout court, è la
problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema del contesto
originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come
ricerca delle strutture del mondo umano. In questa ricerca grassiana, accanto
all’attenzione all’ambito ontologico, lasciatogli in eredità da Heidegger,
ritroviamo una centralità della dimensione ontica – le concrete Lichtungen –
che dal suo maestro degli “anni mitici” sembra essere stata accantonata a
favore di una concentrazione più sugli aspetti di oblio dell’essere della
filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere si dà in maniera
autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio dell’essere, in
Grassi riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia dell’evento
autentico dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui temi
umanistici. La riflessione di Grassi è poi antropologica perché attenta
all’orizzonte umano a partire dal quale si pone la domanda sul senso dell’essere:
l’universo linguistico e artistico del mondo umano in cui accade la verità
dell’essere. In Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che l’analisi
del Id., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 26. I corsivi sono nostri. ! 115! contesto
originario si declina innanzitutto come ricerca linguistica: “la cosa
sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi
problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel
pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica
tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del
linguaggio [...] il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale
del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada
l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res)
rivela il suo significato”346. Con l’umanesimo, secondo il filosofo, non ci si
interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero,
ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione
fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e
non una sua prigione. Grassi, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la
differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla
cosa ridotta ad ente – e per il pensatore occorre abbandonare l’idea di una
metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per
enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente
entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo,
al contrario, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa,
della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le
infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo
italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi
di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e
attraverso l’azione umana”347. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività
delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”348. Infatti, per il
pensatore milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto
tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il
senso classico dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in Grassi in
ricerca dell’unità di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La
delucidazione del nesso logos-on o, per usare i termini Ibidem. I corsivi sono nostri. 347 Id.,
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 80. 348
Ibidem. ! 116! grassiani, della correlazione di verbum e res,
induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica, della metafora, della
fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come l’ontologia grassiana sia
un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione
nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi, scorci, campi, forme
dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché il metapherein – la
trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della
realtà o, per usare un termine caro a G., del nostro atteggiamento verso il
reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice
rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere.
Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, ossia in Il
dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura
fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per
identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”349 in cui possiamo
cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del
significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni
indicativi”350 provenienti dal “colloquio con l’abissale che urge, che per
pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa
spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo
l’indeterminato”351. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una
momentanea radura (Lichtung)”352 che mette in campo una riforma della filosofia
non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca l’importanza
dell’esperienza storica”353. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo
di superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire la natura
temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre diversi
significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti,
per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di
un’indicazione, da qui 349 Id., Il
dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina
tipografica, Napoli 1992, p. 165. 350 Ivi, p. 14. 351 Ibidem. 352 Ibidem. I
corsivi sono nostri. 353 Ivi, p. 15. ! 117! la preminenza della
semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, su cui ci soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli
asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione
(hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle
dimostrazioni”354; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel
fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra
ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe
quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della
ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una
“chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”355, abbiamo il logos
ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della
dimostrazione. Ritornando al nesso metafora-concetto Grassi afferma che a
quest’ultimo “spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno
in riferimento al suo fondamento universale. Il significato di hòros può essere
colto nella sua portata originaria soltanto mediante il verbo orìzo (determino)
che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di
horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione
(horismòs) esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste:
in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il
singolo”356, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto
scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora,
non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”357, grazie
alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e
dunque sull’essenza dell’uomo”358, si affiancano nella filosofia grassiana la
fantasia e l’ingegno identificati con il nous aristotelico interpretato alla
stregua di “unica espressione delle archai nel loro 354Id., La potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 355 Ibidem. 356Id., Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 357Id.,
Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma 1966, pp. 479-495, p. 494.
358Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit.,
p. 202. ! 118! carattere palesante e immediatamente indicativo”359,
profondamente influenzate dall’analisi heideggeriana della Einbildungkraft
kantiana come “facoltà di darsi le vedute”360. Del resto, sebbene Grassi non
citi nella sua analisi più sistematica della fantasia, ossia nel testo La
potenza della fantasia, la teoria kantiana della Einbildungskraft, egli
conosceva benissimo la lettura offerta da Heidegger della facoltà di
immaginazione kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e il problema della
metafisica definito in uno dei primi saggi come il lavoro che più “sembra atto
ad introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la sua
terminologia”361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria
kantiana da parte di Grassi sia dovuto a un’interpretazione del kantismo
sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui Grassi si sofferma a più
riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra
i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante,
intellettualistica ed astratta, Grassi riconosce l’importanza di Cassirer che
“ha [...] il merito di essere il più importante storico della filosofia che
questa scuola abbia dato”.363 Oltre al tema linguistico, nell’analisi del mondo
umano, emergono i concetti di disancoramento e angoscia, dalla temporalità cairologica
come struttura di temporalizzazione fondamentale dell’esserci in cui i tre
momenti del tempo si co-appartengono e rendono possibile il raggiungimento del
secondo livello di oggettività: quello della coscienza temporale umanistica
(l’oggettività di primo livello è quella della physis in quanto diastema), in
cui gioca un ruolo fondamentale la decisione come espressione della storicità
del mondo umano e della sua formazione (Bildung), che in questo modo 359Id., Significare arcaico, cit., p. 494.
360 Cfr., M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-
Bari, 2004. 361 Cfr., E. G., Heidegger e il problema della metafisica immanente
di M. Heidegger, cit., p. 209. 362 Cfr., le riflessioni sul “ritorno a Kant”
contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea,
cit., soprattutto pp. 164-165; Id., Linee della filosofia tedesca
contemporanea, cit., pp. 301-302. 363 Ivi, p. 165. ! 119! acquista
un carattere esistenziale. Infatti “esistere significa sopportare la
problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo, senza
evitare la decisione richiesta”364. Sul terreno ontologico dinamico in cui il
discorso sull’essere è imprescindibile da un discorso sulle forme dell’apparire
dell’essere – fenomenologia – e sul suo senso nell’orizzonte umano di esistenza
– semantica – si comprende la critica grassiana alla struttura soggettocentrica
e logicista della filosofia. Per il filosofo “si manifesta sempre la preminenza
dell’urgere della passionalità, in quanto continuamente affiora nell’ambito
della contraddizione logica dell’esperienza che l’essere non si rivela mai
completamente nel divenire degli istanti. È in questo divenire del metaforico
traslarsi del reale che viene passionalmente vissuta la contraddittorietà della
logica astratta. Questo ritmo arcaico del palesarsi e dell’occultarsi non cessa
mai, è esso che ordina – nei limiti di storiche, differenti radure – che
appaiono in istanti – i tumulti che incombono”365. Solo attraverso
un’esperienza originaria della filosofia secondo il pensatore – esperienza
preclusa alla logica astratta che è solo un determinato atteggiamento
filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura per difenderci dal “vento
del tempo che distrugge la stessa temporalità”366. La filosofia di Grassi
tuttavia non va interpretata come una forma illogica di irrazionalismo. Anzi
ciò che, a nostro avviso, va sottolineato è il valore logico della sua ricerca
che tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos,
ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte
unitario del reale e della sua esperienza. Sorretta da una simile struttura
onto-antropo-logica, la ricerca grassiana mira a sondare “la legittimità di
tutti quegli pseudo-umanesimi che credono di poter dedurre secondo i canoni
delle scienze naturali la realtà dell’uomo”.367 La messa in discussione
dell’impostazione scientifico- naturale del problema dell’uomo avviene
attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e oggettività, angoscia
e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a quelli di logos,
pathos 364Id., Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. 365Id., Il dramma della metafora,
cit., p. 15. I corsivi sono nostri. 366 Ibidem. 367 Id., Heidegger e il
problema della metafisica, cit., p. 203. ! 120! e manifestatività.
Nelle analisi che seguono, cercheremo di ridurre ai suoi nodi teoretici
essenziali il tragitto onto-antropo-logico del pensiero grassiano. III. II.
Essere, apparire e manifestatività tra logos e pathos. La fallacia dell’accusa
di dualismo Secondo Grassi è possibile fare esperienza dell’essere non solo
attraverso il linguaggio razionale ma soprattutto tramite la contraddizione. In
La preminenza della parola metaforica egli riprende il tema già affrontato in
Heidegger e il problema dell’umanesimo e analizza il problema dell’essere come
fenomeno linguistico e espressione della contraddizione originaria che
caratterizza il mondo. Egli sostiene che “l’ambito dell’Essere – in funzione
del quale parliamo – non è quello della razionalità nel quale vige il principio
di identità ed esclusione della contraddittorietà: il suo ambito è quello della
contraddizione [...] siamo dunque obbligati a riconoscere che l’Essere preme,
si impone, urge originariamente in un linguaggio non logico”368. Il campo in
cui esperiamo l’essere come evento della contraddizione, ossia come evento
della differenza ontologica, non è quello di una logica che espelle la
contraddizione, ma quello di un logos che include anche il pathos. Occorre
soffermarci su quest’ultimo tema e farlo interagire con quello del logos per
mostrare la complessità di questi due concetti che non attestano un presunto
dualismo369 nel filosofo o una kehre370 tra un “primo Grassi”, dominato dalla
questione del logos in pieno clima
368Id., La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister
Eckhart, Novalis, Mucchi, Modena, p. 18. 369 Mi riferisco alla posizione di
Massimo Marassi del quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero
di Grassi e dal quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto
dualismo. Egli afferma in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine che “ancora
nei primi scritti la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica,
costituiva una forma particolare di ordinamento della realtà che manteneva una
dignità peculiare. È invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza
quasi ossessiva sulla preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo,
Grassi non tiene fede al tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In
effetti egli avrebbe dovuto ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo
capace di elidere le difficoltà del dualismo. Invece è semplicemente passato
dalla preminenza della concettualità a quella del pathos, invertendo il segno
del dualismo, ma restandone prigioniero”, M. Marassi, Ernesto Grassi e
l’esperienza del fine, cit., p. 10. 370 Cfr. la posizione di Limongelli secondo
la quale il pensiero di Grassi va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o
ontologia dell’agire storico situativo. Pur accettando parte della
ricostruzione del cammino di pensiero di G. – soprattutto le sezioni che
mettono in rilievo la presenza di Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la
tesi secondo cui in Grassi è riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in
riferimento a Vom Vorrang des Logos che “tale scritto del Grassi ! 121!
attualistico, e un “secondo Grassi”, sensibile alla tematica
linguistico-retorica. Secondo la nostra analisi, che coniuga la disamina
storica delle opere grassiane con l’indagine teoretica sul tema onto-
antropo-logico, nel pensatore milanese il filo conduttore della ricerca si
identifica con l’analisi del mondo umano in tutte le sue manifestazioni. In
questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta a scienza concettuale, ma
vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e impegno mondano, si
caratterizza come indagine fenomenologica sul “come” il reale e l’essere ci
appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa ricerca più che il
dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di riproporre quei
dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità alla riflessione
novecentesca come problemi ineludibili: teoria e prassi, natura e spirito,
ragione e passione, immagine e concetto. Nella prospettiva grassiana “se si
parte dal dualismo di immagine e concetto, è impossibile trovare
successivamente un ponte tra i due [...] ora si tratta di riconoscere una
radice comune dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale – una
radice che fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo”371. La questione
grassiana di delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza
dell’originario, del fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di
un’unità complessa che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle
morse della definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di
coloro che leggono il pensiero di Grassi come un passaggio da una preminenza
del logos a una del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del
dualismo. La “questione uomo”, intrecciandosi strettamente con quella
dell’essere, non può che collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le
forme dell’apparire dell’uomo e del mondo sono indagate in una sostanziale
unità, quella del reale372. L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla
caratterizzazione rappresenta non solo
il punto di svolta nel suo pensiero, ma al tempo stesso si presenta come il
manifesto teoretico del suo progetto filosofico futuro”, S. Limongelli, Il
problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., p. 95. 371 E.
Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit.,
p. 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto unitario e non dualistico Rita
Messori in Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel
pensiero di Ernesto Grassi, cit. Afferma la studiosa che Grassi lega “pensiero
e passione ! 122! complessa di logos e pathos in Grassi. Ma prima
di trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul tema dell’essere e
della manifestatività seguendo le tappe del discorso grassiano al fine di
mostrare come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a quella del logos e
del pathos, siano da rintracciare i motivi di una inconsistenza del presunto
dualismo grassiano. III. III. Essere e apparire Secondo l’interpretazione di
Grassi l’essere si converte con l’apparire, con la manifestatività, e non va
identificato, come accade nella prospettiva oggettivistica, con un dato.
L’essere si dà solo e unicamente come processo della manifestazione e per gradi
di evidenza e forme distinte. La necessità di riformulare la questione
dell’essere è avvertita dal pensatore a partire dagli anni di confronto con
Gentile, al quale Grassi fa riferimento già nel saggio La dialettica dell’amore
(1924) in cui traspare una posizione anti-immanentista che poco dopo sarà
soppiantata dall’accoglimento della filosofia di Gentile coniugata
all’esistenzialismo heideggeriano. La dialettica dell’amore insieme al saggio
Il tragico, dell’anno precedente, pongono in luce, da un lato, la centralità
dei temi esistenziali del dolore e del tragico come contrassegni dell’esistenza
umana373 – centralità rifluita nei testi degli ultimi anni come La metafora
inaudita e Il dramma della con un duplice nodo: ciò che fa essere il pensiero è
una fondazione di tipo estetico; ciò che fa essere l’estetico è il suo fondarsi
nel logos. Tra logos e pathos vi è dunque un rapporto di reciproca
appartenenza”, ivi, p. 66. 373 In questo saggio Grassi si autodefinisce ancora
come oppositore dell’immanentismo (E. Grassi, La dialettica dell’amore, pp.
89-128, in Id., I primi scritti, cit, p. 120) e tale opposizione viene
collocata dal pensatore milanese proprio sul terreno esistenziale. La questione
del dolore in questo periodo ancora anti-immanentista gioca allora un ruolo
importante. Essa attesta da un lato l’attenzione verso la dimensione concreta
dell’esistenza che in Grassi emerge già in questi anni attraverso le letture di
autori quali Unamuno, Ibsen, Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo
confronto con l’immanentismo avvertito ancora come distante dal proprio
orizzonte speculativo. Afferma Grassi in La dialettica dell’amore: “Il dolore
assurge a un’importanza senza pari, è esso l’anima di tutto il divenire della
Realtà in quanto ci permette questo essere una personalità, ossia coscienti e
coscienza, che è l’essenza della nostra umanità in quanto in ciò si innesta la
possibilità della libertà [...]ora al moderno pensiero immanentista che afferma
la realtà, considerata come processo di coscienza, risolve ogni antinomia ed
irrazionalità, noi dobbiamo chiedere che esso risolva anche il problema del
dolore”, ivi, pp. 118-119. Il dolore si pone come nota distintiva
dell’orizzonte umano e come limite per ogni filosofia immanentista attestando
una trascendenza che ci sovrasta e che non può essere risolta
nell’autocoscienza come forma pura e sintesi delle opposizioni. !
123! metafora – tanto che G. giunge ad affermare che “il dolore è in
realtà l’anima di tutta la dialettica del Reale”374. Dall’altro, sottolineano
il legame ancora profondo di Grassi con il concetto di trascendenza, che andrà
dapprima sfumandosi con il saggio del 1924 su Machiavelli per poi essere
completamente sostituito nei contributi successivi dall’emergere della questione
dell’immanenza. Il mutamento di prospettiva consumatosi in questo periodo –
caratterizzato dalla presenza delle idee di Chiocchetti, da un avvicinamento a
Croce, da un primo confronto con l’attualismo, che in questa fase appare, in
modo evidente, incapace di risolvere quelle questioni esistenziali già
ricordate e di garantire uno spazio di operatività del trascendente – è
evidente se raffrontiamo due passi grassiani scritti a distanza di pochi anni
l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica dell’amore che “se la realtà nella
sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è
tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite
perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e
il limite, rimanendo esso l’unico illimitato”375. In polemica con l’idea di
un’autocoscienza come pura forma (interpretata dal filosofo come la più grande
scoperta di tutta la filosofia d’immanenza di Giovanni Gentile) Grassi
asserisce poco dopo che “in ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare
a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi
stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da
controbattere, che esso proprio costituisce lo sbocco e l’affermazione alla
quale tutto il pensiero moderno [...] doveva per interna necessità logica
giungere, posta la sua premessa”376. Qui il pensatore si pone in opposizione
all’attualismo gentiliano, all’immanentismo e alla riduzione della realtà alla
forma pura dell’autocoscienza, sottolineando i limiti di una teoria che risolva
il dato empirico-individuale, come quello del dolore e del tragico, nella
trasparenza del pensiero che dissolve ogni contraddizione. Nel novembre del
1928, appena quattro anni dopo le affermazioni appena ricordate, egli asserisce
in una lettera inviata all’amico Enrico Castelli Gattinara 374Ivi, p. 118.
375!Ivi, pp. 120.121.! 376 Ibidem. ! 124! di Zubiena che la sua
posizione speculativa va senz’altro ricondotta nell’alveo dell’attualismo
italiano gentiliano coniugato all’ontologia di Heidegger, pur riconoscendo il
punto di partenza cattolico della propria formazione filosofica. Scrive Grassi
all’amico: “Durante le mie peregrinazioni germaniche nell’anno scorso ho
trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti pensatori contemporanei [...]
il mio filosofare è partito e parte da un desiderio di ripensare il pensiero
cattolico, ma siccome in campo filosofico non valgono le intenzioni ma solo la
conquista realizzata, non posso dare quello che oggi non ho ancora [...] la mia
posizione attuale è il riconoscimento storico dell’attualismo come la forma più
coerente e matura del pensiero moderno. Attraverso lo studio dei classici spero
di giungere a nuovi orizzonti. Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla
filosofia tedesca è animato da quel riconoscimento dell’attualismo italiano e
concretamente dall’ontologia immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la
mia posizione”377. Abbiamo posto l’attenzione su questi due passi per far
emergere un aspetto di non secondaria importanza per una comprensione della
questione onto-antropo-logica in Grassi. Durante gli anni della formazione
giovanile la questione ontologica è contraddistinta dalla compresenza della
componente della trascendenza, della realtà del dolore e del tragico,
dell’ontologia heideggeriana e dell’attualismo gentiliano in cui la questione
dell’essere, della Realtà, dell’apparire nella molteplicità delle forme
distinte si intreccia con la dimensione umana, troppo umana dell’esistenza,
tutta votata all’interpretazione del mondo circostante, all’elaborazione di
categorie ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del Da-Sein. Si tratta
degli anni in cui il periodo di studio presso Husserl e Heidegger dà i suoi
frutti: il problema grassiano della coniugazione di immanenza e trascendenza si
incontra con quello fenomenologico (declinato in senso heideggeriano) nel
tentativo di guadagnare un concetto di a-priori non gravato dal teoreticismo.
Sebbene Grassi non si autodefinisca mai come fenomenologo, secondo la nostra
interpretazione dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono non solo le
esplicitate fonti heideggeriane Cfr., l’epistolario raccolto da M. Simonetta in
Un inquieto scolaro di Gentile: Ernesto G., pp. 287-299, in “Idee”, 28/29,
Lecce 1995, pp. 292-293. ! 125! e gentiliane, ma anche la questione
fenomenologica husserliana letta attraverso la versione eretica heideggeriana
378 Di “eresia heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica” parla
Vincenzo Costa in La fenomenologia, cit., in cui si afferma che “la storia del
movimento fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a
creare tra Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo”, ivi,
p. 264. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di
tempo (1925) Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i
concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl
non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità,
nella dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di Messkirch sente, infatti,
l’esigenza di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli
vede come “lacunosa”. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e
non “una teoria della relazione tra psichico e fisico”, M. Heidegger,
Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 5-B, P. 44. Il concetto di
intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il
contenuto intenzionale. Tale nozione non indica una relazione intenzionale tra
un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto
che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato.
Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma
non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di
questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in
cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che l’intenzionalità
indica una relazione della coscienza con qualcosa; la coscienza è sempre un
dirigersi verso... su questo punto Heidegger e il suo maestro Husserl
concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo dalle Idee che
per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia dalla riduzione,
la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come possiamo leggere al §
33: “Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il nostro cogitare, viene
posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere? [...] la coscienza in se
stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato nella sua propria
assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito. Essa quindi rimane
come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere per principio
peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova scienza – della
fenomenologia”, E. Husserl, Idee, § 33, PP. 74-76. Da questo passo emerge con
chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta la sua
intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi,
un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività
costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del
mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, “la coscienza,
l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni
altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è
l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in
relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa”, M. Heidegger, Prolegomeni
alla storia del concetto di tempo, cit., § 11 C, P. 131. Heidegger tenta di
riguadagnare il terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta
all’epochè husserliana e cioè attraverso l’analisi del mondo come dimensione
originaria di ogni possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile
rapporto. Il mondo non è un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in
luce proprio questo. La seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è l’intuizione
categoriale, interpretata da Heidegger come il radicarsi dell’intenzionalità
nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la categoria come dato, come
oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6 dei Prolegomeni che “la
scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in primo luogo, che c’è un
semplice coglimento del categoriale, di quelle entità nell’ente che si
delineano tradizionalmente come categorie [...] in secondo luogo è soprattutto
la prova che questo cogliere è investito nella percezione quotidiana in ogni
esperienza”, ivi, p. 61. L’intuizione categoriale è presente, cioè, in ogni
percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è sufficiente a mostrare in che
modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto “l’ente percepito si mostra sempre
soltanto in un determinato adombramento”, p. 62. La percezione non è mai
adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale si dà solo parzialmente. In
altri termini, l’intuizione categoriale permette di gettare luce sul dato,
attraverso la categoria, in un atto unico che ci permette di identificare un
oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono all’ente di apparire nella sua
identità oggettuale, esso si presenta come oggetto unicamente tramite
un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione categoriale. É possibile
istituire un parallelo tra il senso dell’intuizione categoriale di cui si parla
nei Prolegomeni e quello dell’intuizione pura affrontata in Kant e il problema
della metafisica se si pensa al fatto che l’intuizione categoriale, come quella
pura, consentono quel darsi dell’oggetto che secondo Heidegger è reso possibile
dalla sintesi a-priori dell’immaginazione e che ritroveremo in Grassi nei
termini di fantasia e ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza
scoperta fondamentale della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto
all’impostazione classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto “la
fenomenologia – avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato
alla soggettività”, ivi, pp. 92-93, ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo
qualcosa di “immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto”,
ibidem, e nemmeno qualcosa di “trascendente, che inerisce specificamente alla
realtà”, ibidem. In quanto tale, l’a-priori “diventa esibibile in se stesso in
una semplice intuizione”, ibidem. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori,
ossia l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in
luce come il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè
l’oggetto, ma la relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in
quella Lichtung che è il mondo. Sarebbe un’operazione forzata includere in seno
alla “galassia fenomenologica”, sia pure nella sua variante eterodossa, anche
G. Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al di là degli esiti e dei metodi di
ricerca certamente differenti, una comunanza di tematiche e di interessi di
innegabile evidenza: i temi della manifestatività, delle forme e dei gradi
dell’apparire, dell’immanenza e dell’evidenza, della critica all’obiettivismo.
Infatti, è in questo periodo fecondo che si impone il ripensamento del tema
della manifestatività nella sua identità con la questione ontologica. In Il
problema del logo si afferma che la ricerca della manifestatività si identifica
con la questione dell’essere: “L’originario vero non può venire inteso come la
svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a
sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso. Se
il processo di distinzione non fosse il primo, non sarebbe possibile passare
dal non manifesto a ciò che è manifesto [...] il processo deve quindi essere
inteso come un auto-manifestarsi. É importante notare che la nostra ricerca
dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra
manifestazione ed essere”379. In questo passo si profila un’idea di essere come
processo e automanifestazione lontana dall’ontologia oggettivistica che riduce
l’essere al dato. Comprendere l’essere è possibile soltanto se lo si identifica
con il processo di manifestazione. L’originario, il fondamento a cui
l’antropogenesi è indissolubilmente correlata, si presenta non come dato ma
come processo, atto della manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica
che Grassi fa partire da una messa in discussione del concetto oggettivistico
dell’essere in quanto dato inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca
del vero della prospettiva empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al
dato, allora questa concezione sottintende un’aporia che Grassi prontamente
mette in evidenza: “l’empirismo rinvia all’immediata presenza quando deve
legittimare la propria verità. Soltanto dobbiamo domandarci se il “fatto” come
tale, ci porga veramente l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata
presenza non fosse racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si
richiama, sarebbe proprio per esso irraggiungibile” E. Grassi, Il problema del
logo, in Id., I primi Scritti, cit., p. 376. 380 Ivi, p. 374. !
127! La contraddittorietà del dato in qualità di immediata presenza
mostra come l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in questo
caso sarebbe qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando ciò che è
diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il
manifestarsi, ciò che “sta essendo”. L’immediata presenza a cui l’empirismo si
richiama non può essere un fatto o un dato ma il divenire, il manifestarsi
poiché “il presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di un fatto, di
qualcosa che è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto presente,
nel senso naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé, perché
vorrebbe affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente presente
[...] l’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza
della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è
cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi”381.
Dalle tesi grassiane sull’essere emerge la presenza di una teoria metafisica
immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità concreta, che coglie
l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che patica. Abbiamo visto che
l’essere per Grassi non è più un dato empirico o un concetto trascendente, ma è
fondato nell’esistente come attualità, autorealizzazione originaria e
trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e l’ora dell’autorealizzazione del
Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità. L’essere indica per Grassi “ciò
che sta essendo”, quindi un divenire, un processo che dice della dynamis insita
nell’essere. Si tratta, quindi, di un’ontologia dinamica e non statica, che
comporta anche una riforma del sapere, del linguaggio e del metodo. Pertanto
afferma G. che “il metodo per il conseguimento del sapere non può più essere
razionale, fondante, in quanto esso può essere determinato soltanto sul
fondamento della risposta alla domanda su come e attraverso cosa viene
originariamente esperito. Un tale pensiero non può più essere formale, perché
si tratta di questo, di rispondere all’appello dell’essere che ci riguarda,
cioè si tratta della domanda in quale non-nascondimento (Unverborgenheit), in
quale schiarita (Klärung) – (le luci, le radure (Lichtungen) nel bosco di cui
parla G. B. Vico) – l’ente – al quale l’uomo appartiene – appare certamente”
Ivi, p. 375. 382 Id., Il colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città
del Sole, Napoli 2002, p. 81. ! 128! III. IV. Metodo statico e
metodo aporetico Al metodo statico della tradizione filosofica tradizionale, quello
che per Grassi mira alla definizione del concetto che dice della cosa
unicamente il suo essere ente e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo
contrappone una via di ricerca, un metodo aporetico, che pone in luce come la
verità non sia la verità di un oggetto, sia esso empiristico o razionalistico,
ma quella di un processo. Su questo aspetto Grassi si sofferma soprattutto in
Il problema della metafisica platonica del 1932. Le “meditazioni platoniche”
grassiane sono dominate dai temi della verità, dell’essere, della
manifestatività e della pluralità delle forme, che qui trovano una prima
esplicazione sistematica correlata anche alla questione dell’umanesimo. Il tema
di Il problema della metafisica platonica è individuato da Grassi nell’ambito
della problematizzazione del concetto di forma. Il tema dell’eidos è
coestensivo a quello della ricerca del ti esti e si viene configurando secondo
il filosofo milanese come risposta da parte di Platone all’oggettivismo
sofistico. La ricerca sulla forma è in generale la ricerca dei modi della
manifestazione del reale come modi di determinabilità383. Scritto nel 1931, il
testo è pubblicato grazie a Benedetto Croce nel 1932 presso l’editore Laterza
ed è dedicato a Heidegger, il filosofo al quale Grassi si sentirà legato per
tutta la sua esistenza e che insieme a Gentile ha maggiormente influenzato il
suo pensiero. In questo testo Grassi analizza il dialogo platonico Menone in
polemica con le interpretazioni tradizionali che guardano a Platone come il
rappresentante di un astratto razionalismo. Egli si chiede se sia legittima una
interpretazione oggettivistico- razionalistica del pensiero platonico o se,
invece, non si debbano gettare le basi per un discorso su Platone partendo
dalla teoria della reminiscenza ed enucleando il significato teoretico del
dialogo. Il filosofo sostiene che lo scopo di Il problema della metafisica
platonica “è di porre solo in discussione il problema della legittimità della
tradizionale interpretazione della metafisica platonica. Ricorre veramente
Platone a un oggettivismo razionalistico – che egli contrappone a quello
empiristico della sofistica – per fondare quella conoscenza oggettiva e certa,
quella metafisica, la cui possibilità negavano i sofisti? Non è forse lecito
avere alcun dubbio riguardo Id., l problema della metafisica platonica,
Laterza, Roma-Bari 1932, p. 60. ! 129! all’affermazione che egli
come filosofo, ha cercato di superare l’obiezione sofistica [...] fondando una
teoria del sapere come reminiscenza?”384. Il pensatore sottolinea l’attenzione
di Socrate verso l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva
dell’ipotesi eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò
che non si conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si saprebbe
cosa cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la tesi
platonica attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive Grassi che “se
il processo di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al di là del
processo di ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo verità, ciò
che si manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è anzi
quell’atto medesimo”387. La verità non è al di là del percorso di ricerca, ma
si identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema del
vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come
entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al
contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare
in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del
vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non
in ciò che è esterno a noi. “Se il determinarsi della realtà si realizza nel
logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in
questo caso nel dialogo la Ivi, p. 8.
385 “SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale ed è rinata più volte, e ha visto
tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle dell’Ade, non c’è nulla che non abbia
appreso. Perciò non deve meravigliare che essa, sia sulla virtù sia sulle altre
cose, possa ricordare ciò che conosceva già prima. Dal momento che tutta quanta
la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla
impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano
appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di
qualcuno coraggioso e che non desista dal ricercare. Infatti ricercare e
apprendere sono in generale reminiscenza”, Platone, Menone, a cura di F.
Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, pp. 201-203. 386 “MEN. Ma in quale modo
cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale delle cose che
non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in cui ti
imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella che non
conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai
richiamando l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile
ricercare né ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe
ciò che conosce – perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca – ,
e neppure cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà
cercare”, ivi, 80 d 5- e 7, pp. 193-195. 387 E. Grassi, Il problema della
metafisica platonica, cit., p. 116. ! 130! contesa, !"*-,
diventa ed è essenzialmente ricerca”388. Vorremmo sottolineare – a sostegno
della nostra ipotesi interpretativa che nega una svolta retorica-patica di un
“secondo Grassi” rispetto ad un “primo Grassi” dominato dal problema del logos
– che già in questo testo del 1932 la problematica retorica appare centrale
come discussione intorno al valore del dia-logo come metodo di ricerca della
verità in opposizione all’arte eristica e sofistica come “forme spurie di
retorica”389. Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto platonico
esposto nel Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa nella
ricerca390, come possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico, nel quale l’essenza di ànthropos,
fatta derivare dall’etimologia del termine, riposa proprio nello sforzo
interpretativo, nella fatica costante del pensare la realtà, il mondo
oggettivo. In tale sforzo, in tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza
del neoumanesimo grassiano: “Se con atteggiamento umanistico si intende un
ritorno alle radici della nostra umanità, e se questa non sta in una realtà
storica esteriore ma in noi, allora quel ritorno non può essere fecondo che
portando alla luce la nostra umanità nell’atto filosofico educato allo sforzo
interpretativo”391. Ritornando al tema della funzione del dialogo e della sua
capacità di aprire l’ambito dell’oggettività e della determinazione possiamo
rilevare come in G. “la determinatezza dell’oggetto da cui parte una domanda,
non è solo il fondamento della sua oggettività, ma anche il fondamento
dell’oggettività di un dialogo, e quel ti esti è l’unica base di una ricerca
comune Ivi, p. 87. 389 Ibidem. 390
“Questo nome, ànthropos, significa che, mentre gli altri animali sulle cose che
vedono non indagano nulla, non congetturano e non anathrèi (osservano
attentamente), l’ànthropos nel momento stesso che vede – e cioè òpope (ha
visto) – anathrèi e ragiona su ciò che òpope. Di qui perciò all’uomo, unico fra
gli animali, è stato dato correttamente nome ànthropos, in quanto anathròn hà
òpope (osserva attentamente ciò che ha visto)”, Platone, Cratilo, 399 c, tr.
it. a cura di F. Aronadio, Laterza, Roma- Bari 1996, p. 43. 391 E. Grassi, Il
problema filosofico del ritorno al pensiero antico, “Rivista di filosofia”,
Milano XXVIII, aprile-giugno 1932, n. 2, pp. 136-154 ora in Id., I primi
scritti, cit., p. 271. Corsivo nostro. ! 131! positiva”392. La
determinatezza della cosa si fonda allora non nella cosa stessa, ma nella
nostra ricerca che ha origine nell’atto aporetico con il quale ha inizio il
ricercare. “L’aporia come ricerca (.,/,μ&)”393 ha fatto emergere la
co-appartenenza dell’aporia con il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il
pensatore milanese il punto di partenza della ricerca è la situazione di dubbio
in cui si trova colui che ricerca e afferma che “se la determinazione si dà
attraverso l’attualità aporetica [...] questa attualità aporetica, è il
fondamento delle determinazioni”394. L’attualità aporetica, il dubbio, è il
fondamento reale della manifestazione, dell’essere ed è l’essenza di ogni
possibilità di discriminazione e comprensione395: qui risiede il valore
metafisico-esistenziale delle teorie platoniche, le quali non vanno
interpretate alla luce di un dualismo che fa capo alla dottrina dei due mondi
ma come metafisica della finitezza396. Viene in primo piano in questo testo
anche la centralità del tema del dialogo che, per Grassi, non gioca solo il
ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili, ma va a costituire la
struttura e l’architettura del pensiero platonico che è intrinsecamente
aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua essenza
autentica: il filosofare “è nella sua essenza approfondire, essere capaci di
domandare sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una
)!%*&, una fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà”397. La fatica
del ricercare non ha solo una connotazione psicologica ma è l’“elemento caratteristico
e veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo” Id., Il problema
della metafisica platonica, cit., p. 21. 393 Ivi, p. 86. 394!Ivi, p. 71.! 395
Ibidem. 396 “In funzione del chiedere si dà l’essere, la sua manifestazione e
in quanto il chiedere è sempre determinato, quest’essere che appare è sempre
finito, e l’affermazione metafisica che a suo riguardo si può fare, è
l’affermazione metafisica di un essere finito. Con questa finitezza dell’essere
non s’intende di fare né un’affermazione scettica o relativistica, né
un’affermazione che limiti la filosofia. In quanto l’essere – così come esso di
dà – è sempre finito, la metafisica è nella sua essenza, metafisica del
finito”, ivi, p. 72. 397 Ibidem. 398 Ivi, p. 74. ! 132! La fecondità
teoretica dell’aporia platonica nell’iter di pensiero grassiano va di pari
passo con la sua costante critica alla concezione oggettivistica della
filosofia che caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i
contributi che, a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta,
sono improntati alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei
cardini dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In
un testo tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a
carattere seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a
diversi settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la
pluralità delle forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare
riveste per G.. I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare all’atto
linguistico in modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il filosofo è
mosso dal convincimento che occorre distinguere il dialogo dal colloquio, al
fine di ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a monologo
scientifico: “se alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un monologo,
emerge la questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio. Quali sono
l’essenza e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il dialogo dal
colloquio perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene condotto come un
monologo, mentre un colloquio presuppone una situazione storica come punto di
partenza e come misura”400. Il concetto di situazione acquista per il filosofo
un significato prioritario poiché rappresenta la forma originaria in cui l’uomo
agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il dialogo-colloquio e la
situazione mette in luce il valore metafisico del dia-leghestai come
de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso. Si tratta di un
evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung linguistica,
esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di accedere alla
verità, ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della parola e del
domandare. È l’atto del domandare l’atto di nascita del filosofare, del tendere
continuo al sapere nell’esercizio vivo della domanda. Cfr., R. Messori,
L’affettività del colloquio, pp. in E. Grassi, Il colloquio come evento, cit.,
e V. Mathieu, I temi di Grassi nei “Colloqui Zurighesi”, in AA. VV, Studi in
memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 305-314 e H. Schmale, Lo spirito dei
colloqui di Zurigo, ibidem, pp. 315-323. 400 E. Grassi, Il colloquio come
evento, cit., p. 61. Corsivo nostro. ! 133! L’unico metodo per il
filosofare nasce dall’aporia, dall’assenza di certezze e nella insistenza nel
ricercare da parte del dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e
il dinamismo intrinseco della realtà e dell’essere nello spazio interumano di costruzione
del senso. Il senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge
proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire
dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza:
questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di
portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non
sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a
partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma
originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica.”401
L’importanza della tesi di libera docenza del 1932 è emersa in tutti i suoi
aspetti teoretici fondamentali facendo venire in superficie temi centrali in
tutto il cammino di pensiero di Grassi. In questo testo l’essenza della verità
è ricondotta alla struttura del dialogo. Grassi tenta quell’accordo tra
apofansis e poiesis, tra manifestazione e creazione, tra enunciazione della
verità e la condizione che la rende possibile, tra verità e significatività
attraverso l’analisi della questione metodica da cui risulta un’idea di verità
extra-metodica: nel vero siamo già da sempre immersi poiché il vero è il
processo stesso della ricerca. La fecondità teoretica dell’aporia, che non è
una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica percorribile, consente a Grassi
anche di pensare all’idea di un rinnovamento linguistico che può esserci solo
se si riconosce l’origine metaforica del linguaggio. La volontà di sottolineare
l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa
emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo,
parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su
metafora e retorica, come vedremo nell’ultimo capitolo, è guidata proprio da
questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale
del linguaggio. In Il problema della metafisica platonica il tema della
determinazione del ti esti, Ivi, p.
71. ! 134! incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-,
della manifestazione della realtà, pone anche il tema della verità e del
sapere. Se il vero non è mai un dato, ma è raggiunto nel processo di ricerca,
il sapere ad esso adeguato non sarà un sapere concettuale che fossilizza e
rende statico ogni elemento della ricerca, ma un sapere noetico che, per
Grassi, è arcaico e indicativo. Qui risiede il valore semantico dell’ontologia
fenomenologica di Grassi che gravita intorno al concetto di nous, sinonimo di
ingegno e di fantasia. Il nous ha l’aspetto di una “intelligenza senziente” o
di una sensazione intelligente per dirla con Zubiri, il quale, insieme a Grassi
e Ortega, è uno degli allievi “latini” di Heidegger, come ricorda Grassi in La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale402. L’essere si presenta
originariamente non nella forma di essenza concettuale ma come atto, in
un’attualità che sta prima di ogni riflessione teoretica. L’essere come oggetto
di ulteriori atti di riflessione è, infatti, dipendente dall’attualità del
Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La determinazione ante-predicativa
è resa possibile solo perché l’essere in qualche modo ci è già manifesto prima
di ogni possibile rapporto di predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è
da intendersi come il logos originario che dice non il factum – l’essere
ridotto al datum – ma il fieri – il processo di manifestazione. In questo
discorso si inserisce anche il tema del nulla. La funzione metafisica di nulla
e angoscia G., in Il problema del logo, sostiene che “se la svelatezza
dell’essere si chiude in un processo, allora esso [...] deve contenere in sé il
nulla e l’essere, giacché ogni processo, ed anzitutto quello metafisico,
realizza sempre un passaggio dal nulla all’essere. Ne deriva che a loro volta i
concetti del nulla e dell’essere determinano il nostro concetto di
processo”403. L’importanza della questione del nulla come co-fattore, insieme
all’essere, nella Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 31. 403 Id., Il problema del
logo, cit., p. 377. ! 135! determinazione del divenire è centrale
nella definizione di un’idea di logos capace di dire il processo di
manifestazione. Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la
manifestazione va intesa come uno scindersi e distinguersi di sé, “come deve
essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i
vari termini con cui traduciamo 0!#!*%, logo”404. La centralità del logos,
quale modalità in cui l’essere accade in quanto processo, potrebbe essere
confusa con un’ennesima concessione alla logica tradizionale. Tuttavia Grassi
distingue un significato inautentico di logos da uno autentico come modalità di
svelamento dell’essere. “Il logo come oggetto della logica tradizionale è il
logo in quanto pensato, oggettivato. Il logo non viene da essa studiato come un
atto concreto, come un auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di
giudizio [...] in quanto il manifestare logico, come verità di giudizio, si
fonda in una verità più originaria, sorge la necessità e la legittimità di
distinguere due differenti concetti del manifestare: la verità del giudizio
(come verità logica nel senso tradizionale) e la svelatezza originaria degli
enti”405. É precisamente in questa direzione che il filosofo conduce la propria
ricerca, collimante con la filosofia italiana a lui coeva e il pensiero
heideggeriano, con l’intento di guadagnare un concetto di logica al di fuori
dell’orizzonte obiettivante che riduce l’essere al dato, all’ob-jectum senza
riguardo verso il processo di manifestazione, verso quel divenire che è
passaggio dall’essere al nulla. Un logos adeguato all’espressione del divenire
è un logos che riesce a pensare il nulla senza oggettivarlo, quindi senza
cadere in contraddizione. La tradizione filosofica pensa il logos come 0$#$-
/*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a cui il logos è adaequatio. Il problema
è quello di guadagnare un “nuovo significato di logo, libero da ogni dialettica
formale”406 che riesca a relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e
di esperienza. Si chiede Grassi: “in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere?
L’Essere sorge dal nulla? Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza
contraddizione che il Nulla sia?”407.
Ibidem. 405 Ivi, p. 378. 406 Ivi, p. 379. 407 Ivi, p. 380. !
136! L’importanza del nihil all’interno dell’indagine ontologica è
direttamente conseguente all’assimilazione del processo di manifestazione
all’auto-distinzione, dove lo svelamento contiene in sé già l’essere e il
nulla, la possibilità di mostrarsi ed occultarsi, come quella dell’errore e
della verità. Ora se la logica tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione
scientifica del nulla per i motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo
in cui il nulla si manifesta. Una simile ricerca consente anche di porre la
questione dell’essere al di fuori del circuito oggettivistico – sia esso
empiristico o razionalistico – e secondo Grassi in questo tentativo di
ripensamento di una via di accesso al nulla giunge in aiuto la proposta
heideggeriana della priorità della Stimmung dell’angoscia/ansia408, che viene
ad incontrarsi con quella attualistica del logo come atto. Si chiede Grassi:
“esiste dunque il nulla, e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che
ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?”409. Sorge il tema della
funzione metafisica dell’angoscia che sollecita un approfondimento del rapporto
tra angoscia, logos e manifestatività, ossia della correlazione problematica e
non dualistica di logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un
dato, un oggetto trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al
suo interno anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo
urgere per Grassi si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo:
“il nulla sorge [...] esclusivamente nell’esistente come il vanificarsi
dell’esistente medesimo nella sua totalità. Questo vanificarsi della realtà
nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta
l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere
di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità
e possibilità di determinazione”410. Il nulla come vanificarsi dell’esistente
appare nel sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta nella sua
assoluta alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia è il
fenomeno I termini angoscia e ansia sono usati indistintamente da Grassi,
tuttavia egli usa il termine ansia in riferimento all’Angst heideggeriana solo
nel saggio del 1929 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger,
cit., p. 220, in Id., I primi scritti, cit., pp. 203-228. Nei saggi successivi
il termine ansia viene sostituito da angoscia. 409 Ivi, p. 385. 410 Id., Il
problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., pp. 328-329. !
137! stesso del fondamento, è la modalità in cui il processo di
manifestazione dell’essere nella sua differenza accade: “l’angoscia quindi in
cui il nulla si mostra come il vanificarsi della totalità dell’esistente, è la
fonte della possibilità di pensare [...] è allora proprio che l’esistente si
manifesta e può diventare oggetto di domanda nella sua totalità”411. Il nulla
che appare nell’angoscia nella sua convertibilità con l’essere, e che connota
l’intero atto di manifestazione e auto-distinzione dell’originario, è la
condizione trascendentale del logos. Il logos è il modo umano del darsi della
co-estensione e coappartenenza di essere e nulla. Quest’ultimo non va quindi
inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo valore di annientamento
dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso il nulla l’essere appare
come realizzazione delle pure possibilità umane e quindi come compito, sforzo e
atto, concetti, questi, davvero fondamentali nella filosofia di Grassi che
mostrano, da un lato, la presenza di una componente etica del sui pensiero nel
senso generale di ethos come “orientamento della vita al telos”, dall’altro il
radicamento di tale orientamento nella struttura temporale della coscienza
umanistica, che, come vedremo, è caratterizzata da una componente cairologica
che fa convergere tutta l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno”, e
quindi verso la scelta, la decisione. In G. più che agire una temporalità
contrassegnata dall’eschaton di heideggeriana memoria è presente l’attenzione
verso il kairòs, il “tempo opportuno” che va a strutturare la nostra relazione
con il mondo circostante. Come abbiamo tentato di dire in queste pagine il
reale, l’essere, il suo apparire si manifestano nel perimetro antropico in
molteplici modi, tutti interrelati, in cui una delle molteplici forme
dell’apparire non può essere dedotta da un a priori logico. A giudizio del
filosofo alla logica del pensato non può spettare l’ultima parola sulla vita e
un’intelligenza ante-predicativa, pre-teoretica del reale è possibile solo se
si getta luce su un’esperienza originaria del reale, dell’essere, di cui la
logica è solo una forma di apparire derivata e secondaria. Come si relazionano
il logos e il pathos in questo orizzonte di ricerca? Ivi, p. 329. ! 138! III. VI.
Logos et pathos convertuntur Grassi distingue un doppio significato per
entrambi i concetti: uno autentico e uno inautentico. Da una parte abbiamo il
logos inautentico, quello della logica astratta, del razionalismo deduttivistico,
dell’a priorismo gnoseologico e il pathos inautentico, quello ridotto a
fenomeno psicologico e privato, a esperienza chiusa nella singolarità.
Dall’altra ci sono il logos autentico proprio del pensiero pensante e concreto,
che sperimenta la manifestatività dell’essere nell’autodistinzione, e il pathos
autentico che va inteso in senso metafisico. L’angoscia costituisce appunto
questo pathos autentico. Per Grassi il pathos è sempre già connotato
ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente
sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della
Lichtung e dell’evento della differenza ontologica: secondo il filosofo nel
pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”412. Esso è “passione
abissale”413 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo
sottrarsi: il pathos metafisico indica il nostro lasciarci afferrare dalla
realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di
sottrarci al suo appello. Nell’esperienza patica l’uomo si trova di fronte al
proprio disancoramento e alla propria angoscia in cui “questo vanificarsi della
realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta
l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere
di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità
e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra
come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di
pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità
di trascendere l’esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di
domanda”414. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità
allo stesso tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e creazioni,
per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo
di orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di
assenza di mondo, su cui ci soffermeremo a breve, sono il regno
dell’Aperto Id., La metafora inaudita,
cit., p. 92. 413 Ivi, p. 40. 414 Id., Il problema del nulla nella filosofia di
M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329. ! 139! in cui
è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Il filosofo
asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella
apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli
oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più
aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un
mondo, e comincia la sensazione del precipizio”415. A caratterizzare
maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non
psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha
anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a
riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone
perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa
apparire il significato di ogni ente”416. Essa consente di prendere coscienza
dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come
schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica: in questo
contesto ontologico si installa la visione antropologica di Grassi.
L’esperienza dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo corrispondere
rende possibile la costruzione del secondo livello di oggettività, quella
dell’umano. Il corrispondentismo, che permea quell’ambito gnoseologico messo da
parte dal filosofo, viene recuperato sul piano ontologico: l’adeguazione
dell’oggettività dell’essere, dell’originario, il nostro corrispondere
all’evento va di pari passo con l’antropogenesi. Solo grazie a ciò l’uomo
diventa uomo e l’Umwelt diviene Welt attraverso le pratiche di umanizzazione
della natura. A parere del filosofo “noi ci troviamo di fronte al compito di un
ordinamento solo perché circondati e sommersi in un mare di fenomeni nei quali
dobbiamo riconoscere di non saperci orientare: esperimentiamo l’angoscia
primordiale dell’assenza di mondo. Questa esperienza della negatività, della
mancanza di mondo è il primo ed originario aspetto della necessità della
trascendenza, in funzione alla quale solo incontriamo un materiale per la
formazione del nostro mondo”417. Sulla base di quanto detto è emersa una
prospettiva che lega indissolubilmente la tematica dell’essere e quella del
nulla alla Stimmung dell’angoscia generando una rinnovata idea di logos. Se Id., Assenza di mondo, cit., p. 226. 416 Id.,
Il dramma della metafora, cit., p. 131. 417 Id., Mito e arte, cit., p. 147. I
corsivi sono nostri. ! 140! il reale è processo di manifestazione,
divenire e passaggio dall’essere al nulla, allora il logos capace di dire
questo processo, questo apparire, questa manifestatività autodistinta, non può
essere il logos logico inteso in senso tradizionale. Occorre ripensare il logos
al di là dei cardini di un riduzionismo logico, tenendo conto della
co-originarietà delle forme del manifestarsi del reale. La funzione del logos
in Grassi ha destato non pochi problemi per gli interpreti, come abbiamo visto.
Se nei saggi giovanili come Il problema del logo del 1936 il logos è
considerato nella sua preminenza rispetto alla Stimmung, nei saggi successivi
come Il reale come passione e L’inizio del pensiero moderno abbiamo un
capovolgimento di questa posizione soprattutto sulla scorta dell’analisi del
dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che possono aver suscitato l’idea di
dualismo. In Il problema del logo il filosofo afferma che “la Stimmung, il
sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il
sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del
legein”418. Da questo passo pare emergere la riconduzione della questione del
patico all’interno dell’orizzonte logico: il pathos viene visto quale modalità
del logos. Qualche anno dopo G. sembra cadere in contraddizione affermando
l’esatto opposto di quanto asserito in Il problema del logo. In L’inizio del
pensiero moderno si sostiene che “nel dubbio qualcosa è per noi originariamente
non indifferente [...] in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene
riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del
termine [...] qui si mostra appunto il carattere patetico e passionale del
pensiero”419. La difficoltà per l’interprete sorge allorché si tenta una
conciliazione delle tesi appena citate e apparentemente contrapposte: una vede
nel pathos una modalità del logos, un’altra rintraccia nel logos un carattere
passionale. È possibile uscire dall’impasse? È nel pathos o nel logos che
facciamo esperienza dell’originario? La complessità di una loro possibile
connessione viene esplicitata e avvertita dallo stesso Grassi che già in Il
problema del logo si chiede: “possiamo dire che il logo sia Id., Il problema del logo, in Id., I Primi
scritti, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 419 Id., L’inizio del pensiero moderno,
in Id., I primi scritti, cit., p. 824. I corsivi sono nostri. !
141! effettivamente il Primo, la Ragione e il fondamento di ogni
manifestazione, oppure presuppone esso un momento pre-logico? Questo è il
problema contro il quale urtiamo definitivamente”420. Infatti egli interpreta
il logos come legein, cioè come atto del portare a manifestazione sia l’essere
che il nulla. Solo sulla base di questa manifestatività originaria, di questa
svelatezza originaria degli enti (aletheia ) si può porre il tema della verità
logica tradizionalmente intesa come connessione di soggetto e predicato. Il
pensatore riconosce nella svelatezza originaria l’essenza della propria ricerca
filosofica ed è mosso dal convincimento che ogni vero logico, il vero del
giudizio che si esprime sull’on, sia già sempre radicato in un vero più
originario: quello appunto della svelatezza o manifestatività. Per Grassi “la
logica tradizionale vorrebbe essere proprio una logica dell’identico in senso
oggettivistico, in quanto l’essenza del logo non sta nel legein – cioè nel processo
di distinzione (e così nel divenire, nell’essere e non essere) – bensì
nell’identità dell’oggetto razionale od empirico. Ma questa identità non viene
affatto raggiunta, né può venir dimostrata. Se quindi questo originario legein
va concepito come un manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come
logica del pensare, va contrapposta alla logica del pensato, allora non
dobbiamo concepire questa logica come una logica della non identità, bensì come
una logica che raggiunge un nuovo ed approfondito concetto dell’identità”421.
La questione di primaria importanza non è concepire il logos, l’atto di
intellezione, come totalmente altro dal pathos, il sentire. É appunto questa
l’accusa che Grassi rivolge a gran parte della filosofia occidentale: la considerazione
di logos e pathos, di intellezione e sentire, come atti di due facoltà, decreta
inevitabilmente la superiorità dell’intelligenza rispetto al sentire, che per
quanto sia il primo modo di apprendere il reale è votato all’inautenticità.
Grassi ha in mente piuttosto un’intellezione senziente o un’apprensione
intelligente del reale che però non troverà mai una formalizzazione
teoreticamente compiuta nel suo pensiero, restando sullo sfondo della sua
rivalutazione dell’umanesimo interpretato all’insegna del concetto di
Lichtung. Id., Il problema del logo, in
Id., I primi scritti, cit., p. 377. 421 Ivi, p. 378. ! 142! Si
chiede Grassi in Vom Vorrang des Logos (1939): “questa tonalità affettiva
(Stimmung) deve essere dunque intesa come momento determinante del processo che
abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza (Unverborgenheit)?”422 La
questione è comprendere se la passione possa essere considerata come esperienza
dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il tema della Stimmung in Grassi
più che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al sentirsi situati – si coniuga con
la metafisica del leghein come risulta evidente dal testo del ’39 nel contesto
dell’analisi della disposizione d’animo e della differenza ontologica
heideggeriane423. Qui G. individua la possibilità di una corretta
interpretazione del pensiero di Heidegger solo nell’operazione di collegamento
del concetto di Stimmung all’atto processuale del leghein. Si tratta di un
aspetto di non secondaria importanza poiché mette in luce come in Grassi la
questione della Stimmung non abbia una connotazione psicologico-individuale ma
un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom Vorrang des Logos che “con
tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa che precede il processo originario
della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si differenzia
da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente originariamente al
fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza è processuale
allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un divenire, di un
essere, di un non- essere, e dunque ad essa appartiene insieme alla
trascendenza e la tonalità affettiva anche il perché”424. La co-appartenenza di
Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese come il discorso sulla Stimmung
travalichi il confine psicologico e si installi direttamente sul terreno
dell’ontologia e della “Muss nun diese
ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des Prozesses, den wir als
Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst werden?”, Id., Vom Vorrang
des Logos, Beck, Munchen 1939, p. 52. La traduzione è nostra. 423 Cfr., R.
Messori, Le forme dell’apparire, cit., pp. 66-67. 424 “Damit bedeutet die
Stimmung nicht etwas, das dem ursprünglichen Prozess der Unverborenheit vorhergeht,
und auch nicht etwas, das den Prozess bedingt, und von ihm unterscheiden ist;
es ist nichts Unmittelbares, sondern zum Grund der Unverborgenheit als Prozess
ursprünglich gehörend. Wenn die Unverborgenheit prozesshaft geschieht, so ist
die – wie früher schon gesagt – auf Grund eines Werdens, eines Seins und
Nichtseins, und so gehört ihr wesenhaft, mit Transzendenz und Stimmung das
Warum an, dritte Weise, in der der Grund der Unverborgenheit – wie Heidegger
sagt – gestreut ist”, E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, cit., pp. 57-58.
Traduzione nostra. ! 143! manifestatività. L’analisi della Stimmung
pone in luce l’azione delle riflessioni heideggeriane di Von Wesen des Grundes
più che quella di Sein und Zeit, mostrando una netta differenza di
interpretazione rispetto a quella seguita dagli studiosi della analitica del
Dasein degli anni ‘40425. L’articolazione del nesso logos-pathos trova una
prima via d’uscita nella riflessione sulla fantasia, reciprocabile con
l’intuizione e con l’intelletto, in quanto “facoltà di darsi le vedute” e forma
di organizzazione a priori dell’esperibile: essa mette insieme il logos e il
pathos. La questione della correlazione di pathos e logos comporta per Grassi
anche un ripensamento dell’identità (un’identità Ha sottolineato acutamente questo aspetto
Messori in Le forme dell’apparire, cit. (p. 86 nota 20) ponendo un parallelo
tra le interpretazioni di Grassi e di Henry Maldiney circa la questione della
Stimmung come momento patico a-priori del pensiero, e sottolineando anche la
distanza tra le teorie di Grassi e quella di Bollnow e Biswanger che negli anni
Quaranta si confrontano in modo critico rispetto al tema della Stimmung
heideggeriana. Circa il tema della distanza di vedute tra Bollnow e Grassi
occorre mettere in evidenza come Bollnow in Das Wesen der Stimmungen pone la
ricerca antropologica sotto il segno della critica al concetto di fondamento
heideggeriano, insistendo sull’infondatezza del dualismo autentico-inautentico
insito, secondo Heidegger, nella dimensione della quotidianità. Nonostante la
messa a distanza del tema ontologico nella “antropologia pedagogica
ermeneutica” di Bollnow è riscontrabile un punto di contatto, su cui Messori
non si è soffermata, ossia il comune riferimento, di Bollnow e Grassi, alla storicità
come fondamento di ogni antropologia filosofica che guarda all’umano come
continua produzione di forme. Nel filosofo tedesco ritroviamo “l’idea che la
storicità della vita significa creatività, produzione di forme che portano a
espressione la vita in manifestazioni specifiche” – (S. Giammusso, La forma
aperta. L’ermeneutica della vita nell’opera di O. F. Bollnow, Franco Angeli,
Milano 2008, p. 93) – che converge con l’impostazione generale del pensiero di
Grassi che punta ad un rinnovamento del problema antropologico seguendo il filo
conduttore delle espressioni storiche del fondamento – le Lichtungen. Altro
punto di sinergia teorica di entrambi è il tema pedagogico umanistico. In
Bollnow la pedagogia, influenzata dallo storicismo diltheyano e dal contesto
generale della Lebensphilosophie, “non muove da principi astratti [...] ma
considera ipoteticamente i fenomeni della sfera educativa come parti dotate di
senso in una connessione più generale e rintraccia tale senso nella originaria
relazione attraverso cui l’uomo come produttore della cultura esprime se tesso”
(ivi, p. 137). Bollnow, in Die Macht des Worts, afferma che la questione
antropologica è connessa al potere formativo della parola e “la questione circa
l’essenza del linguaggio diventa in una maniera fondamentale la questione circa
l’essenza dell’uomo in generale”, O. F. Bollnow, Die Macht des Worts.
Sprachphilosophische Überlegungen aus pädagogischer Perspektive, Essen, Neue
Deutsche Schule Verlaggesellschaft, 1964 (terza edizione 1971), p. 16, citato
in S. Giammusso, op., cit., p. 154. Anche in Grassi il tema pedagogico è
correlato alla questione della via di accesso alla “totalità umana” e alla
individuazione dell’essenza del neoumanesimo e, ancora, al tema filosofico
dell’amicizia che permea sia il sapere sia il linguaggio. Grassi, nella
prefazione alla traduzione tedesca del Discorso di Pericle di Tucidide ad opera
di G. P. Landmann, sostiene che “questa forza dell’amicizia è confluita nelle
parole, da cui siamo legati, filologia e filosofia. L’amicizia sospende il
rapporto tra maestro e allievo, fa del maestro un discente anch’egli e libera
l’allievo dall’asservita ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la
corrente che tutti ci trascina si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove
nello scambio abbiano inizio i pensieri, dove essi nella continua riproduzione
abbiano fine. Questo accadere autentico, questo modo del discorrere e del
pensare che riesce a penetrare ogni isolamento, la dia-lettica – il venire a
svelatezza attraverso il logos, attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha
scoperto nel nobile sentimento dell’amicizia [...] questo concetto non relativo
e non soggettivo dell’amicizia si lega a quello della tradizione e
dell’impegno”, E. Grassi, Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide,
pp. 975-983, in Id., I primi Scritti, cit., p. 977. Grassi enuncia in poche
battute un’idea di pedagogia legata ai temi della fiducia (Vertrauen), del
reciproco affidarsi (Anvertrauen) e del dialogo che mostrano molte affinità tematiche
– pur nella diversità degli approcci – con Bollnow, più numerose delle pur
evidenti differenze sottolineate da Messori. ! 144! che contenga in
sé l’elemento della differenza e della non-identità) e una ricerca sulla
costitutiva co- appartenenza di essere e nulla nel processo di manifestatività.
Secondo la prospettiva tradizionale: “il nulla non può diventare oggetto del
pensiero, perché il nulla esclude in sé una interpretazione oggettivistica. Un
oggetto che non è, è una contraddizione”426. Invece per il filosofo occorre
aprire un varco nell’esperienza del nulla al di fuori delle coordinate
oggettivanti del pensiero proprio perchè il nulla ci pone di fronte
all’impossibilità di renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità di accesso al
nulla: la sua esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo Heidegger di Che
cos’è metafisica anche G. crede che “il nulla non si rivela dunque come un
oggetto, come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un fondamentale
stato d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni punto
d’appoggio”427. Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come il
filosofo già a partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione, con
la discussione sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si chiede
se a partire dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile mantenere la
priorità dell’atto logico: “esiste dunque il nulla e qual è il suo rapporto con
l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?
In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia, tanto che
l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come un
oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il problema
dell’angoscia, della sua funzione metafisica [...] è dunque nell’angoscia che
si radica la possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li
trascendiamo in quanto fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla”428. Il legame
tra angoscia, nulla e manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in
un primo momento sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il
dualismo è solo apparente se guardiamo all’idea grassiana di logos che si
distingue da quello della logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per
Grassi accade quella scissione, quell’auto-distinzione della manifestatività,
che consente di pensare la coappartenenza di logos e pathos. E. Grassi, Il problema del logo, cit., p.
382. 427 Ivi, p. 383. 428 Ivi, pp. 383-384. ! 145! Un ulteriore
chiarimento riguardo il presunto dualismo logos-pathos o Kehre tra un primo e
un secondo Grassi ci giunge dalle analisi grassiane di Cartesio. Nel saggio
L’inizio del pensiero moderno Grassi porta avanti le sue analisi delle
“meditaizoni cartesiane” incominciate in Dell’apparire e dell’essere del 1933,
constatando come l’importanza di Cartesio vada rintracciata nella fecondità
dell’idea di dubbio. Solo attraverso l’analisi del dubbio è possibile guardare
al cogito cartesiano come ad una realtà complessa che va identificata come
atto, attività del cogitare. In quanto atto il cogito è il luogo in cui la
manifestatività, l’apparire e l’essere, che in Grassi sono sinonimi come
abbiamo visto, si dànno: “il cogito è l’unico primo ed originario essere che
incontriamo e fondandosi sul quale solo si può ricostruire e ricavare tutta la
ricchezza dell’esistenza. La metafisica di Cartesio appare in tutta la sua
decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente
intenda con cogitare. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo
atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui
l’attività logica non è che un momento [...] l’atto del cogito – come
originaria unità, monade – contiene in sé già tutto”429. Appare qui evidente la
funzione ontologica del dubbio come “apertura esistenziale” della questione
della manifestatività. La suprema attività del cogitare, il cogito in quanto
atto, non è altro che il dubbio, il dubitare che nel momento in cui dubita, in
cui attua l’attività del dubitare, porta in superficie “l’urgenza che in esso
si annuncia e che lo rende possibile”430. Nell’atto del dubitare si compie
un’urgenza: quella del reale che non ci è indifferente ma che ci affetta, ci
riguarda e nel quale siamo da sempre immersi e compromessi in quanto esseri
gettati nel mondo e “di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso
il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si
mostra così come il vero fondamento del sapere”431. Pertanto il pensare (logos)
si rivela nella sua identità costitutiva con il patire (pathos) in quanto forme
di espressione dell’originario nella sua urgenza e nella costrittività dei suoi
appelli. Per il filosofo italiano “il pensiero è una forma di esperienza
dell’originario, e non si può pensare ogni volta Id., Dell’apparire e
dell’essere, cit., pp. 289-290. 430 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id.,
I primi scritti, cit., p. 818. 431 Ibidem. ! 146! che lo si
desidera o lo si vuole. Perché l’originario, sempre e in ogni forma, si mostra
a noi solo al modo di una urgenza”432. Il soggiacere a tale costrizione e
urgenza rende il logos convertibile con il pathos quali modalità di apprensione
dell’originario. Se “solo questa costrizione, questa urgenza è l’evidenza
dell’originario”433 allora noi ci troviamo in una situazione di pura passività
rispetto al reale? In che modo è possibile coniugare questo essere soggetti a
con il concetto di atto? L’atto, come abbiamo visto, cerca di rendere conto del
rapporto dinamico tra piano ontologico e piano ontico, i quali rifluiscono
continuamente l’uno nell’altro. A tale dinamica processuale prende parte anche
la tonalità affettiva che appare come il luogo in cui accade la manifestazione
dell’essere nella molteplicità delle sue forme. La Stimmung che consente
l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Un altro termine con
cui Grassi si riferisce alla passione è, infatti, Leidenschaft, di cui è
importante sottolineare il leiden, il patire nel senso di soffrire e penare.
Usando tale traduzione l’accento è tutto posto sulla dimensione della
gettatezza e passività originaria che contraddistinguono il Dasein, l’uomo che
è tale nella misura in cui si riconosce esposto all’apertura dell’essere,
all’assenza di codici interpretativi precostituiti e innati e pertanto
intimamente legato alla ricerca di chiavi di lettura del reale possibili e mai
date. La Leidenschaft è quindi l’essere-affetti dal reale, che ci afferra e ci
trascina nell’aperto delle pure possibilità, senza che noi possiamo sottrarci
allo Zwang e alla Nötigung, da Grassi interpretati come due fenomeni
dell’originario. La Leidenschaft è originaria e metafisica, da essa non
possiamo liberarci e riconoscere la sua centralità è la condizione di
possibilità per il nuovo inizio del pensiero auspicato da Grassi. Per il
filosofo “in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto
nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui
si mostra il carattere patetico e passionale del pensiero”434. Tale pathos
metafisico e originario è un’urgenza che non può essere Id., Il problema del
sublime, pp. 917-943, in Id, I primi scritti, cit., p. 935. 433 Ibidem. 434
Id., L’inizio del pensiero moderno, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.
