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Monday, October 28, 2024

GRICE ITALO A/Z G GRA

 

Grice e Gracco: la ragione conversazionale e il concetto di stato -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A Roman statesman and reformer, a friend of Blossio di Cuma. He may have followed the Porch himself. He was killed by a mob. He was influenced by Blossio di Cuma. Tiberio Sempronio Gracco.

 

Grice e Gramsci: la ragione conversazionale contro Croce – partito socialista italiano – il comune – l’élite – Mosca -- filosofia italiana – filosofia sardegna -- Luigi Speranza (Ales). Filosofo italiano.  Filosofo sardo. Ales, Oristano, Sardegna. Grice: “Some Italians don’t consider Gramsci Italian on account of the fact that Gramsci is not an Italian last name!” Fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone esponente di primo piano e segretario, ma venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi. In seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, analizza la struttura culturale e politica di Italia. Elaborò in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli antenati paterni derano originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in Italia durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti d'archivio attestano che nel Settecento il trisavolo G., sposato con Blajotta, possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del distretto di Castrovillari, delle terre poi ereditate da G.. Questi sposa Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci G., che intraprese la carriera militare nella gendarmeria del Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposa Gonzales, figlia di un avvocato napoletano. Il loro secondo figlio fu Francesco, il padre di G.  Le origini albanesi sono conosciute dallo stesso G., che tuttavia le immagina più recenti, come scrive alla cognata Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra, ma si italianizza rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi è albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza: casa museo Antonio Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il padre; dovendo trovare subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti, conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari, rimasti in Campania, che consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria dal punto di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino alla terza elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che Francesco G. fu trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. Gramsci nasce secondo il registro delle nascite dello stato civile del comune e registrato con i nomi di Antonio, Francesco. Scondo il registro dei battesimi della parrocchia di San Pietro nasce il giorno dopo,  e viene registrato con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Il padre fu trasferito, come gerente dell'Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero gli altri figli, Mario, Teresina, e Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli impedì una normale crescita: adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza; i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute delicate. Soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura.  Il padre Francesco fu arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità in atti, e venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del sostegno dello stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo camicie. Proprio per le sue delicate condizioni di salute Gramsci comincia a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di Ghilarza per 9 lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo «registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel Ginnasio cdi Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque classi».  Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì tuttavia a prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo classico Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio di leva a Torino, lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo sardo.  La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si fece sentire, perché inizialmente G. nelle diverse materie ottenne appena la sufficienza, ma riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare erano i suoi impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto perché avrebbe potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché l'unico vestito che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a frequentare né gli amici, né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato interesse per le discipline umanistiche e per lo studio della storia, anche perché il cattivo insegnamento ricevuto in matematica gli fece perdere l'interesse per la materia.  Nel frattempo, il giovane G., iniziò a seguire le vicende politiche. Il fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei giornali». Leggeva anche i romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Barrili e quelli di Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando folkloristica la visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva Il Marzocco e La Voce di  Prezzolini, Papini, Cecchi «ma in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini».  Alla fine della seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì Garzia, radicale e anticlericale, direttore de L'Unione Sarda, quotidiano legato alle istanze sarde, rappresentate, in Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in una dura opposizione al ministero di Luzzatti. G. instaurò con Garzia un buon rapporto, che andava oltre il naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del giornale, ricevette la tessera di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse. Ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore.  In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è conservato, Gramsci scriveva, tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate». La sua concezione socialista, qui chiaramente espressa, va unita, in questo periodo, all'adesione all'indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva, insieme con la denuncia delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle disuguaglianze sociali, l'ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra le quali venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori salariati.  Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà operaia di una grande città del Nord:  il conseguimento della licenza liceale con una buona votazione tutti otto e un nove in italianogli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università. Il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo 39 borse di studio, ciascuna equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare Torino. Fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a Torino. «Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100 avute da casa». Conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti.  Si iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve pagare venticinque lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce, della pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i pasti«non meno di due lire alla più modesta trattoria»e la legna e il carbone per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima gelata». Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte sua, non se la passava di certo molto meglio.  L'Università degli Studi di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Einaudi, Ruffini, Manzini, Toesca, Loria, Solari e poi Bartoli, che si legò di amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana  Cosmo, contro il quale indirizzò però un articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo del Cosmo un ricordo pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia tuttora di una grande sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando anche che, con questi e con molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani. Si ritrovò a casa per le elezioni politiche, dopo la fine della guerra italo-turca contro l'Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere. In quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti" si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. G. scrive di quest'esperienza elettorale al compagno di studi Tasca, dirigente socialista torinese, il quale affermò che G. «era stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista».  Tornò a Torino, andando ad affittare una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il rischio di perdere il contributo della borsa di studio, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese anche lezioni di filosofia da Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione come fa il pensare a far agire come le idee diventano forze pratiche». G. stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo come il Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». L'iscrizione al partito gli permise di superare in parte un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito, fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni di partito mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in corsoneutralità affermata anche dal Partito socialistascrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, senza però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l'allora importante e popolare esponente socialista.  Sostenne  quello che sarà, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali Gramsci pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano morire dopo la giornata» e di aver contribuito «molto prima di Tilgher» a rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso». Della commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre considerò Liolà  «il prodotto migliore dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità inutile».  Il fu Mattia Pascal, secondo G., è una sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica della vita, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare  è una vita ingenua, rudemente sincera una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica».  Severo fu invece il giudizio sul Così è (se vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in sé non esista, Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee, che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani «borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese, mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista  i rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. G. è convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». G. nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre.  Anche in Italia la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a Torino sfociarono in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di guerra con la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a catena che colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente, anche gli elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista torinese venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale fece parte anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del Popolo che cesserà le pubblicazioni. I bolscevichi avevano preso il potere in Russia ma per settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate, finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il Capitale, firmato da G.: «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più che di fatti essa è la rivoluzione contro il Capitale di Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico  se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In realtà Marx, almeno negli ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse giungere al socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare tanto la visione di G. ancora idealistica, volontaristica, dell'azione politica, quanto la critica che di fatto G. rivolgeva ai dirigenti socialisti europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico in modo meccanicistico.  Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, G. lavora unicamente all'edizione piemontese dell'Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni giovani colleghi: Amoretti, Leonetti, Montagnana, Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo numero dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per "cultura" intendeva "ricordare", non intendeva "pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei suoi primi numeri». G. intende invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine nuovo perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel s, alla FIAT furono eletti i primi Consigli.  La Confindustria, nella sua Conferenza nazionale, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro attinga in se stessa il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere all'arma della serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le continue esorbitanti pretese degli operai». Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino  e in alcune province piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla.  Lo sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i lavoratori torinesi; l'8 maggio G. pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari terrieri, appoggiati dallo Stato, G. rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale periodo il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese».   Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di omogeneità nella composizione del partito, in cui continuavano a essere presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali se il Partito non realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze anarchiche ».  Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di educazione e di spiegazione di quanto sta avvenendo nella scena internazionale, dalla quale esso è assente, non partecipando nemmeno alle riunioni dell'Internazionale comunista, le cui tesi non sono riportate nell'Avanti!. Analogamente, le edizioni socialiste non stampano le pubblicazioni comuniste: «valga per tutte il volume di Lenin Stato e rivoluzione». Occorre pertanto, secondo Gramsci, che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente commentata per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti l'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato [.è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito ». La risoluzione dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale, alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra.  In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie dall'elevato indice d'inflazione, non trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell'Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse l'intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di Agnelli prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario.   Giolitti Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito, che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche.  Quell'esperienza dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto l'impreparazione degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali occorrevano organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII Congresso del Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà».  NSi riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Bordiga, Repossi, Fortichiari, G., Bombacci,  Misiano e Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista.  La fondazione del Partito comunista  Il congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel Teatro San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione italiana dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli astensionisti (Bordiga, Grieco, Parodi, Sessa, Tarsia e Fortichiari), dagli ex-massimalisti (Bombacci, Belloni, Gennari, Misiano, Marabini, Repossi e Polano) e dagli ordinovisti G. e Terracini. Diresse l'Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto deputato alle elezioni: G. non ha capacità oratorie, è ancora giovane e anche la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti elettori.  Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di Mosca. Qui conobbe una degente russa, Schucht, membro del Partito, figlia di Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico personale di Lenin, che aveva vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Julka  che, violinista, aveva abitato diversi anni a Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia.  Giulia, ventiseienne, è bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il primo giorno che non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido.  E quell'immagine di lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco d'argento ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così pittoresca». Si sposano e avranno due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di quest'ultimo porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. La moglie di G e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto inteso a salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, Gramsci guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che potevano rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è allora tra i maggiori rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926 ribadisce che l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si riscontrano critiche al regime sovietico.  Nel III Congresso dell'Internazionale comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria rappresentata dalle sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma. G. vi adere ma scrive di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale comunista] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento». Nel IV Congresso dell'Internazionale, di fronte all'avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu posta con ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista degli internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia e, a Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo Esecutivo: G. resta così il massimo dirigente del Partito e si trasferì a Vienna per seguire più da vicino la situazione italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga a prospettarci il problema di costruire il partito ed il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza». Uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell'«unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo. Alle elezioni venne eletto deputato al parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto dall'immunità parlamentare. Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei dirigenti delle Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano dipendenti di un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti e inni a Mussolini, mentre, a parte, discutevano dei problemi del partito.  Nel convegno si affrontò il caso Bordiga, il quale aveva rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze politiche di sinistra. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della grande maggioranza dei delegati, confermando la notevole importanza di cui il rivoluzionario napoletano godeva nel Partito.  Il 10 giugno un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato socialista Matteotti; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la linea sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Monarchia, che non venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. G. avanza al «Comitato dei sedici»il nucleo dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare lo sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal «Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo G., non aveva alcuna volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo Matteotti Malgrado le divisioni dell'opposizione antifascista, G. crede che la caduta del regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industriale. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una delle tante viene aggredito anche Gobetti. E quando il militante comunista Corvi uccide in un tram il DEPUTATO FASCISTA Casalini, per vendicare la morte di Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose vanamente che l'opposizione aventiniana si costituisca in Antiparlamento, in modo da segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti; ipartì per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale del partito e per rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre, che non avrebbe più rivisto. Il deputato comunista Repossi rientrò in Parlamento, dove sedevano solo i deputati fascisti e i loro alleati, per commemorare Matteotti a nome di tutto il suo partito; vi rientrò anche tutto il gruppo parlamentare comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il quotidiano di Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Rossi, già capo ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la complicità del duce» e MUSSOLINI, in un discorso rimasto famoso, a confermare quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il via a una nuova azione repressiva.  In febbraio G. anda a Mosca, per stare con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia tenne il suo primoe unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex compagno di partito MUSSOLINI, ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno prima come un capo che «è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. MUSSOLINI è il tipo concentrato del PICCOLO BORGHESE ITALIANO, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica». Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l'attività di associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, G. respinse il pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine».  E ironizzando: Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito e un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli insegnamenti marxisti».  Conclude: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori responsabili, Bordiga, G., Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi era anche Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era stato a lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale, Humbert-Droz. Gramsci presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con Togliatti. Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale omogenea e organizzata rispetto alla PICCOLA BORGHESIA URBANA e rurale, che ha interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società.» Secondo G. il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga, l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito anda bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una "disciplina di ferro" negando al suo interno la possibilità dell'esistenza delle frazioni.  Il Congresso approvò le Tesi a grande maggioranza (oltre il 90%) ed elesse il Comitato centrale con G segretario del Partito. Da allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo influente nel Partito. Le Tesi di Lione, realizzate da G., ribadirono con una certa durezza le posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata». In questa relazione venne sviluppata la cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale communista. La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si era trasferito in via Morgagni ebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famigliala moglie Giulia e il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatianache abitano tuttavia in un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; a Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa casa di G. era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre gli esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione Gobetti, che muore ia Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste, Amendola, Salveminiun processo farsa condanna a una pena simbolica gli assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci.  La moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e il mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio Delio: Gramsci non l'avrebbe più rivisto.   Giustino Fortunato Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla quistione meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico italiano dai moti dei contadini siciliani, seguito dall'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da Giolitti, di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali e degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che avrebbe dovuto comportare una politica di libero scambio e di bassi prezzi industriali, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la conseguente scelta del protezionismo doganale, unita a concessione di libertà sindacali.  Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia, manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora di perseguire una politica di opposizione che rompa l'alleanza borghesia-contadini, facendo convergere questi ultimi in un'alleanza con la classe operaia.  La società meridionale, secondo G., è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del valore di Croce e di Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori della conservazione di questo blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per G., i reazionari più operosi della penisola, «le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano. Tuttavia G. non ha un'opinione positiva sui contadini, scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini»  (Antonio Gramsci, Lettera alla madre) In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era esteso anche all'interno del Partito comunista tedesco, provocando una scissione. Il New York Times, forse su ispirazione di Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere che la carica di segretario del Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio politico, G. scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del Partito sovietico. Egli si mostra preoccupato per l'acutezza delle polemiche che potrebbero portare a una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di essere stati «l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del fondamento del contrastola contraddizione di un proletariato formalmente «dominante» in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata» G. appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente».  G, conclude esortando all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti, allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, MUSSOLINI subì a Bologna un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione poliziesca da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto per l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia. Il governo sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. In violazione dell'immunità parlamentare, G. venne ARRESTATO NELLA SUA CASA e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo è dichiarato decaduto, insieme agl’altri deputati aventiniani. Dopo un periodo di confino a Ustica, dove ritrova, tra gli altri, Bordiga, è detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Qui riceve la visita del fratello Mario, le cui scelte politiche sono state opposte alle suegià federale di Varese, ora si occupa di commercio e, soprattutto, quella della cognata, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: è anche fatto avvicinare da due agenti provocatori prima un tale Romani e poi un certo Melanima senza successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Terracini, Scoccimarro e Roveda, inizia finalmente a Roma. MUSSOLINI ha istituito il TRIBUNALE SPECIALE FASCISTA. Presidente è un generale, Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista, relatore l'avvocato Buccafurri e accusatore l'avvocato Isgrò, tutti in uniforme. Intorno all'aula, un doppio cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna G. è ACCUSATO D’ATTIVITÀ COSPIRATIVA, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò conclude la sua requisitoria con una frase rimasta famosa. Bisogna impedire a questo cervello di funzionare; e infatti G. venne condannato a la reclusione. Raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari. Fin da quando si trova in carcere a Milano, è intenzionato a occuparsi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che lo assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore. Il detenuto 7.047 ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e inizia la stesura dei suoi quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora svolti solo in parte. Caratteristico è il suo modo di lavorare. Quasi tutti i giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, riflette sulle frasi da scrivere e poi si china sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare. A fare da tramite tra G. e il mondo esterno, e in particolare con SRAFFA e tramite questi col Pcus e il PCd'I, è la cognata Schucht, essendo la moglie di G. tornata in Unione Sovietica.  Intanto, il Congresso dell'Internazionale comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità di accordi con la social-democrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trockij, eliminava anche l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra di Trockij, era rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo orientamento dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo ndovevano adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i dissidenti. Il Partito comunista d'Italia si adegua alle scelte dell'Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l'accusa di trotskismo, prima, iBordiga, poi, ifu la volta di Leonetti, Tresso e Ravazzoli. Teneva, durante l'ora d'aria, dei "colloqui-lezioni" con i compagni di partito: non esistono dirette testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo alla «svolta» politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato, inviò subito al Centro estero comunista. Secondo quella relazione, riferì la teoria della necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D'altra parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariatola classe operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene conto delle particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di sviluppo politico degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito una particolare azione. La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi il primo passo attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine della Costituente». Ma l'azione del partito deve essere intesa a svalutare tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria».  