! 147! dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia
platonica, che abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e
il dubbio cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero
moderno. Per G, Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi scritti, ha
il merito di aver portato ad espressione un significato patico-esistenziale del
dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato unicamente ridotto ad
epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il dubbio cartesiano, invece,
si mostra come la condizione di possibilità affinché si dia il sapere in tutte
le sue forme. Tuttavia Cartesio per Grassi non ha portato fino in fondo il suo
discorso, inclinando piuttosto verso una impostazione gnoseologistica del
sapere, non traendo quelle conclusioni a cui erano pervenuti gli Umanisti. Le
riflessioni grassiane hanno messo in luce il pathos come esperienza di ciò che
è primo e indeducibile razionalmente perché fondamento di ogni deduzione:
“l’essenza della forma del rivelarsi di qualcosa di originario e di primo, o
anche del pensiero, risulta essere la passione, e precisamente non la passione
in senso psicologico ma in senso metafisico”435. La Leidenschaft consente di
ripensare l’idea di soggettività: il soggetto non ha un carattere soggettivo o
individualistico, esso “è essenzialmente ciò che soggiace al primo,
all’originario”436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il soggetto patisce il
reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità (Augenblick):attraverso
il pathos facciamo esperienza della realtà nell’istante, in quella visione
istantanea a cui dobbiamo corrispondere implementando progettazioni di mondi
umani dalle forme molteplici (l’arte, la poesia, il sapere, la prassi, la
politica sono le forme in cui l’uomo risponde agli appelli dell’essere). In
ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare avanti il suo impegno,
il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine mutuato da Leonardo
Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente compromesso con il mondo
circostante. Ivi, p. 846. 436 Ivi, p.
847. ! 148! Secondo Grassi “in ogni atteggiamento originario non
possiamo mai scegliere la nostra occupazione, perché la nostra scelta sta già
sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo noi ad occuparci delle cose, ma
sono le cose stesse – in virtù della loro distinzione – a tenerci occupati”437.
Il filosofo pone come indeducibili forme del manifestarsi del reale il vero, il
buono e il bello: il sapere, l’azione e l’arte sono i modi in cui si mostra, in
cui appare il mondo e non c’è priorità di un momento sull’altro ma nesso dei
distinti. Occorre ripensare l’autonomia delle forme del rivelarsi del reale,
pur tenendo in considerazione la fondamentale unità che le contraddistingue:
esse sono modi autonomi, distinti, di manifestazione dell’essere, sono
Lichtungen del reale, aperture di contesti significativi, tutti accomunati
dall’azione di ordinamento conferito al mondo. Il pathos è l’avvertimento della
non- indifferenza del mondo circostante, è l’esperienza della costrizione e del
vincolo, del legame indissolubile uomo-mondo: “per il fatto che veniamo
strappati, nell’esperienza del dubbio, all’indifferenza verso la totalità
dell’ente, si presenta anche una separazione del nulla dall’essere, e tuttavia
il nulla non è affatto prima dell’essere bensì entrambi vengono partoriti come
gemelli nel medesimo istante. Perciò i Greci parlavano dell’aletheia, del non
latente [Un-Verborgene], come del vero, perché tutto ciò che si mostra viene
sottratto alla latenza solo dall’esperienza del dubbio, che lascia rilucere gli
opposti”438. Nella Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui non possiamo
sottrarci, rintracciamo l’essenza del sapere: il sapere nasce dalla messa in
questione del mondo circostante per ricercarne il fondamento, si tratta di una
ricerca a cui ci sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale carattere
costrittivo e urgente del fondamento è ciò che Grassi trova teorizzato nel
concetto aristotelico di archè o assioma: “questa dottrina è ciò che esprime
Aristotele quando dice che i principi originari o assiomi, come lui li chiama,
che sono il fondamento di ogni dimostrazione, non hanno un carattere
apodittico, bensì elenchico, cioè non possono venire dimostrati [...] ma si
mostrano da se stessi in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e
impiegarli. Così questi principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura
in cui non ci lasciano liberi”4 Ibidem. 438 Id., Il reale come passione e
l’esperienza della filosofia, pp. 995-1029, in Id., I primi scritti, cit., p.
1003. 439 Ivi, p. 1005. ! 149! Possiamo dare per acquisito che in G.
non c’è un rapporto dualistico logos-pathos, per cui da una priorità giovanile
del logos si passerebbe alla matura posizione della preminenza del pathos. I
due momenti sono sempre interrelati tanto da confondersi in una paradossale
unità che è al tempo stesso dualità. É lo stesso pensatore a domandarselo e a
individuare il problema di una connessione dinamica tra logos e pathos: “ora
esiste un’unità che sia al contempo dualità? Ogni differenziale, cioè il
compiersi di un atto unitario, fa apparire ciò che è differenziato nella misura
in cui quest’ultimo si determina [...] quest’atto del separare rivela dunque
essenzialmente una realtà fantastica, dove l’espressione fantastico non viene
tratta dalla fantasia come attività distinta dall’intelletto, bensì dalla
fantasia secondo l’espressione greca phainesthai, mostrarsi”440. Secondo Grassi
l’accadere, l’apparire, la manifestatività vanno interpretati al di fuori
dell’opposizione logos-pathos, tale dualità è solo secondaria e derivata,
poiché primario e originario è l’atto in cui si mostra l’essere nella sua
processualità dinamica: in tale processualità dinamica le coppie oppositive “in
sé-per noi”, “uno-molti”, “logos-pathos” perdono i contorni netti e definiti di
polarità antitetiche, tra cui non è possibile gettare un ponte, per divenire
realtà mobili e fluide. La struttura dinamica e processuale della realtà è resa
dal filosofo attraverso l’immagine della scena/accadere scenico/allestimento
(Schau-Stuck): “soltanto in questo accadere si radica il singolo soggetto
concreto, il quale possiede un oggetto correlativo, perché la scena,
l’allestimento, prescrive a entrambi dei ruoli determinati [...] l’allestimento
è dunque l’originario, in cui i singoli elementi del molteplice risultano
visibili in virtù del ruolo che la scena prescrive loro”441. Tale scena
originaria regge il fondamento della vita: è la sua condizione trascendentale.
Essa è definita anche scena fantastica proprio perché scena e fantasia si
configurano come un tutto unitario, a priori e sintetico. La scena forma in via
primaria relazioni, atti di collegamento, è l’orizzonte di ogni veduta
possibile, così come la fantasia è la facoltà di apprensione di questa scena.
La fantasia in Grassi va intesa come la facoltà di formazione della
veduta/scena (schau) che ha la funzione di schema trascendentale: “l’elemento
originario dell’esperienza sensibile – come in generale di ogni forma
dell’apparire dell’ente non è quindi una dualità di oggetto e soggetto né
una Ivi, p. 1012. 441 Ivi, p.
1013. ! 150! molteplicità di esperienze sensibili, bensì una unità
che si compie, che rivela se stessa nel discernere e nel separare [...] la scena
fantastica, il mostrarsi, non vale soltanto per la determinazione filosofica
dell’ente o per quella dell’ente sensibile, bensì per l’ente nella sua
totalità”442. Interpretata in questo modo la fantasia appare come facoltà del
lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che è al contempo il Sich-Offenbaren,
l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo svelarsi originario dell’essere ha
carattere eidetico e immediato, esso si manifesta nell’istante indeducibile
perché arcaico-fondativo della “visione pato-logica. La realtà nella sua
automanifestatività si impone nella sua Nötigung, nell’accadere dell’attimo
della visione il cui fenomenizzarsi è il dubbio. III. VII. L’analitica
esistenziale: dismondanizzazione, assenza di mondo e coscienza temporale
umanistica Per comprendere meglio le categorie dell’analitica esistenziale
elaborata da Grassi vorremmo concentrarci sull’esperienza sudamericana del
filosofo mossi dal convincimento che essa costituisca una tappa fondamentale
nell’elaborazione di alcune categorie concettuali elaborate dal filosofo:
dismondanizzazione e assenza di mondo; coscienza temporale umanistica; natura.
Tali plessi concettuali, presenti soprattutto nei saggi Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività
(1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955),
Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959)443, sono correlati al tema della
manifestatività dell’essere, emergente nei primi scritti, quali Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere
(1933), Il problema del logo (1936), Il problema Ivi, p. 1014. 443 Cfr., Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 201-206; L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, cit., pp. 65-72; Apocalisse e storia, cit., pp. 7-20,
L’esperienza dell’assenza di mondo, in “Aut-Aut”, 1955, 2, XXVI, pp. 97-119;
Mito e arte, in “Rivista di filosofia”, Torino, 1956, 2, XXVII, pp. 140-164;
Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma 1959, pp. 217-147. !
151! del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del
pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il
reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945)444. Come abbiamo
visto in precedenza in questi saggi vengono in luce le questioni dell’essere,
dell’apparire e della manifestatività, che testimoniano la volontà grassiana di
recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una
forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico,
ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme
dell’apparire. Come è noto, in questo tentativo Grassi coniuga il tema
attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della
differenza ontologica,445 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione
della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale, non come
esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte, ma come fondamento
dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Nel suo percorso onto-antropo-logico
si segnalano alcuni testi per la curiosa correlazione che si viene ad istituire
tra gli innumerevoli riferimenti all’esperienza di viaggio sudamericana e
l’analitica dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e Viaggiare ed errare,
oltre che, naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di mondo, L’esperienza
dell’assenza di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i maggiori contributi
che Grassi ha dedicato al tema “Sudamerica”. III. VIII. L’importanza del
viaggio in Sudamerica Aveva asserito Kant nella Prefazione a Antropologia
pragmatica che “ai mezzi per l’ampliamento dell’antropologia appartiene il
viaggiare”446 e Grassi non sembra sia stato insensibile I saggi sono raccolti in E. G., I primi
scritti 1922-1946, cit. 445 Per una ricostruzione dettagliata delle tracce
gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita
Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra
filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica,
pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti,
cit., pp. IX-LXXXVII. 446 I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. di G.
Vidari, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4. ! 152! a questa affermazione
kantiana: lo attestano i numerosi viaggi che per tutta la vita ha condotto in
giro per il mondo alla ricerca di occasioni di riflessione sul “tema uomo”.
Viaggio e riflessione antropologica: l’accostamento non risulterà peregrino se
si accantona – come fa il filosofo italiano– un’idea di natura umana fissa e
immutabile, chiusa nei confini di una razionalità auto-riferita, per accogliere
l’idea di una condizione umana, tema di un neo-umanesimo attento alla
multilateralità della vita, alla polidimensionalità del reale, e, dunque, alle
molteplici forme di apprensione dell’essere e di dizione dell’essere. Il legame
tra il viaggio e l’elaborazione di categorie esistenziali volte ad un
rinnovamento neo-umanistico della filosofia è del resto esplicitato dallo
stesso filosofo che nella Prefazione a Viaggiare ed errare afferma che le
“annotazioni sull’incontro con il continente sudamericano sono sorte dalla
verifica costante di categorie e concetti fondamentali europei: non sono quindi
né espressioni di rinuncia al nostro mondo europeo né una descrizione esteriore
della realtà sudamericana. Spazio, tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù
nuovamente un significato originario che in Europa abbiamo spesso
dimenticato”447. Corredato da una fitta trama di descrizioni paesaggistiche, di
situazioni emotive, di relazioni, presenze e assenze che il viaggio in
Sudamerica aveva suscitato nel filosofo il testo Viaggiare ed errare presenta,
accanto alla narrazione di esperienze comuni, una interpretazione prospettica
di una realtà nuova, fatta di rovine antiche, foreste sterminate, indigeni e
animali che non costituiscono solo allegorie di ciò che sfugge alla
comprensione filosofica, ma sono l’occasione di esperire il “totalmente altro”.
Per Grassi il viaggio può avere questo significato solo se lo si correla al
luogo preciso in cui è avvenuto: il Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in
precedenza quello in Sudamerica non è il primo viaggio né l’ultimo di Grassi,
eppure in questo territorio si realizza una presa di coscienza molto forte dei
limiti e delle possibilità della filosofia occidentale. Su questi limiti e
possibilità il pensatore ha ragionato una vita intera, ma Le citazioni
riportate di seguito fanno riferimento all’edizione italiana del testo di
Grassi: E. Grassi, Viaggiare ed errare. Un confronto con il Sudamerica, tr. it.
di C. De Santis, a cura di M. Marassi, La Città del Sole, Napoli, 1999, p. 27.
Il testo ha avuto tre edizioni Reisen ohne anzukommen. Südamerikanische
Meditationen, Hamburg, Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation
mit Südamerika, Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974; Reisen ohne
anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger, 1982. !
153! lì, in Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione della foresta,
sulla catena delle Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta non è un
ragionamento. Lì patisce e vive una situazione contraddittoria: storicità e
astoricità; natura e techne. Il Sudamerica è il luogo in cui si consuma la
dissoluzione delle categorie storiche e si dà la possibilità di riflettere
sulla condizione umana. Leggiamo in Viaggiare ed errare: “una volta si sapeva
dove si era di casa; ci si sentiva protetti nel mondo sicuro della tradizione,
ci si poteva recare in paesi stranieri con il proprio blasone e si ritornava a
casa senza turbamenti. Ma noi? Dove siamo di casa?”448. Il testo, allora, non è
un esempio, l’ennesimo, di letteratura odeporica, solo un resoconto
autobiografico, un diario di impressioni del viaggio da Madrid a Barcellona,
fino in Brasile e Cile. In esso si raccolgono le idee più interessanti circa il
viaggio come evento semiotico: oltre a Reisen ohne anzukommen degne di nota
sono le osservazioni sparse in Kunst und Mythos449. In questi testi il viaggio
è inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e
circum-stantia e le descrizioni narrate “non vogliono essere semplici
descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte quelle seduzioni che turbano
l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto con mondi nuovi”450. Ha
sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe Cacciatore che ha dedicato al
tema grassiano del viaggio un saggio: América latina y pensamiento europeo en
la “filosofia del viaje” Ivi, p. 33. 449 Il testo, edito per la prima volta in
tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und Mythos, Hamburg, Rowohlt 1957, e
ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e ampliata dall’autore, costituisce
la rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 sulla “Rivista di
filosofia”, in lingua italiana dal titolo Mito e Arte, cit., pp. 140-164. 450
E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 34. 451 G. Cacciatore, América latina
y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje”, cit. Pubblicato
precedentemente in italiano con il titolo America latina e pensiero europeo
nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in “Cultura latinoamericana”,
Annali 1999-2000, nr. 1-2, pp. 367-381. Come è noto, nella vastissima e
variegata produzione saggistica di Cacciatore il riferimento alla figura di
Ernesto Grassi compare soprattutto nei lavori vichiani dello studioso in cui
l’accento verso i temi della rivalutazione vichiana della sapienza poetica, del
ruolo antropogenetico della fantasia, di quello arcaico-fondativo del mito e
dell’ingeniosa ratio trova non poche affinità con le analisi svolte da Grassi.
Al riguardo cfr., soprattutto G. Cacciatore-G. Cantillo, Studi vichiani in
Germania 1980-1990, in G. Cacciatore-G. Cantillo (a cura di), Vico in Italia e
in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 37; Id., Poesia e storia in Vico, in
F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico. Vico nel mondo, Guerra, Perugia 2000,
p. 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico: narrazione storica e narrazione
fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a cura di),
Il sapere poetico e gli universali fantastici, Guida, Napoli 2004, p. 120, nota
10; Id., Le facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’, in Il corpo e le
sue facoltà. G.B. Vico, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M.
Sanna e A. Scognamiglio (a cura di) in «Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab),
I, 2005, ISSN 1824-9817, p. 104, nota 41; Id., L’ingeniosa ratio ! 154!
de Ernesto Grassi, concentrandosi in particolar modo sul testo Reisen
ohne anzukommen. Lo studioso mette in luce uno spettro semantico ampio del
viaggio: è possibile individuare un significato ontologico; teorico-storico;
cognitivo; simbolico-metaforico. Vorremmo soffermarci sui quattro sensi del
viaggio in G. individuati dallo studioso, con lo scopo di mostrare che
l’esperienza del viaggio sudamericano non è marginale nella riflessione del
filosofo poiché si inserisce nel cuore della sua prospettiva
onto-antropo-logica e diviene decisiva nella messa a fuoco dei concetti di
dismondanizzazione e assenza di mondo452, che insieme a quelli di coscienza
temporale umanistica e oggettività, costituiscono le categorie dell’analitica
esistenziale grassiana. Cacciatore afferma che il senso ontologico del
viaggiare è rintracciabile nello stesso titolo tedesco: Reisen ohne annzukommen
indica il “viajar humano sin arribos, sin metas prefiguradas”. El viajero [...] llega a un
nuevo mundo cargado de bagajes conceptuales, orgulloso y seguro de su
patrimonio cultural y de su tradiciòn històrica”453. E tuttavia al cospetto di un mondo totalmente
estraneo Grassi sente di non poter più fare affidamento sul proprio corredo
categoriale. Occorre un mutamento di prospettiva, una svolta. In quanto
viaggiatore in terra straniera Grassi si sente anche viaggiatore
nell’interiorità, e il malessere vissuto dal filosofo per l’opposizione tra
un’idea di Europa da cui ritiene di doversi congedare e la volontà di
ricostruire un neoumanesimo all’insegna di un rinnovamento dei concetti di Vico
tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e figure del
pensiero, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 225, nota 1; Id., Il mare metafora
del limite e del confine, in S. Amendola- P. Volpe (a cura di), Il mare e il
mito, M. D’Auria editore, Napoli 2010, p. 49; Id., In dialogo con Vico,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 452 Ovviamente le categorie ora
menzionate risentono della trattazione heideggeriana di Welt e Umwelt e in
generale della riflessione degli esponenti dell’antropologia filosofica e della
biologia teoretica coeve, che Grassi conosceva molto bene: Scheler, Plessner,
Gehlen, Uexküll, Driesch. Cfr., E. Grassi, Linee di filosofia tedesca
contemporanea, in Id., I primi scritti 1922-1946, cit., pp. 299-332, Il
problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-228, La
filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in “Actas del Primer Congreso
Nacional de Filosofia”, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo
III; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; Id.,
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 453 G.
Cacciatore, America latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. ! 155!
fondamentali del pensiero occidentale, si palesa soprattutto nelle pagine
dedicate al concetto di “dismondanizzazione”. III. IX. Dismondanizzazione e
assenza di mondo Egli sostiene che “le molteplici ragioni della
dismondanizzazione ci sopraffanno e possono condurre all’immobilità, alla
completa apatia. Ogni processo di dismondanizzazione incomincia dal terrore
avvertito per la scomparsa del consueto”454. Una spaesatezza, una solitudine
esistenziale che sorge non solo in terra straniera ma anche nella propria
patria. Si tratta del terrore primordiale della selva di cui ci parla Vico
secondo il quale “grazie alla radura aperta nella foresta originaria divengono
possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di
computare il tempo”455. Il filosofo ritiene che “anche in Europa si prende
congedo dal proprio mondo. La speranza di liberarci in qualche modo, in chissà
quali paesi lontani, dai nostri dubbi, è solo espressione del fatto che non ci
sentiamo più a casa negli spazi della nostra storia”456. Nel pathos
dell’angoscia e della noia per Grassi noi esperiamo la dismondanizzazione e la
possibilità allo stesso tempo di generare ordini di realtà, progettazioni e
creazioni, per arginare quell’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato
proprio perché privo di orientamenti precostituiti. I due concetti –
dismondanizzazione e assenza di mondo – indicano due fenomeni diversi, ma
connessi, che possono essere compresi meglio ricorrendo ad una metafora molto
cara a Grassi, quella della luce: “assenza di mondo” come aurora e
“dismondanizzazione” come tramonto dell’uomo. La condizione di assenza di mondo
(aurora) è quella dell’uomo primitivo o delle origini, immerso nella realtà
circostante che è astorica, mitica, ripetitiva e di cui G. crede di poter fare
esperienza nell’ingens sylva sudamericana, che in realtà Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 126.
Corsivo nostro. 455 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 251. 456 Id.,
Viaggiare ed errare, cit., Ivi, p. 49. ! 156! si rivela essere solo
una selva ideale. Il pensatore ritiene che “la condizione di assenza di mondo
inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si trova a una svolta decisiva”457.
L’esperienza della realtà nella condizione di assenza di mondo si caratterizza
per l’incapacità umana di orientamento: infatti “non appena quest’ordine
comincia a vacillare, l’uomo esperisce improvvisamente che le direttive
consuete non sono più valide”458. In questo momento di svolta inizia la storia
dell’uomo come “storia del suo accadimento”. Secondo Grassi “la storia
dell’uomo è quindi espressione di ciò che lo costringe continuamente [...] a
stare su una soglia, a partire dalla quale egli traccia linee di confine tra
scelto e non scelto, tra ricordato e dimenticato, tra ordinato e non ordinato.
A partire da questa soglia si aprono i confini del mondo in cui viviamo. Il
progetto, attraverso il quale di volta in volta aderiamo sempre a ciò che ci
riguarda e ci mette in tensione, costituisce il nuovo spazio spirituale in cui
ci muoviamo”459. Nella condizione di assenza di mondo l’uomo, come l’animale, è
totalmente immerso in un cerchio funzionale simbolico che ad un certo punto si
disintegra e lo getta in una condizione di spaesatezza che lo costringe a
trovare codici di interpretazione del reale: “poiché l’uomo esce dalla natura e
in essa non è più al sicuro, egli progetta criteri sulla base dei quali
costruire il suo mondo”460. La condizione di dismondanizzazione (tramonto) è
quella che caratterizza l’uomo occidentale che cerca nuovi strumenti per
abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità e il danno delle proprie
categorie filosofiche. Essa è ben distinta da “una rinuncia volontaria al
mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di dismondanizzazione nasce dallo
sgomento che tutto quello che di solito ci circonda, e che con gli anni abbiamo
costruito come un nostro ambito, viene a mancare” Ivi, p. 132. 458 Ibidem. 459
Ivi, p. 146. 460 Ibidem. 461 Id., Assenza di mondo, cit., p. 222. ! 157!
Nel primo caso si tratta di una situazione di privazione originaria che
dice della gettatezza dell’uomo nell’aperto – la Lichtung – della propria
esistenza, privazione che al contempo è condizione di possibilità affinchè
l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale divenga mondo. Nel secondo caso siamo
di fronte ad una dimensione di perdita delle coordinate categoriali classiche
del pensiero occidentale. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di
mondo non sono nient’altro che il regno dell’Aperto in cui è assente ogni
direzione, ogni coordinata, ogni orientamento ma in cui Angst e Langweile
agiscono quali operatori metafisici nel contesto della Lichtung che, come ci
ricorda Agamben, “è veramente in questo senso, un lucus a non lucendo:
l’apertura che in essa è in gioco è l’apertura a una chiusura e colui che
guarda nell’aperto vede solo un richiudersi, solo un non-vedere”462. Grassi
asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella
apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli
oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più
aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un
mondo, e comincia la sensazione del precipizio”463. Nel viaggio in generale e
in quello sudamericano in particolare noi facciamo esperienza di una epochè
dell’abituale e del consueto e constatiamo il vacillare dell’esistenza, il
nostro non poterci tenere a niente. Emerge in aggiunta al tema dell’esperienza
dell’eventualità/Lichtung dell’essere, che l’alterità radicale del mondo
sudamericano rappresenta in maniera esemplare, la questione non marginale del
pathos: per Grassi esso ha una componente metafisica e non psicologica, dal
momento che grazie ad esso facciamo esperienza dell’originario. Come è noto, la
passione per il filosofo ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo
poiché consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere,
dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della
concreta situazione storica. Afferma G. che “si è costretti a riconoscere che
la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non
possiamo liberarci da essa, incombe ! G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale,
Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 71. 463 E. Grassi, Assenza di mondo, cit.,
p. 226. ! 158! come destino e nella sua luce fa apparire il
significato di ogni ente”464. La Stimmung che consente l’esperienza
dell’originario si rivela una Leidenschaft. Possiamo rintracciare un secondo
senso del viaggio sudamericano: teorico-storico. Come ricorda Cacciatore “en uno
de los ùltimos capìtulos del libro, el filòsofo traza la lineas de una
autèntica, aunque breve, teorìa e historia del viaje, centrada en la
significativa diferencia que caracteriza las relaciones y las descripciones de
los viajeros de la edad moderna y las de los contemporaneos”465. Differenza che testimonia anche il profondo mutamento
storico tra un’epoca, quella moderna, in cui le categorie filosofiche erano
forti e la ragione non aveva ancora perso la propria terraferma; e l’epoca
contemporanea che vive i tormenti della propria debolezza categoriale
sgretolandosi pian piano. La Conclusione di Reisen ohne anzukommen, che reca il
suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio, in cui è narrata questa breve
storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la correlazione del viaggiare con
l’idea di paesaggio. Grassi si pone un interrogativo sul paesaggio e sul suo
paradossale nesso con la filosofia. La domanda si sviluppa in una breve storia
in cui entrano in scena personaggi – Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder,
Melville – che sul paesaggio si sono espressi. Il filosofo si chiede: “che
cos’è il paesaggio? Che cosa può produrre insieme alla filosofia? [...] il
paesaggio può offrire lo spunto per riflessioni teoretiche, dal momento che il
piacere che esso suscita si avvicina alla sfera dell’arte?”466. Rispondere a
questa domanda significa porre in atto una vera e propria rivoluzione
filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie della razionalità astratta e
fare posto agli elementi mitici e poetici, alla dimensione del pathos che
schiudono una modalità di esistenza autentica in cui la potenza delle immagini,
a cui è inevitabilmente associato il paesaggio, diviene la linfa vitale della
filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio “non ha nulla di ovvio, anche se
tutti Id., Il dramma della metafora,
cit., p. 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica latina y pensamiento europeo, cit., p.
80. 466 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 173. ! 159! credono che
esso sia immediatamente accessibile dal momento che lo si vede; il goderne non
richiede alcuna riflessione, ma è impossibile esprimere la sua essenza senza
riflettere”467. Esso mostra e indica la contraddizione tra ciò che ci sovrasta
nella sua immensità, riluttante a qualsiasi espressione univoca e definitiva, e
la volontà umana di comprensione. Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra
incapacità di interrogare in modo nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle
che sono annotazioni di viaggio, riflessioni e considerazioni si rivelano come
i punti di partenza di interrogativi filosofici ineludibili e pressanti.
Ineludibilità e necessità che contraddistinguono anche il paesaggio: “qui il
paesaggio sembra una realtà alla quale non possiamo sottrarci”468. Un ulteriore
significato del viaggio è quello cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica
di una valenza cognitiva poiché consente quella relazione del sé stesso con
l’altro che è fonte di ricchezza quanto più profonda risulta la distanza, la
cesura, lo iato. Come afferma
Cacciatore in America latina “en esta experiencia cognitiva [...] el viaje y la
partida misma tienen sentido en la medida en que remiten immediatamente al
retorno, a la estaciòn originaria. Por ello la confrontatiòn de Grassi con
Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo con el Otro, però tambièn un
hallarse el Otro en las raìces històricas y culturales del Sì mismo”469. In questo contesto di relazioni con l’alterità in
tutte le sue forme – l’altro uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità
rispetto al nostro mondo storico, la natura – la distanza assume un ruolo
fondamentale quale esperienza catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare
si realizza. Secondo il filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un
tema che nella filosofia sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle
distanze è l’olfatto, che meglio del tatto e della vista riesce a restituire
tutta la “potenza della distanza”. Egli afferma in Viaggiare ed errare che “a
Casablanca, la tappa successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò
che a Madrid era solo annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica,
che nel frattempo si era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà
completamente nuova, che ancora non si vede, Ivi, 179. 468 Ivi, p. 184. 469 G.
Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 81. !
160! che non si può nemmeno cogliere con l’udito [...] anche il tatto non
può far altro che occuparsi della cartella che d’abitudine ci si porta
appresso. Ma improvvisamente all’olfatto spetta un inatteso primato [...] è
attraverso l’olfatto che sorprendentemente si percepisce la distanza”470.
L’esperienza cognitiva del viaggio in Sudamerica si configura come un movimento
verso l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono incerti: l’incontro con l’altro
può avere un esito liberatorio o distruttivo471, può indurre l’uomo a
rinunciare alla sua storia particolare, ma può anche sollecitarlo a dubitare
del tutto della realtà storica. Quest’ultimo aspetto è particolarmente
problematico: l’insistere del filosofo milanese sull’opposizione tra natura e
storia, tra Sudamerica e mondo europeo, appare poco argomentato e poco incline
a mediazioni, tracciando una cesura ontologica tra l’uomo sudamericano e quello
europeo. Occorre prendere “la expresiòn grassiana naturaleza no historica con
mucha cautela”472. Nonostante le dovute cautele rispetto a quelle espressioni
che cristallizzano le opposizioni tra una presunta temporalità ontologica e
immobile – quella sudamericana – e una temporalità storica – quella europeaa –,
bisogna riconoscere il merito del filosofo per aver eletto il viaggio
sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i termini e i limiti dello
strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione di Grassi che guarda
all’Europa nei termini di un “relitto di una vita inattuale” e al Sudamerica
come natura astorica non passa inosservata: i colleghi universitari, primo fra
tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in La Amèrica ahìstorica y sin
mundo del humanista Ernesto Grassi, e Humberto Giannini, in Experiencia y
Filosofìa473, non potevano accettare le affermazioni del filosofo italiano
senza qualche riserva. Tuttavia Grassi intende questa assenza di storia in modo
più complesso e articolato: essa dice della possibilità del nuovo474. Se
l’Europa ha esaurito tutte le sue possibilità il Sudamerica, per il
primitivismo che la contraddistingue,
470 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 55. 471 Ivi, p. 50. 472 G.
Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 86. 473 Per una
ricostruzione dell’intera vicenda cfr., J. Barcelò, op., cit., pp. 252-253. 474
E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 24. ! 161! non è ancora
stata sopraffatta dall’asfissia storia: “abbandonata una vita carica di storia,
aspiriamo all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico.
Tuttavia non troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia
completamente estranea a noi europei d’oggi [...] laggiù la vita respira
completamente nell’atmosfera di fine secolo e ci appare come un passato che non
è ancora riuscito a diventare definitivamente passato. Esso continua a vivere
nel nostro presente, ma sembra estraneo e superato”475. Un ultimo aspetto del viaggio
è quello simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri
orientamenti conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca
delle proprie origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi
dell’umanità si fa esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà
notevolmente diverso. Quando G. descrive il passaggio per la grande catena
montuosa delle Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il
vichiano “divagamento ferino per la gran selva della terra” della Scienza
Nuova. Ma non si tratta semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel
momento Grassi non cita Vico, ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva
ipotizzato: “vagando in questo territorio, si aprono continuamente nuove
prospettive. É l’accesso a un mondo inquietante: come potrebbe infatti un
essere vivente storico ritrovare il proprio orientamento in questo silenzio, in
queste ombre, in queste fosse? [...] ma questo non è il caos stesso? Anzi è il
caos inteso non nel senso di disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può
essere impresso un ordine [...] qui nelle Ande esperiamo la realtà di un mondo
di pure possibilità”476. La natura, l’ingens sylva, appare, allora, come la
metafora di quello spazio edificabile nel quale si apre all’uomo lo spettro di
possibilità inedite di instaurare il mondo umano, quel mondo storico che solo
con cautela possiamo opporre alla natura. Un mondo in cui la questione
onto-antropo-logica viaggia sul doppio binario dell’oggettività data – la
natura, il mitico, l’astorico, l’essere – e dell’operazione di determinazione
di tale oggettività – la progettualità umana, la genealogia dell’ordine e della
storia, quella che Grassi definisce “coscienza temporale umanistica”. Da questo
percorso di transizione, che è il viaggio, verranno in superficie, contro la
ragione totalitaria, la ragione Ivi, p.
69. 476 Ivi, pp. 80-81. ! 162! frammentaria, inquieta, balbettante,
critica e discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi e nelle pieghe nascoste
del logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella metafora e nella
fantasia. Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione,
situazione, e circum-stantia, è motivo centrale della riflessione filosofica di
Ernesto Grassi e pone in luce il legame indissolubile e non estrinseco tra il
luogo geografico di elaborazione di questi innumerevoli significati del
viaggio, il Sudamerica, e l’idea di filosofia del pensatore milanese. Un’idea
che si costruisce intorno ad un progetto di riattualizzazione della problematica
umanistica e dei concetti di retorica, metafora e ingegno, ripercorrendo
itinerari poetici, teatrali, filosofici, artistici, che pongono in luce un
senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un
significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum
univoco. Anzi, secondo Grassi è nella pluralità delle parole, nei verba che
possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti,
molteplici, contingenti, transeunti. L’attenzione alla multilateralità del
reale, che si rivela nella polidimensionalità linguistica, si colloca nel
contesto più generale della domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo.
Si tratta del problema onto-antropo-logico a cui gli scritti grassiani di
retorica, metaforologia, umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il
Sudamerica diventa l’occasione per un ripensamento del proprio passato
filosofico e per gettare luce su un presente avvertito come estraneo. Grassi ha
voluto confrontare la sua esperienza di europeo con il modo di vivere
sudamericano, assillato dal dubbio intorno alla validità universale delle
categorie della storicità e della tecnica dominanti in Europa, scoprendo una
serie di aspetti inediti della cultura americana: innanzitutto l’esperienza dei
sensi, che non è la pura e semplice empeiria, ma il luogo visibile del dissidio
e della contraddizione, come testimoniano gli scorci descrittivi delle località
cilene. Il filosofo asserisce in riferimento al soggiorno cileno di trovarsi in
una realtà che è al contempo unità e molteplicità senza relazione: “ci troviamo
nel nord del Cile, nella contrada delle grandi miniere di rame, !Cfr.,
soprattutto E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit.; Id., La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; Id., Umanesimo e retorica.
Il problema della follia, tr. it., di E. Valenziani e G. Barbantini, Mucchi,
Modena 1988; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit.;
Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Vico e l’umanesimo, cit.; Id., Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, cit. ! 163! in prossimità
del confine peruviano a 3800 metri di quota [...] mi confonde il fatto di
essere abituato a costruire la realtà mediante una combinazione di diverse
esperienze sensibili, e per la prima volta apprendo che i sensi, abbandonati a
se stessi e non ordinati dall’intelletto, rivelano il contraddittorio nella sua
essenza: la realtà è contemporaneamente un’unità e una molteplicità senza
relazione”478. Oltre all’esperienza dei sensi, un altro concetto importante che
emerge dai resoconti del viaggio sudamericano, è quello di oggettività: i sensi
non rivelano solo qualcosa di soggettivo e di transeunte, ma l’oggettivo. I
concetti di natura e oggettività si legano profondamente a quelli di mito, di
cominciamento, di originario che solo la poesia può dire e non la filosofia,
che si muove nell’ambito del deduttivo e dunque del non-originario. Per G. “non
basta il sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principii nei quali
ancorare tutti i nostri progetti”479 ma bisogna tentare di ricostruire le tappe
di una “sapienza arcaica”, o di una “sapienza poetica”, per usare un binomio
vichiano, in cui si rinnovano i significati di teoria e prassi e si fa spazio
ad un concetto di pistis che esula dai limiti definiti della religione per
rivelarsi come il fondamento della retorica originaria: “questo riconoscimento
capovolge diametralmente il rapporto tra pistis e logos. La pistis, intesa come
fondamento dell’inspiegabile perché fondamento di ogni spiegazione, è propria
del mondo originario”480. Nell’esperienza sudamericana l’oggettivo appare come
una natura che non è più umanizzata e soggiogata, ma che domina l’uomo. Essa
diviene smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e si sottrae ad ogni
orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione ciclica, in un eterno
presente. Asserisce il filosofo che “lo spazio astorico della natura può quindi
suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante. Una volta spezzata la
coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si distinguono più come
momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si precipita nello
smisurato” Id., Arte e mito, cit., p. 83. 479 Id., L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, cit., p. 72. 480 Id., Significare arcaico, cit., p. 490. 481
Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 116. ! 164! Entriamo nello
spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto rientra
improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che Grassi sente appartenergli
nel modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità “ha luogo un
rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere qualcosa,
perché ogni cosa viene compresa nel tutto”482; si tratta di un ordine “di una
pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il trapassare non
sono che momenti di un duraturo presente”483. Grassi si sta riferendo ad una
realtà eterna che sembra avvolgerci: “è’ l’ora di Pan”484. Il Sudamerica è il
simbolo dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di un’esperienza che,
prendendo in prestito le parole di Vico, “è affatto impossibile immaginare, e a
gran pena ci è permesso di intendere”: qui è possibile guardare autenticamente
al mito non alla luce della demitizzazione, non come “prestazione arcaica della
ragione”, per dirla con Blumenberg485, ma come “realtà in cui viviamo”. É
ancora consentito vivere il mito in quel dissidio, in quella transizione, in
quel viaggio dal vecchio continente della cattiva metafisica verso il mare
aperto dell’autenticità, dell’altro inizio del pensiero. Un inizio che è
principio arcaico nel senso aristotelico del termine: perché governa e dà
inizio come leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo, reinterpretando lo
Stagirita, sostiene che “il principio deve invece avere veramente il carattere
di archè, cioè deve mandare, comandare”486 e, non avendo carattere apodittico,
bensì elenchico, “non possiamo sottrarci alla – sua – imposizione perché ogni
tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone”487. L’atto fondativo e mitico
del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di
quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo
trasformazionale della metafora, che non è un gioco letterario ma la prima
forma dell’ingegno, del nous “e come tale Id., Arte e mito, p. 153. 483 Ibidem.
484 Ibidem. 485 Cfr., H. Blumenberg, Il futuro del mito, tr. it. di G.
Leghissa, Medusa, Milano 2002. 486 E. Grassi, Significare arcaico, cit., p.
486. 487 Ibidem. ! 165! unica espressione delle archai nel loro
carattere palesante e immediatamente indicativo”488. Perché come diceva Vico,
uno degli autori prediletti da Grassi: “di questa logica poetica sono corollari
tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa, e perché più luminosa, più
necessaria, e più spessa è la metafora [...] – che – vien’ ad essere una
picciola favoletta”489. L’analisi delle “meditazioni sudamericane” di G. ha
messo in luce l’intima correlazione dei temi del viaggio, inteso come evento
semiotico, con le categorie dell’analitica esistenziale grassiana:
dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività, natura, coscienza temporale
umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto il significato del viaggio
in generale e di quello sudamericano in particolare sia fondamentale per
comprendere il senso della proposta neo-umanistica grassiana: essa si struttura
come ricerca costante di un nuovo strumentario categoriale per l’uomo europeo
che ha sperimentato la miseria, la precarietà e il declino della propria storia
ma non si rassegna al deserto del nichilismo dilagante ma al contrario, come il
viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di un’umanità perduta, più radicata
nella vita. L’esperienza sudamericana si carica allora di un’importanza che
occorre sottolineare con vigore: essa è un percorso nell’interiorità prima che
essere un itinerario geografico perché “in quanto viaggiatori in terra
straniera siamo anche e soprattutto viaggiatori nell’interiorità [...] oggi,
viaggiando, non andiamo in cerca di scoperte esteriori, sottoponiamo piuttosto
a un esame il mondo della nostra lingua, dei nostri pensieri e dei nostri
sentimenti”490. La meditazione su Sudamerica diviene allora una meditazione
sull’Europa. III. X. L’uomo e l’esperienza dell’oggettività: la nascita della
coscienza temporale L’analisi del viaggio nel suo significato tetravalente e la
focalizzazione sui temi della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci
consente di inquadrare meglio le altre due idee
Ivi, p. 494. 489 G. B. Vico, La Scienza nuova, a cura di M. Sanna-V.
Vitiello, Bompiani, Milano 2012, ed. 1744, II libro, p. 932. 490 E. Grassi,
Viaggiare ed errare, cit., p. 124. ! 166! centrali nell’analitica
esistenziale grassiana: i concetti di coscienza temporale umanistica e di
oggettività. Secondo il pensatore milanese l’esperienza del disancoramento
originario dalla realtà è l’elemento principale che caratterizza la “situazione
umana”. L’angoscia e il terrore della foresta primordiale, l’agorafobia
originaria che genera la paura dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta
in volta i codici di decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti
considerazioni sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale
simbolico e sulla distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla
funzione di apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne che “la situazione umana è caratterizzata dal
fatto che l’uomo ha la esperienza originaria di essere disancorato dalla
realtà. Il problema del metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè
esso consiste nella ricerca della via per giungere un dato fine. Le prime forme
di metodo, cioè di ricerca di un orientamento nella realtà nascono
dall’esperienza del carattere ingannevole e relativo e mutevole di ciò che
mediano i sensi”491. La situazione in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal
nesso disancoramento-metodo- orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza
dei sensi, che provoca il disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del
metodo, G. individua la nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita
del rapporto immediato con la natura. Emerge un elemento concettuale di non
secondaria importanza: il tema della nascita della coscienza e delle scienze si
intreccia indissolubilmente alla questione dell’oggettività e alla ricerca
della sua determinazione. Sostiene il filosofo che “nelle scienze singole
naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più
chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di
un metodo, di un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che
avviene nella nostra concezione del reale”492. Si tratta di quel capovolgimento
che caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza
originaria della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della
ricerca di Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 492
Ibidem. ! 167! un’oggettività “stabilita dai principi in funzione
ai quali si delimita e circoscrive, facendola oggetto di domanda, la realtà
fenomenica”493. L’assenza di coordinate e orientamento mette l’uomo in una
condizione di Notwendigkeit che segna anche il discrimine tra mondo animale e
mondo umano. La fecondità del tema del disancoramento si pone nel contesto
dell’onto-antropo-logia grassiana quale condizione di possibilità della nascita
del mondo umano nella Lichtung primordiale. Per il filosofo “la storia umana
comincia nell’istante stesso nel quale l’uomo sorge dalla natura in quanto
l’immediatezza di quest’ultima non lo soddisfa: l’esperienza della non
indifferenza di ciò che gli si presenta fenomenalmente a mezzo dei sensi è
espressione di legami che non si identificano con quelli dei sensi”494.
L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza dei sensi mette in moto il secondo livello
di oggettività e la storia umana. Ma che cosa intende il pensatore per
oggettività e in che relazione essa si trova con la storia? I gradi
dell’oggettività Il filosofo distingue due gradi dell’oggettivo. In L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività il punto di partenza dell’indagine è ancora una
volta quello della “condizione umana” che “si distingue nettamente dalla
condizione degli altri esseri viventi per la necessità di ricercare e
progettare le unità di misura e di principi in funzione ai quali delimitare il
mondo delle apparenze nelle quali ci troviamo”495. L’indagine sulla situazione
del Da-sein e sulle sue strutture di esistenza ha come primo risultato
l’individuazione di due livelli di oggettività. “Per giungere alla soluzione
della realtà umana, e con ciò della sua oggettività, dobbiamo innanzitutto
partire dal problema di quali siano i caratteri di ciò che ci si manifesta”496.
Tali caratteri possono essere contraddistinti in due modi: -! dipendono dai
nostri parametri e dai “limiti da noi progettati” Ibidem. 494 Ivi, p. 203. 495
Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 65. 496 Ivi, p. 68. 497
Ibidem. ! 168! -! dipendono “dal fenomeno stesso nel ritmo del
proprio divenire”498 Da un lato constatiamo che nella vita vegetativa e organica
la natura appare nel costante ritmo temporale dell’identico, in un diastema,
ossia in “ciò che sta (istemi) tra limiti (dià)”499, dettato dal fenomeno
stesso della vita e non da modalità molteplici di ordinare i fenomeni naturali.
Dall’altro riscontriamo nel mondo umano infinite unità di misura di questa
natura. Per il filosofo “della natura possiamo solo parlare in quanto essa
appare entro i diastema stessi, cioè entro determinati limiti”500 e tuttavia
dobbiamo riconoscere che si danno alcuni fenomeni “il cui apparire non dipende
dalla nostra proiezione di diastema”501. G. riporta l’esempio dei molteplici
stati di un corpo502: un corpo può apparire in una forma solida o liquida ma la
modalità in cui esso appare non dipende da noi: la nostra proiezione di
diastema non è l’unica via di accesso all’oggettivo, all’essere, alla natura.
“Se è vero che la natura appare solo entro i limiti da noi progettati, è
altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria
oggettività. La constatazione di questa oggettività dei fenomeni naturali è la
condizione dell’esperimento, è la risposta che la natura dà entro i nostri
diastema”503. Non a caso il filosofo ricorre a Leonardo per porre in luce il
concetto di natura entro i diastema. Nello scienziato Grassi individua un via
di accesso alla natura mediata dall’esperimento che mostra il senso autentico
del concetto di diastema. Nel Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo
“l’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria
stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso
l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per
un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa
soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua
interezza Ivi, p. 69. 499 Ivi, p. 68. 500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 Ibidem. 503
Ibidem. ! 169! ma solo quelle parti che si danno nel contesto della
teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e
alle sue capacità”504. La natura di Leonardo rimane nondimeno “un mistero che
viene svelato in funzione della domanda impellente”505, quindi mantiene una
zona di opacità residua. Essa ha una propria oggettività che non può essere
colta in maniera esaustiva e definitiva. Il tema della doppia oggettività della
natura mette insieme l’idea dell’oggettività della natura, quale fondo oscuro e
inaggirabile, e l’idea della natura come banco di prova dell’esperienza umana
che risulta essere un progetto gettato. Ecco allora che si profila l’intreccio
indissolubile tra il tema ontologico della oggettività, della natura,
dell’essere e quello etico-pratico della storia umana dei tentativi, dei
progetti, dell’esistenza, del caso particolare, delle circostanze. In questo
percorso di superamento dell’oggettività della natura, di trascendimento della
sua alterità e di ricerca di principi di determinazione, l’uomo elabora le
proprie strategie di contenimento del diverso: inizia la storia del sapere. Per
il pensatore italiano “la storia del divenire per giungere alla conoscenza di
quei principi primi è la storia del sapere. Ma non basta sapere, cioè giungere
al riconoscimento di quei principi nei quali ancorare tutti i nostri progetti,
ma bisogna anche saper realizzare in funzione ad essi i nostri diastema, i
nostri progetti: sorge così una nuova esperienza del tempo [...]: il tempo
umano”506. La coscienza dell’autotemporalità trova la propria genesi
nell’angoscia esistenziale che ha per il pensatore una funzione catartica: “quella
di guidare l’uomo [...] alla coscienza del carattere perturbante della propria
situazione”507. L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda sull’idea
del tempo come “distinzione fondamentale fra ciò che non è più e ciò che non è
ancora, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 505 Id., La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., 165. 506 Id., L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 71. 507 Id., Potenza della fantasia,
cit., p. 259. 504 Id., Introduzione a Heisenberg, Das Naturbild der
heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, pp. 133-138, traduzione nostra. !
170! passato e futuro”508 in funzione di un presente. Tale presenzialità
tuttavia non ha carattere puntuale, “non ha a che fare con un atomo temporale
fuggitivo”509. III. XII. Essere e Tempo Il presente al quale si riferisce il
filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo ed essere sono
strettamente correlati nella concezione grassiana del tempo. Come leggiamo in
Apocalisse e storia “i momenti del tempo sono il NON-ancora, il NON-più e
l’ora. Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un caratteristico
aspetto negativo”510. Il passato e il futuro mostrano un carattere di nullità e
sarebbe più corretto parlare di “presente del passato, presente del futuro,
presente del presente”511 che si danno nel ricordo e nell’attesa. Una
concezione del tempo di questo tipo fa dipendere la nostra capacità di
percepire il tempo dalla nostra capacità di essere affetti (affectio animi).
Osserva G. che una simile concezione della temporalità presuppone l’essere: non
nel senso di ciò “che esteriormente ci è dato”512 ma nel senso di ciò che rende
possibile le nostre esperienze. L’a-priori di ogni esperienza temporale umana –
quella dell’attesa e del ricordo – è l’attenzione: “il termine latino
corrispondente ci chiarisce in che accezione appare qui il termine attenzione:
attentio significa tendere ad, e quindi attendere. L’attenzione è quindi
possibile nell’ambito di una tensione, di una tensio che, come fondamento
dell’aspettativa, dell’attesa, è la radice medesima della nostra capacità di
intus-legere, dell’intelligenza con la quale costruiamo e ordiniamo i fenomeni
in un modo”513. Solo nel contesto di questa attentio/tensio originaria sorgono
il presente, il passato e il futuro. La struttura temporale della coscienza è
a Id., Il tempo umano. L’umanesimo
contro la techne, cit., p. 205. 509 Ibidem. 510 Id., Apocalisse e storia, cit.,
p. 13. 511 Ivi, p. 14. 512 Ivi, p. 15. 513 Ivi, p. 14. ! 171!
fondamento del potere umano di progettare, mondi, cosmi, ordini, unità di
misura come strategie di risposta agli appelli dell’essere che urgono e ai
quali dobbiamo corrispondere. All’origine dell’autotemporalità storica514 della
coscienza umana abbiamo un Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la
potenza delle quali irrompe, creando uno strappo nell’unità simbolica di
soggetto e oggetto. La ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè
tra soggetto e oggetto mediante la parola, il linguaggio, è il compito che
Grassi si propone di portare avanti attraverso riflessioni che assurgono a
prolegomena per una “semiotica antropologica” che indaga il “problema del nuovo
potere originario che strappa l’esistenza umana dalla sfera della
consapevolezza del semplice segno biologico e la colloca in una situazione di
esistenza e di possibilità umane”515. La coscienza umana nasce compensazione di
quel disancoramento primordiale, che è a fondamento del mondo umano, e come
produzione tecnico-poietica. Se la storia dell’uomo è la storia del suo
divenire e del suo superamento dell’immediatezza della natura allora il suo
compito fondamentale – il compito del vero umanesimo – sarà quello di
riscostruire la storia “di quella realtà originaria che l’ha strappato dalla
immediatezza della natura”516. Un sapere che si pone questo obiettivo si
costituisce come archeologia dei mezzi umani di ricomposizione della frattura
originaria (la rottura del cerchio funzionale simbolico): scienze naturali,
tecnica, filosofia, arte517. Per Grassi “di qui sorge la necessità di
ricostruire – con i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello
umano. L’uomo può realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda
originariamente e se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza [...]:
sorge per l’uomo il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo
umano”518. Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni
singola esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che
escatologica della temporalità grassiana, attenta all’istante Cfr., sul tema dell’autotemporalità come nota
distintiva dell’uomo distinta dalla temporalizzazione biologica Id., Vico
contro Freud: creatività e inconscio, pp. 133-153, in Id., Vico e l’Umanesimo,
cit. pp. 142-145. 515 Ivi, p. 152. 516 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro
la techne, cit., p. 203. 517 Ibidem. 518 Id., Apocalisse e storia, cit., p.
12. ! 172! giusto, al tempo opportuno: poiché la nuova esperienza
di fronte alla quale si trova l’uomo non è solo la conoscenza dell’universale
ma innanzitutto quella del caso particolare e singolo. “Bisogna sapere quando,
come, dove, di fronte a chi”519. La mancanza di tale conoscenza sarebbe
“mancanza di misura, di discrezione, di prudenza, di phronesis”, le uniche
capaci di mostrare l’intima correlazione tra vita etica e politica come
realizzazioni dell’opera umana, come risposte alla scomparsa del mondo
olistico, intatto, della vita organica. Per Grassi resta sullo sfondo un grande
interrogativo: c’è da chiedersi “in virtù di che cosa può originarsi il mondo
umano, se all’uomo non appartiene alcun ambiente immediato, se quest’ultimo
dev’essere sempre costruito da ogni singolo individuo; qual è la radice
dell’umanizzazione della natura?”520. Legato al tema antropologico delle
origini della storia umana emerge quello del linguaggio e della funzione della
retorica grassiana come ricerca sul significare arcaico o semantica
antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata connessa ai
problemi precedentemente posti a tema: “a quale funzione adempiono la parola,
il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?”521. Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 520 Id., Potenza della fantasia. PALAIÀ
DIAPHORÀ: PENSARE E POETARE. Il significato della proposta retorica. Nei
capitoli precedenti abbiamo cercato di ricostruire le tappe del pensiero di
Grassi seguendo come filo conduttore quello dell’onto-antropo-logia che si è
rivelata una chiave di lettura ampia e integrativa. Seguendo le riflessioni sui
temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività abbiamo rintracciato a
fondamento della proposta neoumanistica un’analitica dell’esistenza che tocca i
temi della coscienza temporale, della dismondanizzazione e dell’assenza di
mondo. La focalizzazione su queste problematiche fa emergere un’idea di
umanesimo che viaggia sul doppio binario della rivalutazione storica – come
dimostra l’analisi dei testi umanisti dedicati al tema della Lichtung, del
linguaggio e della poesia – e della chiarificazione teoretica delle categorie
dell’esistenza. In questo ultimo capitolo prenderemo in considerazione i temi
del filosofare noetico-non metafisico e quelli della retorica ingegnosa come
critica delle devastazioni dell’intelletto, di quei “razionalismi stretti e
assoluti del positivismo logico, cui G. contrappone una logica del discorso
diretto, del pensiero come comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non
come luogo del falso, ma come spazio del vero concesso all’uomo”522. Sullo
sfondo della prospettiva retorica grassiana emerge il paradigma
dell’incompletezza e della carenza. L’uomo è di fronte ad un paradosso: è
caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua
dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a
cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso
degli animali, ad un ambiente preciso. Il disancoraggio da un ambiente dai
contorni definiti e fissi rende l’uomo compito a se medesimo, lo sottopone ad
un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria
in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. L’azione,
come E. Raimondi, La retorica d’oggi, il
Mulino, Bologna] compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si
configura come trasformazione della natura in mondo culturale, come
umanizzazione dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo
antropogenetico la retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica
diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al posto
dei codici mancanti. Il codice di cui parla il filosofo è “non soggettivo, non
è scelto liberamente, ma sofferto attraverso i sensi, in quanto essi si
manifestano nella sfera del piacere e del dolore [...] noi non abbiamo così il
dualismo di codice e realtà da decifrare, abbiamo invece il significato
continuo, immediato e rivelato di ciò che noi soffriamo con pathos”523. Ad
agire sullo sfondo del discorso c’è la riflessione antropologica novecentesca
menzionata in precedenza: il concetto di povertà, il paradigma
dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come animale carente, che si
intreccia saldamente con la rivalutazione della retorica come luogo
privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo: quello di mostrare
come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo
sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi
dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è
la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un significato antropologico
di retorica che si configura come la compensazione dell’indeterminatezza
dell’essere umano: essa può essere definita come la tecnica di adattamento
provvisorio che precede ogni morale e ogni verità. La retorica allora
costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno
strumento di azione in mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa della
tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni:
la vis retorica crea istituzioni: “la società umana ha origine nel poeta come
oratore e nel lavoro”524. All’interno di questa prospettiva la riflessione
retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso,
semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e
del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello E. G., Vico e l’umanesimo, cit., p. 242. 524
E. G., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 135. !
175! di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si
manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon). La questione
linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano
come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, semiosfera da cui si
dipartono i mondi possibili dell’umano. La declinazione antropologica della
retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è
aperto alla chiamata della concreta situazione di vita pone in luce come la
retorica “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può
essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il
discorso che costituisce la base del pensiero razionale. Essa è la base di quel
theorein che è proprio della filosofia: un theorein che non ha una costituzione
razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica,
immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi
retoricamente”528. IV. II. La retorica come critica del paradigma scientifico
Il nucleo singolare dell’opera di G. si rivela come una nuova e specifica
prospettiva sull’umanesimo retorico quasi sempre obliato dagli storici della
filosofia del Rinascimento tra i quali Kristeller e Cassirer529. Come
dimostrato dalla sua intensa attività all’Istituto Studia Humanitatis
(inaugurato il 6 dicembre del 1942 nell’università di Berlino), presso il
Centro italiano di studi umanistici e filosofici a Monaco (1948) e soprattutto
dall’attività editoriale della Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y
Tarea, Grassi propone un’idea diversa del pensiero umanista. Egli Id., Retorica come filosofia, cit., p. 194.
526 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione:
la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto
Grassi, cit., p. 113. 527 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e
l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 528 Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 529 Cfr. le
osservazioni esposte nel II capitolo. ! 176! non riduce tutto
l’umanesimo al recupero del platonismo – ricordiamo l’opposizione tra umanesimo
platonico e non platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma mette in
risalto l’importanza dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica il valore
della parola poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi vitale e
storica. Lo studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di una
curiosità storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per immettere
la questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e prassi che
riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia humanitatis.
Come leggiamo in La potenza dell’immagine “solo in base al chiarimento di una
concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica – può sorgere a una
nuova considerazione il problema attuale de “a che cosa serve la filosofia”, e
quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi [...] la problematica
dell’umanesimo italiano – proprio in relazione alla preminenza accordata alla
prassi, alla negazione della parola astratta, razionale – presuppone il
superamento della dualità di una realtà esistente, sperimentata, e di un mondo
corrispondente alla ragione, una dualità che conduce all’insuperabile
divaricazione di teoria e prassi”531. Il recupero del passato filosofico – la
tradizione umanistica – fa tutt’uno con l’idea di un’utilità pratica della
filosofia che per Grassi nasce proprio come naecessitas, come risposta all’appello
dell’Abissale, poiché “conservare un passato (è indifferente che si tratti di
pensieri, monumenti o avvenimenti), non considerato in relazione a un compito
da assolvere nel presente, è il segno di una cultura divenuta sterile. Ogni
cultura, ogni tradizione, nella quale il passato perde questa promettente
considerazione, decade, avvizzisce. La tradizione si radica solo nella
comprensione del presente. All’interno di questa prospettiva il filosofo
milanese afferma che il vero umanesimo è quello che incomincia con ALIGHIERI
(si veda) e BOCCACCIO (si veda). Contro l’indirizzo “platonico” costituito dal
versante ficiniano – FICINO (si veda) -- dell’umanesimo per G. permane
attraverso i contributi di Vives, NOZOLIO (si veda), PEREGRINI (si veda),
TESAURO (si veda), Graciàn, VICO (si veda), MURATORI (si veda), LEOPARDI (si
veda), una tradizione non-platonica ma retorica, che resiste a quello Cfr., E. G., La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale, capitolo VI “Antiplatonismo e platonismo”, cit., pp. 175-197.
531 Id., La potenza dell’immagine, cit., pp. 259-260. 532 Ivi, p. 133. !
177! spirito razionalista che la relega nell’ambito della letteratura,
dissolvendo l’unione di retorica e filosofia. Il punto di vista grassiano
sull’umanesimo italiano emerge in netto contrasto all’enfasi sulla ragione e
sulla logica privilegiate dal paradigma scientifico. Quest’ultimo si fonda sul
presupposto che la conoscenza oggettiva sia l’unico modo per comprendere la
realtà. Questo tipo di impostazione logico-analitica, caratterizzata
dall’utilizzo del metodo scientifico, non è attenta all’hic et nunc della
situazione concreta ma crede di trovare assiomi autoevidenti universalmente
validi: rispetto al discorso retorico “il discorso razionale invece è fondato
sulla capacità una di trarre deduzioni e quindi di legare delle conclusioni a
delle premesse. Il discorso razionale raggiunge la sua funzione dimostrativa e
la sua stringenza mediante la dimostrazione logica”533. Ne deriva che il
discorso retorico non può avere alcuno spessore filosofico all’interno del
paradigma scientifico. Il discrimine fondamentale tra l’approccio scientifico e
quello retorico al reale risiede nella ricerca dei principi. La retorica vuole
indagare l’origine dei primi principi e la scienza si arresta alla
constatazione delle premesse. Se il discorso dimostrativo è quello che lega la
definizione di un fenomeno riportandolo ai principi ultimi, alle archai, “è
chiaro che le prime archai di qualsiasi prova, e quindi conoscenza, non possono
essere esse stesse essere provate, in quanto non possono essere oggetto di un
discorso apodittico, dimostrativo e logico”534. Da qui sorge il problema
dell’individuazione del tipo di logos adatto ad una ricerca sui primi principi,
sulle premesse indimostrabili. La risposta grassiana è nota: “l’uso di tali
espressioni, che appartengono all’originario, al non-deducibile, non possono
avere carattere e struttura apodittica e dimostrativa, ma solo indicativa. É
solo il carattere indicativo delle archai che rende davvero possibile la
dimostrazione”535. La ricerca sul metodo adeguato per accedere al reale conduce
Grassi a tematizzare l’infondatezza di quella opposizione tra filosofia topica
e critica. Id., Filosofia critica o
filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., pp. 25-26. 534 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., p. 96. 535 Ivi, p. 97. ! 178! IV. III. Retorica tra filosofia
critica e filosofia topica La dimensione retorica va considerata secondo Grassi
non come elocutio ma come inventio536: non si tratta di un ornamento edonistico
del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che
attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che
tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che
opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo
con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre
provvisorio”537. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete
degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale
della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre
l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che alla sua fase declinante,
al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose che altro non è
che “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità) G.
rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando per
l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si
concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico, tra un filosofare critico e un
filosofare topico, che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per
la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un
discorso che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. G. fa
sua la posizione heideggeriana che sottopone l’autore delle Meditazioni
all’affilata mannaia della distruzione ontologica valutando l’operazione
metodica di separazione tra io e mondo538, tra res cogitans e res extensa
un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di
ricomposizione della frattura come è possibile Cfr., sulle parti della retorica
dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo di Liegi,
retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di retorica,
Bompiani, Milano 2012. 537 Ivi, p. 390. 538 Sull’interpretazione heideggeriana
dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e Tempo, cit.,
§§ 19-21. ! 179! leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21.
Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene nella metafisica un importante
passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della
domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la
comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio, nelle
suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come
estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica
che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti,
Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione
dell’uomo, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento e la misura di
ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che “la tradizionale
domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della
metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è
cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”541. Tale metodo è il cogito e
le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che
occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno
poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos.
Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse
scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione
umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”542. Il dualismo di
dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico
una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della
retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il
problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica,
viene posto per la prima volta secondo Grassi in modo teoricamente articolato
nella filosofia vichiana del De ratione studiorum di cui egli ricostruisce
minuziosamente le tappe della critica al razionalismo cartesiano nel saggio
Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi,
Milano, p. 158. 540 Ivi, p. 168. 541 Ivi, p. 169. 542 E. G., Filosofia critica
o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e
l’Umanesimo, cit., p. 25. ! 180! e ragione. Le questioni poste sul
tavolo della discussione sono molteplici: la pretesa di partire da un primo
vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione
del verisimile543. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva
della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono
all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi
per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di
impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica,
immaginativa, fantastica, ma anche politica della vita umana, ridotta al suo
puro aspetto cogitativo. G. pone l’attenzione sul passo vichiano del De Ratione
in cui è enunciata la priorità della topica sulla critica: “giacchè, come
l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro
veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”544.
Si chiede il filosofo milanese: “chi ci assicura che le premesse dalle quali
parte il processo critico non rispecchino solo un singolo aspetto della realtà,
limitando di conseguenza le conclusioni che ne derivano? Non ha il metodo
critico trascurato la retorica, la politica, la fantasia dimostrando così la
sua unilateralità razionalistica? Non è la deduzione che precede l’inventio, ma
al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di
un “ritrovamento di luoghi”. Si tratta dell’arte topica, ossia l’arte
dell’invenzione di cui CICERONE (si veda) e Quintiliano ci hanno parlato e su
cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la
capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da
quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a
disposizione”546. La questione è ancora una volte quella di tenersi lontani da
una visione unilaterale della realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli
forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La
radicalizzazione dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di
un’esigenza Ivi, p. 35 e sgg. 544 G. B.
Vico, Sul metodo degli studi nel nostro tempo, cit., p. 39. 545 E. Grassi,
Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in
Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 36. 546 Aristotele, Topica, 101 b 3. !
181! di unità nel quadro di una prospettiva onto-antropo-logica che
mira a gettare un ponte tra logos e pathos, tra pensiero retorico e
scientifico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “la tesi che l’essenza della
filosofia si riduca esclusivamente al processo razionale non regge. Anzitutto
perché esso presuppone inevitabilmente un’altra attività, quella dell’invenire,
che lo precede”547. Lo scopo del filosofo è quello di trovare il fondamento
comune di retorica e filosofia, e la sua prospettiva non-riduzionista è capace
di tenere conto di quella torsione che avviene nell’uomo con il sopravvenire
del linguaggio, come mediazione tra gli istinti e gli impulsi da un lato e gli
scopi dall’altro. Il linguaggio segna e delimita i diversi aspetti dell’umano
che esprime il proprio senso della realtà primariamente attraverso un logos
metaforico e non tramite la definizione, il concetto, il linguaggio razionale.
Di conseguenza la soggettività che traspare dalle riflessioni grassiane non è
dotata di una identità monolitica e infrangibile, non è compatta e unitaria ma
è una soggettività frammentata e consegnata alla contingenza, alla circostanza,
costretta a ridefinirsi continuamente. Il Da-sein è allora atto di
ricomposizione, attraverso la “ragione fantasticante”548 (che tiene insieme
come compossibili e non come contraddittori logos-pathos), dei cocci
dell’esistenza tra i quali ci muoviamo, consapevoli dell’instabilità e della
mutevolezza, del divenire che necessita di un logos adeguato alla sua
espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia grassiana ritroviamo un
Da-sein che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma non rinuncia ad esporsi
alla motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra le pieghe e le piaghe
che caratterizzano il movimento della vita. In questo percorso di fondazione e
di costruzione l’idea di retorica si pone in una posizione innovativa. Come
sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a Retorica e filosofia Grassi può
essere collocato di fatto nel contesto della retorica contemporanea che mette
in luce uno slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella E. Grassi, Filosofia critica o filosofia
topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., Id., Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 33. 548 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180. ! 182! della
coerenza. Afferma lo studioso che “gli echi di Richards, Burke, Barthes,
Derrida, Ijsseling e molti altri circolano nelle pagine di G, ragione per la
quale egli scrive nella tradizione di coloro che credono nella natura
circostanziale del pensiero e nella implicita unità di idea e immagine”550.