La richiesta di una Costituente, e dunque di un'iniziativa politica che si ponesse obiettivi intermedi, avrebbe comportato necessariamente una convergenza, per quanto temporanea, con altre forze antifasciste, e se è difficile considerare tale linea politica come «social-democratica», durante le discussioni nel cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che egli era ormai fuori del Partito comunista. Probabilmente le reazioni di alcuni erano esasperate dal clima di detenzione» ma certo le posizioni dovevano apparire in contrasto con la linea politica indicata in quegli anni dal Partito comunista. È in questo periodo chevenne a contatto con Pertini, esponente del PSI e detenuto anch'egli alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri politici differenti, divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che lo stroncavano. G., oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall'infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cerca di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ha un'improvvisa e grave emorragia. Anche la moglie, in Russia, è sofferente di una seria forma di depressione e rare sono le sue lettere al marito che, all'oscuro dei motivi dei suoi lunghi silenzi, sente crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento. Scrive alla cognata: Non credere che il sentimento di essere personalmente isolato mi getti nella disperazione io non ho mai sentito il bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita tanto meno oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà. Quando la madre muore, i familiari preferirono non informarlo. Ha una seconda grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni sul suo immediato futuro. Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l'intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze. Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176, prevede la concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi condizioni di salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri, Rolland e Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici, ma venne trasferito nell'infermeria del carcere di Civitavecchia e poi nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all'esterno. MUSSOLINI accolge finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma G. non rimane libero nei suoi movimenti, tanto che gli è impedito di andare a curarsi altrove, perché il governo teme una sua fuga all'estero. Solo il poté essere trasferito nella clinica Quisisana di Roma, dove giunge in gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all'arteriosclerosi soffre di ipertensione e di gotta. Passa dalla libertà condizionata alla PIENA LIBERTÀ, ma era ormai in gravissime condizioni. Muore d’emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana. Le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, sono trasferite nel cimitero acattolico di Roma, nel campo Cestio. I quaderni del carcere, non destinati da G. alla pubblicazione, contengono riflessioni e appunti elaborati durante la reclusione. Sono definitivamente interrotti a causa della gravità delle sue condizioni di salute. Sono numerati, senza tener conto della loro cronologia, dalla cognata Schucht, che li affida all'Ambasciata sovietica a Roma da dove sono inviati a Mosca e, successivamente, consegue Togliatti. Dopo la fine della guerra i quaderni, curati dal dirigente comunista Platone sotto la supervisione di Togliatti, sono pubblicati dall'editore Einaudi unitamente alle sue Lettere dal carcere indirizzate ai familiarii in volumi, ordinati per argomenti omogenei, con i titoli “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”;  “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e presente”.  I quaderni sono pubblicati Gerratana secondo l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati raccolti in volume anche tutti i saggi scritti da G. nell'Avanti!, ne Il Grido del Popolo e ne L'Ordine Nuovo. Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia.  Vi è distinzione fra direzione egemonia intellettuale e morale e dominio esercizio della forza repressive. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente. La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo. A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se riesce a indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovra-struttura in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che indica l'insieme della struttura e della sovra-struttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici. Analizzando la storia di Italia e il Risorgimento in particolare, rileva che la classe popolare non trova un proprio spazio politico e una propria identità, poiché la politica dei liberali di Cavour concepì l'unità nazionale come un allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Rritiene che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le campagne, appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione aristocratica.  Il partito politico italiano allora più avanzato è il Partito d'Azione di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la classe contadina. Garibaldi in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini repressero le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare l'egemonia contro i moderati guidati dal liberale Cavour, il Partito d'Azione avrebbe dovuto legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino specialmente per il contenuto economico-sociale. Il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani liberali seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud.  Il Piemonte assunse la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una funzione paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima importanza per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza politica-diplomatica. Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio” e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto d’egemonia si distingue da quello di dittatura” La dittatura uesta è solo dominio, quella è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura del proletariato” né espresse critiche significative al regime sovietico in Russia.  Le classi subalterne Courbet, Lo spaccapietre Le classi subaltern esotto proletariato, proletariato urbano, rurale e anche parte della piccola borghesianon sono unificate e la loro unificazione avviene solo quando giungono a dirigere lo stato, altrimenti svolgono una funzione discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli stati, subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si ribellano.  Il "blocco sociale", l'alleanza politica di classi sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri, classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell'intero sistema di potere.  In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è ed è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere l'unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare. La Chiesa è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici, una lotta che ha fatto risaltare la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero che ha dato derte soddisfazioni alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano "rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti" ».Anche la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali, tanto che essa, anche se ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «entato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.  Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.  Annota in un Quaderno, che il folklore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e morale della società.  Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato, accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola dalla fine del Quattrocento. Il Principe di Machiavelli non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente esistente. In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una situazione interna economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a Francia ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato lo stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la «borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intende MACHIAVELLI attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella rivoluzione francese. In questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. Il partito è l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume. Perché un partito esista, e diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali. Primo, un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento coesivo principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo fisico, ma morale e intellettuale. Gramsci negli scritti compresi ribadì i principi espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina ferrea del partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del regime fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn si può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente della sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione dell’ intellettuale.  Storicamente si formano particolari categorie di intellettuali, specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante. Un gruppo sociale che tende all'egemonia lotta per l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è il letterato, il filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali, mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema non assolutamente il vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo, forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento. Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella società politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i commessi del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono. Come lo stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito politico, ancor più compiutamente e organicamente dello stato, elabora i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo di una società integrale, civile e politica. Il compito della riforma intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli intellettuali organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone come sintesi attiva di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali.  In molte linguein russo, in tedesco, in franceseil significato dei termini «nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Si è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia. In Italia, la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento intellettuale italiano è avvertito come “più straniero degli stranieri stessi”.  Fa eccezione, per G., il melodrama verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha tenuto in qualche modo in Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Il pubblico icerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella italiana: è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori. Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo può essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di una egemonia straniera. Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo. La insufficienza dell’intelletuale è «uno degli indizi più espressivi dell'intima rottura che esiste tra la religione e il popolo. Questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale. La religione è rimasta allo stato di superstizione l'Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Contro-Riforma. La religione, tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio. Sono rimaste famose le note di G. su MANZONI: lo scrittore più autorevole, più studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere elitista della letteratura italiana. Ecco le parole dai Quaderni del carcere, confrontandolo con Tolstoj. Il carattere aristocratico di Manzoni appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali. Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una società di protezione di animali niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo non c'è popolano che non venga preso in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il suo atteggiamento verso il popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che muova alla conquista dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente. Intanto, nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis un esempio privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis. Piace sentire in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo risorgimentale, in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con Croce, che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro affermazione, per cui la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Quando poi quei valori culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce sub-entra una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e pertanto non confrontabile con quella di Sanctis. Una critica letteraria marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve fondere, come Sanctis fa, la critica estetica con la lotta per una cultura nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli scrittori si trovavano a operare.  Non a caso, progettava nei suoi Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani», dal nome di Bresciani, tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi, L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio di  Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono gli intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia reazionaria con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente confessato». Fra i «nipotini»individua, oltre a molti scrittori ormai dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale, Panzini, Bellonci, Bontempelli, Fracchia, Baratono -- l'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile -- teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria – Bacchelli -- nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una manifestazione di gesuitismo artistico -- Salvator Gotta --di Salvator Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca», Ungaretti.  La vecchia generazione degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti promesse, Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da piccoletti. Croce, il più autorevole intellettuale dell'epoca, da alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario mostrare e combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia culturale che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio italiano. Come tale, Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia. Il Capitale di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non-scientificità dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del plusvalore. Per Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di “plusvalore” rispetto al “valore”, legittimo concetto economico. Questa critica del Croce è in realtà un semplice sofisma. Il “plusvalore” è esso stesso valore, è la differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx deriva direttamente da quella dell'economista liberale Ricardo la cui teoria del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, dove acquistarla solo con la Economia critica. La filosofia crociana si qualifica come storicismo, ossia, seguendo VICO (si veda), la realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica della sua filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia speculativa, di astrazionistoria della libertà, della cultura, del progresso non è la storia concreta delle nazioni e delle classi. La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia la storia di Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore. L'operazione conservatrice di Croce storico fa il paio con quella di Croce filosofo. Se la dialettica dell'idealista Hegel era una dialettica dei contrariuno svolgimento della storia che procede per contraddizioni la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche di Croce. La sua Storia d'Europa, iniziando e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese e quello napoleonico, non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò in Francia, traboccò nel resto d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione riformistica. Analoga è l'operazione operata da CROCE nella sua STORIA D’ITALIA la quale affronta unicamente il periodo del consolidamento del regime dell'Italia unita e si «prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si elabora in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma, e invece Croce assume placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o etico-politico. Gramsci, fin dagli anni universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo posto a una società socialista. Questa concezione mascherava l'impotenza politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere l'iniziativa per la conquista dell'egemonia.  Anche il manuale del bolscevico russo Bucharin, e La teoria del materialismo storico manuale popolare di sociologia, si colloca nel filone positivistico. La sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. La comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile utilizzando la dialettica marxiana della quale non vi è traccia nel Manuale del Bucharin perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica che trasforma le società. Le società non si trasformano da sé. Già Marx aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i rapporti tra struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria, la prassi, è anche catarsi che segna l passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'oggettivo al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così  il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva, esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica dal momento che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un divenire.  Come potrebbe esistere un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di tale oggettività? La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario». La formazione linguistica di G. inizia durante gli anni universitari a Torino con la frequentazione delle lezioni di BARTOLI (si veda). G. apprende che LA LINGUA è un prodotto sociale e che non può essere studiata senza tenere conto della storia generale: ciò vuol dire che non è possibile comprendere i mutamenti di una lingua senza riflettere sui mutamenti sociali, culturali e politici della popolazione che la parla. È stato notato che fece aderire le teorie apprese da Bartoli alle letture filosofiche che lo formarono politicamente; in primo luogo all'ideologia tedesca di Marx, dove Marx afferma che il tessco, il tedesco, come la coscienza dei tedesci, appartiene alla sfera degli istituti sovra-strutturali, cioè al mondo dell'organizzazione politica e giuridica della società. Le più interessanti riflessioni linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni del carcere e riguardano da una parte la questione delle lingue in Italia, ovvero lo studio delle ragioni che hanno reso difficile la diffusione di una LINGUA per la nazione o tutta la poppolazione, dall'altra il tema dell'insegnamento linguistico nelle scuole primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale importanza per G., perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle grandi masse popolari e la creazione di uno spirito nazionale in grado di superare ogni forma di particolarismo regionale. I Quaderni del carcere sono costellati in maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di caratteri linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della lingua italiana e racchiudono le riflessioni di G. in merito alla cosiddetta questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A tal proposito G. scrive: mi pare che, intesa LA LINGUA come elemento della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e puramente erudito». Nell'affrontare una ricostruzione storica delle vicende linguistiche italiane G. cerca dei termini di confronto con altri paesi europei come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima volta nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere politico-istituzionale, IN ITALIA il volgare appare per la registrazione di documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche. L’origine della differenziazione storica tra ITALIA e Francia si può trovare testimoniata nel giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante dell'osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno. Il popolo-esercito garantisce giurando in volgare, cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto demagogico dei carolingi di appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ha la monarchia come fattore nazionale. IN ITALIA i primi documenti di volgare sono dei GIURAMENTI INDIVIDUALI per fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere ANTI-POPOLARE. Traite, traite, fili de le putte. Quaderni del carcere, Gerratana, Torino, Einaudi. In Francia i gruppi dirigenti si rendono conto dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia di cui parla G. è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi una propria civiltà statale integrale, in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e governanti. Il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo giuramento. Ricorda nei suoi appunti come IN ITALIA l'uso del volgare si diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione di DOCUMENTI PRIVATI, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, LINGUA DELLA BORGHESIA, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze esercita una EGEMONIAculturale, connessa alla sua egemonia commerciale e finanziaria. Bonifazio dice che i fiorentini sono il quinto elemento del mondo. C'è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di Firenze, l'italiano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata storica.” Da questo momento si verifica una cristallizzazione della lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non scrivono più nella lingua della loro classe d'origine perché con essa non intrattengono più nessun rapporto, nella visione di G. essi “vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi, ma aulici. In questo senso, vede sciupata l'occasione di una diffusione graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione compromessa soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal carattere “elitario” del ceto intellettuale italianio. Affronta con maggior vigore la questione delle lingue in relazione al periodo post-unitario. Nella seconda metà dell'Ottocento, lo stato e per gran parte dialettofono, mentre La LINGUA DELLA NAZIONE venne usata solo a livello letterario e come lingua dell’istituzioni. La scarsa diffusione di una lingua per la nazione testimonia la frammentazione politica e culturale della popolazione italiana. Questo fenomeno venne avvertito come un problema politico, soprattutto da molti intellettuali di tendenze democratiche come Manzoni.  Nella sua ricostruzione storica G. scrive che “anche la questione delle lingue posta da MANZONI (si veda) riflette questo problema, il problema della unità intellettuale e morale della nazione e dello stato, ricercato nell'unità della lingua. Eppure, sebbene G. riconosca a MANZONI di aver compreso la questione linguistica italiana come una QUESTIONE POLITICA e sociale, si distingue da lui nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante il suo apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di confrontare le posizioni del Manzoni con quelle d’ASCOLI (si veda), dell’Archivio Glottologico. Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione sul modello fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di origine toscana, ASCOLI concepiva la nascita di una lingua nazionale come il frutto di un'unificazione culturale prima ancora che linguistica. Secondo ASCOLI l'unità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo, stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici, ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza, il suo particolare idioma. Per ASCOLI, una LINGUA NAZIONALE altro non può e non deve essere, se non l'idioma vivo di una data città. Deve cioè per ogni parte coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli, nel suo Proemio, prende la Francia come esempio per avvalorare la sua tesi. Infatti, l'unità linguistica di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale di Parigi. La Francia attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della Francia intera. Dal vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell'universa civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente del suo pensiero, vi ha naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo studia e lavora, ma si commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole. E quindi è necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di Parigi. Gramsci ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo di formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili alla diffusione di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali. Terzo,  gli scrittori d'arte e quelli popolari. Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto, le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti di conversazione tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti. Ottavo, i dialetti locali, intesi in sensi diversi, dai dialetti più localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia ecc. Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola. Per tradizione, a scuola, gl’insegnanti introducono gli alunni allo studio di una lingua attraverso la grammatica normativa. G. definisce la GRAMMATICA MORFO-SINTASSI normativa come una fase esemplare, come la sola degna di diventare, organicamente e totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in lotta e in concorrenza con le altre fasi e tipi o schemi che esistono già. Le riflessioni gramsciane in materia di grammatica si pongono in netto contrasto con la riforma della scuola realizzata da Gentile, di basi griceiana. La riforma, in linea con l'impianto idealista gentiliano, prevede che l'apprendimento della lingua della nazione nelle classi elementari si basasse su quello chi Gentile chiama l’espressione viva o parlata e non sulla grammatical normativa, considerata questa come una disciplina “astratta” e meccanica. Nell'ottica di G. il metodo apparentemente liberale di Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere classista o elitista, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte sono avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare realizzata esclusivamente in dialetto In questo senso la grammatica normativa si presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo a tutti la conoscenza della LINGUA della nazione.  Secondo G. la conoscenza della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato dialettofono non può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di crearsi un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali tradizionali. Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di comunicazione familiare o locale che non può garantire, per cause interne al suo sistema, la comunicazione di un contenuto culturale universale, caratteristico della nuova cultura esercitata dal proletariato. G. presta attenzione anche alla LINGUA DELL’IMPERO ROMANO. Espressa in più occasioni che lo studio del LATINO è particolarmente utile nella formazione filosofica, in quanto abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare storicamente. Contesta il nazionalismo degli studi e critica ripetutamente gl’intellettuali che, durante la grande guerra, chiedeno che fossero messe al bando le edizioni dei testi romani e la grammatica latina compilate DA AUTORI TEDESCHI! Anche nei Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e ribadì l'utilità intrinseca della antica lingua romana, osservando che e uno strumento importante nella fase della formazione filosofica nella quale è necessario un insegnamento "disinteressato", cioè non legato a questioni pratiche. Però, sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue morte avrebbe dovuto essere sostituito da altre materie: era un cambiamento difficile, ma necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di intellettuale. Scrive in un Quaderno:  Bisogna sostituire IL LATINO e il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non è agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine didattico che da risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (e apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se istruttivo, cioè ricco di nozioni concrete.  MACHIAVELLI influenza fortemente la teoria dello stato di G. Marx, filosofo, storico, critico dell'economia politica e fondatore del materialismo storico Engels Lenin, Labriola, primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la principale caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto nesso fra la storia e la filosofia. Sorel — sindacalista che ha respinto il principio dell'inevitabilità del progresso storico. Pareto — economista e sociologo italiano (nato a Parigi di madre francese), noto per la sua teoria sull'interazione fra masse ed élite. CROCE — liberale italiano, filosofo anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da Gramsci a critica attenta e approfondita. Pensatori influenzati da G. Gramscianesimo. Zackie Achmat Eqbal Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio Angioni Michael Apple Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Bhabha, Gordon Brown Alberto Burgio, Butler Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky Cirese Costa Cox Benoist Biagio de Giovanni Martino, Eco Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin Eugene D. Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris Harman David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo Jaar Bob Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini, Pigliaru, Pira, Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward Saïd Ato Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson Giuseppe Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein Eric Wolf Howard Zinn. Gramsci al cinema e in televisione Il delitto Matteotti, regia di Vancini, G. I giorni del carcere, regia di Fra, G., regia di Maielloserie TV, G., film in forma di rosa, regia di Gabriele Morleocortometraggio, Gramsci, regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e terribile, regia di Maggioni, Perria e Laura Perini. G. nel teatro Compagno G., di Boggio e Cuomo, regia di Boggio, G. nella musica Quello lì (compagno Gramsci), canzone di Claudio Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita, Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung contenuta nell'album Pietre della mia gente Nino, canzone dei Gang contenuta nell'album Sangue e Cenere G., il teatro e la musica È nota la passione di G. per il teatro e per la musica, che si può leggere nelle lettere scritte a Tania. Egli ha scritto circa il melodrama “verdiano” che per lui segnava l’apertura dei teatri al pubblico, svolgendo una funzione conoscitiva, pedagogica e politica in senso generale. Per Gramsci l’opera diviene l’arte più popolare e i teatri aperti i luoghi dove si esercitava parte del conflitto politico.  Una frase quasi ironica di Gramsci da citare, per quanto riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia: “siccome il popolo non è letterato e di letteratura conosce solo il libretto d'opera ottocentesco, avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle sue lettere si può leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli sostiene che questa musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e aveva creato un vero fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione meridionale, in Lo Stato Operaio, Opere,  Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, premio Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I quaderni dal carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Croce (Torino, Einaudi); “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi, Il Risorgimento, Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno, Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato e presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti giovanili. Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, La costruzione del Partito comunista. Torino, Einaudi, L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1Americanismo e fordismo, Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, Ultimo discorso alla Camera. Padova, R. Guerrini, Antologia popolare degli scritti e delle lettere di Antonio Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Il Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, Note sulla situazione italiana, Milano, Rivista storica del socialismo, 2000 pagine di Gramsci Nel tempo della lotta. Milano, Il Saggiatore, Lettere edite e inedite. Milano, Il Saggiatore, Elementi di politica, Roma, Editori Riuniti, La formazione dell'uomo. Scritti di pedagogia, Roma, Editori Riuniti, Scritti politici La guerra, la rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, Roma, Editori Riuniti, Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita del Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, Il nuovo partito della classe operaia e il suo programma. La lotta contro il fascismo, Roma, Editori Riuniti, Scritti Milano, I quaderni de Il corpo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La nuova sinistra, Paolo Spriano, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, L'alternativa pedagogica, Firenze, La nuova Italia, I consigli e la critica operaia alla produzione, Milano, Servire il popolo, La lotta per l'edificazione del Partito comunista, Milano, Servire il popolo, Il pensiero di Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Il pensiero filosofico e storiografico di Antonio Gramsci, Palermo, Palumbo, Resoconto dei lavori del III congresso del P.C.D.I. (Lione), Milano, Cooperativa editrice distributrice proletaria, Scritti sul sindacato, Milano, Sapere, Aul fascismo, Roma, Editori Riuniti, Quaderni del carcere Quaderni, Torino, Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, Apparato critico, Torino, Einaudi, La rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton, Arte e folclore, Roma, Newton Compton, Scritti Inediti da Il Grido del Popolo e dall'Avanti. Con una antologia da Il Grido del Popolo, Milano, Moizzi, Ricordi politici e civili, Pavia,Scritti nella lotta. Dai consigli di fabbrica, alla fondazione del partito, al Congresso di Lione, Livorno, Edizioni G., Scritti sul sindacato, Roma, Nuove edizioni operaie, A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano,  I consigli di fabbrica, Milano, Amici della casa Gramsci di Ghilarza, Centro milanese, Favole di libertà, Firenze, Vallecchi, Scritti, Cronache torinesi. Torino, Einaudi, La città futura. Torino, Einaudi, Il nostro Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di SRAFFA (si veda), Roma, Editori Riuniti, Forse rimarrai lontana. Lettere a Iulca, Roma, Editori Riuniti,  Gramsci al confino di Ustica. Nelle lettere di Gramsci, di Berti e di Bordiga, Roma, Editori Riuniti, Le sue idee nel nostro tempo, Milano, l'Unità, Lettere dal carcere, con nuove lettere in parte inedite, Roma, l'Unità, Il rivoluzionario qualificato. Scritti, Roma, Delotti, Il giornalismo, Roma, Riuniti, Lettere, Torino, Einaudi, Per una preparazione ideologica di massa: introduzione al primo corso della scuola interna di partito, Napoli, Laboratorio politico, Scritti di economia politica, Bollati Boringhieri, Torino, Vita attraverso le lettere, Torino, Einaudi, Disgregazione sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, Piove, Governo ladro. Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori Riuniti, Contro la legge sulle associazioni segrete, Roma, Manifestolibri, Lettere, Torino, Einaudi, Le opere, Roma, Editori Riuniti, Critica letteraria e linguistica, Roma, Lithos, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma, Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano, Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione Sarda, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Antologia, Antonio A. Santucci, prefazione di Guido Liguori, Roma, Editori Riuniti university press,. Il teatro lancia bombe nei cervelli. Articoli, critiche, recensioni, F. Francione, Mimesis Edizioni. La taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione, NovaEuropa Edizioni,.Note  Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco Gramsci, Marmilla Cultura, International Gramsci Society, su international gramsci society.org.  Genealogia dei G., su albanianews.  Manias, Ma quando è nato G.?, Marmilla Cultura,  Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi, Marmilla Cultura, Così Gramsci ricordava con ironia l'episodio, nella lettera dal carcere alla cognata Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero risuscitato quando lei mi unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a una Madonna e perciò, quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi rimproverava aspramente, ricordando che alla Madonna dovevo la vita»  Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque doveva anche accudire alla casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito rinunziando al sonno». Così ricordava quegli anni la sorella Teresina Gramsci, in Fiori, Lettera a Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non eccedere nelle sue preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera prosegue infatti: Ho conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male  Lettera a Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al padre:  gli scrive di essere «proprio indecente con questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi non sono andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, che «per non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni interi»  Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato in G., Scritti politici  G., Dizionario di Storia, Treccani  [«io pensavo allora che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale della regione: "Al mare i continentali". Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Cfr. G., lettera a Schucht, in A. Gramsci, Lettere. Gramsci e l'isola laboratorio, La Nuova Sardegna  G. Lettere. Progettando, in carcere, uno studio di linguistica comparata, mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla cognata Tatiana, ricorda come «uno dei maggiori rimorsi intellettuali della mia vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell'Torino, il quale è persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare definitivamente i neo-grammatici della linguistica. Tuttavia già l'economista Sen avanza l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal carcere. In G. and Wittgenstein: an intriguing connection, Pipero aggiunge nuovi elementi che dimostrano il collegamento fra G. e Wittgenstein TRAMITE SRAFFA. Infatti il filosofo viennese venne a conoscenza di un quaderno, grazie proprio al suo amico SRAFFA (si veda) che conosce a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa G. ricorda ancora un simpatico e patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a causa di quell'articolo che fa piangere come un bambino e stette chiuso in casa il Cosmo per alcuni giorni, essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a Berlino, dove il professore è segretario. Il Cosmo mi si precipita addosso, inondandomi di lacrime e di barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché! Tu capisci perché! È in preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fa capire quanto dolore gli avessi procurato e come egli intende l'amicizia per i suoi allievi di scuola. Lettera dal carcere a Schucht  In Fiori, In G. Scritti politici, Davico.  Lettera dal carcere a Schucht Lettera dal carcere a Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note sulla rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in G.,  I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano, La rivoluzione contro il Capitale, nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva a Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere salvata dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici. Per salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze vive del paese nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento, allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso della lettera alla Zasulič, che G. all'epoca non poteva conoscerne il contenuto. Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, G., Ordine Nuovo, G., ibidem  Corriere della Sera, Archivio Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen. PS, Ordine Nuovo, in Scritti politici, Concluso con un ordine del giorno che prospettava la conquista violenta del potere e la dittatura del proletariato  Per un rinnovamento del Partito socialista, ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Lenin, nel suo discorso all'Internazionale Comunista, invitando a espellere dal partito socialista l'ala destra riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista corrisponde l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo parlamentare». Lenin, Opere, Ordine Nuovo, in Scritti politici, GRAMSCI La sposa mandata da Lenin  Lettera, in G., Lettere Lettera dal carcere. Un profilo di Antonio Gramsci junior, su channelingstudio.ru.  Su alcune note di uno sconosciuto bolscevico Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere a conoscenza di un tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte di Nitti in accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche la conoscenza tra Gramsci e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin in persona: cfr. Link archivio del Corriere  Amendola,  In Togliatti, In Togliatti, Lettera di G. a  Schucht,  Lettera a Schucht, La crisi italiana, ne L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, Camera dei Deputati, legislatura del Regno d'Italia, Capo, in L'Ordine Nuovo, pubblicato successivamente col titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, Capo, ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Anche alle autorità francesi fu nascosto lo svolgimento del Congresso. Sul III CongressoSpriano, Storia del Partito comunista italiano, Spriano, Spriano,  Spriano, Spriano, G., Tesi di Lione, Lione, Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti,  «Alcuni temi della quistione meridionale». Stato operaio,  Citato in Rosario Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale, Roma-Bari, Laterza, Antonio Gramsci, Cinque anni di vita del partito, L'Unità,  Fiori, Spriano, Lepre, Il prigioniero. Vita di G., Editori Laterza, Bari, La lettera, non datata, si ritiene sfu pubblicata per la prima volta in Francia da Tasca. Su tutta la questione della lotta interna nel partito comunista sovietico di questo periodo Spriano, cit., II, ca 3 e 5  G., Lettere Lettera di Togliatti a Gramsci, Commissione di assegnazione al confino di Roma, ordinanza contro G. (“Dirigenti e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini, L'Italia al confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori,  In Fiori, Sentenza contro G. e altri (“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione, istigazione alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di consiglio emesse dal TRIBUNALE SPECIALE FASCISTA contro gli imputati di ANTI-FASCISMO, Milano (ANPPIA/La Pietra),  Amendola142.  Spriano, Lettera a Tatiana Schucht, Fiori, Fiori,  Fiori, Risoluzione per l'espulsione di Amedeo Bordiga  Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit.  Dalla biografia di Pertini pubblicata dal Circolo Pertini di Genova. Chiesi al maresciallo dei carabinieri che comandava la scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi fece il nome di Turi me ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei incontrato G., un uomo che ho sempre ammirato per il suo coraggio. A Turi incontro G. in un angolo del cortile dove coltiva un'aiuola di fiori. È piccolo di statura e con due gobbe: una davanti ed una di dietro. Mi avvicina a lui, mi presento, gli affermo che vengo da Santo Stefano e che sono onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo del lei e lo chiam0 Onorevole G. Lui si mette a ridere, dicendomi, Perché mi dai del lei? Siamo ANTI-FASCISTI, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io gli ricordo che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Dice di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parla di TURATI e TREVES in maniera che mi sembra offensiva ed io rispondo con durezza. Il giorno dopo si scusa, dicendo che il suo è un giudizio politico, non ha intenzione di offendere le persone, e capisce la mia reazione in favore di due compagni che si trovavano in Francia. DA ALLORA DIVENTAMMO BUONI AMICI. Parlamo a lungo insieme anche perché è stato isolato dai suoi. Per certi versi costoro lo considerano un traditore e chiedeno la sua ESPULSIONE DEL PARTITO, come poi fecero anche con Ravera. In cella G. è perseguitato dai carcerieri. L’ordine di NON LASCIARLO DORMIRE arriva direttamente da Roma. Io ando dal direttore del carcere a protestare perché i carcerieri, OGNI VOLTA CHE G. SI ADDORMENTA, lo svegliano facendo scorrere sulle sbarre della finestra dei bastoni, con la scusa di controllare che le sbarre non fossero state segate per un'evasione. Dico al direttore che se la situazione non cambia, avrei scritto una lettera al ministero. Il risultato è che G., GIÀ GRAVEMENTE MALATO DI TUBERCULOSI PUO DORMIRE TRANQUILLO. Le mie proteste costrinsero il direttore del carcere di Turi a concedere a G. anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una sedia. Così poterono nascere I QUADERNI dal carcere. La mia amicizia mi mette in contrasto con il direttore del carcere e forse non è estraneo al mio trasferimento a Pianosa. Lettera a Schucht, Lettera a Schucht, Cominciò a circolare la voce secondo la quale G. in punto di morte si sarebbe convertito alla fede cattolica. Tale affermazione venne però ritrattata dallo stesso religioso che l’ha inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto della smentita l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le chiare argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu riproposta da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di prove testimoniali, la teoria della conversione di G. non è mai stata avvalorata dagli storici. Cfr. S.Fio., G. e il sacerdote pentito, La Repubblica, Il Vaticano: G. trova la fede, Il Corriere della Sera, Daniele, Togliatti editore di G., Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento, Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di CROCE Quaderni del carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana,  Cirese, Baratta, Giulio Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Note su MACHIAVELI, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Quaderni del carcere, cLetteratura e vita nazionale, Il materialismo storico e la filosofia di Croce, Rosiello, Problemi e orientamenti linguistici nei saggi di G., Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A. Gramsci, V. Gerratana, Torino, Einaudi, G., Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, Gramsci, Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, G., Quaderni del carcere, Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', Gerratana, Torino, Einaudi, Rosiello, LINGUA nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone, Leonardo, Cinque anni che paiono secoli: Gramsci dal socialismo al comunismo, 1a ed, Carocci,,  Fonzo, Bosi, Antonio Gramsci, su scuolalo divecchio. giovannicarpinelli, Gramsci e la musica, su Palomar, La passione sconosciuta di Gramsci per la musica, in L’Huffington Post. Premio letterario Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Bari, Laterza, Angioni, G. e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Aqueci, Il G. di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento AGON, Rivista Internazionale di Studi Culturali, Linguistici e Letterari, Aqueci, Ancora G. [cf. Speranza, “Ancora Grice”], Roma, Aracne, Auciello, Socialismo ed egemonia in G. e Togliatti, Bari, De Donato, Badaloni e altri, Attualità di G., Milano, Il Saggiatore, Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Roma, Carocci, BOBBIO (si veda), Saggi su G., Milano, Feltrinelli, Calamandrei e Calogero, La conoscenza di G. in Inghilterra. Una lettera di Calogero e una nota di Calamandrei, L'Unità, Canali, Il tradimento. G., Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio, Carrannante, Sull'uso di 'galantuomo' in G., Studi novecenteschi,  Carrannante, G. e i problemi della LINGUA ITALIANA, in "Belfagor",   Chambers, Esercizi di potere. G., Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Clementi, Le ceneri di G in Stalinismo e grande terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino, Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia Stato partito in G., Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, G. Una nuova biografia, Torino, Einaudi,. Dubla, Giusto (cur.), Il G. di Turi, Testimonianze dal carcere, Chimienti editore, Michele Filippini, G. globale. Guida pratica agli usi di Gramsci nel mondo, Bologna, Odoya,. Fiori, Vita di G., Bari, Laterza, Fiori, G. Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio Fonzo, Il mondo antico negli scritti di G., Salerno, Paguro, GARIN, Con G., Roma, Editori Riuniti, Valentino Gerratana, G. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, G. nel cieco carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, G. jr., La storia di una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. GRUPPI (si veda), Il concetto di EGEMONIA in G., Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, Roma-Bari, Laterza, Lepre, Il prigioniero. Vita di G., Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, Piparo, “I due carceri di G.”, Donzelli, Roma, LOSURDO (si veda), G.. Dal liberalismo al comunismo critico, Roma, Gamberetti, Manacorda, Il principio educativo in G.. Americanismo e conformismo, Roma, Riuniti, Michele Martelli, G filosofo della politica, Milano, Unicopli, MONDOLFO, Da ARDIGÒ a G., Milano, Nuova Accademia, Mordenti, G. e la rivoluzione necessaria, Roma, Riuniti, Onnis e Mureddu, Illustres. Vita, morte e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi, G. e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, Gramsci. Questione sociale e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, G. e il blocco storico, Bari, Laterza, Rapone, Cinque anni che paiono secoli. G. dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, G. tra MUSSOLINI e Stalin, Roma, Fazi, Angelo Rossi, G. da eretico a ICONA. Storia di un cazzotto nell'occhio, Napoli, Guida editore, Rossi, G. in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida editore, Santhià, Con G. all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, SANTUCCI, G.. Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Torino, Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I, Torino, Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,II, Torino, Einaudi, Spriano, G. e GOBETTI. Introduzione alla vita e alle opere, Torino, Einaudi, Spriano, G. in carcere e il partito, Roma, Riuniti, Stamboulis, Costantini, Cena con Gramsci, Padova, Becco Giallo, Tamburrano, G.: la vita, il pensiero e l'azione, Bari-Perugia, Lacaita, Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano Roma, Riuniti, Togliatti, Scritti su G., Roma, Editori Riuniti, Vacca, G. e Togliatti, Roma, Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo Gramsci a Ghilarza, Fondazione Istituto G. Antonio Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When Austin speaks of ‘ordinary language,’ he knows what he is talking about; when Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they don’t!” -- Grice: “Elites are so relative; when I came to Oxford, I was regarded as a ‘Midlands scholarship boy’ and thus assigned Corpus; there was no way I would socialise with Hampshire, Austin, and the others who were philososophising at All Souls on Thursday evenings – I had just been born on the wrong side of the track. So it was particularly obtuse for me when Gellner started to criticise me as elitist! Perhaps he had read too much Gramsci!?” Gramsci. Keywords: “Grice, elite” egemonia della filosofia del linguaggio ordinario – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grataroli: filosofia lombarda – filosofia bergamesca – scuola di Bergamo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo). Filosofo italiano. Filosofo lombardo. Filosofo bergamesco. Bergamo, Lombardia.  Bergamo, Basilea è stato un medico e filosofo italiano. Ritratto di G. dalla biografia di Gallicciolli G. nacque a Bergamo, in una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana con la città di Venezia. Questa, originaria del borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a possedere gran parte della contrada e dei terreni circostanti (tra cui anche l'edificio che attualmente ospita la casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi membri una folta schiera di medici (al tempo chiamati "phisici"), tra i quali si segnalarono Simone, fondatore del collegio dei medici di Bergamo, e Pellegrino, medico presso la città orobica, rispettivamente nonno e padre di Guglielmo. Gli studi di G. sono quindi indirizzati fin dall'inizio verso l'arte esercitata dal padre, che lo educa e lo indirizza allo studio della stessa. Proseguì quindi gli studi a Padova presso la locale facoltà di medicina, dove si laurea e vi assunse la cattedra. Nella città veneta, oltre a pubblicare la sua prima opera, una piccola dispensa inerente osservazioni sul mondo della natura, entra in contatto con studenti e docenti provenienti da ogni parte d'Europa, venendo contagiato dalle dottrine religiose predicate da Lutero e Calvino.  Si dedica quindi alla professione esercitando prima a Milano e poi a Bergamo dove si iscrive al locale ordine dei medici. Dopo aver pubblicamente manifestato le proprie idee in ambito religioso, che stridevano non poco con il pensiero cattolico e che si avvicinavano notevolmente a quelle proprie della riforma protestante, si dedicò attivamente ad un gruppo eterodosso, del quale prese la guida in seguito all'arresto, con l'accusa di eresia, di Pesenti, il precedente reggente. Anch'egli venne più volte redarguito dalle gerarchie cattoliche e costretto a comparire davanti ai tribunali ecclesiastici di Bergamo e Milano. Questi lo invitarono a ritrattare tutte le sue affermazioni considerate eretiche tanto da costringerlo ad abiurare. Non rinunciando alle proprie idee, fu nuovamente sottoposto al giudizio dell'autorità canonica.  Il degenerare della situazione lo obbliga a fuggire dalla città, riparando a Tirano nel Canton Grigioni, dove dichiarò di non riconoscere l'autorità dell'inquisizione. Qui trovò ospitalità da esponenti della nobiltà locale presso i quali ebbe la possibilità di insegnare e praticare la propria disciplina.  Nel frattempo il tribunale ecclesiastico di Bergamo lo dichiara, in contumacia, eretico colpevole di  aver molto straparlato de le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la autorità del papa... negare il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti, la venerazione dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia heretico pertinace et scandaloso et infame peste contra la fede vietandogli il ritorno nella città orobica, pena la decapitazione ed il rogo, ponendo sulla sua testa una somma pari a cinquecento lire e confiscando tutti i beni suoi e della moglie, nel frattempo rimasta in città. G. comincia quindi a spostarsi in numerose città d'Europa, tutte poste in ambienti riformati. Si stabilì prima a Strasburgo ed in seguito a Basilea, città nella quale ebbe modo sia di praticare medicina (salvando la vita, tra gli altri, a Cardano), che di assumere la cattedra nella locale università, presso l'ingresso della quale ancor oggi è presente un suo busto che ne testimonia l'importanza ricoperta.  Muore in terra elvetica, che nel frattempo era diventata la sua nuova patria. Le sue teorie, che gli valsero la fama di medico e scienziato tra i più illustri dell'Europa, toccano numerosi punti in ambito filosofico e medico. Noti sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della memoria, sulle epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia, disciplina abbondantemente sviluppata da Paracelso, che insegnò nell'università di Basilea soltanto qualche anno prima di G..  Si segnala nel medesimo ateneo sia per le ricerche che per gli elaborati sulla teoria fisiognomica, in seguito sviluppata da Lombroso. Menzionato anche in poesie del conterraneo Calvi, scrive varii saggi filosofici. Tra le altre si segnalano argomentazioni sulle dottrine del medico greco Galeno di Pergamo e del filosofo ed umanista POMPONAZZI (si veda), consigli medici per letterati e magistrati, ma anche indicazioni sia per il mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché un saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai viaggiatori di quel tempo. Saggi: De memoria reparanda, augenda ser-vandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel peditum, vel navi, vel curru, seu rheda. Turba Philosophorum. De literatorum et eorum qui magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque valetitudine compendium, Pietro Perna, Basilea, Veræ alchemiæ artisque metallicae, citra aenigmata, doctrina, certusque, Pietro Perna, Basilea, De fato, libero arbitrio et providentia Dei Pietro Perna, Basilea Alchemiae, quam vocant, artisque metallicae, doctrina, certusque modus Pietro Perna, Basilea, De balneis, Bergamo, Della vita degli studi e degli scritti di G. Quaderni brembani Storia di Milano Caroli, Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a Freud Meriggi e Pastore Le regole dei mestieri e delle professioni Castoldi (coordinamento di), Bergamo ed il suo territorio. Dizionario enciclopedico, Bergamo, Bolis eGallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di G. filosofo e medico, Bergamo, Stamperia Locatelli, Meriggi, Le regole dei mestieri e delle professioni: Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, Bottani e Wanda Taufer, Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento, Ferrari Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Napoli, Nella Stamperia de' classici, Maclean, Ian. "Heterodoxy in Natural Philosophy and Medicine: Pietro Pomponazzi, Guglielmo Gratarolo, Girolamo Cardano," in Heterodoxy in Early Modern Science and Religion, edited by John Brooke and Ian Maclean. Oxford. Voci correlate Fisiognomica Mnemotecnica Peste Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Alessandro Pastore, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Opere su MLOL, Horizons Unlimited. Opere su Open Library, Internet Archive. Portale Biografie   Portale Filosofia   Portale Medicina Categorie: Medici italiani Filosofi italiani Medici Nati a Bergamo Morti a Basilea Scienziati italiani [altre]. Grataroli  in  sospetto  di  ave-  re abiurata  la  fede  Ortodossa  ,  e  divenuto  reo  presso  i  sacri  Inquisitori  del  Santo  Of-  fizio  P  vedendosi  vicino  ad  essere  carcera-  to, siccome  ben  si  meritava,  prese  il  par.-  tiro  di  fuggirsene  ,  e  mendico  si  trasferì  nella  Rezia  »  .  Ma  salva  la  stima  e  la  ve-  nerazione ,  che  si  deve  alF  autorità  di  cosi  riputati  Istorici ,  esigge  V  amor  del  vero  >  che  io  faccia  riflettere  a  miei  lettori ,  che  siccome  nessuno  de'  medesimi  ha  citato  ve-  run  documento  in  prova  di  quanto  hanno  riferito ,    così    io  non  sono    tenuto  a   con-    formarmi  alle  loro  asserzioni,  e  specialmen-  te  a  quelle  del  Papadopoli ,  perchè  secon-  do che  lo  stesso  scrive  (22),  il  Vermilli  abbandonò  Padova  Tanno  1527.,  tempo  nel  quale  il  Grataroli  non  solo  per  anco  era  stato  in  quella  Città ,  ma  di  piti  non  contava  allora  se  non  Y  undecimo  anno  di  sua  età .  Prescindendo  adunque  dall'  auto-  rità dei  nominati  scrittori  sulla  condotta  del  Grataroli ,  sono  d'  opinione  ,  che  non  abbia  giammai  abiurato  la  cattolica  religio-  ne ,    che  mai  abbia  scritto  proposizioni  contrarie  alle  dottrine  della  medesima;  ben-  sì varie  circostanze  di  sua  vita  ,  ed  in  oltre  quanto  hanno  scritto  di  lui  parecchi  oltramontani ,  possano  cagionare  gravissimi  sospetti  che  ancor  esso  sia  sortito  dall'  Ita-  lia per  motivo  di  religione  .  Ma  certa  co-  vi ò  che  qualora  fosse  stato  gravemente  sospetto  di  errori  contro  la  nostra  Santa  Cattolica  Chiesa  ,  e  molto  più  disseminato-  re palesemente  di  quelli  di  Lutero  e  de'  Sacramcntarj  ,  non  sarebbe  stato  aggregato  al  Collegio  de' Medici  dalla  sua  patria,  non  averebbe  potuto  vivere  sicuro  e  tranquillo  in  Bergamo  per  lo  spazio  di  undici  anni  ->  quanti  ne  scorsero  dall'  anno  della  sua  ag-  gregazione pìV  almo  Collegio  de'  Medici  si-    no  all' anno  1550.^  in  cui  sortì  d'Italia;  essendo  senza  alcun  dubbio  il  sacro  Tribu-  nale della  Santa  Inquisizione  in  quel  tem-  po vigilantissimo,  e  la  nazione  Bergamasca  zelantissima  essendo  stata  in  qualunque  tem-  po dei  santissimi  Dogmi  della  Chiesa  Ro-  mana .  