Tale slittamento mette in luce, attraverso il ripercorrimento della lunga
storia della retorica, da Aristotele a CICERONE (si veda) e Quintiliano, d’ALIGHIERI
(si veda) a BRUNI (si veda) e VALLA (si veda), da VICO (si veda) a Nietzsche e UNGARETTI
(si veda), uno scopo ambizioso: capire meglio le ragioni profonde di quella
storia e, ripercorrendole, tornare all’universo contemporaneo per cercare di
enucleare alcune direzioni di ricerca e suggerire nuovi approcci. La teoria
retorica grassiana mette in luce una dimensione pragmatica della coerenza per
dirla con McPhail551 che si fonda su una riconsiderazione del tema della
credenza/pistis. Il magistero umanistico conduce il filosofo a riscoprire il
mondo della storicità umana, il valore conoscitivo della fantasia-ingegno,
della metafora, il ruolo civilizzatore e coesivo della retorica, la funzione
politico-economica dei miti, il potere metamorfico del lavoro, capace di
convertire la natura in cultura. Il filosofo predilige nella sua indagine
retorica il momento aurorale, arcaico: i punti di partenza, i presupposti
dell’agire, il momento genetico, còlto nelle sue implicazioni gnoseologico-
pratiche e antropologiche. Privilegiando la dimensione pre-teoretica, il mondo
della vita, il momento che precede quello razionale, le archai originarie, di
natura topica e non critica, indicativa e non
Mette in luce l’ipotesi dello slittamento dalla teoria della
corrispondenza a quella della coerenza in G. M. L. McPhail, in Coherence as
Rapresentative Anecdote in the Rhetorics of Kenneth Burke and G., pp. 76-118 in
AA. VV, Kenneth Burke
and contemporary European thought: rhetoric in transition, Tuscaloosa,
University of Alabama Press, 1995. Sull’importanza
di Grassi nella retorica contemporanea cfr., S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp,
Contemporary Perspectives on Rhetoric, Waveland, Long Groove Illinois, capitolo
III pp. 54-74. Per un approfondimento dei temi della coerenza e della
corrispondenza nelle teorie della verità cfr., M. Dell’Utri, Il falso specchio.
Teorie della verità nella filosofia analitica, ETS, Pisa 1996. Cfr., E.
Raimondi, La retorica d’oggi, cit., pp. 77-78. 550 R. J. Gabin, Review of Rhetoric and Philosophy:
the Humanist Tradition, Quarterly Journal of Speech 69, n. 2 (May 1983), pp.
220-221, p. 221: “Echoes of Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling and
many others ring through Grassi’s pages, for he writes in the tradition of
those who believe in the circumstantial nature of thought and the underlying
unity of idea and image”, p. 221. Traduzione nostra. 551 Cf., M. L. McPhail,
op. cit., p. 77. “A comparison of the rhetorics of Burke and Grassi shows that
both writers’ conceptualizations of language exemplify the evolution from
correspondence to coherence in contemporary rhetorical theory”. “Una comparazione delle retoriche di Burke e Grassi
mostra che le riflessioni sul linguaggio di entrambi gli autori esemplificano
l’evoluzione dalla teoria della corrispondenza alla teoria della coerenza nella
teoria retorica contemporanea”. Traduzione nostra. ! 183!
dimostrativa, ingegnosa e non razionale, retorica e non logica, egli dedica
attenzione particolare ad autori, quali Aristotele, Vico e Leopardi, le cui
riflessioni si concentrano sulla dimensione aurorale della fondazione della
civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte ad una idea di humanitas
all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità non è affidata al
procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio denotativo, chiaro e
distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza e all’opacità dei
tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di logica affidata alla
pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il filosofare
noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -! la
focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei principi
epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e dell’azione umani
-! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza l’esistenza umana
in termini di metafora drammatica, che ha una natura affermativa e positiva in
quanto forza propulsiva nella Menschwerdung Grassi vede “l’esistenza umana come
essenzialmente retorica ed esplora la metafora come l’aneddoto rappresentativo
dell’esistenza”552 che ha potere generativo. La concettualizzazione dei grandi
temi della filosofia, ma anche dell’arte e della letteratura, sposta
l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo, sulle tradizioni
drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La particolare
considerazione grassiana dell’umanesimo e della retorica che lo
contraddistingue emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma
scientifico sulla ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico
tradizionale si basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la
via da preferire per accedere al reale. La critica grassiana al deduttivismo
logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis lo conduce verso
l’individuazione del momento critico del pensiero razionale
nell’indimostrabilità dei principi. Ivi, p. 79. “Grassi similarly
sees human existence as essentially rhetorical, and explores metaphor as his
representative anecdote”. Traduzione
nostra. ! 184! IV. IV. La struttura della presupposizione Come
leggiamo in La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico
oggi “la logica tradizionale distingue tra due modi per fondare la conoscenza.
Il metodo deduttivo comincia da premesse e deriva le inferenze già presenti in
esse. Qui è indispensabile che le premesse risultino universalmente valide e
necessarie ma le premesse sono necessariamente presupposte nella deduzione”553.
A fare problema è la struttura della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo
il filosofo “quando si tratta di protasi, di indicazioni di indole arcaica –
cioè originaria, dominante – siamo obbligati a riconoscere che essa non ha e
non può avere un carattere dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime
Aristotele – noetico”554. I primi principi hanno carattere svelante e
manifestativo: si tratta del mitologema originario della filosofia, l’aporia
contro cui urta il soggetto parlante. Nella struttura della presupposizione,
dell’ipotesi, o, nei termini grassiani, dei “principi indeducibili”, si
articola l’intreccio di essere e linguaggio, di mondo e parola di ontologia e
logica. Per il filosofo i principi non possono essere dimostrati perché essi
sono alla base di ogni dimostrazione. Non attraverso la ratio si accederà ad
essi, ma attraverso il pathos, che non è il contrario del sapere ma un’altra
forma di sapere, un sapere arcaico. Dalla prospettiva del filosofo dobbiamo
chiederci “se le asserzioni originarie non sono dimostrabili, qual è il
carattere del discorso con cui le esprimiamo? [...] qui ci si pone di fronte al
problema fondamentale del carattere che ha e deve avere la formulazione delle
premesse, ossia delle basi”556. Il discorso apodittico, quello che prova e
dimostra (apo-deiknymi), pone la definizione di un E. G., La priorità del senso
comune e e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, pubblicato in AA. VV.,
Vico and Contemporary Thought, Vol. I, Humanities Press International, New
Jersey 1976, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. Corsivo nostro. 554 Id.,
Filosofare noetico non metafisico, cit., p. 17. 555 Sul problema della presupposizione
come mitologema originario della filosofia cfr., G. Agamben, Che cos’è la
filosofia, Quodlibet, Macerata 2016. 556 Cfr., E. Grassi, Retorica e filosofia,
cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., 97. ! 185! fenomeno
riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è chiaro che le prime “archai di
qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non possono esse stesse essere
provate”557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una riflessione sul mito –
come “principio instauratore originario di una comunità”558 – sulla dottrina
topica-inventiva – interpretata come “dottrina della visione originaria”559 – ,
sulla metaforologia – come “prassi linguistica e biologica”560 –, sull’ingenium
–come “proprietà comprensiva più che deduttiva dell’uomo”561 – e sulla phantasia
intesa nella sua funzione ontologica come “attività originaria che scopre le
relazioni sulla base delle visioni delle somiglianze”562. L’apogeo della
critica contro la deriva razionalistica del pensiero si colloca
nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni aristoteliche di nous e di
episteme. Grassi infatti istituisce un collegamento tra nous e archè, mettendo
in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e
l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi, colti attraverso
la passione. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria
della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione
deduttiva e storica. Leggiamo in Significare arcaico che nella sfera dell’originario
non esiste dualismo di pathos e logos e nell’ambito dei segni indicativi noi
esperiamo l’aletheia arcaica “sacrale e con ciò estatica, patetica, manica”563.
Per il filosofo se “il dualismo di sapere e di pathos non ha luogo nella sfera Ivi, p. 96. 558 Id., Mito ed arte, cit., p.
162. Cfr., anche Id., Arte e mito, cit. 559 Id., Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, cit., p. 93. 560 Cfr., Id., Potenza della fantasia. Per
una storia del pensiero occidentale, cit., p. 192. “La facoltà del trasferimento
di senso, il metapherein, è fin dall’inizio essenziale alla vita”. Cfr., Id.,
La filosofia dell’umanesimo. In problema epocale, cit., p. 179. “La metafora
con il suo carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso,
supera il divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica
sempre connessa con il caso particolare [...] l’espressione metaforica è in sé
e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora”. 561
Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 94. 562 Id.,
Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 190.
563!Id., Significare arcaico, cit., p. 491.! ! 186!
dell’originario”564 – palesandosi solo nell’ambito, razionale, dedotto – allora
dobbiamo constatare che “ogni discorso razionale si radica nel discorso arcaico
puramente semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del
nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari
che presiedono al mondo umano”565. L’aspra critica al deduttivismo, al
riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso non
compromettono tuttavia lo spessore filosofico della filosofia di G. che resta
integro proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto
miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni,
indicazioni. Le indagini sulla retorica si inseriscono all’interno del contesto
ermeneutico di riabilitazione della retorica che, come è noto, ha inizio con le
riflessioni di Perelman. La riflessione condotta a partire da una prospettiva
di teoria dell’argomentazione e dell’eloquenza genera un’aporia: l’alternativa
teorica che si pone è tra un eccesso di retorica e una chiusura nei confronti
della retorica. La questione che Grassi pone travalica l’alternativa tra
rifiuto o accettazione566 e ha come fuoco di ricerca l’indagine di quello
spazio di sapere collocato tra retorica e filosofia. La domanda che il filosofo
si pone è: esiste questo e tra retorica e filosofia? L’opposizione tra retorica
e filosofia che è oggetto di Retorica e filosofia del 1980 già si profila a
partire da L’inizio del pensiero moderno in cui il LINGUAGGIO vive la
contrapposizione tra la sua veste scientifico-dimostrativa e quella
metaforico-indicativa. Nella nostra analisi prenderemo in considerazione le
diverse definizioni di retorica offerte dal filosofo, che corrispondono a
funzioni differenti a seconda del contesto nel quale l’argomento retorico è
trattato, Ibidem.! 565!Ibidem.! 566 Sulla concezione della retorica in Grassi
cfr. M. Marassi, Retorica, storicità ed umanesimo, pp. 199-216, in E. Grassi,
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; M. Marassi,
Introduzione, pp. 11-27, in E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica,
cit. P. R. Blum, Rhetoric is the home of trascendent: Ernesto Grassi’s response
to Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History Review, 22:2, pp.
261-287; M. L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote in rethorics of Kenneth
Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118, in B. L. Brock, Kenneth Burke and
contemporary european thought, University of Alabama Press, 1995. ! 187! allo scopo di mettere in luce non la
compromessa unità del concetto di retorica quanto piuttosto l’intrinseca
capacità di generare significati e contesti. IV. V. Il logos retorico: la
tripartizione del discorso Nel contesto dell’analisi delle molteplici forme di
discorso Grassi parte dalla messa in discussione della riduzione del discorso
retorico a semplice tecnica di persuasione. Secondo il filosofo il problema
retorico può essere affrontato da due punti di vista: si può considerare la
retorica in senso tradizionale, “quindi come arte, come tecnica di
persuasione”567 o da una prospettiva più generale di interazione con il sapere
teoretico. Per comprendere il senso autentico della concezione retorica dovremo
prendere le distanze dall’approccio speculativo che la riduce ad arte della
persuasione, privandola della componente filosofica. A tal proposito G. individua
TRE TIPI DI DISCORSO: il discorso retorico esteriore, IL DISCORSO RAZIONALE
[cf. H P. Grice, The rules of rational discourse], e il vero discorso retorico.
Il primo discorso “si riferisce solo alle immagini perché influenzano le
passioni”568 ed è il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è il
classico discorso razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero discorso
retorico che “scaturisce dalle archai”569: esso non è deducibile ma è
indicativo. ! E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica,
cit., p. 55. 568 Ivi, p. 75. 569 Ibidem. ! 188! Tralasciando il
secondo tipo di discorso, quello razionale – di cui si è già detto sopra –
vorremmo soffermarci sul duplice senso del discorso retorico: come tecnica
della persuasione e come discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo
è quello di rintracciare le caratteristiche del discorso semantico sulla base
del quale è possibile comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione
sia il discorso razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga
il proprio raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto
della retorica classica per divenire occasione per un ripensamento dei
fondamenti del sapere scientifico-filosofico e della tecnica oratoria
classicamente intesa. Quella di Grassi è non è l’ennesima sistemazione
tassonomica del materiale discorsivo ma una retorica come teoria che assurge a
filosofia generale e che ha come oggetto di riflessione i fondamenti
pre-teoretici, pre-categoriali, ante-predicativi del sapere. Il filosofo parla
non a caso di significare arcaico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “il
discorso indicativo o allusivo (semeinein) fornisce la struttura in cui può
nascere la prova. Inoltre se la razionalità è identificata con il processo di
chiarificazione, noi siamo costretti ad ammettere che la primitiva chiarezza
dei principi non è razionale, e a riconoscere che il linguaggio corrispondente,
nella sua struttura indicativa, ha un carattere evangelico”570. Secondo il
pensatore milanese tale tipologia di discorso – quello semantico-arcaico – è
una Darstellung, una esposizione fantastica-teoretica. In questa esposizione
fantasia e teoria si identificano in quanto facoltà della visione: “in tal modo
il discorso che realizza tale esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai)
un significato”571. Il sistema retorico grassiano mira a costruire il ponte tra
retorica e filosofia e proprio in questa operazione di integrazione possiamo
individuare l’unità del discorso contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già
soffermati572. Afferma il filosofo che “la filosofia non è una sintesi
posteriore di pathos e logos, ma l’unità originaria di entrambi sotto il potere
delle archai originarie [...] quindi la vera filosofia è la retorica e la vera
retorica è la Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., p. 97. 571 Ibidem. 572 Cfr. III capitolo. ! 189!
filosofia”573. Contro la tradizione occidentale razionalista Grassi non pensa
che la retorica non sia fonte di conoscenza vera, anzi la retorica nasce
dall’“insufficienza del pensiero razionale”574. Così il termine retorica assume
un significato essenzialmente nuovo: “retorica non è, né può essere l’arte, la
tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce
la base del pensiero razionale”575. Si tratta della tragedia del pensiero
razionalistico che si trova a fare i conti con la matrice stessa del suo
procedimento. La genesi della struttura del LINGUAGGIO razionale, dialettico,
dimostrativo è il linguaggio semantico, immediato, illuminante, indicativo. Se
il logos indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può nascere la prova,
la cui primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo riconoscere che il
linguaggio corrispondente ha un carattere indicativo ed evangelico “nel
primitivo significato greco di questa parola, cioè di osservare. La retorica
come punto di partenza della scienza e della razionalità è contrassegnata da
una nota antropologica che si configura come compensazione dell’indeterminatezza
dell’essere umano. Essa allora costituirebbe una situazione di emergenza, una
strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di codici
prestabiliti. Come avrebbe detto Blumenberg assioma di ogni retorica è il PRINCIPIO
DI RAGIONE INSUFFICIENTE e ciò vale anche per G. che conosceva bene Blumenberg
e che asserisce, con una sorprendente consonanza teorica, che la retorica nasce
dall’insufficienza del pensiero razionale. La retorica allora mostra
l’imbarazzante luogo in cui si trova: certifica da un lato l’insufficienza e
dall’altro pone in luce quelle prassi che si dipartono da quell’insufficienza
originaria e che non possono essere messe da parte in nome di una scienza della
verità e dell’evidenza. E. G., Retorica come filosofia, cit., p. 74. Corsivi
nostri. 574 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p.
156. 575 Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p.
97. 576 Ibidem. 577 H. Blumenberg, La realtà in cui viviamo, Feltrinelli. Cfr.,
R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. Cfr., E. Grassi-H. Blumenberg,
Correspondenz, consultabile presso il Deutsches Literatur Archiv di
Marbach. ! 190! Se in Blumenberg abbiamo una distinzione tra
retorica dell’ornatus e retorica come prestazione metaforica, tale che la
retorica come compensazione di una mancanza non si articola anche come
compensazione di una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in
ultima istanza una piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in G. la
compensazione entra in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di
evidenza, per eccesso di verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente,
che ci incalza e ci chiama – l’appello dell’essere – appare nella sua evidenza
abbagliante che possiamo solo patire. Come possiamo leggere in La metafora
inaudita: originarietà e paradossia della metafora “ciò che patiamo non sono
gli enti ma ciò che in funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore
– si impone sempre carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto
l’impeto di segni indicativi, cioè dell’abissale di cui i sensi sono strumenti.
Das Reale als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo Grassi è
il reale, il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa
scattare il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della
vita che è evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è
caratterizzata da un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione
esistenziale – sia essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in
Grassi retorica e filosofia, pathos e logos non sono che due approcci
metodologicamente distinti ma che hanno una medesima origine: il reale che
genera angoscia, la quale indica la “fondamentale esperienza esistenziale
dell’inadeguatezza del codice biologico”582. Essa “spezza il cerchio funzionale
puramente biologico e [...] a mezzo della parola, porta l’uomo alla conoscenza
di tale potenza, cioè alla consapevolezza della propria condizione strana e non
addomesticata”583. La proposta retorica e
Quella dell’uomo ricco che possiede la verità. 580 Quella dell’uomo
povero che non possiede la verità e che fa della retorica una tecnica
compensativa. 581 E. Grassi, La metafora “inaudita”: originarietà e paradossia
della metafora, pp. 5-20, in Quaderni di italianistica Volume IX, No. 1, 1988,
p. 15. 582 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 189. 583 Ivi. I corsivi sono
nostri. ! 191! linguistica del filosofo si pone in antitesi alla
coeva retorica di Perelman-Tyteca almeno per quanto concerne la teoria
dell’evidenza. In Trattato dell’argomentazione abbiamo una definizione del
discorso proprio in relazione al suo rapporto con l’evidenza: “la natura stessa
dell’argomentazione e della deliberazione s’oppone alla necessità e
all’evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né
s’argomenta contro l’evidenza. Il campo dell’argomentazione è quello del
verosimile, del probabile, nella misura in cui questo sfugge alle certezze del
calcolo”584. Secondo questa concezione il campo dell’argomentazione è la
prassi, l’attività umana, e un inaggirabile carattere è quello dell’incertezza.
In quest’area dell’indefinibile una volta per tutte rientrano tutte quelle
opinioni, giudizi di valore, inquietudini, incertezze che non si qualificano
come errori, non si oppongono in modo irrevocabile ad una verità (che risponde
solo ai criteri della scienza) ma che rientrano a pieno titolo in quell’idea di
ragione integrale in cui il vero si declina come verisimile. Emerge il tema dell’eikos
concettualizzato anche da G. nella sua lettura di VICO e che mostra il progetto
di una nuova retorica che fa appello ad una idea di ragione e verità che non si
misura solo con il criterio dell’evidenza ma che salvaguardia il valore di
verità delle questioni morali, sociali, politiche e religiose. Afferma il
filosofo in Retorica come filosofia che il logos della nuova retorica è quello
capace di dire “il fondamento del mondo umano, il mondo come espressione di
disperazione nella situazione specificamente umana”585. Tale logos in quanto
onoma e rhema, in quanto nome e verbo, dice non solo l’oggetto (objectum) ma la
totalità di significatività nella quale è inserito l’oggetto. Sostiene il
filosofo che “questa distinzione – quella di onoma e rhema – acquista un
significato fondamentale. La parola in quanto nome designa ciò che chiamiamo
oggetto (objectum). Ma un oggetto non esiste mai isolato, poiché appare sempre
solo nella dinamica di un compito da adempiere rispetto a certi bisogni”586. La
parola allora non definisce e non isola i fenomeni sensibili ma è lo spazio in
cui accade la loro relazione reciproca e la connessione con C. Perelman-L.
Olbrechts-Tytheca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi,
Torino 2001, p. 3. 585 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 191. 586
Ivi, p. 192. I corsivi sono nostri. ! 192! l’essenza umana. “La
parola in quanto presupposto e annuncio [...] viene perciò espressa nel
linguaggio retorico, in quel linguaggio che si impone nel nostro impegno disperato
e patetico, dal momento che la preoccupazione principale è quella di formare
l’esistenza umana”587. Proprio perché massimamente evidente nella sua
poliedricità il reale trova la sua dicibilità nella multiformità linguistica:
attraverso il dire metaforico. Secondo il filosofo la “metafora agisce come una
luce perché presuppone un’intuizione di relazioni. L’essenza della parola
risposa nella sua struttura analogica e traspositiva. L’unica parola capace di
indicare il trasferimento, il potere di mutazione e trasposizione è la
metafora. Grassi sottolinea come “il traslare (metapherein) non ha
originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario: il termine
metapherein indica il tra-sferire un oggetto da un luogo ad un altro – dualità
– il che presuppone un passaggio, un transito, un ponte che l’uomo deve
progettare, cioè gettare da un luogo ad un altro luogo, da un qui ad un là”589.
La questione non è tanto quella di congedarsi dalla verità ma quella di
abbozzare i prolegomeni per una riflessione metodologica sui fondamenti del
discorso, sui presupposti dell’argomentazione. La nuova retorica grassiana
prende congedo da un’idea di evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa
perno su un’idea di evidenza come certezza: lo sfondo antropologico della
retorica sottolinea come il nostro sapere sia basato sulla fiducia, sulla
pistis che ha la stessa radice di persuadere. La certezza è una sorta di
fiducia originaria. Come il filosofo asserisce in Il ripudio del razionale la
pistis “non è opinione né conoscenza [...] poiché non ha le radici
nell’indicazione di una ragione, ma è il risultato di un’esperienza
fondamentale che porta a un atteggiamento. Tale atteggiamento scaturisce
dall’esperienza di un compito (Auf-gabe) nel duplice senso della parola: l’esperienza
di una domanda (An-spruch), una dichiarazione nei riguardi dell’essere”590. Il
rapporto fiduciario costituisce allora uno dei tratti antropo-biologici
fondamentali che solo successivamente si tramuta in techne retorica – la
retorica come arte della persuasione. Attraverso la Ibidem. I corsivi sono nostri. 588 Ivi, p.
167. 589 Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora,
cit., p. 10. 590 Id., Il ripudio del razionale, cit., in Id., Vico e
l’umanesimo, p. 165. ! 193! lunga “preistoria” umanistica
dell’antropologia filosofica per Grassi possiamo comprendere il fondamentale
incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica della funzione
della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica diviene una tecnica
per condurre la vita, elaborata da parte di un essere, l’uomo, che si scopre
povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di strategie indirette
di sopravvivenza per la costruzione di un universo culturale. Il discorso more
rhetorico ingloba anche quella categoria del politico all’interno del processo
linguistico che rende possibile la fondazione della comunità. L’apertura è
verso una considerazione della retorica come meccanismo antropogenetico – la
fondazione politico-civile – e come riflessione metodologica sui presupposti
del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto di vista antropologico, come
fa G., significa rintracciare il fondamento tecnico dell’autoaffermazione nella
costruzione di un mondo culturale e di un sistema di istituzioni in quanto
strategia di sopravvivenza in assenza di una Umwelt naturale che assicuri
l’esistenza umana. In questa prospettiva ermeneutica vanno inquadrate le
interpretazioni grassiane dell’umanesimo. Come si afferma in Retorica come
filosofia la negazione umanistica del primato della logica “rompe con l’ideale
matematico della conoscenza”1 e per comprendere questa tradizione umanistica
occorre prendere in considerazione quelle teorie che “trattano del problema
dell’origine della comunità umana e della funzione politica della poesia”592.
La tecnica retorica si configura come forma paradigmatica di quella relazione
indiretta, esonerante, con la realtà, che è costitutiva della natura umana.
L’idea guida è quella di un agire umano inteso come compensazione
dell’“indeterminatezza” cui risulterà coordinata una retorica intesa come
faticosa produzione di quelle concordanze che debbono subentrare al posto del
fondo “sostanziale” dei codici affinché l’agire diventi possibile. Tale
funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso di Grassi
relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni. Id., Retorica come filosofia, cit., p. 133.
592 Ibidem. Corsivi nostri. ! 194! La radicalizzazione
antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un aspetto fondamentale
dell’interpretazione di Grassi: il comportamento tecnico dell’uomo che genera
la retorica, in qualità di prestazione sostitutiva/esonerante, non esce dalla
logica compensativa. La retorica rimane per Grassi – proprio per la sua valenza
antropologica – una prestazione compensativa/sostitutiva, e la stessa funzione
finisce con l’essere attribuita retrospettivamente alla metaforologia e in
prospettiva alla creazione di istituzioni. La declinazione antropologica
operata da G. comporta che il fenomeno storico “retorica” sia privato della sua
storia concettuale e delle sue funzioni effettuali nella storia della cultura e
della società, e sia eletto a metafora assoluta della conditio humana.
Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti del discorso di Grassi, che rimane chiuso
in un’interpretazione che in ultima analisi lo costringe a considerare il
comportamento tecnico dell’uomo come una prestazione sostitutiva/esonerante,
non uscendo dalla logica compensativa, e non fornendo in alcun modo una lettura
adeguata della natura tecnica dell’uomo, cioè di quella stessa interazione
natura/ars da cui pure muoveva l’interesse antropologico per la retorica. La
salvaguardia delle molteplici forme di apparire dell’essere – il vero, il
buono, il bello – , della metamorphè costitutiva del reale, induce Grassi a
ricercare la forma linguistica adeguata a dire tale metamorphè. Il filosofo si
pone i seguenti quesiti: -! “attraverso che cosa sorge il mondo umano se
l’uomo, a differenza degli animali, non ha un ambiente immediato, se questo
deve essere costruito ogni volta dall’individuo? In altre parole, qual è la
causa dell’umanizzazione della natura?” 593 -! “come si rapporta questa
costruzione del mondo umano al fenomeno del linguaggio, del logos?”594 -! “è
possibile superare la concezione puramente formale della conoscenza?” Ivi, p.
183. Corsivi nostri. 594 Ibidem. 595 Ibidem.Corsivo nostro. ! 195!
Le domande che vengono poste riguardano tre livelli della riflessione: il
livello antropogenetico della fondazione della civiltà; il piano linguistico
dell’espressione del rapporto uomo-mondo; il tema epistemologico della natura
della conoscenza. Cercare di risolvere questi problemi comporta per Grassi
un’analisi della storia dell’umanesimo che propone una rinnovata idea di logos.
Il logos non può essere ridotto al suo aspetto formalizzato, logicista,
scientifico. Una questione fondamentale è quella del passaggio dall’Umwelt alla
Welt, dal mondo ambiente contraddistinto dall’immediatezza non-verbale del
codice biologico al mondo umano. Secondo il filosofo esiste un’area in cui
possiamo trovare segni indicativi e costrittivi senza la mediazione della
razionalità e del linguaggio: si tratta del mondo organico. L’analisi del mondo
organico mostra degli aspetti che possono essere ritrovati nel mondo sacrale e
retorico. Nell’ambito dell’organico ogni genere e specie vivente sta sotto i
propri segni determinati e indicativi. Tali codici/diastema mostrano che “la
realtà appare alla creatura vivente esclusivamente entro selezioni. Le
selezioni (codici/diastema) si inseriscono all’interno del “cerchio funzionale
simbolico della vita” – nozione mutuata da J. Von Uexküll – che indica
“un’unità intatta di segni che sono significativi per la vita”599. Secondo il
filosofo l’analisi del mondo animale e biologico consente di rintracciare delle
analogie con le strutture del mondo sacrale, religioso, retorico che getta luce
su un’idea di filosofia rinnovata in senso non intellettualistico. Ivi, p. 182. 597 Ivi, p. 180. 598 Ivi, pp.
180-181. I corsivi sono nostri. 599 Ivi, p. 181. ! 196! Dal punto
di vista grassiano i semata che ritroviamo nel mondo biologico mostrano
un’intrinseca forza induttiva (epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di
guida (arcaico) che costringe l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti
del proprio cerchio funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione.
“Questi segni possiedono una funzione metaforica perché trasferiscono un
significato a ciò che gli organi manifestano. Attraverso questo trasferimento
di significati appare all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce
la sua sola realtà. I segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi
di questi ambienti, di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco
come ordine e ornamento – avviene a livello organico”601 per
l’autoconservazione. L’unità dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in
cui la comunicazione avviene per voci significative (psophos semantikos) viene
meno nell’uomo. La rottura del codice non verbale immediato che porta alla
genesi del mondo umano implica anche il superamento del livello della
“comunicazione fonetica immediata”602 e la nascita del logos. Con il linguaggio
si profila un compito per l’uomo: “il compito di costruire il mondo in cui
vivere”603 che spetta all’essere umano come singolo e “non ai segni indicativi
immediati del mondo olistico e non problematico. L’esperienza della frattura –
la disintegrazione del mondo intatto e olistico del biologico – mette l’uomo di
fronte alla propria Angst: “gli uomini patiscono l’angoscia che si presenta
nell’esperienza fondamentale di non avere a disposizione un codice
immediatamente efficace”605. Ma come avviene questa frattura nel mondo animale?
Il logos è causa della disintegrazione del cerchio funzionale simbolico o
prestazione compensativa per riunire ciò che si era spezzato? 600 Ibidem. 601
Ivi, p. 182. 602 Ivi, p. 183. 603 Ivi, p. 184 604 Ibidem. 605 Ibidem. !
197! IV. VII. Il logos umano: suono, voce, parola Secondo G. occorre
rifiutare la tesi secondo la quale “il linguaggio stesso è la causa per
eccellenza della dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola
gli oggetti della vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il
loro significato”606. Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la
dissoluzione è già avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos –
un codice completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se
l’unità non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e
oggetto? Sostiene il filosofo che “la funzione significativa del linguaggio può
essere spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già
sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò
si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia
indebolita la comunicazione pre- verble”607. Il linguaggio non è la causa della
separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa
con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice
pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice
immediato. “Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè,
un congiungimento di soggetto e oggetto”608. Il logos nasce sullo sfondo di
un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura “non
addomesticata”609 dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da
Grassi dobbiamo prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla
voce e sulla parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una
concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del 606 Ivi, p.
185. Il riferimento polemico grassiano è alla tesi di R. Thom esposte in
Modelli matematici della morfogenesi, Einaudi, Torino 1985. 607 Ivi, pp.
187-188. 608 Ivi, p. 188. 609 Ivi, p. 189. ! 198! linguaggio, in La
metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora e nel testo La
metafora inaudita. Sostiene il filosofo che per delineare i “prolegomena”610 al
problema del linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné.
Prendendo in considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II
libro del De anima circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi
del linguaggio611 il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura
metaforica della voce – il suono semantico – che va a costituire il linguaggio.
“Aristotele distingue fondamentalmente [...] il suono (psophos) dalla voce
(phoné) per poi [...] definire la voce come suono indicativo (psophos
semantikos). Da ciò dovremmo dedurre che la voce costituisce qualcosa di
completamente nuovo in confronto al suono, non solo, ma che la voce è una
metafora, cioè nasce dal trasferire (metapherein) un significato, un segno
indicativo (sema) al suono (psophos)”612. La dualità tra suono e voce –la voce
è ciò che assegna al suono un significato – è fortemente criticata da Grassi
che invece ha come scopo quello di superare il dualismo mettendo in discussione
l’idea che il suono non abbia un intrinseco significato. Si chiede il filosofo
“è dunque valida la concezione tradizionale dualistica di suono senza
significato e voce, suono semantico indicativo, phoné?”613. G. dispprova la
spiegazione aristotelica tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale
spiegazione non tiene conto che il suono appare attraverso uno strumento che
nel caso dell’uomo è “l’organo uditivo”614; occorre, al contrario, tenere
presente che il suono “ci appare solo entro l’ambito di un codice che si
impone”615; bisogna considerare la mutevolezza del codice616. Come Id., La
metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9.
611!Aristotele, De anima II, 420 b 29.! 612!E. Grassi, La metafora inaudita:
originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 613!Id., Prolegomena,
cit., p. 42.! 614!Ivi, p. 43. 615 Ibidem. 616 Ibidem. ! 199! è noto
Aristotele definisce il suono come ciò che è “sempre prodotto dall’urto di
qualcosa contro qualcosa e in qualcosa, perché ciò che lo produce è una
percussione. É pertanto impossibile che si abbia un suono in presenza di un
solo oggetto, giacchè il percuziente e il percosso sono distinti”617. Affinchè
il suono si trasformi in voce occorre tenere in considerazione l’elemento della
vita618. Solo l’essere animato può produrre il suono semantico, la voce, la
phonè. Se gli elementi determinanti della voce sono la vita (la voce è il suono
dell’essere animato) e il suo carattere interpretativo (il suo essere hermeneia
tinos) per Grassi occorre risalire all’ambito originario del suono: quello
della vita. Proprio l’operazione di radicamento dell’origine del suono nel
mondo della vita induce al filosofo ad affermare che “per l’essere organico,
cioè per quello che manifesta il mondo attraverso i propri organi, non esiste
un suono che non sia voce”619, ossia non esiste un suono di natura puramente
meccanica ma solo un suono dotato di un significato. Infatti per il filosofo i
suoni semantici schiudono “il teatro, nel significato originario di questo
termine, cioè il luogo del vedere, del theorein”620. Ma come e dove si rivela
l’ambito significativo testimoniato dal suono? Per Grassi innanzitutto nei
sensi. Riprendendo le teorie del fisiologo J. Müller621 sull’energia sensoriale
specifica – ossia quella legge secondo la quale ogni senso produce solo il tipo
di sensazione che ad esso è specificamente pertinente indipendentemente dal
tipo di stimolazione a cui è sottoposto – G. individua la possibilità di
rintracciare innanzitutto nei sensi la genesi della significazione. Egli
afferma che “ogni sensazione è carica di significato”622 e la significatività
della voce (che traspone un significato al suono) si radica 617!Aristotele, De anima, II libro, 419 b
10-14.! 618!Ivi, 420 b 7-9. “Quanto alla voce, essa è un suono dell’essere
animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati emette una voce, ma per
somiglianza si dice che ce l’hanno, come il flauto”. 619!E. Grassi, La metafora
inaudita, cit., p. 31.! 620!Id., La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora, cit., p. 19.! 621!Il testo al quale Grassi fa
riferimento è Ueber die phantastischen Gesichtserscheinuungen, Koblenz, 1826,
pp. 4-5. 622!E. G., Prolegomena, cit., p. 45. ! 200!
originariamente nella significatività già presente nei sensi. Questi ultimi
dotati di un’energia specifica e carica di significato pongono in luce l’ambito
originario di formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. “Ciò che rivelano i sensi,
entro i limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon, estraneo ai
sensi, non è un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis, intesa come
parousia”623. Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale ambito originario
ha una struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere la metaforicità
del reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in cui l’uomo fa
esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: “in cosa consiste
il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella passione,
nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e dolore – fa
l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere a ciò di cui
è un’indicazione”624. Il problema dal quale partire è quello di corrispondere
all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta si presentano
all’uomo: emerge il tema del superamento della “insercuritas esistenziale”625,
del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il proprium dell’uomo,
ossia la parola. Si chiede il filosofo: “come definire ciò che ci è consueto,
ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci sentiamo a nostro
agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma quale linguaggio,
quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la parola
nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta,
aliena?”626. Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la
spaesatezza dell’Aperto conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce
quella relazione essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per Grassi
è l’individuazione di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi
!Ivi, pp. 49-50.! 624!Ivi, p. 50. 625!E. Grassi, Ermeneutica dell’estraneità.
Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in “Studi di
estetica”, Bologna, pp. 21-33. 626!Ivi, p. 21. ! 201! della
metafora nella sua priorità rispetto al concetto, e della poesia come
espressione della storicità dell’esistenza. IV. VIII. Metafora e concetto
Afferma il filosofo che “il vedere, la visione, insiti nella teoria come
fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una
metafora”627 e si chiede se la metafora “che ricorre per lo più alle immagini,
va considerata un mezzo solo letterario [...] o è indispensabile per esprimere
l’Originario”628. La Frage che sorregge la sua indagine metaforologica mostra
una componente onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la realtà e
costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal
mondo circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora
è per G un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore italiano che
“alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè
di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione
non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che
appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una
proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora
nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora
sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra
cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa
contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”629. Siamo al
cospetto di una teoria della metafora che coniuga l’analisi della metafora come
espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo
cognitivo ed esistenziale. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una
momentanea radura (Lichtung)”630 che mette in campo una riforma della filosofia
non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione
della retorica, cit., p. 18. 628 Ibidem. 629 Id., Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, p. 76. Corsivo nostro. 630 Id., Il dramma della
metafora, cit., p. 14 ! 202! l’importanza dell’esperienza storica”631.
La riflessione sulla metafora è per G. un modo di superare le falle dell’hòros,
del concetto, che non è in grado di dire la natura temporale, storica e
metamorfica degli enti, che si esprimono nei sempre diversi significati vitali
emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore
italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da
qui la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli asserisce che
“l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein),
poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”632;
essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che
appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il
linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio
primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva.
Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che
non è il risultato di un chiarimento”633, abbiamo il logos ermeneutico, quello
dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Secondo il
filosofo “il termine metafora è esso stesso una metafora; deriva dal verbo
metapherein, trasferire, che originariamente descriveva un’attività concreta.
Alcuni autori limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole,
cioè di una parola dal suo proprio campo a un altro. Tuttavia, tale
trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle
somiglianze”634. Alla metafora fa da contraltare il concetto al quale spetta
come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo
fondamento universale. Nella ricostruzione etimologica grassiana il significato
di hòros può essere colto nella sua portata originaria mediante il riferimento
“al verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice
hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del
fondamento. La definizione (horismòs)
Ivi, p. 15. 632 Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, cit., p. 84. 633 Ibidem. Corsivi nostri. 634 Id., Retorica come
filosofia, Ivi, p. 76. Cfr., sull’analisi della metafora in G. M. Marassi, G. e
il primato della parola metaforica, pp. 264-291, in I. Pozzoni, Voci di
filosofi italiani del Novecento, IF Press, 2011. ! 203! esprime in
tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo
sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”635, che
è compito della retorica autentica illuminare, in quanto scienza del
particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora non “più
gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”636, grazie alla quale
è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque
sull’essenza dell’uomo”637, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia
e l’ingegno che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua di “unica
espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente
indicativo” 638, costituiscono la triade del significare arcaico. Il senso
autentico della metafisica immanente di G. emerge proprio nel dia-legesthai,
ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al
logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della
riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione
l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto,
rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la
teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella
sua funzione storica è metaforica”639. IV.IX. La prassi metaforica: metafora e
metapherein La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori
del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa
come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto
traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica è guidata proprio
da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come
trascendentale del linguaggio. Come 635Id., Potenza della fantasia. Per una
storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 636Id., SIGNIFICARE ARCAICO, Potenza
della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202. 638Id.,
Significare arcaico, cit., p. 494. 639 Id., Il colloquio come evento, cit., p.
71. ! 204! emerge già a partire da Il problema della metafisica
platonica il tema della determinazione del ti esti, incrociandosi
inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà,
pone anche il tema della fondazione metaforologica. L’atto fondativo e mitico
del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di
quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo
trasformazionale della metafora, che per G. non è un gioco letterario ma la
prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale unica espressione delle archai
nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo. Il polimorfismo
ontologico viene maggiormente salvaguardato attraverso il pensiero topico,
ingegnoso, in grado di apprendere e rintracciare i loci dell’argomentazione;
capacità, questa, di cui il pensiero critico, tutto confinato all’interno della
catena delle deduzioni, sembra essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è
quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma
a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di
ragionamento esatto. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo
strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche: come possa essere
descritto il trasferimento semantico ad esse sotteso, quali componenti
riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di storie. Interessa invece ciò
che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce, che cosa raccontino del
modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la
“realtà”. Per Grassi la metafora si configura come un fenomeno cognitivo, un
medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda:
essa è ed è stata una componente essenziale dei processi attraverso cui le
culture interpretano e strutturano il mondo che le circonda. Il filosofo
afferma in Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento
indeducibile del linguaggio che “non va dimenticato che il traslare
(metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario;
il termine metapherein indica il trasferire da un luogo ad un altro luogo e
Id., Significare arcaico, cit., p. 494. ! 205! ciò presuppone un
passaggio, un transito, un ponte. L’uomo deve progettare questo passaggio,
gettare un ponte da un luogo ad un altro. L’approccio antropologico-filosofico
descrive e ripercorre una modalità di accesso al senso attraverso la metafora,
e allo stesso tempo tenta di ricostruire la storia della fondazione del mondo
della vita e della comunità umana individuando nei processi di metaforizzazione
e di concettualizzazione i congegni antropogenetici e i fenomeni di base
dell’umanizzazione. Nella semantica metaforica di G. non trova posto l’usuale
contrapposizione del senso traslato con il senso letterale di un’espressione.
Infatti “il termine metafora indica originariamente presso i Greci un’azione
concreta e per la precisione il trasferimento di un oggetto da un luogo ad un
altro; soltanto più tardi il termine compare anche nell’ambito del
linguaggio”642. Se l’idea che riduce la metafora ad orpello linguistico – senza
tenere conto della sua matrice pratica – va messa da parte occorre anche
rifiutare la prospettiva che tenta di sostituire la metafora al concetto. Per
Grassi la metafora non si trova a supplire momentaneamente l’insufficienza del
concetto, fornendo un significato di passaggio, un senso provvisorio in attesa
di esser sostituito da quello proprio dei termini logici. La particolarità dei
termini logici – l’esattezza – determina allo stesso tempo una perdita di
polisemia, potremmo dire una riduzione delle loro potenziali connessioni di
senso. Essi sono contraddistinti da una cristallizzazione del significato in un
unico percorso interpretativo, da una pauperizzazione semantica inversamente
proporzionale alla chiarezza e distinzione logica: è il fio che occorre pagare
per una filosofia pura. Per il filosofo “interrogarsi sul ruolo della metafora
equivale perciò a chiedersi se la metafora rappresenti nel linguaggio
filosofico soltanto un residuo di rappresentazioni che dev’essere superato
allorchè ci si mette sulla via del logos”643. Nella prospettiva tradizionale la
metafora sembra peccare di imprecisione, ragione per cui è sempre stata
estromessa dalla filosofia, per essere ricompresa nella retorica o nella poetica.
Ma a ben 641 Id., Prolegomena ad una concezione della retorica, cit., p. 40.
642!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. 643!Id., Potenza della fantasia,
cit., p. 72. Corsivi nostri.! ! 206! guardare quella che per il
pensiero logico è una imprecisione, “uno scandalo per la logica [...] un
elemento distraente che non ha nulla a che fare con la realtà”644, in realtà è
dotata di una precisione intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il
tratto di precisione della metafora emerge all’interno del discorso su Vico il
cui carattere di epocalità è rintracciato proprio in quella divaricazione della
metafisica in ragionata e fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano
dell’homo non intelligendo fit omnia Grassi asserisce che “se con la metafora [...]
si risponde alle varie necessità, il linguaggio metaforico, ricco di elementi
fantastici è originale, preciso, a differenza di quello astratto che si
allontana”645 dal reale. L’analisi della metafora fa emergere l’idea di una
metafora drammatica e inaudita646, nel senso di assoluta, riprendendo una
feconda espressione di Blumenberg. Essa si rivela uno strumento ermeneutico e
va a strutturare i codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro
giudizio sulle cose. Del resto già Kant, nel famoso paragrafo 59 della Critica
del giudizio (1790), trattando il procedimento della “traslazione della
riflessione”, definisce il simbolo647 in maniera del tutto simile alla metafora
grassiana. Essa determina un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo
che si trova a esser strutturato dalla metafora. Attraverso la metafora
un’epoca esprime le proprie certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie
aspirazioni, le aspettative, le azioni e gli interessi. Essa assume la Id.,
Prolegomena, cit., p. 41 645 Id., G. B. Vico: un filosofo epocale, in Id., Vico
e l’umanesimo, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 646 Id., La metafora
inaudita, cit.; Id., Il dramma della metafora, cit.; Id., Ermeneutica
dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti,
Neruda), cit., pp. 21-33; La metafora inaudita: originarietà e paradossia della
metafora, cit., pp. 5-20. 647 I. Kant, Critica del Giudizio, tr. i. di A.
Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 183- 385.
“A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso
della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a
quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di
rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè
esibizioni (Darstellungen- exhibitiones) [...] tutte le intuizioni che sono
sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime
contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime
procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia [...] in cui
il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto
all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare
la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del
tutto diverso, di cui il primo non è che il simbolo [...]. La nostra lingua è
piena di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui
l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un
simbolo per la riflessione”. ! 207! funzione del codice. Per il
filosofo occorre “sollevare la questione, di solito trascurata, della relazione
tra codice e metafora”648. Sostiene il pensatore che l’atto di leggere e
interpretare la realtà con un codice specifico – ossia con “un sistema di
segni, gli elementi dei quali ricevono un significato entro il sistema”649 –
“costituisce una sorta di attività metaforica”650. L’attività metaforica mostra
un’analogia con il codice poiché rende possibile la visione degli enti e
soprattutto la similitudo, ciò che è comune a più enti. Riprendendo la teoria
aristotelica esposta nella Poetica secondo cui “l’usare bene la metafora
significa percepire con la mente l’oggetto affine”651 G. pone strettamente in
relazione l’eu metapherein e il to omoi on theorein. La metaforizzazione va
identificata da un lato con la visione delle somiglianze ma dall’altro libera
la sua vis generativa nella scoperta del novum: il me phaneròn. Ciò che è nuovo
nella scoperta metaforica è ciò che non era evidente in precedenza. “La
metafora scopre ciò che non era stato visto in precedenza, lo porta alla luce,
in quanto essa nasce dalla necessità della chiarezza”652. Proprio qui risiede
la differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno di decifrazione653
codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del novum. Sostiene
Grassi che “nessun codice è capace di adempiere questa funzione, perché un
codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già date, e
sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un codice che
conduca a un nuovo codice [...] funzione della metafora è l’invenzione,
scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo codice”654.
Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di Grassi è
paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un
metodo che risale verso archetipi, i quali !E. G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 76.! 649!Ivi, p. 75.! 650!Ibidem. 651!Aristotele, Poetica,
1459 a 7.! 652 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 74. 653!Id.,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 77.! 654!Ivi, pp. 76-77.
Corsivi nostri. ! 208! fungono da paradigmi esplicativi dei
comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi propri della storia della cultura
occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung, un Rahmen originario di
riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e si espandono i concetti e
i confini dei campi semantici, stabilendo nuove connessioni di senso,
soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e ogni autore
attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma fornito dalla
metafora stessa. La produttività antropologica della metafora viene quindi
portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla contrapposizione
tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua volta nasconde
l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda che chiede
“come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua trasposizione?”655
alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un senso traslato o
proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la struttura di
“visione delle somiglianze della metafora”656. In contrasto con una concezione
del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la metaforologia grassiana
indica un’inconcettualità basica: ciò che interessa non è dunque l’esistenza di
un correlato di cui si asserisce l’assenza di formalizzazione linguistica o
l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di esporre linguisticamente
l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein. Grassi elabora una semantica
metaforica che affonda le sue radici in un orizzonte di inconcettualità e
sposta l’attenzione su quella dimensione di gettatezza, sul nostro essere
calati in un mondo di immagini che chiedono di essere interpretate. In uno dei
suoi ultimi testi, La metafora inaudita, G. si mostra meno interessato al
percorso di nominalizzazione che porta la metafora verso il concetto, come
accadeva invece nei precedenti lavori sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta
sempre di più verso il terreno in cui si formano le metafore, e cioè il mondo
della vita, la Lebenswelt che mostra tutto il suo assolutismo, che viene
contrastato proprio attraverso le prestazioni della distanza nelle forme del
mito e delle metafore assolute, e quindi delle diverse pratiche metaforiche che
traducono queste Id., Potenza
dell’immagine, cit., p. 195. 656 Ibidem. ! 209! prestazioni, la cui
funzione principale risulta allora compensatoria ed esonerante. Leggiamo in Il
dramma della metafora che “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura
fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per
identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”657. I processi di
metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà sono in altre parole lo
strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare l’assolutismo della realtà e a
rendere meno violenta la sua percezione. L’analisi della prassi metaforica
parte dalla domanda “dove, come patiamo l’oggettività dell’essere?”658 che
sorge laddove si fa esperienza dell’incapacità di restituire la ricchezza della
res – il mondo oggettivo – attraverso l’univocità della definizione. Se
“l’essenza della parola consiste nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre
un traslato, necessariamente il problema della verità sempre e ovunque valida
deve venir sostituito dal problema di ciò che di volta in volta si svela nella
storia”659. La retorica è la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di
volta in volta viene all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in
quella dell’Ereignis. Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti
mediante un processo razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È
questo il prezzo da pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a
distanza tutti quegli elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni.
Sostiene Grassi in Retorica come filosofia che “le teorie cartesiane continuano
a determinare ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale
dell’Umanesimo e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di
Cartesio desidero esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano”660. G. è
mosso dal convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche
del sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere
verità e certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di
erudizione filologica che ha a che fare con la sfera delle 657Id., Il dramma
della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica,
Napoli 1992, p. 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la
phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 659 Id., La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. Corsivi nostri.
660 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 80. ! 210! passioni e
delle immagini. La vera filosofia è quella critica a cui Grassi vuole opporre
una priorità trascendentale della topica e per farlo ricorre a Vico e a
Aristotele. Contro una simile impostazione che separa scienza e vita Grassi
vuole proporre un’idea unitaria di logos e pathos in cui la retorica assuma un
ruolo preponderante. Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi
fondamentali: le immagini, le metafore – viene considerata come ciò che va
respinto in quanto “ragione non ancora realizzata”661, come priva di chiarezza
razionale e verità rigorosa generando “l’ideale cartesiano [di] una filosofia
disadorna, impersonale, senza tempo e senza luogo”662. Tenendo in
considerazione l’importanza che l’umanesimo retorico attribuisce alla parola,
come ciò che apre il mondo, la filologia assurge a una posizione fondamentale
all’interno degli studia humanitatis. Secondo il filosofo “la parola deve
essere considerata un fenomeno originario, non solo espressione del
pensiero”663. Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato una riabilitazione del
pensiero umanista che parte dal convincimento della preminenza del problema
della parola su quello degli enti. Secondo il filosofo il legame tra parole e
cose non va inteso come semplice corrispondenza delle une alle altre – poiché
la parola non designa univocamente la cosa – poiché il significato di una cosa
dipende dal contesto concreto in cui la parola viene utilizzata. La riflessione
retorica stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico non metafisico che
parte dalla parola e non dall’ente. In questo percorso Vico riveste un ruolo
particolare. IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le fonti del mondo
storico individuate da Vico La proposta grassiana di ripensamento della
retorica nella sua identità con la filosofia viene sempre più a svelare il suo
senso esistenziale e intersoggettivo. La secca alternativa tra un filosofare
ridotto a ricerca delle verità eterne – condotta attraverso un argomentare
poggiante su basi deduttive ed un linguaggio razionale e formalizzato – e una
retorica intesa come argomentazione debole o
Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180. 662 Ivi, p. 181. 663 Id.,
Potenza dell’immagine] tecnica del bel parlare – induce il filosofo a ripensare
la correlazione retorica-filosofia a partire dal nesso vero-verisimile. Il tema
è al centro di un saggio su Vico, Del vero e del VEROSIMILE in Vico, che mostra
come la figura del filosofo napoletano sia una presenza costante all’interno
dell’iter di pensiero grassiano – e non uno sbocco finale della filosofia di
Grassi – e costituisca l’occasione di determinare il significato autentico di
retorica. In Vico Grassi rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del
linguaggio retorico, che ha il proprio fulcro nella figura della metafora,
prodotto dell’ingenium. Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio –
ritornante in maniera fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico,
Grassi sottolinea come a differenza della filosofia critica poggiante sulla
ratio la filosofia topica vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della
fantasia che sono facoltà di apprensione del reale immediate e intuitive e non
deduttive. Asserisce il filosofo italiano che la fantasia vichiana “è
l’espressione dello spirito umano in quell’istante del ciclo storico, che esso
deve sempre nuovamente percorrere, quando l’ente originario si rivela all’uomo
solo in immagini, simboli, miti. A riguardo si deve notare che anche il mondo
della fantasia, come prima fase dello sviluppo dello spirito umano, non è un
mondo primitivo in senso negativo; è essenzialmente e perfettamente formato in
sé, per certi aspetti è ancora più vicino all’ente originario di quanto non lo
sia il mondo della ragione”666. A differenza del pensiero critico il pensiero
topico ha come suo oggetto tematico il verosimile che appartiene alla sfera del
possibile e non del necessario ed è legato al tempo e allo spazio della
situazione. Leggiamo in Retorica e filosofia che “solo l’intuizione delle
caratteristiche comuni o condivise nel senso summenzionato rende possibile il
conferimento di significati che consentono alle cose di apparire (phainesthai)
in modo umano. Poiché tale capacità è tipica della fantasia, è proprio
quest’ultima a permettere al mondo umano di !Id., Del vero e del verosimile in
Vico, pp. 951-966, in Id., I primi scritti, cit.!! 665 Sulla presenza di Vico
in Grassi cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.; S. Limongelli, Il
problema dell’umano nella filosofia di E. Grassi, cit.; J. Sanchez-Esquillace,
E. Grassi y la filosofìa del Humanismo, cit., J. M. Sevilla, Critica de la
razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 666!E. G.,
Del vero e del VEROSIMILE in Vico] apparire”667. Conseguentemente la fantasia
si esprime originariamente nelle metafore “cioè nel conferimento figurato dei
significati [...]. La metafora è quindi la forma originaria dell’atto
interpretativo stesso che assurge dal particolare all’universale attraverso la
rappresentazione di un’immagine, ma naturalmente sempre riguardo alla sua
importanza per gli esseri umani. L’atto erculeo è sempre un atto metaforico e
ogni atto metaforico e ogni metafora autentica è in tal senso lavoro
erculeo”668. É evidente che l’attenzione posta sulla prassi metaforica669 va
oltre il piano linguistico. La metafora non è solo rappresentazione immediata
di un’immagine poiché per la sua struttura traspositiva assume un ruolo
storico-politico: quello della formazione del mondo umano come traspare dalla
correlazione atto metaforico-atto erculeo. Il riferimento ad Ercole – come
abbiamo visto nel secondo capitolo – cela il riferimento alla dimensione
politica della fondazione della civiltà e si staglia sullo sfondo di una
prospettiva che si basa sulla priorità della topica e dell’ars inveniendi
sull’ars iudicandi. Una impostazione di questo tipo consente al pensatore di
guadagnare una concezione integrativa della sapientia come ars vitae in cui
filosofia e retorica si identificano nell’orizzonte ampio e più alto di
formazione civile670. Il sapere noetico-non metafisico è uno strumento di
formazione dell’essere umano nell’interezza delle sue esperienze storiche. In
questo contesto si comprende come la poesia per Grassi – sulla scia di
Heidegger e Vico671 – rivesta un ruolo fondamentale: essa non ha solo la
funzione storico-filologica ma anche un compito etico-politico. Abbiamo visto
come il concetto vichiano di fantasia assuma per Grassi una funzione decisiva.
Vico afferma in Le orazioni inaugurali che la fantasia “immaginò le divinità
maggiori e le minori, essa immaginò gli eroi, essa ora svolge le sue idee, ora
le collega, ora le distingue; essa pone sotto i nostri occhi terre
infinitamente lontane, Id., Retorica
come filosofia, cit., pp. 38-39. 668 Ibidem. 669 Cfr., Id., Prolegomena ad una
concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio,
cit., p. 48. 670 Come abbiamo visto nei capitoli precedenti Grassi distingue la
Bildung dalla Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 Cfr. su questo
aspetto fondativo e politico della poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e
ragione nella filosofia civile di Vico, pp. 3-20, in Id., In dialogo con Vico,
cit., p. 18. ! 213! abbraccia quelle distinte fra loro, valica
quelle inaccessibili scopre quelle inesplorate, apre strade per quelle
impervie”672. L’importanza della fantasia nella teoria della conoscenza
vichiana è sottolineata da Grassi nell’ambito di una proposta ermeneutica di
analisi della fantasia e delle sue forme di funzionamento come paradigmi per
delineare una storia del pensiero occidentale673. La rivalutazione della
fantasia mira a sottolineare quella straordinaria forza formatrice che la mente
umana riesce ad attivare tramite le sue azioni simbolizzatrici messa in luce
anche dal Cassirer filosofo delle forme simboliche. Quest’ultimo sostiene che i
diversi campi della creatività spirituale sono capaci di costruire “uno
specifico libero mondo di immagini: un mondo che per la sua natura immediata
porta tuttavia in sé il colore del sensibile, ma che rappresenta una
sensibilità già formata e quindi dominata dallo spirito. Qui non si tratta di
un sensibile semplicemente dato e trovato, ma di un sistema di molteplicità
sensibili prodotte in una qualche forma del libero immaginare”674. Secondo
Grassi nella tradizione umanistica la vis plastica e cosmica della fantasia e
la relativa attività metaforica vengono interpretate come fonti originarie
dell’esistenza e del mondo storico. La domanda dalla quale partire è: “qual è
l’ambito originario della fantasia, la cui essenza è – come abbiamo visto – il
metapherein?”675. Nel tentativo di risolvere la questione G. ricorre a VICO,
considerato l’ultima vetta dell’umanesimo. Egli offre con le sue riflessioni
sulla fantasia e sull’ingegno, sul senso comune, l’occasione fortunata per un
ripensamento della storia del pensiero occidentale al di fuori dei cardini
dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta. L’autore della Scienza
Nuova ha avuto il merito di sviluppare “la tesi di una logica della fantasia al
fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua singolarità e concretezza –, un
accesso che la logica tradizionale, con G. Vico, Le Orazioni inaugurali, I-VX,
a cura di G. G. Visconti, il Mulino, Bologna 1982, p. 83. 673 E. Grassi, La
potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit. 674 E.
Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, La Nuova Italia, Firenze. Cfr.
per una correlazione tra la riflessione vichiana sulla facoltà
mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia delle forme simboliche
cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, pp. 85-104,
in Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Armando Siciliano, Messina
2005. 675 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 239. Corsivo nostro. 676
Ibidem. ! 214! la sua ricerca rivolta esclusivamente
all’universale, non aveva ottenuto”677. Secondo il pesatore milanese con Vico
siamo di fronte ad un logos phantastikòs in grado di penetrare la realtà del
mondo storico umano e individuale con maggior successo di quanto non faccia la
logica tradizionale678. In tale logica è rintracciato il centro speculativo
della Scienza Nuova che non è solo scienza della storia ma antropologia
innanzitutto. Il confronto dell’uomo con la natura che rende possibile la
nascita del mondo storico avviene sul terreno della ricerca delle attività che
liberano l’uomo dai bisogni materiali. Per Grassi il problema fondamentala di
Vico “consiste nell’identificare l’ambito originario all’interno del quale
soltanto può in generale manifestarsi la storicità, ossia il mondo umano come
tale. Si tratta in ultima analisi di scoprire la struttura dell’esistenza
umana”679. Questo passo è davvero illuminante poiché da un lato ci consente di
apprezzare la specificità della lettura offerta di Vico – un Vico antropologo
delle origini del mondo umano storico-politico- linguistico – e dall’altro di
cogliere la questione fondamentale che sorregge la Frage onto-antropo- logica
grassiana: l’analisi del mondo umano attraverso l’attenzione all’ursprünglich
Rahmen – la Lichtung – e alla Struktur des menschlichen Daseins681 –
l’analitica dell’esistenza di cui abbiamo detto nei precedente capitoli. La
questione del cominciamento del mondo umano è intimamente legata a quella
dell’origine della storia e dunque alla socialità a cui Vico assegna il ruolo
di elemento fondativo delle istituzioni politiche. Grassi punta a sottolineare
non tanto l’aspetto metodologico e Ivi, pp. 239-240. 678 Cfr., su questo
aspetto della logica della fantasia D. P. Verene, La scienza della fantasia,
Armando, Roma 1984 e Vico’s Humanity, “Humannitas. Journal of the Institute of
Formative Spirituality”, XV (1979). Qui lo studioso sostiene che la
comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e dall’attività
razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini e dalla
forza creativa del linguaggio. Cfr., anche G. Costa, Genesi del concetto
vichiano di fantasia, in AA. VV., Phantasia/Imaginatio, V Colloquio
Internazionale, a cura di M. Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M.
Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno. La questione della verità e
della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In
dialogo con Vico, cit. 679 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 240. 680
Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte
abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 681 Ibidem.
! 215! storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella
Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono
all’origine del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del
mondo e della natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e
talvolta presentata dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto
alla ragione. Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di
produzione di immagini che rappresentano una griglia interpretativa della
realtà, costituendosi come condizione trascendentale della crescita e
dell’apertura mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione
del suo cammino storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il
suo essere nel mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio
vitale683, sebbene attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma
pur sempre vera, dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena
conoscenza di fenomeni che sono stati creati da una identità superiore
all’uomo. Pur accogliendo la prospettiva grassiana della rivalutazione del tema
della fantasia in Vico vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il
mezzo di controllo della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola
capace di regolare il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al
mondo reale – viene salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero.
Qui si inserisce anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De
ratione, per cui gli uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di
educare il loro modo di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta
l’utilizzo del metodo matematico. Il filosofo napoletano, come è noto,
distingue due fasi della vita di un uomo in cui, a seconda dell’età e
dell’esperienza acquisita, queste due capacità intellettive hanno una valenza
specifica e una preminenza nei confronti dell’altra: nei giovani prevale la
fantasia, negli adulti prevale la ragione. Sostiene Vico che “come nella
vecchiaia prevale la razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e
davvero non è in alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare Per una lettura antropologia della Scienza
Nuova cfr. L. Amoroso, Introduzione alla scienza nuova, cit. 683!E. Grassi, Vico
e l’umanesimo, cit., p. 53 e sgg.!! ! 216! quella che è sempre
stata considerata l’indizio più felice dell’indole futura”684. La condizione
mentale dei fanciulli li agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa,
componente fondamentale in questo determinato periodo della formazione della
personalità umana. Con l’età adulta l’uomo inizia invece a inquadrare
razionalmente gli enti, a far prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire
dallo stato di minorità. Vico accetta entrambi i momenti della formazione
dell’individuo, senza porre un antagonismo delle facoltà, un manicheismo
gnoseologico, sottolineando con forza come non debba essere oppressa e
trascurata la fase originaria dell’essere- nel-mondo umano, quella
immaginativa, che è fondamentale per la crescita di una persona. Infatti Vico
riconduce la fantasia sotto la categoria della memoria, che a sua volta si
suddivide in tre distinte fasi: memoria come attività dell’intelletto umano che
“rimembra le cose”; fantasia come attività che “altera e contraffà” il ricordo
originario; ingegno come attività che “pone in acconcezza e assestamento” ciò
che è stato precedentemente modificato. Come sottolinea Cristofolini occorre
tenere presente la duplice valenza della fantasia in Vico: da un lato essa
costituisce la capacità “primitiva” di creare un impero della fantasia e del
mito; dall’altro necessita di essere limitata e sottomessa alle strutture della
ragione685. A differenza di un’ipotesi che ricomprende il concetto di fantasia
all’interno di uno sviluppo razionale graduale e progressivo Grassi propende
per l’idea che “la fantasia, basata sull’esperienza delle molteplici
interpretazioni che si possono dare ai fenomeni sensibili, crea le prime
analogie fra tali fenomeni e con essi le prime connessioni e infine le
definizioni”686. Secondo il filosofo milanese si tratta del primo adattamento
della natura: attraverso la fantasia l’uomo mette in atto quella domesticazione
dell’essere che costituisce l’essenza dell’attività mentale. Grassi individua
tre significati fondamentali della fantasia
G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi,
Ets, Pisa 2010, p. 37. 685 P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico.
Introduzione alla lettura, Nis, Roma 1995, p. 84. 686 E. Grassi, Marxismo,
umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, in Id., Vico e
l’umanesimo, p. 89. ! 217! vichiana: -! “nella fantasia e mediante
la fantasia si mostra che l’essere umano, a differenza dell’animale, non
soggiace a modelli dominanti che danno alle percezioni sensibili un significato
inequivocabile”687 -! “la seconda funzione della fantasia fu di costringere
l’uomo a farsi dominare dalla paura, dal terrore di fronte alle cose”688 -! “la
terza funzione della fantasia è quella di essere il primo originario fattore
che dà un significato al lavoro”689 Secondo Grassi la fantasia intesa nel primo
significato è strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo
senso è legata alla nascita della religione come prima forma di adattamento
della natura e di genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione
alla fondazione sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il
proprio raggio di incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la
fantasia è la facoltà della visione per eccellenza, essa è l’occhio
dell’ingegno. Ingegno e fantasia: entrambe facoltà che insieme al senso comune
costituiscono la triade ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e
della Scienza Nuova. Secondo Grassi Vico ricostruisce la storia del mondo storico
umano attraverso il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso
comune e della fantasia. L’importanza di Vico oggi che “secondo l’approccio
vichiano il mondo storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane,
dagli elementi di cui abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di
intervenire nella natura umanizzandola e anche la necessità di stabilire
istituzioni umane, comunità sociali, organizzazioni politiche”690. Alla base di
questa struttura ritroviamo il senso comune
Ivi, pp. 88-89. 688 Ivi, p. 89. 689 Ivi, p. 90. 690 Id., La priorità del
senso comune, cit., in Id., Vico e l’umanesimo] che è guidato dall’ingegno. Per
Grassi l’ingenium è la facoltà di scoprire le somiglianze e basata sulla
facoltà dell’ingegno “la fantasia [...] conferisce significati alle percezioni
sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce la facoltà
originaria del far vedere (phainesthai)”691. Si tratta delle facoltà che
appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma Vico
nella Metafisica del 1710 “i latini dissero facultas quasi dicendo faculitas da
cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia nel fare.
Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto [...]: senso,
fantasia, memoria e intelletto sono facoltà dell’anima”692. Poco oltre il
filosofo napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia e
ingegno, così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di
definire le tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le
affinità) che esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo.
L’interpretazione grassiana della fantasia, anche definita “l’occhio
dell’ingegno”, si focalizza sulla sua funzione di mezzo attraverso il quale
l’ingegno umano riesce a riformulare i vari concetti, mediante una
rielaborazione delle immagini mentali, e a stabilire un nesso plausibile tra
essi, che permette di avvicinarsi il più possibile alla conoscenza della
verità. Se per Vico è vero che “la fantasia è una facoltà certissima, poiché
usandola, noi foggiamo le immagini delle cose”693, e che l’ingegno è “la
facoltà del congiungere in unità cose distanti, diverse”,694 è altrettanto
indiscutibile che nel momento in cui l’uomo incomincia ad affinare il suo
intelletto e tende ad essere più razionale (in quella fase storica che Vico fa
corrispondere all’età degli uomini), incomincia a limitare l’utilizzo della sua
capacità immaginativa e a diventare più “mentale”. Più l’uomo esce dal suo
“stato di ignoranza”, dunque, più cambia anche il ruolo e l’intensità della
fantasia all’interno della esistenza. La fantasia, allora, si trasformerà in
un’affinata facoltà poetica, in !Ivi, pp. 49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica
del 1710, a cura di A. Corsano, Adriatica, Bari 1966, p. 111. 693 Ibidem. 694
Ivi, p. 114. ! 219! una forza creativa che aiuta l’immaginazione
dei poeti e la loro capacità inventiva. La fantasia come qualità dei poeti, la
trasformazione dell’uso della metafora dalla sua precedente valenza filosofica
a quella prettamente artistica. Lo studio della sapienza poetica volta da una
vivida fantasia, segno di passionalità e sublimità del linguaggio della poesia
che, tuttavia, deve essere ben distinta da quel tipo di sapienza che invece
caratterizza il pensiero filosofico. Grassi avverte la possibilità di
interpretare attraverso la lente del progresso razionale l’ingegno e la
fantasia ma sposta l’attenzione verso l’ambito più originario della formazione
del mondo umano. Egli asserisce che “si potrebbe sostenere che Vico attribuisca
al discorso fantastico e metaforico solo il significato di un parlare
improprio, che diventa appropriato solo attraverso la logica, poichè egli
restringe l’uso del parlare metaforico e fantastico a un primo periodo della
storia. Noi possiamo rispondere a questa osservazione guardando ai fatti, cioè
chiarendo la relazione tra l’attività ingegnosa e immaginativa e senso comune,
o esaminando più profondamente il concreto dominio in cui l’ingegno e la
fantasia sono capaci di costruire il mondo umano”695. Con la fantasia,
l’ingegno e il senso comune è in gioco il tema della fondazione della civiltà
che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI. L’ora di Pan e la morte di Pan: mito
e arte come genesi del mondo umano L’analisi del linguaggio poetico come
fondazione della comunità politico sociale ci consente di comprendere
l’estensione del discorso grassiano sul mito. In linea con l’interpretazione di
Gentili dobbiamo interpretare il ruolo politico che il mito riveste in Grassi
alla luce della relazione tra mito e poesia. Nella Introduzione al testo di
Grassi Arte e Mito edito per la prima volta in tedesco nel 1957696, ristampato
nel 1990, frutto di una rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel
1956 con il E. Grassi, La priorità del
senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, cit., in Id., Vico e
l’umanesimo, cit., pp. 50-51. 696 Id., Kunst und Mythos, Hamburg, Rowholt,
1957; seconda edizione riveduta e ampliata E. Grassi, Kunst und Mythos,
Frankfurt a. m. Suhrkamp] titolo Mito e arte in Rivista di filosofia, Gentili
affronta il problema del mito in Grassi quale evento originario che fonda una
catena di relazioni, che dà inizio ad una serie. Il lavoro condotto da Grassi
sul mito è inquadrabile all’interno di una prospettiva di demitizzazione che
non è omogenea a quella di razionalizzazione. “Nella misura in cui – Grassi –
legge il mito alla luce delle sue relazioni, porta allo scoperto il nesso
intrinseco tra mito e demitizzazione”697. Come interpretare allora la relazione
complessa e articolata tra il mito e i suoi prodotti alla luce del nesso
mito-demitizzazione? Grassi analizza il mito quale atto di fondazione
originario, arcaico, indeducibile, attraverso le relazioni che lo stesso mito
fonda: relazioni retoriche e poetiche, religiose e anche filosofiche. Tuttavia
la filosofia interpretata come sapere dedotto e non originario non può avere il
ruolo di fondazione che solo la poesia riveste. Per Grassi il “mito fonda
(begründet) il logos, quindi il mondo indicativo quello dimostrativo”698. Nella
ricostruzione grassiana il mito ha una duplice valenza: esso è il racconto che
è alla base delle arti imitative: non solo della tragedia o della commedia, ma
persino della musica, della danza – ma è anche l’unità del significato di mito
come storia sacra e di mito come fabula. Leggiamo in Arte e mito che “il mito
esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima,
originaria ed onnicomprensiva, costituendo in questo modo un kosmos in sé
compiuto. Mito è ciò che dà ordine”699. L’essenza del mito va collocata
nell’ambito della formazione umana di un mondo dotato di un’unità strutturale e
ciò che esso rivela è la temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della
prima formazione culturale in cui si dispiega la coscienza temporale umanistica
poiché nel mito “domina il tempo che costantemente ritorna”700. Il filosofo
italiano, anche sulla scorta dello studio di Malinowsky, Kerényi, Otto,
individua due significati fondamentali del mito701: Id., Arte e mito, tr. it. a cura di C.
Gentili, La città del Sole, Napoli 1996, p. 27. 698 Id., Potenza dell’immagine,
cit., p. 85. 699 Id., Arte e mito, cit., p. 150. Corsivi nostri. 700 Ivi, p.
166. 701 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 221! -! il mito come
favola e creazione artistica -! il mito come realtà religiosa esemplare Nel
primo significato – il mito come favola e creazione artistica – Grassi si rifà
ad Aristotele e all’analisi condotta nella Poetica sul mito come “sintesi delle
azioni” in cui è sovrapponibile la sua valenza di fatto con quella di
composizione di fatti. Accanto all’idea di mito come realtà vivente, sacrale,
in cui la temporalità infinita è sospesa in un orizzonte chiuso e circolare
compare il tema dell’arte come favola, racconto, mito, composizione dei fatti.
Qui occorre sottolineare un aspetto di non secondaria importanza. L’arte si
pone come demitizzazione poiché “nasce nell’istante in cui l’ordine assoluto –
espresso dalla realtà religiosa – viene infranto. Nel momento in cui ci si
distoglie dall’ordine eterno e in sua vece si manifesta l’ordine possibile,
sorgono i progetti umani, individuali”702. L’arte si pone come articolazione
specifica di una possibilità intrinseca al mito – il suo divenire possibilità
umana – e non come razionalizzazione della dimensione mitico-sacrale
originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno strappo, una lacerazione, una
rottura: la temporalità e la spazialità sacre dell’universo mitico si
disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo artistico. Nel secondo
significato il mito appare come realtà sacrale, religiosa ed esemplare. Per
Grassi “questo mondo mitico è sostanzialmente distinto da quello profano, in
quanto il profano presuppone una temporalità, una caducità, un
essere-sempre-diversamente [...] perciò lo spazio profano non è neppure mai
chiuso, ma si perde in una dimensione sterminata e senza confini”703. Tra il
mito e l’arte dunque ritroviamo una differenza che si situa innanzitutto nei
due tipi di temporalità e spazialità vissute. Eppure mito e arte hanno in comune
l’esigenza di riunificazione della molteplicità dei fenomeni sensibili sotto un
ordine, una legge, un kosmos. Scrive Grassi che “il mito esige di sottomettere
la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria,
onnicomprensiva, costituendo in questo modo un
Ivi, p. 158. 703 Id., Arte e mito, cit., p. 159. ! 222!
kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine. Stando a questa concezione, il
mito racchiude gli elementi eternamente esistenti dell’esistenza umana e li
rappresenta: ciò che esso rivela è l’eternamente presente”704. Nel mito viviamo
quella connessione con il mondo circostante – l’ora di Pan di cui abbiamo già
parlato in relazione all’esperienza sudamericana di Grassi – che appare a
Grassi come “l’ora in cui la realtà frammentaria quotidiana si trasforma in una
unità ed attualità terribile, fuori del tempo. Nel mito domina la pienezza di
una realtà che incombe sul singolo e non lo lascia più sfuggire”705. Se il mito
in cui l’uomo si trova, come l’animale immerso nel cerchio funzionale
simbolico, è esemplificato con la metafora dell’ora di Pan, l’arte è
rappresentata invece come la morte di Pan, come “l’infrangersi del mito”706. Di
fronte alla disintegrazione del mondo mitico-sacrale per il pensatore “l’uomo
ricorre ai ritrovati tecnici” – l’arte come poiesis e come techne – “quando ha
perso di vista i riferimenti a una realtà fuori dal tempo. Propriamente in
questo istante sorge l’empeiria, la necessità di trovare un guado attraverso il
fiume delle impressioni sensibili che si sono staccate dall’ordine
originario”707. L’emepiria va interpretata come una realizzazione del logos
(non inteso come ragione o intelletto) e non in senso materialistico. Secondo
il filosofo si tratta della prima fase di ordinamento dei fenomeni sensibili.
“L’empeiria è il primo passo nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è
passività, non è impressione”708. Nell’azione di conferimento di unità, di
selezione e ordinamento dell’empeiria possiamo rintracciare i caratteri
dell’arte. Infatti il filosofo giunge a chiedersi se l’arte e l’empeiria non si
identifichino in questo aspetto ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale
risiede nel carattere di produzione insito dell’arte. Ivi, p. 150. 705 Id., Mito e arte, cit., p.
150. 706 Ivi, p. 151. 707 Ibidem. 708 Id., Arte e mito, cit., p. 92. !
223! Se con l’emepeiria siamo di fronte ad una constatazione, per quanto
ordinata, dei fenomeni – il termine usato da Grassi è fest-stellen in
riferimento all’empeiria709 – con l’arte siamo di fronte alla produzione di un
modo umano a partire dal mondo frantumato resoci accessibile attraverso
l’empeiria. “L’empeiria sembra avere la sua radice nella necessità di ordinare
i fenomeni sensibili, ma non è in grado di conferire ordine complessivo. Essa
comunica di volta in volta un mondo frantumato, nei cui frammenti noi vediamo
rispecchiato un kosmos in mille parti rilucenti. La potenza dell’arte invece
risiede nella sua capacità di produrre un cosmo, un mondo ordinato dotato di
un’unità significativa. L’arte come il mito è “il progetto universale delle
possibilità umane”711 e soprattutto la poesia assurge per Grassi a evento
privilegiato della relazione uomo-essere. Ma è possibile attraverso la poesia
esprimere e dire in modo immediato il mito? Oppure la dimensione poetica in G.
è una forma della ricezione mitica, una forma demitizzata del mito? Per
comprendere l’essenza e il valore di fondazione del mito non dobbiamo prestare
attenzione al passaggio dal mito al logos – dove il mito appare come una
prestazione arcaica della ragione e il logos come un mito razionalizzato – ma
al nesso tra mito e demitizzazione. Si tratta di un movimento tutto interno al
mito e che si intreccia al tema della fondazione. Il mito in quanto “topos
atopos” è premessa, origine che non può essere conosciuta ma detta attraverso
la poesia. Grassi parte da una idea di mito come fondazione origine e inizio,
come prestazione fondativa (Begründung). “In questo senso il mito – sia come
realtà religiosa esemplare, sia come creazione artistica e quindi come favola –
può venir considerato come il principio instauratore originario di una comunità
[...] con l’ordine – che pone una molteplicità di movimenti entro un’unità – si
preannuncia la realizzazione dell’aspetto sociale”712. L’interpretazione
grassiana della Poetica di Aristotele pone in luce l’aspetto di Ivi, p. 90. 710 Ivi, p. 94. 711 Ivi, p. 168.
712 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 224! secolarizzazione insito
nel mito: il mito disvelando “l’ampia scala delle possibilità umane”713 corre
il rischio di generare un’arte secolarizzata: l’estetica714. Come sottolinea
Amoroso, in Grassi l’individuazione di una via di accesso al mito, alla poesia
e all’arte “in rapporto al concreto operare della storia”715 avviene attraverso
il ripercorrimento della filosofia dell’umanesimo che nell’arte avrebbe
espresso uno svelamento, una Lichtung dell’essere. IV. XII. La funzione
trascendentale dei concetti di Wahn e Langweile nelle meditazioni leopardiane
Nel corso della trattazione sono emersi due concetti chiave: quello della
fondazione della civiltà e quello del disvelamento: si tratta delle questioni
supreme a cui Grassi dedica gran parte della sua indagine storico-filosofica
sui temi dell’Umanesimo. In questo orizzonte teorico due figure capeggiano
sulla scena filosofica descritta da Grassi: Vico – come abbiamo già visto – e
Leopardi, su cui la critica poco si è soffermata. Entrambi appaiono in veste di
filosofi delle origini del mondo umano attenti alla ricerca dei fattori primi
di umanizzazione e di fondazione politico-civile i cui plessi teorici si
inseriscono a pieno titolo nel percorso grassiano di ricostruzione
dell’antropologia delle origini, della fondazione civile e del disvelamento. La
fondazione fantastica e il disvelamento vichiani e la funzione trascendentale
dell’illusione e il ruolo metafisico del pathos della noia come sentimento
dell’apertura originaria in Leopardi rappresentano le tappe fondamentali di una
ricerca onto-antropo- logica che in Grassi si concretizza come formazione del
cosmo umano attraverso la fondazione mitica. Nel corso della sua lunga ed
operosa esistenza filosofica Grassi si è spesso misurato con le riflessioni e
la personalità di Leopardi. Tenendo presente la centralità che il concetto di
pathos assume all’interno del pensiero di Grassi è possibile comprendere come
il filosofo dedichi pagine concettualmente dense al poeta di Recanati,
istituendo confronti prima con Freud ed Epicuro (sugli Id., Arte e mito, cit.,
p. 183. 714 L. Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito di Grassi e il mito,
in AA. VV., Un filosofo europeo. G., cit., pp. 61-76, p. 62. 715 Ivi, p.
64. ! 225! argomenti del piacere e del dispiacere; del principio di
realtà e del principio di illusione; dell’edonè) poi con Schopenhauer (sui
concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In questa sede si è ritenuto
di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con il padre della psicoanalisi
e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal Grassi, quanto piuttosto di
prendere in considerazione le suggestioni teoriche che il poeta sollecita nel
cammino di pensiero del filosofo nella consapevolezza dell’originalità e
discutibilità delle tesi grassiane su Leopardi che, come vedremo, non seguono i
dettami del “filologicamente corretto” ma piuttosto fanno interagire Leopardi
con i concetti chiave del suo sistema onto-antropo-logico. Quale ruolo può
avere Leopardi all’interno dell’iter di pensiero grassiano e qual è il valore
della teoria dell’illusione a cui il pensatore conferisce tanta importanza da
giungere a definire il poeta italiano teoreta dell’illusione716? Il filosofo
sottolinea quanto l’approccio leopardiano sia distante dal razionalismo della
metafisica astratta del “secol superbo e sciocco” insistendo soprattutto su
quei concetti, quali illusione e noia, piacere e dolore, natura e passione in
cui Leopardi assume un atteggiamento critico verso l’ottimismo razionalistico e
il tema della civilizzazione. Il Leopardi grassiano come critico del tempo
moderno e delle devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo e inesplorato,
che si iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il poeta e Vico
costituiscono gli “ultimi rappresentanti”. Accanto all’operazione ermeneutica
di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento che Leopardi
può essere considerato come una delle ultime manifestazioni dell’umanesimo. Si
tratta di due temi – il “Leopardi umanista” e il “Leopardi teoreta
dell’illusione” – strettamente connessi perché consentono di fugare l’idea che
la lettura grassiana possa essere considerata come un tributo, l’ennesimo, al
grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una interessante
prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se prendiamo in
considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati constatiamo che
egli appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I primi scritti
1922-1946. La lettura dei saggi risalenti
G., La metafora inaudita] al periodo compreso tra gli anni ‘30 e ‘40
mette in luce la presenza di Leopardi e delle tematiche dello Zibaldone, che
resta il preponderante testo di riferimento delle note grassiane sul poeta.
Confrontando le citazioni di Leopardi e i contesti teorici di riferimento
registriamo che esse compaiono sempre in relazione all’analisi dei concetti di
formazione (Bildung), di noia, di illusione: idee centrali se consideriamo
quanto essenziale sia la formazione nel nuovo ideale di umanesimo, la noia e
l’angoscia nella sua analitica esistenziale, e l’illusione come fattore
antropogenetico insieme al mito e al linguaggio nell’analisi antropologica
grassiana. In Il confronto con la filosofia tedesca in Italia del 1941 si fa
cenno a Leopardi nell’ambito della tematizzazione della Bildung degli studia
humanitatis che coinvolge una questione ben più ampia della mera educazione
filologica717. Per il filosofo infatti occorre distinguere una
pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della
parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e
sulla sua formazione. Egli afferma che “il filosofare italiano non comincia con
il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in
relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti
antichi, il mondo antico [...]. Ricordo solo che il compito umanistico della
mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico,
letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i
testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione
dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava
un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle
parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza
quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente
all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il
formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo,
praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”718. La
distinzione tra Bildung e Erziehung mostra come la posta in gioco nella nuova
idea di umanesimo sia la messa in discussione dell’essenza dell’uomo, della sua
condizione, che accomuna, secondo il filosofo, le figure di Bruno, Vico e
Leopardi. Così come per Bruno “ogni rapportarsi
Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, pp. 871-886, in
Id., I Primi scritti 1922-1946, La Città del Sole, Napoli 2011, p. 882. 718
Ivi, p. 881. ! 227! originario nei confronti della realtà, sia nel
senso politico come in quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire,
dal patire qualcosa di originario e indeducibile, che riveli mondi
differenti”719 anche per Vico e Leopardi720 la funzione trascendentale del
pathos consente un rinnovamento del concetto di filologia. Il co-estendersi dei
temi filologici e antropologici implica una rivalutazione del concetto di
pathos da parte di Grassi che tuttavia non indulge ad una forma più o meno
celata di irrazionalismo illogico. Anzi il valore logico della sua ricerca
emerge laddove egli tenta di proporre un concetto complesso di logos che non
esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al
pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Nella sua
prospettiva il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce
all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo
esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della
differenza ontologica. Secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul
palcoscenico della storia”721: esso è “passione abissale”722 in cui accade il
fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi. Nella prospettiva
grassiana il pathos metafisico è ciò che Leopardi chiama illusione e natura.
“Le passioni hanno un carattere trascendentale, esse sono cioè condizione delle
esperienze e da esse non deducibili”723 e per il poeta indicano il nostro
lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui
urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Grassi afferma che
“l’espressione illusione, che Leopardi usa in questo senso, ha, rispetto alla
terminologia tradizionale Ivi, p. 882. 720 Ivi, p. 883. 721 Id., La metafora
inaudita, cit., p. 92. 722 Ivi, p. 40. 723 Id., Illusione, natura e critica del
mondo intellettuale moderno, pp. 156-175, in AA. VV, Tradizioni della poesia
italiana contemporanea, Edizioni Theoria, Roma] che si serve della espressione
a-priori, il grande vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del
trascendentale”724. Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello
Zibaldone l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria
angoscia – che nelle “meditazioni leopardiane” è sostituita dalla noia – in cui
“questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale
manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da
esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come
essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione.
L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità
dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere)
e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’ esistente
nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”725. Nel pathos
dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso
tempo di realizzare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare
l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di
orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza
di mondo a cui il filosofo fa riferimento sono il regno dell’Aperto in cui è
assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Egli asserisce che
“in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non
essendo la nostra dimensione, ci paralizza”726 e ancora che “qui gli oggetti
diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro,
non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la
sensazione del precipizio”727. Ivi, p.
168. 725 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I
primi scritti, cit., p. 329. 726 Id., Assenza di mondo, in “Archivio di
filosofia”, Roma, pp. 217-247, p. 226 727 Ibidem. ! 229! A
caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente
metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario.
La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è
costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica,
che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e
nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”728. Essa consente di
prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi,
dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione
storica. É proprio questo concetto metafisico di pathos che Grassi ritrova nel
tema leopardiano dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio
Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla
tradizione italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter
Otto il cui centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il
singolo (l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo Grassi trova una
risposta nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del
problema della parola come massima espressione della vita individuale, la quale
però “non ha proprio nulla a che fare con l’individualismo [...] – ma – conduce
alla questione sistematica dell’essenza del comune”729. La ricerca grassiana
sulle modalità di configurazione del problema della parola nella tradizione
italiana e sulla sua correlazione al tema dell’essenza dell’uomo, “non
irrigidendosi in una teoria individualistica ma – al contrario – rischiarando
il problema di ciò che è comune”730 ha come esito la convinzione che
l’individuale sia un concetto molto distante dal soggettivo e dal relativo, da
ciò che è “riferito all’io”731, ma sia invece legato all’oggettivo, a “ciò che
dischiude il comune”732. Id., Il dramma
della metafora, cit., p. 131. 729 Id., Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, in Id., I primi
scritti, cit., p. 903. 730 Ivi, p. 907. 731 Ivi, p. 909. 732 Ibidem. !
230! L’insistenza sul tema dell’oggettivo, l’autenticamente originario
che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in qualità di objectum, conduce
Grassi verso la teoria leopardiana dell’illusione come l’a-priori, il
trascendentale che conferisce ordine – infatti Grassi parla di bella illusione
– e che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a sapere, si impone
come necessaria, essenziale e comune prassi umana di trasformazione del
reale733. Anche Il reale come passione e l’esperienza della filosofia del 1945
dedica una sezione molto significativa al poeta in riferimento al concetto di
noia e passione. Afferma il pensatore che per Leopardi “la noia si rivela
inaspettatamente come passione poiché la vita è sempre nella sua essenza
impulso alla compiutezza e alla felicità [...] così l’uomo non può mai
sprofondare nell’assoluta insensibilità e indifferenza”734. La noia come morte
della vita, vita non vita, vita dell’indistinto e dell’indifferente tuttavia è
pur sempre passione, sia pure nel senso del più basso gradino dell’esistenza.
Siamo venuti ai temi principali che animano la lettura grassiana di Leopardi presente
nei saggi più sistematici dedicati al poeta: Wahn, Natur und die Kritik der
modernen Verstandeswelt (1949), Introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des
schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit735; Passione e illusione. Il
principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni Ivi, p. 914. 734 Id., Il reale come passione
e l’esperienza della filosofia, in Id., I Primi scritti, cit., p. 1027. 735
Id., Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt. Si tratta di una
introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der
modernen Zeit, Verlag, Bern, 1949, pp. 9-34. Tradotto in italiano da R. Copioli
con il titolo, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno; Der
italienische Schopenhauer; Leopardi e Freud. Attività metaforica o
schizofrenica? (1989)738. Il testo del ’49 è una scelta di passi tratti dallo
Zibaldone, considerato da Grassi come lo strumento per gettare uno sguardo
“all’officina poetica di Leopardi”. Fu pubblicato per la collana Überlieferung
und Auftrag che nasce dall’intenzione di porre a tema determinati problemi
della tradizione umanistica, che, come è noto, per Grassi sono quelli della
rivalutazione della poesia e della retorica, della fantasia e dell’ingenium.
Nel saggio introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen
Zeit tradotto in tedesco da Joseph Partsch Grassi prende le distanze
dall’impostazione crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal
Vossler 739. Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di
Recanati Grassi ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto
teoretico contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano
che, sulla scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea
centrale che ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi
zibaldonici non tenendo conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di
restituire la genuina antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul
concetto di illusione. Secondo Grassi “generalmente le tesi pessimistiche del
Leopardi, Id., Passione e illusione. Il
principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni in
“Nuovi Annali della Facoltà di magistero dell’università di Messina” presentato
in redazione differente al Congresso su Leopardi a Roma nel 1988. pp. 37-47,
contenuto ora in E. Grassi, La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990. 737 Id., Der italienische
Schopenhauer, pp. 125-138, in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart,
Piper Munchen 1987 a cura di Volker Spierling. 738 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o
schizofrenica? In AA. VV, Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C.
Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 23-36. 739 Cfr., Id., Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., pp. 158-159. Cfr., le
affermazioni crociane contenute in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla
letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver
asserito che “la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre
intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia ad uso privato”, ivi, p. 99, afferma
che “Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite, non
sistemate”, ibidem. 740 Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e
A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del
pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica
fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) cfr. S. Lanfranchi, Dal
Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica
marxista, pp. 247-262, in “Laboratoire italien”, 2012, Lione. !
232! così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro formulazione
nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non potrebbe
essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma soprattutto
quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo significato
sistematico, etico, sociale e storico”741. Lo scopo è esplicitato con tutta
chiarezza: Grassi si propone di rendere oggetto di discussione non il Leopardi
pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi “antropologo”. Il legame
tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione, Lo
Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione non
sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione, mania,
pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi dell’‘87, Lo
Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana – e Passione
e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito illusione
ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto evidente se
si prendono in considerazione le affermazioni grassiane sui concetti di ordine,
di costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo
Schopenhauer italiano: “il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la
scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco
inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal
momento che l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo
attraverso il ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come
illusione, come ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine,
poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni
creazione storica. La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione alla
ragione. Per il filosofo “Leopardi si oppone al predominio della ragione ed esplicitamente
alla filosofia tedesca razionale astratta”744. Il riferimento è al passo
zibaldonico sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui Grassi crede
di trovare traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico, che si
identifica con una teoria del nous o dell’ingenium in cui “la priorità della
natura [...] si esprime attraverso la passionalità come E. Grassi, Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, p. 157. I corsivi sono
nostri. 742 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit.,
p. 33. 743 Id., Der italienische Schopenhauer, cit., p. 134. Traduzione nostra.
744 Id., Leopardi e Freud, cit., p. 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone, 5-6 ottobre
1821. ! 233! illusione”746. Dall’angolo teorico dal quale il
filosofo guarda allo Zibaldone “il mondo umano non è una costruzione della
ragione, del logo, ma è il prodotto di ciò che Leopardi chiama – in antitesi
alla ragione – ingegnosa illusione, cioè la sofferenza dell’abissale appello
della natura Leopardi contrappone così non solo alla ragione ciò che egli
chiama illusione – perché razionalmente non deducibile– ma identifica questa
con l’attività ingegnosa”747. Attraverso l’illusione la physis originaria,
l’Abissale, realizza la storia, accade il mondo, avviene la parousia della
realtà, il suo phainesthai. Altre riflessioni teoriche degne di nota presenti
nella lettura di Leopardi sono quelle relative ai concetti di natura e vita. Il
filosofo giunge ad affermare che “i concetti di vita, natura, passione e
illusione coincidono”748 . La vita – che sin dagli esordi greci della filosofia
è stata interpretata come energia ed entelechia, come ciò che ha in sé il
lavoro, il limite e il fine, l’ergon e il telos – in Leopardi diviene qualcosa
di intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi ultimi concetti non hanno
carattere negativo ma sono contraddistinti da una positività originaria
generatrice di ordine, di mondo: il nulla prima di generare disperazione e
dolore749 entra in contatto con la noia. Nei saggi “leopardiani” di Grassi la
Langeweile assume quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi Scritti: quello
di chiusura mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo animale – e allo
stesso tempo di apertura mondana possibile solo su quella chiusura. La noia è
l’aperto, la Lichtung nella quale l’uomo fa esperienza della propria vita che è
innanzitutto temporalità. La noia in quanto esperienza dell’uniforme e
dell’indistinto, è il contrario della vita. La vita invece è esperienza della
distinzione e della singolarità. L’esperienza della noia in Leopardi secondo
Grassi è caratterizzata da una positività originaria che la rende ben più
profonda di una semplice tonalità emotiva. Del resto che il pathos avesse una
costituzione metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto alla
componente soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su Stimmung e
sulla E. Grassi, Leopardi e Freud, cit.,
p. 32. 747 Ivi, p. 33. 748 Id., Illusione, natura e critica del mondo
intellettuale moderno, cit., p. 165. 749 Ivi, p. 160. ! 234!
Leidenschaft. La noia nel suo carattere esperienziale assurge a “facoltà di
patire”. Afferma Grassi che “l’indifferente, l’uniforme, li possiamo cogliere e
di essi possiamo avere esperienza, solo se si manifestano in modo finito, e la
noia – nella misura in cui noi la sopportiamo – ci evidenzia come noi non
possiamo vivere nel non limitato e nell’indifferente. In altre parole: se tutto
ciò che è e di cui parliamo può presentarsi solamente a condizione che si
mostri entro certi limiti – cioè come qualcosa di definito e distinto – allora
anche la noia può essere colta solamente in quanto impossibilità di esistere
nel non-limitato, nel non-dipendente”750. Nella prospettiva che abbiamo cercato
di delineare emerge che nella noia è coinvolto lo stesso tema della léthe e
dell’illatenza: il gioco di svelamento e nascondimento, insito nel cuore della
manifestatività, che decide dell’umano. La noia leopardiana come facoltà di
patire allora diviene un principio storico-culturale che solo secondariamente
scade a povertà di azione e pigrizia ma si erge a condizione trascendentale del
mondo storico dell’uomo. Essa è la Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e
del mondo, in cui l’avvento dell’umano accade innanzitutto linguisticamente.
Qui si installa un altro tema centrale della lettura grassiana: la critica del
mondo moderno presente nelle annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche
la qualità umanistica del poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema
dell’umanesimo, Grassi afferma, ponendo una netta demarcazione tra il proprio
modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, che “gli
studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella
riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei
problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto
originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo
mondo”751. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come
una forma più o meno larvata di antropocentrismo tout court, è la
problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del
contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si
declina come ricerca sulle strutture del mondo umano. Ivi, p. 161. 751 Id., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, Guida, Napoli. Alla metafora fotica nell’accezione
heideggeriano-grassiana sopra delineata fu sensibile già Leopardi, che fin da
Memorie del primo amore e poi via via nel Discorso di un Italiano intorno alla
poesia romantica, nello Zibaldone, nelle Operette morali e nei Canti mostra un
timore irrequieto nei confronti della luce diretta e accecante – sia essa
lunare o solare – che genera un guardare piacevole e sublime. Grassi non
sottolinea l’importanza della metaforica della luce né l’attenzione alla
connessione vita-apertura752 pur presente nello Zibaldone, privilegiando il
tema dell’illusione nelle sue molteplici sfaccettature storiche e fondative,
nel convincimento che in quel concetto sia esplicato un accesso alla filosofia
non pregiudicato da una metafisica razionalistica latente. Leggiamo nello
Zibaldone che “per lo contrario la vista del sole e della luna in una campagna
vasta e aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della
sensazione”753; e ancora : “per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura
dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si
perda ec. è pure piacevolissima”754. La priorità trascendentale della radura
sulla luce che si offre, si dà in un atto di donazione (l’Es gibt) in cui si
co-estendono luce ed essere, è viva anche in Leopardi, il quale usa dei termini
molto cari a G. – e al suo maestro Heidegger – ma anche a Vico: sylva755,
luce756, critica della metafisica757, rivalutazione della poesia. Temi G. Leopardi, Zibaldone, “Io credo che tutti
questi tali verbi sieno originariamente fatti da altri verbi ignoti, come
vivesco dal noto vivo, hisco dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in
sco. E lo credo perché, come vivesco significa divenir vivo, cioè divenir
quello che dal verbo vivo è significato essere, cioè esser vivo, e come hisco
significa aprirsi, cioè divenir aperto, mentre hio significa essere o stare
aperto, ec.; così tutti i detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco,
cresco ec. di cui non si conoscono gli originali, significano però divenire,
incominciare a essere o a fare quella tal cosa o azione. Perché la mancanza
delle vive e grandi illusioni spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e
insomma naturale come l’antica, introduce la considerazione del vero, la
cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo
all’immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalla verità,
dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie
naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella dei settentrionali,
massime oggidì, fra’ quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa
fondata sul pensiero, sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle
scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha
piuttosto che fare colla matematica sublime che colla poesia”, fondamentali,
questi, che corroborano l’idea, in altro modo proposta da Grassi, di un
Leopardi filosofo dell’esistenza umana interpretata come oltrepassamento
dell’immediatezza e allo stesso tempo come natura che si apre alla storia. Come
abbiamo visto, l’indagine grassiana, accanto all’attenzione all’ambito
ontologico, si concentra sulla dimensione ontica delle concrete Lichtungen, che
si converte in analisi del linguaggio. Per il pensatore “la cosa sorprendente,
alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto
originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico
mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma
piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...]. Il
problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra
parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo
nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo
significato”758. Con l’umanesimo, secondo il filosofo non ci si interroga più
circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito
del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è
quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua
prigione. Egli, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra
res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad
ente – e per Grassi occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli
enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente
è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico
dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, di cui Leopardi fa parte
secondo Grassi, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa,
della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le
infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo
italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi
di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e
attraverso l’azione umana”759. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività
delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”760. E. Grassi,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 759 Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini e Associati, Milano
Infatti, per il filosofo milanese, la forma sostantivata pragma esprime
l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso
la praxis umana. Entra sulla scena assieme al concetto di prassi e di parola
quello di situazione. Eccoci giunti ad un nodo concettuale di grande spessore
che coinvolge la figura di Leopardi: la co-estensione del mondo (l’oggettivo) e
dell’uomo – che si consuma in un rapporto pratico (la fondazione politico-culturale)
e linguistico che eccede i limiti dell’omologhia e dell’adaeguatio e sconfina
verso la polisemia – si ritrova nel poeta di Recanati e nella sua teoria
dell’illusione che si apre ai temi centrali per Grassi della situazione, della
circostanza e dell’occasione. Per Leopardi “attraverso la priorità
dell’occasione, della circostanza, della situazione, noi dobbiamo corrispondere
all’appello riconoscendo il significato sempre differente degli enti”761. Qui
entra in gioco l’illusione nella sua identità con l’ingenium. Per Grassi con la
teoria dell’illusione “di cui con estrema lucidità ha riconosciuto la necessità
e la vanità, [Leopardi] ha compreso che il problema dell’uomo è quello di
essere sempre gettato in una situazione concreta, quello di trovarsi sempre
sospeso sul precipizio del qui e dell’ora, che gli pongono domande a cui non è
possibile dare una risposta razionale, universalmente astratta, ma solo
passionale. Con il poeta italiano abbiamo una riconfigurazione del tema
antropologico che implica una svolta linguistica e ontologica. Siamo di fronte
ad una Kehre verso un logos polisemico che restituisca la multilateralità e
polidimensionalità di un reale che si dà fenomenologicamente per scorci,
occasioni, circostanze. Siamo di fronte ad una Kehre verso un’ontologia
dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione nel suo
stesso apparire storico si mostra per gradi e forme dicibili solo attraverso il
linguaggio metaforico, poiché il metapherein, la trasposizione, è la struttura
stessa della nostra facoltà di apprensione della realtà o, per usare un termine
caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il reale. 761 Id., Leopardi e
Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 762 Id., La metafora
inaudita La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre
dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi
dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, Il
dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura
fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per
identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto in cui possiamo cogliere
il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del
significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni
indicativi”764 provenienti dal “colloquio con l’ abissale che urge, che per
pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa
spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo
l’indeterminato. Anche in LEOPARDI (si veda) G. intravede le tracce di un
colloquio mai interrotto con l’Abissale, l’Originario, l’Essere in cui si gioca
la nostra esistenza: è il senso stesso dell’illusione come ingresso nel ludus
dell’esistenza, come reazione all’agorafobia primordiale. “Nel gioco giocato
dell’esistenza (e del linguaggio in cui quel gioco viene parlato) si liberano
molteplici possibilità, ognora rinnovate, imprevedibili, e dunque tali da
frustare qualsiasi tentativo di prevederne razionalmente il senso. Ma che cos’è
l’illusione di Leopardi se non, appunto, un in-ludersi, un entrare nel ludus,
uno stare al gioco dell’esistenza?”766. Come è emerso da queste considerazioni
il “Leopardi di Grassi”, teoreta dell’illusione, è il Leopardi portavoce di una
filosofia umanistica che si traduce nell’idea di una antropologia che contiene
in sé i temi del linguaggio e dell’essere. Afferma Grassi in La metafora
inaudita che “Leopardi insegna [...] che l’unica filosofia in grado di tentare
questa spiegazione”767, il gioco dell’esistenza, “è una filosofia
dell’esistenza; una filosofia cioè che, senza pretendere di risolvere il 763 Id., Il dramma della metafora. Euripide,
Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina Tipografica, Napoli 1992, p. 165. 764 Ivi,
p. 14. 765 Ibidem. 766 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46. 767
Ibidem. ! 239! problema razionalmente, prenda atto dell’abisso su
cui ogni passione ci sospende”768. La focalizzazione sui temi dell’illusione e
della natura, della noia e della passione, che solo marginalmente toccano
l’ambito del pessimismo, ha svelato il legame con il grande tema antropologico
della costruzione del mondo umano. Che cos’è l’uomo e quale sia il suo posto
nel mondo: sono questi i quesiti che agitano l’onto- antropo-logia grassiana e
l’interpretazione dello Zibaldone di Leopardi che diviene ulteriore occasione
fortunata – insieme a Cicerone, Quintiliano, Ovidio, Bruni, Valla, Graciàn,
Vico, Ungaretti – per una meditatio sull’uomo che permea la sua prospettiva
neo-umanistica. Il Leopardi grassiano può essere interpretato, allora, come
pretesto per ribadire ancora una volta che l’umanesimo autentico come pensiero
poetante, come meditazione noetica e non metafisica, ha ancora una possibilità
di essere esperito a partire da una tradizione a cui non è stata conferita la
dovuta importanza. La traccia leopardiana nell’iter grassiano ha fatto
emergere, attraverso il concetto di ingegnosa e bella illusione, che
l’antropogenesi fa tutt’uno con l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo avviene
con le produzioni umane della civiltà, della storia, della cultura. Solo
illudendoci sperimentiamo la nostra forza, la nostra umanità, come insegna
Leopardi, e diveniamo artefici del nostro mondo. La filosofia dell’esistenza
proposta da Leopardi diviene un experimentum vocis, una poesia pensante o un
pensiero poetante. La )&0&*& '*&2o"& descritta da
Platone nella Repubblica769, l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene ripensato
da Grassi da un angolo prospettico differente: non da quello di una
epistemologia o gnoseologia – in cui il poetico per sua stessa natura incline
al vago ed indefinito, come insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al
fallimento – ma da quello di una antropologia delle origini del mondo umano in
cui la connessione poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione
umano-civile-politico. 768 Ibidem. 769 Platone, Repubblica, 607 b. !
240! Come è noto il plesso disegnato da Grassi di metafora-fantasia-ingegno
ha un valore teoretico- conoscitivo e solo secondariamente poetico-letterario.
Si tratta di facoltà che appartengono a quella topica che sempre precede nella
storia del mondo, come in quella dell’individuo, l’operazione mentale della
critica, l’arte del giudicare. Memore delle riflessioni vichiane della Scienza
Nuova e delle teorie barocche dell’ingenium di Graciàn e Peregrini, Grassi
affida all’ingegno la capacità di sintesi e connessione del molteplice empirico
fino al punto di farne la caratteristica specifica dell’uomo. E non poteva
mancare di sottolinearne l’importanza teorica e pratica presente in
Leopardi770. Ingenium come capacità di ritrovare; fantasia come facoltà di
visione delle somiglianze; metafora come atto di trasferimento del significato
e quindi creazione di una pertinenza semantica – e non come tropo linguistico,
sia esso di sostituzione o di comparazione – concorrono a delineare i
prolegomeni per un’idea di neo-umanesimo in cui la storicità dell’umano si
dispiega tra razionalità e fantasia. Quest’ultima si rivela come facoltà di
attivazione di procedure di formalizzazione concettuale, vera e propria facoltà
di apprensione del reale attraverso una struttura pato-logica, o
un’intelligenza senziente – per usare un’espressione di Zubiri, collega di
corso in Germania di G. Essa è il catalizzatore dell’umanizzazione del mondo.
Concentrandosi sugli aspetti figurativi, simbolici e semantici del logos Grassi
non rinuncia mai tuttavia alla filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti
e divenire noetica non più metafisica. “Se l’aspirazione profonda del
filosofare tradizionale è di giungere a una chiarificazione logica razionale,
oggettiva che parte da un’ontologia che culmina in una metafisica, quella di
Grassi ha come scopo l’elaborazione di un’idea di nous – dove nous si
identifica con ingenium772 – che ha come oggetto il G. Leopardi, Zibaldone, G.-
E. Hidalgo, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte,
Congedo, Lecce 1991, p. 15. 772 Ivi, p. 20. ! 241! reale,
“l’ontologia non logica ma situazionale”773 in cui la metamorfosi del mondo non
può che trovare espressione in un orizzonte di dicibilità che è metaforico.
L’antica lotta tra poeti e filosofi supera la secca alternativa tra un
tentativo di purificare la lingua da ogni ridondanza poetica e l’impresa di
epurare la theoria dal concetto. Nella prospettiva grassiana l’opposizione può
trovare una soluzione attraverso una rinnovata idea di umanesimo contrassegnato
da un filosofare che sia pratica esistenziale, non sterile sapere erudito privo
di vitalità e utilità. In questa ricerca di un’idea autentica di umanesimo
Leopardi riveste un’importanza fondamentale poco sottolineata, a nostro avviso,
dalla critica, che si è maggiormente concentrata sul G. lettore di VICO e
Heidegger. La svolta verso un filosofare noetico non metafisico si poggia su un
ripensamento, da un lato, della filosofia – sostituzione della metafisica con
l’ontologia non statica ma dinamica, non logica ma situazionale; ripensamento
del tema della verità connessa alle sue espressioni storiche – dall’altro,
della filologia, che non si riduce a “una mediazione delle opere antiche” ma è
una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’ essenza dell’uomo e sulla sua
Bildung a partire dal problema della parola. La ricostruzione di un’essenza
dell’uomo è al centro anche delle riflessioni del Leopardi grassiano teoreta dell’illusione,
il cui significato sociale etico e politico viene ribadito contro un’“Europa
tutta civilizzata”774 in cui “la civiltà, la scienza e l’impotenza sono
compagne inseparabili”775. Viene in mente il mondo vichiano dominato dalla
“boria dei dotti” in cui le forze autentiche dell’uomo, la natura e le
illusioni, hanno perduto la loro virtualità politico- fondativa per lasciare
spazio ad un sapere chiuso nei limiti del mos geometricus. Siamo di fronte
all’idea di tenere insieme linguaggio poetico e linguaggio filosofico come due
tensioni inseparabili e irriducibili all’interno dell’unico campo del
linguaggio umano che tenta di dire non l’indicibile. Leopardi, Zibaldone, 24
marzo 1821. 775 Ibidem. ! 242! l’indicibile non è altro che una
presupposizione del linguaggio – ma il dicibile con cui di volta in volta ci si
misura. L’attenzione grassiana verso il poetico, che restituisce le circum-stantiae
della res attraverso la molteplicità dei verba, va interpretata come l’ennesimo
tentativo di dire la cosa stessa della filosofia, l’autò tò pragma, ciò che è
in questione nella parola e nel pensiero, la res che, attraverso la parola e il
pensiero, è in gioco fra l’uomo e il mondo. “Così poesia e filosofia stanno
l’una accanto all’altra: chi non ha immaginazione, sensibilità, capacità di
entusiasmarsi o facilità a vivere belle rappresentazioni illusorie, non
conoscerà mai la verità, perché ogni analisi può essere portata avanti solo
dove la materia della vita è riccamente delineata. Non si tratta di riconoscere
il mondo a posteriori ma di giungere a conoscenza dei principi agenti, dai
quali innanzitutto può avere origine ogni mondo, anche quello della
filosofia”776. E Leopardi con le sue riflessioni ha insegnato, contro le
devastazioni dell’intelletto, questa filosofia dell’esistenza che guarda al
phainesthai, all’apparire nel quale viviamo, non con l’occhio della metafisica
ma con quello dell’ingegno, l’unico in grado di cogliere “l’appello che ci
chiama da questo abisso, L’appello dell’origine. G., Illusione, natura e
critica del mondo intellettuale moderno, Id., La metafora inaudita. Traduzione
di G. Natur, introduzione a W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik,
Hamburg, Rowohlt. Il nostro concetto di “natura” deriva dal termine greco [Questa
parola proviene dalla radice “phy” (latino “fio”, “fui”, tedesco “bin” – H. P.
Grice, “Heidegger is the greatest living philosopher, whereas Kaspers is a
has-been.”), di cui indica lo sviluppo. La! 341*1 racchiude tutto ciò che nasce
e diviene, e così comprende il cosmo nella sua totalità. Noi traduciamo !341*1
con il termine “natura”, dalla espressione latina “natura”, il cui SIGNIFICATO
(SENSO) esprime quello della parola greca (nasci, esser nato, crescere, affine
a gignere). Secondo l’originario concetto greco ciò che è immediato in quanto
cresce è visto come una realtà eccellente. Tuttavia occorre ricordare che per i
greci il crescere NATURALMENTE realizza sempre la legge insita ad ogni
sostanza. Pertanto sotto il termine “natura”, come principio del divenire, è compresa
molto spesso l’essenza di una cosa. Il concetto di “natura”, la
rappresentazione quindi che lo spirito umano si costruisce attraversa una lunga
e movimentata storia. La conoscenza dei fenomeni NATURALI muta e di conseguenza
cambia anche la concezione della natura. L’età pre-filosofica della cosmogonia
(sei secoli prima della nascita di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito
sull’origine del cosmo, del Tutto, è pervasa da rappresentazioni mitiche, in
cui già sempre la relazione dell’uomo con la natura gioca un ruolo centrale. Un
primo inquadramento non più mitico, ma filosofico del concetto di 341*1, di
natura, si ha nell’età antica con la Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e
Prodico, i più giovani contemporanei di Protagora) e la filosofia socratica.
Non più l’intera realtà è inclusa in questo concetto ma ora solo un suo settore
specifico. Per prima cosa i Sofisti hanno messo in gioco la 341*1 contro
il!%$μ$1 (legge), hanno posto il “naturale” solo in ciò che è fissato e posto
dall’uomo in sua contrapposizione.! Socrate nel porsi domande di natura etica
professa una bassa considerazione per una scienza della natura e vi contrappone
l’idea di una scienza dell’uomo. Da una parte c’è dunque la natura, dall’altra
l’uomo con la sua cultura: così di conseguenza agli albori del pensiero
occidentale si pone già il problema se sia più importante conoscere la natura o
l’essenza dell’uomo. Dopo un’importante fase iniziale con gli Atomisti e
Platone si arriva al grande progetto finale della filosofia della natura greca
con Aristotele. Non posso ora soffermarmi sull’analisi del contenuto di questa
dottrina a cui si è fatto cenno. Va però ricordato che le scuole peripatetiche
come gli epicurei, gli stoici, i neopitagorici, i neoplatonici, apportarono
variazioni che per noi non sono determinanti. La divisione tra Natura e Spirito
e quindi l’abisso tra la Fisica, da un lato, e l’Etica e la Logica, dall’altro,
si è mantenuta nello Stoicismo e nell’Epicureismo, per quanto lo Stoicismo
abbia costituito l’ultimo e unico tentativo di riconciliazione universale di
entrambi i regni: una lotta gigantesca ma alla fine inutile. Nel Neoplatonismo
alla fine la 341*1 perde del tutto la sua importanza e viene considerata come
una realtà irrazionale fondamentalmente nulla. Il pensiero cristiano dei primi
Padri della Chiesa adotta parzialmente l’originario concetto platonico
aristotelico di natura, per quanto questo suo preciso significato cambi e si
perda giacchè la natura intera non viene più concepita in modo classico ma come
creazione di Dio a partir dal nulla. Anche se nel Medioevo non c’è uno studio
autonomo della natura, tuttavia questa epoca conosce una scienza della natura
caratterizzata dalla volontà di conservare l’antica tradizione, soprattutto
quella aristotelica. Custodi dell’antica tradizione furono in primo luogo i
filosofi e gli scienziati naturalisti dell’Islam. L’apice della scienza della
natura medievale in Occidente è rappresentato da Alberto Magno, il quale
partendo dal pensiero aristotelico propone un quadro della natura completo ed
esauriente. Con l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento sorge una nuova
concezione della natura, che per noi è della massima importanza. L’accesso alla
natura è cercato soprattutto attraverso l’esperimento – un concetto
specificamente moderno che per la prima volta con Vinci assume una chiara forma
teoretica (i suoi scritti più noti sono il Trattato sulla pittura e
Sull’anatomia dell’uomo). L’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo
conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa
attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per
un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa
soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua
interezza ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle
domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue
capacità. Al concetto dell’esperimento fondato sulla teoria di Leonardo
corrisponde anche la nuova ! 245! fondamentale teoria di Bacone.
Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo per la moderna
conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa soprattutto il suo
dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto fondamentale della
moderna conoscenza della natura che l’Antichità non conosceva: la tecnica, la
sua azione non nel senso di un sapere teoretico ma nel senso di lavoro. Il
concetto di esperimento si perfeziona con GALILEI (si veda) e grazie a lui e a
Keplero noi facciamo esperienza del capovolgimento del concetto antico di
Universo. Il grande difensore di questo nuovo concetto di natura e di universo
fu Giordano Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore allontanamento dal
concetto copernicano di mondo: perciò non si tratta solo di contrapporre il
nuovo sistema solare al vecchio sistema geocentrico ma di riconoscere che si dà
non un solo mondo ma infiniti molti. Nonostante la dovuta brevità (di questa
trattazione) qui appare doveroso soffermarmi. Fino all’età moderna il sistema
del mondo vigente traeva origine dalla cosmologia aristotelica, era diffuso
dagli eruditi alessandrini, da Ipparco e infine rappresentato da Tolomeo.
Questo sistema aristotelico-tolemaico vedeva il mondo con approssimazione: la
terra cioè giaceva immobile al centro del cosmo. La terra e l’universo hanno
una forma sferica. I movimenti del globo sono spiegati ipotizzando l’esistenza
di dieci sfere fisse, immateriali e concentriche in cui si trovano le stelle.
La più lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le altre i pianeti. Ogni
pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste gravitano intorno alla
terra con i suoi annessi corpi celesti. In contrapposizione a questa immagine
del mondo Copernico sostiene nel suo scritto De revolutionibus orbium
coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al centro dell’universo e che la
Terra farebbe parte dei pianeti e che questi girano completamente intorno al
Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha parteggiato per questa visione
anche Giordano Bruno non limitandosi solo a considerazioni astronomiche ma
soprattutto giungendo alla convinzione filosofica che il mondo non può essere
finito. Nella sua opera De la causa, che si confronta con la filosofia
tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha né centro né confini. Il mondo
che l’uomo conosce diviene così solo uno tra molti altri. Ricordiamo infine
solo il decisivo cambiamento del concetto di natura in Kant. Andando avanti il
problema della natura si risolve nel problema della sua conoscenza. I fenomeni
sensibili, attraverso cui noi facciamo ! 246! esperienza della natura, si
riordinano in noi attraverso le visioni personali dell’uomo (spazio e tempo;
categorie). In questo modo poi si dà un sistema della natura che sottostà
necessariamente alle pure leggi matematiche e fisiche: l’uomo è il legislatore
della natura. Ma di nuovo si presenta il problema dell’uomo e della sua
libertà. Essa si autodetermina in opposizione alla natura nella misura in cui
oltrepassa la necessità causale. Così la natura si limita alle forme di
esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale in realtà non rientra
più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura nella filosofia
post-kantiana non potrà essere seguito qui in modo approfondito. Certamente il
modo di intendere la conoscenza della natura di Hegel come uno stadio iniziale
della filosofia dimostrabile a priori ha contribuito a sollevare in Occidente
una reazione da parte del naturalismo empirico con il Positivismo e il
materialismo. Tuttavia queste eccessive semplificazioni non hanno avuto lunga
durata. In ambito fisico dall’inizio del ventesimo secolo il mondo va di pari
passo con la matematica o perlomeno può essere descritto solamente attraverso
di essa in maniera appropriata. Ciò rappresenta un fatto determinante. Da un
punto di vista prescientifico e immediato la natura quindi si erge nella forma
in cui l’uomo la coglie attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque
restano il meccanismo di osservazione principale ma ora l’uomo nella sua ricerca
non se la cava più senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei fisici si
allontana necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena qualche secolo
prima si è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del sole. In seguito
ciò è apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei nostri occhi.
Siamo arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del vero si è
trasformato in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo arrivati a
credere di stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui scorrono solo
ombre di elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto calcolante ha qui
l’ultima parola; il mondo passa dal primo piano della percezione verso lo
sfondo del pensiero. L’opera di Heisenberg richiama l’attenzione su questo
processo, sulla realtà e sul pericolo in cui l’uomo si trova quando egli
risolve la natura nelle strutture del suo pensare e la domina in modo
smisurato. Come all’inizio del pensiero occidentale anche oggi per noi permane
l’ammonimento di riflettere sull’essenza dell’uomo. Traduzione di Der
italienische Schopenhauer, in Schopenhauer im Denken der Gegenwart, cur.
Spierling, München-Zürich, Piper. Il Problema Ha un senso, in un volume su
Schopenhauer, occuparsi di un altro autore, e precisamente di uno che proviene
da una tradizione e da una lingua completamente diverse rispetto a quelle
tedesche? Non solo: quest’altro autore è uno dei più grandi poeti del
diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno è stato filosofo. D’altra parte,
quando si ha il coraggio di affrontare un lavoro come questo, non dovrebbe esso
essere strutturato nella forma tradizionale, in modo tale che si pongano in
luce, da una prospettiva scientifica, i parallelismi e le differenze tra i due
autori – e perché no, in maniera strettamente meticolosa – che allo stesso
tempo implichi una interpretazione di Schopenhauer? C’è una questione
ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento qui è particolarmente noto in
Germania per le sue affermazioni poetiche e per questo è diventato oggetto di
indagine e trattazione prevalentemente nel campo della storia della
letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si tratta di Giacomo
Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato filosofico generale,
e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi che dovremmo
rinunciare a vedere in Leopardi “un sommo pensatore, le cui argomentazioni e
dottrine trovino luogo nella storia della filosofia ma per questa parte, che è
quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre se non sparse osservazioni,
non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e preparazione
speculativa”778. Karl Vossler nel suo libro su Leopardi si è riallacciato a
questo giudizio779. Questa reazione di Croce non è fortuita: Hegel quasi con le
medesime parole si era espresso negativamente sugli umanisti in quanto
filosofi, e precisamente con la motivazione che gli umanisti italiani si sono CROCE,
Poesia e non poesia, Bari 1 [CROCE, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura
europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946, pp. 98-99]. 779 [G. si
riferisce al testo di K. Vossler, Leopardi, tr. it. di T. Gnoli, Ricciardi,
Napoli]. arenati in un pensiero simbolico e non sono giunti fino all’altezza
del concetto. Letteralmente vuol dire: “se si spogliano i concetti fondamentali
dei sistemi che si presentano all’interno della storia della filosofia di quel
tanto che concerne la loro configurazione esteriore, la loro applicazione a ciò
che è particolare e simili, allora si perviene ai diversi gradi della determinazione
dell’idea entro il suo concetto logico”780. Secondo la concezione di Hegel
l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla coscienza dell’idea, esso
permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte, conficcato nel mondo della
metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma insufficiente per
rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame concreto sensoriale,
ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa dell’“incapacità di
rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo si avvale di aiuti
per esprimersi in forma sensibile”781. Così la filosofia umanistica, secondo
Hegel, appartiene a manifestazioni superflue “che offrono alla filosofia poco
beneficio”782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo l’idealismo tedesco
con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania, la concezione
poetica come espressione del pensiero filosofico è stata condannata nel modo
più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una pubblicazione uscita
negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica della tradizione
umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e sviluppato la
valutazione completamente errata della tradizione umanistica – che non parte da
una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e precisamente
dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa discussione verrebbe
ad essere la giusta premessa per giungere ad una comprensione filosofica di
Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta proprio della relazione Hegel,
Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, a cura di H. Glockner,
Suttgart 1928, p. 59 [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura
di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 568-569]. 781 Ivi p. 121. 782 Ivi,
p. 149. 783 E. Grassi, Einleitung in philosophische Probleme des Humanismus,
Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt 1986 [E. Grassi, La filosofia
dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L. Rossi, Tempi moderni, Napoli
1988]. 784 E. Grassi, Heidegger and the question of Renaissance Humanism,
Medieval Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N. Y. 1983 [G., Heidegger e
il problema dell’umanesimo, a cura di C. Vasoli, Guida, Npoli]. tra
Schopenhauer e Leopardi. Io farò riferimento alle tesi di Leopardi senza
discutere il parallelismo e la differenza con Schopenhauer. Gli
schopenhaueriani possono prendere i testi di Leopardi come motivo per un
confronto tra entrambi. A giustificazione di un metodo di analisi di questo
tipo sarebbe determinante una parola di Schopenhauer. Nella scorsa metà del
secolo scorso Francesco De Sanctis ha notato per primo in un saggio785 su
Schopenhauer e Leopardi la rilevanza filosofica del poeta, ma soprattutto ha
contribuito a mettere in circolazione quell’immagine del pessimismo leopardiano,
come noi oggi ancora comunemente pensiamo. Schopenhauer si espresse sul saggio
di De Sanctis nel modo seguente con il suo amico Lindner: “mi devo stupire
molto nel vedere quanto questo italiano (De Sanctis) si sia impossessato della
mia filosofia e come l’abbia capita bene. Non fa come i Professori tedeschi,
specialmente Erdmann, sunterelli ed estratti dei miei scritti, senza vera
comprensione e secondo il numero delle pagine. No, egli li ha convertiti in
succum et sanguinem, e li ha sulle punte delle dita per adoperarli dove
occorre”786. Io qui strutturerò i livelli di pensiero di Leopardi in modo che
gli specialisti di Schopenhauer possano discutere la questione delle affinità e
diversità tra i due autori. Innanzitutto perché è possibile accostarsi a
Schopenhauer anche da un’altra prospettiva, diversa rispetto a quella
tradizionale che si trasmette con Kant e l’idealismo tedesco. I temi di
Leopardi – il rigetto della priorità della ragione, la natura, l’analisi della
noia, il significato filosofico delle passioni, l’illusione, la mania – sono
gli stessi di Schopenhauer. Grassi si riferisce al saggio desanctisiano in
forma di dialogo Schopenhauer e Leopardi che trae origine dalla lettura da
parte di Sanctis dell’opera di Schopenhauer all’inizio del 1858. Il saggio di
De Sanctis appare in “Rivista contemporanea”, e confluisce in Saggi critici.
Cfr., F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, pp. 417-467, in Id., Leopardi, a
cura di C. Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino GBr, Nr. 454, p. 447 [Lettera di
Schopenhauer a Lindner del 23 febbraio 1859, in A. Schopenhauer, Colloqui, a
cura di A. Verrecchia, Bur, Milano 2010, p. 267, nota 220]. I passi di
prosa che ora prenderò in esame provengono dal cosiddetto Zibaldone, una
raccolta di pensieri e annotazioni. Esso non era destinato alla pubblicazione
nella forma in cui oggi si presenta il testo originale, nonostante Leopardi lo
avesse progettato, per quanto ne sappiamo, per pubblicarlo in dieci volumi. Lo
Zibaldone è un’opera molto voluminosa: consta di un manoscritto di 4526 pagine.
Le annotazioni cominciano a luglio o agosto del 1817 e terminano il 4 dicembre
del 1832. La prima edizione apparve nel 1898 e fu pubblicata da Giosuè Carducci
con commento critico e filologico con il titolo di “Pensieri di varia filosofia
e letteratura” (un titolo che era tratto da un’indicazione di Leopardi). La
seconda versione migliorata, che si accorda a questa traduzione787, appare
negli anni Trenta: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, 2
volumi, Milano 1938. Io cito dalla traduzione tedesca di K. J. Partsch. Il
punto di partenza della riflessione di Leopardi è il contrasto tra la ragione e
ciò che egli ha chiamato natura, criticando in tale contesto ogni filosofia che
creda di decifrare la realtà sulla base di principi razionali e perciò tutto
ciò che ha a che fare con i sensi e le passioni, tutto ciò che è metaforico, lo
rifiuta nel suo significato filosofico. In generale questa tradizione concede
solo ciò che noi possiamo dimostrare e dimostrare significa mostrare e
determinare qualcosa sulla base di un fondamento, di un assioma, di un
principio. “E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta
pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere
quello dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno
infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza che par tutta consistere
nell’uso intero della ragione”788. Ogni vita umana ordinata e fruttuosa sembra
realizzarsi solo sulla base di fondamento e dimostrazione. Soltanto in questo
modo si ritiene di poter prevedere anche l’avvenire in generale per poterlo
deviare e per potersi mettere a riparo da esso. Da questo punto di vista
l’imprevisto, l’improvviso, il sorprendente, non solo non vengono presi in considerazione
ma cancellati, allorché Grassi fa riferimento alla traduzione di Partsch
Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet
und eingeleitet von G., aus dem italienischen übertragen von K. J. Partsch,
Bern, Francke Leopardi, Zibaldone] si manifestano, e giudicati alla stregua di
un fallimento delle nostre forze umane e razionali, delle nostre conoscenze,
dei nostri desideri di sicurezza e certezza. Ora da questo emerge che
l’esistenza umana deve scaturire solo attraverso una certezza sicura e
razionale e che tutti i momenti della vita sociale, politica e spirituale
devono derivare da un fondamento di tal sorta: perciò poi anche l’insegnamento
e l’educazione devono non solo chiarire i fondamenti originari dai quali noi
deriviamo le nostre azioni, ma anche prestabilire tutte le possibilità. Invece
Leopardi adduce come argomento (il seguente): “e pure è certissimo che tutto
quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una
dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella
sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi
la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre
non sono se non per intervalli”789. “ Ella rende piccoli e vili e da nulla
tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello,
e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le
cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce. Partendo dalla tesi della priorità
del pensiero razionale, ogni passione, ogni impulso, viene considerato in
realtà come un momento da oltrepassare, come un momento che deve essere
corretto o annientato. Di conseguenza la conclusione dell’importanza del
prevedibile, del sicuro, del giudizio divengono gli ideali a cui poi ci si
abbandona: la stessa vita politica, lo Stato, se assicura la vita umana e vuole
contribuire al suo sviluppo, deve partire da un’impostazione del genere e
attuarla. Una simile concezione della vita, che si prova a dedurre more
geometrico, corrisponde a una tradizione razionalistica contro cui Leopardi
assume una posizione, che analizza progressivamente per mostrarla come causa
delle rovine del mondo occidentale. Ma una concezione di questo tipo non è
apparsa e si è realizzata proprio in precise forme di Stato, di insegnamento,
di sapere quando ci si è allontanati già dall’originaria fonte della vita? Come
è considerato l’esito della priorità della ragione da un punto di vista
sociale, politico? “Anche nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono
uguali nei principi, nei costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti
uguali e tutti separati, laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti
uniti, e perciò atti alle grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi
trovandoci tutti soli. In un mondo razionalizzato ogni elemento nuovo,
originario, indeducibile e non anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha
nessuna possibilità. In ogni forma già razionalizzata di vita sociale, politica
o culturale nulla di imprevisto può irrompere senza far saltare il contesto
esistente. Ma dunque cosa bisogna opporre alla ragione? La natura forse,
l’affermazione delle passioni? “La superiorità della natura sulla ragione si
dimostra anche in questo che non si fa mai cosa con calore che si faccia per
ragione e non per passione. Per Leopardi i concetti di natura e passione
collimano: di che natura è il loro rapporto profondo e da ciò come emerge una
comprensione della loro essenza? “ La ragione è nemica di ogni grandezza: la
ragione è nemica della natura. Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o
la ragione? Il filosofo non vive mai né pensa giornalmente, e intorno a ciò che
lo riguarda né vive con se stesso (se anche vivesse con gli altri) da vero
filosofo”794. In che cosa risiede la
potenza, la capacità della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A
questa domanda noi riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da
cosa scaturisce l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si
occupa così sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di
natura, vita, che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla
appare, secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti,
questi, che mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella
noia. Essa è il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci.
Così afferma Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono,
dell’indifferente, dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la
capacità di distinguere qualcosa “Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la
vita, non è meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il
contrario della vita vitale [...] del resto l’odio della noia è uno di quei
tanti effetti dell’amor della vita [...] e l’uomo odia la noia per la stesa
ragione per cui odia la morte, cioè la non esistenza”795. Così la noia scopre
dalla sua essenza un’insolita, fenomenologica, molto importante
incomprensibilità: nel suo patire deve determinarsi come una passione. Noi
possiamo vivere e esperire l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si
manifesta in modo limitato e la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che
non possiamo esistere nello sconfinato e nell’indifferenziato. “La noia corre
sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei
viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e
senza passione non si dà in esso animo, come non si dava in natura o vogliamo
dire che il vuoto stesso dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni
passione è noia, la quale è pure passione”796. La noia fa parte di quei
sentimenti deprimenti attraverso i quali si manifesta il declino della vita
così silenziosamente e senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno
stato d’animo opposto alla natura, poiché in essa ogni disperazione è già
apatica. Secondo l’opinione di Leopardi in ciò risiede l’essenza della moderna
esperienza del dolore che non ha nulla più di vitale. Si tratta di un’autodistruzione
in una perdita di suoni e parole che si muovono in un silenzio disumano, in cui
né odio né speranza, né tantomeno interesse e partecipazione sono presenti: è
l’ultimo stato in cui si manifesta il naufragio di una cultura, di una classe
sociale. Al suo posto la natura si mostra nella potenza della passione:
affermazione, dunque, della passione contro la priorità del razionale? Prima di
rispondere insieme a Leopardi a questa domanda occorre discutere la funzione e
il potere della passione: “le sventure o d’immaginazione o reali, potranno
anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma qual dolore ha
più della vita, anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è
pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella medesima
morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove
quest’altra è sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi
senza dolore, ma piuttosto come un’oppressione smisurata e un accoramento”797.
“Ma gli antichi sempre più grandi, magnanimi e forti di noi nell’eccesso delle
sventure, e nella considerazione della necessità di esse e della forza
invincibile che li rendeva infelici, e gli stringeva e legava alla loro miseria
senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro
il fato”798. Secondo l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano,
poiché credevano nella vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci
rinunciavano tanto più l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore
di Niobe, per il quale non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E
dal momento che per gli antichi la disperazione è allo stesso tempo
un’affermazione della vita, così nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva
attraverso il dolore la loro immaginazione, traducendosi in azione,
presentandosi nei miti, i quali non hanno conosciuto ancora nessun
sentimentalismo. “Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non
davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri,
mettevano I dei in comunione della nostra via e dei nostri beni, e quindi gli
stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, non
dubitando che elle non fossero degne della invidia degl’immortali. Da questo
punto di vista la vita in ogni suo stadio, sia sensibile che spirituale, non
attinge a ciò che è sicuro, sperimentato, calcolabile, non attinge alla
certezza razionale e dimostrabile, bensì all’ambito del creativo,
dell’imprevedibile, dell’abissale: la prima possibilità dell’esperienza sorge
da qui. Se noi oscilliamo continuamente tra successo e fallimento, se inoltre
siamo disposti alla realizzazione delle nostre capacità, allora qui si radica
la nostra autoaffermazione, che nuovamente richiama l’attenzione all’appello
oggettivo e trascendentale a cui dobbiamo corrispondere. Leopardi pone
l’attenzione sul fatto che tutte le grandi imprese oltrepassano l’ordine
esistente e consueto, infatti dal momento che istituiscono qualcosa di nuovo
non possono essere dedotte dal già noto. Già nella vita quotidiana appare
impossibile vivere in modo puramente razionale e prevedibile. Gli stessi
sentimenti più naturali si mostrano come qualcosa di infondato. Ogni cosa
feconda non è mai deducibile e calcolabile: da ciò proviene la priorità storica
che i popoli naturalmente rivestono, poiché su di essi agiscono le passioni,
ciò che è originario, solamente essi, per questo motivo, trionfano sempre su
quei popoli che sono dominati dal razionale. La natura, nel suo significato già
spiegato, vive e si fa largo. Solo essa suscita tutte le passioni possibili,
solo essa desta i sentimenti naturali che mostrano l’inaspettato. Così Leopardi
passa alla descrizione e approvazione delle passioni del mondo antico. Allora
quelle forze imperanti fanno tutte parte dell’imprevedibile, di ciò che non è
razionalmente deducibile. Si tratta di quelle capacità di mostrare il nuovo
sotto forma di immagine, di linguaggio, di azioni, di miti. Quegli stessi
esercizi fisici, le lotte, le competizioni sportive e le cerimonie favoriscono
la fantasia, destano i miti che non sono il “vero” ma celano in sé il
significato dell’esistenza. “Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano
il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o a eccitare l’amor
della gloria ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor
dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un
corpo debole, insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle
nazioni”800. “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo
l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate o formate di essere uguali
a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le
belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane etc..., entrandoci e vedendoci
tutto solitudine, pur credevi tutto abitato. L’Illusione Allora dobbiamo
dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi la
risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro
del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un
gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori
accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è
spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere
riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è
generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni
grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai
nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra
nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della
storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al
quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di
ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una
concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a
fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è
determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione
del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che
ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa,
che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra
comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra
rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è
la ragione ma la natura: (seguita però a
Ivi, 7 giugno 1820. 801 Ivi, p. 100. ! 257! dovere) essa ci
somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo
veramente civile le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo,
tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato. La potenza
dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre
la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla
irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto
forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso
l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità
dell’illusione, più la consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione,
tanto più noi rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più
propria dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si
presenta in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni,
dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza
(che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie.
Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi
vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto
noto, ciò che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla
cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’
pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel
giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi
diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui
tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per
sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in
ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della
distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla
presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace
ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia
accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo
modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per
esempio mutato affatto da quel che era allora”803. Con la sua teoria
dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina
dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile
l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun
modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della
filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un
piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale
pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco
qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire
a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui
ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza
dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più
tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante.
“L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che
resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e
costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor
preda”804. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte
le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli
occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza
umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò
nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla
natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero
tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di
qui a cent’anni. Non abbiamo ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la
natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è
categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena”
della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel
quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario
è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento
analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione.
Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni
grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che
si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza
fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il
compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e
l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande
epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata
una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a
fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è
determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione
del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che
ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza
misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la
nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non
mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie
non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le
illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...]
le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o
quasi affatto, l’uomo è snaturato. La potenza dell’illusione colpisce pertanto
sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché
anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di
dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione,
ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso
la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la
consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi
rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria
dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta
in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni,
dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza
(che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie.
Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi
vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto
noto, ciò Ivi, p. 34. ! 260!
che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui
descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure
una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non
abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come
oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto
sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per
sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in
ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della
distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza
di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace
ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia
accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo
modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per
esempio mutato affatto da quel che era allora”806. Con la sua teoria
dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina
dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile
l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun
modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della
filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un
piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale
pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco
qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire
a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui
ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza
dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più
tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante.
“L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che
resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e
costanti e non ragionate, e grandi illusioni] popoli civili saranno lor
preda”807. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte
le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli
occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza
umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò
nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla
natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero
tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di
qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di
un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non
torniamo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro
posteri, se avranno posteri”808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da
me indicati sorge una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di
Schopenhauer: la conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della
storia umana, è tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere
storico dell’uomo, non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto
abissale? Oppure: la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è
l’illusione e non la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza
che lascia apparire e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante
misteriosa ha solo riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma
nessun interesse per il destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il
suo ruolo in questo dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui
l’Abissale conduce l’uomo verso il teatro del mondo? Dove risiede allora
l’essenziale identità o differenza tra la teoria dell’illusione di uno
Schopenhauer e quella di Leopardi? La formulazione e la risposta a queste
domande si discostano radicalmente dall’analisi del pensiero di Schopenhauer,
così come tradizionalmente viene eseguita, quando si parte da Kant e
dall’Idealismo tedesco per intendere Schopenhauer. Per me era profondamente
importante qui mostrare il significato della teoria dell’illusione – che gioca
un ruolo così profondo in Schopenhauer – alla luce di una prospettiva
completamente diversa e poterne discutere.
Traduzione di Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der
Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, München,
Beck, La ricerca della verità: il fondamento oggettivistico della verità,
Oggetto di indagine filosofica è la questione relativa alla preminenza del
Logos. L’inquadramento del problema e una definizione più veritiera possibile
dell’essenza del Logos sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate
ad un momento successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una
ricerca della verità che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto
tale presuppone già un determinato concetto di verità. Dal momento che però la
filosofia non può presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in
maniera univoca il concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere
un’indagine filosofica partendo da un determinato concetto di verità, se
evidentemente questo non può che essere il risultato di una lunga e complessa
ricerca? E se la filosofia non può presupporre nulla come sarà mai possibile
verificare se il concetto di verità così com’è concepito corrisponde al vero?
All’inizio di ogni indagine filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare
quella che si rivela essere la difficoltà principale ossia la ricerca della
verità presuppone che si conosca già la verità altrimenti come sarebbe
possibile riconoscerla? In un suo dialogo Platone enuncia in maniera precisa
questa aporia sottolineandone i tre momenti principali ovvero la possibilità
dell’indagine, la possibilità del prefiggersi un qualcosa e la possibilità del
riconoscere la verità che presuppongono già di per sé una conoscenza della
verità. “Come potrai mai cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non
conosci ti prefiggerai di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come
riuscirai ad accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?”.
Tuttavia ammettendo che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare
ad essa, già una conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una
seconda difficoltà ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale
motivo si dovrebbe cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione
sembra frenare sin dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la
questione più nel dettaglio ci si accorge immediatamente che essa in realtà
fornisce già una prima indicazione utile (nell’individuazione del) concetto di
verità al quale riferirsi nella ricerca: a quello che rende possibile
l’indagine come punto di partenza e giusto approccio filosofico. L’aporia non
riguarda la verità in sé ma solo una determinata concezione di essa. Quale?
All’essenza dell’indagine appartiene tutto ciò che ricerchiamo e che in un
certo senso è già esistente e non esistente. L’impossibilità che qualcosa allo
stesso tempo sia e non sia è valida però per tutto ciò che è Ente e che ricade
sotto il principio dell’identità: questo principio è applicabile sono ad un
determinato ambito dell’Ente ovvero laddove esso in quanto oggetto
dell’indagine venga concepito in maniera oggettivistica. Il principio
dell’Identità non è applicabile al Divenire poiché in quanto tale esso ha già
la caratteristica di poter essere e non essere. Da ciò si evince dunque che se
il fondamento della verità viene identificato con l’immediata e concreta
semplice-presenza di un qualcosa, la possibilità della ricerca viene meno.
L’oggetto ha dunque solo due possibilità: la semplice-presenza e la
non-presenza. Un tale fondamento della verità non ammette indagine e l’aporia
si rivela come un qualcosa che non va ad interessare tutte le definizioni di
verità ma bensì solo una determinata concezione di essa. Ma qual è da un punto
di vista storico in generale la concezione di verità che nell’immediatezza
della semplice-presenza di un oggetto ne vede il proprio fondamento? È quella
concezione di verità che tradizionalmente per analogia accettiamo come valida
in quanto afferma che la verità è verità logica essenziale e che in quanto tale
appartiene solo al pensiero inteso come pensiero dell’Essere sia nella forma di
oggetto razionale, come le idee di Platone, che in quella di oggetto sensoriale
come nell’espressione dei sensi (secondo l’interpretazione di Aristotele). Il congiungere,
l’atto di unire del pensiero, che si esprime nella concezione di unità come
connexio di soggetto e predicato, il giudicare, sono veri nel momento in cui
uniscono o separano ciò che si appartiene o non si appartiene, così com’è
nell'Essere. In primo luogo è doveroso sottolineare che sulla base di una tale
concezione il fondamento della verità appare innanzitutto come l’immediato
manifestarsi dell'Essere in quanto oggetto; in secondo luogo che il fondamento
della verità del pensiero non si trova nel pensiero stesso ma al di fuori di
esso e che per questo la preminenza del Logos come pensiero viene negata; in
terzo luogo che la definizione del fondamento della verità in una tale
concezione deve essere necessariamente caratterizzata in maniera oggettivistica,
indipendentemente dal fatto che si tratti di un fondamento empiristico o
razionalistico. L’interrogativo circa il dove storicamente questa concezione si
presenti realmente, sotto questa forma, resta dunque ancora da sciogliere. La
semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo Analizziamo ora in maniera più
approfondita la concezione oggettivistica del fondamento della verità (così
come della conoscenza) per verificare se essa effettivamente ha ciò che
rivendica. La concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come
della conoscenza) si richiama all’immediato manifestarsi di un qualcosa, alla
sua semplice-presenza. Il fondamento del rivelarsi nel presente di un qualcosa
non si cela però, in una tale concezione, dietro il concetto di
semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto, il Faktum empiristico
o razionale. La contraddizione tipica di questa asserzione è che l’essenziale
non viene identificato con il manifestarsi dell’oggetto ma bensì con
l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma allo stesso tempo si
richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter affermare il suo
Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica il fondamento
concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi di un qualcosa,
con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo comunque mantenere
ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè dell’oggetto diventa in
questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento che in questo caso
considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a rivelarsi in e
attraverso una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più alcuna possibilità
di fare riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva solo come un
processo di appropriazione, ossia mediazione intenzionale della
semplice-presenza, diviene il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi
in quanto tale. Hegel respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il
processo dell’apparire inteso come mediazione intenzionale affermando, con la terminologia
che gli è propria e che deriva dalla questione al superamento del dualismo
teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: “se il
conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta allora
è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto non lo
lasci inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma bensì porti con sé
una forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non sarebbe più strumento
della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo passivo attraverso il
quale la luce della verità può arrivare a noi, non così com’è in sé stessa ma
così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro che solo mediante la
conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre rimedio a questi
inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile escludere da ciò che si
ottiene quella parte di definizione che a partire dall’assoluto deriva dall’uso
dello strumento e conservarne così solo il Vero puro. Basterebbe questo miglioramento
a riportarci nella condizione in cui ci trovavamo in precedenza. Se a una cosa
già formata togliamo di nuovo l’effetto che su di essa ha avuto lo strumento,
quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a noi così com’era prima di tale superflua
premura”. Il fondamento oggettivistico della verità appare dunque falso. Ma se
esso non è in grado di spiegare la verità può almeno spiegare la possibilità
dell’errore? Come può però un oggetto, così come è stata considerata anche la
sua essenza, essere preso per un altro se esso si manifesta solo
nell’immediatezza? Questo vale sia per una concezione
empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per una
razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di un
qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare
immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per
questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e
manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come
quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità.
Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla
non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si
conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò
che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la “restante”
porzione di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che
riguarda il ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né
cadere in errore confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo
o con qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della
verità e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento
della conoscenza come un qualcosa di immediato, oggettuale, simile a
un’illusione e ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile
un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento
del manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti,
quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità
dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter
riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento
della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul
fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio
non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi
immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale
rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel
manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta
dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di
qualcosa. Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del
concetto più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo
assoluto: questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di
qualcosa, di ciò a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse
su qualcos’altro al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le
difficoltà già esposte in maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del
manifestarsi di qualcosa mettesse radici in un processo, in un divenire, in un
avere e non avere, bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene
dalle origini e allo stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi
deve quindi contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il
processo del manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in
divenire, è il primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di
qualcosa non è un qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso,
il processo stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una
lotta per quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un
tentativo di scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa
lotta e la conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la
possibilità della conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che
può diventare la prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della
verità. Da notare che nella logica tradizionale l’essenza della verità è stata
ricercata nel Logos, nel pensiero come pensato e dunque oggetto, e analizzata
nelle sue forme e nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una tale
concezione si mostra qui in una doppia veste: il fondamento della verità viene
visto come l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la verità
stessa ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato. Appare
dunque evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di oggettuale,
anche se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le forme della
verità fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che tutto ciò
che è oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del rivelarsi di
un qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni tentativo di
trovare una logica del pensato che consideri il pensiero solo come oggetto si
rivelerà fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare l’essenza della
verità nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel quale soltanto
qualcosa può apparire in quanto tale e dal quale può prendere origine la verità
oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la verità nel pensiero
inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme, ed essendo partita
da un tale presupposto per la definizione del problema teoretico-conoscitivo,
motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero come momento di
conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la forma originaria
della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa possa essere
fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito dall’interrogativo
sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in particolare la definizione
del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo, dal confronto tra due
pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali resta valido sempre e
soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale, appare evidente che
mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio dall’uno all’altro.
! Differenza ontologica e disposizione d’animo, Non dobbiamo perdere di vista
il filo conduttore della nostra indagine. Siamo venuti a conoscenza di un
elemento fondamentale ossia che il problema della verità può essere inteso
solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi e che ciò non deve
essere inteso come strettamente oggettuale. ! 268! Attraverso ciò siamo
poi giunti alla definizione del problema del Logos: il fondamento del
manifestarsi può essere interpretato unicamente come un processo o un atto che
non è altro che unità, congiunzione, leghein come veniva definito dai greci
sulla base del significato originario del termine. La questione circa la
preminenza del Logos deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in sé
né le sue forme, così come l’atto originario dell’unire, del congiungere, del
completare, possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di
svelatezza di Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come
sembra, il processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal
quale deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici
nell’irrazionale, nell’illogico, nell’immediato. Così dicendo si potrebbe
pensare che Heidegger neghi la preminenza del Logos soprattutto se in tale
contesto si richiama alla mente il suo tanto auspicato tentativo di superamento
della preminenza della logica così come le sue asserzioni circa la derivazione
del problema metafisico dalla disposizione d’animo. Per giungere alla corretta
interpretazione del pensiero di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa
si intenda con il fenomeno della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di
illogico o se abbia origine in un atto, in un processo del leghein (come unità,
legame originario). Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo
Heidegger, il manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per
poter essere riconosciuto come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere
manifesto in tale Essere. Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non
è che un separarsi dal nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa
primordiale disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento
determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della
svelatezza? Tale processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente
a totalità che attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il
dispiegarsi di questa radice originaria come processo contiene in sé già la
possibilità dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale
ed è possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa
procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si
fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché?
Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema !
269! innanzitutto la definizione tradizionale di verità che si orienta
alla proposizione, alla connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta
rimanda al fondamento e alla ragione. Per tale motivo il problema della verità
è strettamente legato a quello della ragione. La verità della proposizione
(anche verità ontologica) non consente però la comprensione dell’Essere
dall’Ente ed essa stessa è possibile unicamente sulla base di una svelatezza
originaria, definita come verità ontica, una verità sulla base della quale
l’Identità o la Non-Identità di soggetto e predicato possono essere
riconosciute. La stessa verità ontica si fonda nell’affettività istintiva che è
legata dunque alla disposizione d’animo, nell’agire intenzionale che aspira
all’Ente; questa non può però essere mai originariamente accessibile all’Ente
se prima non c’è stata una comprensione dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica
e la verità ontica affondano dunque le loro radici in una verità pre-ontologica
la cui natura resta ancora da definire. Heidegger sottolinea come tra la
comprensione dell’Essere pre-ontologica e l’espressa problematica
dell’afferrare la concezione di Essere vi siano diversi passaggi che possono
già fornirci un esempio di una qualsiasi precomprensione dell’Essere
originaria. Ad esempio i principi basilari delle singole scienze, come ad
esempio il fondamento del domandarsi che è proprio ad ognuna di esse, indicano
e delimitano un determinato campo come ambito di una possibile oggettivazione
attraverso la conoscenza scientifica, senza essere loro stessi oggetto di
indagine scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi basilari
delle singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso l’indagine e
dal momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone una
determinata precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda sorge
quindi spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere rispetto
all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e quindi
l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume un’importanza
fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende da un modo di
riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora con la
risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi pre-comprensione, che
è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente, dobbiamo necessariamente
ottenere anche lo scioglimento della questione dell’essenza della disposizione
d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica della svelatezza rispetto
all’Ente. Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere è sempre verità
dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dall’Ente è sempre tale del
suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente sono separabili l’uno
dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo grazie al manifestarsi
dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra unità (dell’essere) e molteplicità
(dell’ente) può essere concepito solo come processo, come atto e per questo
come realizzarsi dell’unità attraverso la congiunzione e la separazione. Tale
atto inteso come fondamento della svelatezza è la differenza ontologica,
laddove essa non si determina precedentemente o successivamente al manifestarsi
di un qualsiasi atto ma bensì nel suo compimento. Heidegger dichiara che “la
così definita e necessaria sdoppiata essenza ontico-ontologica della verità è
possibile solo in unione con l’affermarsi di tale distinzione”. Da ciò si
evince innanzitutto che il fondamento della svelatezza si presenta come atto e
poi che Heidegger definisce tale atto come Logos, come leghein in senso più
ampio, poiché afferma, facendo riferimento alla pre-comprensione originaria
dell’Essere dell’Ente, che esso è “tutto l’agire come processo illuminante
della comprensione dell’Essere in senso ampio”. Il fondamento della svelatezza,
che dunque rende possibile ogni comportamento all’Ente (verità pre-ontologica
che è così fondamento della verità ontica e ontologica e disposizione d’animo
laddove essa è intesa come ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente) è Logos ma non
inteso in senso tradizionale come atto del pensiero che si deve necessariamente
basare su un’originaria semplice-presenza dell’Ente; nemmeno come definizione
di una verità logica che deriva da un’indagine del pensiero come oggetto, bensì
come processo del ricongiungere e del separare, processo del distinguere come
un venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro
affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto originario. Il fondamento
della verità può essere realmente inteso come “svelatezza” e tale termine
mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone a una
concezione della verità (“come equivalenza”), il cui fondamento è un qualcosa
di imminente e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto alla
precedente convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente trovava
origine nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza
ontologica? Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento
della svelatezza dell’Essere rispetto all’Ente non sia che trascendenza: ma
cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica lo svelarsi di un
qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere, tra la differenza
ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi atto deve essere
necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò che si svela.
Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine fondazione e
fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato separatamente da
esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della differenza
ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla svelatezza, è
svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità, in un mondo,
in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è nell’essenza del suo
Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea Heidegger, non è dunque
inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra l’altro appartiene
anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui e per cui anche
l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si manifesta non precede
o segue immediatamente un atto originario allora una qualsiasi svelatezza non
risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò permette di comprendere lo
stretto legame esistente tra trascendenza e disposizione d’animo. Trascendere
ovvero Esserci in senso metafisico è così fondamentalmente un
Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne deriva che l’Esserci
stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli Enti ad esso
appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo. L’Esserci si afferma
così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si realizza il secondo modo
del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso qualcosa che precede il
processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il
processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì
appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se
la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per
mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad essa
appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il perché,
terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce Heidegger.
Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica come processo
o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la comprensione della
necessità dei tre modi nei quali è insito il fondamento, e della definizione
heideggeriana di verità come svelatezza. La possibilità dell’errore e la
definizione di logos come processo assoluto, L’episteme come doxa alethes. Da
un’approfondita critica dell’oggettivismo naturalistico si è approdati a una
prima definizione di leghein in cui compare l’Essere. Nella necessità di una
definizione ossia di un’affermazione generale (giudicare, pensare) si è giunti
al superamento del relativismo e attraverso di essa a una prima comparsa
dell’Essere. Tuttavia ciò non risolve né il problema teoretico del Logos né la
questione interpretativa del testo di Platone. Come dobbiamo considerare dunque
nel dettaglio questo atto inteso come pensiero, come giudizio? E come lo
definisce Platone? Ma soprattutto com’è da considerare una qualsiasi necessità?
Come una ricerca di soddisfacimento al di fuori di essa stessa? È dunque il
pensiero solo una forma esteriore per impossessarsi dell’Essere come suo
contenuto e la verità il risultato dell’equivalenza del pensiero con un Essere
ad esso esteriore? Questa è la questione che partendo da un punto di vista
storico e sistematico dovrebbe portare con la sua risoluzione ad un’ulteriore
interpretazione del pensiero di Platone. Che l’anima abbia un’originaria
aspirazione all’Essere che riesce ad appagare unicamente aspirando per essa
stessa all’Essere, non definisce ancora modi e modalità di alcun processo. Platone
dimostra come un atto, un processo del leghein, che si fonda su un qualcosa di
oggettivo, non riesca a spiegare il fenomeno dell’errore. Fondamentalmente
l’errore è strettamente connesso alla verità; poiché la necessità di
affermazione del generale si rivela in modo tale da rendere la tesi
relativistica erronea. L’indagine filosofica così come dovrebbe essere
interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come vedremo, dietro il
quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa spiegare o meno l’errore.
La risposta a questo interrogativo la troviamo nel Teeteto: il processo del
leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale? Abbiamo visto l’Essere
ergersi a leghein in una condizione di necessità: leghein significa
essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a compiersi in una
condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta quindi di un
rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo fondamentale processo.
Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del giudizio, del pensiero è
ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione immediata e che dunque
deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è la ragione per cui la
doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a quale pensiero ci si
riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la stessa teoria
relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale: dunque questo
nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i pensieri sono veri
solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere sia falsa che
veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il pensiero ma non
ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il significato generale
di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e non di una conoscenza
motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia della verità. Da qui
nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta di estetica o
fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come “opinione
vera”. “Di’ ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le doxai, le
opinioni lo siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono anche di
false. Di sicuro però l’opinione vera è conoscenza”. Il problema della lingua e
il suo significato ontologico. Legame tra ricerca del fondamento del
manifestarsi e quella del fondamento delle parole e dell’arte. In precedenza
abbiamo definito il fondamento dell’apparire di un qualcosa come tale un atto o
processo del leghein, il cui carattere resta però ancora piuttosto generico:
con esso andrebbe inteso unicamente il congiungere, il riunire, il
circoscrivere attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come tale. Abbiamo
elaborato questa tesi in relazione alla concezione heideggeriana della
differenza ontologica intesa come atto del trascendere, origine dei tre modi
del fondare, “Logos in senso più ampio”. Alla luce di ciò abbiamo rigettato
un’interpretazione illogica del fondamento della verità facendo riferimento
alla disposizione d’animo. Quest’ultima non è da intendersi però come un
qualcosa di pre-logico che precede un qualunque processo quale fondamento
originario del rivelarsi di un qualcosa: ciò conferma anche l’interpretazione
dell’affettività. Quando abbiamo però definito la disposizione d’animo come
momento logico in senso ampio non era stato detto ancora nulla circa il suo
rapporto con il Logos inteso come pensiero: non sapevamo ancora come definire
il fondamento del manifestarsi. Solo attraverso l’interpretazione del pensiero
di Teeteto e la discussione su quei problemi sistematici in esso contenuti
siamo giunti a un’ulteriore definizione del Logos come necessità originaria,
che si autoimpone, di affermazione del generale e dunque del giudicare, del
pensare. Il processo dell’originario del leghein assume così un primo e
determinante significato. Diversamente da quanto si ritrova nel pensiero di
Heidegger, esso non è inteso qui come ricongiungere, radunare, riunire ossia
riportare a quell’unità originaria nella quale l’Ente può apparire come tale,
in senso generale, ma bensì come un ben determinato ricongiungere e riunire:
quello del pensiero che si manifesta nella necessità di affermazione del
generale. Come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del
generale si manifesta per la prima volta l’Essere, ciò che esiste. Il
fondamento del manifestarsi è stato da noi riconosciuto nella parola, nella
lingua come un lasciar apparire metafisico di un qualcosa attraverso il legame
con la necessità di affermazione del generale. Questa necessità originaria si
manifesta in una ben determinata forma di problematicità dell’Ente ogni
qualvolta non si sa come intendere una determinata cosa. Dell’origine di tale
atto, dell’impossibilità di dedurlo dal pensato, così come è inteso da Hegel,
abbiamo già discusso nel capitolo precedente, riassumendo a tal proposito la
critica di Gentile al pensiero del filosofo tedesco. Per quanto riguarda il
pensiero di Heidegger, va sottolineato che fino a quando non riusciremo a
stabilire se egli ha assegnato all'atto della trascendenza (intesa come “Logos
in senso ampio) una determinata forma (quella del pensiero pensante) o se ha
lasciato la questione irrisolta, anche la nostra interpretazione non potrà
essere completa. Se però Heidegger nei suoi scritti avesse in qualche modo
iniziato un’implicita dissertazione sulle diverse forme di svelatezza, senza
fattivamente distinguerle, ad esempio in “Hölderlin e l’essenza della poesia”
in cui egli parla della funzione della parola poetica nel suo carattere di
manifestazione, questa non dovrebbe essere assolutamente trascurata. Tale
questione non può essere discussa se prima non si definisce il carattere
fondante della svelatezza. Ci troviamo così di fronte ad un interrogativo
rilevante: il processo originario che si manifesta nella necessità di
affermazione del generale è l’unica forma della svelatezza? Dobbiamo attribuire
al Logos, alla parola, alla lingua unicamente la necessità di affermazione del
generale? A questo punto è necessario far notare che in nessun caso le forme
della svelatezza posso essere classificate sulla base di ciò che appare per
mezzo del pensiero pensante. Questo perché nel momento in cui dovesse emergere
una distinzione nelle forme della svelatezza ciò dovrebbe essere presentato
mostrando che oltre alla necessità di affermazione del generale esistono altre
forme del fondamento originario del manifestarsi e dunque dell’interrogarsi,
dell’aspirare all’Ente. Dobbiamo quindi chiederci se il leghein si impone a noi
solo come pensiero pensante e dunque necessità di affermazione del generale o
anche sotto altre forme: ovvero se la parola, il Logos abbiano solo un
significato “logico”. È evidente come un tale problema si ponga solo se, come
nel nostro caso, in precedenza si è definita in maniera chiara una prima
manifestazione della forma del Logos ad esempio come necessità di affermazione
del generale. Ma come possiamo sviluppare tutti questi differenti quesiti in
maniera unitaria ricollegandoli alla precedente indagine? È necessario chiarire
tutte le questioni che si presentano anche attraverso la presa di posizione di
Heidegger chiedendoci se il Logos come necessità di affermazione del generale
costituisca l’essenza delle parole o se esso si manifesti anche sotto altre
forme. Per determinare l’essenza delle parole dovremmo innanzitutto capire se
nel discutere di ciò Heidegger fosse consapevole del problema; in questo modo
potremo determinare definitivamente la nostra interpretazione del pensiero di
Heidegger e la nostra posizione in merito. Successivamente andremo a verificare
le tesi proposte nella Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera
particolare dietro gli assunti del Teeteto, per discutere del legame tra il
problema della parola e il problema dell’arte. Va notato come la questione se
la parola abbia o meno solamente un significato logico è l’essenza della
seconda corrente critica di Hegel in Italia la quale lega strettamente tale
questione con l’interrogativo se la parola ad esempio in poesia non abbia una
propria forma del manifestarsi dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di
risolvere la questione, nella contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna
di nuovo in Italia al piano ontologico. Questo dal momento che se la parola, la
poesia e dunque l’arte hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla
parola così come per la filosofia quale necessità di affermazione del generale
ciò ha UN DOPPIO SIGNIFICATO: innanzitutto che tra l’arte come forma del
manifestarsi dell’Ente e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel,
non vi è alcuna relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si
oppone alla caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era
della filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione
dialettica tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va
scomparendo e che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che
questo quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica,
ontologica in quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica
del fondamento del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante.
Il problema ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa
interpretazione dello scritto heideggeriano “Hölderlin e l’essenza della
poesia” andremo a discutere dell’imporsi del problema della forma del
manifestarsi. La domanda se il Logos come parola, come lingua debba essere
inteso solo come unione così com’è nel pensiero, si pone in questo scritto
congiuntamente al problema del fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger
afferma: “La lingua per prima accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo
della manifestazione dall’Ente”; “Solo dove vi è lingua vi è mondo”. Poi ancora
aggiunge: “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di manifestarsi come
tale nell’opera e di custodirlo”. Come dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve
essere attribuita unicamente la determinazione dell’espressione del generale?
Già nello scritto “Dell’Essenza del fondamento” Heidegger aveva identificato il
manifestarsi dell’Ente come differenza ontologica e dunque trascendenza. È
dunque la differenza ontologica essenzialmente parola e l’essenza della parola
nient’altro che il manifestarsi della verità? Se la parola, la lingua, così
come inteso da Heidegger, sono strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque
ritenere che l'essenza della poesia sia solo verità? E di che verità si tratta?
Quella “logica”? Appare evidente che solo sollevando queste questioni nello
sviluppo del nostro problema nel tentativo di definire il Logos potremmo
prendere una posizione rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è
innanzitutto necessario capire se l'intera questione della lingua è stata
spostata da Heidegger su un piano ontologico. Considereremo il suo scritto
proprio da questo punto di vista. Dal momento che la discussione heideggeriana
sull’essenza della poesia si sviluppa come interpretazione di un poeta, in un
primo momento la questione appare essere considerata da un punto di vista che è
al di fuori da qualsiasi piano metafisico e ontologico. Che l’ambito non sia
estetico o storico-letterario ma principalmente metafisico si evince però dalla
scelta dei versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base della sua
interpretazione. Le posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento considerano
l’essenza della lingua in congiunzione con l’essenza dell’uomo. Nella sua
interpretazione Heidegger afferma che l’uomo nella sua essenza “è colui il
quale deve dimostrare ciò che è. Con questa affermazione non si vuole qui
intendere un’espressione supplementare e a sé stante di umanità ma bensì la
determinazione dell’Esserci dell'uomo”. Cosa deve testimoniare l’uomo? “La sua
appartenenza alla terra”. Anche questa asserzione risulta difficile da
comprendere in quanto nella nostra comune concezione di uomo la sua
appartenenza alla terra è l’unica cosa che non deve essere dimostrata dal
momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare dunque inspiegabile come essa
possa essere considerata un suo compito, un’attività da compiere che si impone
costantemente all’uomo, e come essa si leghi alla questione della parola. Da
ciò si evince però un punto fondamentale: se per Heidegger l’uomo è tale solo
in quanto lo testimonia, ciò significa che la sua essenza non si manifesta
nella semplice-presenza ma bensì in un atto da compiere e realizzarsi. Tale
atto viene definito da Hördelin come testimonianza “dell’intimità” con la
terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin “intimità” è da intendersi
ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo riunisce le cose. La
“testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene attraverso la
creazione di un mondo la testimonianza dell’essere uomo e dunque il suo
compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa coglie il
necessario e si lega ad un ordine superiore”. Come dobbiamo però intendere
l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo questa
creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza? Heidegger
afferma che “l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo come
storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola.” In ciò
ritroviamo una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una
qualsiasi creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si
lega alla parola). Il mondo che appartiene all’uomo è solo il mondo della
parola dal momento che effettivamente si evince che l’uomo si appropria della
realtà esistente così come percepita considerandola il proprio mondo solo
attraverso il “denominarlo”: solo il “mondo denominato” è il suo mondo, il suo
cosmo. Questa appropriazione rappresenta la storia del formarsi dell’uomo.
Interpretare in questa maniera il pensiero di Heidegger sarebbe sbagliato in
quanto come egli stesso afferma che la lingua non ha il compito di denominare
qualcosa che è già esistente per creare un mondo supplementare del significato,
ma bensì è nella parola stessa che si rivela per la prima volta l’Ente e lo fa
solo nella parola. “La lingua non è solo uno strumento che l’uomo possiede
insieme a tanti altri ma bensì la lingua concede innanzitutto la possibilità di
stare nel mezzo del manifestarsi dall’Ente. Solo dove c’è lingua può esserci
mondo”. La lingua ha il compito di permettere all’ente di manifestarsi
nell’opera e di conservarlo tale”. In questo modo la parola acquisisce un nuovo
e determinato significato: essa non è più la parola pronunciata, il mondo che
esprime la fonetica e che ha molte altre possibilità di espressione ma bensì
parola significa qui prima manifestazione dell’Ente: parola, Logos come
fantasia, come apparizione nel senso più originario del termine. Heidegger
aggiunge poi: “La poesia è fondazione attraverso la parola e nella parola”. Ma
cosa significa qui fondazione? Se provassimo a tradurlo in termini filosofici
(termini legati a una determinata problematica teoretico-conoscitiva e proprio
per questo qui evitati da Heidegger) significherebbe qualcosa che non
presuppone l’esperienza, la percezione e che non può essere dedotta da essa a
posteriori ma bensì a priori. Attraverso il denominare dei poeti “l’Ente viene
per la prima volta chiamato e conosciuto come tale [...] ma dato che l’Essere
così come l’essenza delle cose non può essere mai né determinato né dedotto dal
presente, essi devono essere creati liberamente, fissati e donati. Tale libera
donazione è fondazione”. Da ciò si evince che se la poesia fonda l’originaria
manifestazione dell’Ente in essa l’uomo raggiunge il proprio fondamento. Così
come afferma Heidegger: “Il dire dei poeti è fondazione non solo intesa come
libera donazione ma bensì anche come solida istituzione dell’Esserci umano sul
suo fondamento”. La definitiva determinazione dell’essenza della poesia è da
intendersi come ciò che si realizza nella parola, nella lingua nel discorrere,
nel parlare, nell’ascoltarsi e nel comprendersi: il discorrere è possibile però
solo sulla base di un qualcosa di condiviso, attraverso il quale possiamo
comprenderci poiché altrimenti ognuno resterebbe bloccato nella propria lingua,
nel proprio mondo. Ogni parola fondamentale manifesta, come afferma Heidegger,
l’uno e lo stesso, qualcosa di duraturo ed esistente e dunque sempre presente.
In questo modo però la lingua si manifesta solo nell’ambito del tempo. Se però
solo in poesia la manifestazione dell’Ente si realizza originariamente nella
parola per poter definire l’intera problematica dell’essenza della poesia è
necessario sottolineare che non è quest’ultima che deve essere separata dalla
parola, dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza della lingua, della
parola, dalla poesia: solo così la poesia ottiene il suo primo centrale
significato ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a riconoscere quanto
segue: la parola, la lingua, la poesia mantengono negli scritti di Heidegger
una determinazione ontologica ma tuttavia non vi ritroviamo in essi né una
definizione della caratteristica della poesia né argomentazioni in merito al
fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione particolare. La differenza
ontologica in sé è valida per qualsiasi manifestarsi: non vi è però discussione
in Heidegger su un problema determinante ovvero se e come ad esempio il
manifestarsi nella sua forma logica e dunque nella necessità di affermazione
del generale così come nel Teeteto, si differenzi dalla forma poetica del
manifestarsi. Ciò è tuttavia di fondamentale importanza quando si parla di
essenza della poesia così come fa Heidegger nel suo sopracitato scritto. Solo
attraverso la risposta a questa domanda la poesia potrà acquisire una propria
forma e necessità e dunque una propria definizione. Ciò appare evidente nel
momento in cui confrontiamo le due opere “Dell’Essenza del fondamento” e
“Hölderlin e l’essenza della poesia”. Nella prima si tratta essenzialmente
della definizione di fondamento della verità ontologica (del Logos), laddove la
differenza ontologica viene intesa come Logos in senso ampio. Heidegger afferma
che la svelatezza dell’Essere “è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e
che la svelatezza dell’Ente e sempre in un certo senso anche quella
dell’Essere” (“Dell’Essenza del fondamento), per cui il fondamento della
svelatezza si trova nell'atto come differenza ontologica laddove esso è tutto
l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere, del Logos in
senso ampio. Questo svelamento si realizza solo per via di tale originario atto
del distinguere, così che la sua essenza sia trascendenza e fondazione e dunque
fondamento di tutto l’apparire che non può essere dedotto da esso ma che bensì
lo rende possibile. In questo modo, come abbiamo già fatto notare in precedenza,
resta però aperta la questione relativa all’ultimo significato di un qualsiasi
atto. Per questo motivo nella nostra indagine abbiamo anche sciolto la
questione heideggeriana giungendo autonomamente a una definizione il più
veritiera possibile di un qualunque processo sulla base del pensiero di
Teeteto. Nella sua ricerca sulla poesia Heidegger attribuisce dunque alle
parole la manifestazione dell’Essere. Ci è consentito quindi riferirci a questa
identità delle definizioni che egli attribuisce alla parola così come accade in
poesia e nella differenza ontologica. Egli afferma che la lingua “innanzitutto
consente la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dell’Ente e
che la poesia “è fondazione attraverso la parola e nella parola” (“Hölderlin e
l'essenza della poesia” pag. 8-10). Così come per la differenza ontologica
(origine dei tre modi del fondamento) anche per la poesia si afferma qui che
“essa è nella sua essenza fondazione e dunque istituzione determinata.
Heidegger afferma ancora che: “SOLO DOVE VI È LINGUA VI È MONDO e ciò è
possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’ente come ente così
conosciuto. Se dunque la differenza ontologica nella sua essenza è comprensione
illuminante dell’essere (Dell’essenza del fondamento), fondazione “di un
qualunque Ente il quale è svelato all’Esserci e dunque possibile, e se in
conclusione l’atto della differenza ontologica (il quale svela la sua essenza
nell’Ente) è nella sua essenza creatore di mondo qual è la differenza tra
fondazione, mondo, manifestazione dell'Ente (che è proprio della differenza
ontologica come fondamento della verità ontologica nella sua generica
concezione esistenziale) e poesia come determinato modo di esistere e di
manifestarsi? Non vi è forse alcuna differenza? Fin qui siamo stati autorizzati
nella determinazione della verità ontologica a limitarci alla definizione di
Logos in senso ampio. Ora appare però necessario per poter attribuire alla
poesia un significato ontologico trarre la sua definizione da quella verità ontologica
generale lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora potrà essere chiarito
anche il significato di fondazione, mondo, istituzione, manifestazione. Tale
problema relativo alle forme della realtà si è manifestato nel corso della
nostra indagine laddove siamo stati costretti a decidere se attribuire o meno
alla parola solo il significato dell’asserzione generale o anche altri. Gli
equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione dei concetti heideggeriano
di affettività, disposizione d’animo, Essere-nel-mondo e così via sono dovuti
in parte al fatto che la determinazione della realtà come svelatezza non deriva
da una considerazione generale antioggettivistica del fondamento del
manifestarsi. Non troviamo in Heidegger il problema delle diverse forme della
svelatezza nonostante il fatto che egli discuta dell’essenza della poesia.
Questo problema sorge solo nel momento in cui si attribuisce alla svelatezza
una determinata forma poiché solo in quel momento ci si chiede se questa è
l’unica o se ve siano di altre. Già con la definizione di verità come processo
del leghein che nell’asserzione del generale si impone come pensiero pensante,
si realizza il presupposto per sollevare la questione circa le forme. Con
questa affermazione non ci vogliamo porre in maniera critica nei confronti del
pensiero di Heidegger ma solo sottolineare la necessità che la discussione
nelle sue affermazioni tenga conto anche di tali questioni. Il problema delle
forme del Logos. Sulla scia del pensiero filosofico italiano, che prende le
mosse da De Sanctis, come si evince anche in Heidegger, abbiamo attribuito alla
parola un significato essenzialmente metafisico ovvero come manifestazione
dell’Ente. Non dobbiamo però dimenticare che già nel pensiero filosofico
italiano contemporaneo, che si oppone alla visione di Croce, Gentile nega
l’esistenza di diverse forme del manifestarsi poiché ne riconosce una sola:
quella del pensiero pensante. Egli afferma che tutto ciò che può essere
definito, differenziato, circoscritto attraverso l’atto del pensiero, a cui
egli attribuisce un significato ontologico originario, dunque appare. Se
ammettessimo diverse forme del manifestarsi senza riconoscerne la loro unità
d’appartenenza ci ritroveremmo con un insieme di forme diverse considerabili
unicamente da un punto di vista empiristico. Una differenziazione è possibile
solo sulla base di un atto originario nel quale e per mezzo del quale la
distinzione appaia come atto del pensiero. Dimostrazione di ciò è che ad
esempio il processo nel quale l’Ente si rivela all’artista coincide con quello
dell’esistere dal momento che per egli la realtà è ciò che gli si manifesta.
Unicamente nel momento in cui egli esce dalla sfera artistica e fa di un
qualsiasi mondo l’oggetto del giudizio solo allora la realtà gli apparirà come
un qualcosa di ottenuto, di soggettivo, come arte e non realtà. “Questa stessa
irrealtà e idealità dell’arte diviene realtà viva e presente se la si considera
così come la fantasia la proietta...questa è dunque la realtà che vaga nella
fantasia dell’artista, la realtà assoluta che non può essere separata da quella
a cui si fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è per l’artista, fin
tanto che si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo Gentile l’arte si
cela dietro il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale che si ripropone
sempre del pensiero pensante. Non possiamo però approfondire la questione.
L’argomentazione principale con la quale Gentile nega l’esistenza di diverse
forme del manifestarsi è che esse possono essere determinate solo attraverso un
atto che le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale conclusione
opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione sia
possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia come
una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il senso
fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del
manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la
cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato
queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la
questione metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il
problema dell’essere dell’ente si ricollegava allora espressamente a quello
dell’unità e della molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità
separatamente dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il
rivelarsi della molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento
dell’apparire, è un processo che si compie da sé, un atto che nel momento in
cui è ben circoscritto non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza
(ciò che Heidegger definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così
come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale.
Laddove la svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa
conoscenza come pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così
come Platone la identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la
svelatezza del proprio fondamento. Questa avviene nella trascendenza
filosofica, nella conoscenza dell'essere come conoscenza del proprio
fondamento: l’ineluttabile necessità di affermazione del generale. Da questo
generale e dalla conoscenza che ne deriva non è stata ancora mai creata poesia.
Nella conoscenza del fondamento c’è l’essenza dell’atto filosofico. Questa
conoscenza riguarda anche la creazione dell’arte ma da essa non deriva alcun
tipo di arte: questa conoscenza del fondamento non appartiene all’arte in
quanto tale tantomeno si riscontra in essa un inizio di ciò. Questa necessità,
che ci costringe alla conoscenza del fondamento e quindi alla conoscenza come
asserzione generale, è fondamentalmente un qualcosa di diverso da una qualsiasi
necessità che spinge l’artista alla creazione della sua opera. Con
l’affermazione di Gentile secondo cui qualsiasi differenziazione si fonda
nell’atto del pensiero non si va ancora a toccare il nocciolo della questione
che ci riguarda. Il problema delle diverse forme del manifestarsi può essere
sollevato o negato solo se non ci si limita a considerare ogni distinzione come
atto del pensiero: se ogni differenziazione si realizza per mezzo di un atto,
il quale per via della sua origine non può essere né dedotto né motivato (dal
momento che esso stesso è il presupposto di ogni motivazione, domanda o
risposta), allora dobbiamo chiederci se la necessità nella quale si manifesta
l’Essere logico come aspirazione all’affermazione del generale è la stessa
necessità per la quale ad esempio si compie la differenziazione poetica. Ogni
atto come fondamento del manifestarsi di qualcosa è necessariamente fondazione,
trascendenza e dunque possibilità di apparire di una molteplicità, di una
differenziazione che non presuppone l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in
una molteplicità ordinata, in un mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la
manifestazione di un qualcosa nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si
ottiene dunque attraverso il dubbio, dalla necessità di affermazione del
generale una differenziazione poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si
trova” in un mondo delle differenze e delle determinazioni che è identico a
quel mondo che deriva dal pensiero? Abbiamo definito l’Essere che si manifesta
nel pensiero pensante essenzialmente come necessità di affermazione del
generale. Da ciò possiamo dedurre che la questione circa la molteplicità delle
forme del manifestarsi non può essere sollevata o risolta se si afferma che
ogni differenziazione non è altro che la realizzazione di un atto del pensiero
ma bensì solo domandandosi se la differenziazione poetica, la determinazione
siano da ricondurre alla necessità di affermazione del generale. Rispetto a che
cosa misura il poeta la parola, l'espressione? Non da qualcosa che è
all’esterno altrimenti come sarebbe possibile farlo da un oggetto? Ma bensì da
ciò che in esso si manifesta. Da ciò che è in sé confrontare, scegliere,
differenziare, decidere ed è possibile solo sulla base di una necessità,
attraverso la quale il poeta capisce se l’espressione è adeguata o meno. Solo
ciò che è necessario, fisso ed esistente può essere misurato. Questa necessità
che si cela nell’oggetto poetico si manifesta nell’immediatezza
dell’originario, del primo che per questo deve essere sempre qualcosa di
istantaneo e per questo essa si rivela in un attimo presente e unico. Solo
grazie all’attimo, al presente il poeta vede ciò che è già e ciò che ancora non
è. Nell’attimo si schiude la temporalità che è sempre temporalità di un determinato
manifestarsi. Per tale motivo il processo poetico e il suo paragonare
“interiore” per poter trovare l’adeguato vocabolo poetico non deve essere
considerato come “interiorità” psicologica e romantica ma bensì come qualcosa
in cui si realizza una determinata forma di manifestazione nella quale
all’arte, al bello spetta un significato ontologico. Anche l’uomo pensante non
misura la verità delle proprie definizioni da qualcosa che si trova al di fuori
della necessità di affermazione del generale dato che l’Essere logico è e
appare solo in una qualsiasi necessità. Il pensiero vero è solamente quello che
riesce a resistere a qualsiasi necessità e mai fugge da essa poiché ricorre a
una determinazione che in sé non può giustificarla. In ciò consiste il profondo
carattere etico che ogni verità possiede. Già il riconoscere di non sapere è
una risposta all’originaria necessità. Allo stesso modo in cui l'uomo pensante
guarda solo a una qualsiasi necessità che possa fargli riconoscere la verità
della propria determinazione, verità che si cela con la forza attraverso la
quale la necessità si manifesta, così il poeta paragona e sceglie la parola
poetica non paragonandola all’Ente esteriore ma bensì alla necessità che si
manifesta in esso: questo non è però mai un momento di conoscenza del
fondamento. Solo rispondendo alla domanda che ci siamo posti sulle forme della
necessità, sulla base della quale può essere distinta una molteplicità, si
evince, contrariamente a quanto affermato da Heidegger, che i tre modi del fondamento
che egli ha indicato come motivo del manifestarsi, fondazione (trascendenza),
Essere-nel-mondo (affettività) e possibilità del perché, solo in questo
contesto possano essere definiti chiaramente. È importante precisare che
attraverso il carattere originario e ! 285! immediato della necessità
dell’Essere dall’Ente, il problema delle forme dell’Essere si cela dietro
quello dei diversi attimi per l’ambiguità della parola tedesca Augenblick che
può essere intesa sia come visione e dunque manifestazione dell’Ente sia come
espressione temporale di attimo, momento. Infatti l’Essere oggetto della nostra
indagine che nel dubbio si manifesta originariamente come necessità di
espressione del generale ci offre una ben determinata visione di svariati Enti.
Questa molteplicità in quanto tale è solamente un momento del compiersi di una
qualsiasi necessità. Da ciò si evince anche un ben determinato arco temporale:
poiché sulla base dell'imporsi di una qualunque necessità si manifesta un
determinato “prima” e “dopo”, una visuale di ciò che vediamo “già” e di ciò che
non vediamo “ancora”, un passato e un futuro. Saggi: “Il problema della
metafisica platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire e dell’essere”; “Linee
della filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed errare -- un confronto”
(Napoli, Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come anti-arte. – il bello
nell’eta antica” (Torino, Paravia); “Potenza dell’immagine – ri-valutazione
della retorica, Milano, Guerini);“Potenza della fantasia” – “Per una storia del
pensiero occidentale, Napoli, Guida, “Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica, Napoli, Sole, Heidegger e il problema dell’Umanesimo, Napoli,
Guida, Umanesimo e retorica. Il problema della follia, Modena, Mucchi, La
filosofia dell’umanesimo. un problema epocale, Napoli, Tempi Moderni, La
preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart, Novalis,
Modena, Mucchi, La metafora inaudita, a cura di M. Marassi, Palermo,
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metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte” (Lecce, Congedo, “Il dramma della
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proposito di un Cinquantenario, in «Rassegna Nazionale», Roma; Germania, in
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in «Rassegna Nazionale», Roma Scolastica e storia. A proposito di due articoli
di Saitta, in «Rassegna Nazionale», Roma Machiavelli e lo stato, in «Rassegna
nazionale», Roma La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in «Rassegna
Nazionale», Roma La filosofia dell’azione «Rivista di filosofia», Milano
Empirismo e naturalismo «Rivista di filosofia», Milano Sviluppo della
fenomenologia «Rivista di filosofia», Milano Metafisica immanente «Giornale critico della filosofia italiana»,
Milano L’equilibrio come ideale di vita «Rivista di filosofia», Milano Platonismo
«Rivista di filosofia», Milano La filosofia in eta antica in «Rivista di
filosofia», Milano La reminiscenza «Giornale critico della filosofia italiana»,
Firenze “Paideia ed umanesimo”, in «Sophia», Napoli L’eterno ritorno Sophia,
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postfazione a E. Grassi, Il dramma della metafora, Napoli Hidalgo-Serna E., In
memoriam G., in «Synthesis philosophica», Zagreb Trad. serbo-croata In memoriam
G. Filozofska istravanja», Zagreb Hidalgo-Serna E., Ha muerto Ernesto Grassi,
el filósofo del Humanismo, Anthropos. Revista de documentación cientifica de la
cultura», Barelona Hidalgo-Serna E., Die Unbleitbarkeit der Sprache bei Vives,
Synthesis Philosophica, Zagreb Neizvedivost jezika kod Vivesa, Filozofska
istrazivanja, Zagreb Konnersmann R., Zeit für einen Gegen-Aristoteles. Auge
blinzt und Ohr erstaunet. Grassis Apologie der Metapher, Recensione a E.
Grassi, Die unerhörte Metapher, Frankfurt Frankfurter Allgemeine Zeitung»,
Mattioli E., Ricordo di Ernesto Grassi e Gianfranco Folena, in «Testo a
Fronte», Napoli Miccoli P., Una acuta rivisitazione della tradizione
umanistica, in «Tempo Presente», Müller W. J., Ereignis. Gespräch. Zum Tod Ernesto
Grassis, in «Bayernkurier Petrovic G., Marx, Arbeit und Gelassenheit. Ein Brief
an Ernesto Grassi, in «Synthesis philosophica», Zagreb Arbeit und Gelassenheit.
Zwei Grundformen des Umgangs mit Natur. Zürcher Gespräche III, a cura di
Ernesto Grassi-Hugo Schmale, München, Fink, Marx, rad i opustenost. Pismo G.,
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Rehabilitacija latinske i humasticke tradicije. Grassi versus Hegel, in
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G. in «Il Golfo», Ischia Marassi M., Metafora, dramma dell’umanità, Il Giornale
di Napoli, Napoli, Mate R., Un modo espanol de pensar, Recensione a E. Grassi,
La filosofia del Humanismo, Barelona El Pais, Madrid Tommasi R., “Essere e
tempo” di Martin Heidegger in Italia, Milano, Glossa, Verri A., G.
sull’Umanesimo e Heidegger, in «Il Veltro Ricordo di Ernesto Grassi, in Storia
e Humanitas. Momenti del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, Galatina,
Congedo, Huelva Unternbäumen E., Kunst und Logos. Ernesto Grassis Ästhetik als
Vermittlung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, in «Widerspruch»,
München Muller P., Profils de G. in «Revue de Theologie et de Philosophie Fierz
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Park and London, Fontane-De Visscher L., Un débat sur l’humanisme. Heidegger et G., Revue philosophique de Louvain, Simonetta,
Filosofia e potere: su G., in «Intersezioni», Mooney The Tragedy of the
rationalistic Process, Semiotica, Marassi M., Esperienza e passione. G. e il
problema del fondamento, in Studi in memoria di G., a cura di E. Hidalgo-Serna
e M. Marassi, Napoli, La Città Del sole, Gentili C., Concezione e funzione del
mito nel pensiero di G., in Studi in memoria di G., Bons E., Il pensiero di G..
Una breve sintesi, in Studi in memoria di G., Veit W. F., Critica radicale
della ragione – O l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, in
Studi in memoria di G., Petrovic G., Lavoro e abbandono. Lettera a G., in Studi
in memoria di G., Wisser R., Ricordo di G.. Arte e mondo, in Studi in memoria
di G., Pietropaolo D., Bottai e la fondazione dell’Istituto Studia humanitatis,
in Studi in memoria di G., Schwerin Gli anni di fondazione e la prima attività
promossa dal Centro Italiano di Studi Umanistici e filosofici di Monaco: un
ricordo, in Studi in memoria di G., Kessler E., L’attività di G. all’Università
di Monaco di Baviera, in Studi in memoria di G., Barceló J., Ernesto Grassi e
la sua esperienza sudamericana, in Studi in memoria di G., Neher M., G.
curatore della Rowohlt Deutsche Enziklopädie. Radici critico-culturali,
programmi e primi inizi, in Studi in memoria di G., Verene D. P., Grassi in
America, in Studi in memoria di G., Mathieu V., I temi di G. nei “Colloqui
zurighesi”, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cSchmale H., Lo spirito dei
Colloqui di Zurigo, in Studi in memoria di G, Keßler E., Il vero, il buono e il
bello. L’ascesa del bello nella filosofia del Rinascimento, in Studi in memoria
di G., Vasoli C., Speroni e il luogo della retorica nel sistema del sapere, in
Studi in memoria di G, Cantillo, Ratio e iventio nell’interpretazione
dell’umanesimo, in Studi in memoria di G., Tagliacozzo G., L’istante iniziale
della carriera vichiana di G., in Studi in memoria di Ernesto Grassi,
Battistini A., Vico e l’Umanesimo inquieto di G., in Studi in memoria di G.,
Verri A., G.: LINGUAGGIO e civiltà in VICO, in Studi in memoria di G., Amoroso
L., Heidegger e la metafisica, in Studi in memoria di G., cVincenzo J., La
ripresa grassiana di Vico, l’unità di pietà e sapienza, in Studi in memoria di G.,
Mattioli E., La teoria del bello nell’antichità secondo G., in Studi in memoria
di G. Lombardo G., G. lettore del “perì hypsos”, in Studi in memoria di G. Bornschauer
L., La filosofia nell’orizzonte della tragedia attica. Riflessioni sull’opera
di G. Il dramma della metafora, in Studi in memoria di G. Simonetta M., Il
dramma della metafora. G. filologo del poeta, in Studi in memoria di G.Di
Cesare D., Note al “Monologo” di Novalis, in Studi in memoria di G., Kaiser H.,
Il problema della metafora vuota in G.. Un’osservazione sulla sua
interpretazione di Jean Paul in Studi in memoria di G., in Studi in memoria di G.,
Contini A., Esperienza e verità delle passioni: il Proust di G., in Studi in
memoria di G., Russo L., G. e CROCE, in Studi in memoria di G., Acunto, L’appello
della parola. La rilevanza filosofica del problema della metafora nella
Auseinandersetzung di G. con Heidegger, in Studi in memoria di G., Messori R.,
Differire e trasferire. La spazialità del linguaggio metaforico, in Studi in
memoria di G. Baer E., G. e la parola poetica di Paul Célan, in Studi in
memoria di G., Hidalgo-Serna E., La poetica dell’Umanesimo di Paz, in Studi in
memoria di G., Gentili C., Introduzione a Arte e Mito, Napoli, La Città Del
Sole, Russo L., Presentazione a Un filosofo europeo. G., Æsthetica, Marassi M.,
G. e l’esperienza del fine, in Un filosofo europeo. G. Cesare D., Metafora e
differenza ontologica: G. vs Heidegger?, in Un filosofo europeo. G., Amoroso
L., Da Aristotele a Vico. A proposito di Grassi e il mito, in Un filosofo
europeo. G., Modica G., Oltre Heidegger e VICO. Sulla prospettiva filosofica di
G., in Un filosofo europeo. G., Mattioli E., Appendice: Prefazione alla seconda
edizione di Die Theorie des Schönen in der Antike, Messori, R., Recensione a E.
Grassi, Arte e mito, Napoli, La Città Del Sole, Poetiche. Letteratura e altro»,
Modena, Fasano T., Recensione a Studi in memoria di G., a cura di E.
Hidalgo-Serna e Marassi, Napoli, La Città Del Sole, Studi di Estetica, Bologna
Pons A., G. lecteur de VICO, in Présence de Vico, a cura di R. Pieri,
Montpellier, Prevue, Messori R., Ernesto Grassi e l’estetica dell’ingenium, in
Studi d’Estetica, Bologna, Baer E., Noetic philosophing – Rhetorics
Displacement of Metaphysics Alcestis and Don Quixote, Philosophy and Rhetoric,
University Park and London, Ratto, Recensione a Studi in memoria di G., a cur. Hidalgo-Serna
e Marassi, Napoli, La Città Del Sole, Philosophy and Rhetoric», University Park
and London, Crivano F., Recensione a G., Arte e mito, Napoli, La Città Del
Sole, in «Studi di Estetica, Bianco Recensione a Un filosofo europeo. G. in
«Aesthetica Studi di Estetica», Bologna, Messori R., Critica e difesa dell’estetico
in G., in Un nuovo corso per l’estetica nel dibattito internazionale, Arezzo,
Trauben, Marassi M., Introduzione a Viaggiare ed Errare. Un confronto col
Sudamerica, Napoli, La Città Del Sole, Messori R., Paesaggio ed esperienza
estetica, nota a Ernesto Grassi, Viaggiare ed errare, Napoli Studi di
Estetica», Bologna, Marassi Introduzione a G., Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, Napoli, La Città Del Sole, Cacciatore G., America latina
e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in «Cultura
latinoamericana», Annali Esiste una versione spagnola del saggio Amèrica latina
y pensamiento europeo en la filosofia del viaje de Ernesto Grassi, in Id., El
bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofìa hispanoamericana, Planeta,
Bogotà Pardo G. reivinca la figura de VICO par su oposición al cartesianismo,
El Pais, Madrid Messori Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e
umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, Centro Internazionale Studi di
Estetica, Palermo Kozljanic R. J., Kunst und Mythos. Lebensphilosofische
Untersuchungen zu Ernesso Grassi Begriff der Urwirklichkeit, Igel Verlag,
Oldenburg Bisin Recensione a Kozljanic, Kunst und Mythos. Lebensphilosofische
Untersuchungen zu G. Begriff der Urwirklichkeit, Igel Verlag, Oldenburg Rivista
di filosofia Neo- scolastica, Raimondi R., La retorica d’oggi, il Mulino,
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metaforica dell’ontologia fondamentale, GDS, Edizioni di Vaprio d’Adda, Milano,
Rubini R., Philology as Philosophy: the sources of G.’s Postmodern Humanism, in
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Studia Humanitatis di G., in «Giornale critico della filosofia italiana Barnes
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ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema ,
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razòn problematica. Motivos en Vico y Ortega, Anthropos, Barcelona Limongelli
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G. und Otto, in Art, Intellectual Politics. Aa diachronic perspective, Brill, Leiden; Cacciatore
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anzukommen. Eine Konfrontation mit Sudamerika de G. in AA. VV, Magister et
discipuli. Filosofìa, historia, politica y cultura, Penguin Random House,
Bogotà; Ead., “Meditazioni sudamericane”: la tappa sudamericana
dell’onto-antropo-logia di G., in “Studi Interculturali”, Ead., La realtà umana
tra disvelamento e fondazione: l’incidenza di Vico e Leopardi nell’antropologia
di G,, in cds in ISPF Lab Ead., Il ruolo di Platone nell’onto-antropologia di G,,
in cds in A. Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo,
Limina mentis, Ead., Traduzione di E. Grassi, Der italienische Schopenhauer, in
AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper, München Lo Schopenhauer
italiano, in cds in “Archivio di Storia della cultura”; G. in München. Aspekte
von Werk und Wirkung, Atti del Convegno svoltosi a Monaco, in cds per
l’editore Fink.Ernesto Grassi. Grassi. Keywords: la metafora inaudita, metafora,
Vico, Ovidio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grassi e Grice: il Vico di Grassi:
metafora come implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grassi: all’isola -- la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- dove fiorisce il limone – la
giovinezza e il fascismo – parole ai giovani – al senato -- filosofia fascista – filosofia siciliana – filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Mascali).
Filosofo italiano. Filosofo siciliano. Mascali, Catania, Sicilia. Grice: “I
like Grassi; he wrote on Faust!” Inizia gli studi ginnasiali presso il
seminario di Acireale fino alla terza ginnasiale, proseguendoli poi a Catania,
presso il liceo "Nicola Spedalieri".
Assiduo frequentatore della sala di lettura dell'Catania, conobbe
Rapisardi, cui lo legò una profonda stima ed affinità. Si laurea a Napoli con “La memoria delle
immagini acustica e visiva della parola in rapporto specialmente al tempo di
"fissazione", suggeritagli da Bianchi (Rivista di Freniatria). Si
trasferì a Messina dove divenne assistente di Weiss. Comincia a provare le
prime grosse delusioni per l'inconciliabile contrasto fra le esigenze pratiche
della professione, che rischiavano di piegarlo a umilianti compromessi, e le
alte aspirazioni della sua anima. Muta bruscamente
indirizzo, iscrivendosi alla facoltà di scienze naturali, conseguendo così la
laurea con Mingazzini sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro,
che poi fu pubblicata su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato a Bologna,
era felice di averlo come assistente. Il suo spirito inquieto cerca altre vie
ed altri sbocchi, e così intraprese a frequentare le lezioni che si tenevano
nella facoltà di filosofia a Catania, nel Palazzo Grassi, a Via Firenze. Prrofondamente
influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi dove campeggiavano figure
come Pascoli, col quale strinse amicizia, Cesca, Barbi, Mancini, Ardigò, Dandolo
e Salvemini. Si laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con “L'unità dei
fatti psichici fondamentali” (Muglia, Muggia, Messina). Insegna a Caltagirone e
Catania. Inizia un'intensa attività che vide tra i suoi maggiori corrispondenti
Gentile eSturzocon i quali intrattenne un copioso carteggio oltre al letterato
Villaroel, Farinelli, Varisco, Majelli, Carabellese e Fassò. Fonda Prisma a cui collabora, tra gli altri,
anche M. Sgalambro. Altre saggi: “Preludi
a un commento alla vita del Faust” (Catania, Studio Moderno); “Commento alla
vita di Faust” (Torino, Bocca); “Preludi storico-attualistici alla Critica della
ragion pratica” (Catania, Crisafulli); “Medico mancato” (Catania, Legione);
“L’assoluto”, Roma, Enciclopedia Treccani); “L’assoluto” Roma, Enciclopedia De
Carlo. “Giornale critico della filosofia italiana” “Logica e metafisica”,
“Goethe in Italia”, “La musica e le idee” – “Esegesi del Fausto” “tramonto di
Occidente”; “REminiscenze e visione paesane”;
“La giovinezza e il fascismo – parole ai giovani” (Senato). “Mazzini”; “Il faust e il tramonto dell’occidente o di
una nuova corrente esegetica del Fuasto in Germania”; “Goethe in Italia”; Membro
della Fondazione GENTILE per gli Studi Filosofici. Un filosofo dall'anima di
poeta, Teoresi Rivista di cultura Filosofica. Da Herbart in poi la psicologi
concepisce una unità al fondo di tutte le manifestazioni della vita psichica; ma
visono tre modi principali di concepirla: l'intellettualismo (rappresentato
specialmente perl'appunto da Herbart), il sentimentalismo (Horwicz,Regalia), e il
volontarismo (Schopenhauer, Wundt, Fouillée ecc.). Questo terzo, è pare,
all'ultima moda. Lo vediamo informare anche il neo-idealismo, che non si
accorge di restringere ancora più la intui rione dal mondo in un piccolo
cerchio antropomorfico. G. esamina le teorie metafisiche dello spirito e le
critica tutte e tre, con Egli conclude per il monismo psicologico: ossia contrariamente
ai riduttori favorevoli all'uno o all'altro elemento fra i tre fondamentali, si
pronuncia per una unità primordiale di tutta la psiche, la quale unità consta
ad un tempo di rappresentazioni, di sentimenti e di tendenze integrate in
maniera indissolubile, ma capaci di assumere per evoluzione sempre più
chiarezza e sempre più distinzione.Cosi G. si connette a due psicologi italiani
insegnanti nello stesso ateneo patavino, ma purtanto dissimili: Bonatelli e ARDIGÒ,
due valori anche disugualmente conosciuti e apprezzati in Italia.