Di  più  ciò  ,  che  deve  maggiormen-  te convincere  i  miei  lettori,  che  il  nostro  Gii-  lielmo  non  abbia  abbiurata  la  sua  religio-  ne •  pubicamente ,  si  è  il  leggersi  nella  Dedicatoria  dell'  altre  volte  citato  libro  (23)  »  Re  girne  n  Omnium  iter  agentium  »  questa  protesta  »  :  riguardo  alla  mia  per-  sona P  che  mi  trovo  profugo  >  e  lontano  dalla  mia  patria ,  dalla  quale  sono  più  di  dieci  anni ,  che  per  la  Dio  mercè  mi  tro-  vo absente  per  puro  amore  della  verità ,  e  della  giustizia  »:  dunque  non  per  abbiu-  rare  la  religione  ;  che  anzi  sulla  fine  della  medesima  Dedicatoria  dopo  di  avere  nar-  rato che  ancora  la  famiglia  del  Principe  suo  mecenate  si  era  già  da  un  secolo  stabi-  lita in  Germania  ,  ed  abbandonata  V  Italia  ,  fa  il  seguente  voto  »:  voglia  però  il  poten-  te e  giustissimo  Dio^  che  per  la  maggior  sua  gloria  ,  se  così  piacerà  anche  a  sua  Divina  Maestà  un  giorno  si  possano  rivedere  le  nostre  patrie  -(24),  Oltre  di  che    12   niente  si  trova  negli  scritti  del  Grataroìi  ,  che  lo  dimostri  o  seguace  degli  errori  che  infierivano  in  quello  sfortunato  secolo  ,  o  contrario  a  verun  dogma  Cattolico  Roma-  no  ;  anzi  air  opposto  posso  con  ragione  dedurre  dalla  Prefazione  premessa  dal  me-  desimo nel  principio  della  seconda  edi-  zione del  suo  libro  De  Incantationibus  di  Pietro  Pomponacio  (25)  che  egli  per  io  meno  sino  air  anno  1567.,  cioè  a  di-  re sino  al  penultimo  della  sua  vita  si  con-  servasse ,  e  si  pregiasse  di  vivere  attacca-  rissimo  alla  religione  Ortodossa:  poiché  ec«  co  la  sua  dichiarazione  (26)  »  ivi  ,  co-  si parla  de'  suoi  commenti  ai  libri  di  Poni-  jxmacio ,  si  spiegano  secondo  le  più  sane  dottrine  della  Fede  Cattolica  varj  dei  più  difficili  capi  e  quistioni  di  Teologia  e  di  Filosofia ,  e  da  per  tutto  vengono  illustra-  te da  molti  diversi  tratti  d'  Istoria  dall'  Autore  ,  il  quale  si  sottomette  intieramen-  te al  giudizio  delle  Scritture  Canoniche  e  elei  Santi  Dottori  ».  Ora  come  mai  dopo  una  cosi  pubblica  protesta  e  dichiarazione,  si  deve  scrivere,  che  il  Grataroìi  abbia  ab-  bi arato  il  Catolicismo  ,  e  professata  la  re-  ne  Protestante,  Ma  quella  poi  che  so-  vra ogni    altra  ragione  mi    fa    credere    ohe    f;li  sopracittati  scrittori  abbiano  preso  sba-  glio ,  si  è  che  il  Padre  Donato  Calvi ,  ai-  tretanto  religiosissimo  quanto  minutissimo  compilatore  della  Storia  di  Bergamo  e  del-  la maggior  parte  degli  Uomini  di  lettere  Bergamaschi  nella  sua  Scena  Letteraria  (27),  e  nelle  sue  Effemeridi,  (28)  avendo  diffusamente  parlato  con  molta  lode  della  vita  e  delle  opere  di  questo  eccellente  Me-  dico ,  e  Filosofo  ,  non  scrive  che  per  ab-  biurare  la  religione  abbia  abbandonata  la  sua  patria  ;  anzi  ne  parla  in  modo  ,  dan-  do moltissimi  encomj  anche  alle  sue  virtù  morali,  che  non  lascia  alcun  luogo  di  du-  bitare ,  che  creduto  non  Io  abbia  Cattoli.  co,  e  che  avesse  il  menomo  sospetto,  che  si  fosse  portato  in  Germania  per  professa-  rvi T  eresia:  perchè  ecco  come  dice:  »  Non  si  ponno  di  questo  virtuoso  descrivere  le  azioni  senza  levarsi  dalla  strada  battuta  del-  le dozzinali  lodi  »  .  Quando  air  opposto  di  parecchi  altri  ,  quantunque  dottissimi  Letterati ,  tra'  quali  Girolamo  Zanchi  ,  che  avendo  per  loro  infelice  sorte  abbandona-  ta la  Romana  Cattolica  Religione  per  pro-  fessare tra"*  Luterani  la  pretesa  riforma  ,  non  solo  non  ne  ha  fatti  gli  Elogi,  sicco-  me kcc  del  Grataroli,  ma  neppure  ha  vo-  l    34   luto  registrare  i  loro  nomi  nelle  sue  Ope-  re .    la  pia  e  religiosa  penna  del  colto  Poeta  Antonio  Tirabosco  (29)  Dottore  di  Sacra  Teologia  ^  e  Rettore  titolato  di  S.  Michele  dell'Arco  averebbe  scritto  ed  uni-  to all'  elogio  del  Grataroli  composto  dal  Padre  Donato  Calvi  il  leggiadro  Sonetto  ,  quantunque  lo  stile  del  medesimo  sia  se-  condo il  genio  del  suo  secolo  ,  che  in-  comincia :   »  Questa  tomba  non  è  funesto  avello  »  Conviene  però  altresì  confessare ,  che  la  sua  improvvisa  partenza  dalT  Italia  ,  il  suo  stabilimento  nelle  Città  infette  d'  eresia  ,  il  commercio  epistolare  che  mantenne  con  Girolamo  Zanchi  ,  e  con  Teodoro  Beza  ,  ed  ugualmente  con  molti  altri  de*'  più  fa-  natici novatori  di  que' tempi,  come  si  rac-  coglierà nel  progresso  di  questa  vita  ,  ed  il  latte  infetto  succhiato  nella  sua  fresca  età  nello  studio  di  Padova ,  abbiano  dato  motivo  di  giudicare,  che  facilmente  si  fos-  se accomodato  ancor  esso  a  pensare  e  par-  lare ,  siccome  facevano  tutti  quelli,  i  qua-  li nel  suo  secolo  desideravano  d'  essere  ri-  putati sublimi  e  peregrini  ingegni ,  e  che  però  presso  gli  imperiti  zelanti ,  e  gli  in-  vidiosi   de' suoi    talenti,   e  del    suo    sapere    35   cadesse  in  grave  sospetto  che  avesse  solen-  nemente abbiurata  la  Cattolica  religione  ,  e  pubblicamente  professata  la  protestante;  e  questo  sia  stato  il  vero  motivo ,  che  lo  constringesse  a  ricoverarsi  in  Germania    Non  voglio  in  oltre  ommettere  un'  altra  ragione,  che  hanno  tutti  quelli  che  preten-  dono ,  che  il  Grataroli  abbia  abbandonata  la  patria  per  motivo  di  religione ,  senza  però  che  abbiano  dimostrato  ,  che  egli  giammai  insegnasse  errori,  o  abbracciasse  la  setta  di  qualche  eresiarca  ,  sebbene  lo  sup-  pongano li  sopraccittati  scrittori  .  Questa  nuova  ragione  è  perchè  Girolamo  Zanchi  scrive  quanto  segue  a  Giusto  Voltejo  (30):  »  Mi  congratulo  con  voi  della  pace  ,  e  del-  la concordia  ,  che  tranquillamente  godete  ,  e  che  al  numero  degli  ottimi  e  dottissimi  Uomini ,  di  cui  abbonda  la  vostra  scuola  abbiate  aggiunto  il  veramente  pio  e  vera-  mente dotto  Medico  Gulielmo  Grataroli  .  Spero  che  ancor  esso  sia  per  diportarsi  presso  di  voi  in  modo  che  non  abbiate  da  pentirvi  di  averlo  costì  chiamato ,  e  che  voi  altresì  siate  per  trattarlo  in  guisa,  che  non  abbia  giammai  di  lagnarsi  di  esservi  venuto  .  Nella  mia ,  e  sua  patria  era  tenu-  to  in   molta  stima    e  venerazione ,   ed    era    3*   molto  ricco  .  Il  zelo  soltanto  per  la  pietà  e  per  la  religione  lo  rese  povero  in  mo-  do j  che  ultimamente  gli  è  stata  confiscata  persino  la  dote  alla  di  lui  moglie  ,  che  ascendeva  a  coronati  ottocento,  unicamen-  te perchè  volle  seguire  il  marito  e  la  sua  religione  .  Non  dubito  pertanto  ,  che  se  vi  sta  a  cuore  la  pietà'  e  la  virtù  ,  vi  sa-  rà carissimo  questo  uomo  illustre    per  la  pietà,  che  per  la  virtù.  State  sano  ».  Ad  ogni  modo  mi  confermo  maggiormente  ,  che  non  abbia  abbandonata  la  patria  per  abbiurare  la  religione  ,  mentre  non  poteva  essere  malcontento  della  medesima  5*  poiché  era  molto  onorato  ed  assai  stimato,  goden-  do tutte  le  comodità  possibili ,  ritrovando-  si molto  ricco  e  bene  accasato  con  una  moglie  virtuosa  ed  amorosa  ,  che  con  ra-  ro esempio  volle  seguirlo  in  Germania  col  sacrifizio  di  quanto  possedeva  .  Si  è  vedu-  to chiaramente  da  quanto  ne  scrive  il  Zanchi  nella  riferita  lettera,  in  grazia  del-  la quale  giacche  si  è  dovuto  rapportare  Y  azione  virtuosa  della  leale  compagna  di  Gu-  lielmo  .  Diro  adesso  ,  che  questa  era  Bar-  bara Nicosi  :  ma  il  tempo  in  cui  avesse  seco  contratto  matrimonio  ,  e  la  Città  nel-  la quale  fosse  nata,, per  quante  ricerche  ab-    37   bia  usate  non  mi  è  riuscito  di  averne  preci-  sa notizia  «  Non   posso   affermare  con  sicu-  rezza   in    quale    Città    della  Germania    siasi  primieramente     ricoverato     appena     sortito  dair  Italia  :    nulla  di    meno    potrei    credere  che  la  risoluzione  presa  di  abbandonare  la  patria    sia    nata    nel    Grataroli     unicamente  per  quel  genio    che    hanno  tutti  i  letterati  per  la  quiete  e  per  la   tranquillità  ;  e  que-  ste non  poteva  sicuramente  godere  in  nes-  suna   parte    dell'  Italia  ,    perchè    era  piena  di  confusione  e  di  disordini  cagionati  dal-  le   passate    guerre  ,    dalie    innovazioni     de*  governi  ,  e    per  la    vigilanza     e    timori  in  cui     viveva    la  Corte    di    Roma  ,    accioc-  ché   non    s'  introducessero    in     queste     no-  stre   parti  gli  errori    di  Lutero  e    le  oltra-  montane    opinioni  %     siccome     ne    parlano  tutte    le     Istorie  di     quel  secolo      Essendo  in  quel  tempo  le    Città    della   Rezia    libe-  re   dalle    guerre     e     da'  stranieri    governi  ^  godevano  tanta  pace  e  sicurezza,  che  sem-  bravano divenute  V  asilo  di  tutti  i  più  ar-  diti   genj    amanti    di  pensare    e  di    parlare  con    libertà    Così    Guglielmo  sedotto    dair  esempio  di  parecchi  suoi  amici  e  conoscen-  ti ,  forse    per  questa    unica   ragione  ^    avrà  abbandonata  la  patria  ,   indirizzando  i  suoi       passi  in  quelle  parti .  Tanto  più  che  rile-  vo aver  sempre  conservata  una  costante  amicizia  ed  una  continuata  corrispondenza  con  Girolamo  Zanchi  sino  dalla  sua  prima  gioventù,  e  ritrovo  una  lettera  nelle  opere  dello  stesso  Zanchi  allora  dimorante  in  Mar-  purgo  ,  nella  quale  parla  del  Grataroli  di  fresco  arrivato  in  Germania.  Con  questo  fondamento ,  posso  stabilire  ,  che  il  primo  piede  T  abbia  posto  in  Argentina ,  e  colà  fosse  raccomandato  dal  Zanchi  a  Giovanni  Garnero  pubblico  Professore  in  quella  Uni-  versità ,  mentre  nella  detta  lettera  ,  che  quasi  intiera  dal  latino  ho  tradotto  ,  per-  chè rara  ,  perchè  interessante  per  le  noti-  zie che  in  essa  si  leggono  ,  e  perchè  fa  egualmente  onore  al  buon  animo  dello  Zanchi,  ed  alle  virtù  del  Grataroli,  si  leg-  ge: (31)  »  Ecco  finalmente,  carissimo  com-  pare ,  che  se  ne  giunge  presso  di  voi  il  tanto  desiderato  non  dirò  mio  ,  ma  piut-  tosto vostro  Gulielmo  Grataroli ,  personag-  gio veramente  ,  siccome  in  fatti  non  du-  bito che  lo  troverete  ,  in  materia  di  reli-  gione purissimo  ed  irreprensibile  ,  e  nello  stesso  tempo  nella  medica  scienza  eccellen-  tissimo .  Voi  ben  vi  rammentare  te  ,  come  allorché    avevo  la    bella   sorte    di  trovarmi    39   presso  di  voi,  non  cessava  di  commendar-  lo ,  e    che   ve  lo    raccomandava    appunto  per  coteste  due  sue  doti  e  singolari  virtù.  Non  dubito  punto,  e  sono  pieno  di  fidu-  cia ,  che  tosto  che  Y  averete  veduto ,  con-  correrete con  tutti  i  vostri  voti  ad  appro-  vare   gli   encomj    giustamente  al    medesimo  tributati.  Egli    è    a  dire    il    vero    piuttosto  bruno  e  fosco    di  colore  e  di    capelli  ;  ma  lo  sperimenterete  in  tutto  ,    ne   suoi  di-  scorsi ,  che  nelle  sue  azioni  ed  affari  can-  didissimo ,  onesto  e  sincero ,    in  guisa  che  sovente  a  cagione   di   tale  troppo  suo  sin-  cero carattere  incontra   Y  odiosità  e   la  di-  sapprovazione degli  uomini  di  corta  pene-  trazione e    di  poca  esperienza  del  mondo  .  Voi  stesso ,  Compare  carissimo  ,  vi  trovate  in    un    consimile    ruolo  ;    e   per   verità  ciò  non  ostante ,  conforme  voi    medesimo  ave-  te imparato  dall'  uso  e  dalla  esperienza  ,  è  necessario ,    o  per   lo  meno    giova  più  nei  giornalieri  nostri  discorsi  e  conversazioni  sa-  per dissimulare  e   serbare  le  nostre  giusti-  ficazioni   a    tempo  e    luogo    più    commodo  e  più  opportuno,  non  essendo  tutti  gli  uo-  mini dotati  dello  stesso  candore,  della  stes-  sa onoratezza  ,   e    della  medesima  probità  #  Sarà  dunque    vostrp   impegno  adesso  ,  ve-      neratissimo  Compare,  giacché  avete  per  cosi  lungo  tempo  costì  dimorato ,  e  che  avere  conosciuto  i  costumi  ed  il  naturale  di  tat-  ti assai  meglio  di  questo  Medico  ,  istruirlo  e  diriggerlo  come  debba  condursi  cok  tut-  ti, conforme  avete  usato  con  esso  meco,  al-  lorché giunsi  in  Argentina  :  sostenere  ,  di-  fendere il  di  lui  onore  ed  estimazione ,  e  prestargli  ogni  buon  servigio,  come  si  con-  viene dall'  amico  air  amico  ,  e  dal  fratello  al  fratello .  Mi  e  nota  la  vostra  pietà  ,  so  quale  sia  il  vostro  amore  per  i  vostri  si-  mili :  conosco  quale  sia  il  candore  dell'  animo  vostro:  so  in  fine,  ed  ho  sperimen-  tato quanto  sia  grande  la  vostra  benefi-  cenza verso  tutto  il  mondo  .  E  però  non  dubito  che  voi  non  siate  per  giovare  ai  Grataroli  assai  più  di  quello  eh'  io  non  saprei  da  voi  ricercare    Concedetemi  che  io  vi  rammemori  ,  che  mentre  si  trovava  ancora  in  Francia  Pietro  Vermilli  ,  appena  ricevette  le  mie  commendatizie  presso  il  Beza  a  vostro  favore  ,  (  che  effettivamen-  te molto  aggradì  quanto  di  voi  scrivevo  in  vostra  lode  ),  vi  fece  ogni  buon  ac-  coglimento e  buon  trattamento ,  e  si  con-  solo di  aver  scoperto  •>  che  tutto  ciò ,  si  era  sparso  contro  la  vostra  persona  %  erano    4i   prette  calunnie;  e  non  dubito  che  se  non  vi  hanno  ancora  invitato  ->  presto  non  sia-  no per  invitarvi  ,  perchè  abbisognano  di  soggetti  di  merito  simili  a  voi  » .  Dopo  di-  verse altre  materie  ,  che  non  appartengo-  no a  Gulielmo  ,  così  termina  questa  lette-  ra »  Averete  nuove  del  mio  stato  ,  e  di  questa  Città  dal  nostro  Grataroli.  State  sa-  no, e  salutatemi  anche  la  Comare  in  no-  me ancora  della  mia  Conserte  »  .  Tratte-  nutosi poco  tempo  il  Grataroli  in  Argenti-  na ,  T  amico  suo  Girolamo  Zanchi  effica-  cemente lo  raccomandò  a  Teodoro  Beza  ^  ,  che  allora  dimorava  in  Basilea  >  dove  era  in  grandissima  riputazione  ,  e  godeva  un  sommo  credito  ,  e  con  il  quale  contrasse  strettissima  amicizia    Benché  il  Beza  fosse  assai  cauto  e  circospetto  nelf  elezione  de*  suoi  amici  ;  siccome  osserva  il  Maizeaux  Commentatore  del  Critico  ed  Istorico  Di-  zionario di  Pietro  Bayle  all'  articolo  Beza  j  ove  riporta  le  seguenti  parole  di  S.  Fran-  cesco d«  Sales  (32)  »:  non  faceva  (  par-  la de!  Beza  )  passo  senza  un  cumulo  gran-  de di  precauzioni ,  e  senza  pigliar  cento  e  mille  misure  .,  non  costumando  di  pra-  ticar nessuno  senza  esser  sicuro  d'  una  in-  veterata  conoscenza  »  ;  pure    divenne   suo    42   intimo  confidente  ,  come  appare  dalle  let-  tere del  Beza  Latine  trasportate  in  lingua  Italiana ,  che  qui  credo  cosa  necessaria  di  intieramente  riportare  ,  essendo  le  medesi-  me rarissime,  ed  assai  difficili  in  queste  no-  stre parti  a  ritrovarsi  (33)     A   GULIELMO   GRATAROLO   MEDICO  E    FILOSOFO.   Mio  caro  Grataroli  ho  ricevuto  la  vo-  stra graditissima  lettera  unitamente  ai  con-  saputi libri ,  dei  quali  vi  rendo  infinitissi-  me grazie;  ma  averei  anche  assai  più  gra-  dito ,  se  nello  stesso  tempo  mi  aveste  spe-  dita queir  opera  del  nostro  Celio  ,  (34)  »  Dell  Amplerà  del  regno  di  Dio  »  stam-  pata nella  Rezia  ^  che  vi  avevo  ricercata  %  e  vi  prego  che  mi  giunga  più  speditamen-  te vi  sarà  possibile  .  L'  importo  della  me-  desima vi  sarà  contato  da  questo  nostro  Crispino .  Circa  il  libro  di  Pomponacio  non  ho  ancora  avuto  tempo  di  vederlo  :  subito  che  Y  averò  letto ,  vi  scriverò  cori  piena  libertà  il  mio  sentimento    Riguardo  alla  connota  confessione  (35)  intanto  io  non  ve  ne  ho  spedito  la  copia  ,  in  quan-  to che  supponevo  ne  andassero  intorno  da    4?  per  tutto ,  perche  di  questa  mi  sono  state  da  diverse  parti  scritte    moltissime    lettere    Vi    auguro     perfetta    salute     ottimo     mio  Fratello  .   (3  gli  prenderanno  i  Librari  suoi  compagni  di  viaggio  ,  e  con  loro  comodo  mi  saranno  portati    Vedete  adesso  in  che  modo  >  e  con  quanta  libertà  mi  prevalgo  delle  vostre  grazie  :  comandate  ancor  voi  scambievol-  mente tutto  ciò  che  io  possa  fare  per  voi ,  ed  in  vostro  nome  ,  e  vivete  sicuro  ^  che  siete  da  me  sommamente  stimato  ed  amato  »  Appena  arrivato  in  Basilea ^  non  tan-  to per  le  raccomandazioni  ,  quanto  ptrr  la  sua  virtù  fu  ricevuto  Professore  di  Medi-  cina in  quella  Città  ,  in  cui  esercitando  pubblicamente  T  arte  sua  fece  mostra  del  suo  perspicace  talento  e  della  sua  profon-  da dottrina  ,  non  solo  con  le  erudite  ope-  re j  che  diede  alle  stampe  ^  ma  eziandio  colle  prodigiose  cure  che  fece  .  Onde  in  brevissimo  tempo  in   tanta  fama  salì  ^    che    4*  passato  appena  il  corso  di  circa  due  anni  venne  ricercato  con  grande  impegno  dal!'  Accademia  di  Marpurgo  a  coprire  la  Cat-  tedra di  medicina,  essendo  mancato  di  vi-  ta Corrado  Kuvnero  :  il  che  diede  giusto  motivo  al  Zanchi  di  congratularsi  con  il  Voltejo  ,  come  si  è  veduto  neir  enunciata  lettera ,  del  fortunato  acquisto  ,  che  fatto  avevano  i  Marpurghesi  di  un  cosi  famoso  Professore  .  Non  fece  lunga  dimora  il  Gra-  taroli  in  Marpurgo ,  quantunque  assai  sti-  mato ed  amato  .>  poiché  appena  passato  il  corso  di  un  anno,  con  universale  dispiace-  re di  quella  Città  a  Basilea  fece  ritorno .  Quali  fossero  i  veri  motivi,  per  i  quali  co-  sì presto  abbandonasse  una  Città  nella  qua-  le era  da  ogni  sorta  di  persone  gradito  amato  e  ben  veduto  ,  dove  copriva  una  luminosa  Cattedra ,  e  godeva  un  abbon-  dante provvisione,  non  mi  è  sortito  di  rin-  venirli .  Se  presto  però  fede  a  Pietro  Ni-  gidio  (40) ,  il  quale  per  la  particolare  sti-  ma ,  che  professava  alla  virtù  ed  alle  rare  doti  di  questo  celebre  Medico  Filosofo  ne  scrisse  in  versi  la  vita  ,  sembra  che  abbia  abbandonata  la  Città  di  Marpurgo,  o  per-  chè l'aria  troppo  rigida  di  quel  clima  non  fosse  coufacevolc  al    suo  temperamento  ,  o    47  perchè  avesse  impressi  nell'  animo    i  piace-  ri ,  i  comodi  ,  ed  i  vantaggi  ,    che  goduti  aveva  in  Basilea  ,  ove  fece  ritorno  .    Ecco  i  suoi  versi  :   »  Nobilis  hunc  mìfit  Catàs  Bafilea  «,  fed  anno  »  Vix  ferrici  exacio  rurfus  eo  redìit  :  »  Sire  quodHaJJiaco  non  pojjet  vivere  coe/o>  »  Sive  quod  in  votis  urbs  Bajìlea  forct.   Non  si  deve  però  credere  ,  che  do-  po H  suo  ristabilimento  in  Basilea  siasi  Gu-  lielmo  abbandonato  all'ozio  ed  alla  quiete >  e  che  abbia  trascurato  il  lodevole  metodo  de'  suoi  studj  e  delle  sue  fatiche  ,  perchè  anzi  le  erudite  Opere  date  alla  luce  in  cia-  scun anno  in  cui  visse  ,  sono  una  prova  evidente  ,  che  tutto  il  tempo  nel  quale  non  era  occupato  alla  cura  degli  infermi  >  o  pure  ad  istruire  dalla  Cattedra  i  suoi  scolari,  lo  impiegava  a  comporre  delle  ope-  re di  varie  qualità  ,  che  versavano  sopra  materie  ed  argomenti  utili  e  necessarj  air  umanità  ,  per  soddisfare  al  vivo  desiderio ,  che  sempre  nudrì  di  recare  giovamento  al-  le persone  d'  ogni  classe  e  d'  ogni  età    Molte  furono  le  opere  ,  che  fece  sortire  da^  pubblici  torchj  di  Basilea  ,    e  tra  que-    48  ste  la  prima  a  me  nota  fu  quella,  che  ha  per  titolo  »  Prognostica  natura  Ila  de  terri~  porum  tnutatìonè  perpetua  ordine  littera-  rum  »  impressa  da  Jacopo  Pareo  Y  anno  1552.,  che  con  qualche  aggiunta  nel  suc-  cessivo anno  fu  parimenti  ristampata  in  Basilea  da  Michele  Episcopio,  indi  in  Zu-  rigo dal  Gesnero  nell'anno  *  5  $•  e  ^a  Gabriele  Coterio  in  Lione  nell*  anno  istes-  so,  ma  più  vicino  a  noi  da  Giovanni  Ve-  chelio  in  Francfor  Tanno  1591.  Questo  erudito  utilissimo  libro  con  elegante  e  giu-  diziosa lettera  dedicatoria  primieramente  lo  indirizzò  alla  Maestà  di  Odoardo  VI.  Re  d'  Inghilterra  rapito  nello  stesso  anno  ai  viventi  .  Il  Grataroli  ,  che  bramava  per  questa  sua  fatica  un  Mecenate  coronato  e  potente  ,  dedicò  la  seconda  edizione  assai  più  corretta  ampliata  e  perfezionata  a  Mas-  similiano II.  Re  di  Boemia,  del  quale  ono-  re fece  prevenire  quel  Monarca  col  mezzo  di  Giuseppe  Salando  Archiatró  della  Sere-  nissima sua  Sposa  ,  e  da  lungo  tempo  in-  trinseco amico  ed  affezionato  suo  concitta-  dino ,  come  si  rileva  dalla  lettera  dedica-  toria de7 suoi  Opuscoli,  dove  scrive  (41)»  Raccomando  poi  umilmente  alla  vostra  Maestà  ,  e    tutta  intieramente  consagro    la    49  mia  persona  .  Quale  io  mi  sia^  se  da  altri  per  la  troppa  distanza  dei  luoghi  non  vi  fosse  noto  *  lo  potrete  agevolmente  sapere  da  Giuseppe  Salando  eccellente  e  perspica-  ce Medico  della  Reale  vostra  Sposa  ,  col  quale  già  da  lungo  tempo  ci  siamo  fami-  gliarmente  trattati  »  .  Non  rincresca  al  let-  tore di  questa  vita  n  se  interrompo  1'  ordi-  ne della  Storia  per  inserire  alcune  notizie  relative  ad  un  mio  Compatriota  di  sommo  grido  e  d'  inestimabile  merito  nell'  arte  me-  dica y  e  che  fece  molto  onore  alla  Città  in  cui  nacque.  Sortì  i  suoi  natali  Giuseppe  Salando  in  Bergamo  ,  nella  sua  fresca  età  studiò  medicina  in  Padova  ,  conseguì  la  laurea  dottorale,  coprì  nell'anno  1540,  in  quella  Università  la  Cattedra  della  seconda  scuola  di  medicina  pratica  straordinaria  nei  giorni  di  vacanza  ,  che  tre  anni  innanzi  era  stata  occupata  da  Guglielmo  Grataroli  (42).  Dopo  due  annij  cioè  l'anno  1542.  succedette  il  Salandi  a  Girolamo  Donzelli-  no nella  Cattedra  della  seconda  scuola  di  medicina  teorica  straordinaria  :  esercitò  la  me-  dicina in  diversi  luoghi  e  Città  della  Lom-  bardia :  indi  passò  nella  Stiria  ,  in  cui  per  la  felicità  delle  sue  cure  si  rese  così  cele-  bre e  rinomato  ,  che  Ferdinando  Impera-  4    tore  verso  gli  ultimi  anni  di  sua  vita  lo  fece  venire  alla  sua  imperiai  Corte  ^  e  fu  dichiarato  Archiacro  Palatino  sotto  Massi-  miliano II.  Passato  a  miglior  vita  Massimi-  liano ,  il  Salando  si  trasportò  in  Milano  ,  dove  esercitò  per  lungo  corso  di  tempo  con  favorevole  sorte  la  sua  professione    Finalmente  carico  d'  anni  ,  ma  nello  stes-  so tempo  forte  e  vigoroso,  si  ritirò  in  Sa-  lò territorio  Bresciano,  in  cui  stabilì  il  suo  soggiorno  ,  e  dove  mori  Y  anno  1 6  ;  o.  nella  sorprendente  età  di  cento  e  più  an-  ni ,  Ebbe  un  figlio  professore  anch'  esso  di  medicina  chiamato  Ferdinando,  il  quale  as-  serisce ,  che  il  padre  suo  diede  alle  stam-  pe in  Milano  un  volume  di  consulti  me-  dici ,  ed  in  Venezia  un  erudito  trattato  »  De  Panacea  ,  feti  clixìr  vitti?  »  ,  e  dicesi  essere  lui  stato  il  primo  ,  che  un  cosi  ef-  ficace rimedio  ritrovasse  »  (43)  Ritornan-  do alle  opere  di  Gulitlmo  stampate  in  Ba-  silea trovo  che  nell'anno  15 67.  con  le  stampe  Heripetrine  diede  alla  luce  il  libro  di  Pomponacio  »  De  Incantino nìhus  »  che  in  quel  secolo  ed  in  que*  tempi  faceva  grandissimo  strepito,  siccome  a  nostri  gior-  ni è  s:guito  delie  opere  di  Voltaire  e  di  Rousseau  appresso  di  coloro,  che  non  ama-    5*  no  le  letture    troppo  serie  e   profonde  ,    e   lo    dedicò  a    Federico  Conte    Palatino    suo  protettore  ,  siccome  aveva  fatto  dieci  anni  prima  dell'  opera  stessa  con  il  Principe  Ot-  tone Enrico  Elettore   Palatino ,  benché  ac-  cresciuta e  decorata  la  prima  di  molte  no-  te ,    ed    osservazioni    eruditissime;    per    le  quali    si    rileva    dalla    dedicatoria    premessa  alla  seconda  edizione  ,  che    venne  il    Gra-  taroli   onorato  di  obbliganti   ringraziamenti  fatti  con  graziosa    lettera  scrittagli  di   pro-  prio pugno    da  quel  magnanimo  Elettore  ,  dove  dice  »  (44)    La  parte  di    questo    li-  bro, che  tratta  delle  cause  degli  effetti  na-  turali ,    o    sia    degli    Incantesimi ,    fatta    da  me  stampare ,  sono  già  più  di  dieci  anni  ,  T  avevo  dedicata  e  spedita  air  Illustrissimo  Principe  Ottone  Enrico  di  felice  memoria,  e  sua   Altezza  non  isdegnò  di  ringraziarmi  con   lettere    di  suo    proprio    pugno  ,    e   di  assicurarmi    di    esserne   memore  in    avveni-  re ,  lo  che    potrà    seguire    nell'  altra   vita ,  poiché  poco  dopo  per  grave  infermità  ces-  sò di  vivere  ».  L'altra  vantaggiosissima  fa-  tica {  che  nel  tempo  stesso  sorti  da   torchj  di    Vindelino    Richelio   in    Argentina ,    fu  quella ,    che    ha    per    titolo     »    Regimen  omnium  iter  agentiurn  »  consagrata  ad  Ege-    52  nolfo  Barone,  e  Signore  di  Bapolstein  Ho-  chen    Ack    e    Gerolzeck    presso    Vassichin  #  Scelse  quesxo  Principe  per  suo   Mecenate  ,  essendo    originario    anch'  esso    d'  Italia  ,    e  sortitone  per  i  medesimi  motivi  di   Guliel-  mo ,     benché  in    tempi    assai    più    rimoti ,  leggendosi     nella     sopracitata      Prefazione  .  (45)    »  Finalmente    lo  splendore  della   vo-  stra nobiltà,  che   non  va  disgiunto  da  una  sincera  pietà  e  da  un   rispettabile  dominio,  è   penetrato  sino  nelle  mie  stanze  ;    ed  es-  sendo   ancor'  io  Italiano  ,    ho    potuto    age-  volmente avere   contezza   anche  della   forza  dell'  antichissima   Italiana  vostra  origine  ;  e  se  fosse    lecito  paragonare    le    picciole  cose  con    le  grandi ,   vedo   che    nei    siamo    stati  costretti  ad    abbandonare   le   proprie  abita-  zioni  per  motivi  non  affatto  dissimili .,  ben-  ché in   tempi    assai  differenti .  Faccia  però  1'  onnipotente     e    giustissimo    Dio    per    la  maggiore  sua  gloria,  se  così  piacesse  anche  a    sua   Maestà  ,   che    un  giorno   si  possano  rivedere    le   nostre   patrie  »  .    Fu    stampato  ancora    in    Basilea    da    Lodovico  Lucio    il  dottissimo  suo  trattato  ,  che  intitolò  »   Po  jlis  Dcjcripuo  i  Caujja  y  Signa  omnigena  *  &   Vrocjervaùo  »  ,  il  quale  venne  dedicato  al  Nobile,,  e  Magnifico  Ascanio  Marzo  Ani-    5?   basciatore  Cesareo  presso  gli  Svizzeri,  ami-  cissimo sino  da  lungo  tempo  di  Gulielmo.  Devo  altresì  alle  sopracitate  Opere  aggiun-  gere un  libro  sopra  un  importantissimo  argomento,  quale  è  quello  della  sanità  dei  Letterati ,  con  questo  frontispizio  »  De  hit-  te  rato  rum ,  &  eorum  qui  Magiftratum  gc-  runt  confervanda  valetudine  » .  Questi  ebbe  così  fortunato  incontro ,  che  venne  tradot-  to da  Tommaso  Neuton  nella  lingua  In-  glese,  e  fatto  stampare  in  Londra  Tanno  1574.  Effettivamente  il  Grataioli  ha  trat-  tato un  tale  argomento  del  tutto  nuovo  sino  a  sue  i  tempi  con  tanta  chiarezza  e  giusto  criterio,  che  non  la  cede    al  Ra-  massini,    al  Pujati,    al  Tissot;  i  qua-  li hanno  recentemente  versato  sopra  una  così  rilevante  materia .  Dal  Catalogo  dell*  altre  sue  opere ,  che  per  minor  noja  del  lettore  riporterò  terminata  che  sarà  intera-  mente la  presente  vita,  si  vedrà  essere  que-  ste in    copioso  numero,  che  recherà  sor^  presa  a  chiunque  in  quale  maniera  le  ab-  bia potute  scrivere  ,  massimamente  riflet-  tendo che  questo  celebre  Medico  dalla  sua  giovanile  età  d'  anni  ventiuno  sino  all'  ul-  timo giorno  di  sua  vita  ,  si  trovò  sempre  nel    gravissimo    impegno    di    parlare    daila    ,  54   Cattedra  con  incomodissima  fatica,  che  re-  ca irreparabile  danno  al  petto  ed  ai  pol-  moni ,  ed  a  tutto  questo  aggiungendo  i  disagi  dei  lunghi  e  disastrosi  viaggi  da  es-  so fatti  ,  la  mutazione  del  clima ,  la  pas-  sione di  dover  vivere  lontano  dagli  amici ,  dai  congiunti,  e  dalla  patria,  e  sopra  ogni  altra  cosa  le  continuate  esperienze  chimi-  che ,  alle  quali  era  veementemente  inclina-  to, secondo  che  me  lo  rappresenta  il  Lin-  denio  ,  (46*)  accusandolo  di  essere  procli-  ve air  Alchimia  »  In  Alchimia  proclivis  »  ,  si  conoscerà  che  questo  infaticabile  Filoso-  fo non  poteva  godere  lunga  vita  .  In  fat-  ti ,  benché  avesse  sortito  un  sano  e  robu-  sto temperamento  ,  e  sempre  fosse  vissuto  assai  moderato  ,  lontano  dalle  brighe  po-  litiche, e  dai  dissidj  scolastici  a  segno  che  in  que'  torbidi  tempi  di  controversie  ripie-  ni egli  non  impugnò  giammai  la  penna  contro  alcuno  ,    si  trova  eh'  altri  abbia  scritto  contro  di  lui  e  che  anzi  moltissimi  Apologisti  si  ritrovano  ,  patrocinatori  de'  suoi  scritti  ,  e  delle  sue  opinioni  :  ad  ogni  modo  contratte  alcune  infermità,  alle  quali  vanno  soggette  le  persone  di  lettere  ,  con-  forme egli  stesso  aveva  istrutta  l'umanità)  dovette  soddisfare  dopo  una  penosa  inalar-    ss   tia  di  molti  mesi  all'  ultimo  tributo  della  natura  nel  maggior  v'gore  de'  suoi  anni *  e  nel  tempo  appunto  della  sua  più  lusin-  ghiera fortuna  nell'  ancor  fresca  età  d'  an-  ni cinquantadue  ,  quattro  mesi  ,  e  venti-  tré giorni  ,  avendo  cessato  di  vivere  neli'  anno  15  £8.  il  giorno  decrmosesto  di  Apri-  le .  Da  ogni  classe  ed  ordine  di  persone  ,  non  solo  della  città  di  Basilea  e  di  tutta  la  Germania  ,  ma  ovunque  era  giunta  la  fama  della  virtù  e  della  dottrina  di  Gua  lielmo,  fu  compianta  la  sua  morte,  poiché  avevano  perduto  uno  de'  più  esperti  Medi-  ci ,  ed  uno  de*  più  riputati  Filosofi  di  quel  secolo    Dove  si  tratta  degli  uomini  di  singolare  virtù  e  di  non  ordinaria  dot-  trina tutto  deve  interessare  :  non  ommet-  terò  per  ciò  di  far  osservare  ,  che  il  Gra-  taroli  era  di  una  figura  assai  bene  pro-  porzionata ,  ed  aveva  la  cute  e  la  barba  di  colore  bruno  ,  per  quanto  ha  lasciato  scritto  Girolamo  Zanchi  nella  sopracitata  lettera  (47)  a  Giovanni  Garnero  .  Argo-  mento incontrastabile  della  celebrità ,  che  si  era  acquistata,  si  è  il  ritatto  ,  che  tro-  vasi nella  Biblioteca  Calcografica  di  Gio-  vanni Boissard  degli  uomini  illustri  per  virtù  ed  erudizione  di  tutta  Y  Europa  stara-    5*  pata  iti  Francfort  nell'anno  1^50.  a  spe-  se di  Giovanni  Ammonio ,  inciso  in  rame  da  Sebastiano  Furehio  ,  sotto  del  quale  ritratto  si  leggono  i  due  seguenti  latini  versi  :   i'ìGratarolusV atriaw  linquens,  acque  Itala  nira,  »  Germano^  inter  clami t  arte  viros .   Da  questa  calcografica  Biblioteca  appunto  ho  tratta  V  effigie  di  Gulielmo  ,  che  ho  posto  nel  frontespizio  di  questa  vita  .  So-  pra tutti  gli  altri  però  che  maggiormente  si  addolorassero  per  questa  perdita  fu  f  inconsolabile  sua  fedele  sposa  Barbara  Mi-  cosi ,  che  dopo  di  avere  continuamente  seguite  le  varie  vicende  del  marito  ,  ab-  bandonando amici  ,  congiunti  ,  patria  ,  e  persino  la  sua  dote  istessa  ,  intraprenden-  do lunghi  e  disastrosi  viaggi.,  dovette  dell'  amato  sposo  restarne  priva  .  Cotanto  però  fu  sensibile  ad  una  cosi  improvvisa  dis-  grazia ,  la  quale  era  senza  alcun  dubbio  la  maggiore  che  le  potesse  accadere,  che  con  raro  esempio  di  costante  benevolenza  con-  iugale que-ta  grata  e  virtuosa  moglie  per  dare  anche  dopo  morte  al  marito  un  du-  revole testimonio  dell'amore,  che    gli  ave-    S7   va  sempre  conservato ,  fece  chiudere  le  fred-  de sue  ceneri  in  un  avello  di  marmo,  so-  pra del  quale  fece  scolpire  la  seguente  iscrizione  .  (48)   GULIELMO     GRATAROLO   BERGOMENSI   ARTIUM  AC  MEDICINA  DOCTORI  MEDICIQUE   FILIO   IN   MEDICORUM   BASILIENSIUM    COLLEGIUM   COOPTATO   OB  RELIGIONEM  EXUI4   CONIUGI  CARISSIMO   BARBARA    NICOSIA    F.    C,   OBIIT    j£TATIS    SU  E    ANNO    LII.    CHRISTI   MDLVIII.    DIE    XVI.    APRILIS.   Non  fu  soltanto  il  Grataroli  onorato  e  stimato  finche  visse  ,  ma  ancora  dopo  che  più  non  si  trovava  tra  i  viventi  ha  costantemente  e  senza  alcuna  inteìruzzione  goduta  la  stima,  e  si  è  tenuto  in  altissimo  pregio  da  tutto  il  mondo  dotto  .  Nessun  Medico  di  grido  ,  nessuno  Bibliografo  ,  e  nessuno  Scrittore  di  Storia  Letteraria  di  qualunque  nazione  e  religione  ha  tralascia-  to di  fargli  giustissimi  elogi  e  di  profon-  dergli infiniti  encomj    sino  a  questi    ultimi    58  secoli  .  Pietro  Nigidio  (49)  il  Seniore  Iia  composto  un  latino  Poema  per  decantare  la  virtù  e  la  dottrina  di  questo  Medico  Filosofo  .  Giovanni  Jacopo  Boissard  (50)  lo  chiama  Medico  e  Filosofo  eccellentissimo  e  sagacissimo.  1/ erudito  Signore  de  Thou  (51)  l'appella  famoso  Medico  di  Bergamo.  Antonio  Teissier  (52)  lo  caratterizza  per  un  uomo  di  una  pietà  e  di  una  dottrina  straordinaria.  Luigi  Moreri  (53)  gli    il  titolo  di  Medico  Filosofo  degno  di  cele-  brità .  Il  Signor  d'Eloy  (54)  scrive  che  fosse  uno  de'  più  celebri  medici  del  suo  secolo.  Nicolò  Comneno  Papadopoli  (55)  gli  da  l'elogio,  qual  soggetto  nobile,  di  profondissima  dottrina ,  e  che  ha  decorata  Y  Università  di  Padova  .  I  dotti  Autori  del  nuovo  Dizionario  Storico  Portatile  (56)  lo  nominano  Medico  valoroso .  il  nostro  Padre  Donato  Calvi  (57)  benemerito  rac-  coglitore della  civile  e  letteraria  Storia  di  Bergamo  gli    i  gloriosi  epiteti  di  pro-  fondità di  sapere  e  di  sublimità  di  dottri-  na ,  di  lume  della  medicina  ,  e  di  virtù  e  di  azioni  superiori  ?d  ogni  lode  .  Tribu-  tarono simili  meritati  panegirici  a  Guliclmo  Grataroli  ,  dovunque  ebbero  l'opportuni-  tà di  rammentarlo  nelle  loro  opere  anche  a    59   dottissimi  Michele  Gulielmo  Linghelscheim  (58)  .  Abramo  Bucholcer  (59);  Elia  Rus-  nero  {do);  Ermanno  Coniugio  (£1)5  Pas~  quale  Gallo  {62)  ;  Paolo  Frehero  (tf  j)  ;  Giovan  Antonio  Vander  Linden  (64);  Gior-  gio Abramo  Mercklino  (6 f)  ;  Giovanfran-  Cesco  Niceron  (ótf)  ;  Ermanno  Boerha-  ve  (6*7)  ;  Alberto  Haller  (6"8)  ;  Giovan-  Jacopo  Mangett  (69)  ;  Antonio  Kiccobo-  ni  (70):  Filippo  Tomasini  (71);  Jacopo  Facciolati  (72)  ;  1/ autore  delle  Amenità  Letterarie  (73);  Il  celebratissimo  Andrea  Pasta  (74)  ;  ed  innumerabili  altri  dotti  scrittori ,  che  fatica  troppo  lunga  sarebbe  il  yoìerli  qui  tutti  riportare  .  Mi  sia  nulla-  di  meno  concesso  di  chiudere  la  numerazio-  ne di  tanti  valorosi  Letterati ,  e  nello  stes-  so tempo  terminare  la  vita  di  Gulielmo  Grataroli  ,  col  riferire  quanto  in  lode  del  medesimo  hanno  lasciato  scritto  il  vera-  mente erudito  e  sommo  critico  Pietro  Bay-  le (75),  ed  il  dotto  Signor  Maizeaux  (76)  suo  illustratore  .  Il  primo  lo  chiama  sa-*  pientissimo  Medicò  ,  ed  eccellentissimo  nel-  la scienza  fisonomica  ;  il  secondo  chiude  il  Commento  all'  articolo  »  Gratarolus  n  ?  con  questo  onorifico  e  meritato  encomio  ,  il  quale  acciocché  nulla   perda    della  forza    6o  ed  energia  io  trascriverò    nella  lingua  ori-  ginale ,  in  cui  fu  scritto  dall'  autore    me-  desimo •   »  On  ne  lui  fcauroit  refusar  l"  èloge  d!  avoir  cu  à  coeur  le  bien  public  ^  puisqà  il  à  cherchè  non  feulement  les  remedes^  qui  peuvent  jervir  aux  Magifrats  ,  mais  aujjl  ceux  qui  font  propres  a  toutes  forte  s  de  vojageurs  .  Il  ri  a  pas  oubliè  les  Hommes  dy  etude ,  il  a  tachè  de  leur  fournir  des  fecours  et  pour  la  confervation  de  la  fan-    ,  et  pour  la  confervation  ,  et  V  angine n-  tation  de  la  me  moire.  Un  homme  qui  leur  fourniroit  la  deffus  ce  ,  de  quoi  ils  ont  befoin,  mèriteroit  les  honneurs  divins  dans  la  republìque  des  lettres .  La  mèmoire  y  ejl  prefquc  auffi  nèceffaire  que  la  vie  »«,    €i    CATALOGO  DELLE  OPERE   DI  GULIELMO   GRATAROL1   CON   VARIE  ANNOTAZIONI.    N    on   avendo    potuto    aver  ^    ne  vedere  se  non  una  piccola    parte    delle    opere  di  questo  dotto  Medico  Filosofo ,    ho  dovuto  formare    il    presente    Catalogo    sopra    altri  Cataloghi  e  Notizie    de'  suoi  scritti    lasciati  dagli  Scrittori  della  sua   vita  ,    i  quali  per  essere  di  differenti  nazioni  ,  di  religione  e  di  professione  diversa  ,    e  perchè    scrissero  in  tempi  assai  distanti  V  uno  dair  altro  ,    t  loro  Cataloghi  si  trovano  mancanti  ,    alte-  rati ,  confusi  ,  senza  data    di  luogo  ^    di  stampatore  ,  e  quello  che  è  peggio  pie-  ni di  difetti  e  di  errori.  Sono  perciò  assai  lontano  dal  lusingarmi  ,  che  quello  il  qua-  le io  qui  sottopongo  sotto  ai  riflessi    deir  erudito  leggitore  ,    sia    riuscito    compito  e  perfetto  ,  sebbene    non  abbia    mancato    di  fatica }  ne  di  diligenza;  ma  tutti  i  miei  sforzi    sono    stati    infruttuosi    ritrovandomi  in  una  Città  quasi    dei    tutto    sfornita    di    62  antiche  opere  oltramontane  .  Prevenuto  dalle  riferite  circostanze  chiunque  leggerà  questo  Catalogo  siccome  era  necessario  ,  aggiungerò  al  medesimo  alcune  note  ,  che  credo  indispensabili  ,  e  lo  dividerò  in  ire  Classi  .  In  primo  luogo  le  opere  dal  Gra-  ta roli  composte  ,  in  secondo  luogo  le  Tra-  duzioni da  esso  fatte  ,  e  per  ultimo  le  al-  trui fatiche,  che  in  diversi  tempi  con  sue  note  ed  illustrazioni  fece  stampare .   I.  »  Prognojlica  naturalia  de  tempo-  rum  omnimoda  mtuatione ,  perpetua  &  cer-  ùjjìma  Jigna  rerum,  quoe  in  Aere,  Terra,  aia  Aqua  funt ,  aut  Jìunt  ,  krevìter ,  &  dare  ,  ordine que  alphabetico  de J cripta  per  Gulielmum  Gratarohun  Medicum  P/iy/i-  cum  y  cuni  Addinone  undcam  fìgnorum  Mo-  tus  Terra:  ,  ex  Antonio  Mi^aldo .  Basilea?  apud  Jacobum  Pareum  .  1552.  in  8.  Ibi-  dem apud  Nicolaum  Episcopium    1  5  54.  in  8.  Tiguri  1555.  in  8.  Argentorati  16*55.  in   8.  apud  Iacobum  Ofemianum  .   V  opera  indicata  ,  con  le  altre  due  »  De  Memoria  reparanda  t  e  »  De  Prje-  diclione  morum  »  >  si  trovano  unite  tiell*  accennata  edizione  di  Argentina  alli  Trat-  tati di  Chiromanzia  ,  e  di  Astrologia  natu-  rale di  Giovanni  Indagine  ,  o  sia  Giovali-    ni  Hagen  dotto  Certosino  del  decimoquin-  to secolo  ?  ed  al  libro  »  De  Sculptura  »  di  Pompeo  Gauricio  Matematico  Napolita-  no .  Perchè  il  Grataroli  non  venga  taccia-  to di  superstizione  o  di  puerile  credulità  a  motivo  delle  cose  da  esso  scritte  parlan-  do dei  Pronostici  naturali  e  della  Predi-  zione dei  costumi  ,  credo  cosa  necessaria  fedelmente  trascrivere  la  Protesta  ,  o  sia  Avvertimento  al  Lettore,  che  si  trova  nel-  la edizione  di  Argentina  (77)  »  Devi  poi  »  avvertire  ,  che  generalmente  parlando  le  »  cose  dette  si  verificano  nella  gente  gros-  »  solana  y  vale  a  dire  di  coloro  ,  i  quali  »  non  sono  rigenerati  dallo  spirito  e  dalla  »  grazia  di  Dio  ,  perchè  di  questi  è  vero  »  ciò  che  dicesi  della  depravata  natura  in  »  Adamo  ,  che  »  Naturce  fequitur  femina  quifque  fucc  »  :  Ma  air  opposto  i  rigenerati  »  dallo  Spirito  Santo  mortificano  la  pro-  «  pria  carne  con  i  suoi  vizj  ,  e  con  le  »  sue  concupiscenze  ,  sebbene  la  concu-  »  piscenza  ed  il  fomite  del  peccato  vi  re-  »  stino  sempre  ,  e  da  moltissimi  ,  o  Dio  ,  »  anche  pur  troppo  si  riducano  alla  pra-  »  tica  »,  A  gloria  di  Gulielmo  riporterò  anche  la  sua  opinione  sopra  la  causa  del  flusso  e  riflusso  del  mare  r   avendo  preco-    6A   Aizzato  più  di  due  secoli  prima  quasi  in-  tieramente il  sistema  del  rinomatissimo  Ca-  valiere Isacco  Neuton  circa  lo  stesso  feno-  meno :  opinione  approvata  ed  insegnata  da  quasi  tutti  i  Filosofi  posteriori  a  quel  subitine  Geometra  »  :  Il  moto  periodico  del-  ia Luna  ha  grande  predominio  sopra  li  corpi  fluidi  ,  quindi  fa  che  il  mare  s  in-  nalzi e  si  abbassi  ^  singolarmente  per  una  particolare  di  lei  influenza  ,  e  ne  segua  il  flusso  ,  ed  il  riflusso  secondo  i  differenti  aspetti  relativi  alla  medesima  ,  e  secondo  che  questi  accadono  nella  maggiore  ->  o  minore  forza  della  sua  influenza  :  Accade  ciò  perchè  la  Luna  ha  bensì  certa  in-  fluenza coir  Oceano ,  ma  non  già  coi  la-  ghi e  coi  mari  di  poco  estesa  superficie  .  Per  la  qual  cosa  mentre  quel  Pianeta  si  muove  dall'  Oriente  verso  il  mezzo  gior-  no ,  fa  che  la  superficie  del  mare  s'  innal-  zi ,  e  che  conseguentemente  ne  segua  il  riflusso  medesimo  .  Quando  poi  si  muove  dal  mezzo  giorno  verso  Y  occidente  fa  che  il  mare  si  abbassi ,  e  però  ne  nasce  il  ri-  flusso .  Similmente  allorché  la  Luna  si  muove  dall'  occidente  verso  V  angolo  della  notte  ,  o  sia  da  settentrione  verso  V  o-  i  icnte  ,  ne  segue   nuovamente  il    riflusso  r>    II.  »  Guliclmi  Grataroli  Bergomatis  Artium  >  &  Mediani?  Docloris  de  Memo-  ria reparanda  ,  augenda  >  fervandaque  ,  Liber  omnimoda  Remedia  >  &  Pnzceptio-  nes  continens  cujufivis  facultans  jhuliofis  apprime  utilis  «,  immo  maxime  necejjlvius  ,  Tiguri  ?  apud  Andream  Gesneruni  1554.  in  8.  ,  Basilea  apud  Nicolaum  Episcopium  1554.  in  8.,  Lugduni  ,  apud  Gabrielem  Coterium  1555.  in  8.,  Francofurti  apud  Joannem  Vichelium  1591.  in  12.  Ibidem  apud  Viduam  Petri  Fischeri  1596.  in  12.,  Argentorati  16$  $.  in  8.  »  Nel  frontespi-  zio dell'accennata  edizione  di  Argentina  si  trovano  queste  parole  :  »  Omnia  ab  An-  afore correcla  P  ancia  finis  >  6'  ultimo  edi-  ta «.  La  stessa  Opera  »  De  Memoria  re-  paranda »  è  stata  stampata  unitamente  all'  altro  libro  del  Grataroli  »  De  confervanda  Valetudine  »    da  Enrico  Rantzovio  .   Ili  »  De  Prcediclione  morum  ^  na-  turaque  hominum,  cum  ex  infipeclione  par*  tìum  corporis  >  tutu  aids  modis  «>  Anelare  Gulielmo  Gratarolo  Medico  ,  &  Philojo-  pho  B  ergo  mate    Basilea  1554»  in  8.,  Ti-  guri apud  Andream  Gesnerum  1555.  in  8. ,  Lugduni  apud  Gabrielem  Coterium ,  &*  Argentorati    1  6*5    Li  tre  accennati  libri   S    66  »  De  Memoria  reparanda:  De  Temporum  omnimoda  mutatìone  Prognofìica:  De  Prce*  diclione  morum  »  furono  dati  alla  luce  per  la  prima  vo?ta  dal  Grataroli   in  Basilea  ,  e  dedicati  ad  Edoardo  VI.  Re  d'Inghilterra;  siccome    pure    la  seconda    edizione  di    tali  Opuscoli    fatta  nella    medesima  Città    nell*  anno    1554.    fu   consagrata    a  Massimiliano  II.  Re  di  Boemia      lutto  questo  evidente-  mente   si    rileva    dal    primo    periodo    della  Dedicatoria  medesima  al  secondo  dei  com-  mendati Sovrani  ,    la  quale    cosi   incomin-  cia (J9)  »  Nello  scorso  anno,  ottimo  Re,  per  le   pressanti  istanze   degli  amici    e   del-  io stampatore  >  sono  stato   costretto  a  dare  alle  stampe  assai  più  presto    di  quello  che  averei  desiderato  tre    miei    libretti    intorno  ai  quali  erano  già   molti  mesi  che  affatica-  va ,  e  perchè  essendo    assente  ,     molti  er-  rori corsero  nello  stamparli,  però  riveduta  di  nuovo    queir  opera ,    non    solo    ne  cor-  ressi  i    difetti  ,     ma    in    oltre    impiegando  ogni  possibile  diligenza  ed  applicazione ,  e  prestandovi  ,  come    si  suol  dire  ,    V  ultima  mano  ,    F  ho  accresciuta  di  parecchie  belle  aggiunte   a   segno,  che  la   presente  edizio-  ne è  superiore  alla  prima  siccome  lo  è  un  parto  di  nove  mesi  a  quello  di  soli  sette  ,    *7  o  pure  Toro  fino  ali*  argento    Avevo  de-  dicata la  prima  ad  Edoardo  VI.  Re  d' In-  ghilterra ,  il  quale  innanzi  anche  di  aver-  ne notizia  ,  non  che  di  averla  potuta  ve-  dere, fu  costretto  infelicemente  a  cambiare  la  vita  con  la  morte  ».  Tale  Dedicatoria  fu  scritta  in- Basilea  nel  mese  di  Febbrajo  deiranno  1554.  Nondimeno  non  posso  accertare  in  quale  città  siano  stati  stampa-  ti li  sopradetti  Opuscoli  la  prima  volta  che  dal  Grataroli  furono  indirizzati  alli  due  già  nominati  Sovrani .   IV.  »  Pejlis  Defcrìptio ,  Caujjoe  >  Si-  gnu  omnigena  >  &  Proefervatio  .  Anelare  Guliclmo  Gratarolo  Medico  .  Basilea?  ;  per  Ludovicum  Lucium  Anno  Salutis  Huma-  na? J  5  54,  Mense  Augusto;  Lugduni,  apud  Gabrielem  Coterium  1555.    La  prima  edizione  di  tale  veramente  aureo  Trattato  fu  dedicata  ad  Ascanio  Marzo  Ambascia-  tore Cesareo  presso  i  sette  Cantoni  della  Svizzera.  Personaggio  di  molte  cognizioni  e  virtù  fornito  ed  amico  di  Gulielmo  ;  e  questi  appunto  furono  i  motivi ,  che  lo  spinsero  a  sceglierlo  per  Mecenate  con  scrivergli  :  (80)  »  La  vostra  conosciuta  virtù  ,  e  la  non  volgare  vostra  mansue-  tudine ,    non    meno    che  il   vostro  amore    £8   per  tutte   le  sane  dottrine  ,   e   per   la   pie-  tà ,    mi   hanno   costretto  a  dedicarvi  quest'  opera  » .  Perchè  si   veda  quanto  amava  le  massime  di    pietà    e    di   religione    conviene  notare  ,   che   dopo    di  aver    egli    prescritti  neir  indicata  sua  opera  li   rimedj  fisici  con-  tro   la   Peste  ,   raccomanda   con    fervore    li  spirituali    con    queste    parole    (81)    »    Ma  per  brevemente  indicare  li  remedj    più  for-  ti ,    più    giovevoli     e   generali  ,    prima    di  tutto    allontanate    da    voi     la   paura    della  morte ,     ma    non    già    il    santo    timore    di  Dio  .  Non    perciò   doverete    amare  il  peri-  colo ,        incorrervi    temerariamente  ,     se  non    sarete     sforzati     o     dalla    carità    cri-  stiana del  prossimo  ,  o  dalla  gloria  di  no-  stro Signore  Gesù  Cristo  >  il  quale    devesi  anteporre  a  tutte  le  cose  »  .   V.  »  De  Litteratorum  >  &  eorurn  qui  Magijlratibus  funguntur  confermando,  proe-  fervandaque  valetudine  ,  illorum  prcecipue  qui  oetate  confiftentìoe  0  vel  non  lunge  ab  ca  ab funt  >  curn  ex  probatioribus  Aucto-  ribus  3  tum  ex  ratione  ,  &  fideli  praxi  >  &  experientìa  concinnatum .  Basilea  apud  Henricum  Petri  1555.  in  8.,  Francofurti  J591.  in  12.  apud  Ioanncm  Vchel  ;  Ibi-  dem   apud    Nicolaum   Hofmannum     \6 17.    ($9  in  8.  »  La  stessa  opera  è  stata  tradotta  nella  lingua  Inglese  da  Tommaso  Neuton  P  e  stampata  in  Londra  Tanno  1674.  in  1 2  .  Questa  dottissima  opera  è  riferita  dal  rinomatissimo  Medico  Ermanno  Roerhave  nel  suo    »  Methodus   (ludii   Medicorum  »  .   VI.  y>  De  Confervanda  valetudine  .  Francofurti  apud  Henricum  Randzov  .  Questa  opera  fu  stampata  unitamente  all'  ultima  registrata  dallo  stesso  Randzov     VII.  »  Re  girne  n  omnium  iter  agen-  tium  .  Basilea?  apud  Hemicum  Petri  \66\.  Argentorati  per  Vendelinum  Rihelium  1  s6%.  in  12.  Colonia?  apud  Petrum  Hofmannum  15/1.  in  8.  V  edizione  fatta  di  tale  uti-  lissima opera  in  Argentina  fu  dedicata  dal  Grataroli  »  alla  vera  pietà,  (82)  e  nobil-  tà del  chiarissimo  Egenolfo  Barone  ,  e  Si-  gnore in  Rapolstein  Hochen  Ack  e  Ge-  rolzeck  in  Vassichin  »  0  e  nel  frontispizio  della  medesima  vi  si  leggono  i  seguenti  la-  tini versi .   Ut  peregrìnands  vita  ejl  jubjecla  procellis  Aeris ,  &  varìis  undique  prejja  malis  ;   No/ira  procelle* fi  vario  jìc  turbine  mundi  Volpi  tur  incertis  anxia  vita  rnodis.       Hoc  bene  pericolo  Jervans  prò  tempore  litro   Tutìor  utque  voles  carpe  Vìator  iter.   VIII#  De  Laudibuj  Medicina  0  ejus  origine  >  progrejju  ?  militate  .  Argentora-  ti   i  5  £3.  in  8.   IX.  De  Pefle  Thefes.  Basilea?  1565.  in  8.  Apud  Henricum  Petri  .   X.  De  Vini  natura ,  Artificio  ,  &  Ufu  ,  deque  omni  re  potabili  .  Basilea  ,  Apud   Henricum  Petri  .   XI.  Equorum  P  &  Domejlicorum  quo-  rundam  Ànimalium  remedia  $  senza  data  in  tutti  i  Cataloghi  da  me  veduti     XII.  Lapidis  Philojbphici  nomenda~  turoe  .  Basilea    1  5    1     La  medesima  opera  trovasi  inserita  nel  Volume  in  foglio  stampato  in  Colonia  Tan-  no 1571.  da  Pietro  Orstio  ,  con  il  titolo  Veroe  Alchimia?  Scriptores .   XIII.  De  janitate  menda  .  Argento-  rati  15  6 5.  Trovo  quest*  opera  citata  dal  Mercklino  nel  suo  Lindenius  renovatus.   XIV.  De  Thermis  Rhoctias ,  &  Val-  lis  Tranjc/ierìi  Agri  Bergomenjis  .  Si  trova  stampata  tale  opera  per  la  prima  volta  da  Tommaso  Giunti  in  Venezia  Tanno  1553.  nella  sua  copiosa  raccolta    di    tutti   quelli  y    fi   che    sino  alla  detta   epoca    avevano  scritto   sopra  i  Bagni  ,    ed  è  riportata  alla   pagina   192.  ,  con   questo   titolo  Guìlhdmus    Gra-   tarolus   ad  Corradum     Gefnerum    Medicum   Tis'urimim    de    Thermìs     Jxhoetìcìs      Tutti  o   quelli  i  quali  a  mia  cognizione  hanno  par-  lato di  questo  trattato  di  Guliclmo  ,  sia  neir  occasione  di  dare  il  Catalogo  delle  sue  opere  ,  o    sia  per  semplice  erudizione  ,  e  perfino  il  nostro  Padre  Donato  Calvi  ,  non  hanno  citata  nessun'  altra  edizione  della  stessa  opera  ,  che  quella  dei  Giunti  %  e  tutti  ne  fecero  sempre  autore  il  Grata-  roli  ,  senza  mai  mettere  in  dubbio  questo  punto  d' Istoria  letteraria .  Ciò  nondimeno  non  deve  recare  maraviglia  ,  particolar-  mente delli  scrittori  oltramontani  ,  e  spe-  cialmente di  quelli  del  decimosesto  secolo  :  ma  fa  bensì  stupore  ,  che  siasi  continuato  ad  attribuire  al  Grataroli  un  simile  tratta-  to ,  dopo  la  nitida  e  ben  corretta  edizio-  ne fatta  dal  valoroso  Cornino  Ventura  X  anno  1582.  in  4.  di  tutti  i  dotti  Medici  Bergamaschi  ,  che  avevano  scritto  sopra  i  Bagni  di  Tres^ore  ;  poiché  apparisce  ,  ed  è  anche  evidentemente  provato  da  quel  diligente  stampatore  ,  e  dagli  eruditi  e  perspicaci  fratelli  Licini  suoi  direttori,  che    il  trattato  ,  che  porta  quel  titolo ,  appar-  tiene sicuramente  a  Bartolommeo  Albani  Medico  Collegiato  della  Città  di  Bergamo.,  scritto  dal  medesimo  sino  dall'anno  1470.,  vale  a  dire  quasi  un  secolo  prima  della  indicata  edizione  Veneta  di  Tommaso  Giun-  ti •  Di  fatti  T  Opuscolo  dell'  Albani  termi-  na precisamente  con  questa  data  :  anno  mìllejìmo  quadrigentefimo  y  &  feptuagefimo  de  menje  Julii  die  vìge  fimo  Ceptimo .  Per  ExeelL  Artìum  0  &  Me  dicince  Dociorcm  Bartholomceum  de  Albano.  Si  fa  ancora  as-  sai '  più  manifesta  tale  verità  da  quanto  afferma  il  Cornino  alla  decimaquarta  pagi-  na della  sua  edizione  degli  Scrittori  Berga-  maschi circa  li  Bagni  Trescoriani  ,  nella  annotazione  seguente  posta  in  fine  dell*  Q-  puscolo  del  sopracitato  Bartolommeo  Albani  per  maggiore  sua  giustificazione  »  Da  un  antichissimo  esemplare  manoscritto  (83)  ri-  trovato nella  libreria  de"  Padri  Domenica-  ni ,  il  quale  si  vede  eziandio  trasportato  nella  lingua  Italiana  ,  sotto  il  nome  dello  stesso  Bartolommeo  Albani,  nelieCase  di  Bar-  tolommeo Colleoni ,  lasciato  al  Luogo  de  Ha  Pie-  tà, conservato  sino  a  questo  tempo  ».  Non  si  deve  adunque  più  dubitare  ,  che  il  ve-  ro Autore  di  quel  trattato  non  sia   Bario-    73  lommeo  Albani ,  mentre  anche  il  Padre  Cal-  vi così  ha  lasciato  scritto  nella  sua  Scena  Letteraria  (84)  >>  Bartolommeo  Albano  della  Medicina  celebre  Professore  fiorì  verso  la  metà  del  passato  secolo  ->  e  fu  il  primo  y  che  scrivesse  sopra  i  nostri  Bagni  di  Tre-  score  j  leggendosi  le  sue  degne  fatiche  con  quelle  d5  altri  Autori  nel  libro  »  De  Bal-  neis  Tranfchcrii  Oppiai  Bergomatis .  Ber-  gomi  1582.  »  Questa  è  T  accennata  edi-  zione di  Cornino  Ventura.  Si  noti  in  que-  sto luogo ,  che  lo  stesso  Bibliografo  indi-  cando l'opera  del  Grataroli  (85)  sopra  io  stesso  argomento  ,  dopo  di  avere  scritto  De  Thermìs  Rhoeticis,  &  Vallìs  Tranfche-  rii  agri  ìSergomatis  »  aggiunge  »  Questo  si  trova  nell'  opeia  Veneta  De  Balneis  »  »  Adunque  al  Calvi  era  nota  tanto  V  edi-  zione dei  Giunti  ,  quanto  quella  del  Co-  rnino :  dopo  tutto  questo,  in  quale  manie-  ra si  potrà  difendere  il  Grataroli  dalla  tac-  cia di  plagiario  y  e  di  un  plagio  domesti-  co ?  Ma  niente    più  facile  ,  Ricercato  Gulielmo  da  Corrado  Gesnero  suo  grande  amico  ,  che  si  chiamava  il  Plinio  dell*  Ale-  magna  ,  perchè  gli  facesse  avere  delle  no-  tizie circa  le  Terme  ,  o  Bagni  della  Re-  zia  ,  e  della   Provincia  Bergamasca  ,  egli  ^    74  per  fare  cosa  grata  ad  un  amico  di  tanta  rinomanza  ,  prese  in  mano  il  manoscritto  dell'  Albani  ,  vi  aggiunse  qualche  cosa  del  proprio ,  ed  ancora  molte  cose  di  quelle  che  aveva  scritto  sopra  i  Bagni  di  Tresco-  re  il  dotto  Medico  Lodovico  Zimalia  ,  le-  vando alcune  cose  che  gli  sembravano  su-  perflue ,  o  inesatte  ,  con  purgato  stile  la-  ^inò ,  e  con  veri  termini  tecnici  rifuse  il  manoscritto  dell'  Albani  ,  e  cosi  riformato  ed  ordinato  lo  spedì  all'  amico,  unitamen-  te ad  una  erudita  lettera  relativa  alle  Ter-  me della  Rezia  :  e  siccome  in  quei  giorni  il  Gesnero  si  trovava  in  Venezia  per  de-  scrivere i  Pesci  ,  ed  i  Crostacei  del  mare  Adriatico  ,  averà  consegnato  questo  scritto  a  Tommaso  Giunti  s  che  in  quel  tempo  era  occupato  a  pubblicare  la  sua  grande  edizione  di  tutti  li  Scrittori  sopra  i  Bagni  e  le  aque  Termali  n  siccome  ho  già  di  so-  pra notato  .  Indubitata  cosa  ella  è  che  il  Grataroli  chiude  il  suo  scritto  con  queste  parole  (86)  »  Ho  raccolte  brevemente,  e  con  chiarezza  tutte  le  soprascritte  cose  a  benefizio  ,  e  sollievo  del  mio  prossimo^  io  Gulielmo  Grataroli  Dottore  di  Medicina  :  frutto  tutto  questo  delle  mie  oculari  osser-  vazioni ,    e  della  lettura    di  parecchi  ami-    75  chi  Medici  della    mia  patria    »  .  Appunto   questa  sua  protesta  dalle  persone  oneste  e  giudiziose  deve  essere  considerata  una  confessione  del  fatto  ,  ed  ancora  del  di-  ritto che  aveva  acquistato  di  appropriarsi  quello  scritto  ;  tanto  più  che  il  Grataroli  nello  spedirlo  al  Gesnero  ,  lo  previene  con  la  seguente  onorata  e  sincera  dichiarazio-  ne (87):»  Vi  spedisco  l'intiera  Descrizio-  ne delie  Terme  Bergamasche  ,  le  quali  non  sono  lontane  dalla  Rezia  più  di  due  gior-  nate di  cammino    Di  queste  niente  sino  al  presente  trovasi  pubblicato  con  i  tor-  eh)  ;  onde  mi  giova  sperare  ,  che  diver-  ranno celebri  anche  in  avvenire  ,  siccome  lo  furono  in  passato  ,  dopo  che  Y  occul-  ta, e  quasi  intieramente  ignorata  loro  vir-  tù sarà  fatta  nota  con  le  stampe  ;  purché  non  vi  rincresca  accoppiare  le  erudizioni  Italiane  alle  Tedesche  » .  Poteva  qui  espri-  mersi Gulielmo  con  più  candida ,  ed  one-  sta sincerità  ?  Confessa  di  essere  semplice  raccoglitore  d^gli  altrui  scritti,  (88)  mentre  dice  »  Ho  raccolto  dagli  scritti  di  altri  antichi  Medici  Bergamaschi  »  Non  chiama  sua  quella  fatica  ,  ma  dice  semplicemen-  te (89)  »  Vi  spedisco  T  intiera  descrizione  delle    Terme    Bergamasche    >     delle    quali    7*  niente  sin  ad  ora  è  stato  pubblicato  »  Non  si  deve  dunque  condannare  di  plagiario  il  Grataroli  $  e  certamente  non  conviene  ,  che  egli  abbia  avuto  rimorso  di  avere  commes-  so una  cosi  vile,  e  detestabile  impostura  ,  mentre  essendo  sopravissuto  quasi  quindici  anni  dopo  l'edizione  Veneta  di  queir  opu-  scolo ,  sicuramente  non  averebbe  mancato  di  giustificarsi  presso  il  mondo  erudito  cir-  ca il  preteso  plagiato  .  Ecco  tutto  quello  ,  si  può  dire  in  difesa  di  questo  Medico  Fi-  losofo sopra  tale  inssusistente  accusa  ,    altro  posso  aggiungere  «>  se  non  che  far  noto  al  mio  Leggitore  ,  che  per  quante  diligenze  abbia  usate  «>  non  mi  è  giammai  riuscito  di  ritrovare  i  due  citati  mano-  scritti ,  e  che  in  oltre  il  Padre  Donato  Calvi  ,  a  cui  era  nota  Y  edizione  di  Co-  rnino Ventura  ,  non  ha  nella  sua  Scena  Letteraria  dimostrato  di  sospettare  dell'  o-  nestà  letteraria  di  Gulielmo  Grataroli  .  Pri-  ma di  terminare  il  presente  articolo  dei  Bagni  di  Trescore,  riferirò  il  zelante  uma-  nissimo Voto,  con  il  quale  Gulielmo  chiu-  de la  sua  opera  stampata  dal  Giunti  (90);  »  Faccia  Iddio  ,  che  la  Bergamasca  Re-  pubblica abbia  diligente  cura  di  rimettere  nel  primiero    loro    stato    questi    saluberrimi    77   Bagni  ,  che  certamente  lo  può  ,  e  lo  de-  ve fare  »  .  Faccio  io  pure  fervidi  e  sin-  ceri voti  ,  perchè  abbia  effetto  tutto  ciò  che  caldamente  raccomanda  il  Grataroli  ;  e  per  maggiormente  incoraggire  la  mia  Città  ,  ed  i  miei  Cittadini  a  procurare  al-  la patria  un  vantaggio  così  rimarcabile  ,  vivamente  li  supplico  a  leggere  T  erudita  ed  elegante  latina  lettera  di  Lodovico  Zi-  malia  ,  premessa  al  suo  dottissimo  Trattato  dei  Bagni  di  Trescore  ,  dedicato  al  suo  magnanimo  Mecenate  Bartolommeo  Colleoni  Capitano  Generale  degli  Eserciti  della  Sere-  nissima Veneta  Repubblica  ,  (91)  nella  quale  prova  con  una  evidenza  che  sor-  prende ,  e  che  deve  intenerire  chiunque  senta  amore  per  la  sua  patria  ,  che  quello  famosissimo  Eroe  deve  senza  alcun  dubbio  essere  ugualmente  ammirato  ,  e  commen-  dato sì  per  le  sue  azioni  militari  ,  che  per  le  sue  virtù  politiche  ,  a  benefizio  «>  ed  eterno  vantaggio  ,  e  decoro  di  tutta  la  sua  amata  nazione  Bergamasca  .   XV.  De  Notis  Antichrìfli ,  senza  da-  ta, senza  luogo,  e  senza  nome  dello  stam-  patore .  Tuttavia  nominerò  ancor  io  tra  le  opere  di  Gulielmo  un  libro  con  tale  ti-  tolo ,  ritrovandolo  registrato  dal  Calvi  ,    e    78  dal  Papadopoli  suo  copiatore  ,  ma  non  dal  Frehero  ,  non  dal  Bayle  ,  non  dai  Maizeaux  suo  illustratore  ,  non  dal  Mer-  ci: lino  ,  non  dall'  Eloy  ,  mentre  tutti  que-  sti si  suppone  avessero  molto  interesse  di  far  autore  di  un  libro  Anticattolico  Romano  un  erudito  e  dotto  Italiano  -  sic-  come era  da  tutti  considerato  il  Grataro-  li.  Non  però  verun  altro  Letterato  ha  po-  sto nel  Catalogo  delle  sue  opere  V  accen-  nato libro    D'  altronde  è  cosa  più  che  cer-  ta ,  che  si  può  scrivere  dei  caratteri  dell'  Anticristo  anche  dalla  più  religiosa  e  ze-  lante penna  cattolica  :  ed  è  certo  di  più  ,  che  il  Calvi  ,  o  non  averebbe  registrato  un  così  fatto  libro  ,  o  non  averebbe  man-  cato di  scriverne  qualche  parola  in  dete-  stazione del  medesimo .  Ma  di  più  anco-  ra quanto  al  Papadopoli  ,  probabilmente  questi  non  averà  nemmeno  veduta  quest*  opera  ,  essendosi  intieramente  riportato  al  Padre  Calvi  ,  siccome  egli  stesso  scrive  nella  sua  storia  dell'  Università  di  Padova  parlando  di  Gulielmo  Grataroli  .  Avendo  in  oltre  riportati  i  titoli  delle  altre  sue  opere  senza  data  ,  alterati  ,  e  confasi  no-  tabilmente, non  sarebbe  stato  egli  il  primo  a  giudicare  di  un    libro    mai    veduto  ,        79   letto    A  me  stesso  è  accaduta  la  medesi-  ma sorte  y  non  solo  di  poterlo  trovare  >  ma  neppure  di  averne  fondata  contezza  ,  per  quante  ricerche  abbia  usate  non  sola  in  Italia ,  ma  altresì  nella  Germania  e  nell*  Olanda  .  