Un'osservazione critica. G. inserisce molte citazioni originali in tedesco, il che
-- oltre a dar luogo a gravi errori di stampa -- induce fatica inutile
nell'animo del lettore. Non si è obbligati, tutti, di sapere il tedesco,
massime quello dei filosofi e metafisici. Il Trieb, il Drang, il Lust, l’Unlust,
il Selbsterhaltung, e simili parolear restano penosamente. È upa ostentazione
di coltura erudita che a scapito della intelligibilità della lettura. Qualche
insolente potrebbe supporre che l'autore, messo di fronte ai testi, imbarazzato
di tradurre in verbo e nerbo italiani i pensieri, si levi d'impiccio col
cominciare periodi e frasi in italiano e col finirle in tedesco. No. Si citi
pure l'originale, ma in nota e nel testo si metta l'equivalente italiano. La
chiarezza non deve essere uccisa dalla pedantesca precisione. RENDA A., La dissociazione
psicologica. Torino, Bocca. La dissociazione, dice l'Autore, è un processo
normale dell'attività mentale:questa non soltanto associa, ma pur dissocia, poichè
distingabile competenza una inne non si può dire per ciò che faccia fica
italiana; tutt'altro! L'argomento, ma molto utile filoso è di cosi alta portata
che riesce in materia. Egli e stato preceduto dal Faggi opera inutile nella
letteratura guardarlo da varie parti e con occhi differenti. E poi , oltre ai
tre indirizzi principali, G. parla anche di alcuni scrittori darii, fra cui
Ward, Ebbinghaus secon giovane, Brentano, Lipps, Masci ecc. Questo scrittore ha coltura estesa anche
nel campo biologico possiamo garantire che darà altri frutii, e succosi e
forti, al, e noi pari del presente volume. Va Uu op.in. RASSEGNA DI FILOS.
“Goethe in Italia” L'opera e scritta in tre momenti successivi. L’Ur-Faust,
influenzato dalle rappresentazioni del Faust di Marlowe a cui Goethe assiste
sotto forma di teatro delle marionette. Si veda Dottor Faustper il personaggio
storico. L'Ur-Faust appartiene culturalmente alla corrente letteraria tedesca
dello Sturm und Drang e venne pubblicato, con alcune aggiunte, sotto il nome di
"Faust. Ein Fragment". Più tardi pubblica un ulteriore seguito, che
già ricade nella corrente letteraria del classicismo, "Faust. Erster
Teil" (Faust. Prima parte. Viene aggiunto il Prologo in cielo e sono
apportate modifiche significative all'Ur-Faust. Così Mefistofele appare a Faust
promettendogli di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare
che quell'attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust
è sicuro di sé: tale è la sua brama di piacere, azione e conoscenza, che è
convinto che nulla mai al mondo lo sazierà tanto da fargli desiderare di
fermare quell'attimo. Mefistofele gli fa conoscere Margherita - detta
Margheritina e Greta - la quale si innamora perdutamente di Fausto,
inconsapevole del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è
nient'altro che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di
Margherita e tragica. In Faust. Zweiter Teil (Faust. Seconda parte) la scena si
allarga per celebrare l'unione tra letteratura classicistica e mondo classico. Fausto
seduce e viene sedotto da Elena di Troia. L'opera nel suo complesso risulta di
12.111 versi. Fausto. Tragedia di Volfango Goethe, Scalvini e Gazzino, Le
Monnier, Firenze; Fausto, trad. Giovita Scalvini, Sonzogno, Milano; come Faust,
Einaudi, Torino 1953 Fausto. Tragedia di W. Goethe, trad. di F. Persico,
Stamperia del Fibreno, Napoli, Fausto. Tragedia di Wolfgango Goethe, trad. di
Andrea Maffei, 2 voll., Le Monnier, Firenze, Fausto. Parte Prima. Erminio e
Dorotea di Wolfgango Goethe, trad. di Anselmo Guerrieri Gonzaga, Le Monnier,
Firenze, 1873 Fausto. Tragedia del Goethe, trad. di G. Biagi, Sansoni, Firenze,
1900 Johan Wilhelm von Goethe, Faust. Prima parte, trad. di G. E. Vellani, Cogliati,
Milano, Johann Wolfgang Goethe, Il Faust, 2 voll.: vol. I Versione, Commento,
pp. 423, versione integra dell'edizione critica di Weimar, Introduzione e trad.
e commento di Guido Manacorda, Mondadori, Milano; Collana I Classici
Contemporanei, Mondadori, Milano, 1949; ora in Faust, con un saggio
introduttivo di Thomas Mann, testo tedesco a fronte, nota al testo di Giulio
Schiavoni, Collana Classici, BUR, Milano, Goethe, Faust. Tragedia, trad. di
Cristina Baseggio, Facchi, Milano, 1923; Urfaust. Il "Faust" nella
sua forma originaria, Introduzione e trad. e commento a cura di C. Baseggio,
Collana I Grandi Scrittori Stranieri UTET, Torino, Faust. Parte I, trad. di
Liliana Scalero, P. Maglione, Roma, 1933; come Il primo Faust, BUR Milano, Rizzoli,
Il secondo Faust, ivi (BUR Faust, trad. di Vincenzo Errante, Sansoni, Firenze, Faust,
trad. di Enzio Cetrangolo, Federici Editore, Pesaro, [scelta] Faust,
introduzioni di Mario Apollonio, note di Renato Maggi, Milano, Bietti. Il
Faust. Versione d'arte con testo critico di Weimar a fronte, introduzione e
commento a cura di Guido Manacorda. Vol. I, Collana Sansoniana Straniera,
Sansoni, Firenze, 1949 Volfango Goethe, Faust, trad. e prefazione e note di
Barbara Allason, Francesco De Silva, Torino, 1950, poi Faust, Introduzione di
Cesare Cases, Collana NUEEinaudi, Torino, Faust, trad. di Giovita Scalvini,
Collana Universale n.16, Einaudi, Torino, ed. riveduta su nuovi documenti,
Giovita Scalvini. La traduzione del Faust di Goethe, a cura di B. Mirisola,
Collana Biblioteca morcelliana, Brescia, Morcelliana, 2012 Faust. Urfaust,
versione integrale, Introduzione e note a cura di Amoretti, Collana I Grandi
Scrittori Stranieri, UTET, Torino in Faust e Urfaust, Collana UEFn.Milano,
Feltrinelli, ora in Collana Universale Economica. I Classici Feltrinelli,
Faust. Seconda parte, trad. di A. Buoso, Longo e Zoppelli, Treviso, 1962 Faust,
Introduzione, trad. e note a cura di Franco Fortini, testo tedesco a fronte,
Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, Collana Biblioteca n.18, 2 voll.,
Mondadori, Milano, Collana Grandi Classici, Oscar Mondadori, Milano, Collana
Nuovi Classici, Oscar Mondadori, Milano, Faust, a cura di M. Cometa, Collana
Idola, Novecento, Faust, trad. di M. Veneziani, pp. 592, Schena Editore,Faust,
trad. di R. Hausbrandt, Dedolibri,Faust. Urfaust, trad. e cura di Andrea
Casalegno, introduzione di Gert Mattenklott, prefazione di Erich Trunz, Collana
I Libri della Spiga, Garzanti Libri, Milano; prefazione di Italo Alighiero
Chiusano, Collana i grandi libri Garzanti Libri, Milano, Faust. Testo tedesco,
traduzione a fronte e commento di Vittorio Santoli. Prefazione di Fabrizio
Cambi, edizioni aicc castrovillari; trad. di Vittori Santoli e V. Errante,
Gulliver, Santarcangelo di Romagna, Faust, trad. e note di Andrea Casalegno,
illustrazioni di Eugène Delacroix, presentazione di Mario Luzi, Collana I
Grandi Libri Illustrati, Le Lettere, Firenze, Il Fausto di Gounod. Dimora casta
e pura, dimora si o casta, il mefistofele di Boito. Grice: “I’m not happy with
calling Grassi an Italian philosopher. For one, his selected essays were
published in Sicily in a collection called “Biblioteca Siciliana di Cultura”. Leonardo Grassi. Grassi. Keywords: dove fiorisce il
limone, la giovinezza e il fascismo: parole ai giovani – senato; Mazzini. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Grassi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grataroli: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale e la memoria – filosofia lombarda – scuola di
Bergamo – filosofia bergamesca --- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo). Filosofo italiano. Grice: “I like Grataroli, the Pope
called him ‘infamous heretic,” which is a good start! He wrote a book on
‘semiotics’ of the times, but it got lost – you cannot understand Bruno unless
you do Grataroli – he philosophised on many subjects, including dreams and
alchemy!” –Di una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana
con la città di Venezia. Questa,
originaria del borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco in val Brembana,
oltre a possedere gran parte della contrada e dei terreni circostanti (tra cui
anche l'edificio che attualmente ospita la casa di Arlecchino), annoverava tra
i suoi membri una folta schiera di "phisici", tra i quali si segnalarono
il nonno di G., fondatore del collegio dei fisici di Bergamo, e il padre di G.,
Pellegrino, fisico presso la città orobica. Publica una dispensa inerente osservazioni
sul mondo della natura. Straparla de le cose pertinenti a la fede et di essa
fede et de la autorità del papa, nega il purgatorio, le indulgenze, i suffragi
per i defunti, la venerazione dei santi, la presenza del corpo di Cristo
nell'eucaristia. Eeretico pertinace et scandaloso et infame, peste contra la
fede. Insegna a Basilea. Presso l'ingresso dello studio aè presente un suo
busto. Noti sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della
memoria, sulle epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e
veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia. Si segnala per
la teoria fisiognomica. Argomenta su Pomponazzi e da indicazioni sia per il
mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché un
saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai
viaggiatori di quel tempo. Saggi: “De memoria reparanda, augenda
servandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel
peditum, vel navi, vel curru, seu rheda”; “Turba Philosophorum”; “De
literatorum et eorum qui magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque
valetitudine compendium” (Perna, Basilea); “Veræ alchemiæ artisque metallicae,
citra aenigmata, doctrina, certusque” (Perna, Basilea); “De fato, libero
arbitrio et providentia Dei” (Perna, Basilea); “Alchemiae, quam vocant,
artisque metallicae, doctrina, certusque modus” (Perna, Basilea); “De balneis”
(Bergamo). Quaderni brembani, Storia di Milano
Flavio Caroli, Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a
Freud M. Meriggi e A.Pastore, Le regole
dei mestieri e delle professioni: A. Castoldi, Bergamo ed il suo territorio. Bergamo,
Bolis, G. Gallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di Gulielmo G. filosofo (Bergamo, Locatelli); M. Meriggi, Le
regole dei mestieri e delle professioni: C. Vasoli, Le filosofie. del Rinascimento, Bottani e Taufer, Storie del
Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento, Ferrari, Tiraboschi,
Storia della letteratura italiana, Napoli, Classici. Fisiognomica Mnemotecnica
Peste. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. “Prognostica naturalia de temporum omnimoda mtuatione, perpetua
& cer- ùjjìma Jigna rerum, quoe in Aere, Terra, aia Aqua sunt,
aut Jìunt , krevìter, & dare, ordine que alphabetico de scripta
per G. P/iy/i- cum y cuni Addinone undcam fìgnorum Motus Terra, ex
Antonio Mi^aldo, Basilea? apud Jacobum Pareum. Ibi- dem apud
Nicolaum Episcopium. Tiguri in 8. Argentorati in 8. apud Iacobum Ofemianum. L’opera
indicata, con le altre due De Memoria reparanda t e » De Prjediclione morum si
trovano unite tiell’accennata edizione di Argentina alli Trattati di
Chiromanzia , e di Astrologia natu- rale di Giovanni Indagine, o sia
Giovalini Hagen dotto Certosino del decimoquinto secolo ? ed al saggio De
Sculptura di Gauricio Matematico Napolitano. Perchè G. non venga tacciato di
superstizione o di puerile credulità a motivo delle cose da esso scritte
parlando dei Pronostici naturali e della Predizione dei costumi, credo cosa
necessaria fedelmente trascrivere la Protesta, o sia Avvertimento
al Lettore, che si trova nella edizione di Devi poi avvertire , che
generalmente parlando le cose dette si verificano nella gente grossolana y
vale a dire di coloro, i quali non sono rigenerati dallo spirito e
dalla grazia di Dio , perchè di questi è vero ciò che dicesi della
depravata natura in Adamo , che Naturce fequitur femina quifque fucc
» : Ma air opposto i rigenerati dallo Spirito Santo mortificano la
propria carne con i suoi vizj , e con le » sue concupiscenze , sebbene la
concupiscenza ed il fomite del peccato vi restino sempre, e da moltissimi, o
Dio , anche pur troppo si riducano alla pratica », A gloria di G.
riporterò anche la sua opinione sopra la causa del flusso e
riflusso del mare r avendo precoAizzato più di due secoli prima quasi
intieramente il sistema del rinomatissimo Cavaliere Isacco Neuton circa lo
stesso fenomeno : opinione approvata ed insegnata da quasi tutti i
Filosofi posteriori a quel subitine Geometra. l moto periodico della Luna
ha grande predominio sopra li corpi fluidi , quindi fa che il mare s
in- nalzi e si abbassi ^ singolarmente per una particolare di lei
influenza , e ne segua il flusso , ed il riflusso secondo i
differenti aspetti relativi alla medesima , e secondo che questi
accadono nella maggiore o minore forza della sua influenza. Accade
ciò perchè la Luna ha bensì certa influenza coir Oceano , ma non già coi laghi
e coi mari di poco estesa superficie. Per la qual cosa mentre quel
Pianeta si muove dall' Oriente verso il mezzo giorno , fa che la
superficie del mare s' innalzi , e che conseguentemente ne segua il
riflusso medesimo. Quando poi si muove dal mezzo giorno verso Y occidente
fa che il mare si abbassi , e però ne nasce il riflusso. Similmente
allorché la Luna si muove dall' occidente verso V angolo della
notte , o sia da settentrione verso V o- i icnte, ne segue nuovamente il
riflusso r> G. Artium > & Mediani? Docloris de Memoria
reparanda, augenda > fervandaque, Liber omnimoda Remedia > &
Pnzceptio- nes continens cujufivis facultans jhuliofis apprime
utilis «, immo maxime necejjlvius, Tiguri ? apud Andream Gesneruni in 8. , Basilea apud Nicolaum
Episcopium in 8., Lugduni , apud Gabrielem Coterium, Francofurti
apud Joannem Vichelium. Ibidem apud Viduam Petri Fischeri in
12., Argentorati» Nel frontespizio dell'accennata edizione di Argentina
si trovano queste parole : » Omnia ab An- afore correcla P ancia
finis > 6' ultimo edita. La stessa Opera De Memoria reparanda è stata
stampata unitamente all' altro saggio del G.» De confervanda
Valetudine » da Rantzovio. De Prcediclione morum naturaque hominum, cum ex
infipeclione partìum corporis tutu aids modis «> Anelare G., &
Philojopho B ergo mate • Basilea Ti- guri apud Andream Gesnerum, Lugduni
apud Gabrielem Coterium , et Argentorati Li tre accennati libri De
Memoria reparanda: De Temporum omnimoda mutatìone Prognofìica: De
Prcediclione morum » furono dati alla luce per la prima volta dal G. in
Basilea, e dedicati ad Edoardo Re d'Inghilterra; siccome pure la
seconda edizione di tali Opuscoli fatta nella medesima Città fu
consagrata a Massimiliano II. Re di Boemia lutto questo evidentemente si
rileva dal primo periodo della Dedicatoria medesima al secondo dei
commendati sovrani, la quale cosi incomincia Nello scorso anno, ottimo
Re, per le pressanti istanze degli amici e del- io stampatore sono
stato costretto a dare alle stampe assai più presto di quello che
averei desiderato tre miei libretti intorno ai quali erano già molti mesi
che affatica, e perchè essendo assente , molti er- rori corsero nello
stamparli, però riveduta di nuovo queir opera , non solo ne corressi i
difetti , ma in oltre impiegando ogni possibile diligenza ed
applicazione, e prestandovi, come si suol dire, V ultima mano , F
ho accresciuta di parecchie belle aggiunte a segno, che la presente
edizione è superiore alla prima siccome lo è un parto di nove mesi a
quello di soli sette,*7 o pure Toro fino all’argento. Avevo dedicata la
prima ad Edoardo VI. Re d' Inghilterra, il quale innanzi anche di averne
notizia , non che di averla potuta vedere, fu costretto infelicemente a
cambiare la vita con la morte. Tale Dedicatoria e scritta in Basilea.
Nondimeno non posso accertare in quale città siano stati stampati li
sopradetti Opuscoli la prima volta che dal G. furono indirizzati alli due
già nominati Sovrani . Pejlis Defcrìptio , Caujjoe Signu omnigena et Prœfervatio. Anelare G..
Basilea; per Ludovicum Lucium Anno Salutis Humana? Mense Augusto;
Lugduni, apud Gabrielem Coterium. La prima edizione di tale
veramente aureo Trattato fu dedicata ad Ascanio Marzo Ambasciatore
Cesareo presso i sette Cantoni della Svizzera. Personaggio di molte
cognizioni e virtù fornito ed amico di G.; e questi appunto furono
i motivi, che lo spinsero a sceglierlo per Mecenate con
scrivergli: La vostra conosciuta
virtù , e la non volgare vostra mansuetudine , non meno che il vostro
amore per tutte le sane dottrine, e per la pietà, mi hanno costretto a
dedicarvi quest' opera. Perchè si veda quanto amava le massime di
pietà e di religione conviene notare, che dopo di aver egli
prescritti neir indicata sua opera li rimedj fisici con- tro la
Peste, raccomanda con fervore li spirituali con queste parole. Ma
per brevemente indicare li remedj più forti , più giovevoli e generali , prima
di tutto allontanate da voi la paura della morte , ma non già il
santo timore di Dio. Non perciò doverete amare il pericolo , né
incorrervi temerariamente, se non sarete sforzati o dalla carità
cristiana del prossimo , o dalla gloria di no- stro Signore Gesù
Cristo il quale devesi anteporre a
tutte le cose De Litteratorum et eorurn qui Magijlratibus funguntur
confermando, prœfervandaque valetudine, illorum prcecipue qui oetate
confiftentìoe vel non lunge ab ca ab funt
curn ex probatioribus Auctoribus 3 tum ex ratione , & fideli praxi
& experientìa concinnatum . Basilea apud Henricum Petri,
Francofurti apud Ioanncm Vchel; Ibidem apud Nicolaum Hofmannum. La stessa
opera è stata tradotta nella lingua Inglese da Tommaso Neuton P e
stampata in Londra Tanno. Questa dottissima opera è riferita dal
rinomatissimo Medico Ermanno Roerhave nel suo Methodus (ludii Medicorum. De
Confervanda valetudine. Francofurti apud Henricum Randzov. Questa
opera fu stampata unitamente all'ultima registrata dallo stesso Randzov Re
girne n omnium iter agentium . Basilea? apud Hemicum Petri \66\.
Argentorati per Vendelinum Rihelium 1 s6%. Colonia? apud Petrum Hofmannum.
L’edizione fatta di tale uti- lissima opera in Argentina fu dedicata
dal Grataroli » alla vera pietà, e nobiltà del chiarissimo Egenolfo
Barone , e Signore in Rapolstein Hochen Ack e Gerolzeck in Vassichin » e nel
frontispizio della medesima vi si leggono i seguenti latini versi Ut
peregrìnands vita ejl jubjecla procellis Aeris , & varìis undique
prejja malis ; No/ira procelle* fi vario jìc turbine mundi
Volpi tur incertis anxia vita rnodis. 7° Hoc bene
pericolo Jervans prò tempore litro Tutìor utque voles carpe Vìator
iter. De Laudibuj Medicina ejus origine > progrejju ? militate .
Argentora- ti i 5 £3. De Pefle Thefes. Basilea in 8. Apud Henricum Petri
. De Vini natura , Artificio et Usu, deque omni re potabili .
Basilea, Apud Henricum Petri Equorum P & Domejlicorum quorundam
Ànimalium remedia $ senza data in tutti i Cataloghi da me veduti Lapidis
Philojbphici nomendaturoe. Basilea La medesima opera trovasi inserita nel
Volume in foglio stampato in Colonia Tanno da Orstio , con il titolo
Veroe Alchimia? Scriptores . De janitate menda . Argentorati. Trovo quest*
opera citata dal Mercklino nel suo Lindenius renovatus. De Thermis
Rhoctias , & Vallis Tranjc/ierìi Agri Bergomenjis . Si trova stampata
tale opera per la prima volta da Tommaso Giunti in Venezia Tanno nella
sua copiosa raccolta di tutti quelli y fi che sino alla detta epoca
avevano scritto sopra i Bagni, ed è riportata alla pagina, con questo
titolo G. ad Corradum Gefnerum Medicum Tis'urimim de Thermìs Jxhœtìcìs
Tutti o quelli i quali a mia cognizione hanno parlato di
questo trattato di Guliclmo , sia neir occasione di dare il Catalogo
delle sue opere, osia per semplice erudizione , e perfino il nostro
Padre Donato Calvi , non hanno citata nessun' altra edizione della
stessa opera, che quella dei Giunti % e tutti ne fecero sempre autore G.,
senza mai mettere in dubbio questo punto d'Istoria letteraria. Ciò
nondimeno non deve recare maraviglia , particolar- mente delli
scrittori oltramontani , e specialmente di quelli del decimosesto secolo
: ma fa bensì stupore , che siasi continuato ad attribuire a G. un
simile trattato, dopo la nitida e ben corretta edizione fatta dal valoroso
Cornino Ventura di tutti i dotti Medici Bergamaschi , che avevano scritto
sopra i Bagni di Tres^ore ; poiché apparisce , ed è anche
evidentemente provato da quel diligente stampatore, e dagli eruditi
e perspicaci fratelli Licini suoi direttori, che il trattato , che
porta quel titolo , appartiene sicuramente a Bartolommeo Albani Medico
Collegiato della Città di Bergamo, scritto dal medesimo, vale a
dire quasi un secolo prima della indicata edizione Veneta di Tommaso
Giunti Di fatti T Opuscolo dell' Albani termina precisamente con questa data :
anno mìllejìmo quadrigentefimo y & feptuagefimo de menje Julii
die vìge fimo Ceptimo. Per ExeelL Artìum & Me dicince Dociorcm
Bartholomceum de Albano. Si fa ancora assai ' più manifesta tale verità da
quanto afferma il Cornino alla decimaquarta pagina della sua edizione
degli Scrittori Bergamaschi circa li Bagni Trescoriani, nella annotazione
seguente posta in fine dell* Q- puscolo del sopracitato Bartolommeo
Albani per maggiore sua giustificazione
Da un antichissimo esemplare manoscritto ritrovato nella libreria
de" Padri Domenicani, il quale si vede eziandio trasportato nella lingua
Italiana , sotto il nome dello stesso Bartolommeo Albani, nelieCase di
Colleoni , lasciato al Luogo de Ha Pie- tà, conservato sino a questo
tempo. Non si deve adunque più dubitare, che il vero Autore di quel
trattato non sia Albani , mentre anche Calvi così ha lasciato scritto nella sua
Scena Letteraria Albano della Medicina celebre Professore fiorì
verso la metà del passato secolo e fu il primo y che scrivesse
sopra i nostri Bagni di Tre- score j leggendosi le sue degne fatiche
con quelle d 5 altri Autori nel saggio De Balneis Tranfchcrii Oppiai
Bergomatis . Bergomi Questa è T accennata edizione di Cornino Ventura. Si noti
in questo luogo , che lo stesso Bibliografo indicando l'opera di G. sopra
io stesso argomento, dopo di avere scritto De Thermìs Rhœticis, et
Vallìs Tranfche- rii agri ìSergomatis » aggiunge. Questo si trova
nell' opeia Veneta De Balneis. Adunque al Calvi era nota tanto V edizione dei
Giunti, quanto quella del Cornino: dopo tutto questo, in quale maniera si potrà
difendere G. dalla taccia di plagiario y e di un plagio domestico Ma niente dì
più facile , Ricercato Gulielmo da Corrado Gesnero suo grande amico
, che si chiamava il Plinio dell’Alemagna, perchè gli facesse avere delle
notizie circa le Terme, o Bagni della Rezia, e della Provincia Bergamasca, egli
^per fare cosa grata ad un amico di tanta rinomanza , prese in mano il
manoscritto dell'Albani, vi aggiunse qualche cosa del proprio , ed
ancora molte cose di quelle che aveva scritto sopra i Bagni di Trescore
il dotto Medico Lodovico Zimalia , levando alcune cose che gli sembravano
superflue, o inesatte, con purgato stile lainò , e con veri termini tecnici
rifuse il manoscritto dell' Albani , e cosi riformato ed ordinato
lo spedì all' amico, unitamente ad una erudita lettera relativa alle Terme
della Rezia e siccome in quei giorni il Gesnero si trovava in Venezia per
de- scrivere i Pesci, ed i Crostacei del mare Adriatico, averà
consegnato questo scritto a Giunti s che in quel tempo era occupato
a pubblicare la sua grande edizione di tutti li Scrittori sopra i
Bagni e le aque Termali n siccome ho già di sopra notato . Indubitata
cosa ella è che G. chiude il suo scritto con queste parole. Ho raccolte
brevemente, e con chiarezza tutte le soprascritte cose a benefizio
, e sollievo del mio prossimo io G.: frutto tutto questo delle mie
oculari osservazioni , e della lettura di parecchi amichi Medici della mia
patria. Appunto questa sua protesta dalle persone oneste e
giudiziose deve essere considerata una confessione del fatto, ed ancora
del diritto che aveva acquistato di appropriarsi quello scritto; tanto
più che G. nello spedirlo al Gesnero, lo
previene con la seguente onorata e sincera dichiarazio-ne Vi spedisco
l'intiera Descrizione delie Terme Bergamasche, le quali non sono lontane
dalla Rezia più di due giornate di cammino. Di queste niente sino al
presente trovasi pubblicato con i tor- eh) ; onde mi giova sperare , che
diver- ranno celebri anche in avvenire , siccome lo furono in
passato , dopo che Y occul- ta, e quasi intieramente ignorata loro
vir- tù sarà fatta nota con le stampe ; purché non vi rincresca
accoppiare le erudizioni Italiane alle Tedesche. Poteva qui espri-
mersi G. con più candida, ed onesta
sincerità ? Confessa di essere semplice raccoglitore d^gli altrui
scritti, mentre dice » Ho raccolto dagli scritti di altri antichi
Medici Bergamaschi Non chiama sua quella fatica, ma dice semplicemente. Vi
spedisco T intiera descrizione delle Terme Bergamasche delle quali
niente sin ad ora è stato pubblicato » Non si deve dunque condannare di
plagiario G. $ e certamente non conviene
, che egli abbia avuto rimorso di avere commesso una cosi vile, e
detestabile impostura, mentre essendo sopravissuto quasi quindici
anni dopo l'edizione Veneta di queir opuscolo , sicuramente non averebbe
mancato di giustificarsi presso il mondo erudito circa il preteso
plagiato . Ecco tutto quello , si può dire in difesa di questo FILOSOFO sopra
tale inssusistente accusa , né altro posso aggiungere «> se non che
far noto al mio Leggitore , che per quante diligenze abbia usate
«> non mi è giammai riuscito di ritrovare i due citati mano-
scritti , e che in oltre Calvi , a cui era nota Y edizione di Co- rnino
Ventura , non ha nella sua Scena Letteraria dimostrato di sospettare
dell' onestà letteraria di Gulielmo G. . Prima di terminare il presente
articolo dei Bagni di Trescore, riferirò il zelante umanissimo Voto, con
il quale G. chiude la sua opera stampata dal Giunti Faccia Iddio , che la
Bergamasca Repubblica abbia diligente cura di rimettere nel primiero loro
stato questi saluberrimi Bagni , che certamente lo può, e lo deve fare.
Faccio io pure fervidi e sinceri voti, perchè abbia effetto tutto ciò che
caldamente raccomanda G.; e per maggiormente incoraggire la mia città,
ed i miei Cittadini a procurare al- la patria un vantaggio così
rimarcabile, vivamente li supplico a leggere l’erudita ed elegante
latina lettera di Zimalia , premessa al suo dottissimo Trattato dei Bagni
di Trescore, dedicato al suo magnanimo Mecenate Colleoni capitano generale
degl’eserciti della serenissima veneta repubblica, nella quale prova con
una evidenza che sorprende, e che deve intenerire chiunque senta amore
per la sua patria, che quello famosissimo eroe deve senza alcun
dubbio essere ugualmente ammirato, e commendato sì per le sue azioni
militari , che per le sue virtù politiche , a benefizio ed eterno
vantaggio, e decoro di tutta la sua amata nazione Bergamasca
De Notis Antichrìsti, senza data, senza luogo, e senza nome dello
stampatore. Tuttavia nominerò ancor io tra le opere di G. un libro con
tale titolo , ritrovandolo registrato da Calvi , e dal Papadopoli
suo copiatore, ma non dal Frehero , non dal Bayle , non dai
Maizeaux suo illustratore, non dal Mercilino , non dall'Eloy, mentre tutti
questi si suppone avessero molto interesse di far autore di un libro
Anticattolico Romano un erudito e dotto italiano - siccome era da tutti
considerato G.. Non però verun altro Letterato ha posto nel Catalogo delle sue
opere V accennato libro D' altronde è cosa più che certa, che si può scrivere
dei caratteri dell' Anticristo anche dalla più religiosa e zelante penna
cattolica : ed è certo di più , che Calvi , o non averebbe
registrato un così fatto libro , o non averebbe mancato di scriverne
qualche parola in detestazione del medesimo. Ma di più ancora quanto al
Papadopoli, probabilmente questi non averà nemmeno veduta quest’opera ,
essendosi intieramente riportato al Padre Calvi, siccome egli stesso
scrive nella sua storia dell' Università di Padova parlando di G..
Avendo in oltre riportati i titoli delle altre sue opere senza
data, alterati , e confasi notabilmente, non sarebbe stato egli il primo
a giudicare di un libro mai veduto, nò letto. A me stesso è accaduta la
medesima sorte y non solo di poterlo trovare ma neppure di averne fondata
contezza, per quante ricerche abbia usate non sola in Italia , ma
altresì nella Germania e nell* Olanda. Sostengo finalmente , che se quest’opera
esiste, che io non credo , o se fu composta da Gulielmo Grataroli ,
non doveva essere tanto malvagia e perversa, quanto alcuni senza
ragione sospettano; mentre che tutte le opere di G. è vero che sono
poste nell’indice de' Libri proibiti? ma con la semplice cautela;
Quandiu emendata non prodierint. Dal che si è da presumere che se que-
sto fosse stato un libro veramente Eterodosso, Santa Romana Chiesa lo
avrebbe posto nella classe dei libri empj e malvagi di prima classe. Confilium
de Proe fervanone a Vcnenis . G. Aucìore . Hamburgi in 8.
Ecco registrate tutte quelle opere che mi è riuscito di
raccogliere, le quali sono composte da questo dottissimo Medico e
Filosofo : ora passerò alla seconda classe delle opere tradotte e fatte
stampare dal medesimo. J. Joannis Braccfchi de Alchimia, cum proposìtionibus
Idem argume ri- rum compendiofa brevitatc compleclens ex Italico
Aucloris Autographo in latinum verni - et edidit G. Basilea, in folio. Apud
Henricum Petri . Non mi è noto dove sia stata stam-
pata la prima volta questa traduzione; ma solo ne ho trovata un' altra ed
zione fatta in Amburgo. Chirurgico rum quorundam Auclorum Libros Galiice
fcriptos latine reddidit ? & in cap'-ta difiribuit G. Lugduni in 8.
Apud Gabrielem Coterium, Classe terza delle opere d* altri
Scrit- tori fatte stampare con prefazioni , note y e commenti da G.. I
Ve ree Àlchymìce Scriptores aliquota cum Praefationibus 9 & D celar
ationibus col- Ifgit y & una edidit Gulielmus Gratarolas.
Basilea? , apud Henricum Pctri in folio. II. Vetri Apone njls
de Vene ni s eo- rumane Remediis , cum Additionibus G. . Francofurti ,
apud Joan- n ìm Velici; Hermannl a Ncunare de novo haclenufque inaudito
Germanice morbo pompar* idcft judatoria febre , quern vulgo
fudorem Britannicum vócant, libellus a G. editus. Colonia. Ermanno
Ncunare era Conte e Prevosto della Cattedrale di Colonia . Simeonis
Riquinii Judicium doclijjimum duabus epijìolis contentimi de fiutato r
ice Febris cura t ione editum a G. Medico & Philosopho B ergo mate.
Colonia; Joackini Schdlerii o come altri scrivono Sckilfeni de Pejìe
Britannica Commentariolus aureus a G. FILOSOFO editus. Basilea; Apud
Henricum Petri. Alexandri Benedicii de Pejlilen tioe Caujjls s Proe fervanone
& auxiliorum Materia Liber Jingularis : Omnia ex ma- nufcriptis
exemplaribus auxit y & illujìravit Gulielmus Gratarolus Medicus 9
& Pialo- fophus . Basilea. Ibidem in folio apud Henricum Petri
.Correcliones, & Additiones ad librum Italicum, falfo tributum
Fallopio 7 inscriptum, Secreta Fallopii. Francofurti irfoò. in
folio , e i6"o£. cum operimi Appendice G.. Girolamo Mercuriali
da Forlì coetaneo di G., soprannomato Mercu- rio e Trimegisto per la
vastissima sua medica scienza, nell' erudita opera : De ratione
dijcendi Mediana/?! , edizione di Argentina m proposito dei libri
falsamente attribuiti a Fallopio, racconta che vi furono alcuni , i quali
o per malignità , o per sordido lucro cacciarono fuori opere sotto il
nome di Fallopio , che affatto non sono sue , come il libro dei
Secreti . Opere indegne del suo maestro , e soltanto capaci a toglierli
quella vera , e soda gloria , la qua- le si era acquistata presso i dotti
Vili. Cenjura & Additiones in Libruni Alexii Pedemontani, ubi de
Quinta effentia funplici. Per G. Venetiis apud Jun£hs in 12.
Conjìha, & Curationes variorum doclijfimorum Medicorum de Sudore
Anglico a G. edita . Colonia apud Franciscum Hofmannum. Thaduei F/orenini, che
1'Alidosio chiama Taddeo Aledrotto^ & Guliclnù a Brixia Conjìlia Colonia, Apud Iranciscum Hofmannum in 4.
Per G. Johannis de
Kupecijja de Extratione Quinte? ejfentioe omnium rerum prò u fu Medico .
Venetiis apud Juntìas; Theatrum Galeni hoc est univerjlv medicince a Galeno
diffupz fpar- f inique traduce Promptuarium completimi & in meliorem ordinem redaclum per
Ludovicum Luride llum a G. Philojbpho editimi . Basilea, Apud Henricum Petri in
folio Hamburgi apud Joanneni Neumannum et Georgium Volfium \6j2. in
foiio. Petri Pomponacii de Incantationibus libri in quibus dijficilUma
Capita & Quefliones Theologicoe, et Philosophicoe ex jana Orthodoxoe /idei
doclrina explicantur et multis rarìs Hijìoriis et Glojfulis
illujlrantur. Per G. Philojbpkum Bergo- matem > qui fé in omnibus
Canonica^ Scriptum et Janclorum Dociorum Judicio fubmittit . Basilea? Kalendis Martii ex Offi- cina
Henripetrina in 8. cum Csesarea Majestatis gratia & privilegio.
Quesra edizione del trattato deeli Incantesimi di &4 Pomponacio
tu consagrata dal Grataroli a Federico Conte Palatino con una
nobilissima, e giudiziosissima dedicatoria impiegata parte in encomj della
virtù e meriti di quel Principe, e parte in difendere Y opera di quel filosofo
mantovano del quale afferma e sostiene che e a torto impugnato e
perseguitato; e che se fosse stadio con prudenza e carità Cristiana trattato,
sarebbe riuscito uno dei più zelanti e forti Apologisti della Chiesa
Cattolica, come riferisce essere avvenuto a Giustino Martire , al grande
Agostino, ed a moltissimi altri difensori della nostra santissima
religione. Di fatti Pomponacio per attestato di tutti gli Scrittori della sua
vita mori cattolicamente. Voglio sperare che Pomponacio prima di
mandare fuori l’ ultimo suo spirito, siasi per singolare grazia delia
divina providenza e misericordia ravveduto e pentito e che non abbia
perseverato neir ateismo. Imperocché tale essere stato il Pomponacio Y ho
udito spesse fiate a rammentare da Elideo Medico di Forli chiarissimo ornamento
della medica scienza , ed uno de suoi più cari discepoli. Ho ricopiato
questo sen- timento dui Grataroli acciocché si conosca quanto grande
fosse Sa sincerità e l’attaccamento verso la Chiesa Cattolica. Gisberto Voet, o
Voezio dotto Professore di Teologia, e delle lingue Orientali neìl'
Università di Utrecht, inimico capitale della Filosofia e di Cartesio,
parla con molta lode della suddetta edizione, dicendo G., li di cui
scritti vengono coitimendaci per lo zelo di pietà e di religio- ne che vi
traspirano, e per li encomj de’ quali lo ricolma Teodoro Beza nelle sue
lettere, e per li suffragj di molti altri uomini dotti, che lo trattarono nelle
sue opere stampate in Basilea difende Pomponacio contro li suoi
caluniatori, ed afferma, che abbia terminati i suoi giorni assai piamente.
Dalla medesima dedicatoria di Gulielmo da esso scritta un anno solo prima
del suo paesaggio all'altra vita si rileva, che già dieci anni innanzi egli
aveva fatto stampare r senza che mi sia riuscito di sapere in qua!
parte il Trattato De ìncantationibus di Pomponacio, perchè così scrive al
Principe suo Mecenate. La parte di
questo saggio che tratta delle cause, e degli effetti naturali, o sia
degli Incantesi- u mi fatta da me stampare sono già più
di dieci a, T avevo dedicata e spedita air Illustrissimo Principe
Ottone Enrico Elettore di felice memoria , e S. A, non sdegnò di
ringraziarmi con lettere di suo proprio pugno. Mi è piacciuto di
nuo- vamente riportare quanto G. scrive in quella sua elegante dedicatoria,
perchè dalla premura e zelo da esso dimostrato sino agli ultimi periodi della
sua vita , e dalla universale estimazione , che hanno sempre costantemente
fatta palese in faccia di tutto il mondo tanti letterati del primo
ordine, d’ogni nazione e d' ogni religione, della dottrina, della
probità, e dell' amore del vero, e del giusto , che ha conservato in
tutte le sue operazioni, possa invogliarsi qualche valente ed
erudita penna della sua, e mia patria a tessere, ed in assai
miglior modo ordinare una più compiuta istoria scevra dai difetti,
dei quali questa mia pur troppo è ripiena, di un Filosofo e Medico
j che ha impiegati e consagrati tutti i suoi talenti , e tutti i momenti
de' tuoi giorni a benefizio e vantaggio della languente umanità,
ammaestrando ed illuminando il mondo tutto con le numerose produzioni del
sublime suo ingegno, trasportando nella lingua più universale moltissime opere
in diversi altri idiomi composte da più dotti e famosi scrittori ed in
fine illustrando ed arricchindo di utilissimi riflessi e profittevoli commenti
un numero immenso di interessanti volumi i quali contengono ogni genere
di scienze e di cognizioni, siccome ne forma una evidentissima prova il
copioso catalogo delle sue opere da me coordinato ed esteso. Guglielmo
Grataroli. Grataroli. Keywords: sulla memoria, de balneis, turba philosophorum.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grataroli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grazia: la ragione
conversazionale e implicatura conversazionale -- il principio di benevolenza
conversazionale – filosofia calabrese – scuola di Crotone – filosofia crotonese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesoraca). Filosofo italiano. Mesoraca,
Crotone, Calabria. Grice: “Grazia is important to understand Galileo, whom
Italians consider a philosopher!” Grice: “Grazia also wrote about architecture
– a truly Renaissance man!”. Studia
a Napoli dove venne condotto, dalla natia Calabria, da uno zio dell'ordine dei
Teatini. Si laurea a Napoli. Studia filosofia. Si oppose al Criticismo kantiano
e all'Idealismo hegeliano in nome dell'esperienza. Saggi: Discorso
sull'architettura del teatro, Napoli: Giordano; La scienza umana, Napoli:
Flautina; Logica speculativa (Napoli: Gemelli); “Filosofia: eterodossa ed
ortodossa” (Napoli: Poliorama); “Considerazioni sopra 'l discorso di Galilei
intorno alle cose che stanno su l'acqua, e che in quella si muouono.
All'Illustriss. ed Eccellentiss. Sig. don Carlo Medici (Firenze, Pignonj).
“Della vita e delle opera: Dizionario Biografico degli Italiani. Classe
Appetito; Volere. Condizione di ogni appetito è l'andarsi rinvigorendo con la
reiterazione degli atti fino a rendersi dominante su gl’altri appetiti.
Condizione della volontà è l'andar con l'esercizio acquistando maggior potere
su i moti del corpo sog Classe- Molori primitivi della volontà: Tendenza
istintiva delle nostre forze all'azione; appetito istintivo del piacere nella
sua triplice forma, e avversione al dolore; amor di sè stesso co'tre caratteri
di concentrazione, di reazione, di espansione spontanea. Classe Oggetti dell'amor
proprio diconcen nale, onore esterno. Reazione dell'amor proprio: Emo
sentimento. Espansione spontanea. Benevolenza. Il benessere è certamente
oggetto dell'amor proprio; ma nella classe va distinto dall'amor proprio
l'appetito istintivo del piacere, e l'avversione al dolore. Non è perchè a mi a
mono i stessi, che desideriamo il piacere e fuggiamo il dolore. L'amor proprio
si pronunzia nel cercare I mezzi per procurarci l'uno, e per sottrarci
all'altro, fino a contrastare a tale uopo altri appetiti. L'appetito quindi del
benessere, una delle esigenze dell'amor proprio,é precisamente quel principio,
in cui Stewart ha fatto consistere tutto il nostro amor proprio. Un tale
appetito abituale non è getti al suo comando, come anche su l'attenzione
riflessiva. Seconda condizione dell'appetito è l'essere accompagnato da
piacere, quando è soddisfatto; e da dolore, quando essendo istigato non è
soddisfatto. È questo esclusivamente il piacere e il dolore morale. trazione:
Benessere, dignità. perso IL METODO. Classe Stati diversi dell'appetito:
Desiderio, o contento; godimento, o afflizione, o rammarico; speranza, o
timore; pentiinento; disperazione. zione benevola di riconoscenza; ri
invero irreducibile. Ammettendosi in un essere dolori e piaceri, e
ragione e volontà, esso prevedendo le conseguenze delle sue azioni, non
mancherà di formarsi un piano di condotta per evitare il dolore, per pro
cacciarsi il piacere; e la repressione di altri appetiti entrerà come mezzo in
questo piano. Noi intanto a b biamo notato tra fenomeni irreducibili l'appetito
del benessere a sola mira di esibire intero nella 4. classe
ildominiodell'amorproprio. E lapresenteosserva zione basta a far riguardare con
tutto rigore l'addotto esempio di classificazione. Abbiam già completato il
quadro de' fenomeni pri mitivi del pensiero, distinguendolo in tre categorie
corrispondenti a' fenomeni, Sensazione, Giudizio, Volontà ; e tenendo conto
delle condizioni loro comuni. Pria di progredire nel nostro divisamento, daremo
fine a questo articolo con la seguente generale osservazione. La semplicità di
una classificazione di fenomeni primitivi non si dee giudicare su la classe
suprema. Il numero de' princip jignoti è eguale al numero de' fenomeni distinti
nella totalità della classificazione. Può quindi avvenire, che due
classificazioni sieno nel fondo identiche, mentre si offrono sotto aspetti
assai diversi. Se, per esempio, alla prima classe, che comprende i tre fenomeni
-- sensazione, giudizio, volere – si fosseanche ascritta la memoria, esi fosse
distinta nella riproduzione degli atti mentali, e nel riconosciinento; non si
sarebbe nulla cangiato uel nu Inero de' fenomeni irreducibili. Ciò non dimeno
un tal cangiamento non sarebbe del tutto indifferente .Nella classificazione da
noi preferita i fenomeni della prima classe sono i più differenti di natura. Ma
ciò che si riproduce nella memoria non perde la sua natura primitiva. Le idee
astratte si riproducono nella loro perfetta integrità. Le sensazioni perdono
estremarnente di vivacità al riprodursi nella immaginazione. Niente altro
cangiano di loro condizione primitiva. E lostesso avviene nella riproduzione
delle affezioni morali. La memoria quindi, presa nel suo più ampio significato,
non reca fenomeni di natura differente da que' della sensibilità,
dell'intelletto, e della volontà. Queste ultime facoltà somministrano materiali
fra loro differenti, e la memoria è addetta a ritenerli in deposito. Cosi la
prima classe ha potuto segnalare la prima divisione della scienza ne' tre rami
logica, etica, estetica. Non è certamente questo un vantaggio di allo rilievo,
ma non v'era alcuna ragione per disprezzarlo. Si supponga or che
invece di esibire in più ordinii fenomeni primitivi, si fossero enumerati in
una sola lista, come è costume: sensazione, giudizio, attenzione,
immaginazione, reminiscenza, analisi, sintesi, astrazione, generalizzazione. Il
numero de'fenomeni primitivi potrebbe rimanere lo stesso, ma senza esservi marcata
la dipendenza tra I medesimi. L'attendere è proprio dell'intelletto.
L’immaginazioneè una legge della sensibilità. La reminiscenza o riconoscimento
è un giudizio. L'analisi, la sintesi, l'astrazione, la generalizzazione,
appartengono all'intelletto. Una tale dipendenza è una condizione di più nel
fenomeno: è propriamente una ulteriore parziale riduzione. Così per altro
esempio, se i motori della volontà si enunciassero come segue: Tendenza
istintiva delle nostre forze all'azione; appetito istintivo del piacere;
appetito razionale del benessere; appetito della dignità personale; appetito
dell'onore esterno; emozione benevola di riconoscenza; risentimento;
benevolenza ; si avrebbe completo il numero de' motori primitivi, ma niente
apparirebbe della loro dipendenza. L’enunciazione non darebbe ultimata la loro
riduzione, non si esprimerebbe completo, per quanto a noi si scopre, il sistema
della natura de' fenomeni della volontà. Vedula primordial nelle ricerche della
origine e della reulià della scienza umana. Sula ipotetica origine a priori
delle idee e IL METODO IL METODO VELLA SCIENZA DELLA NATURA. primitivi
..realtà delle conoscenze. delle conoscenze. Si annunziano I principj, trattida
osservazioni parlicolari, su la origine e Classificazione de’ fenomeni
primitive. Riduzione de'fenomeni particolari a' esempio tratto dalla estetica
Classificazione delle scienze nell'ordine logico. Metodo inventivo nelle
scienze nat. Metodo inventivarella scienza delpen Melodo di esposisione nelle
varie. Metodo di esposizione nella scienza del pensiero - poche idee sul metodo
Utilità in ultimar le riduzioni Classificasione delle scienze. ESPERIMENTI DEL
METODO PER LA SCIENZA PRIMA. CORSO PROGRESSIVO DELLA FILOSOFIA PRIMA [cf.
GRICE, LA PRIMA FILOSOFIA], E SUE DEVIAZIONI. Posizioni diverse nella
quistione del Metodo. Esemplare classico del metodo speculativo. Primo
esemplare del metodo di pura osservazione. Deviazioni del metodo nel periodo
sco. Metodo di pura osservazione nella parte psicologica della Filosofia
ortodossa. Progresso della osservazione analitica nella Filosofia, ad onta che
i sistemi: declinassero o al sensualismo, o al’ idealismo. Idealismo
assoluto de’ discepoli di Kant. Declinazione della osservazione analitica, e
rifiuto de’ suoi prodotti precedenti, surrogandovi una supposta percezione
de’.sensi, e una dimessa ma ra soggettività, e per ultimo rivisioni
ontologiche. Sut-nesso detta discorsa Rassegna ci con la seguente.
ESPERIMENTI DELLA FILOSOFIA SPECULATIVA. SULLA LOGICA DI HEGEL. Su l'identità
de’ due contrarii. Le idee fondamentali dell’ intimo senso Vanno
snaturate in ogni panteismo . Su le categorie, e l'Idea assoluta. . vo nella
scienza prima — tende di continuo ad alterare il genuino valore
delle idee fondamentali. SU LA FILOSOFIA SPECULATIVA. SULLA IMPOTENZA DELLA
RAGIONE INDIVIDUALE , SECONDO IL LAMENNAIS. . ="Sv-t5 EINE DI Dio, DEL
cinite, SISI L'ATTO CREATIVO, SECONDO IL Gro- SERIE input » Sul
secondo a della formola. IN. Su Te altre parti della Formola, cioè T Enie
e l'alto creativo. .Sulla Visione delle idee in Dio indipendentemente dalle
altre parti della iu DETTE IEEE SU LE CONDIZIONI DELLA
FILOSOFIA. Sul concetlualismo, perenne caasa delle deviazioni della
Filosofia. Hi. Su i recenti proget di nuova Filosofia OROCO: cs. iu » Influenza della sacks tedesca su la
Filosofia. Sulle più famose obbiezioni prodotte da’ moderni contro la Teologia
naturale. Riassunto degli articoli precedenti e conseguenze per le scuole
d’insegnamento. ÈNTE IN UNIVERSALE, LUME PERENNE DELL'UMANO INTELLETTO, SECONDO
ZL ROSMINI. Su i modi dialettici adoprati da SERBATI nel mostrar conforme al
suo sistema la dottrina insegnata d’AQUINO. Wl, già un anno decorso che uno dei
più profondi filosofi di questa italiana provincia fa da noi dipartila! Niun
periodico della capitale fra i tanti che pur trattano di futilità e di non
nulla, o tutt'al piú di celebrità di teatro, fa alcun motto di lui: il solo Omnibus
annunziandone la grave perdita, promette una biografia dell'estinto: ma tale
promessa insino ad ora non l'abbiamo veduta recare in atto Noi per mera carità
di patria e senza pretenzione letteraria di sorta, diamo questi pochi cenni per
come abbiamo potuti raccogliergli frugando nella nostra memoria. A quella
regione ferace d’eletti ingegni ed in ispecie di grandi filosofi da Pitagora a
GALLUPPI (tralasciando tanti altri illustri nomi) appartenne il nostro FILOSOFO,
avendo avuto i natali verso nell'antica Reazio, oggi Me Ahi sugli estinli
Non sorge fiore ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto. soraca, in
Provincia di Calabria ultra 2. Da baronale ed agiata famiglia. Passa l'infanzia
nella terra natale, ima mostrato avendo svegliato ingegno, è pensiero di un suo
zio, religioso dello insigne ordine de'Teatini di condurlo in Napoli per fargli
apparare belle lettere e filosofia appo que 'RR. Padri. Quivi dedicandosi
alacremente a tali studi, ha a con discepolo il famoso ex Generale de Teatini, Ventura,
che se tutti ammirano per non comune facondia , per vasto sapere ,per
rettitudine ed illibatezza di costumi, gl’Italiani lo avrebbero a ragione
desiderato continuatore dell'opera progreditrice e liberale da lui cominciata a
propugnare. Con lui G. legossi con tale intima amicizia e scambievole stima,
che le m e morie di quella loro prima età insieme trascorsa, dopo tanto volgere
d'anni non più cancellaronsi, abbenchè pel diverso stato da essi prescelto,
vivuto avessero quasi sempre l'un dall'altro discosti. Escito G. da quelle
scuole, diessi con tutto ardore agli studi severi delle matematiche, non pure
tra lasciando qnelli della FILOSOFIA, pe’ quali monstra inclinazione
grandissima. Milita per qualche tempo nel Genio; ma poscia, smesso il cingolo
militare, esercito professione d'Ingegnere, entrando nel Corpo detto allora de'
Ponti e Strade. Si nell'una che nell'altra carriera adempi lode volmente ai
doveri della sua carica, e procacciossi giusta estimazione. Ed abbenchè per
lasua indipendenza di pensamenti e per la sua modestia, non venisse adoperato
come avrebbesi dovuto, pure quello che in varie pro vincie per suoi elaborati
disegni in opere pubbliche ed in fatto di edifizi vari, venne eseguito, riusci
di universale contentamento, e rivelar seppe la sua valentia, tanto da essere
ricercato e consultato dagli stessi suoi compagni ed emoli nella professione.
Ma nel paese di G. da piú tempo non costruisconsi più quelle opere grandiose da
potersi rivelare il genio artistico di un'architetto; e se pure alcuna fiata
qualche notevole edifizio debbesi costrurre, l'ingegno si rimane fra pastoje; perché
condannato a grame proporzioni di una architettura borghese, od a meschine
economie che sovente lasciano le opere pel volgere di più anni incomplete, ovvero
menate a compimento, ma di gran lunga variate dagli originali disegni. G.,
omettendo i lavori per ponti e strade e smessa ogni altra cura ed applicazione,
si dedica con tutto ardore a quegli STUDI FILOSOFICI che sempre avea mostrato
di molto prediligere. Frutto delle sue lucubrazioni e speculazioni filosofiche
è la grave opera: Saggio sulla realtà della scienza umana; lavoro sapiente e
profondo, che pubblicossi a Napoli e che Silvestri in Milano e Fontana a Torino
voleano ristampato pe’ loro tipi, ma non vedendosi incuorati
da chicchessia a tale pubblicazione, e la stampa tacendo su di un'opera di
tanta mole, ne smisero il pensiero. Non è scopo nostro venire in disquisizione
sul suo sistema filosofico e sulle opere di lui, secondo che ne facciamo qui
menzione, pon sentendoci da tanto, e lasciando a’ profondi pensatori un tale
incarico. Solo diciamo, ch'egli rifuggendo da’ sistemi oltramontani e
dallaservile imitazione, ha tutte leproprietà dell’ITALIANO FILOSOFO, per
quella sua maniera di studiare il mondo esteriore, e per quel pratico senno che
lo conducono dall'esperienza alla induzione, per modo da congiungere sempre
l'osservazione di fatto colla generalità delle idee. In ciò fare egli segue in
gran parte le dottrine del sommo AQUINO (si veda) Aquinate, gloria d’ltalia e
della Chiesa; senza aver letto ancora Opera alcuna di questo santo dottore. Per
caso in confutando talune teoriche dell'altro nostro celebre italiano, SERBATI,
il quale in un luogo delle sue opere iva esponendo molte sentenze d’AQUINO in
conferma de'suoi detti, sorse vaghezza a G. di leggere la somma di esso santo;
e grandissimo è il suo compiacimento in rilevare l'accordo delle loro dottrine
in ciò che concerne il principio di rifuggire da ogni ipotesi speculativa, e di
ricondurre la scienza fondamentale al puro metodo di osservazione; e pieno di
rispetto e di ammirazione pel santo d'AQUINO (si veda), iva seco stesso facendo
le più alte maraviglie del quanto poco abbia progredito la scienza filosofica
in questi u l timi sei secoli. Oltre a molti altri scritti minori, pubblicati
in parecchi giornali specialmente nel Progresso e nel Calabrese, altra grave
sua opera è quella intitolata: Discorsi sulla logica di Hegel e sulla filosofia
speculativa, ove adoprandosi dimostrare l'assurdità di tale Logica, confuta que’
filosofi che han cercato con malizia o senza addarsene d'intede scare la filosofia
italiana. Per chi le opere di G. punto non conosce, riuscendogli per
avventura nuovo un tal nome, potrebbe di leggieri riputare sospetti i nostri
elogi, se non altro, per troppa carità di patria: noi a renderlo persuaso del
contrario, e che anzi, il lodato resta sempre al disotto delle nostre umili
laudazioni, citeremo l'autorità di un giudice assai competente ed in nulla
sospetto, qual'è il celebre Professore di Heidelberg Mittermaier. Questi nel
suo Condizioni d'Italia pubblicato e precisimente nella Lettera di appendice
indiritta al chiaro Mugna, dopo aver parlato delle celebrità letterarie e
scientifiche d'Italia, e mostrando desiderio che le opere filosofiche degl’italiani
fossero meglio studiate dagli stranieri ed in ispecie da’ suoi connazionali,
venendo a parlare di Napoli dice. Il genio della filosofia napoletana è la
copiosa e fina analisi dello spirito umano, sempre unito a grande dovizia
d'idee e ad una tendenza pratica. Ad esso appartengono le opere di GALLUPPI e
di G., peculiarmente l'opera di questo: Saggio sulla realtà della scienza umana.
Esaminando l’A. Gli scritti de’ suoi predecessori, non che de’ filosofi
tedeschi ed entrando in minute particolarità intorno a' vari pensamenti sulla
origine delle idee, seguesi con piacere lo stesso A. nel suo ingegnoso sviluppo
e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze pure
intuitive, e conoscenze dimostrative. Fin qui il Mittermaier. Le parole di un
tant’uomo sono più che sufficienti a testificare sul merito filosofico del
nostro concittadino, ed altre singole illustri testimonianze potremmopurqui
addurre; ma le opere di lui per chi vuole e può leggerle parlano abba stanza. Solo
non vogliamo tralasciare di dire che è in grand'estimazione tenuto da
quell'antico uomo di stato e scienziato profondo il Conte de’ Camaldoli,
Ricciardi, e che il suo grand'emulo
Galluppi (la cui fllosofia è stata in qualche parte di G. confutata
perché non severamente italiana, nè in tutto da lui trovata scevra di straniere
dottrine) richiesto un giorno del suo parere sul Saggio della realtà della scienza
umana, rispose: l'opera procede molto bene, secondo il sistema seguito
dall'autore. E qui di volo ci si permetta domandare a noi stessi: chi raggiun
se piú il vero de' due chiari concittadini nei loro rispettivi sistemi? chi più
possedette geniocreatore? A ciò rispondiamo esser paghi di rilevare in ambidue
il positivo progresso della filosofia appo noi e possiamo riguardarli come
continuatori delle dottrine sviluppate da' due filosofi calabresi TELESIO e
CAMPANELLA che cercano di richiamare la filosofia del secolo decimo settimo a’ suoi
veri principi facendo appello all'esperienza, alla propria ragione ed
all'esatto studio del mondo, quale si offre alla osservazione, e sopratutto cercando
di sceverare la filosofia dalle quisquiglie scolastiche del tempo; per il che
ebbero a sostenere aspra guerra per parte de' loro avversari , seguaci delle
dottrine del LIZIO, più in quanto alla forma che alla sostanza. Or nella gran
serie di sistemi de' filosofi d’Europa , ognuno dei quali nasce per distruggere
l'antecedente, e per essere poi a sua volta distrutto dal successivo, i sistemi
seguiti da' due grandi calabresi, GALLUPPI e G, sono sistemi italiani,
sopratutto quello del secondo, e sopravviveranno a'posteri assai più, se non
c'inganniamo, dell'eccletismo di Francia e del razionalismo puro di Germania, il
quale ultimo sistema argutamente G. chiama: poema filosofico; abbenchè de'
filosofi tedeschi egli fa stima grandissima, especialmente di Kant, ch'è il
primo nella serie di quelli che formano la moderna scuola, per la mente
profonda, vasta e unicamente originale fra tutti i filosofi di Germania, per
maturo giudizio, fervida imaginazione, esottilissimo ingegno analitico, ma
lamenta che il suo genio batté la via dell’eccletismo scettico e del dommatismo
razionale. Ma benché per noi sian grandi tutt'e due i nostri con cittadini, nondimeno
sembra rilevarsi dalle suespresse parole del professore di Heidelberg che
nell'opera, da lui citata e da noi di sopra più volte riferita, la penetrazione
filosofica e la fina analisi del nostro G. abbiano richiamato la sua attenzione
assai più che nol fecero le opere filosofiche di Galluppi. Eppure questi,
sebbene tardi, è almeno ricordato da quel governo, essendo stato nominato
professore di filosofia a Napoli e nella morte di lui furon vi pubbliche
esequie e recitaronsi funebri elogi ma G. vive e muore ignorato, e non è noto
che alla calabra terra, che videlon ascere, ed a qualche singola celebrità
nostrana e straniera. Di chi la colpa? Forse de' tempi? del governo? o della
propria sua indole? Noi crediamo esservi concorse tutte e tre le su indicate
cagioni. Circa il governo cui appartenne G., il merito non è merce cui è andato
per ordinario ed unquemai in traccia; ma nel tempo presente solo il pensarlo è
utopia. E finalmente l'indole di lui rifuggente dallo adulare potenti, dal cercar
mecenati, dal raccomandare o dedicare i suoi scritti a chi chessia, mantenendosi
sempre in dignità Il secolo che corre: e che appellasi posilivo non ha
altri pensieri dominanti che il credito, la borsa, le speculazioni commerciali,
o tutt'al più qualche progresso materiale da solletitare l'ardente brama del
guadagno (peste della società presente) che di continuo lo stringe ed
arrovella; epperò non è secolo che occupar puotesi di filosofia e
modestia, coltivando la scienza per abitudine contratta agli studi severi e per
naturale inclinazione del suo genio inventivo e calcolatore, senza avere
unquemai tenuto scuola (che gli scolari molto influiscono alla fama ed a
rendere popolare il nome de’loro maestri) e menando per conseguenza vita
laboriosa e ritirata; fesi tutte le cosi fatte ragioni che il nome suo rimanesse
ignoto all'universale. Ma qui non possiamo fare a meno di non osservare che in
questa epoca di generale centralizzazione governativa negli stati di reggimento
assoluto sopratutto, ne' quali ė spesso negato a privati di fare puranco il
bene o altra innocentissima cosa, senza previa superiore autorizzazione, o
sovrano beneplacito; ove nullapuossi mandare a stampa senza preventiva revisione
econtro revisione; non rebbe uu richieder troppo da cotali governi se alla
mania di voler lutto sapere ed operare aggiungessero un pò di buona volontà e desiderio
di conoscere le grandi intelligenze, tenerne nota ed applicarle a vantaggio
della nazione. E grata cosa sarebbe riuscita a G., abbenchè dell'indole qui
sopra descritta, e sempre abborrente dalla servitù e dalla vanità, se il
governo in modo qualunque avessegli addimostrato di tenerloin pregio, o
nominandolo professore di filosofia, dopo la morte di Galluppi, non essendovi
in tutto il reame altri che più diluine fosse stato degno, o mostrandogli di pregiarlo
in altra guisa qualunque, ma sempre per moto spontaneo, essendo stata sua
massima indeclinabile che il merito de savesi conoscere volenterosamente
dagli altri, senza sforzo di sorta per parte propria. Sono vi però di momenti
nella vita de' popoli in cui l'opinione pubblica si addimostra regina e
manifestasi con tutta la possibile spontaneità. Un tale momento si è quando G.,
non pure senza brigarlo, ma senza avervinemmeno pensalo, vide il suo nome con
migliaia di voti sortire dalle urne elettorali, qual deputato calabrese nel
Parlamento napoletano. Molto egli si compiacque per tale dimostrazione di stima
e di fiducia da parte dei suoi concittadini; ed accetatone il grave mandato, pieno
di buon volere e di coraggio si parti con gli altri deputati per alla volta
della capitale. Lu singavansi gli elettori suoi nella speranza di vederlo
presto discendere dalle astrattezze filosofiche, alla realtà della vita
politica: ma tanto non avvenné, Equicisi permetta no per poco
talune reminiscenze, riandando un tempo, che già è per i liberali onesti e di
buona fede che credeno alla santità ed alla osservanza di giuramenti e del cui
gran numero fanno parle quasi tuttii liberali delle provincie, tra quali G.,
que' tre primi mesi, con assai più ragione di quello che uno scrittore francese
dice del suo paese furono giorni deliziosi, in cui la generazione nostra conosce
quell'allegrezza, quella speranza, quel non so che si raro nell'umana storia
che ci fa dimentichi del peso della vita. L'avvenire non più
rappresentavasi triste a’ nostri sguardi, scoprivasi un'orizzonte sconosciuto,
tutto è color di rosa, perché credevasi al progresso indefinito dell'umanità, e
al compimento insperato di tutte le promesse della filosofia. Quelle notizie
sempre succedentisi di libertà di popoli, di cessazione di ogni dispotismo e
tirannide in quasi tutta Europa, d'indipendenza ed autonomia di nazioni, eccede
vano l'immaginazione e fanno degl’uomini tanti inna morati viventi in
un'atmosfera inebbrianto. Tempi felici! e che non più ritorneranno perocchè a
tutte quelle nobili aspirazioni (forse perché non provegnenti nella gran
maggioranza da vero disinteressamento, abnegazione e pura virtú) sono troppo
rapidamente succedute le idee finanziarie e di materiali interessi, che stan
materializzando tutti gli spiriti e dimmergendoli in un profondo letargo da impedire
di addarsi della lenta, ma sempreognor crescente propagazione del dispotismo; e
che per sopras sello invece di farei indefinitamente progredire, ci ha fatto, e
ne sta facendo precipitosamente indietreggiare. E cio di passaggio. Ma
ritornando al nostro Vincenzo, egli era uno di quei tanti filosofi che hanno il
coraggio del pensiero e non quello dell'azione. Uomo adusato da tanti
anni а star chiuso nella rocca della sua mente per dare corpo e vita a’suoi
pensamenti filosofici, riputavasi vestito del lusbergo del più saldo proposito:
ma arrivato al contatto della fredda realità, divenne esangue ed impallidi.