Sostengo  finalmente  ,  che  se  que-  st*  opera  esiste  ,  che  io  non  credo  ,  o  se  fu  composta  da  Gulielmo  Grataroli  -,  non  doveva  essere  tanto  malvagia  e  perversa  ,  quanto  alcuni  senza  ragione  sospettano  ;  mentre  che  tutte  le  opere  del  Grataroli  è  vero  che  sono  poste  nell*  indice  de'  Libri  proibiti  ?  ma  con  la  semplice  cautela  ;  Quandiu  emendata  non  prodieri  nt  (92)  «  Dal  che  si  è  da  presumere  che  se  que-  sto fosse  stato  un  libro  veramente  Etero-  dosso ,  Santa  Romana  Chiesa  lo  avrebbe  posto  nella  classe  dei  libri  empj  e  mal-  vagi di  prima  classe     XV I.  Confilium  de  Proe fervanone  a  Vcnenis  .  Gulielmo  Gratarolo  Aucìore  .  Hamburgi    1673.  in   8.   Ecco  registrate  tutte  quelle  opere  che  mi  è  riuscito  di  raccogliere,  le  quali  furo-  no composte  da  questo  dottissimo  Medico  e  Filosofo  :  ora  passerò  alla  seconda  classe  delle  opere  tradotte  e  fatte  stampare  dal  medesimo .    8o   J.  Joannis  Braccfchi  de  Alchimia  ,  cum  propofìtionibus  29.  Idem  argume  ri-  rum  compendiofa  brevitatc  compleclens  ex  Italico  Aucloris  Autographo  in  latinum  verni  ->  &  edidit  Gulìelmiù  Gratarolas  .  Basilea  156*1.  in  folio.  Apud  Henricum  Petri  .   Non  mi  è  noto  dove  sia  stata  stam-  pata la  prima  volta  questa  traduzione;  ma  solo  ne  ho  trovata  un'  altra  ed  zione  fat-  ta in  Amburgo  neir  anno    1^7  3.  in   8.   II.  Chirurgico  rum  quorundam  Auclo-  rum  Libros  Gali  ice  fcriptos  latine  reddidit  ?  &  in  cap'-ta  difiribuit  Gulielmus  Grataro-  las    Lugduni  1555.  in  8.  Apud  Gabrie-  lem  Coterium  ,   Classe  terza  delle  opere  d*  altri  Scrit-  tori fatte  stampare  con  prefazioni ,  note  y  e  commenti  da  Gulielmo  Grataroli  .   I.  Ve  ree  Àlchymìce  Scriptores  aliquota  cum  Praefationibus  9  &  D celar ationibus  col-  Ifgit y  &  una  edidit  Gulielmus  Gratarolas.  Basilea? ,  apud  Henricum  Pctri  156*1.  in  folio  .   II.  Vetri  Apone njls  de  Vene ni s  eo-  rumane  Remediis  ,  cum  Additionibus  Gu-  Udini  Grataroli .  Francofurti ,  apud  Joan-  n  ìm  Velici    1552.  in   8.    8i   III.  Hermannl  a  Ncunare  de  no-  vo haclenufque  inaudito  Germanice  morbo  ^pompar*  idcft  judatoria  febre  ,  quern  vulgo   fudorem  Britannicum  vócant,  libellus  a  Gu-  lielmo  Gratarolo  editus.  Colonia?  1569,  in  4.  Ermanno  Ncunare  era  Conte  e  Pre-  vosto  della  Cattedrale  di  Colonia  .   IV.  Simeonis  Riquinii  Judicium  do~  clijjimum  duabus  epijìolis  contentimi  de  fiutato  r ice  Febris  cura t ione  editum  a  Gu~  lielmo  Gratarolo  Medico  >  &  Philofopìio  B  ergo  mate  .  Colonia    1559.  in    j  6.   V.  Joackini  Schdlerii  ^  o  come  altri  scrivono  Sckilfeni  de  Pejìe  Britannica  Commentariolus  aureus  a  Gulielmo  Grata-  rolo Medico  &  Philofopko  editus  .  Basilea?  1  5  c>  3.  Apud  Henricum  Petri   in    12.   VI.  Alexandri  Benedicii  de  Pejlilen*  tioe  Caujjls  s  Proe fervanone  >  &  auxiliorum  Materia  Liber  Jingularis  :  Omnia  ex  ma-  nufcriptis  exemplaribus  auxit  y  &  illujìravit  Gulielmus  Gratarolus  Medicus  9  &  Pialo-  fophus .  Basilea?  1559.  in  4.  Ibidem  1572.  in  folio  apud   Henricum  Petri .   VII.  Correcliones  ,  &  Additiones  ad  librum  Italicum ,  falfo  tributum  Fallopio  7  infcriptum  ,  Secreta  Fallopii  .  Francofurti  irfoò.    in    folio   ,    e     i6"o£.    cum    operimi   6  1    82   Appendice  Guliehni  Grataroli  Medici  Bcr-  gomatis.  Girolamo  Mercuriali  da  Forlì  coe-  taneo del  Grataroli  ,  soprannomato  Mercu-  rio e  Trimegisto  per  la  vastissima  sua  medica  scienza  ,  nell'  erudita  opera  :  De  ratione  dijcendi  Mediana/?!  ,  edizione  di  Argentina  dell'  anno  16*07.  >  m  proposito  dei  libri  falsamente  attribuiti  a  Gabriele  Fallopio ,  racconta  che  vi  furono  alcuni  ,  i  quali  o  per  malignità  ,  o  per  sordido  lucro  cacciarono  fuori  opere  sotto  il  nome  del  Fallopio  ,  che  affatto  non  sono  sue  ,  come  il  libro  dei  Secreti  .  Opere  indegne  del  suo  maestro ,  e  soltanto  capaci  a  to-  glierli quella  vera  ,  e  soda  gloria  ,  la  qua-  le  si  era  acquistata  presso   i   dotti     Vili.  Cenjura  &  Additiones  in  Li*-  bruni  Alexii  Pedemontani ,  ubi  de  Quinta  effentia  funplici  .  Per  Gulielmum  Grataro-  lum  .  Venetiis  apud  Jun£hs    1562.  in    12.   IX.  Conjìha  ,  &  Curationes  variorum  doclijfimorum  Medicorum  de  Sudore  An-  glico a  Guliehno  Gratarolo  edita  .  Colo-  nia apud  Franciscum  Hofmannum  1602.  in  folio  .   X.  Thaduei  F/orenini  ,  che  1'  Alido-  sio  chiama  Taddeo  Aledrotto^  &  Guliclnù  a  Brixia    Conjìlia      Colonia*    i^c^.    Apud    Iranciscum  Hofmannum  in  4.  Per  Gidid-  mum  Gratarolum  .   XI.  Johannis  de  Kupecijja  de  Extra-  tione  Quinte?  ejfentioe  omnium  rerum  prò  u fu  Medico .  Venetiis  apud  Juntìas  156*1.  in    1 2.   XII.  Theatrum  G aleni  >  hoc  eft  uni-  verjlv   medicince  a  Galeno   diffupz  *>    fpar-   f inique  traduce  Promptuarium  completimi  >  &  in  meliorem  ordinem  redaclum  per  Lu->  dovicum  Luride llum  a  Gulielmo  Gratarolo  Medico  }  &  Philojbpho  editimi  .  Basilea?  15  68.  Apud  Henricum  Petri  in  folio  «>  Hamburgi  apud  Joanneni  Neumannum  >  &  Georgium  Volfium    \6j2.  in  foiio.   XIII.  Petri  Pomponacii  de  Incanta*  tionibus  libri  III.  in  quibus  dijficilUma  Ca-  pita  >  &  Quefliones  Theologicoe  ,  &  Philo-  fophicoe  ex  jana  Orthodoxoe  /idei  doclrina  explicantur  >  &  multis  rarìs  Hijìoriis  >  &  Glojfulis  illujlrantur .  Per  Gulielmum  Gra-  tarolum Medicum  ,  &  Philojbpkum  Bergo-  matem  >  qui    in  omnibus  Canonica^  Scri-  ptum,  &  Janclorum  Dociorum  Judicio  fub-  mittit  .  Basilea?  Kalendis  Martii  ex  Offi-  cina Henripetrina  1 5  6*7.  in  8.  cum  Csesa-  rea  Majestatis  gratia  &  privilegio.  Quesra  edizione   del    trattato    deeli    Incantesimi  di    &4   Pofnponacio  tu  consagrata  dal  Grataroli  a  Federico  Conte  Palatino  con  una  nobilissi-  ma ,  e  giudiziosissima  dedicatoria  impiega-  ta parte  in  encomj  della  virtù  e  meriti  di  quel  Principe,  e  parte  in  difendere  Y ope-  ra di  quel  Filosofo  Mantovano ,  del  quale  afferma  e  sostiene  ,  che  fu  a  torto  impu-  gnato ,  e  perseguitato  ;  e  che  se  fosse  sta-  dio con  prudenza  e  carità  Cristiana  tratta-  to ,  sarebbe  riuscito  uno  dei  più  zelanti  e  forti  Apologisti  della  Chiesa  Cattolica  ,  co-  me riferisce  essere  avvenuto  a  Giustino  Martire ,  al  grande  Agostino ,  ed  a  mol-  tissimi altri  difensori  della  nostra  santissima  religione    Di  fatti  Pomponacio  per  atte-  stato di  tutti  gli  Scrittori  della  sua  vita  mori  cattolicamente  (93)  :  »  Voglio  spera-  re  ,  che  Pomponacio  prima  di  mandare  fuori  T  ultimo  suo  spirito  ,  siasi  per  sin-  golare grazia  delia  divina  providenza  e  mi-  sericordia ravveduto  e  pentito ,  e  che  non  abbia  perseverato  neir  ateismo  .  Imperoc-  ché tale  essere  stato  il  Pomponacio  Y  ho  udito  spesse  fiate  a  rammentare  da  Elideo  Medico  di  Forli  chiarissimo  ornamento  del-  la medica  scienza  ,  ed  uno  de  suoi  più  cari  discepoli  » .  Ho  ricopiato  questo  sen-  timento   dui  Grataroli    acciocché    si  cono-    sca  quanto  grande  fosse  Sa  sincerità  e  Tat-  ,  taccamento  verso  la  Chiesa  Cattolica.  Gis-  berto  Voet  ,  o  Voezio  ^  dotto  Professore  di  Teologia  -,  e  delle  lingue  Orientali  neìl'  Università  di  Utrecht  ,  inimico  capitale  della  Filosofia  e  di  Cartesio  ,  ha  parlato  con  molta  lode  della  suddetta  edizione,  di-  cendo (94)  »  Gulielmo  Grataroli  Medico  Italiano  ,  li  di  cui  scritti  vengono  coiti*  mendaci  per  lo  zelo  di  pietà  e  di  religio-  ne che  vi  traspirano,  e  per  li  encomj  de*  quali  lo  ricolma  Teodoro  Beza  nelle  sue  lettere  ,  e  per  li  suffragj  di  molti  altri  uo-  mini dotti,  che  lo  trattarono  nelle  sue  ope-  re stampate  in  Basilea  difende  Pomponacio  contro  li  suoi  caluniatori,  ed  afferma,  che  abbia  terminati  i  suoi  giorni  assai  pia-  mente »  .   Dalla  medesima  dedicatoria  di  Gulielmo  da  esso  scritta  un  anno  solo  prima  del  suo  pae-  saggio all'altra  vita  si  rileva,  che  già  die-  ci anni  innanzi  egli  aveva  fatto  stampare  r  senza  che  mi  sia  riuscito  di  sapere  in  qua!  parte  ^  il  Trattato  De  ìncantationibus  di  Pomponacio  ,  perchè  così  scrive  al  Princi-  pe suo  Mecenate  *  (9$)  »  La  parte  di  questo  libro  ,  che  tratta  delle  cause  ,  e  degli  effetti  naturali,  o  sia  degli  Incantesi-    u   mi  fatta  da  me  stampare  sono  già  più  di  dieci  anni  ,  T  avevo  dedicata  e  spedita  air  Illustrissimo  Principe  Ottone  Enrico  Elettore  di  felice  memoria  ,  e  S.  A,  non  sdegnò  di  ringraziarmi  con  lettere  di  suo  proprio  pugno  »  .  Mi  è  piacciuto  di  nuo-  vamente riportare  quanto  Gulielmo  Grata-  roli  scrisse  in  quella  sua  elegante  Dedica-  toria ,  perchè  dalla  premura  e  zelo  da  es-  so dimostrato  sino  agli  ultimi  periodi  del-  la sua  vita  ,  e  dalla  universale  estimazio-  ne ,  che  hanno  sempre  costantemente  fat-  ta palese  in  faccia  di  tutto  il  mondo  tanti  letterati  del  primo  ordine  ,  d*  ogni  nazio-  ne ,  e  d'  ogni  religione  ,  della  dottrina  ,  della  probità  ,  e  dell'  amore  del  vero  ,  e  del  giusto  ,  che  ha  conservato  in  tutte  le  sue  operazioni  ,  possa  invogliarsi  qualche  valente  ed  erudita  penna  della  sua  ,  e  mia  patria  a  tessere  ,  ed  in  assai  miglior  modo  ordinare  una  più  compiuta  istoria  scevra  dai  difetti  ,  dei  quali  questa  mia  pur  troppo  è  ripiena  ,  di  un  Filosofo  e  Medico  j  che  ha  impiegati  e  consagrati  tutti  i  suoi  talenti ,  e  tutti  i  momenti  de'  tuoi  giorni  a  benefizio  e  vantaggio  della  languente  umanità  ,  ammaestrando  ed  illu-  minando il    mondo   tutto  con    le  numerose    *7   produzioni  del  sublime  suo  ingegno  ,  tra-  sportando nella  lingua  più  universale  mol-  tissime opere  in  diversi  altri  idiomi  com-  poste da  più  dotti  e  famosi  scrittori  ^  ed  in  fine  illustrando  ed  arricchindo  di  uti-  lissimi riflessi  e  profittevoli  commenti  un  numero  immenso  di  interessanti  volumi  ^  i  quali  contengono  ogni  genere  di  scien-  ze e  di  cognizioni  ,  siccome  ne  forma  una  evidentissima  prova  il  copioso  Cata-  logo delle  sue  opere  da  me  coordinato ,  ed    esteso .    ANNOTAZIONI    (i)  Sommario  di  antichi  Protocolli  esistente  nella  Pubblica  Libreria  della  Città  di  Bergamo  compilati  da  Giuseppe  Mozzi  .   (i)  Ex  libro  extimi  M.  Civitatis  Bergomi  .  Tom.  i.  pag.  80.   (3)  Àrbore  prodotto  da!  Nobile  Signor  Francesco  Grataroli  Tanno  1737.  li   18.  Marzo.   (4)  Sommario  di  alitici  Protocolli  compilati  da  Giuseppe  Mozzi  .   ($)  Creatus  fiat  Civis  Piligrinus  de  Gratarolis .  An-  no 1507.  Die  12.  Novemb  Ex  Filtia  Rclationum  ,  &  Registro  Conciliorum  Tom.   1.  pag.  78.   (6)  Donato  Calvi  Effemeride  Tom.  1.  pag.  318  Diario  del  Beretta  sotto  li   1?.  Giugno  Anno  ijh.   (7)  Nicolai  Comneni  Papadopoli  Hist.  Gymnasii  Patavini.  Apud  Sebastianum  Coleri  1716.  Tom.  1.  pag.  314.  n.  62.  Iacobi  Facciolati  Fasti  Gymnasii  Pa-  tavini. Typis  Seminarli  1757.  apud  Ioannem  Manfrc  Tom.  2.  pag    296.   (8)  Papadopoli  Hist.  Gym.  Pat.  Tom.  1.  pag.  300.  n.  42.   (9)  Papadopoli  Hist.  Gym.  Pat.  Tom.  2.  pag.  213.  n.  90.   (io)  Facciolati  Fasti  Gym.  Pat.  Tom.  2.  pag.  337.   (11)  Donato  Calvi  Scena  Letteraria.  Bergamo  per  li  Figliuoli  di  Marcantonio  Rossi  1664.  in    pag»  307»   (12)  Argentorati  per  Uvendelinum  Richelium  1563.  pag.   1  io.   dì)  Memini  ante  annos  fexdecim  cum  Mediala  ni  publico  in  quodam  divergono  vemociarem  (  nomai  aut  in/igne  nunc  non  fuccurrit  ,  fed  fi  Mie  ejfe/n  ,  inverti*  rem  ,  )  aique  alìquot  Mie  (  ut  fere  femper  Junt  in  ea  ampia  civitate  ,  lufores  ,  &  miri  truffatores  )  ejfent  ex  Ma  ìiominum  fdd  ,    qui  tamen  fibi  aliquid   ejfe  videi  an-    «9   tur,  quod  domefiici  urbis  forcnt ,  cum  hojpes  mihi  lecbum  indie  a fl et  fatis  bene  flratuin  ,  in  (tuia    rei  cubiculo  ,    ubi   quanto  r  aia  quinque  ali)  leòli  non  incornino  de  parati  t  aliquis  ilio  rum  furciferorum  feiens  quis  mihi  Uclus  efì'et  ajfignatus  ,  dunque  cubiculum  intrans  ,  (  nam  fere  fem-  \  :r  patent  )  &  lodice  cum  liriteamine  Juperiure  detratta,  vini  frufla  fatis  magna  &  tenuja  per  le  cium  depofuit  a  fummo  ad  imum  inter  duo  linteamina  ,  putaris  me  fine  Zumine  ,  incautumque  intraturum  lectum  ,  ac  vulneratum  iri  debere ,  ac  ita    habiturum  occafionem  cum  focijs  ri-  deridi,  Sed  curri  more  meo  prius  lumine  leclum  antequam  decumbam  colluftrem  ,  facile  fcclus  inveni  ,  ac  hofpiti  (  licet  fruftra  )  indicavi  :  nemo  enim  fateri  voluit    fuiffe  .  Certo  vero  feio  me  ne  per  f omnium  quidem  ilio-  rum  quenquam  l&fiffc  :  nifi  l&dere  fit  non  ludere  ,  aut  perpotare  cum  talibus  ,  pag.   i  £  f .  ,  e  li 6.   (14.)  Anno  isso,  menje  Majo  in  Valle  Camunica  agri  Brixiani ,  cum  effern  fub  horam  Coen  a  in  hofpitiurn  pluvia  onuftus  Ò*  equo  feffo  veniffem  ,  ubi  plures  erant  hofpiti  infcrvientes  femifamuli  adolefccntes  ccenatus  funi  fatis  y  prò  loco  ,  laute ,  Ù*  cum  fitirem ,  non  peper-  ei vino  opthno  &  potenti ,  fed  cura  omnem  ebrietatem  .  dunque  eo  vefperi  cum  quodam  equos  venales  ex  Ger-  mania puto  ,  vel  ex  Foro  Varronis  vulgo  Vare  fio  ,  de*  ducente  mercatore ,  equum  meum  parvurn  cum  magno  &  iuvenc  pcrmutafjem  ,  additis  aliquot  Coronatis  ,  crurne-  narn  ,  ubi  non  minus  coronatis  quìnquaginta  erant ,  IU  bere  ,  ut  in  loco  de  quo  mali  quidquam  non  fufpicabar,  evagino  ,  Ó*  Coronato  s  UH  numero  .  Parum    fi  itur  dormitum  .  Datur  mihi  proprius  leclus  ,  famulus  hofpitis  exuit  caligas  ,  fuppono  cervicali  ac  capiti ,  eo  tamen  vi-  dente  ,  peram  :  Dormio  in  utranque  aurern  ,  ut  ajunt  ,  Ó*  prof  un  de  ,  prater  more  ni  fefjus  .  Cum  in  aurora  fur-  gendum  efi  ,  qu&ro  crumenam  ,  non  iuvenio  ;  hofpitem  clamito  ,  enfemque  arripio  9  meque  eo  nudo  in  porta  fi-  fio  ;  minitor  me  neri  permiffurum  quenquam  egredi  ,  nifi  quod  meum  erat  inueniam  :  erant  ibi  advenA  aliqui .  In-  terea  hofpes  e  lecio  furgit ,    qu  il  profejfeit  ,  il    vit  reduit  a  une  grande  pauvrete  ,  &  ainfi  ce  fut  fa  pieté  ,  qui  le  rendit  miferahle  .   (19)  Tom.  3.  pag.  193.  Dizionario  storico  della  Medicina.  Napoli  per  Benedetto  Gessari  1763.   (20)  Tom.  1  pag  507.  e  yo8.  Bibliot.  Medica  Script.  Veter.  &  Recent    Genevae  173 1.   [zi)  At  Petrus  Vermillius  in  hac  ipfa  vera  fapicn-  iu  fede  juvenem  veneno  infecit  ,  atque  ita  injecia  tabe  iorrupity  ut  regrejjus  in  paviani  facra  omnia  defpicercty  Ó*  emendatioris  religionis  velamcnto  ,  qua  Luth erano rum  ,  qua  Sacramentariorum  dogmata  ciani  palam  difjeminaret  :  ergo  in  fufpicionem  Gratarolus  Bergomi  venit  cjuratA  Or-  thodoxA  fidei ,  reufque  apud  Jacros  Qus fitorc s  factus  ,  prò-  pe  in  cancreni  ,  quem  utique  mcrebatur ,  conijciendus  ,  fuga  fibi  con f ululi  ,  atque  inops  ,  &  vùfer  ad  Rhcetos  fcccffit  .  Tom.  2.  pag    213.  n.  90.   (il)  Papadopoli  .  Tom.  2.  pag.  213.  n.  90-  (zj)  Mihi  autem  ex  Italia  fupra    decem  annos  ,  oh  ram   Da  gratta  veritatem  &  iufiitiam  peregrino      (24)  Faxlt  Omnipotens  U*  jufiifftmus  Deus  ,  ut  in  glorìam  [nani  edam  fi  ita  fu&  Mtj e  fiati  vifum  fucrh  ,  cas  7 ep etere  poffiumus   (15-)  Ex  Officina  Henripetrina,  Basilea:  IJ67.  Pe~  tri  Pomponacii  de  Incantationibus  Libr.  in.   {zG"  In  quibus  diffidi  lima  capita  ,  &  Qua  filone  $  TheolcgicA  ,  Ó*  Philofopiiic*  ex  fana  Ortodoxsi  fidei  do-  ttrina explicantur  ,  &  multis  raris  hifioriis  paffim  illu-  firantur  per  auciorem ,  qui    in  omnibus  CanonicA  Scri-  ttura ,  Sanftorumque  Doc^orum  judicio  fubmittit .   (27)  Scena  Letteraria  .  Bergamo   1664.   (28)  Effemeride  Sacra  Profana  di  Bergamo  .  Mila-  no per  Francesco  Vigone   1676.  Tom.   3.  pag.  41^.   (19)  Calvi  Scena  Letteraria  nell*  Elogio  del  Già-  taroli  .   (30)  Gratulor  vobis  veflram  pacem  &  concordiam  ,  quodque  docliffimis  ,  &  optimis  viris  ,  quibus  veflra  fcho-  la  abundat  ,  mine  edam  aecedat  &  vere  plus  ,  )  Rammenta  la  sua  Professione  di  Fede  diretta  prima  in  forma  di  lettera  a  Melchiorre  Voi  mar  suo  Maestro  ,  quindi  stampata  in  lingua  latina  in  Ginevra  T  anno  1  rèo.   (56)     GUL1ELMO     GRATAROLO  MEDICO     ET    PHILOSOPHO   Mi  Gratarole  gradarti  tibi  habeo  prò  tua  in  me  he-  ncvolentia  ,  rogoque  ut  fi  modo  quo  fieri  pojfit  ,  id  mihi  pr&fies  ,  de  quo  poftremis  tuis  literis  ad  me  fcripftfti ,  ui  tempeftive  refpondeam  .  Ab  ilio  nihil  fané  metuo  ,  immo  cupidiffìme  hanc  occafionem  amplecìar  ,  improbi/pimi  homi-  nis  nomiti aùm  appellandi  ,  quod  adhuc  facere  noluì  ,  ne  omnem  ci  refipifcienù&  f petti  viderer  pr&cludijfe  .  Veruni  hoc  amabo  ,  referibe  fi  quam  fecero  in  mea  refponfione  mentionem  ,  Belli/  ,  Ò*  Thcologisi  Germanica,  9  Óf*  Me    eorum  librorum  autorem  inficiami' ,  num  id  poffit  ita  fecure  affannare  ,  ut  fi  neccie  fuerit  tefiibus  etiam  ,  atit  idoneis  argumentis  convinci  poffit .  Nam  de  re  ipfa  id  eft ,  quin  revera  libros  illos  ,  ac  pr&fertim  Prafationent  Bcllianam  ediderit,  non  dubito  .  Sed  videndum  nobis  eft,  ut  non  tantum  detegatur  ifte  ,  veruni  etiam  convincatur  ,  ut  tandem  omnes  norint  qua.  fu  fancii  iftius  viri  confeien»  ùa    Coeterum  quia  venturus  eft  ad  nos  ifte  qui  has  lite-  ras  reddidit ,  rogo  ut  ci  committas  duos  ex  meis  libellis  9  quos  apud  te  habes  ,  nempe  Aefchili  ,  Ó*  Pindari  qu&-  dam  y  fìcut  ex  titulis  cognofees  .  Iis  vero  fi  adjunxeris  tuum  illum  Pomponacium  ,  &  Ccelii  librum  »  De  Ampli-  tudine regni    Lei  »  gratijfimum  mihi  feceris .  Sed  &  hoc    94-  rogo  ut  mlhi  prApes ,  ncmpc  ut  perconteris  ex  Oporino,  num  Henricus  Stcphanus  ifihac  nuper  tranfiens  ab  eo  accepc-  rit  aliquot  Etìlico  rum  Gr&co-Latinorum  cxemplaria ,  quo!  fi  ita  effe  compereris  ,  vellem  ,  &  illud  ex  Conradi  Re*  fchìj  Viàna  refeires  ,  ubi  nani  ea  reliquerit .  Mea  enim  funi ,  quod  idi  affifmare  poteris ,  &  commode  per  hos  ad  me  afferentur.  Quod  fi  nulla  acceperit ,  tum  iflì  recipiente  &  ad  me  perjerent  .  Vides  quo/nodo  ,  &  quam  facile  opera  tua  mar .  Tu  viciffim  impera  ,  quìdquid  a  me  prdfiari  tuo  nomine  peffe  credideris  ,  £r  te  a  me  pluvi-  mimi  diligi  ,  ubi  perfuade  .   Genève  Apud  Eufiachium   Vignon  i$7$.  Epifl.  46.   (57)  Era  costui  Claudio  de  Santis  suo  nemico  ,  il   e  in  certo  suo  scritto  contro  il  Beza,  che  si  legge  nel  tomo  IL  delle  Opere  del  suddetto  Beza  alla  pagi-  na 361-  gli  fece  questo  rimprovero.  »  Qeneva  pedem  non  audes  efferre  ,  ne  te  quifquis  invcneril  ,  ut  alterimi  Cain  occidat .  »  A  questa  minaccia,  così  rispose  il  Be-  ?.a  .  »  Et  fi  mihi  appofuos  a  tuis  illis  &  veneficos  ,  o.   (8f)  Calvi.  Scena   Letteraria.   (so)  Hac  ego  Gulielmus  Gratarolus  Dottor  Me-  dicxs  ,  cum  ex  mea  oculata  obfcrvatione  ,  tum  aliorum  Bergomatum  Medicorum  veterum  fcriptis ,  Ó*  longa  pra-  ti ,  b revita' ,  &  non  obfcure  collegi  ad  proximi  conu  modum  .   (81)  Cttemrn  mino  de] cripti onem  integram  Bergo*  matura  Thermarian  ,  quéi  a  Rhcetia  non  plus  quam  li-  dia itinere  difiant  ;  de  his  nihil  unquam  typis  excufum  :ji  ,  ac  [pero  ,  ut  antea  fuere  ,  in  f munirti  quoque  fa-  mofas  futuras ,  pr&fertim ,  cum  pene  occulta  earum  vir-  vis  palam  fatta  literis  cernetur ,  ni  te  pigeat  Italica  Gcr-  manlcis  mifeere .  De  Baìneis  Omnia  qnx  extant.  Vene-  tiis  ;  apucl  Jundks  1  ^7.  pag.  192.   (ss)  Tum  aliorum  Bergomatum  Medicorum  Vete-  rum  fcriptis  ,  Ó*  lunga  praxi  breviter  ,  &  non  obfcu-  ì  e    collegi  .   (se,)  Mino  deferiptionem  integram  Bergomatum  Thcrmanim   de   quibus  nihil  unquam  typis   excufum    eft .   (pò)  Faxit  Deus  ut  Refpublica  Bergomatum  in  prifti-  num  re  fimi  bue  faluberrima  Balnea  fedulo  cui  et ,  quod  tquidem    &  poteft  ,  &   deb  et .   ($1)  Ludovici  Zimalire  Bergomènsis  Medici  Dcscri-  ptio  Balneorum  Vallis  Transclierii  .  De  Balneis  Tran-  scherii  Oppidi  Bergomatis  cjux  extant  omnia  .  Bergo-  mi   anno    ifSi*    Typis    Gpmini   Ventane   Typographi   (91)  Index  L'brorum  Prohibitomm.  Roma:  17 il.  ex  Typographia  Rev,  Cam.  A  post,  in   8.  pag.   101.   (91)  Pomponatium  ante  redditum  fpintus  extremi  halitum  refìpuiffe  ex  fingulari  Dei  mi]  esattone ,  nec  per-  ni anfuiff  e  Atheum  fp erare   volo  .   (g^  Gulielmus  Gratarolus  Medicus  Italus  (  quem  propria  f cripta  uno  volumine  in  ottavo  Bafìlea  edita  ,  O*  tefiimonium  Bcza  in  epiflolis  ,  &  ut  in  dedicationc  Libelli  cuiufdam  ,  aliorumquc  pr&terea  dottorum  virorum  f uff  ragia  ,  quorum  fa  millantate  B  a  file  a  ,  Ò*  alibi  ufus  eft  ,  ac  pietatis  \elo  covnnendant  )  cum  contra  calumnia-  torcs    tuetur,  IT  pie  prò  co   tempore  vitam   cum   morte ,    99  commutale  fcribìt  .  Voétius  :    Dlsputat.  Thcolog.  Tom-   i.  pag.  197.   (ys)  Huius  libri  partati  eam>  qu&  de  naturalìbus  effettuum  caujfis  ,  feti  de  Incantationibus  a  me  alias  an-  te annos  decem  Adita  ni  nuncupaveram  ,  ac  miferam  II-  luftnjfimo  foelicis  memoriti  Principi  ditoni  Henrico  eh:  (lori  ,  cuius  Celfitudo  haud  dedignata  eft  literis  fuis  nu-  li ì  grati as  agert  >    loo   Neil5  esaminare  che  ho  fatto  tutti  i  libri  degli  Istorici  dell'  Università  di  Padova  per  ritrovare  qual-  che notizia  intorno  alla  Vita,  agli  Studj ,  ed  agli  Scrit-  ti di  Gulielmo  Grataroli  ,  ed  ancora  per  rammentare  tutti  quelli ,  i  quali  nella  medesima  furono  suoi  Precet-  tori ,  o  suoi  Comprofessori  ,  molti  ne  ho  trovati  spet-  tanti alla  mia  patria  ,  onde  ne  ho  trascritti  tutti  i  loro  nomi  dalla  istituzione  di  quel  celebratissimo  Studio  sino  ai  nostri  giorni,  ed  ho  creduto  di  fare  co-  sa piacevole  agli  eruditi  miei  Concittadini  formarne  un  Catalogo  ,  ed  aggiungerlo  alla  presente  Vita  di  Gulielmo  Grataroli  ,  intorno  al  quale  registro  io  non  ho  altro  da  avvertire  ,  se  non  che  per  la  Cronolo-  gia non  mi  sono  servito  di  verun  altro  Scrittore  fuorché  dell'  eruditissimo  Jacopo  Fa:ciolati  nei  suoi  Fasti   dello    Studio   di  Padova  .    CATALOGO   DE'  RETTORI  ,  SINDICI ,    E  PUBBLICI  PROFESSORI   DELL'UNIVERSITÀ*  DI  PADOVA.   di   nascita  ,   o    di   origine    Bergamaschi.   12.71.  Bartolommeo  Sago  ,  Rettore.   1 3 8y-  Gulielmo  Suardo.  Ret. Prof,  di  Legge.   1407.  Gasparino  Barziza.  Ret.  Prof,  di  Filosofìa   Morale  .  1411.  Giacomo  della  Torre.         Ret.  Prof,  di  Medicina.  1414.  Alberico  Avogadro,  Prof,  di  Legge  .   1450.  Antonio   Piceni.  Ret.  Prof,  di  Teologia,   e    d'  Eloquenza  .  1434.  Gio.  Lodovico  Radici.         Prof,  di  Legge  .  1434.  Cristoforo  Barziza  .  Prof-  di  Medicina.    i  4  4*-  Francesco  Michele  Carrara.  145-0.  Giovanni  Agostini.  H19.  Girolamo  Albani.  1468.   Cristoforo   Odasi  .  1471.  Giacomo  Ragazzoni  .  1478.    Rafaele  Regio  .   1480.  Maestro    Corradino.   1481.  Bernardo   Carrara  .  1494.  Niccolò  Marchesi  .  1497.  Gio.  Battista  Barziza.  1497.  Francesco  Niccolò  Carrara.  1499.  Michele  Albano.  1501.  Giovanni  Tebaldi  .  1 5-01.   Andrea    Benzoni.  ifoy.  Cristoforo  Albrici.  1  509.  Sebastiano  di  Bergamo.  15-19.  Girolamo  Grataroli  .  15-10.  Gio.  Battista  Botani.  1  fio.  Francesco  Vitalba.  1  fio.  Marcantonio  Cucchi.  x  f  li.  Scipione  Boselli .  1  f  11.  Gio.BattistadiMartinengo.  1  yii.BernardinoCardinaleMarfei  ijxi.  Ventura  Foresti.  15-11.  Marzio   Agazzi.  15-14.  Giovanni  Gandino.  1514,  Flavio  Querenghi.   15-1$-.  Francesco  Albani .  iji6.  Girolamo  Rivola.   1  f  17,  Gio.  Pietro  Giordani .  15-17.  Girolamo  Tirabosco.  1^17.  Agostino  Mozzi.  ifi8.  Giacomo  Salvetti .  1  5-18.  FrancescoVittorio  Memoria  1 5-19.  Francesco  di  Lovere  .  15-19.  Francesco  Assonìca.  15-30.  Francesco  Gaioncelli.  1530.  Alessandro  Monaci.    101  Rct.  Prof,    Filosofia.  Ret.  Prof. di  Medicina.  Ret.  Prof,  di  Medicina .  Ret.  Prof,  di  Medicina ,  Prof,  di  Filosofìa.  Prof,   d*  Eloquenza .  Prof,  di  Teologia .  Ret.  Prof,  di  Legge.  Ret.  Prof,  di  Legge.  Ret.  Prof. di  Medicina.  Ret. Prof,  di  Legge.  Ret. Prof,  di  Medicina.  Ret.  Prof,  di  Legge.  Rettore.  Prof,   di  Legge.  Prof,  di   Legge.  Prof,  di  Filosofia.  Prof,  di  Legge.  Ret.  Prof,  di  Medicina.  Prof,  di  Legge .  Prof,  di  Legge.  Prof,  di  Legge.  .  Prof.  d'Eloquenza.  Prof,  di  Medicina.  Prof,  di  Legge  .  Prof,  di  Medicina.  Prof,  di  Filosofia  Mo   rale  .  Prof,  di  Medicina .  Prof,  di  Filosofìa  Mo«   rale  ,  Prof,  di  Legge .  Prof,  di  Medicina.  Ret.  Prof,  di  Legge .  Prof,  di  Legge.  .  Prof,  di  Medicina.  Prof,  di  Legge .  Prof,  di  Legge.  Prof,  di  Legge.  Prof,  di  I-eggc.    lei   2  f  3 1.  Marcantonio  Passeri.   i  j 3  i.  Cristoforo  Federici.   i  f  3 1 .  Bernardino  Licini.   M51»  Domenico  Albani  .   1552.  G10.  Maria  Fini.   1^51.  Alessandro  Cannelli  ..   1  f  3  5.  Andrea  Paganelli .   1  H3«  Paolo   Calvi .   i)53.  Galeazzo  Lano .   i)'5j.  Gio.  Elice  Piceni  .   1  f.3,3.  Giovanni  Marinoni.   tv 54.  Stefano  Giordano.   1  H  j.  Lodovico  della  Torre .   1^36.  Gio.  Battista  Rota.  1537.  Gulielmo  Gratarolo.  1  ^37.  Simone  Vertova  .  1^39.  Leonardo   Passeri.  i^3^.  Girolamo  Lolini  .  i;4o.  Gio.  Battista  A migoni.  1  Ho.  Sebastiano   Bravi  ,  15*40.  Girolamo  Olmo.  iJ4r-  Giuseppe   Olmo.  1741.  Giovanni  Solza.  1  Hi.  Giuseppe  Salandi  .  1  f 43.  Giovanni  Grataroli.  i  f44.  Girolamo  Albani.  3.9 f  ft  Paolo  Lanzi .  1  $  f  j.  Francesco  Cima .  ifyj.  Gio*  Battista  Manara.  IH7.  Agostino  Mozzi  .  :  n^«  Francesco  Mozzi.  1  y6o.  Ettore  Tiraboschi .  iy6o.  Giovanni  Terzi.  i)-'>i.  Pietro   Mazzoleni.  lyél.  Pietro  Alzano.  1  y6z.  Antonio   Cerri.  1  y6 3.  Giulio  Passera  .  1  f*>o.  Antonio  Zonca  .  ij^ì-  Niccolò  Cologni.    Prof,  di  Medicina  »   Prof,  di  Medicina.  Prof,  di  Medicina.   Prof,  di  Legge.   Prof,  di  Legge.   Prof,  di  Legge*   Prof,  di  Legge  .   Prof,  di  Legge  .   Prof,  di  Chirurgia.   Prof,  di  Medicina.   Prof,   di  Medicina.   Prof,  di   Medicina.   Prof,  di  Legge.   Ret.  Prof,  di  Legge.   Prof,  di  Medicina.   Prof,  di  Legge.   Prof,  di  Legge.   Prof,  di  Filosofia .   Prof,  di  Legge.   Prof,  di  Legge.   Prof,  di  Medicina.   Prof,  di  Legge .   Prof,  di  Legge .  Prof,  di  Medicina.   Prof,  di  Medicina.  Ret.  Prof,  di  Medicina.  Prof,  di  Medicina.  Prof,  di  Medicina.  Prof,  di  Legge.  Prof,  di  Filosofìa.  Prof,  di  Legge  .  Prof,  di  Legge.  Prof,  di  Teologia.  Prof,   di  Legge.  Prof,  di   Legge.  Prof,  di  Legge.  Prof,   di   Medicina.  Prof,  di  Legge.  Prof,  di  Filovia  Morale .    X]9y  Agostino  Mozzi .   i6c8.  Mario  Mazzoleni  .  1621.  Benedetto  Baselli  .  1627.  Pietro  Bossi.  1632.  Dioneo  Albani.  1632.  Tommaso   Zilioli  .  1 65 s •  Ambroggio  Agosti .  1636.  Gio.  Battista  Rota.  165-5-.  Francesco  Cima .  ié8  5-.  Jacopo  Viscardi.  171 1.  Giovanni  Graziani.   1716.  Gio.  Battista  Ceffis.  1721.  Pietro  Domenico  Ceffis.  1727.  Gio.  Antonio  Voipi.  1730.  Fantino  Maria  Donati.  1732.  Gio.  Battista  Volpi.   1739.  Antonio  Terzi.   1740.  Angelo  Schiavetti.  1780.  Alessandro  Barca.    I03   Prof,  di  Filosofia,  e  d   Legge  .  Prof,  di  1  ilosafia.   Prof,   di  Medicina  *  Sindico   Rettore  v  Sindico   Rettore.  Prof,  di  Filosofai.  Sindico  Rettore.  Sindico   Rettore  .  Sindico  Rettore.  Prof,  di  Logica  .  Prof,   eli    Filosofìa  ,  d'  Istoria  .   Prof,  di  Legge.   Prof,  di  Legge.   Prof,  di  Eloquenza    Sindico  Rettore.  Prof,  di  Anatomia.  Prof,  di  Legge.  Prof,  di  Metafisica*  Prof!  di  Legge.    NOI     RIFORMATORI    DELLO    STUDIO    DI    PADOVA,    XX  vendo  veduto  per  la  Fede  di -Revisione,  ed  Ap-  provazione del  P  F.  Serafino  Bonaldi  Inquisitor  Ge-  neral del  Santo  Ofrizio  di  Bergamo  nel  Libro  intitola-  to Della  Vita,  degli  Studi*  e  degli  Scritti  di  Gvlielmo  Grataroli  MS,  non  vi  esser  co-  t  a  alcuna  contro  la  Santa  Fede  Cattolica ,  e  parimen-  ti per  attestato  del  Segretario  Nostro  ,  niente  contro  Principi  ,  e  Buoni  Costumi  ,  concediamo  Licenza  a  Fraiicefco  Lo  catelli  Stampator  di  Bergamo  ,  che  possa  essere  stampato  ,  osservando  gli  ordini  in  materia  di  Stampe  ,  e  presentando  le  solite  Copie  alle  Pubbliche  Librerie  di  Venezia,  e  di  Padova.  Dat.  li  io.  Marzo  1787.   (  Andrea  Q  verini  Riformat.  (  Cav.  P.°  Morosini  Riformat.  (  Zaccaria  Vallaresso  Riformat.   Registrato  in  Libro  a  Carte  15-7.   a,l  num.  zooS.   Giufcppc  Gradcnigo  Segr.    !    '.,•    Pressboard   Pamphlet   Binder   Gaylord  Bros.  Inc.   Maker  s  Syracuse,  N.  Y.   PAT.  JAN  21,  1908 Guglielmo Grataroli. Gratarolo. Grataroli. Grice e Grataroli. Luigi Speranza.