Difatto giunto in Napoli, tosto avvidesi del come furono conce I
fatti che vide al primo scio gliersi della
Camera de’ Rappresentanti della nazione, non che nel tempo successivo (da
superare fin ancole sue previsioni e che iscusano la sua condotta inverso chi
volle accagionarlo di timidità) fanno d' allora in poi addive nirlo più
solitario e ritirato di prima. Lui felice! che puo col pensiero allontanarsi
dalla triste realtà che cir condavalo, e vagare tra i nobili e pacifici campi
della filosofia. E verso quel torno che rivedemmo per l'ultima volta G., il quale
ci fa aperto diesser egli tutto applicato al compimento di un lavoro già
concepito quando legge la Somma dell'Aquinate. A questo no megli dichiarammo
francamente il desiderio nostro, e di altri suoi amici ancora, che siccome
dalle sentenze filosofiche scelte dalla Somma presentar volea la Filosofia d’AQUINO,
coll'esame comparativo delle dottrine del nostro secolo; cosi dalla scelta di
tutte le sentenze politiche, di che abbonda quell'aureo libro, ci fa conoscere
la politica di quel santo dottore, in tutto tendente a fare che la suprema
autorità non trasmoda in dispotismo e tirrannide, e che la macchina governativa
è tutta intesa a formare il benessere della gran maggioranza della codute le
improvvisate riforme; col suo sguardo scrutatore s'impossesso della situazione
politica del momento, e misurandone tutta la portata, promise a sé stesso di
non porre piede nell'aula del Parlamento napoletano. e mune Patria;
che simili scritti, soggiugnevamo, potrebbero servire di freno al potere, affinché
ne'suoi atti non degenerasse in forza brutale. Al che il nostro filosofo (cui
sembravagli ancora di sentire il fragore delle artiglierie) mestamente rispose:
L'eloquenza della bocca de'cannoni fa ammutolire ogni lingua, e fa cadere la
penna dalle paralizzate mani. E noi dirimbecco: se il cannone distrugge, la
penna può e sa riedificare. E dunque che il cennato suo lavoro col titolo di: Prospetto
della filosofia ortodossa, venne stampato in Napoli. Fra le molle lodi che
questo saggio ha dalla stampa periodica di diverse parti, sono quelle
tributategli con molto calore dalla perma'osa Civiltà Cattolica connostra
grande maraviglia e satisfazione. Ma la maggior lode che ridondar possa a
vantaggio di G., si è, che per il primo cerca di far rivivere la filosofia
d’AQUINO, e che il suo pensiero è stato poscia seguito dall’università parigina
e da parecchie di Germania. E sua intenzione comporre un'opera d’estetica ed
un'altra d'istituzioni filosofiche, questa sopratutto, per esservene secondo
lui, gran difetto nelle scuole: ma tale divisamento non potè mandare ad
effetto: sono si trovati, è vero, de’ manoscritti nella sua casa, ma forte
temiamo che andranno perduti. Ferale morbo mina da più tempo i suoi giorni, ed egli
vide approssimare il suo fine con la serenità di un fanciullo e con
l'impassibilità di un filosofo e cessa di vivere. E G. di ordinaria statura e
di gracile complessione; di aspetto nobile e dignitoso, ed insieme di tratti
gentili, e cortesi epperò riusce piacevole nella conversazione. Nel suo incesso
vedevasi grave e pensoso come se ruminasse qualcosa col cervello, o talmente e
assorto da suoi filosofici pensieri, da non por mente alle cose esteriori, e da
non addarsi degl’amici che passavangli allato, se questi nol riscuotevano
chiamandolo per nome. Vive sempre celibe. Lascia un'unico nipole, erede de’ suoi
beni, mostrandosi pur generoso nelle ultime dis posizioni verso due suoi
antichi compagni ed i suoi domestici. Or un tant’uomo disparve dalla scena di
questo mondo senza che nemmeno un fiore si fosse sparso sulla sua tomba; senza
che nè pietra pè parola additassero ove han riposo le sue ceneri e ricordassero
il nome di lui agli avvenire! A voi Italiani, che amate gl'illustri figli della
comune sventurata patria nostra, e che vi distinguete per nobili sentimenti di
nazionalità, abbiamo rivolta la nostra parola: inscrivete, per come é debito,
il nome di G. tra quei grandi nomi che passar denno alla Posterità! Tu,
illustre Mittermaier, che nel fare menzione in semplice lettera, de'chiari
Italiani, non potesti fare a meno di non dire parole di lode sul merito
filosofico del nostro eroe: spendine altre poche or ch'ei è trappassato, por
vendicare l'ingiusto silenzio tenuto dal paese ovo naace e muore. E tu, o
venerando P. Ventura, che non mai dimenticasti il tuo condiscepolo, abbenché
sempre gran distanza da lui ti divise, e che forse ignori ch'ei non è più, in
rilevare la sua dipartita, scrivi alcun motto per quell'ingegno sdegnoso di
ogni schiavitù massime se straniera, che co'suoi scritti fè sempre aperta
guerra alla filosofia che non attinge i suoi lumi alle fonti del Cristianesimo,
ciò influirà non poco a farsi che il nome del tuo antico amico sia conto
all'universale. Le nostre rozze e disadorne parole rassembreranno talco o mica
in ruvida roccia, ma le vostre saranno ripetute dagli echi, lontani e
renderanno al virtuoso obbliato, dopo morte quel merito che in vita gli è
negato. Sopra un'amena collina distante una diecina di chilometri dal mar
Ionio è situata Mesuraca, paesello che conta un due migliaia e mezzo di
abitanti. Uno scrittore che sognasse, vegliando, gl'irrevocabili portenti della
Magna Grecia, nei ruderi che ingombrano il vicino monte Matonteo, crederebbe di
scorgere gli avanzi di un vetusto tempio, sacro a Venere; e nel nome
tradizionale della montagna non mancherebbe lo appiglio di ricordare il riso e
gl’amori, fidi compagni della vezzosa Dea di Amatunta. Noi, nella nostra modesta
prosa, ci contentiamo a più vicine, e più certe memorie. Egli adunque contava
quindici anni meno del suo illustre compaesano, di Galluppi, ch'è nato nella stessa provincia di Catanzaro, in una
piccola cittaduzza posta quasi in riva dell'opposto mare; e, vedi caso, è nato
anche lui di casa baronale; sicchè pare che su lo scorcio del passato se colo
lo stemma gentilizio non è così ostinatamente avverso agli studi In quel
paesello appunto, nasce quel G., di cui vogliamo esporre la dottrina
filosofica. Nasce di casa baronale; ma non è quel che ci preme; nè pare
importasse neppure a lui, che ha il buon senso di segnare a fronte de'suoi saggi
il proprio nome e cognome asciutto asciutto, e senza nessun prefisso. Ancora
lascio, o meglio gli è fatto lasciare il paese nativo, ed è condotto a Napoli,
e quivi chiuso nel collegio di San Carlo alle mortelle, dove continua a
studiare, come sisuole. Tra le poche carte, non disperse o distrutte, dalle
quali ho potuto raccogliere qualche scarsa notizia della vita di lui, avanza
una lettera del rettore di quel collegio, certo Misa, con cui si raggua gli ava
il padre della buona riuscita de' pubblici saggi dati dai figliuoli di lui. Questa
lettera giova non tanto a testimonianza del profitto; chè un baroncino, si sa,
fa sempre bene; e di fatti il buon rettore si loda non solo di Vincenzo, ma del
l'altro fratello Domenico; quanto ad assodare la data della nascita. Arnoni,
che laboriosamente s'ingegna di scrivere le memorie della Calabria, lo fa nato:
se si da pubblici esami, quella data è dunque sbagliata; e rimane accertata
quella che ho trovata scritta io nel volume su la logica di Hegel, insieme con
l'altra concernente la morte di G.. Il volume appartiene alla famiglia del
filosofo, ed io l'ho potuto avere, insieme con gli altri documenti, perla
cortese premura di Serravalle, valoroso giureconsulto, e caldo promotore della
gloria del nostro paese: qualcuno di casa vi ha registrato certamente quelle
due date. Forniti i primi studi, diessi a coltivare le matematiche, e divenne
ingegnere. Il napoletano conquistato dalle armi francesi, dove allora, per
l'imitazione de'conquistatori, correre dietro al mestiere delle armi. Il nostro
G. trovavasi arruolato da sotto-tenente nel genio, quando con decreto reale
comunicatogli da Campre dona nominato ingegnere aspirante di ponti e strade.
L'anno appresso, con decreto, è promosso ad ingegnere ordinario di seconda
classe. Qui i documenti, che abbiamo avuto sott'occhio, finiscono; nè sappiamo,
se, cessato il decennio, e i ritirossi di sua scelta, o se è licenziato
dal Borbone restaurato sul trono. Ci è forza saltare. La Società Economica di
Calabria Ultra 2.a lo propone a socio: la nomina ha luogo. E lentezza, o si sono
incontrati ostacoli? Non si sa, e fa meraviglia, come di un uomo di vaglia,
vissuto tra di noi, s'ignorino tante circostanze, che ci aiuterebbero a
lumeggiarne meglio la figura. Vero è che le abitudini del filosofo sono molto
casalinghe, che dalla famiglia ei vive diviso, che per le vie raro si fa
vedere. E di o mi ricordo, che andato studente a Catanzaro benchè mi si dicesse
che G. è allora, benchè io avessi desiderio di vederlo, non mi venne mai fatto
d'imbattermegli per via. Questa riservata usanza, e'l non avere mai insegnato, fecerosì,
che poco si dilatasse la sua fama, e ch'ei passasse quasi sconosciuto. Quando
Serravalle mandommi le sue carte, credevo di trovarci copiose notizie, od
almeno un frequente carteggio: m'ingannai: corrispondenze non mantenne, o non
conservo; più facilmente però non mantenne, perchè non ci sarebbe sta ta
ragione di conservare alcune lettere, e di distruggere le altre. Nè ciò provenne,
a parer mio, da non curanza,ma da impossibilità; correndo tempi fieramente
avversi ad ogni a c comunamento degli animi, pieni di paure e di sospetti. Due
o tre nomine d’accademie gli vennero, che noi abbiamo trovate fra le sue carte,
con una certa cura custodite: una, a socio onorario della Valentini di Napoli, che
ha a protettore il conte di Siracusa. Una seconda, a socio corrispondente de' peloritani.
Una terza, più tarda, ma non più celebre, a socio onorario della R. Società
Economica di Cosenza, sotto la data Ecco gli scarsi onori fatti ad uomo
meritevole di maggior fama! Mittermaier, di Heidelberg, scrive intanto a Mugna,
che aveva voltato in italiano il suo saggio sulle condizioni d'Italia, quest'onore
vole giudizio sul nostro filosofo, Il genio della filosofia napoletana è la
copiosa e fina analisi dello spirito umano, sempre unita a grande dovizia
d'idee e ad una tendenza pratica. Qui appartengono le opere di Galluppi, e di
G. peculiarmente l'ultima di questo. Esaminando l'autore i saggi de'suoi predecessori,
anche de filosofi tedeschi, ed entrando in minute particolarità, intorno a'varî
pensamenti sul l'origine delle idee, seguesi con piacere nel suo ingegnoso
sviluppo,e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze
pure e cono scenze dimostrative. Così scrive il giureconsulto tedesco. L'opera di
G., a cui egli allude, e che preferisce a quelle dello stesso Galluppi, e
appunto il Saggio su la realtà della scienza umana, Napoli. Della importanza di
quest'opera, e della mira che l'autore vi si prefisse, discorreremo ampiamente:
per ora giova avvertire, che gli stranieri leggeno ed ammirano un saggio che
gl’italiani quasi ignoravano, e che i contemporanei, per non far torto ai loro
maggiori, continuano ad ignorare. Escludo da questo numero Ferri, che nel suo saggio
sulla storia della filosofia in Italia lo riporta nel catalogo dei libri
filosofici (degnazione non piccola); guardandosi, ben inteso, di accennarne
almeno lo scopo. Forse non lo ha letto. G. passa il più del suo tempo a Napoli,
dove Galluppi tene la cattedra di filosofia ed attira a sè i italiani si per
l'insegnamento vivo, come per la popolarità de'suoi elementi. A G. mancal'una
cosa e l'altra, perciò non gli riuscì di avere seguaci. E che desiderasse
farsene, l'ho raccolto da una lettera che gli scrive Zaccaro. Nel saggio
medesimo da lui pubblicato le allusioni a Galluppi sono frequenti; ma velate, e
senza citarlo di nome. La fama del suo illustre concittadino turba i suoi
sonni; ma all'emulazione non simesce nessun senso d'invidia, e molto meno
obblique arti per soppiantarlo. Tulelli anzi mi ha raccontato, che, vacando per
la morte di Galluppi la cattedra, a G. non sarebbe stato difficile ottenerla, se
l'avesse chiesta. Mostratagli questa agevolezza, ei ricusa di chiederla, benchè
la desiderasse, e non lo nascondesse: offerta l'avrebbe accettata; ma il governo
napoletano par che non lo vedesse di buon occhio. G., intanto, al pari del Galluppi
si è tenuto appartato, nè si era mescolato nei rivolgimenti politici: entrambi,
per usare una frase del Bonnet, s'erano fabbricato un ritiro dentro il proprio
cervello. Galluppi vede le stragi, gli spergiuri, ed continua tranquillo le sue
meditazioni: pubblica, in mezzo a que rimescolio, i suoi elementi di
filosofia. G. non avrebbe potuto prender parte ai casi; avrebbe potuto, ma nol
fa: la filosofia civile e battagliera e finita col patibolo di PAGANO; da indi
in poi, nel mezzogiorno d'Italia, prevalsero le speculazioni solitarie fatte ne'penetrali
della coscienza subbiettiva. GIOIA (si veda) e Romagnosi scontano nello
Spielberg il delitto di aver applicato l'ingegno alla statistica, ed al dritto
pubblico: nel Napoletano i filosofi sono esclusivamente psicologi. Non so se
bisogna far eccezione per quel Borrelli, che, sotto lo pseudonimo di Pirro. Trovavasi
G. avanti negli anni, dedito agli studi filosofici, stimato, se non celebre;
adatto adunque a rappresentare decorosamente alla camera la sua provincia. Pare
che questi numeri gli meritassero i suffragî degl’elettori politici, ed egli
riuscì eletto con molti voti, terzo fra i nove deputati di Catanzaro. L'esito
gli è comunicato dal presidente Larussa, valoroso giureconsulto, e scelto deputato
anche lui, con queste parole: Tal verbale, nell'essere il mandato legale de
poteri a Lei conferiti, è in pari tempo la testimonianza più luminosa delle Sue
eminenti virtù. G. però non fa a tempo di saggiarsi nella vita politica. La
mala fede del principe aiutata dalla inesperienza politica del popolo insanguina
le vie di Napoli e sgomenta naturalmente l'animo di chi è fatto per la quiete
dello scrittoio, anzi che pei clamori e per le zuffe delle piazze. G., senza
infamia e senza lode, torna agl i studi. Lallebasque, scrive a Lugano la genealogia
del pensiero, e che quivi pare balestrato da contrario e prepotente destino.
Dopo la morte di Galluppi, contro la cui filosofiaa veva assiduamente
armeggiato nel saggio, è nel mezzo dì in valsa quella di Rosmini e di Gioberti,
ed, oltre a queste italiane, quella straniera d’Hegel: i due ultimi filosofi hanno
principalmente il sopravvento. Ciò da molestia a lui, costante e schietto
sostenitore della FILOSOFIA DELLA SPERIENZA. Se gli è parsa incauta e
sdrucciolevole quella che ROVERE (si veda) chiama la riservatissima filosofia di
Galluppi, è da immaginare quanti pericoli non temesse dalle ardite sintesi di Gioberti
e Hegel. In un volume raccolse adunque le critiche di questi sistemi, e di
quello di Lamennais, e pubblicollo. Pur lodando l'impresa di G., Padula
non gli dissimula però che la critica fatta d’Hegel e di GIOBERTI è scarsa al
bisogno: insta, che ci torna sopra, e che raddoppiasse i colpi; sollecita da
ultimo il filosofo a pubblicare la filosofia del pensiero, opera da G. dovuta accennare come in via di esser
composta. Quest'opera però non venne, nè la critica contro a Hegel ed al
Gioberti è rinforzata: venne bensì fuora il prospetto di filosofia ortodossa.
L'autore fin dalle prime mosse è dovuto parere sospetto di sensualismo, e
quindi pericoloso alle credenze religiose: a lui l'appunto rincrebbe, e si
risolse di scagionarsene. Divisa quindi invocare a soccorso la filosofia d’AQUINO,
valido usbergo a proteggerlo dai colpi frateschi, ed amettere in salvo la
pericolante ortodossia. Il prospetto, invero, piacque al clero napoletano, piacque
ai gesuiti; rassicura l'autore medesimo, che dove sentirsi in disagio. Padula, il
solo, credo, che leggesse allora i saggi di G. in Calabria, gli batte le mani
da Acri, suo paese nativo. Le lettere del Padula G. conserva; gradito applauso
in tanto silenzio. Padula però gli dipingeva il trionfo delle idee giobertiane
appresso i calabresi, ed in una lettera da Acri, gli scrive, non senza un certo
sgomento, così, Sia comunque, l'epopea giobertiana ha sedotto molti lettori; ed
io invano mi vado adoperando a disingannarli. Altro frutto non colsi, che di
essere chiamato bestia. A tergo di una lettera del Padula c'è una bozza di
risposta dove G. racconta le liete, e non sose oneste, accoglienze fatte al suo
ultimo saggio da Sanseverino. Ricopio le sue medesime parole, Oltre l'articolo
inserito nella Civiltà Cattolica, al quale accenna la sua pregiatissima
lettera, un altro forse se ne pubblica nel Periodico la Scienza e la Fede. E parmi
che anche il clero napolitano ha accolto con favore il mio piccolo lavoro; il che
io debbo precipuamente alla imparzialità e dottrina di Sanseverino, professore
di filosofia a Napoli, il quale ha una meritata riputazione presso il clero
anzi detto. È ben sì indipendente data l favorevole opinione il suffragio de'
redattori della Civiltà cattolica. Ho detto di dubitare, che queste accoglienze
sono oneste, quanto sono liete. Il clero napoletano allora, e i gesuiti
specialmente mirano ascalzare la filosofia di GIOBERTI, a denigrarla, ametterla
in mala voce. Gioberti filosofo non e forse la secreta n:ira de'loro strali: tirano
al filosofo per colpire l'uomo politico: guerreggiano la costui filosofia per
vilipendere quel senso d'italianità che traspirava da tutte le pagine
dell'illustre torinese. In quella che Padula aveva chiama l'epopea giobertiana,
la filosofia non e se non un episodio solo; e se gran parte d’italiani corse
dietro ai pensamenti di Gioberti, vi cor eso spinta da quel caldo patriottismo,
onde il filosofo sa ravvivarli. Gl’italiani hanno più sicuro, che non gl’uomini
fatti, il presentimento dell'avvenire. I gesuiti se ne sono accorti, e
festeggiano l'opera di G., perchè vi trovano un poderoso aiuto. Non dico che G.
sospetta le riposte intenzioni de'suoi lo datori; egli accetta la lode, perché
la crede di buona fede. Nell'annunzio che ne dà a Padula, e che noi abbiamo ri
ferito, c'è la ingenuità, e direi quasi il candore di un fanciullo che non ha
pratica del mondo. Ecco ora l'intonazione dell'articolo della Civiltà
cattolica: ne cito solo il primo periodo: ex ungue leonem. Lode al cielo! Mentre
tanti italianissimi fanno di tutto per intedescare la filosofia italiana,
intenebrandola colle larve di quell'assoluto che sfuma nel vacuo del possibile,
e colla nullità di una logica che teorizza la contraddizione, sorge
all'estremità d'Italia, nella patria degli Archita, dei Zenoni, dei
Campanella, dei Galluppi un ingegno sdegnoso di tale schiavitù, che tenta
richiamare gl’italiani a pensamenti meno aerei spezzando gl’idoli adorati oggi dì
dalla filosofia eterodossa, e congiungendo l'osservazione di fatto colla
generalità delle idee. Qui la frecciata va agli hegeliani; e'l contrapposto fra
italianissimi e tedescanti non puo essere più abilmente, o più gesuiticamente
messo in rilievo: non basta però a colorire intero il disegno dell'articolista,
ed ecco un 'altra frecciata, che mira più addentro. Oh questo sì, che potrà dirsi
un vero rinnovamento di filosofia italica! e ne gode l'animo di poter vaticinare
alch. A. esito migliore e maggior riconoscenza per parte dei suoi concittadini,
di quella che sperar possono certi rinnovamenti di filosofia italica, i quali
tentano di ri-suscitare i sogni di Pitagora e di Zenone per fingersi italiani,
mentre in verità altro non sono che triste imitazioni del protestantesimo
tedesco, o dell'eccletismo francese. Mentre costoro per dare lo scambio a gl’italiani
vanno nella Magna Grecia ad invocare la Pitonessa, perchè risusciti dalla tomba
i profeti del paganesimo, all'estremità della magna Grecia presso la calla del
cattolico GALLUPPI la provvidenza fa sorgere un ingegno singolare, che passando
dalla milizia alla scuola sembra con trapporsi al Renato, che abbandona la
milizia per combattere la scuola. Fin qui il gesuita. Ordunque, notoio, quando si
vuol filosofare alla tedesca, l'Italia è la patria degl’ARCHITA DI TARANTO e di ZENONE DI VELIA, e non istà bene curvarsi
a gioghi stranieri: quando poi si risale a Pitagora, ch'e stato modello ad Archita,
ed allo stesso Zenone da voi indicato, ecco che questi diventano a un tratto
profeti del paganesimo. Potremo sapere a quali filosofi bisogna ricorrere per
aver il vostro pieno beneplacito, padre reverendo? La lettura della bella
sua opera mi fa sentire anche più la perdita che io ho fatta; e che sarebbe per
me irreparabile se non mi riuscisse di vederla nelle poche ore che passerò in
Napoli prima di ripartire per Roma. Se in tale occasione potessi ricevere l'onore
di una sua visita, mi stimere i felice di conoscere il ristoratore della
filosofia ortodossa. Mi son fermato su questi giudizî, perchè qualcuno ne ave
va indotto, aver G. nel suo saggio cangiato via, ed essersi accostato ad
AQUINO. G., qui come nel saggio, rimane saldo nella sua DOTTRINA SPERIMENTALE:
se di fetto v'ha in lui, è la ripetizione quasi puntuale delle medesime idee, e
delle medesime parole stemperata in molti volumi; ma cangiamenti non glisi possono
imputare. Quel che si trova dippiù nel prospetto di filosofia ortodossa è lo
sforzo di far parere tomistica la sua filosofia. Perchè ciò gli premesse, non
indovino: e per tranquillità della propria co scienza? e per capacitare gli
altri? e per aver dalla sua il clero, e col mezzo di questa cooperazione
diffondere la sua dottrina? nol saprei dire: certo la sua filosofia rimane
quasi sconosciuta, nè le lodi del clero napoletano e de'gesuiti le valsero
allora, e forse le nocquero più tardi: successe di lei ciò ch'era succeduto di
un teatro da lui disegnato, e costruito a Cosenza; il quale e disfatto per
impiantarvi un collegio di gesuiti. Ma lasciamolo là il gesuita, che non
siaccorge, quanto la filosofia di G. possa arrecar di nocumento alla sua fede: il
critico non va a cercare tanto per lo sottile, e si appaga dell'autorità d’AQUINO,e
del titolo del saggio: più in là non vede. Nè più in là vidi Taparelli, contutta
la fama di dotto, perchè in una lettera scritta al nostro G. da Sorrento lo
saluta, senz'altro, ristoratore della filosofia ortodossa. G., saputolo a
Napoli, e stato a fargli visita: non lo ha trovato, e di Taparelli,
informatone, gli scrive così. Merita egli quest'obblio? Certo che no; e
noi ci studieremo di dimostrarlo, facendo una rapida esposizione delle sue
dottrine contenute ne'saggi finora accennati. E prima di tutto: quali sono le condizioni
filosofiche delle provincie meridionali, quando egli dassi a filosofare? Quale
fine si propose egli? Quali mezzi aveva sotto mano? Queste notizie sono
indispensabili per valutare equamente il risulta to delle sue ricerche. G. ha una
coltura matematica; e, come porta questa coltura, il suo spirito ne ha attinto
un bisogno di dimostrazioni rigorose, ed un'avversione alle conclusioni
frettolose, ed alle sintesi arrischiate. Da parecchie testimonianze si
raccoglie, ch'ei diessi alla filosofia molto, quando già la fantasia è manco
vivace purne gl’uomini che più ne abbondano. E l'educazione adunque e l'età lo
attirano per quella via piana e sicura, dove un pie de va innanzi l'altro,
senza intoppi, e senza bisogno di salti. Quando all'incirca ei simise a filosofare,
Galluppi lastrica quella via, ed
additatala ai suoi con cittadini. LA FILOSOFIA SPERIMENTALE e in voga. È in
voga, male sta sempre di fronte, temuta avver saria, quella filosofia che
rivendica all'attività dello spirito un'attività produttrice ed indipendente,
benchè sotto varie forme. Locke combatte l'innatismo cartesiano, ma e stato
alla sua volta combattuto da Leibniz: l'Innatismo ricompariva sotto altro
aspetto. Non dico giàche le figure siano bell'e disegnate nel marmo, dice
Leibniz; ma il marmo non è però liscio e schietto, c'èuna certa venatura, che
messa in risalto si accosta assai alle linee che ti occorrono a figurarle.
Bonnot di G. muore a Napoli, quasi ignorato. E attorno ad altri saggi, fra
i quali un’estetica, e le Istituzioni di filosofia. Ma di questi manoscritti
forse lasciati a Napoli non si è potuto avere nessuna notizia. Condillac
ripiglia l'impresa del filosofo di Wrington, e non contento di divolgarlo tale
quale, come fa Voltaire, lo semplifica, lo facilita, sicchè la sola sensazione
fa a lui quell'ufficio, pel quale al Locke sono occorsi due coefficienti: la
riflessione del filosofo inglese era sbandita come soverchia. Condillac ha,
come suole succedere, cominciato con ricalcare fedelmente le orme di Locke, poi
aveva rifatto a modo suo: e la sua semplicità maravigliosa piacque in Francia
più della circospetta indagine del filosofo inglese. Onde, morto lui, il suo
filosofare continua, interrotto appena dallo strepito della rivoluzione, che
tenne dietro alla sua morte. Cessato, difatti, il terrore, l'anno appresso i
condillachiani ri-apparvero padroni del campo filosofico, e debbero in mano la
scuola normale, e l'istituto, che allora sorge per decreto della convenzione
attuato dal direttorio. Questo gruppo detto degl'ideologi conta nomi celebri:
Cabani s il fisiologo della scuola, Tracy l'ideologo propriamente detto,Volney
il moralista, Garat professore alla scuola normale e difensore del sistema; e
poi con loro altri che dipoi deviarono, chi più chi meno, ma che allora stano
per la medesima dottrina. Biran, Gerando, La Romiguière. Nel decennio corso fra
la cessazione del terrore e la fondazione dell'impero questo gruppo di
valent’uomini si aduna nei giardini di Auteuil, e l'amicizia degl’animi
siaccoppia ne'loro convegni alla concordia delle dottrine. Sotto l'Impero, il
cielo per loro si annuvolo. Tutti sanno il dispregio in cui il primo Napoleone
tene l'I deologia; non tutti ne sanno il motivo. Napoleone non l'odia tanto come
dottrina, quanto come partito. Cabanis, Volney, Garat, DeTracy, che hanno visto
di buon occhio il Nettuno che placa le onde tempestose della rivoluzione, non
sono più contenti, quando lo videro troneggiare da Giove. Gli tennero il
broncio, ed ei si vendica nel rimpastare l'istituto, scartando la sezione
delle scienze morali, e destituendo l'ideologia, secondo la frase di Damiron.
Villemain racconta gli scoppi della collera napoleonica contro quegl'innocenti
ideologhi, che poi non lameritavano davvero. All'ideologia Napoleone imputa di
scandagliare le fondamenta dello stato col fine di scalzarle. Vera o falsa che
fosse l'accusa, l'ideologia ne scapitd, almeno perdendo la veste di filosofia
ufficiale, e lo spiritualismo, che ne spia le mosse, la soppianto nella scuola
normale, dove Collard l'introduce. Seguace del keid, questo eloquente filosofo
sa vincere la preoccupazione invalsa, che filosofare liberamente non si potesse
fuori dell’ideologia; e che quindi o bisogna accettare lo spirito teologico del
De Maistre, o schierarsi tra gl'ideologi con a capo Tracy. Con Collard
l'alternativa e evitata, ed inaugurata la nuova scuola filosofica della
Francia, quella ch'è stata da indi in poi sempre al potere con Cousin, con
Rémusat, con Barthélémy de Saint Hilaire, con Waddington, con Simon. In ITALIA
lo spiritualismo, rinfiancato dall'eccletismo cousinjano, benchè tradotto dal
Galluppi, non fa fortuna: gl’Ita liani o tennero la via degl'ideologi, o se ne
scostarono per ben altra filosofia, che non fosse l'eccletismo. Più che la
filosofia del senso comune proposta da Reid per fronteggiare lo scetticismo di
Hume, ed accettata da Royer-Collard per combattere l'ideologia, diè da pensare
agl'Italiani la filosofia trascendentale di Kant. Galluppi se ne mostra
profondo conoscitore fin da quando incomincia la pubblicazione del Saggio su la
conoscenza umana; sebbene avesse dovuto studiarla nelle scarse esposizioni di
Villers. Più tardi soltanto, traduce la Critica Mantovani; ma Lallebasque e in
grado di STUDIARLA SULL’ORIGINALE, come dimostra di saper fare nella
esposizione che ne dà nella sua Introduzione alla filosofia del pensiero: caso
degno di nota per quel tempo, quando nè la lingua, né la filosofia tedesca sono
divolgate, come oggidì, non dico in Italia, ma neppure nella rimanente Europa.
Le due vie aperte, da indiin quà, sono adunque, almeno per noi, queste due: il
SENSISMO ed il criticismo. Tra queste cerca di aprirsi un varco intermedio
Galluppi; al sensismo propende Borrelli, al criticismo Colecchi. Borrelli
scrive e stampa a Lugano, quasi contemporaneamente a Galluppi, ch'ei conosce
però soltanto di nome. Colecchi insegna pure in quel torno, ma le sue questioni
filosofiche non sono pubblicate, se non piu tardi. Che G. non quindi conosce
gli scritti di Colecchi, è certo; di Borrelli si può dubitare, benchè a certi
segni, che appresso additeremo, si possa credere di averne avuto sott'occhio le
opere. Indubitato è però che siasi formato su Galluppi, e che siasi prefisso di
camminare su la via dischiusa dal suo gran concittadino, evitando gli
sviamenti, in cui l'altro era incorso, e tirando più dritto alla meta. Più
dritto e difilato procedette in realtà; ma verso dove? Parve a G. che Galluppi,
scambio di fondare LA FILOSOFIA DELLA SPERIENZA, come si era proposto, per
incaute concessioni al kantismo, e finito con darsegli in preda. Cotesto
sviamento ei combatté a tutt'oltranza ne'primi saggi, come nell'ultimo; prima
copertamente, e senza pronunziar ne il nome, poi alla svelata. Onde a me non
piccola sorpresa ha cagionato il giudizio di certi nostri storici e critici ad
orecchio, i quali confondono Galluppi con G., come se professassero la medesima
dottrina. Capisco che il titolo, comune ad entrambi, di FILOSOFIA SPERIMENTALE,
ha potuto trarre in errore i prelo dati giudici; ecompatirei lo sbaglio, s'ei
fossero dilettanti; ma è da condannare severamente in loro, che si danno l'aria
di scrivere storie e critiche, senza leggere neppure i saggi istoriati e
criticati. Tornoora a G.. Per dimostrare il processo storico de'due
opposti avviamenti, ei ricorre alla sorgiva: rifà quindi la storia de sistemi
filosofici moderni, ed ammaestrato dagl’errori altrui ripropone il problema, e
si accinge a risolverlo. Anche qui l'influenza di Galluppi è manifesta, avendo
questi pel primo rimesso in onore appresso di noi la storia della filosofia, e
dato il più lucido esempio d'innestare le ricerche proprie con le indagini
fatte prima da altri sul medesimo soggetto. G tuttavia ritesse la medesima
storia con altro intendimento; perciò la sua non è ripetizione di quella fatta
da Galluppi, e vale il pregio di essere esposta e conosciuta in disparte. La
filosofia per G. si aggira sul problema della scienza umana, nè più né meno,che
per Galluppi: il titolo delle due opere capitali scritte dai due filosofi calabresi
accusa la medesima intenzione. Il Galluppi scrive il saggio filosofico sulla
critica della conoscenza; G., il saggio su la realtà della scienza umana .
Questa similitudine ha tratto in errore alcuni storiografi da frontispizî,
perchè dalla intestazionesono corsi,senz'altro, ad asserire che Galluppi e G.
professanol a medesima dottrina. Se non che, questa volta l'hanno sbagliata;
chè se il problema è lo stesso in entrambi , la solu zione è diversa non
solo,ma opposta. G scrive col manifesto divisamento di combattere la soluzione
gallup piana. Già nella stessa intestazione il filosofo di Mesuraca accenna a
questo punto capitale del suo saggio , ch'è la real tà della
scienza,compromessa,a parer suo, dalla spiegazione accettata dal filosofo di
Tropea. Ma seguiamo ilprocesso storico delproblema,com'è espo sto da G.
Galluppi aveva dato l'esempio di accoppiare alla sua Ancora non gli eran potute
essere note le tre epoche distinte da Comte , che par di non aver conosciuto n
e p pure dopo, e già egli tripartiscela storia della filosofia, a un di
presso,con un criterio analogo a quello del filosofo francese. Nella prima
epoca la ragione, baldanzosa per inesperta filosofia, silibra a volo,e tenta
costruzioni metafisiche, tenendo scarsissimo conto della scienza principale, e
facendo ne quasi un'appendice delle sue fantastiche cosmogonie. Nella
seconda,ella piglia per verità le mosse dal proble ma del conoscere; matostolo
abbandona, sedottadallame tafisica. Nella terza, la ragione rinsavita si
propone chiaro il suo cômpito, ed'altronon sibriga; se non che, pur nelle
soluzioni del problema conoscitivo, di quando in quando, fa capo lino il
razionalismo. Insomma l'esosa metafisica, lo scapestrato razionalismo sono per
G. il vero ostacolo, che non lascia passar la vera scienza per la sua via. Alle
tre epoche egli assegna questi intervalli di tempo:la prima si stende dai primi
abbozzi ionici fino a Socrate, il fondatore della definizione, e
de'ragionamenti d'induzione; la seconda da Platone e da Aristotele corre fino a
Locke; in terrotta qua e là dai tentativi di GALILEI, di Bacone, e
CARTESIO; la terza dura ancora, e dè nel meglio delle sue
conquiste. 16- dottrina la genesi storica del problema da lui
riproposto; e sirifàda Cartesio a questa parte, da Cartesio che per lui è il
padre della filosofia moderna. G. risale più in su , fino ai primordî della
filosofia greca, senza perder d'occhio però il problema della scienza. Il suo
criterio storico è semplicissimo: v'è due filosofie, una che ritiene
l'osservazione de'sensi,un'altra che l'impugna;e quest'ultima, comechè si
argomenti di ricostruire la impugnata testimonianza, merita sempre il nome di
razionalismo. È mestieri, dice G., distaccar del tutto le metafisiche
speculazioni dalla scienza del pensiero, per forzar la ragione al metodo di
pura osservazione. La ragione, secondo lui, ha una tendenza precisamente
contraria; ingegnandosi di rimenare all'ordine a priori quel che trovasi dato
da induzione. È necessario adunque che la filosofia n e infreni l' impeto, e ne
moderi la foga; e, per non esservi riuscita ancora, la metafisica è rimasta
stazionaria, piena zeppa di ambiziose vedute, non avvalorate da'fatti. Positivo
progresso della filosofia d'oggi dì è quello di essersi ridotte le ricerche
metafisiche, che untempo formava no la sterile ricchezza degli scritti
filosofici. La stessa avversione ha G per lo spirito teologico. L'intervento
divino nella spiegazione de'fenomeni na turali vale quanto la macchina nello
scioglimento del nodo diuna tragedia. Perocchè è ben facile espediente
ilriporta re ad una causa sovrannaturale quegli effetti, che non siè saputo
ricondurre alle cause naturali. Soggiunge innota una riserva, èvero; dichiara
di non voler impugnare i miracoli: il punto principale non è mensaldo però,
l'esclusione loro dalla scienza. Qui G., sia che lo conoscesse, o che
s'incontras se con Comte, si mostra cosi aperto avversario dell'intervento
divino, come delle ipotesi metafisiche: teologia, e razionalismo sviano dalla
vera scienza. Il tradizionale metodo della filosofia telesiana rivive dopo tre
secoli in G.: fondamento della scienza è la sola osservazione; e nondimeno
riserva di ossequio verso l'autorità religiosa, da parte degli autori. G.
rivolge ai fenomeni del pensiero quella osservazione, che TELESIO aveva rivolto
a'fenomeni naturali. Il metodo ch'ei si traccia, e che si studia di seguire, è
il seguente: osservare i fenomeni primitivi, ridurli fino agli elementi
irreducibili. La filosofia intellettuale, ei dice, dopo aver riconosciuto i
fatti attuali di coscienza dee saggiar di risalire di riduzione in riduzione al
fatto primitivo, alla pura veduta intellet Quali sono i fenomeni primitivi del
pensiero a cui si ferma? Sono tre, la sensazione, il giudizio, il volere;
quindi tre parti principali della filosofia, estetica, logica, etica. Lasciando
di vedere se questi tre sono proprio i fenomeni irreducibili, certo è però che
il metodo da lui seguito è precisamente quello tenuto dalle scienze esatte.
L'autore non dissimula il bisogno da lui sentito di applicare alla filosofia il
metodo delle matematiche, alle quali s'era da prima ad detto, e dal cui studio
deriva in gran parte il riscontro che si può scorgere tra la sua filosofia e
quella che nel torno medesimo si coltivava in Francia sotto il nome di
filosofia positiva. Eppure, esclama G., non v'è chi passando dalla evidenza
delle matematiche alle ricerche filosofiche non senta irrequieto il bisogno di
sortir fuori delle incertezze, in cui vede implicato il sistema della scienza.
Come dalla semplice osservazione lo spirito possa sollevarsi alla riduzione
scientifica de’ fenomeni, G. descrive in modo molto preciso; e tale che merita
esser riferi to con le sue stesse parole. Ma l'esperienza non è l'osservazione
empirica, che si arresta a'fenomeni isolati. Il metodo sperimentale si giova di
tutti i nostri mezzi per iscovrire la connessione de' fenomeni; del
ragionamento astratto, della induzione, delle sperienze artifiziali, delle
ipotesi. Con sì varî mezzi la fisica lavora alle classificazioni de'fenomeni
esterni,a ridurre i fenomeni particolari a'generali, a rilevare dal corso della
natura le sue leggi, cioè le costanti condizioni de'fenomeni, le une costanti e
permanenti, le altre costanti nel cangiar dei fenomeni. In tal divisamento non
mira soltanto a minorar tuale. l'ignoto, che resta limitato
a'fenomeni irreducibili, ma ad uno scopo più positivo, a quello diprevenir
l'esperienza, e somministrar così preziosi materiali a tutte le arti. Chi
ricorda il motto del Comte: savoir c'est prévoir riconosce di leggieri il
riscontro de due filosofi. Nè risalta meno la comune mira di ridurre i fenomeni
fino all'estremo limite, affine di minorare l'ignoto. Trasportando ora il metodo
teste descritto alle investigazioni filosofiche, G. procede cosi; osserva,
cioè, i fatti della coscienza, qual'è attualmente, e di riduzione in riduzione
risale fino ai primi elementi, ond'ella è stata generata. Egli stesso formola
il suo problema in questi termini: coi mezzi che sono in nostro potere,
ritrovar la generazione delle verità, di cui siamo in possesso. Questo metodo
ei lo chiama genealogico; e la parola ed il concetto si trovano inun altro
filosofo italiano, noto a G., in Borelli, che intitola la sua filosofia,
Principii della genealogia del pensiero. Fino a che punto s'accordino nel loro
intento, toccheremo appresso. Qui basta notare, che la filosofia vera, la
filosofia seria per G. comincia con quest'analisi minuta degl’elementi primi
del pensiero. Dimodo chè sebbene ei lodi Aristotele di aver ammesso la realtà
delle idee universali,e più ancora di essersi fondato sul senso, nondimeno, poiché
lo Stagirita vi arrivo quasi di lancio, e per un'affrettata generalizzazione, il
nostro filosofo non ripigliala vera storia da lui. Il primo saggio genealogico
del pensiero sembra a lui, essere stato il Saggio sul'intelletto umano di
Locke, che pure Galluppi chiama immortale. Quel saggio, caduto poi
indiscredito, ha una meritata rinomanza; e la fama è più fondata del
discredito. La filosofia inglese mette capo tutta quanta in esso; la francese
del secolo trascorso ne deriva; alla tedesca, iniziata da Kant, di è il primo
urto per mezzo di Hume. Oggi di, appresso di noi. Il principal
merito del filosofo di Wrington è agl’occhi di G. quello di aver combattuto ad
oltranza le idee innate. Ritenere tutte, o alcune idee per innate, porta
necessariamente per conseguenza di non ricercarne l'origine; e quindi impedisce il progresso della
filosofia, che tutta si dee travagliare attorno a questa ricerca. Cartesio e
Leibniz, che si credono di averle ammesse, in realtà le ritennero come semplici
disposizioni; e è per colpa di una improprietà di linguaggio se s'imputa a loro
diaverle accettate. E qui da una toccatina a Galluppi. Ma il sistema lockiano,
nel rintracciare la genealogia del pensiero, omise moltissimi atti mentali che
vi concorrono; ed è omissione scusabile in un primo tentativo, ed in ricerca
cotanto complessa. Locke da, per dir così, una formola generale, alla quale sono
applicabili più valori: Condillac si avvisa di darle un valore preciso; ma
precisando, disvia. Locke, difatti, aveva riconosciute due sorgenti delle
nostre idee, la sensazione, e la riflessione: quest'ultima non è ben definita,
è una funzione che accoglie un po'di tutto, giudizio, astrazione, ragionamento,
volontà, è in definita, si confonde con la coscienza: Condillac dà un va si è
più giusti verso del modesto, del sincero, del pazientissimo Locke; smessi i
superbi fastidî delle sintesi frettolose: al tempo che scrive G. le
invettive giobertiane sono accolte senza molti scrupoli; ed al filosofo
calabrese è gloria non esser se ne lasciato smuovere. Galluppi lo pregia assai,
ma i consigli del buon vecchio cominciano ad aver poca presa su gli animi de'
filosofi. Fuori d'Italia Herbart fa tanta stima del Saggio lockiano, che al
Consigliere Clemens, il quale lo ri chiedeva intorno alla filosofia da
insegnare ne’ginnasi, risolutamente risponde: dal maestro di filosofia
ne'ginnasi anzi tutto ed assolutamente richiederei che avesse letto
Locke. ore preciso, riduce tutto alla sensazione, o semplice, otra
sformata: sentire è giudicare. G. fa della sensazione e del giudizio due fenomeni
irreducibili; egli non può dunque nè contentarsi dell'ambiguità della
riflessione lockiana, ne molto meno della semplicità della sensazione condillachiana.
All'osservazione de'fatti gli pare che Condillac ha sostituito la tortura del
fare sistematico. Gran merito di Kant è quello di avere scorto l'importanza del
giudizio, di questo fenomeno irreducibile, stato da Condillac confuso con la
sensazione. Pel filosofo di Koenisberg gl’ultimi elementi delle nostre idee
sono da una parte le sensazioni, dall'altra i giudizî – potch e cotch: i due elementi
appunto che al nostro filosofo paiono indispensabili alla soluzione del
problema che si è proposto. Ma con questo gran merito egli imputa a Kant una
gran colpa, la soggettività de’rapporti; vizio che gli sembra infettare la
filosofia. La soggettività di Kant però, e G. ne conviene, è una necessità
storica. Locke dice che tutte le nostre idee nascono dalla sperienza, e che
un'idea originale semplice non può derivare quindi da un ragionamento: Hume
accetta le premesse, e continua: ma l'idea di causa non. Per lui, come per
d'Alembert, la facoltà distintiva dell'essere attivo e intelligente, è quella
di poter dare un senso alla parola è: ora Condillac questa distinzione l'ha
distrutta; i J tà el Se elementi soggettivi, egli nota, simescono co'dati
sperimentali, in tale ipotesi non conosceremmo quel ch'è nel fatto osservato, ma
quelcheci apparisce esservi; tal chese spogliamo il fatto di ciò ch'è nostra
proprietà, la nostra conoscenza svanisce.Si vuol che siano elementi soggettivi
le idee di spazio, di tempo, di sostanza, di causa? Togliete via dunque dagl’oggetti
esterni e dal proprio essere siffatti elementi; e la scienza della natura, e
dello spirito è distrutta, può derivare dalla sperienza; dunque non
c'è. Cosi tutta la scienza della natura anda in aria, e Reid sirifugiò nel
senso comune, in una credenza irresistibile, istintiva: Kant ammise degl’elementi
aggiunti dall'attività dello spirito. G. nota con molto accorgimento, che in
sostanza il senso comune, di cui tanto si compiacciono certi filosofi anche
oggi di, non salva nulla; che per giunta è pieno di contraddizioni, perchè
introduce classificazioni e distinzioni arbitrarie, mentre si è prefisso di
accettare le comuni credenze tali quali si trovano nella coscienza volgare; che
tra Reid e Kant, per ciò che riguarda la realtà della scienza, non c'è punto di
di vario. Kant nello spiegare il fenomeno lo sfigura, e lascia sco vrire il dubbio:
la scuola scozzese tiene occultato il dubbio perchè non imprende la spiegazione
del fenomeno. È Bravo G.! Egli non si lascia appagare dalle parole, e ci vede ben
addentro; e sel'ha conKant, sa rendergli giustizia, nè condannando lui, assolve
quelli che sono intinti della stessa pece. Ed ora viene il buono.Nella dottrina
kantiana ei capisce subito, che non il numero degl’elementi soggettivi aggiunti
dallo spirito, ma l'aggiunzione sola, quanta che fosse, è sufficiente a
compromettere la realtà della scienza umana. Certi nuovi critici, che in
filosofia credono poter servirsi della stadera, han detto, per esempio: Kant
ammette intuizioni pure, categorie ed idee, tutte a priori, Galluppi, invece,
appena appena dà per soggettivi i due rapporti d'identità e di diversità, dunque
è lampante ch'ei si an discosti le mille miglia uno dall'altro. sta
dunque la differenza, in quanto alla realtà delle nostre conoscenze , tra il
proscritto sistema kantiano, e la favorita dottrina della scuola di Reid! que
G. scrive così: basta il supporre una pura veduta dello spirito il solo rapporto
d'identità e di diversità, apporto fondamentale delle nostre
conoscenze, per ricadere nel realismo empirico del sistema kantiano. Nè
contento acid, altro ver incalza la sua osservazione in questi termini.
Mettiamo ora in disparte il sistema kantiano; cangiamo la sua ripartizione tra
gl’elementi soggettivi e gl’oggettivi accordando più largamente alla sperienza;
o anche tutte le idee diciamole derivate dalla sperienza, e riteniamo bensi
solamente che non sono condizioni oggettive i rapporti anzidetti appresi tra le
sensazioni; noi ricadiamo apertamen te nel realismo empirico della filosofia
critica. Per G. il kantismo consiste nell'applicazione d’elementi soggettivi
alle sensazioni: dovunque riscontra questo medesimo processo ei riconosce
ritenuto il fondamento della filosofia kantiana. Ei si maraviglia anzi che gli
altri non siansi accorti di questa medesimezza. La storia nota a stupore della
posterità, che i filosofi tutti hanno accusato d'idealismo il sistema kantiano,
e che niuno ha avvertito, l'idealismo esser nella supposta natura soggettiva
delle idee di rapporto. Quale sarebbe stata la maraviglia di G., se avesse
vistoche, quando ebbe notata cotesta somiglianza SPAVENTA, contro lui gridarono
tutte le oche, vigili sentinelle della rocca filosofica. Parve denigrazione
della filosofia italiana, quella ch'è critica aggiustata e seria: parve così a
coloro, iquali se ne predicano sostenitori, quando non l'hanno studiata,e forse
neppure letta. Ma torniamo a G.. Ei non cita Galluppi in tutto quanto il saggio,
se non una volta sola; egli però scrive il saggio per combattere la dottrina
del suo gran concittadino, che gli pare derivata a dirittura da quella di Kant.
Che però miri a Galluppi, apparisce da un'apposita nota al saggio. La dottrina
degl’elementi soggettivi, ei dice, è stata da noi detta soggettivismo per
denotarla qual vizio radicale del metodo filosofico. Può anche dirsi formalismo,
riferendosi alle forme pure di Kant, che sono gl’elementi soggettivi. Noi
abbiamo preferito finora la prima espressione per la considerazione, che nelle
dottrine attualmente in vigore si abbraccia l'ipotesi degli elementi
soggettivi,e non vi si parla di forme. E siccome credono alcuni di non
incorrere nell'idealismo di Kant,tuttochè adottano quella ipotesi;noi nel
combatterla sotto qualunque aspetto,dovevamo ritenere il nome or generalmente
adottato, quello di elementi sogget tivi.Se cifossimoinvecediretticontro
ilformalismo, po teasi credere che prendevamo di mira il solo sistema kantia
no.Insostanza,ladistinzionedimateriaediformaintal sistema serve a render più
potente l'idealismo,che si rac chiude nella dottrina degli elementi
soggettivi.Quindi si son messe in disparte le forme kantiane, e si sono
adottati gli elementi soggettivi che Kant appello forme. Ecco come da taluni si
è creduto evitare l'idealismo kantiano! Per G. adunque il divario fra Kant e
Galluppi, ed anche tra Kant e Rosmini,come vedremo appresso, era più
dinomeched'altro. Che cosa ne dirà Acri? checo sa ne diranno tutti quei
ciarlatani grandi e piccini,che sen zaaverlettoneppureifrontispizîdelleopereche
citano,lo mitriarono vindice della filosofia italiana ? Ai ciarlatani è inutile
rivolgere nessuna domanda;al pro fessore Acri domando che cosa voleva
dire,quando scrisse a proposito del Galluppi il seguente giudizio ricavato da
G. Ma perciò che Galluppi e Kant affermano tutt'e due che questeidee (identità e
diversità) sono soggettive es'accordano nelleparole,ne vuoi dedurre che
Galluppi sia kantia n o ? Il tuo argomento sarebbe questo nè più né meno:
quell'anima le lì è cane; quella costellazione lì è cane: quello abbaia; dunque
quell'altra deve pure abbaiare. Se si considera ilpensiero di Galluppi su
questo argomento,quantunque non molto lucido e netto, come ha notato quel
nostro G. degnodimaggiorfama, sivedesubitochel'idea diidentitàhavalore
oggettivoereale, perchènasce dall'i dentità reale dell'io come cosa,non
altrimenti che l'idea di unità (Acri, Critica). Quando lessi questa scappata
dell'Acri, mi misi a ridere: tralasciai pero di tenerne conto nella risposta
che gli feci, non volendo entrare nella esposizione di G.,che sa pevodidovere
scriveredopo:eccomioraapoternefartoc care con mano la falsità. Stando all'Acri,
adunque,quel nostro G. aveva notato benissimo che per Galluppi le idee di
identità e di di versitàerano oggettive; chesoltantonellaespressioneave va
questi mancato di lucidezza. Ha Acri letto davveroil Saggio di G.? Io credo,
edebbocrederedino, perchè intutt'iquat tro volumi,quel nostro valoroso
concittadino d'altro non biasimail Galluppi,pursenzacitarlodinome,che diaver
accettato dal kantismo la soggettività de'rapporti, segnata mente poi di questi
due d'identità e di diversità. Acri, seavesselettoillibro,non sarebbeuscitoin
quella citazione,inesatta non solo,ma assurda ;chi pensi, che G. ad altro fine
non scrisse,che a rilevare la medesimezza de'risultati, per rispetto alla
realtà della n o stra scienza,si delle forme kantiane,come degli elementi
soggettivi di Galluppi. Capiscoche Acri potevafar a fidanza con l'ignoranza
assoluta de'suoi ammiratori in fatto di storia della filosofia, ma egli non
doveva contare per niente,dunque,neppure isuoi
contraddittori? Padronissimo di creder lui,che que'rapporti
per Galluppi sianooggettivi,ma perchè volertirare dallasua anche G. ,che tutta
la vita scrisse appunto per dimostrare il contrario? È un po'troppo, parmi.
Finchè visse Galluppi, G. non riflni dal com batterne la dottrina,
congrandeinsistenzaforse, delche si scusava;ma con profonda convinzione, edopo
averne lunga mente ponderato quelli che a lui parevano inconvenienti
gravissimi. Nol nominò però mai,altro che una volta sola, e per lodarlo. Morto
che e Galluppi , scrivendo egli l'ultima sua opera col titolo di Prospetto
della filosofiaortodossa, smettelaprima riserva, elocombatte no minatamente .
Ripetendo le antiche obbiezioni ,egli scrive cosi. Su tutto quel che abbiamo
qui osservato intorno alla dottrina della sensazione essenzialmente percettiva,
e della soggettivitàdelleideedirapporto,dobbiamo anoistessiil far noto a'nostri
cortesi lettori,che le stesse osservazioni, più estesamente sviluppate,furono
fatte di ra gione pubblica, e non abbiam poi cessato di riprodurle in parte,e
ripetutamente in varii articoli pubblicati in diversi giornali. Dimodochè
rimane fuori di ogni controversia, che il De Grazia ha inteso combattere la
dottrina di Galluppi su la soggettività de'rapporti,e che ha creduto essere
questa dot trina conforme a quella di Kant . Potrei anzi a g giungere,che la
soggettività de'rapporti parve a G. concedere più di quel che Kant medesimo
ricercasse:«tutto, egli avverte, si accordava a Kant , anzi ancor più di quanto
questiesigea,quando glisiaccordava,che le idee di rap porto sono elementi
soggettivi. E perchè dippiù? Perchè Kant limitava almenoilnumero delle sue
forme; mentre la tesi galluppiana della soggettività spaziava più largamente.
Ecco le strette in cui G. pone questa filosofia. Finché
siritiene,eidice, da'filosofilanatura soggetti vadelleideedi rapporto,
restainconcusso ilprincipio,che isensi non possono altrodarcichenude
sensazioni. Questo principio o rovescia per intero il sistema sperimentale, o
deve ammettersi che tutte le nostre idee sono sensazioni:ad un estremo
èilformalismoassoluto, all'altroestremo è il sensualismo. Nelle forme pure
dello spirito si modella in ideel'informemateriasensibile,dice
ilformalista:tutte le nostre idee sono sensazioni, o primitive o trasformate,
dice il sensualista. O Kant,o Condillac:eccoilbivio della filosofia, secondo il
nostro filosofo. Perchè questo bivio? Perchè due soluzioni sono possibili,
quando non si tien conto di tutti nostri mezzi del conoscere. Questi mezzi sono
due :sentire,e giudica re;ridurli entrambi ad un solo,importa o lasensazione
tra sformata di Condillac, o ilformalismo kantiano. Formalista è dunque
Galluppi, formalista Rosmini ; entrambi costretti ad ammettere tutt'igiudizi
come sinteti ciapriori. Se l'idea di identità fosse un elemento soggettivo,come
essi opinano,e perciò addizionale alle due idee,il nostro giudizio sarebbe in
tutti casi sintetico a priori ».(p.286). Ma
ilGalluppicombatteigiudizîsinteticiapriori,sidi ilcorollario previsto da
G. non lo tocca dun que .Così ragionerebbe chi si fermasse alla
buccia delle q u e stioni;noncosì G., ilquale vipenetraaddentro. È una
contraddizione, eglidice,dicuiilfilosofonon s'èac corto, perchè la vera
dottrina è quella che non dipende dal la intenzione, o dalla professione di
fede che fa un autore, ma quellachesifondanellalogica. Avete un bel dire che
giudizi sintetici a priori non volerà; Non si è dunque avvertito, che son due
tesi contraddit torie, il non esservi giudizî sintetici a priori, e l'essere
ele mento addizionale l'idea d'identità ». (loc.cit.). te
ammetterne,quando poisostenete che ogni rapporto è un'identità o totale o
parziale ; e quando soggiungete che questa identità è un'aggiunta dello
spirito. Quale dottrina contrappone ora G. a quelle del Condillac,e del Kant ?
L'uno diceva : giudicare è sentire; l'altro, seguito da Rosmini e da Galluppi,
diceva:giudicare è aggiungere; G., discostandosi dal primo e dal secondo,
dice:giudicare èosservare. Ma prima d'intendere il significato nuovo,ch'ei dà
alla funzione del giudizio,necessita ricordare com'egli abbia in teso la
sensazione. Né Locke, nè Condillac distinsero abbastanza la sensazio ne dalla
percezione ; Condillac anzi le confuse affatto. Alla stessa confusione fu
sforzato Galluppi.Tralascio le osser vazioni sui primi due,mi fermo a quelle
che vanno dritte contro la spiegazione galluppiana,ch'è lamira principale di G.
Due sbagli commette Galluppi,uno di confondere ilsen - timento con la
coscienza; l'altro di confondere la sensazione con la percezione. « Il
sentimento e la coscienza del sentimento sono nel n o stro spirito cosi
abitualmente congiunti,che più filosofi han confuso i due fatti affermando, che
sentire ed esser conscio di sentire non sono che una operazione medesima dello
spi rito. Confondendo la coscienza della sensazione con la sensazione, non si
sono avveduti que'filosofi, che ciò era un confondere il conoscere, il
percepire col sentire, con fusione che essi medesimi rimproverano
a'sensualisti. Queste due confusioni erano state fatte veramente dal
Galluppi,avendoeglicompresosottoilnome disensibilitàin Il
simile si dica della idea dell'ente, che Rosmini a g giunge ad ogni giudizio; su
la quale torneremo altra volta. Sentire il me sensitivo di un
fuordime, glidice G., è la più forzata contrazione,che potea darsi all'e
spressione del fatto di coscienza. L'industria adoperata da Galluppi per
nascondere questi giudizî elementari e primitivi proviene,a parer del nostro fi
losofo, dal perchè egli li aveva tenuti per sospetti di sogget tivismo.Questo
medesimo motivo lo indusse ad ammettere le sensazioni oggettive, senza bisogno
di spiegare il passag gio dal sentire al percepire . Leibniz e d'Alembert, entrambi
geometri , e prima di loro anche il Malebranche, avevano riconosciuto il
bisogno di spiegare il passaggio dal me (cf. GRICE, PERSONAL IDENTITY) al fuor
di me: i due primi avevano anzi proceduto più avanti,additando come mezzo
l'induzione; Galluppi tagliòcorto,negò ilproblema stesso; affermando non
esservi luogo a passaggio, quando la sensazione coglie immediatamente
l'oggetto. Doppio sbaglioadunque da parte di Galluppi: primo, aver
disconosciuto igiudizî primitivi;secondo,aver rifiutato,per la conoscenza del
mondo esteriore, il soccorso della induzio ne . Contro i giudizî lo aveva
prevenuto la dottrina kantiana de'rapporti soggettivi ; contro l'induzione,il
presupposto che nessun'abitudine posteriore avrebbe potuto fare ciò che un atto
primitivo non aveva potuto.Se una prima sensazio ne non mi fapassare
all'oggetto esterno,come, diceva il Galluppi, mi ci potrebbe abilitare una
seconda od una terza? Eppure de'giudizî abituali che si frammischiano alle
sensa zioni aveva toccato prima il Malebranche , poi il Condillac
; - terna il sentimento e la coscienza del me; esottoil nome di
sensihilità esterna la sensazione e la percezione . Perchè dal sentimento si va
daalla coscienza, edallasen sazionealla percezione ci vuole il giudizio; non il
giudizio galluppiano che aggiunga rapporti soggettivi, ma ilgiudi zio che
osserva,ed osservando distingue i rapporti reali delle cose. e
della forza dell'abitudine Hume ,e della efficacia della in duzione avevano
accennato Leibniz e D'Alembert! G. riassume e tesoreggia isaggi de'suoi prede c
essori , e li compi e così . associazione adunque spiega l'origine :
l'induzione as sicura la realtà; come si può assicurare, beninteso, una ve rità
contingente , la quale non esclude mai la possibilità del l'opposto. Coloro i
quali han posto mente alla sola abitudine fonda ta su l'associazione,han detto
:ma qual garantia ci porge ella della sua realtà ? Così son rimasti nel circolo
descritto da Hume. G. , s chi vale prime e le seconde difficoltà , e formola il
processo genealogico cosi: l'associazione comincia, senza badare alla
realtà;l'induzione legittima ciò che trova, senza doversi brigare del
cominciamento. In siffatta guisa il nostro filosofo fa capitale di tutt'i saggi
parziali tentati prima di lui, licollega, liordina,licompie uno con l'altro :la
sensazione e igiudizî abituali, intrave duti da Malebranche e da Condillac
;l'osservazione, indefi nitatralemanidi Locke, edalui meglio precisata; lamas
sima aurea del Kant :pensare è giudicare ;la virtù dell'abi tudine,messa a
rilievo da Hume;la induzione accennata da Bacone in generale,additata da
Leibniz e da D'Alembert a scenze provvisorie. La sensazione dà
iprimi dati, il giudizio osserva i rapporti chevisonocontenuti; l'associazione
delle idee ci for nisce leconoscenze prime concernenti ilmondo esterno,in via
provvisoria ;l'induzione,più tardi,legittima le cono Gli altri,invece,ponendo
mente alla tardiva comparsa della induzione, hanno osservato, come Galluppi: ma
la induzione vien troppo tardi a farmi passare alla realtà ester na,richiede
troppi congegni,troppe industrie,dicuil'in fante non si può supporre
capace. 31 proposito
dellaconoscenzadelleveritàdifatto.Bacone,di fatti,dicendo:sensus tantum 'de
experimento, esperimen tum de rejudicet,aveva enunciato un canone applicabile
piùaifenomeninaturali, chealnostromodo diconoscerli: l'applicazione speciale
alla nostra conoscenza si deve a'due geometri filosofi, cioè al Leibniz ed al
D'Alembert. La storia intanto invece di attribuire agli anzidetti filosofi la
debita lode di essersi accostati sempre più alla soluzione delproblema
delconoscere,ricordalemacchine artificiose de'lorosistemi ,l'occasionalismo,
l'armonia prestabilita,e simili deviamenti dalla salda filosofia. Galluppi
poiagli occhisuoihailtorto non solodinon aver profittato de'saggi antecedenti,
ma di essere indietreg giato anche al di là di quel che aveva avvertito
ilCondillac. Questi aveva ritenuto per obbiettivo, o percettivo il solo tatto:
Galluppi estese l'obbiettività a tutti i sensi, occultan do la difficoltà
invece di scioglierla.La realtà oggettiva de gli esseri esteriori,ei dice,ha
bisogno di essere legittimata: ciò che non veggono alcuni odierni
scrittori,iquali sup ponendo naturalmente percettivid ell'oggetto esterno i no
stri sensi,credono con ciò avere abbastanza legittimata la realtà dell'oggetto
esterno. Galluppi diffidandodituttociòche civieneinorigine per mezzo
de'giudizî,trasporta alla sensazione quanto im mediatamente siapprende con
l'atto del giudizio. Ei non s'accorge che c'è una contraddizione manifesta tra
la realtà oggettiva delle idee e la natura soggettiva de'rap
porti Ondechesquadrilaquestione, G. torna,edin siste sempre su
questo vizio radicale della dottrina gallup piana;vizio che apparve chiaro in
Kant,e che in lui rimase occulto per aver dichiarate oggettive
leidee,contraddicendo alla loro provenienza. In Galluppi rivive la tesi del
concettualismo , che il n ostro filosofo combatte aspramente; in Galluppi,e più
anco ranel Rosmini.G. fautore del realismo,non del platonico però,spende molte
pagine nel rilevare gl'inconve nienti del concettualismo medioevale,e più del
moderno;ed in questa disputa,trattata largamente in una rassegna appo sita
pubblicatail1850, eidifende SanTommaso dallataccia di concettualista, ed
impugna la somiglianza che Rosmini vuol trovare tra la sua teorica dell'ente
possibile, e quella dell'Aquinate. Di questa particolare ricerca diremo
appresso : continuiamo intanto ad avvertire, con la scorta di G., le lacune
ch'egli addita ne'sistemide'suoi avversarî. La critica dello stato attuale fu
fatta maestrevolmente da Kant. G. è larghissimo di lodi al fondatore del
Criticismo, filosofo per questo verso inarrivabile. Della origine però Kant non
occupossi, dichiarandoaggiunti a prior itutti quegli elementi, di cui gli pareva
arduo rintracciare la ge nerazione. Quanto sitoglieaiverimezzi diacquistar cono
scenze, tutto si attribuisce ad una supposta origine a priori, a questo vasto
serbatoio di tutte le perdite dell'analisi . Cosi , con una similitudine
arguta,ei battezza per vere lacune, per difetto di analisi ogni forma a priori.
Nella stessa maniera han combattuto,dopo di G., l'apriori ifilosofi po
sitivisti. Siricasca inquesto metodo dunque,sempre che, abbandonata lagenesisperimentale,
siricorre allospedien te di addizioni di forme pure;sia qualunque ilnome con
cui si travestiscano. D'accordo con Kant, dice G., che la conoscenza risulti da
sensazioni e da giudizî; ma giudicare, per me, semplicemente osservare,e non è
punto aggiungere. La veduta èprora quando siosserva nell'oggetto,non già
quando - Il metodo daseguire, nelproblema dellaconoscenza,era
questo:esaminare lo stato della coscienza, qual'è attualmen te;risalirealle
origini delle idee che ora vitroviamo;legit timarne la
realtà. O siaggiunge dal soggetto. Aggiunta chel'avretevoi,non
è più da discorrere della sua realtà. Sicché delle tre analisi da fare, Kant
fece benissimo la critica della coscienzaattuale; arrestossi per via nel
rintrac ciare le origini della coscienza primitiva;e conseguentemen te non potè
legittimare la realtà della nostra scienza. La realtà della scienza è collegata
con la dottrina del giu dizio:se questo è una mera osservazione,la realtà è
assicu rata; se,invece,è una funzione addizionale, la realtà non si può a
nessun patto legittimare. Ed ora noi siamo perfettamente in grado
dicomprendere, perchè G. combatta con tanta insistenza la filoso fia di
Galluppi, ed insieme di valutare,quanto poco la mira di G. sia
statas corta da quellichenehannofinora discorso. Egli ritorna spesso su la
critica da noi esposta, con una prolissità,ch'è stata non piccola causa
dell'esser passatainavvertita, perchè dileggereiseivolumi delle sue opere i più
si sono sgomentati. Il significato però di tutta la sua discussione si può
ridurre a quest'alternativa in cui egli trovòimpigliatala ricercadellaumana
cognizione: gliuni avevan detto con Condillac: giudicare è sentire ;gli altri a
vevan ripetuto con Kant :le idee di rapporto sono elementi soggettivi:
egliavevarisposto: è falsal'una el'altraspiega zione. Ilgiudicarenon
èsentire,ma osservare; irapporti sono oggettivi,non soggettivi. Galluppi
intanto , destreggiandosi tra le due spiegazioni , aveva di ciascuna ritenuto
una parte.Pur discostandosi dal la dottrina condillachiana, pur distinguendo
ilgiudiziodal la sensazione,aveva però ammesso de'rapporti,iquali era no
sentiti:tali erano il rapporto tra modificazione e sostan za,ed ilrapporto tra
effetto e causa. Similmente,pur promettendo divolersiappartareda Kant, pur
professandosi fedele al metodo sperimentale, aveva accettato due rapporti come
soggettivi affatto,quello d'identi tà,e quello di diversità. La sottile e
giusta critica di G. aveva messo in e videnza le due capitali contraddizioni
della filosofia del Galluppi.La consapevolezza piena,profonda,ch'egli ha delle
obbiezioni mosse al suo grande avversario , ve lo fa insistere forse
soverchiamente ;ma non senza rivelare una grande perspicacia di mente
nell'applicazione che ne fa alle singole questioni. L'idea di azione,di
connessione,egli scrive,è idea di rapporto;eirapportisigiudicano,non
sisentono.Sièdi menticato in questa occasione,che una sensazione non è più che
una nostra modificazione, e per se stessa non può darci altra idea che quella
di un particolar nostro modo di esistere. L'anno appresso, che G. finisce
la pubblicazione del suo Saggio, cioè, un dotto abbruzzese, Colecchi,
pubblicava in due volumi le sue Quistioni filosofi che,e vi rifaceva lacritica
di Galluppi,muovendo da un criterio opposto a quello del nostro G.,ed intanto
somigliantissima nel significato. Il Colecchi segue la filosofia kantiana nel
concetto fonda mentale,ma senediparteinmoltiparticolari.Riduceleca tegorie
tutte quante a quelle di sostanza e di causa;le deduce non già dalle forme del
giudizio, come aveva fatto Kant , ma dalle anzidette nozioni di sostanza e di
causa, congiun te con quelle di spazio e di tempo ; rifiuta lo schematismo
kantiano, che gli parve complicato, e superfluo ; e finalmen te crede , che la
realtà della nostra scienza non ne sia punto compromessa. Colecchi adunque biasima
il Galluppi d'incoerenza per averammesso alcuni
rapportioggettivi,edaltrisoggettivi; senonche, invece disoggiungere com G: dove
vateri tenerli tutti per oggettivi, corregge
lacontraddizione io galluppiana in un modo opposto,
soggiungendo: dovevate ammetterli tutti per soggettivi. Tralasciando ora le
modificazioni arrecate dal Colecchi alla filosofia kantiana,
eraffrontandolesueobbiezioni contro Galluppi in ciò che s'accordano con le
altre antece dentemente mosse dal nostro G., citiamo in compro va testualmente
le parole del filosofo abbruzzese,perchè il lettore ne vegga l'accennata
somiglianza. Dopo aver egli ricordato la soggettività de'rapporti d'i dentità e
di diversità ammessa dal Galluppi contro del Locke , continua così: « Posto ciò
si domanda ora:se rispetto a quelle idee che sono un prodotto dell'analisi che
le separa da'sentimenti, e che sono perciò oggettive,venga lo spirito assistito
o no dalledue ideed'identitàedidiversità?seno,nonpotràegli separarle punto dai
sentimenti;perocchè un bambino puran che ne ha bisogno,per distinguere lasua
nutrice da uno stra niero;e tale distinzione è fuor di dubbio un atto di
analisi : se sì, le due idee d'identità e di diversità devono precedere le
sensazioni:sono dunque per anticipazione,ed anteriori ai sentimenti; e perciò
nell'ordine cronologico delle nostre co gnizioni non possono essere posteriori
alle sensazioni, ne presupporle come condizioni indispensabili.Come dunque so
stenere: che ogni nostra cognizione incomincia con l'analisi, e termina con la
sintesi, se per fare qualunque spezie di a n a lisi,ha bisogno lo spirito delle
due idee d'identità edi diver sità,le quali, per avviso del nostro autore, sono
un prodotto della sintesi che le aggiunge ai prodotti dell'analisi?(Quistioni
filosofiche,Napoli). Potreicitarealtri luoghi,concui il Colecchinota il
di un li ne ato 4 1 Biasima inoltre Galluppi di aver detto che sono
sogget tivesololeideedirapporto,perchèegliammette leideedi spazio,
ditempo,disostanza,dicausa,sottoilnome dileggi della intelligenza,che sono
soggettive,senza essere rapporti. verso valore che debbono
avere nella ipotesi di Galluppi le idee di identità e di diversità quando si
applicano o agli o g getti dellamatematica, o aquelli della sperienza; ma usci
reifuoridelmiotema. Amepremeasso dare chele contraddizioni, in cui s'era
avvolta la filosofia galluppiana per manco di coerenza,erano state rilevate con
mirabile acume da G. e da Colecchi. Ferri,il quale scrisse due grossi volumi su
la sto riadella filosofia italiana nelnostrosecolo,non trovòaltro spazio per
ricordare idue anzidetti nostri filosofi, che questo, occupato dalle seguenti
parole: « Il faudrait enfin mentionner les écrits de Di Grazia, et de Collecchi
, Napolitains, qui, tout en modifiant,ou en combattant Galluppi, n'ont cependant
pas dépassé le point de vue de l'expérience ou de la philosophie critique.
Essais sur l'histoire etc.. Certo così Ferri non si compromette. En m o d i
fiant, en combattant, sono frasi tanto diplomatiche che par che dicano, e non
dicono. G. modifica Galluppi; Colecchi lo combatte: ci ho gusto : sta bene; ma
che cosa han detto? Questo è il punto; e su questo, silenzio perfetto.E poi G.
non l'ha punto modificato, l'ha combattuto pure : l'avesse combattuto, qual
lume si ricaverebbedaquestemezzeparole? Nonerameglioconfes sare di non averne
letto sillaba ? E perchè non occuparsene? Forsechè erandameno ditanti altri?
Io,peresempio,sen za far torto a nessuno , e salvo la disparità per altri
riguar di,trovo più ingegno filosofico in G. e nel Colecchi, che non nel
Mamiani. L'ho detta grossa? Chiedo scusa a tutti quelli che ne prenderanno
scandalo ;certo di aver con mecoloro, che sen'intendono davvero; eche
intendendo sene ardiscono dire il proprio parere. Del silenzio su Colecchi
Ferri si scusa quasi ,scri vendo in una nota così. Les écrits de Collecchi
dispersés dans les recueils litté raires n'avaient pas encore été publiés en un
seul corps il y a quelques années, Pardon, .Ferri: gliscrittidel Colecchi
furono stampati in due volumi, che io ho qui sul tavolo,ed hanno
questaindicazione: Napoli,all'insegna di Manuzio, Carrozzieria Montoliveton.
Qualgiro di anni comprendete voi nell'il y a quelques années ? Venticin que non
vi bastano? E perchè non una parola su G., che doveva es servi noto,poichè ne
registrate ilSaggio nell'indice delle opere filosofiche pubblicate in Italia in
questo secolo ? Forse non entrava nel disegno vostro, ch' era di d e scrivere
il pensiero italiano tutto inteso a cercare ciò che poi ha finalmen te trovato
, l'idealismo temperato ? ed allora perchè accusare diparzialità Spaventa,
cheavevatrascuratinon soquali filosofi, indotto dal suo criterio hegeliano ? Ma
passiamo oltre, avvertendo soltanto, poichè siamo su questo argomento, che il
cognome di G. non va scritto “DiGrazia”; e che Colecchi non va rinforzato come
l'ha rinforzato Ferri, che lo scrive Collecchi. Sarebbero minuzie, se non
attestassero la poca diligenza nello scrivere la storia. Morto chefuil
Galluppi, G,, benchèricordiqua e là gli sforzi sostenuti nel combatterne le
dottrine, rivolge però altrove la propria attenzione. Ne'discorsi pubblicati ei
se la piglia con la filosofia,che in Italia aveva preso
ilsopravvento,echenonsicuravadinascondereildispre gio in cuiteneva
l'esperienza.Oramai non si tratta più di scoprire un Idealismo,tutto studioso
di occultarsi sotto il nome difilosofiasperimentale, com'erastatoilcasodel
Galluppi,ma di combattere un Idealismo che si presentava alla
svelata,eche,sottonomi diversi,s'eraguadagnate lementi della nuova
generazione.IlDe Grazia comprende tutti questisistemisotto un nome
solo,sottoquello difilosofia spe culativa . Traquestisistemiperò,secondolavaria
importanza,al cuni combatte più acremente,altri accenna soltanto.Accen na pure
del consenso del genere umano del La Mennais, del tradizionalismo del P. Ventura;delprimo
un po'più distesa mente, perchè s'accorda col sistema di Gioberti nel rifiu
tare la testimonianza e l'autorità della coscienza subbiettiva. Quanto a
Ventura, poco seguito aveva trovato in Italia, nèmeritavaimportanza, nè G.
glienedàmolta. Mente severa, educata alle scienze matematiche, G. la giustizia
sommaria di tutti questi sistemi in un fa scio,ai quali a suo avviso mancava e
la base solida, ed il rigoroso ragionamento. «Una
volta,eiscrive,erascrittoall'ingressodellascuo. la:nemo accedat, nisigeometra;
igiovanetti oggi leggono: nemo accedat,sigeometra.E non hanno torto,perché ove
si tratta di creare enti, o di manifestazioni del Dio-Cosmo, e di ispirazioni,e
di intuiti,o di nuove logiche trascenden tali,non può esservi luogo
pe'geometri:non è arena per le loro forze ». Ce n'è per tutti, come si vede, e
non risparmia né i si stemi tedeschi,nè i francesi,né i nostrani ;ma vediamo
quali obbiezioni particolari muova a ciascuno ;e basterà ac cennarle,perchè
oramai abbiamo abbastanza conosciuto il suo criterio. « Più dilettevole
trattenimento ci dà il La Mennais nel ravvisar per ogni dove un riflesso del d
o m m a religioso ; che 38 Contro del La Mennais nota che la ragione
umana collet tivaèun'astrazione,che solo l'individuo esiste;e quindi il
consenso universale non ha altro valore, che quello degl'individui, da cui
proviene. Con non dissimulata derisione trat ta poi le spiegazioni fantastiche
de'fenomeni naturali per mezzo del domma. Punzecchiando
Gioberti,siricordadelGalluppi,cheper liberarsida ogni molestia
sularealtàde'corpi,concepi ob biettive le sensazioni , e scrive . Le sue celie
su la commodità di questi spedienti sono fre quenti;senoncheglisembra che
nègl'intuiti,néleispi razioni , nè gli istinti, nè le idee inerenti allo
spirito , benchè talvolta simulino l'evidenza,bastano però a surrogarla pie
namente . Se G. tralascia gl'influssi divini, cið avviene perchè il Mamiani non
li aveva ancora escogitati. Ma torniamo agli appunti ch'ei muove al Gioberti.
Come ! eidice,l'intuitoèpresente,enon sivede!È ecclissato,sirepli
ca,estabene;ma comeunmotivofinito basta adecclissarlo? G., per questo
inesplicabile ecclisse, s 'insospet d'altronde doveasi toccare con più
rispettoso contegno. Fino ne' sette colori del prisma scorge il ternario, da
che tre soli secondo l'autore sono iprincipali ». Che cosa avrebbe detto G.,se
avesse letto la Vita di Gesù Cristo dell'abate Fornari ? Gioberti si studia di
sostenere col ragionamento la dot trinaquasiispiratadelLaMennais: G. rendegiu
stizia al filosofo italiano,nè lo confonde con l'autor dell’Ab
bozzo.Eccoperòlasommadegliappunticheglimuove. Gioberti, perlui, esclude ogni
analisi delle idee, eper dispensarci dalle minute inchieste psicologiche, ci
accorda l ' immediata veduta delle idee divine. Certamente, ripigli a G.,
eivalmegliocontemplarlenellalorointegritàri flesse dal lume divino su le
parole, che attentarsi di rima neggiarle con profana analisi ! « Per togliersi
da ogni impaccio basta oggi il dire : io sento i corpi esterni,le mie
sensazioni sono percettive de'corpi esterni;ovvero per risolvere con un solo
atto tutte le qui stioni di ontologia e di psicologia : io intuisco il
creato,il creatore,el'atto creativo!» tiscedellaesistenza
dell'intuito.E poi,esso nèsipuòvedere dalla coscienza,nè dimostrare dalla
ragione, come fare dun que a verificarlo ? Nè
piùplausibileèilsussidiochedovrebbearrecarelapa rola, affinchè dall'intuito si
passasse alla riflessione. Il potere della parola, dice G, è misterioso: non
circoscrive l'idea,su la quale non ha presa n è punto nè poco ; e non accresce
la nostra facoltà intellettiva. Sicchè, tutto ragguagliato, ilGioberti
cilasciacon una virtù intellettiva in potenza , e con una riflessione a nude
parole. Dove però G. va più addentro nel sistema giober tiano,è,a parer
mio,nella seguente osservazione. «Ma laricercafondamentale,dicuisièsempre
taciuto, concernelapossibilitàdella visione in Dio. La stessanonè
solamenteunfattogratuitamentesupposto,ma neppurciè dato sapere, se un essere
può vedere le idee di un altro es sere. Questa obbiezione di G. equivale a
quella dello Spaventa,quando osservava,che l'Ente veduto dall'intuito
giobertiano non può essere uno spirito. Diciamo ora della critica di Rosmini.
Della teorica rosminiana il nostro filosofo s'era occupato nel Saggio ; ci
torna di poi nelle opere posteriori alla morte di Galluppi con più larghezza.
G. continua:vedere le idee in Dio,presuppone
assodato,cheIddioleabbia;ora,cheilmodo dellacono
scenzadivinanonsiaconformealnostro;echequindinon si faccia per idee molteplici
e rappresentative, pare più ac cettato dalla filosofia ortodossa . E qui
riscontra la dottrina giobertiana non solo con quella del Malebranche,ma con
quella di Agostino,e non la trova somigliante,e quin di non la tiene per
ortodossa. Nel Galluppi G. aveva combattuto il concettualismo, aveva combattuto
l'asserzione , che le nostre idee non siano rappresentative.A proposito del
Rosmini ripiglia la controversia del concettualismo . Il concettualismo si
fonda su la subbiettività de'rapporti, onde risultano le idee:contro ilconcettualismo
adunque ba sta contrapporre questa sentenza di san Tommaso : « relatio nem
esserem naturae ». Or qual dottrina segue il Rosmini? Forse quest a
dell'Aquinate, fondatasulpiùschiettorealismo? No; nesegueuna ambigua , e per
tal ambiguità cerca tirar dalla sua l'autorità di San Tommaso. L'ente ideale di
Rosmini, dice G., è bifronte; da un lato offre l'idea universale di esistenza,
dall'altro un ente esistente. Basterebbe questa profonda osservazione, per
dimostrare diquantaperspicaciafossefornito G.; ma egliva più in là ancora,ed
addita un riscontro, che rivela la forza della sua critica. « M a , ci si dirà,
qui non trattasi di una esistenza sostan ziale, o di accidenti di una sostanza,
bensi di una esistenza ideale, qual può competere ad una idea.Si,ciò ricorda
l'Idea di Hegel , con la differenza che questa contempla sè stessa, e l'idea
universale di esistenza è l'oggetto contemplato da tutte le intelligenze,
differenza che gli hegeliani farebbero sparire.Quanto allanaturadellaesistenza,
l'entedi Rosmi ni non è meno lucido e trasparente, che l'Idea hegeliana, perchè
altro non è che l'idea di esistenza, o la
possibilità Sipongaormente,eglidice, cheiduepuntimessia
maggiorrisaltonelnostro librosono:1.che ilconcettuali smo è la causa principale
delle deviazioni della filosofia,e la grande abilitazione de'sistemi
speculativi;2. che l'Aquinate, tenendosi immune dal concettualismo,ha
felicemente seguito il metodo di pura osservazione ». dell'esistenza,come lo
stesso Rosmini ripetutamente va ri cordando a'suoi lettori ». « Se quindi si
ammette una esistenza attuale e indetermi nata;attuale e non reale; se si
ammette la possibilità dell'e sistenza essere un'attuale esistenza,si avrà il
caso proprio di una identità de'due contrari «.(Esperimenti della filoso
fiaspeculativane’sistemi delsecolocorrente -Napoli, Rassegna). Ho notato in
corsivo l'ultima conclusione di G., perchè il lettore rifletta su la
somiglianza da lui additata tra l'Ente rosminiano,e l'Idea dell'Hegel. Quando
Spaventa, dopo di G., e senza sapere forse delfilosofo calabrese, lecuiopere,
specialmente leul time,erano rimaste sconosciute,mise in rilievo con più
larghezza quel riscontro, la cos aparve strana , e ci si vide uno
stiracchiamento forzato de'sistemi in servizio di un criterio preconcetto.Piùtardi,coloro
chesieranoarrogatalarap presentanzadella filosofiaitaliana, levarono
lavoce,epro testarono contro il malvezzo di voler far parere la nostra
filosofiaun'imitazione dellafilosofiatedesca.Sietematti,si disse ! Galluppi
kantiano! Rosmini hegeliano ! Le son cosedaridere:voiconfondeteitipicon
gliectipi;voi non sapete che in Italia c'è un'abbondanza straordinaria di tipi,
e che voi altri li sfigurate barbaramente per poterli tramu tare in ectipi.
Questa brava gente,veramente tipica,ignorava,che ilri scontro era tanto poco
sforzato, da esser apparso manifesto ad un filosofo, il quale non era punto
tenero della filosofia tedesca,e che di tutto si poteva accusare, salvo che
della smania divoler costruire la storiaapriori. G., difatti,aveva a chiare note,e
con grande insistenza,segna latoilkantismonelsistema del Galluppi; econ
menodiffu sione,ma con non minor chiarezza,l'hegelismo nel sistema
delRosmini.Oh!come
dunqueivindici,glistoriografi,i rappresentanti
dellafilosofiaitalianaignoravanotuttalacri tica che si era esercitata nel
nostro paese su la nostra filo sofia nazionale ? Ma torniamo al Rosmini. G.,
dopo avvertita l'ambigua natura dell'Ente rosminiano, dopoaverbiasimatoil
Rosmini dinonaverte nuto fermo in una sola e medesima sentenza,di averlo una
voltachiamatounlumedatodaDio,un'altravoltaillume divinomedesimo, eidimostra
uguale accorgimento nelrile vare altri difetti. L'origine delle nostre idee è
doppia,una l'idea dell'ente, l'altra lapercezionesensitiva; ma G. s'accorge,
che la vera sorgente,l'unica sorgente rimane quest'ultima, e domanda : « A che
serve il contrarre l'espressione di quanto si vuol che noi percepiamo
immediatamente con una sensazione? Il participio sostituito al verbo potrà mai
avere ilvalore di nasconderei moltigiudizî, chesicontengono nella formola
«enteagentesuimieisensi»? Il participio sostituito al verbo è difatti il
ripiego della ideologia rosminiana: G. ha colto a maraviglia. La
percezione sensitiva, ei continua,è,o no, un atto del pensiero? Se lo è,siavrà
un pensare identico alsentire; senonloè, siavràunapercezione,
allaqualeilnostrospi rito non pensa !O cade in sensualismo, o è nulla pel
nostro pensiero ». La percezione sensitiva adunque non si vede in che diver
sifichi dalla sensazione, posto che in lei non debba concorre re traccia di
pensiero: nè molto proficua è la ragione, che il De Grazia chiama potenza terza
e neutrale. Non è intellet to,non è senso:applica ildato dell'intelletto ai
dati della sensibilità;d'altro non brigasi;ma chimallevaallorala realtà ?Non
l'intelletto che ha da fare col possibile ; non il senso che non può cogliere
altro che nostre modificazioni. « La capacità di sentire
e la facoltà di percepire sono due potenze così differenti,che dee tenersi per
ugual controsenso l' attribuire la percezione alla sensibilità, e l'attribuir
la sensazione all'intelletto ». Rosmini con la percezione sensitiva attribuisce
al senso più che la costui capacità non comporti ; ricasca quindi nel difetto
di Galluppi, che fece la sensazione immediatamente percettiva.A questo sbaglio
ecco tener dietro un altro,che a noi piace riferire con le stesse parole del De
Grazia. « Un'altra opinione sui generis è di ammettere nel fatto la percezione
immediata del nostro essere ,e dell'essere ester no , m a il fatto aver bisogno
di venire autenticato da una idea innata, per quanto concerne la vera
esistenza, perchè altri menti quella da noi appresa nella coscienza potrebbe
dirsi apocrifa ! Meglio non poteasi rilevare la superfluità dell'ente rosmi
niano,dopoaverammesso lapercezionesensitivapercoglie re l'esistenza immediata e
reale. Come impugni G. le interpetrazioni date dal Rosminialsistemadi san
Tommaso vedremoaltravolta; chè tal ricerca non è semplicemente storica,e meglio
si collega allaesposizione della dottrina del nostrofilosofo,ilquale altro non
pretende di aver fatto,che di aver rinnovata la filosofia del sommo
Aquinate,stata per tanti secoli o scono sciuta o frantesa. Venghiamo al
giudizio su l'Hegel. Già per G. tutt'i sistemi nati in Germania dopo del Kant
sono « romanzi filosofici »;questo d'Hegel fra gli altri, anzi a capo degli
altri. Ignaro della lingua tedesca,egli tanto sa de'sistemi tede schi, quanto
ne ha appreso dal libro di Ott,ch'era stato pubblicato a Parigi. Non è da recar
maraviglia adunque, A G. non isfugge nessuno dei tortuosi giri
dell'ideo logia rosminiana. 45 s'ei qui non possa penetrare
sempre addentro nel pensiero dell'Hegel,come ha fatto coi filosofi francesi, e
coi nostri. Onde,mentre lasuacritica della filosofia del Galluppi,del Rosmini
edelGioberti, benchèprolissaestemperata,abbon da di osservazioni sode e
profonde, la critica dell'Hegel rie sce monca e superficiale. A lui mancava la
cognizione pie na ed esatta del sistema;pur tuttavia di alcuni appunti non
sipuò ameno diammirare lasagacia,elaserietà. Attraverso alle incertezze di una
esposizione,dove trovan luogo metafore più proprie ad abbuiare un concetto,che
a lumeggiarlo,èdifficilecogliere ilsignificato genuinodiun sistema . Così a G.
il divenire hegeliano sembra uno strofinamento dell'essere col non-essere. Par
che baleni il sospetto di qualche alterazione a G. stesso,ma tosto si ripiglia,
ed afferma che « si può esser sicuro che le pro posizioni fondamentali della
Logica hegeliana non valgono in tedesco più di quel che valgano in italiano o
in qualsiasi lingua ».Una tal sicurezza veramente fa un poco a calci col metodo
d'osservazione adottato dal nostro filosofo. Il quale se avesse conosciuto
iltedesco, si sarebbe accorto che non trattavasi nè di movimento,nè molto meno
distrofinamento. L'accusaperò, chemuove allaLogicahegelianadiessere un sistema
di rapporti senza termini,è molto più fondata. Senonchenella
Logica,itermininonsonoenonpossono essere altro,che relazioni anch'essi ; ma non
è vero però, ch'e i siano un mero niente, e che tutto il processo hegeliano
riesca al postutto ad un movimento da niente a niente. Cotesta esagerazione è
in lui derivata dal non aver compreso bene il valore del Nicht - sein , che non
egli soltanto, m a parecchi si sono incaponiti ad intendere per un bel nulla.
Fisso in questa interpetrazione, ei continua a biasimare questo modo di far
della scienzaun tessuto disiedino, lontano da ogni realtà salda,e solo
conveniente a quella fi losofia,che riduceirapportiapurevedute
dellospirito.Qui, come si può scorgere,ei non vuol lasciarsi fuggir l'occasio
ne di scagliare un'altra frecciata alla tanto combattuta filo sofia di
Galluppi, accennando la simiglianza che corre tra la soggettività de'rapporti e
l'Idealismo trascendentale ,che poi siassolvette nell'Idealismoassoluto. G.
confino accorgimento perseguita il suo illustre avversario sino alle ultime e
non sospettate conseguenze del suo principio. « Un rapporto ideale senza
itermini sarebbe appreso dalla. nostramente, sesiammettesse lasupposizione,che
irap porti sono pure vedute dello spirito, alle quali nulla corri sponde nelle
cose ». Hegel è agli occhi di G. un elevato e perspicace pensator , ma il suo
sistema è una perpetua ironia . L a sola istruzione che se ne possa cavare è
quella di capacitarsi della impotenza della filosofia speculativa a cogliere ed
a spiegare la realtà. « Ecco dunque l'istruzione ch'egli (Hegel) ci dà in forme
le più solenni :volete voi passare dal cerchio delle idee astrat te al mondo
reale ? vi è forza porre innanzi tratto, che il reale è lo stesso che l'ideale
! In altri termini : dalle idee astratte non si può derivare la realtà; e
questa massima può servir di lezione pe'tentativi,in cui con minori
proporzioni, o più propiamente, con meno di purità speculativa, si voles se
maneggiare ilmetodo ontologico ». I due principii che lo informano
sono l'Idealismo,e la con traddizione ; dall'uno il sistema hegeliano piglia le
prime mosse;coll'altraprocede avanti.Che cosa se ne inferisce? Questo soltanto,
che il concettualismo è falso; ma la vera filosofia rimane illesa dai suoi
colpi. Il valore che G. attribuisce ad Hegel è lo stesso, benchè egli nol dica
espressamente, di quello che Socrate ebbe verso la Sofistica. L'ironia
socratica avrebbe svelato le contraddizioni della Sofistica, come l'ironia
hegeliana avreb be tirato le ultime conseguenze del Concettualismo
moderno. Hegel, secondo il giudizio di G., addito il rimedio
contro le forme subbiettive di Kant, deducendo da quelle pre messe , che dunque
« i fenomeni del pensiero sono la sola v e rità assoluta. Tutta la storia della
filosofia si spiega,adunque, e siran noda intorno al problema della conoscenza.
Tre domande si possono fare: qual è lo stato presente della nostra coscienza ?
qual è stata la sua origine ? qual è la sua realtà ? Il criterio con cui il
nostro filosofo giudica tutt'i sistemi è il seguente : « ciò che la nostra
mente vede in u n fatto o è realmente nel fatto, o la nostra veduta è su tal
riguardo il lusoria ». Da un lato adunque c 'è il realismo, a favore del quale
egli si schiera ; dall'altro lato il concettualismo, che pigli a diverse forme,
finchè non diventi idealismo assoluto, ossia l'iro nia hegeliana, che mette a
nudo le coperte magagne de'siste mi antecedenti,Benchè ilibridi G.
sianopiuttostopolemiciche dottrinali,pure in essi,e nel Saggio
principalmente,si scor gono le linee di una nuova soluzione del problema
genealo gico delle idee. G. fa consistere in questa soluzio ne tutta la
sostanza della filosofia;m a a lui la genealogia non ha
lostessosignificato,chehaalBorrelli,dalqualetolse probabilmente ilnome.
Borrelli,quasi almodo stesso,che fa oggidi Spencer, studia la genesi del
pensiero sotto l'aspetto fisiologico : G. si arresta ai tre fe nomeni primitivi
del sentire,del pensare,e del volere,e di quivi soltanto piglia le mosse . Qual
è ora per lui l'immediato,o ilfatto primitivo, sul quale riposa la filosofia
sperimentale ? IlGalluppi aveva risposto :questo immediato è ilsenti
mentodelmeedelfuordime; G. risponde:ilve roimmediatoèil sentimentodelmesolo.
Questa prima discrepanza si può dire la origine di ogni divario che corre tra
la filosofia de due filosofi calabresi. E n trambi vogliono partire dalla
esperienza immediata, m a i li miti di questa immediatezza non sono tracciati
al modo m e desimo . «Ilmetodo d'osservazione, dice G., ciguida
a riconoscere,che ilcampo dellaimmediata percezione di
fatti reali è la sola esperienza interna, ove l'oggetto è in noi , è la nostra
esistenza,e quanto apprendiamo nelle nostre m a niere di essere.Gli oggetti
esterni non sono esposti alla immediata nostra percezione, ma n o i li
percepiamo col mezzo di più atti mentali ». Questa confusione sembra al nostro
filosofo tanto più ine scusabile nel Galluppi,quanto più questi si era chiarito
con trario alla tesi della sensazione trasformata . «Potrebbemaicredersi,eidice,chementre
egli(ilGalluppi) combatte avivamente il principio sensualista, giudicare è
sentire, abbia poi ritenuto, che il sentire è una speci e del pensare? G.
scorge manifesti gl'inconvenienti della spie gazione galluppiana , e li addita
così . «Quandosiammette, chele realtà esteriorisono danoi sentite,e che poi
l'analisi,distinguendo isentimenti che da prima erano confusi,cidàleidee,non
sipuòsfuggirealla conseguenza,che dette idee non sono altro che sentimenti
distinti;poichè l'analisi non ha cangiato la loro natura primitiva; onde tutto
il capitale della esperienza esterna è costituito da ciò che sisente,e da
que'rapporti,che il nostro spirito ha in pura sua seduta,ma che non sono nelle
cose. Si fatte conseguenze vengono poi confermate ed ampliate con
essersidetto,che lacoscienzaèlasensibilità interna,
cioè All'acume di G. non isfuggi la conseguenza,che avrebbe
portato il principio galluppiano. Se la realtà este rioreècoltaimmediatamente,
dunque ilsentire è lostesso che il percepire ; è lo stesso , che il pensare .
Galluppi sen'e ra aperto con molta chiarezza: la sensazione,per lui,suppo ne
l'oggetto sentito,come ilpensare suppone l'oggetto pen sato.Ilsentire era
dunque una specie del pensare :sentire e pensare non erano più due fenomeni
primitivi, ed irredu cibili,come G. sostiene. la conoscenza
de'fatti interni è sensibilità. Vedesi quindi che con questi principî ilsentire
non fu distinto dal pen sare ». Gli estremi , tra cui si studia di librarsi G.,
son questi due:da una parte quello che raccorcia la portata del la
coscienza;dall'altra quello che la dilata oltre il convene vole.Chi
dice:lacoscienzanon coglielanostraesistenza,e chidice: lacoscienzasiestende
alla realtà esterna, dice u gualmente cosa inesatta ;per difetto, la prima osservazione;
per eccesso,la seconda. IlGalluppi ammetteundoppio immediato,ilme edilnon me;
G. neammetteuno, ilmesolo: dondeproviene siffatto divario ? Eccolo ,con le
parole stesse di G., le quali compendiano e chiariscono la dottrina
galluppiana. « Il dir che partendo dalle nostre modificazioni sensibili, noi
veniam per via di giudizî acquistando la conoscenza del mondo esteriore, val
quanto il dir che lo spirito umano coni suo i propri i elementi compone il
mondo . La filosofia sperimentale di Francia su questo punto va a coincidere
con l'I dealismo di Kant. E perchè? Perchè Galluppi non si affidava
ai giudizî per coglierelarealtà;perchèigiudizî,secondo lui,erano pure vedute
dello spirito; di modo ché, se il mondo non ci fosse a p parso dal bel principio
così,come oggi lo apprendiamo , quel lo costruito di poi sarebbe stato una mera
relazione del n o stro spirito,a cui nulla sarebbe corrisposto di reale nella
natura.Diffidente della sincerità de'nostri mezzi di conoscere, Galluppi
quindiappigliossialpartito delReid,edam mise l'immediatezza della
sensazione,confondendola con la percezione esterna. 51 « Si è quindi
detto, osserva G., che nel fatto io sento non è contenuto il proprio essere, e
si è terminato d'altra parte con dire che nel fatto io sento si contiene
l'essere straniero,ilnonio». G. ritienelasinceritàdelgiudizio,ritieneirap porti
come reali,e quindi non alla sensazione,ma ad un pro
cessospontaneodell'intelletto,edalconcorso digiudizîdi venuti abituali ed
indiscernibili attribuisce le idee de'corpi, quali nello stato presente le
troviamo nella nostra coscienza . Esclusa da G. l'immediatezza della
sensazione, non per questo ei mena buoni que'sillogismi, iquali si cre devano
più spedito passaggio dalle nostre sensazioni alm o n do esterno. G. nota che
il modello di questi ragionamenti ri sale fino al nostro CAMPANELLA, il quale
lo formolò così: Sia monoichemutiamo: dunquesentiamosolonoistessi, enon
giàlecose.Noisentiamo lecoseesterne,soloperchécisen
tiamomutare,manonsiamonoichecimutiamo;dunqueal tracosacimuta. Questo sillogismo
, che , variamente rimaneggiato , è rimasto in sostanza il gran ponte di
passaggio dal mondo interno all'esterno,nonèparsoabbastanzaconcludentealnostro
fi losofo.Le lacune,ch'egliviha scorte,non sipossono logi camente colmare.Anzitutto
:chi vi dice che ilprincipio di ogni nostra mutazione sia la volontà ?
L'associazione delle nostre idee talvolta non è volontaria, ed intanto è
mutazio nenostra. Epoi, poniamo che la mutazione vi additi alcunchè di esterno,
chi vi garantisce che il principio esterno sia un corpo ? A
taliobbiezioninonc'èdareplicare:ilsillogismoèim potente a discoprire un fatto
:esso è utile soltanto a disco prire verità di ragione. Tolta l'immediatezza
della sensazione,tolto il sillogismo, G. torna alle rappresentazioni , come
immagini delle cose esterne,ed alla induzione,la quale,travagliandosi su quelle
immagini,va legittimando la realtà delle immagini complesse,che l'associazione
ha spontaneamente ed abitual mente formate.Non sarà una dimostrazione necessaria,ma nelle
verità di fatto non si dà mai l'assoluta impossibilità dell'opposto,e bisogna
contentarsi della certezza morale. L'associazione collega insieme le immagini
visive e le tat tili:igiudizîabituali colgonoirapportiqualirealmente e sistono
;noi adunque venghiamo componendo lo spettacolo del mondo esterno non con
vedute subbiettive,ma con ele menti dati dalla realtà stessa dellecose. Questa
è stata pure la dottrina dell'Aquinate,e ditutta la filosofia ortodossa.
Nell'ultima opera pubblicata col titolo di Prospetto della filosofia
ortodossa,ilnostro filosofo sifaforte dell'autorità dell'Aquinate per tutte le
parti fondamentali della sua dot trina,salvoimiglioramentich'eicredediavervi
arrecato, supplendo a quelli ch'ei chiama desiderata della filosofia to mistica.
G. noneraabbastanzaversato nella filosofia aristotelica , da accorger s i che
il meglio d i quella, che ei battezzava per dottrina ortodossa,era mutuato da
Aristotele.Vediamo intanto quali principii ei ne accoglie,e ne te soreggia.
Primieramente G. avverte la differenza che AQUINO mette tra isensibili
proprî,ed icomuni;differenza, che noi sappiamo appartenere ad Aristotele. Con
molto acume l’Aquinate aveva avvertito di fatti che isensibili proprî sono
qualità,come odori,sapori,suoni,co lori,e simili;e che isensibili
comuni,invece,sono quanti tà o estensiva,o intensiva,o discreta,come
figure,distan ze,movimenti, successione :« sensibilia propria ... sunt
qualitates : sensibilia communia omnia reducuntur ad quantitatem. Finalmente
cita la sentenza che accenna alla formazione delleimmagini corporee,
echeattribuisce allospirito,enon Dipoi ricorda la dottrina sui
rapporti, che AQUINO ha riconosciuto come reali, comeresnaturae, enongiàco me
res rationis. giàaicorpi. «Imaginem corporisnoncorpus
inspiritu, sed ipse spiritus in seipso facit. Alla quale ultima sentenza G.
aggiunge questa avvertenza . E l'avvertenza mira visibilmente a cansare
l'equivoco del le forme soggettive,e degli elementi a priori da lui con gran de
perseveranza combattuti.Lo spirito si compone egli le immagini de'corpi
esterni, l'idea del corpo è un prodotto della sintesi , contro alla opinione di
Galluppi, m a in questo raccoglimento non c'è mistura di elementi soggettivi
:tutti idati sono reali.Inquestosignificato,enonaltrimenti va intesalaproposizione
dell'Aquinate, che ad altri potrebbe parere intinta di kantismo, e che suona
così :dat (anima) eisformandisquiddam substantiaesuae. San Tommaso adunque
aveva tracciato le prime linee di quella filosofia sperimentale, di cui
G. si dà per continuatore: i due filosofi cadono d'accordo sui
seguenti ri sultati : 1o che nel senso non v'è altro che il cangiamento del
senso;2ochele immagini de'corpi sivan componendo con elementi nostri;
3ochenoigiudichiamo, essere icorpi simili a quelle immagini. Se non che Tommaso
s'era fermato qui. G. domanda inoltre:con quali operazioni si son for mate
quelle immagini ? Con qual criterio le giudichiamo si mili ai corpi esterni ? E
alla prima domanda ha risposto : le operazioni sono i giudizî accoppiati alle
sensazioni;l'associazione delle im magini visive con le immagini tattili:
giudizi ed associa zione che si uniscono spontaneamente ed abitualmente. Alla
seconda domanda poi ha risposto: la legittimazione « Quanto
però AQUINO enuncia,non lascia dub bio, che nella formazione delle immagini
de'corpi esterni ha inteso non mettersi in opra altri elementi,che que'del
senso e della imaginazione». Quando , difatti, io applico ai
fenomeni della estensione le verità della geometria,e l'applicazione
riesce,allora è chia ro che alla esistenza de'corpi si aggiunge tutta la forza
della dimostrazione induttiva. Mal si è creduto che ogni nerbo di logica
dimostrazione consistesse soltanto nel sil logismo e nelle sue forme. Se
l'estensione corporea,dice G. ,è reale, la troverò costantemente conforme alle
leggi geometriche,ma se è un'illusione de'sensi,mi sipotrà presentare nelle vo
lubili forme in cuiapparisce ne'sogni.Nella ipotesi affer mativa v'è la
necessità assoluta di trovarsi avverate le ve ritàmatematiche,come sihanell'esperienza:nellaipotesi
negativa, l'evento che ne dà l'esperienza, è uno degli in finiti eventi
possibili. Questo cenno può far presentire, a qual grado si eleva la pruova
induttiva del Leibniz, riguar dandola dal solo lato delle verità matematiche.
Esposta in questi termini la mente del nostro filosofo, proseguiamo a
raffrontare le differenze conseguenti tra la sua dottrina,e quella di Galluppi.
Galluppi aveva pareggiata la sperienza interna con l'e sterna,e quindi ammessa
una doppia relazione colta imme diatamente, quella tra sostanza e
modificazione, e l'altra tra causaedeffetto. G., invece,distingueleidee pri -
si fa non per la immediatezza della sensazione,e neppure per sillogismo,ma per
via d'induzione,secondo l'addita mento diLeibniz, ediD'Alembert,idue
filosofimatemati ci,mal trascurati dai filosofi posteriori. Non è dimostrazione
apodittica cotesta,certamente : an che un incontro fortuito potrebbe essere
causa di quella cor rispondenza che noi verifichiamo nella sperienza tra i rap
porti quantitativi ideali,eirapporti quantitativi reali dei corpi;ma
aqualestremo siassottiglia questa possibilitàdi un incontro fortuito,e di
quanta forza non s'ingagliardi sce l'ipotesi della realtà de'rapporti tra corpo
e corpo ! mitive dalle derivative ;chiama primitive quelle che
sono ricavate dal fatto immediato della coscienza,da lui circo scritto
nelsoloiosento;echiamaderivativequelleche na scono poi dalla sperienza esterna.
« Si sono messe,ei dice,in una medesima classe,tanto le idee primitive di numero,
di sostanza,e di modificazione, di affermazione e negazione,quanto le idee
derivative di causa,diazione mutua,delcontingente,delnecessario,del possibile;e
non si sono mentovate le idee derivative di spa zio,ditempo,per essersi
supposto venirci date dallasen sibilità senza previo lavoro dell'intelletto ».
L'originale dell'idea di sostanza è dunque ilnostro pro prio essere:delle
modificazioni si dice impropriamente che esistono:ciò ch'esiste è la
sostanza.Però se un essere esi stente non avesse punto di modi,ei non sarebbe
nè in m o to,nèinquiete;nèpensante,nènon pensante,ecisarebbe un mezzo tra l'
esseree d il non essere ; il che è assurdo . Cosi dice egli parlando delle
forme kantiane,e l'appun to si può volgere pure al Galluppi, che alla sostanza
ed alla causa attribuì, come abbiamo visto, la medesima origine. Per G. la
coscienza è l'lo sento,e in questo fatto permanente della propria esistenza lo
spirito apprende la sostanza, come la modificazione nelle sensazioni in cui si
senteesistere.Ilmododiesisterenon sipuòdispiccaredal laesistenza, e G. chiama
una RIVOLUZIONE filosofica quella avvenuta in occasione dello scetticismo di
Hume , quando si cominciò ad affermare che nel fatto di coscienza v'èilsolomodo
diessere,enon giàl'essere. D'allorain poi si cercò di supplire a questo difetto
supposto per via di aggiunzioni provenienti da altresorgenti:così ilRosmini
suppose che al fatto di coscienza si dovesse aggiungere l'i dea dell'essere.Pel
De Grazia ilfatto della coscienza nella sua integrità dà l'uno e l'altro; se
non che a cogliere questo rapporto non è attalasensazione, siveramente
ilgiudizio. Senza avere sperimentato il fatto del passaggio da
una modificazione ad un'altra,noi non avremmo potuto affer marlo : dopo la
sperienza però,noi essendo in un dato m o do pensiamo la tendenza di passare ad
un altro; e cotesta tendenza chiamiamo forza, la quale è dunque ciò che han no
di costante gli stati successivi della sostanza. Nella originedell'idea di
causa noi abbiamo bisogno di al tri dati. a Non siavverte,diceilnostro autore,chelacausa
che produce le sensazioni è quella che mette in esercizio la sen
sibilità;lacausa cheproduceipensierinon èlapotenzadi pensare,ma
èquellachemetteineserciziolapotenzadi pensare;la causa che produce ivoleri non
è la volontà,ma è quella che mette in esercizio la volontà ». Chi ricorda ora
che a queste tre classi di fenomeni ri duce
eglituttalanostraattivitàspirituale,vede chiaramen te
cheperluiselacoscienzaporgeil modellodellasostan za,non
èperòbastevoleaspiegarel'ideadicausa.Qui oc corrono più sostanze, di cui una
determina l'altra. Nella sostanza la mutazione sopravvenuta è determinata
dallostatoanteriore; nellacausaessamutazione èdeter minata e dallo stato
anteriore e dalla mutua azione. G. riassume la sua dottrina su queste due idee
capitali nel seguente modo . « La sostanza persiste nella suaimmutabile
naturaal can giar delle modificazioni. Nell'ordine naturale nè possono prodursi
nuove sostanze, nè leattualiannientarsi. I cangiamenti di una sostanza sono
cosi connessi tra lo ro,cheinogniistanteil suostatoèdeterminatodalsuosta to
antecedente,cioè nel corso de'suoi cangiamenti ha per
modificazionecostanteunatendenzaalcangiamentocheim mediato vaseguendo,
equestatendenzaèquelche noi conosciamo della forza interna di una sostanza.La
diversa na tura di queste forze ci viene manifestata dalla esperienza, cioè dai
diversi cangiamenti della sostanza.Così distinguia mo levarieforzeinternediuna
sostanza, elevarieforzein terne delle diverse sostanze ». « Una sostanza, che
trovasi in uno stato permanente non può da sè stessa,cioè per propria
forza,passare ad altro stato ». «Oltre la connessione
traicangiamentidiunastessaso stanza v'è anche una connessione tra i cangiamenti
di di verse sostanze,cioè una mutua azione tra le medesime. Tutti gli
avvenimenti dell'universo saranno necessarii, e l'azzardo non è che l'incontro
di avvenimenti non con nessi tra loro.Ma questo incontro medesimo è necessario,
in quanto son necessarie le serie de'cangiamenti anteriori, che han determinato
quegli stessi avvenimenti che s'incon trano ». Ecco la somma della sua
dottrina,la quale,intorno alla causalità specialmente, è la traduzione
filosofica delle leggi delmoto diNewton. Questeleggi,osservailDeGrazia,ed a
ragione, non sarebbero vere leggi degli esseri naturali,se fosse falsa l'ipotesi
della mutua azione. Locke intanto aveva negato l'idea di sostanza, Hume la
connessione richiesta dalla mutua azione nella causalita ; entrambi per lo
stesso motivo,che noi cioè non conoscia mo adeguatamente nè quella,nè questa.
Pare al nostro au torecheilragionamentodiHumesiriducaaquestoentime
ma:noinonabbiamoideaadeguata diazione;dunque non ne abhiamo punto. Le
ricerche,dalle quali Hume era stato indotto a questa conclusione ,la quale
troncava i nervi ad ogni attività scien tifica, si possono brevemente esporre
così.L'esperienza non dàconnessione,ma semplicecongiunzione:ilragionamento non
dà idee nuove :l'abitudine non cangia la natura
della 58 prinda percezione,come una serie di zeri è
impotente a co stituire una quantità. Con lacoscienzacolghiamolemutazioninostre,elegiu
dichiamo appartenereallanostrasostanza:conl'astrazione noi
rendiamogeneralequestaconnessioneinterna.La spe rienza
esternadipoicimostrafattiincongiunzione,ma con tal costanza,che noi ci
avvezziamo a riferire un fenomeno alla presenza di un dato oggetto:noi
induciamo,che questa congiunzionesiaunaveradipendenza.Eperchè?«Unacontraria
supposizione, ei risponde, implica l'assurdo, che due sostanze con le stesse
modificazioni sono condizionate ad e sercitare una mutua azione in un tempo più
tosto che in altro;in un luogo più tosto che in altro luogo. In tal guisa tutte
quelle funzioni del pensiero,che isolate non
sarebberostatebastevoliafornircilaconnessionecau sale,intrecciateabilmente
insieme bastano. IlKant,come sappiamo,dallepremesse diHume,lasciate correre
senza contrasto,inferi che dunque l'idea di causa è a priori ; evitando con
questa origine le scabrose ricerche de]l'analisi.Altri aveva inferito,che
ilprincipio di causali tà sia,nongiàsinteticoapriori,ma analiticoadirittura, come
trainostriilGalluppiedilRosmini:ilnostroDeGra zia riconosce che nella idea
dell'avvenimento non è racchiu s a l'idea della sua causa ; dà ragione alla
filosofia critica di averlo sostenuto per sintetico;ma crede di coglierla poi
in flagrante contraddizione nel valore che Kant attribuì a tal principio.
Giovaesaminare quest'ultimo aspetto della questione. G. replicò:altroèil non
avere una ideaadegua ta,ilnonconoscereilcomedell'azione;edaltroilnon a verne la
menoma idea.Vero è inoltre,che nè la sperienza, nè il sillogismo,nè l'abitudine
bastano da soli,ma intrecciati insieme forsebasteranno:
epoisièlasciatafuordiconto l'in duzione,laquale èdiunaiutoinestimabile.Ed
eccocome. Kant aveva attribuito al principio di causalità
un'origine apriori,epoiavevaattribuitoallostessounvalore oggettivo: G. interpet
r a oggettivo nel senso della filosofia sperimentale,ed affibbiaalKant una
contraddizione,che proviene da una poco esatta cognizione della Critica della
Ragion pura. Da una partesiammette,cheinostriconcettieigiu dizî sintetici a
priori hanno un valore oggettivo nella natura ... Dall'altra parte si sostiene
che la causalità non è legge degli esseri, ma legge de'lor cangiamenti sommessi
alla nostra esperienza ». Per Kant l'oggettivo non era punto nella natura , m a
era semplicemente ciò che si trovava in ogni coscienza,non co me questa o
quella coscienza empirica ed individuale,ma in ogni coscienza umana in
universale,in ogni coscienza uma na come tale. Onde Kuno Fischer esponendo
questa significazione della parola oggettivo nel sistema kantiano scrive
appunto cosi. Nun heisst «verknüpft sein in reinen Bewusstsein soviel als
obiectiv verknüpft sein. Ma di tali inesattezze fu causa non la poca
penetrazione dellamente, sil'averluiignorato lalingua tedesca;ilche lo costrinse
a servirsi di poco sicure traduzioni. Nell'esame del modo, come G. spieg a
l'origine dell'idea disostanza,equella dicausa,noi abbiamo indi cato tutto
quanto il suo processo analitico nella genealo gia del pensiero,perchè la prima
idea è primitiva, la se conda derivativa. Pure di altre principali toccheremo
un cenno per chiarezza maggiore,ma prima alleghiamo testual mente la formola
del suo metodo. « Pura osservazione di fatto nelle idee primitive;pura os
servazione di concetti astratti nelle idee derivative ;ecco i due cardini del
presente Saggio. La natura oggettiva delle idee di rapporto , e i giudizî parte
integrante di alcune idee sono ledue vedute primordialinella
quistionedellaorigine e realtà delle nostre conoscenze. Con questo criterio ora
ilnostro filosofo si fa ad esami nare ilfatto, ediquivi pervia diastrazione,
ossiapervia del giudizio,attinge ogni nostra idea. Percepire
ilpossibilevalgiudicare ciò ch'è possibile, come percepireilnecessario
valgiudicareciòch'èneces s-ario,e percepire ilgeneraleval giudicare ciò ch'è
gene r ale. È una falsa opinione il credere che la necessità,la pos
sibilità,launiversalità,come altresì laidentità,ladiversi t à non siano
contenute tutte quante nella realtà che ci sta davanti : il giudizio non
aggiunge nulla di suo, esso è un puro mezzo di osservazione, e nulla più. Il
nostro spirito ha la virtù di apprendere l'identità e la diversità,con
cuisioffronoleidee alla nostra percezio ne:eccoquanto devesi solamentedire dal
filosofo». L'infinito non è pel nostro autore,se non la quantità in finita, e
la origine di questa idea è anch'essa dovuta alla e sperienza. « Partendo dal
principio,che ilpositivo dee precedere il negativo nell'ordine genealogico,
abbiamo conchiuso,la quantità che ha limiti dover precedere la quantità che non
ha limiti;ilfinito dover precedere l'infinito;ilsiavanti al no.L'equivoco
ènelcredere,che una quantitàinfinita non ènegativa. Che
sesiosserva,laquantitàinfinitacomprendere in se tutte le finite, è da osservare
altresì ch'essa le comprende non come negazione,ma come quantità:lanegazione
siri ferisce al limite. Tra quelli che AQUINO chiamava sensibili comuni c'erano
l'estensione e lasuccessione,rapporti quantitati vi,mentre
isensibiliproprîeranoqualità. Oralavorando Piùcomplicata è la genesi
delle idee di spazio e di tempo. sopra questi due dati,vale a dire
considerando come as soluta la posizione de'punti nella estensione,e
degl'istanti nella successione, si ha nel primo caso lo spazio, nel se condo
iltempo. « La pura estensione non è tutta intera l'idea dello s p a zio :in
questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi punti . L'idea di successione non
è tutta intera l'idea del tempo : in questo v'è dippiù il valore assoluto
de'suoi istanti. Che cosa vuol dire questo valore assoluto ? Ecco:l'estensione consiste
nella postura de'punti;e c o testa postura è di sua natura relativa. Se ora la
postura non si riferisce ad alcuni punti soltanto,ma a tutt'i punti
assegnabili, siavrànonpiùunadataestensione, ma lo spa
zio.Cosidicasideltempoperrispettoallasuccessione. C'è successione,se un
istantesiriferisce ad un istante dato : c'è tempo se la relazione si allarga a
tutti gl'istanti a s s e gnabili. Dimodochè lo spazio siha negando illimite
della esten sione finita ; il tempo negando il limite della successione finita.
Ma l'estensione e la successione,si domanderà, donde provvengono? G., che li
chiama sensibilicomuni, ritenendo la nomenclatura tomistica nel Prospetto della
filosofia o r t o dossa, nel Saggio ne attribuisce l'origine non alla sensibi
lità, ma all'intelletto.Egli anzi combatte la dottrina kantiana delle forme
pure della sensibilità,osservando che non si può dare estensione e successione
senza apprendere del le sensazioni come moltiplici,e quindi come diverse, o
meidentiche; sicchènumero,diversità, identitàsono con dizioni dell'apprensione
di questi due nuovi rapporti, che si dicono estensione e successione.Kant che
le attribuiva alla sensibilità non si accorgeva del concorso indispensa bile
dell'intelletto che vi si richiedeva ;ed anzi si contrad CO diceva
ammettendo, che la materia sensibile prende un pri mo
ordinenelleformepuredellasensibilità,echeperesse forme la varietà e la
moltiplicità della rappresentazione ac quista un certo ordine. Questa
contraddizione era stata avvertita dal Borrelli pri ma delGrazia, e forse
questi l'hamutuata dall'autore della Genealogia del pensiero. Kant, aveva
dettoilBorrelli,tie ne percategorie dell'intellettoladiversitàelamoltiplicità:
e d intanto ammette una varietà ed una moltitudine anche nella sensibilità:
come va ciò ? Nè Borrelli, né G. s'accorsero però che il divario tra categoria,
ed intuizione pura consiste non già nel supporre entrambe una moltiplicità;ma
nel diverso m o do dellegamecategorico,edintuitivo. Ma è tempo omai di
giudicare nel suo insieme il tentati v o del nostro filosofo. Propostosi
discoprire lelacunedellafilosofiadelGallup pi principalmente,e di additare i
costui sviamenti dal m e todo sperimentale, egli si studia di evitare ogni
spiegazio n e ,la quale non si desumesse dal fatto reale.La ragione c'è
nonperprodurre, maperosservare:ilpiùchepossafa re èdiastrarre.Per questa
disposizione d'animo gliando a sanguelafilosofia dell'Aquinate,
che,foggiatasul'ari stotelica, gli parve battesse la stessa via.Ripetendo l'an
tico adagioaristotelicocheilpensareèofantasia,onon senza fantasia, l'Aquinate
procede difatti di astrazione in astrazione,ma
senzadispiccarsimaidalfattosensibile.Che cosa èilfantasma? Similitudine
dellacosa particolare:Si militudo reiparticularis.
Checosaèl'attodell'intendere? È laspecieintelligibile,speciesintelligibilis,chesitorna
ad astrarre dalfantasma:un'astrazione adoppiogrado.E che
cosavuoldireilluminareifantasmi,equelfamoso lu me divino,
sulqualetantoavevadisputato SERBATI, seera Dio stesso,ounsuoriflesso?Per G.
nonèaltro,se non l'effetto della attenzione, che vi si presta. Il
giudicare era a lui un fatto irreducibile,da non confondere con la sensazione,
ma insiem e era un puro mezzo di osservazione . Osservare adunque è la parola
che compendia tutta la sua filosofia . Per questo verso la filosofia di
G. è più moderna di quella di Galluppi, e rasenta assai da presso il
Positivis mo contemporaneo,cheinqueltorno sistavaconcependo. Il Corso di
filosofia positiva dettato da Comte fu pubblicato in Francia. G. avrebbe potuto
averne notizia, matuttoinduce acredere,ch'ei non
l'abbiaavuta.L'educazioneprimadellasuamente, che al pari di quella del Comte
era stata avvezza alle scien zeesatte, elapocapropensione per lespiegazioni
trascen dentali poteronlo però sospingere per la medesima via. G. al pari
de'positivisti dichiara sconosciute le essenze delle cose, limitata ad una mera
riduzione di feno meni tutta la nostra scienza:crede anche lui doversi appli
care alla filosofia il metodo delle scienze esatte e delle s p e rimentali,e da
qui la grande importanza che attribuisce alla induzione , la scarsa che
attribuisce al sillogismo. Se non che all'osservazione immediata ei
seppe accoppia re l'induzione, ch'è l'osservazione mediata. Della induzione
ebbe un concetto preciso,nè lavolle ristretta al sempli ceradunamento de'fatti
osservati, ma ne estese la portata oltre ai limiti della sperienza.In questo
allargamento però essa non genera nell'animo quella evidenza, che scintilla
soltanto dalla osservazione immediata, o dalle verità di r a gione;ma una certezza
morale, la quale ammette la possibilità dell'opposto.Tutte
lescienzesperimentali debbono te nersi paghi di quello stato, ch'è pure tanto
discosto dal dubbio tormentoso lasciatoinereditàdạ Hume, ilqualedisco nobbe
l'efficacia della induzione. Ecco difatti alcune sentenze, le quali si
potrebbero cre dere imitate da Comte. Il metodo è il ridurre i
fenomeni particolari a'fenomeni generali, e questi ad altri più generali fino
ad arrestarsi a pochi fenomeni irreducibili ». « La riduzione viene operata a
lume delle verità neces sarie da un lato,e dalle accurate osservazioni
dall'altro la to.E un fenomeno generale che resiste agli incessanti rigo rosi
tentativi di riduzione,non è perciò dichiarato assolu tamente irreducibile alle
note forze primarie delle sostanze corporee,note però negli effetti, e per noi
sempre ignote nella loro essenza. I nostri mezzi sono impotenti a scovrir la
natura degli ésseri.Tutto quel che può scovrire la nostra ragione nella scienza
della natura è riposto nel classificare i fatti speri mentali con
andarrisalendo da’fattiindividualia'generali, e da questi a'più generali fino a
raggiungere ifatti primiti vi, ov'èforzal'arrestarsi». Ma
allatoaquestesomiglianzetroviamonel G. dei tratti, che lo differenziano dal
fondatore del Positivismo; ne addito due come principali. Comte trascura
affatto il problema della conoscenza , ed invece questo problema rimane per G.
ilprimo ed il capitale. Comte attribuisce alla metafisica un valore storico
soltanto, G. è per sua soche la metafisica possa rimanere accanto alla scienza
sperimentale.Così,sebbene dichia ri
inconoscibilel'essenzadell'anima,enotasolalasuama nifestazione nel pensiero,non
esita poi di affermare che la metafisica ne ha stabilito la spiritualità,
l'immortalità, la vita futura. Questa oscillazione fra le esigenze del suo
metodo e le tra dizioni di quella ch'ei chiama filosofia ortodossa fa sì che in
lui sipuòravvisareorauntomista,edora un positivista, secondo i casi.Se non che
il tomismo stesso a lui or balena 9 va come riflesso dalla filosofia
aristotelica,or come lume r a g giante dallarivelazionedivina; edellaortodossia
del cre dente si faceva schermo a nascondere gli ardimenti del filosofo .
Noiignoriamoqualiaccuseglifuronomosse,equalirim proveri fatti :certo apparisce
da alcuni luoghi dei suoi li bri che qualcosa di simile ci debba essere stato :
eccone u n o per esempio. Ci crediamo abbastanza fortunati di aver veduto
protrattii nostri giorni, fino all'istantedirassicurarciche il nostro
comunquedebole lavoroerasottolaguarentigiadel l'Aquinate, contro le avventate
odiose imputazioni. Ed altrove dice esplicitamente ch'ei ricorre all'autorità
di AQUINO (si veda) periscagionarsidellatacciad'incredulita. Lo studio di
Aquino, e d il Prospetto della filosofia ortodossa che ne fu ilrisultato,ebbero
adunque per fine ladifesa della propria dottrina. Meglio forse avrebbe fatto a
dispregiare ilvano cicaleccio delvolgo,che di ogni ri cercafilosofica
s'adombraes'insospettisce; ma l'indoledel nostro filosofo era dimessa e
circospetta, e preferi di ripa rarsi sotto l'egida di un dottore di santa
Chiesa; come se u n altrettalespedientefossegiovato a SERBATI (si veda) e da
GIOBERTI (si veda). Senza il bisogno di questa apologia della sua dottrina a
vrebbe potuto por mano a quella Filosofia del pensiero, a cui
accenna;imperciocchè,contutt'iseivolumidaluimessi a stampa,ilsuo sistema rimane
appena delineato nel prin cipioenelmetodo;nèdelleapplicazioni alla Estetica,oal
l'Etica si trova più di un semplice accenno: la Logica stessa non vi è di stesa
pienamente, sebbene tutto i'l Saggio non s i occupi di altro che di Logica.
Stando ai brevi accenni noi sappiamo che le parti della filosofia per lui
sarebbero state la logica,l'etica, l'estetica, perchè itre fenomeni
irreducibili del pensiero sono ilgiudi care,ilvolere,ilsentire. Ilsillogismo
ègiudizio pure; ma 66 un giudizio fondato sopra
idee astratte, mentre il giudizio primitivo è la osservazione immediata della
realtà concreta. Il sillogismo è applicabile alle sole verità di ragione. La
prova induttivá si adopera a slargare la cerchia della sperienza immediata
:essa però presuppone la realtà delle idee di numero,identità, diversità,
sostanza,modificazione, necessità,possibilità.Queste idee non si possono
ricavare per induzione, altrimenti ci sarebbe un circolo:sono ricava te per
astrazione dalla osservazione immediata fatta per m ezzo del giudizio.
L'associazione è la sorgente spontanea,ma illegittima del le nostre idee:
l'induzione dipoi legittima, confermandole , quelle relazioni,che
l'associazione delleidee aveva per ipo tesi anticipato. Ecco adunque delineato
il compito della logica: analisi d e l senso comune, e giustificazione delle
credenze spontanee che quello contiene. E dell'Etica ? Solo per intramessa
sappiamo,ch'egli,a differenza di Elvezio , il quale dà per originario il solo
desiderio del proprio utile, ammette appetiti disinteressati originalmente, non
credendo che l'abitudine potrebbe andare fino al punto di snatu rare
laqualitàstessadeldesiderio.Orsenoiabbiamo nella coscienza attuale de motivi
disinteressati, è necessità che questi motivi si fondino sopra appetiti
primitivameute tali. Anchequiadunqueavrebbe G. adottatolostesso
procedimento della conoscenza :lo spirito avrebbe legittima to con la ragione
ciò che la natura spontaneamente avesse in Prima la mente crede,
perchè non ragiona ancora; poi crede, perché la ragione ha legittimato la sua
credenza. Fin chè il dubbio non l'assale,l a mente riposa sicura sui nessi
stretti spontaneamente dalla associazione naturale delle sue idee: quando il
dubbio sottentra, la induzione ne la libera, giustificando la spontanea
credenza. origine operato. Se non che, egli seneri mette a
quella filosofia del pensiero, che poio non scrive, o non arria sino a noi.
Meno preciso è il disegno, del qua l e si sarebbe dovuto toccare dell’estetica.
Noi sappiamo solo, che il bello è per lui l'oggetto della
percezione, quando ci riesce piacevole il contemplarlo. Ma, oltre a
questo effetto prodotto dalla bellezza nello spirito contemplatore, in vano si
cercherebbero altri schiarimenti. Nei voluminosi saggi che scrive avrebbe G. po
tuto colorire intero il disegno della sua filosofia, se non si fosse allargato
troppo in polemiche ed in apologie, soventi superflue, e se avesse usato
maggior parsimonia nello stile, ch'è diffuso, stemperato, e ridondante
d'interminabili ripetizioni. I suoi saggi si sarebbero potuti restringere in un
solo, o in un paio al più, senza nessun danno per le idee che vi esprime; e
forse con questo guadagno dippiù, di aver potuto trovare maggior numero di
lettori. Dobbiamo in questa occasione ricordare, che il sensualismo è la
dottrina favorita degl’italiani, pria di comparire il Saggio su la critica
della conoscenza, che in parte con la forza del ragionamento, einparte con
quella autorità che il nostro GALLUPPI (si veda) venne mano mano acquistando
pel valore della sua opera, egli riuscì a sradicare l'errore dalle menti, ed
avviarle a'sani principi della morale e della religione. Quindi le sue
istituzioni di filosofia, del tutto conformi ai suoi principi del saggio,
furono adottate per quasi tutte le scuole d'insegnamento in Italia. Un tal
positivo giovamento recato alla [G. combatté la filosofia di
GALLUPPI (si veda), finché que sti vive e professa a Napoli: la combattè perchè
la credette sbagliata e perniziosa. Morto che e il suo grande avversario, ei,
pur rimanendo saldo nella sua sentenza, scrive di lui queste parole sua patria
è la gloria maggiore cui aspirar mai si possa da un filosofo. Così
G. giudica Galluppi morto nel Prospetto di filosofia ortodossa. Ed
il giudizio ci rivela il carattere integro, leale, generoso di chi lo porta.
Combattendo le dottrine di un avversario, ei rispetta, ei loda le intenzioni ;
ei non disconosce l'utilità che aveva arrecato al suo paese. Talvolta anzi ei
par che non agogni, che non cerchi altra gloria che quella conseguita dal suo
valoroso avversario: dispera quasi di conseguirla vivo, pur se l'augura dopo
morto, non tanto per sè, quanto a pro della sua patria. Ese non può goderne chi
l'ha meritata, pur questa tar da gloria si riflette sula sua patria, serve
disprone a’ suoi concittadini sopra tutto, nella faticosa carriera filosofica,
e riesce di nobile compiacenza per tutti gli spiriti fatti per a m mirare, per
amar la virtù. Chi scrive queste magnanime parole ha certamente un cuore non
minore della mente, e la tarda gloria da lui invocata è un tributo ben meritato
da chi non stimolato da bisogno, non allettato da premio, passa la vita, non
fragliagi ereditati, ma nella faticosa palestra dello studio filosofico, dove
s'invecchia e si muore anzi tempo, ma dove si ha al meno il dritto di credere
che, morendo, non si muore del tutto.Vincenzo Di Grazia. Grazia. Keywords:
implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grazia” – The Swimming-Pool
Library.
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