 

Grice e Grecino: la ragione conversazionale alla Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). FIlosofo italiano. An amateur philosopher. Seneca describes him as  man of distinction, but with little serious philosophical ability of interest. Giulio Grecino.

 

Grice e Gregorio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’arte grammatica degl’angeli – filosofia italiana – filosofia lazia – filosofia romana – scuola di Roma -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo Italiano. Filosofo Lazio. Filosofo romano. Roma, Lazio. Da roma -- il grande: Grice: “For one, he is the punning Pope!”  Grice: “What WAS Gregorio’s implicatura? A complex one, since he uses the counterfactual: “si angeli fuessent.” Grice: “In The Sellars/Yeatman rewrite, the meta-implicata is that you must have read Bede!” Grice: “Poor Gregorio Magno had to fight with the Lonbards, and the sad thing is he lost!” --  Grice takes inspiration on Shropshire’s argument for the immortality of the soul from Gregorio Magno (Dialogo). Figlio di Gordiano, appartenente all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante di Roma che mantene prestigio economico e sociale, nonostante la caduta dell'Impero. La sua "ars grammatica" e  limitata e lo stile che denota i suoi scritti è in linea con quello dei filosofi  tardo-antichi. Di questi imita, in particolare, solo poche figure retoriche come l'anafora ed il gusto dell'esempio e dell'aneddoto moralizzante. La sua conoscenza del diritto si centra in CICERONE, da cui riprende anche definizioni e nozioni filosofiche del PORTICO. Insegna su colle Celio. Secondo la tradizione, mentre Gregorio attraversa, alla testa della processione, il ponte che collegava l'area del Vaticano con il resto della città (chiamato allora "Ponte Elio" o "Ponte di Adriano", oggi Ponte Sant'Angelo), ha la visione dell'Arcangelo Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfodera la sua spada. La visione (che secondo alcune fonti e condivisa da tutti i partecipanti alla processione) venne interpretata come un “segno” celeste pre-annunciante l'imminente fine dell'epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana Castel Sant'Angelo e, a ricordo del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di un angelo in atto di rinfoderare la spada. Ancora oggi nel Campidoglio è conservata una pietra circolare con impronte dei piedi che, secondo la tradizione, sarebbero quelle lasciate da Michele quando si ferma per annunciare la fine della peste.  Vede alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto e pagani, tanto da aver esclamato, rammaricato. Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati. Comunque in meno di II anni diecimila Angli, compreso il re del Kent Ethelbert – e la famiglia di Grice -- si convertirono. Obietta invece sulla proibizione ai soldati imperiali di diventare «soldati di Cristo», ovvero di entrare a far parte del clero. G. detta suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause. Il monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo separava dal pontefice, per vedere cosa egli fa durante i lunghi silenzi, assistendo così al miracolo di una colomba (che rappresenta naturalmente lo Spirito Santo), posata su una spalla del papa, che gli detta a sua volta i canti all'orecchio. Opere: “Expositio super Cantica canticorum – “Cantico dei cantici”; “Moralia in Job (Giobbe); “Homiliae in Evangelia”, omelie sui Vangeli; Homiliae in Hiezechihelem prophetam, oomelie su Ezechiele; A Sacramentarium Gregorianum con cui riformò il canone della messa, rendendola più semplice ma più solenne; Antiphonarius centola nuova redazione del libro dei canti liturgici; Dialoghi; Libro su santi italiani a lui coevi; “San Benedetto da Norcia” “Sul destino dell'anima” “Su alcune profezie”; “Regula Pastoralisun manuale per la vita e l'opera dei vescovi e in generale di coloro che ricoprono il ministero pastorale; Le Epistolaeun registrum,«12 marzoA Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto il grande, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione.»  «3 settembreMemoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l'incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre.”“Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Il proprio del santo in rito romano contiene la seguente colletta: Deus, qui populis tuis indulgentia cónsulis et amore dominaris, da spíritum sapiéntiae, intercedénte beáto G. papa, quibus dedísti régimen disciplínae, ut de proféctu sanctárum óvium fiant gáudia aetérna pastórum. Per Dominum nostrum Iesum Christum La Chiesa di Manduria custodisce un frammento d'osso del suo braccio destro. La Chiesa di Casola custodita un frammento d'osso della sua mano destra. G. Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia,  Dizionario Biografico degl’taliani, Roma, Mareschini, G. Magno e la cultura classica” G. scrisse di sé ego quoque tunc urbanam praeturam gerens pariter subscripsi, ma poiché in una variante del testo praeturam è sostituita da praefecturam, dalle sue epistole non è possibile sapere con esattezza se è prefetto dell'urbe o piuttosto pretore dell'urbe.  Gasperri, ITALIA LONGOBARDA, Laterza, Dialogi, Roma, Tipografia del Senato, Dizionario biografico degl’italiani, Opera Omnia dal Migne patrologia Latina con indici analitici. Grice: “Gregory did not know what those were: ‘angeli,’ his companion answered. Adamant, Gregory corrected him: “No. They are Anglicans, they are not angels!” -- The grammatical structure of Latin of the seventh to eighth centuries had changed in comparison with the Latinitas of the fourth century. Although Bede builds his argument on the grammar textbooks of Antiquity, he adopts G. the Great’s directive to subject the grammar rules to the language of the Scriptures and not to ancient grammar textbooks. G. THE GREAT, Moralia in Iob, PL -- quia indignum uehementur existimo, ut uerba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati’ (‘I consider it strongly unworthy to restrict the words of divine revelation to the rules of Donatus’). G. did NOT write an ‘ars grammatica’ – Bonifacio did! – G. does mention the ‘sub regulis Donati’ – which is worth transcribing: “sed tam pueriliter istum labi non indignum fortasse fuit, qui litteras fastidit et pro nugis habet, iisque studere episcopum, impium et profanum putat – et alibi pene gloriatur se artem loquendi, quam magisterial disciplinae exterioris insinuant, servare despexisse, non barbarism confusionem devitare, situs motusque praepositionum, casusque servare contemnere, quia indignum (inquit) vehementur existimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – quasi vero humani divinique sermonis leges addiscere et observare, id sit caelestia oracular subiiere. Non metacismi collisionem fugio, non barbarism confusionem devito, situs motusque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer exisitimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati. Non rifuggo dalla collisione del metacismo, non evito la mescolanza di barbarism, non tengo conto della posizione, degli spostamenti e delle preposizioni con I casi che esse reggono, perche repute cossa assai indegna coartare le parole del celeste oracolo entro le regole di Donato. Ep. Miss. C. PL. Cio che a G. sembra indegno non e l’obbedire alle regole della grammatica – anche in questo e uomo di disciplina – ma la retorica di Donato, che teoreizza e prescribe, contro la LIBERTA dell’espresione originale, il capriccio del maestro. Ructat corde bonum sine lege Donati verbum. La parola buona erompe dal cuore senza le leggi di Donato. Sommamente disdicevole assogettare le parole dell’oracolo celeste alle regole di Donato. L’esegeta del libro di Giobbe non trascura di continuo le norme grammaticali. G. sa scegliere tra due letture di un medesimo vesetto, indicare i tropi di paragone e di metonimia, il valore della congiunzione di coordinarzione, l’etimologia di una parola. Insomma, G. non esclude dall sua esegesi il ricorso ai metodoi di i spegazione grammaticale classica. Facendo mostra di una conosenza ostentata della tecnologia grammaticale G. si preoccupa evidentemente di far comprendere che il suo NON-VOLERE non e un NON-Sapere. It was said a pigeon dictated his Gregorian chants. Not only did he see the angel land on ponte sant’angelo, but was able to retrieve the stone and give it to the Campidoglio – he joked on the anglii being potentially angels, should they were Roman!” – I limite dei arti liberali in Gregorio. Grice: “It was a good thing for Western civilization that Gregorio could care less about Greek!” --  Gregorio il Grande, Gregorio I – Gregorio Magno. Gregorio. Gregorio da Roma. Keywords: angeli, ars grammatica – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gregorio: implicatura e grammatica” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grandi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del progresso all’infinito della rosa di Grandi -- implicatura infinita – filosofia lombarda – filosofia cremonese – scuola di Cremona -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Filosofo lombardo. Filosofo cremonese. Cremona, Lombardia. Grice: “I like Grandi – and Grandy – for one, Grandi (if not Grandy) proves that geometry is a branch of mathematics with his rose curve – a geniality!” – Figlio di Piero Martire,  ricamatore, e Caterina Legati, compì i suoi primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi nel locale Collegio dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero camaldolese di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli originari Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti.  Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole” al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (serie di G.) a segni alterni di numeri può non convergere (serie di G.). Divenne membro della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la curva algebrica da lui chiamata rodonea per la forma che ricorda il rosone delle chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide, Venezia, Savioni. Fu il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis infinitorum”; “Trattato delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum problematum” (Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite parvorum ordinibus disquisitio geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica de momento gravium in planis inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la controversia eccitatagli contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad exceptiones clari varignonii libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas circa magnitudinum plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli contactus” (Pisa, Bindi); “Del movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze); “Relazione delle operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini); “Trattato delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni coniche d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze, Tartini); “Instituzioni Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di aritmetica pratica” (Firenze, Tartini); “Sectionum conicarum synopsis” (Firenze, Giovannelli); “Idraulici italiani."Rodonea" deriva dal greco Ροδή, rosa. La curva rodonea è anche chiamata "rosa di Grandi" in suo onore. G. Ortes, Vita del abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia,  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre camaldolese matematico. Francesco Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I have two ways to deal with ‘mean’: ‘no sneaky intention allowed, including this – (o) all intentions are open ones, including this one – self-reference; or ‘optimal infinite’ potential infinite/actual infinite – titular versus de facto. In any case, both are better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say, “Schiffer and others,” it should be pointed out that the first to show this was, of all people, my tutee Strawson – Stampe and Patton came close! (I love them guys! Patton is a gentleman, and Stampe, too! Both brilliant philosophical gentlemen, too!” --  In geometria è detta rodonea la curva algebrica o trascendente il cui grafico è caratterizzato da una serie di avvolgimenti attorno ad un punto centrale. Nei casi più noti tali avvolgimenti producono figure a forma di rosone, da cui deriva alla curva il nome rodonea (dal greco rhódon, ròsa). La curva rodonea è chiamata anche rosa di G. da G., il matematico che la battezzò e studia.   Rodonee ottenute per valori diversi del parametro {\displaystyle \omega ={\frac {n}{d}}} Tartapelago rosa Grandi 04.gif  Vari modi per la costruzione di Rose di Grandi. Animazioni realizzate in MSWLogo[1] La rodonea si può considerare un caso particolare di ipocicloide.  Equazione della curvaL'equazione delle rodonea in coordinate polari {\displaystyle (\rho ,\theta )}è:  {\displaystyle \rho =R\sin \omega \theta }, dove R è un numero reale positivo che rappresenta la massima distanza della curva dal centro degli avvolgimenti, e \omega  è un numero reale positivo che determina la forma della curva. È possibile anche scrivere la rodonea come {\displaystyle \rho =R\cos \omega \theta }, che produce una figura analoga, ma ruotata di un angolo pari a {\displaystyle {\frac {\pi }{2\omega }}}radianti.  Proprietà Se \omega  è un numero intero, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, tutti passanti per l'origine degli assi, che generano una serie di "petali" componenti la figura a forma di rosone; il numero dei petali è pari a:  \omega , se \omega  è dispari; {\displaystyle 2\omega }, se \omega  è pari. Osserviamo che non è possibile ottenere rose con un numero di petali pari a {\displaystyle 4n+2}. Per {\displaystyle \omega =1} si ottiene un unico petalo, ovvero una circonferenza non centrata nell'origine.  L'area della superficie racchiusa dalla curva è pari a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{2}}} per k pari, a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{4}}} per k dispari.  Se \omega  è un numero razionale {\displaystyle {\frac {n}{d}}}, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, che si intersecano in più punti creando una serie di petali parzialmente sovrapposti; nella figura a fianco sono visualizzate le rodonee ottenute per alcuni valori di n e d. Come caso particolare, per {\displaystyle \omega ={\frac {1}{2}}}, si ottiene il folium di Dürer.  In entrambi i casi precedenti, la curva ottenuta è algebrica; se invece \omega  è un numero irrazionale, la curva è trascendente ed ha un numero infinito di avvolgimenti che non si chiudono e formano un insieme denso, passando arbitrariamente vicino a ogni punto del cerchio di raggio R. Pietrocola, Curve storiche, Rose di G., su Tartapelago, Maecla, Rhodonea Curves, in The MacTutor History of Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland. Voci correlate Ipocicloide Figura di Lissajous Sistema di coordinate polari sistema di coordinate bidimensionale  Atomo di idrogeno atomo dell'elemento idrogeno  Metodo simbolico  Il progressus in infinitum (in italiano progresso all’infinito o regressus in infinitum regresso all'infinito, è un'espressione della filosofia scolastica che indica un modo di argomentare logicamente, quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un termine, il quale però rende necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo a un ulteriore termine; e cosi via senza che si possa mai giungere a un punto di spiegazione ultimo e definitivo. Questo procedimento logico, usato largamente da Aristotele e dagli scettici, vuole quindi dimostrare l'insufficienza di un'argomentazione. La differenza tra le due espressioni consiste nel ricercare la causa prima (ad esempio: causalità ideale platonica) o spiegazione definitiva di una cosa (ad esempio: causalità naturale aristotelica) procedendo logicamente in avanti progressus o all'indietro regressus. Un esempio di un procedimento logico basato sul regressus in infinitum si ritrova nell'"Argomento del terzo uomo" di Aristotele. Kant nella settima sezione della sua Critica della Ragion Pura chiama progressus in indefinitum questo infinito per addizione che non ammette nessuna limitazione se non quella provvisoria che gli può essere assegnata ad ogni suo passo, prima di procedere al passo successivo. Si tratta di un infinito irraggiungibile, non potendosi contare effettivamente infiniti numeri naturali.   Per questo motivo Aristotele nel LIZIO afferma che il numero è infinito in potenza, ma non in atto. come appare chiaro se si rappresentano i numeri naturali con una serie di punti equidistanti, che si susseguono senza fine lungo la retta in una successione infinita discreta nel senso che tra due elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come assenza di elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di questi infiniti elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il terzo, e così via.  L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto per divisione; «la caratteristica di tale infinito, che Kant chiama regressus in infinitum, è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata: dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole, risulta evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati durante un processo all’infinito che inevitabilmente li raggiunge tutti.   La differenza tra progressus in infinitum e regressus in infinitum secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gl’elementi vanno cercati al di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente. Note Dizionario internazionale Enciclopedia Treccani alla voce "Regressus in infinitum Bocconi - Aristotele e l'infinito Mathesis Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Filosofia. Luigi Guido Grandi. Grandi. Keywords: infinite implicature – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grandi: implicatura infinita” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grassi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- d’Ovidio a Vico: la metafora inaudita e il concetto di stato in Machiavelli – filosofia fascista – filosofia lombarda – filosofia milanese – scuola di Milano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Filosofo Lombardo. Filosofo milanese. Milano, Lombardia. Grice: “I like Grassi. He philosophised, like I did, on the metaphysics of Plato.” Grice: “Grassi has the gift of the gab: ‘metafora inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’ –“ Grice: “Grassi has mainly explored Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s general use of ‘imago’ to re-approach rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto Martinetti. Opere: “Metafisica platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on H. P. Grice on the axioms of metaphysical Platonism --. “Apparire ed essere” (Nuova Italia, Firenze). “Il bello e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger e umano – Mann in Heidegger” (Guida, Napoli). “La preminenza della metafora” (Mucchi, Modena). “La filosofia dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi, Napoli). “La follia -- Umanesimo e retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza dell'immagine -- ivalutazione della retorica” (Guerini, Milano) “La metafora inaudita, -- cf. la lingua inaudita -- Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza della fantasia” Guida, Napoli Filosofare noetico non metafisico (Congedo, Galatina); “Vico e l'umanesimo” Guerini, Milano Il dramma della metafora. Ovidio, Massimo Marassi, Tipografica, Roma,“Arte e mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica come filosofia. La tradizione umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole, Napoli; “Tra antropologia, logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico nell'antropologia di Grassi”; “Platone nell’onto-antropo-logia di Grassi Dizionario Biografico degli Italiani. “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?“L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocaleAccostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento d’anabasi e catabasi, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita.  La RISPOSTA (ANT-WORT) del pensiero è l’origine della PAROLA (WORT) umana, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica? “L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. G., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Accostandoci ai lavori di Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento d’anabasi e catabasi, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di G. abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita dell’autore su cui autorevoli interpreti si sono diffusamente espressi1. Il coacervo di autori, prospettive e tematiche, pone in luce i numerosi ambiti toccati dal filosofo: Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, Palermo, Centro Internazionale di studi di estetica, Civati, Un dialogo sull’umanesimo. Gadamer e G., l’Eubage, Aosta 2003; R. J. Kozljanic, Ernesto Grassi. Leben und Denken, München, Fink; W. Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di Ernesto Grassi, in “Giornale critico della filosofia italiana”, Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, München, Alber; J. Sànchez Espillaque, G. y la filosofìa del humanismo, Sevilla, Biblioteca Viquiana- Fenix Editora; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, Vaprio d’Adda, GDS, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, Vaprio d’Adda, GDS, Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, La città del Sole, Napoli] mitico/metaforologico, antropologico, filosofico, storia delle idee e storia della cultura. In questo contesto teorico emerge la centralità del concetto di Lichtung, il quale consente di comprendere la direzione metaforologica del pensiero grassiano che nei saggi giovanili si era concentrato maggiormente su una tematizzazione dell’ontologia fenomenologica. Si tratta di una Lichtung di evidente sapore heideggeriano che allarga il suo raggio di incidenza sulla cultura e sulla società trasformandosi nelle vichiane luci della Scienza Nuova. La nostra attenzione si concentrerà sui temi che accompagnano l’iter grassiano dall’ontologia alla metaforologia. In questo percorso ovviamente alcuni temi o spunti resteranno sullo sfondo – come l’agire delle condizioni storico-politiche (magistralmente ricostruite da Büttemeyer) – e si privilegeranno quegli autori e quei temi che più ci appaiono attinenti con l’argomento grassiano che vogliamo mettere in risalto. Dal nostro punto di vista la prospettiva grassiana va interpretata come il tentativo di approntare una nuova filosofia, nell’epoca in cui se ne è decretata la morte, che sia innanzitutto esperienza del mondo e non solamente conoscenza. O meglio: di conoscenza pur sempre si tratta, il punto di riferimento è pur sempre la ragione, ma una ragione non classica: una “ragione fantastica”. La svolta grassiana è verso la fantasia e la metafora2, da una teoria del concetto a una teoria dell’inconcettualità per usare una ben nota espressione blumenberghiana. Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta la sua problematicità l’eredità di quel discorso posto a partire dal Settecento in modo sistematico all’interrogazione filosofica: il conflitto tra ragione e sentimento che agita le pagine degli empiristi, dei poeti, della critica kantiana fino alla tematizzazione husserliana. La questione è ancora una volta quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura si intersecano. Sulla svolta metaforica dell’ontologia fondamentale di G. cfr., S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit.  ! 5!  In questo orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti continui di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare per il filosofo è quella della ratio e dell’atto dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero moderno. Ma tale operazione decostruttiva, tale filosofia col martello, per usare una ben nota metafora nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione, del tramonto della civiltà in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate, con la conseguenza di una dilagante inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in G. una rassegnazione al declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico della dissoluzione delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro inizio del pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle immagini. Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3, esemplarmente condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve, raccontato agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e ricordato da Grassi in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno della questione più generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra linguaggio dimostrativo e indicativo già avvertito in maniera problematica dalla riflessione sofistica gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a ritroso, i termini della questione ci conducono sulla strada di un’esatta definizione della teoria della visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa definizione: “se infatti la forma dimostrativa, come pure quella indicativa, del discorso hanno le loro radici nella teoria, nella vista, si deve allora riconoscere che il vedere, la visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che l’immagine, l’eidos, giunge in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto l’inadeguatezza del linguaggio razionale quanto di quello indicativo, dato che essi si basano sul vedere quale atto più originario dello stesso linguaggio?”5. L’immagine si riferisce non solo all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al senso che diviene rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni qualitative proprie. Husserl ha parlato non Grassi usa il termine immagine nella sua identità con l’eidos come forma, schema e tipo. Cfr. E. G., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989, p. 17. 4 Ivi, pp. 15-16. 5 Ivi, p. 17.  ! 6!  a caso di sintesi passiva come genesi del simbolico, lezione che Grassi accoglie nel suo tentativo di ricostruire un intero, una realtà dotata di sensi molteplici e stratificati, senza il sacrificio di alcuna dimensione dell’esperienza. La concettualizzazione messa a punto da Grassi dei grandi temi della filosofia, dell’arte e della letteratura, mostra l’attenzione verso le dimensioni del mondo storico, delle passioni dell’uomo, delle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’Occidente. La luce gettata su questi campi di esperienza spesso è offuscata dal tono della polemica e della rivendicazione degli ideali del passato, che spiegano anche l’andamento della pagina grassiana: si tratta di uno stile sempre mosso da un’inquietudine esistenziale, che si traduce in un’espressione non sempre pacata e in un linguaggio lineare, ma in una parola che ora è invettiva, ora icastico assioma. Il linguaggio non raggiunge mai la trasparenza della deduzione sillogistica o della spiegazione logica, configurandosi piuttosto come un linguaggio assiomatico e arcaico, che forse trova una spiegazione nella critica grassiana al deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis. Il discorso non può prendere che una piega allusiva e indicativa, propria di un altro modo di relazionarsi alla realtà. Grassi in qualità di cultore attento delle scienze umane, mostra quella partecipazione esistenziale ed emotiva ai temi cruciali per l’esistenza dell’uomo tipica di coloro che esperiscono la filosofia come bios pratico e teorico, e solo secondariamente come gnoseologia e epistemologia. Dalla sua prospettiva la ricerca logico-deduttiva urta definitivamente contro l’indimostrabilità dei principi, tema, questo, che ricorre in gran parte dei suoi saggi. Ma, allora, qual è la via di accesso a ciò che ci sovrasta e ci governa? Come esperire l’archè originaria? Non attraverso la ratio si accederà ai principi, ma attraverso il pathos: un sapere arcaico, un theorein che non si limita ad usare i principi, ma a rifletterci sopra nel modo giusto. L’essere si rivela attraverso un vedere che è patire poiché “la passione svela la realtà del nulla che chiama a decidere, a violare il silenzio dell’abisso svelando il senso segreto che in esso ci parla” 6 S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit., p. 4. ! 7!   A una pars destruens, a cui è dedicato parte del pensiero del filosofo, si accompagna anche una pars construens, che si concretizza nell’ipotesi metodologica ed epistemologica del sapere arcaico – che coinvolge tutta la riflessione riguardo il mito, il pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium e la phantasia. L’apogeo della critica alla deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione della intima correlazione delle nozioni aristoteliche di pistis e di episteme. Il filosofo afferma in Significare Arcaico che “la pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile, perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo originario e, come tale, solo il mondo della fede è fecondo”7. Per pistis G. intende non un’opinione o una forma di persuasione ma il modo di realizzarsi in noi dell’originario che comanda. La pistis diviene il fondamento della retorica originaria che ha carattere ingegnoso e arcaico. Il collegamento istituito tra nous/ingenium e archè mette in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi colti attraverso la passione. Secondo G. ogni discorso dimostrativo razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”9. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Il fondamento del reale, del mondo storico e del mondo umano, è quell’abissale fondamento di ogni fondamento, che, sulla scia heideggeriana, il pensatore individua sia in Il dramma della metafora, quando la riflessione si concentra sull’abissale nous passionale, sia in Das Reale als Leidenschaft. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso, non compromettono tuttavia lo spessore speculativo della proposta di G. che resta  7 E. Grassi, Significare arcaico, in “Archivio di filosofia”, Roma, 1966, p. 490. 8 Ivi, p. 489. 9 Ivi, p. 491.  ! 8!  filosofica proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. La sua prospettiva, che abbiamo scelto di definire onto-antropo-logica, può essere annoverata all’interno del più ampio dibattito che anima la filosofia del ‘900: quello che vede incrociarsi i temi dell’antropologia filosofica con quelli della riflessione sulla retorica. Sullo sfondo agisce il paradigma dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il filosofo, sensibile alla riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi a lui coevi, è convinto che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso; da qui il suo disorientamento e condizione di estraneità. Per il pensatore “la differenza essenziale tra vita animale e umana sta nella razionalità di quest’ultima che (contrariamente a quanto siamo soliti credere) in un primo tempo non segnala una superiorità, bensì una certa inferiorità dell’uomo di fronte all’animale”10. Tale inferiorità – il paradigma della carenza – appare in tutta la sua evidenza se si tiene in considerazione che nell’animale la “regia dei sensi”11 restituisce il significato immediato dei fenomeni. Il disancoraggio umano da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’umo compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. Nascono la techne, che “ordina i fenomeni in funzione a fini da realizzare”12, e l’episteme, che “delimita i fenomeni in funzione a principi, a ragioni”13. La prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon, come compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione Ivi, p. 489. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 490. 13 Ibidem.  ! 9!  dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico per G. la retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Essa ha un doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana. All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei SEGNI (SEMATA), SEMIOTICA, e teoria del senso, SEMANTICA arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del SEGNO e del senso per il filosofo dove essere in grado di elevarsi al livello di filosofia in quanto dottrina del SEGNO sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano, ergon anthropinon. La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, la SEMIOSFERA da cui si dipartono mondi possibili dell’umano. Su questo sfondo teorico denso e complesso nella sua ricchezza tematica si staglia la questione della rivalutazione dell’umanesimo, connessa alla tematizzazione della co-originarietà di logos e pathos (dove il trascendentale dell’esperienza è il sostrato patico che va a fondare la stessa vita cogitativa), e alla critica del moderno. L’interpretazione grassiana dell’umanesimo è lontana dai presupposti teorici e metodologici a lui coevi che privilegiavano il contributo ficiniano nel superamento del pensiero immaginifico e retorico: lo scopo di G. è quello di mostrare come l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con l’attività razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia e della parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e GENTILE ad essere messa in discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di spostare i termini della questione sul versante ontologico- Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli; La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli 1988, pp. 17-36.  ! 10!  ermeneutico che si concreta nella retrodatazione dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al Rinascimento – contro la tesi che individua in Cartesio l’inizio della modernità – in cui emerge la questione della connessione tra soggetto e oggetto nell’espressione linguistica. A partire dalla messa in discussione del pregiudizio heideggeriano nei confronti dell’umanesimo, sia esso considerato come epoca storica ben determinata o piuttosto come Weltanschauung inautentica, G. porta avanti la direzione della Humanistische Bibliotek per l’editore Fink contribuendo alla pubblicazione di cinquanta volumi a tema umanistico, come le opere di Petrarca, Salutati, Valla, Pico. La questione dell’Umanesimo non è ristretta nei confini della paideia che ha a cuore la rivalutazione della dignità dell’uomo ma ha una vocazione metafisica e ontologica in quanto aperta al problema dello svelamento. Come è stato messo in luce dagli interpreti l’attenzione è spostata verso l’Umanesimo problematico anziché verso quello sistematico, verso la ricchezza del possibile e non verso l’unilateralità del vero16. Gli autori prediletti da Grassi mostrano tutti una critica verso gli schemi astratti ed aprioristici e un’apertura verso la giurisprudenza, la retorica, la religione dei miti e la politica. La dimensione retorica va considerata secondo il filosofo non come elocutio ma come inventio: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che opportunamente si salda in G. alla centralità della metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre provvisorio”17. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a G. di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero, più che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose, che altro non è che Cfr., A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, pp. 385-404, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, La Città del Sole, Napoli] “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità), Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discoro che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Riconosciamo in questa impostazione l’agire delle categorie interpretative del maestro degli “anni mitici”, Heidegger, il quale sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica, valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo18, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio19avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio , nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo21, poiché l’uomo diventa subiectum22, il fondamento e la misura di ogni Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione heideggeriana del pensiero di Cartesio cfr., J. F. Courtine, Les meditations cartèsiennes de Martin Heidegger, Les ètudes philosophiques 2009/1, n ̊ 88, p. 103-115. 20 È fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel Discorso sul metodo (CARTESIO, Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p. 72). Tale espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che nonostante l’ergo non ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì quella di una certezza intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una esperienza incontrovertibile, poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più importante della filosofia, come è possibile leggere in Id., I principi della filosofia, parte I, § 7. Per un approfondimento circa la questione del cogito cfr. G. Mori, Cartesio, Carocci, Roma; Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 22 Ivi, p. 168.  ! 12!  certezza e verità. “La tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”23. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”24. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, è posto per la prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente articolato nella filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum del quale G. ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le tappe della critica del napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica, della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo. Sebbene il rapporto di Vico con il cartesianesimo si presenti come un problema storiografico e filosofico complesso26 si può senz’altro convenire con Grassi sull’opposizione vichiana alla critica Ivi, p. 169. 24 E. Grassi, Vico e l’Umanesimo, Guerini, Milano;  Badaloni, Introduzione a G. B. Vico, Feltrinelli, Milano 1961.  ! 13!  cartesiana nel contesto della rivendicazione della priorità della topica: “giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica” Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte “topica che si chiarisce così come una dottrina dell’invenzione”29 di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”30. La questione è ancora una volta quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La ricerca del vero particolare, circostanziale, storicamente determinato ci spinge a concordare con Bons riguardo alla centralità dell’idea di agire situativo31, sullo sfondo del quale si comprende la proposta retorica grassiana. Si tratta di un agire situativo che alla formula cogito ergo sum sostituisce la formula coactus sum ergo ago32: non “penso, dunque sono”, ma “sono costretto, G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa 2010, cap. III, p. 39. 28 Sulla figura di Vico in Grassi Cfr. G. Cantillo, Ratio e inventio nell’interpretazione dell’umanesimo, pp. 371-378, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ivi, A. Verri, Ernesto Grassi: Linguaggio e civiltà in Vico, pp. 405- 423; ivi, S. Roic, Vico, Grassi e la metafora, pp. 425-435; A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di E. Grassi, cit.; ivi, A. Pons, Vico e la tradizione dell’umanesimo retorico nell’interpretazione di Grassi, pp. 437-446; ivi, L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470; ivi, J. Vincenzo, La ripresa grassiana di Vico, l’unità di pietà e sapienza, pp. 471-491. Cfr., sull’incidenza dell’interpretazione grassiana di Vico nel panorama degli studi vichiani contemporanei G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota 5; Id., Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema”, n. 2, 2011, pp.1-15, riviste.unimi.it/index.php/noema; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos in Vico y Ortega, soprattutto il III capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico, Heidegger, Grassi y el problema del humanismo retòrico, pp. 146-227. 29 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 34. 30 Aristotele, Topica, 101 b 3. 31 E. Bons, Il pensiero di Ernesto Grassi. Una breve sintesi, pp. 75-98, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto G., cit., p. 81. 32 R. Wisser, Ricordo di Ernesto Grassi. Arte e mondo, pp. 159-191, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 188.   ! 14!  quindi agisco”. Proprio la ricchezza del reale viene salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso capace di apprendere maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Si comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici che per il filosofo sono la base del discorso retorico e filosofico. La metafora è il luogo, lo spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività dell’essere e il suo appello. Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo significato è trasposizione la parola metaforica sarà l’unica in grado di accogliere l’appello dell’essere34. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche, ma ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce. Su questo sfondo si può comprendere la declinazione antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”35 in cui la metafora riveste un ruolo particolare. Essa si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda. Seguendo le tappe fondamentali della sua ricerca teoretica riscontriamo che l’elemento riflessivo – sia esso orientato verso l’attualismo, sia esso ispirato dalla “metafisica immanente” di Heidegger, sia, infine, caratterizzato dalla propria originale prospettiva del filosofare noetico non metafisico – è tutto spostato verso la pratica filosofica nel suo farsi e compiersi e non verso un astratto razionalismo. Accompagnandosi costantemente ad una filosofia attenta alla correlazione uomo-essere, mai chiusa in una dimensione esclusivamente ontologica, Grassi si misura con una continua operazione di E. G., Retorica come filosofia, cit., p. 75. 34 Id., La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990, p. 62. Sul tema della metafora in G. cfr., D. Di Cesare, Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger, pp. 25-48, in AA. VV., Un filosofo europeo: G., Aesthetica, Palermo 1996. 35 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 113.  ! 15!  storicizzazione delle strutture del mondo storico umano: il bello, il buono, il vero, la triade concettuale alla quale il filosofo riconduce la totalità del mondo storico. L’avventura filosofica di Grassi mette al centro il soggetto umano e la sua coscienza – la coscienza temporale umanistica – senza cadere nell’idealismo vecchio e nuovo, né in un soggettivismo di cartesiana memoria, proprio perché la coscienza per il pensatore è un compito, uno sforzo e un impegno. Concetti, questi, che scandiscono i momenti della vita pratica e politica del mondo umano e vanno ad intrecciarsi con le idee di disancoramento, oggettività e coscienza temporale umanistica. Il compito, lo sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa in Il reale come passione. L’esperienza della filosofia36 hanno una connotazione ermeneutica, non solo pratico-politica, poiché permeano anche il processo dell’interpretazione. La formazione umana – il cuore della retorica grassiana37 – fondata sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli sostiene che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima co-appartenenza, come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che: “l’interpretazione è il risultato di un ipotetico progetto in cui viene in seguito verificato se contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e tutti gli elementi; questo procedimento è l’essenza dell’atto dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un essere aperto al mondo e non dispone di schemi già pronti, la sua formazione acquista un carattere esistenziale. Esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo senza evitare la decisione che è sempre richiesta”38. L’esistenza interpretante secondo Grassi ha carattere trascendente, dove la trascendenza è sempre intra-mondana poiché “si fonda sulla necessità di formare, di portare ad uno schema, ad una forma [...] la teoria della formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla luce dell’origine del nostro divenire; G., I primi scritti, e Id., Prefazione a Der tod des Sokrates di Guardini, Retorica come filosofia, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73.  ! 16!  diventa una ricerca arcaica, nella misura in cui si riferisce agli schemi fondamentali (archai) dell’autorealizzazione umana”39. L’analisi grassiana mira a proporre un’idea di “totalità del fatto umano” il cui pieno sviluppo è obiettivo dichiarato della sua proposta neo-umanistica. G. sostiene che “il fine degli studi umanistici è il pieno sviluppo di tutte le capacità dell’uomo, dell’!"#$% &%'"()*%$%”40. Se la coeva concezione del sapere si concentra solo sul suo aspetto di utilità all’uomo, misconoscendo la diversità delle fonti dell’esistenza umana (il vero, il buono, il bello) per il filosofo occorre svoltare verso una scienza che “riconosce che ci sono capacità differenti, autonome l’una rispetto all’altra e nondimeno appartenenti tutte quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e che dal loro pieno sviluppo sorgono le diverse opere dell’uomo”41. Per il filosofo bisogna ammettere che il sapere, il bello, il buono, non dipendono dall’applicabilità e che “solo liberando le fonti della vita e rispettando la loro autonomia, sia può realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella totalità che era anche l’antico ideale della comunità politica, ossia della comunità umana”42. L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e passione – in cui riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage tedesco degli anni giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio tra uomo e mondo circostante caratterizzano una nuova visione del tempo che non trova più il suo fondamento nell’a-priori formale della ragione ma nelle concrete e sempre nuove connessioni che l’uomo istituisce attraverso le espressioni linguistiche, artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi grassiani muovono dal rifiuto di assolutizzare un’essenza universale dell’umano e dal proposito di rendere ragione della condizione umana attraverso l’indagine dei possibili punti di mediazione di ragione e passione, logos e pathos, tramite una ricerca che potremmo definire ivi, p. 74. 40!Id., Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, in Id., I primi scritti, cit., p. 979.! 41!Ibidem.! 42 Ibidem.  ! 17!  fenomenologia storico-ermeneutica – almeno per quanto riguarda gli scritti tardi come La potenza della fantasia, La potenza dell’immagine, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Retorica come filosofia, La filosofia dell’umanesimo, Vico e l’umanesimo, La metafora inaudita, Il dramma della metafora – che fa capo ad un concetto sintetico-trascendentale della fantasia che si costituisce come strumento indispensabile di mediazione tra l’esperienza storica e pratica finita e la generalizzazione dei miti, delle metafore. Lungo questo processo complesso e ricco di articolazioni nel campo della psicoanalisi (Freud), della letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide, Ovidio, Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust, Wagner, Hölderlin), dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler, Plessner, Gehlen, Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (CICERONE (si veda), Quintiliano, Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia, avviene quello slittamento verso una “teoria dell’atto metaforico” che è l’esito della sua filosofia. La ricerca sulla metafora non si configura semplicemente come una fenomenologia metaforologica che si limita alla descrizione delle metafore che ha prodotto la storia umana, ma come una teoria che indaga il plesso azione-metafora. Si tratta di una teoria che guarda all’energheia metaforica e al processo del metapherein segnando una distanza netta dall’astrazione concettuale. Quest’ultima fissa il reale bloccandone il flusso e la vita in una staticità, cristallizzazione e immobilità, mentre la teoria grassiana pone in luce l’aspetto arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto metaforico che genera il mondo umano proprio attraverso un atto di trasposizione che agisce su due livelli: linguistico (linguaggio metaforico); pratico-politico (fondazione della comunità umana a partire dalla umanizzazione della natura tramite pratiche di trasposizione di significato). L’accento della riflessione si sposta dalla ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul come il reale si impone alla nostra percezione. Il reale, l’originario, l’essere si impongono nell’urgenza dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela la propria mutevolezza e l’uomo la propria risposta agli appelli dell’essere. Nel corrispondere all’appello dell’essere si impone all’attenzione il pathos e la sua funzione manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura mondana e il logos, la parola, emergono come “rottura del sacro”, destino della Menschwerdung. Logos come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens sylva, che dice del fondamento il suo essere al contempo puro apparire e progetto creativo. Il pathos arcaico, luogo del manifestarsi dell’abissale potere dell’essere, non può che trovare espressione in un logos lontano dall’astrattismo intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte poetico, che più che essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso all’interno della filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di ricerca del senso. É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre l’orizzonte di comprensione dell’essere. In Grassi si ravvisa la traccia di un pensiero “integrale o integrativo”, sottratto alle rigide categorie della ragione metafisica ma aperto all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si costituisce allora come indagine dei punti di mediazione, di unità e distinzione delle forme dell’essere. La questione suprema è la domanda sul luogo e le modalità originarie in cui accade la nostra apprensione della realtà. Il logos metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere, come espressione della dualità creativa e patica dell’esperienza dell’originario. Un’esperienza in cui “la poiesis diventa un momento della praxis”43, e non un gioco effimero del dire, e la metafora si tramuta nella “serietà del pensare filosofico”44. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare”45. Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel silenzio tragico dell’aperto, quello spazio abitabile dall’uomo. E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, in “Quaderni di italianistica”, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale] Jaspers in una lettera indirizzata a Heidegger scrive: “il messo di questa lettera, Grassi, di Milano, desidera parlarle di persona. Studia filosofia tedesca, ha letto il suo libro e ne ha una conoscenza sorprendente – naturalmente con tutti i fraintendimenti dovuti alle interferenze della tradizione, ma tuttavia con una buona, stupefacente approssimazione. Credo che il suo vivace interesse le farà piacere.”  Heidegger risponde: “Grassi mi ha fatto in un primo momento una grande impressione per via della sua intensità e di una particolare sensibilità. Ma mi è poi venuto il dubbio che si tratti di una natura giornalistica” Anche Jaspers, poi, si pronuncerà in un modo altrettanto poco benevolo definendo Grassi un brillante intervistatore ma non di certo un filosofo. Oltre questi giudizi, in fondo sbrigativi, possiamo ricordare quelli di CALOGERO (si veda), il quale in riferimento al primo libro di Grassi, Il problema della metafisica platonica, pubblicato dall’editore Laterza grazie all’interessamento di Croce, e dedicato a Heidegger, afferma che egli avrebbe fatto meglio a scrivere un libro su Heidegger dopo aver studiato Platone invece che scrivere un libro su Platone dopo aver studiato Heidegger. Croce scrive: “insegnante in Germania, Grassi si propone il problema di avvicinare e indurre a concorde collaborazione la filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema non ha consistenza, perché non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana, ma solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo” Heidegger-Jaspers,  tr. It. Di A. Iadicicco, Milano Cortina. Calogero, Recensione a G. “Il problema della metafisica platonica”, Bari, in “Giornale critico della filosofia italiana”. B. Croce, Pagine sparse, Laterza, Bari. E così De Ruggiero, Vanni-Rovighi, Ottaviano50. Insomma, negli anni in cui il filosofo milanese ambiziosamente cerca di ritagliarsi un posto nella cerchia degli intellettuali più prestigiosi dell’epoca i giudizi sulle sue idee non furono troppo favorevoli. Grassi appare un brillante intervistatore a caccia di filosofi, la cui opera è da considerare al massimo come prova cattiva di un ingegno Ottimo. Ma stanno proprio così le cose? Quanto di vero c’è in queste affermazioni e quanto, invece, di approssimativo? Un breve ripercorrimento dell’itinerario speculativo di Grassi consentirà di comprendere la plausibilità o meno dei giudizi critici ora ricordati. Dopo aver brevemente assistito ai corsi di  Scheler e di Jaspers – andai a Marburgo da Heidegger che si dichiara disposto a seguire il mio lavoro di libera docenza. I luminari dell’università di Friburgo erano Husserl (che tene il suo ultimo corso come professore emerito), Heidegger (che  assume la cattedra di filosofia), Grassi, ripercorrendo le tappe salienti della propria autobiografia intellettuale, pensa a quegli anni friburghesi definiti mitici. Si tratta, infatti, degli anni mitici e indimenticabili delle lezioni di colui al quale Grassi guarda sempre – nonostante le prese di distanza di natura politica – come ad un autentico maestro: Heidegger. L’arrivo a Friburgo di G. è stato preceduto da un lungo periplo intellettuale, oltreché geografico, che ha indotto alcuni interpreti, come CACCIATORE a definire quella di Grassi filosofia del viaggio. Ruggiero, G., Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari, “La Critica”, Ottaviano C., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München, in «Sophia», Napoli, Vanni-Rovighi S., Recensione a G., Vom Vorrang des Logos, München,  «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano,  E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Sul tema del viaggio e del resoconto di viaggio in G. come fenomeno non meramente odeporico ma innanzitutto cognitivo cfr., G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofìa del viaje”de Ernesto G., pp. 79- 91, in Id., El bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofia hispanoamericana, ed. e trad. di M. L. Mollo, Planeta Bogotà 2011. “Serìa entonces un error garrafal esperarse del libro de G. elementos meramente descriptivos o G., nativo di Milano, dopo aver conseguito la laurea in filosofia con MARTINETTI (si veda) discutendo una tesi dal titolo L’unità formale della vita e l’impostazione del problema teologico, trae orientamento decisivo nel suo iter filosofico dall’incontro con CHIOCCETTI, uno dei primi maestri della neo-scolastica milanese aperto al confronto con i temi della modernità. Autore di un importante volume, La filosofia di CROCE, frutto di studi, Chiocchetti porta avanti ricerche sui temi del modernismo, del pragmatismo e della gnoseologia e su autori come Gentile e VICO che affascinano molto Grassi, i cui primi lavori apparsi sulla rivista Rassegna Nazionale, di stampo nazionalista, conservatore e cattolico, mostrano idee ispirate al pensiero del carissimo ed onorato Chiocchetti e a valori liberali e cattolico-attivisti, come si evince soprattutto dai saggi A proposito di un volume dedicato alla figura di Mazzini; Germania, un resoconto di un viaggio alla ricerca di idee che affratellino i tedesci e italiani; Il partito popolare italiano. momentos narrativos de situaciones, paisajes, modelos de vida, costumbres, mentalidades hay que leer las pàginas grassianas ante todo como una experiencia personal que enterpreta el viaje (y la secuencia de sus movimientos: la preparaciòn, la espera, el acercamiento, el estar y el retornar) como un sìmbolo, como una metàfora del pensamiento occidental en busca de sus orìgines. Y se trata de una bùsqueda que se afina y se perfecciona voluntariamente, con la adeguadeza de la reflexiòn y con la dilataciòn de la perceptiòn, precisamente en la situaciòn lìmite de una experienza espacio-temporal distinta, de una apropriaciòn continua de imàgenes inèditas de naturalezas diversas, de olores que nunca se han sentido, de sensaciones visuales y tàctiles que nunca han sido experimentadas”.  Mi permetto di rinviare al mio saggio La hora de Pan en Reisen ohne Anzukommen. Eine Konfrontation mit Sudamerika -- Grassi, pp. 323-336, in A. Scocozza-G. D’Angelo (a cura di), Magister et discipuli: filosofìa, historia, polìtica y cultura, Penguin Random Hause, Bogotà 2016; Ead., Meditazioni sudamericane: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia di Grassi in cds in “Studi Interculturali”, Trieste, Proposito della rivista era quello di collocarsi a metà strada tra i contributi dedicati unicamente ai settori storici e scientifici e quelli di carattere politico-religioso: “Cattolici e italiani, pur rispettando sempre le convinzioni e le credenze altrui, noi coopereremo, per la nostra parte, a conservare le istituzioni religiose, morali, sociali, civili e politiche dell’Italia. Le istituzioni religiose, poiché noi cattolici e sincerissimamente devoti alla Chiesa cattolica, quando sorgano questioni di attinenza tra la religione e lo stato, pur riconoscendo la necessità che lo stato mantenga i diritti propri, ci proponiamo di insistere e raccomandare la sacra necessità di rispettare i diritti della chiesa e delle coscienze: non rispettati i quali, si offendono o prima o poi anche i diritti della civile società”, La rassegna nazionale, I, 1879, vol. I, p. 5. 54 E. Grassi, L’impatto con Heidegger, in Olivetti (cur.), La recezione italiana di Heidegger, pp. 73-82, Cedam Padova 1989. 55 Id., Germania, in “Rassegna Nazionale”, ora contenuta in E. Grassi, I Primi scritti. I successivi lavori grassiani, a partire da Il tragico – che espone in nuce nodi concettuali che il filosofo avrebbe più estesamente tematizzato negli ultimi lavori: La metafora inaudita e Il dramma della metafora – per proseguire con Scolastica e storia dello stesso anno e Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di STATO, mostrano uno slittamento da una concezione negativa del principio di immanenza ad una considerazione molto positiva del contesto politico, quale nuovo luogo di emancipazione umana dopo la crisi del primato della trascendenza. Soprattutto dopo la stesura del saggio su MACHIAVELLI (si veda) possiamo riscontrare una “prima svolta” grassiana dovuta con molta probabilità ad un’analisi dettagliata del pensiero di CROCE (si veda), GENTILE (si veda) e degli umanisti, primo fra tutti ALIGHIERI (si veda). Ci sembra convincente l’ipotesi di MESSORI secondo la quale a partire da questo momento, ossia da quello saggio, l’Umanesimo diviene il terreno privilegiato della riflessione grassiana, la quale, grazie al pensiero politico di MACHIAVELLI (si veda), riscopre un altro inizio del pensiero, un altro ingresso alla filosofia, non gnoseologico e teologico, ma unicamente antropologico. Si tratta di un risultato di grande importanza poiché il filosofo milanese mette a tema quell’endiadi concettuale – il nesso logos-pathos, in cui il pathos appare come a priori dell’esperienza umana nella sua totalità, e dunque anche del momento cogitativo – che ritroveremo costantemente espressa e concettualizzata nella successiva produzione, da Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, a Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, a Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, fino ai  Heidegger e il problema dell’umanesimo, Umanesimo e retorica. Il problema della follia, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, Vico e l’umanesimo, che raccoglie una serie di saggi pubblicati singolarmente. Almeno in questa fase, tuttavia, occorre sottolineare che la considerazione dell’antropologica umanistica si pone ancora fortemente come una visione antropocentrica, mentre solo [Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto I cap. ! 23!   successivamente all’incontro con Heidegger e alla scelta del concetto di Lichtung quale filo conduttore del nuovo approccio all’umanesimo, approccio da noi definibile onto-antropo-logico, tale visione sarà più orientata verso una tematizzazione del nesso uomo-essere. In questo periodo G. collabora anche con l’informatore bibliografico del Circolo Filologico milanese, la Rassegna di coltura, sul quale pubblica una serie di contributi dai quali traspare uno studio di CROCE e dell’attualismo gentiliano. Conseguita la laurea, incomincia per il filosofo l’ambiziosa avventura europea, in Francia e in Germania, alla ricerca di un proprio accesso alla filosofia. In seguito al soggiorno a Aix en Provence, durante il quale conosce Blonde, scrive La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, in cui la filosofia dell’azione è considerata come filosofia della trascendenza che non nega i valori dell’immanenza, ponendosi, piuttosto, come condizione di possibilità della processuale manifestazione dei valori immanenti, e Il platonismo cristiano di Blondel, il cui merito sarebbe stato quello di liberare la metafisica dal presupposto gnoseologistico. È a partire da questo saggio che si profila quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si sarebbe coniugato con la questione filosofica heideggeriana e che spinge G. ad approfondire la cultura filosofica tedesca. Ad un peccato di ambizione si deve, con buona dose di probabilità, l’adesione di G. al PARTITO FASCISTA. Secondo la documentata ricostruzione di Büttemeyer, l’iscrizione al fascio è fatta per ottenere la tessera senza la quale non è possibile partecipare ai concorsi in Italia. Cfr., Büttemeyer, G. Humanismus ZWISCHEN FASCHISMUS UND NATIONALSOZIALISMUS. Sui rapporti Grassi-Blondel cfr., il lavoro di S. D’Agostino, La metafisica di G. tra Platone e Blondel, in P. Pagani- S- D’Agostino- P. Bettineschi (cur.), La METAFISICA IN ITALIA TRA LE DUE GUERRE [cfr. Urmson, Philosophical analysis between the two wars], Istituto della Enciclopedia italiana, Roma. Cfr., Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e “Studia Humanitatis” di G.. La prima formazione filosofica di G. è dovuta al suo tutore CHIOCCHETTI (si veda), la cui concezione di una neo-scolastica moderata si mostra negli scritti dell’allievo. Mediata da Chiocchetti, vi si aggiunge la conoscenza dell’estetica di CROCE e della sua gnoseologia nonché del modello dialettico della storia della filosofia che si concretizza nell’interpretazione gentiliana del Rinascimento. G. mostra momentaneamente simpatie per Unamuno, per il concetto martinettiano – MARTINETTI (si veda) dell’Unità assoluta e per la filosofia di VARISCO (si veda), che gli è stato anche maestro con i suoi saggi; ma essi non esercitano se non un’influenza marginale. Rimane invece escluso l’attualismo e immanentismo di GENTILE (si veda): pur avendolo conosciuto nei seminari di Chiocchetti e poi sulle opere, lo recepisce positivamente soltanto dopo aver già presentato una ventina di pubblicazioni. Dopo aver affannosamente girovagato per la penisola italiana in cerca di una propria via al filosofare G. approda finalmente nella terra materna e lì, nella riflessione heideggeriana, trova un punto di partenza per una Weltanschauung più ampia rispetto a quella giovanile, ancora troppo influenzata dall’ambiente neoscolastico. In questi anni pubblica numerosi saggi apparsi sulla “Rivista di filosofia”: Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in cui G. rimprovera a Husserl la mancanza di una solida base storico-filosofica, in particolare una superficiale interpretazione dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della filosofia italiana, da SPAVENTA (si veda) a GENTILE, pur riconoscendo alla fenomenologia il merito di aver trovato uno spazio di riflessione oltre la linea psicologista e naturalista e storicista. Secondo Grassi “da un canto la scuola neo-kantiana si era isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti astrattamente concepiti e quindi insolubili, della conoscenza filosofica e scientifica, naturalizzando le categorie e risolvendole parzialmente nelle leggi naturali. D’altro canto lo storicismo e la superficiale conoscenza del pensiero di Dilthey non aveva portato nessun nuovo contributo, cosicché nella generale crisi e disorientamento, tutti si rifecero a Husserl”60. Insomma, il filosofo di Prossnitz, in quello che per Grassi è quasi un deserto filosofico – psicologismo, neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale che, tuttavia, ha molti limiti e non solo di natura storico-filosofica: l’astrattismo, e la disattenzione per il pensiero pensante a favore del pensiero pensato, l’incomprensione del pensiero concreto. Per G. gli aspetti negativi sono tali da rendere la filosofia husserliana attiva solo per lo spazio di vent’anni e cieca a quella concretezza del pensiero e dell’esistenza che solo Heidegger avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo “realizzando per primo in Germania la critica della fenomenologia di Husserl”E. G., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in “Rivista di filosofia”, Milano XX, aprile-giugno 1929, n. 2, pp. 129-151, ora in Id., Primi scritti, cit., pp. 186-187. 61 Ivi, p. 187.  ! 25!  In questo periodo Grassi opera quella collocazione della proposta filosofica heideggeriana all’interno della propria formazione intellettuale, formulando l’ipotesi del possibile incontro tra la teoria gentiliana dell’atto e la questione del Dasein, quale luogo storico del disvelamento dell’essere di stampo heideggeriano, che aveva proprio lo scopo di destrutturare quella categoria di coscienza rappresentativa che dal cogito cartesiano era rifluita nelle teorie di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger diviene il perno principale attorno al quale gravita l’attenzione filosofica di Grassi che si concretizza nella stesura del saggio del 1930 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger e de Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger del 1937. Il merito del filosofo di Messkirch sarebbe stato quello di proporre una visione dell’uomo come Dasein, come esistente, atto immanente, metafisico e autorealizzantesi62 che amplifica l’interesse per la concretezza e la fatticità dell’esistenza contro ogni razionalismo e astrattismo, superando la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Intanto appaiono i saggi Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico e Paideia e neoumanesimo che riprendono tematiche trattate in Il problema della metafisica platonica e che mostrano una coniugazione della proposta filologica di Jaeger con il ripercorrimento teoretico heideggeriano del pensiero greco nel contesto più generale di un progetto paideutico e umanistico che recuperasse il senso autentico dell’humanitas attraverso l’esperienza filosofica della grecità, per Jaeger e Heidegger, e della LATINITÀ, per G.. L’incontro tra la proposta jaegeriana e heideggeriana circa il tema del neoumanesimo si affianca all’altro intreccio, quello tra l’ontologia fenomenologica ermeneutica di Heidegger e l’attualismo di Gentile. In Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da Linee della filosofia tedesca contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro Heidegger-Gentile sono espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero accompagnato Grassi in tutto il suo cammino di pensiero: il carattere elenchico del principio di non  62 Id., Il problema della metafisica immanente di Heidegger, Giornale critico della filosofia italiana”, Milano- Roma, ora in Id., Primi scritti, contraddizione, fondamento di ogni dimostrazione ma a sua volta non dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio; concetto di apparenza, manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come abbiamo ricordato all’inizio, la prima formazione di G. fu di carattere neoscolastico, con un’attenzione particolare alle questioni riguardanti la trascendenza, come emerge dal saggio La dialettica dell’amore in cui il filosofo milanese afferma che “il pensiero umano, la filosofia, è condotta dalla propria immanenza verso la necessità della trascendenza che appunto perciò non può conoscere, realizzare, creare, ma solo ricevere come una “grazia” proprio nel senso teologico della parola”63. Un’impostazione di questo tipo spiega anche una originaria critica dell’immanentismo gentiliano, e della sua scoperta fondamentale, l’autocoscienza come pura forma, che induce Grassi a porsi come un fiero oppositore di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la difesa della trascendenza messa in campo dalla neoscolastica è avvertita da Grassi come insufficiente: in questo spazio si innesta la figura di Heidegger che diviene quasi un antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello stesso attualismo, che lascia non tematizzata la differenza ontologica tra essere e ente, nonostante l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare nel suo stesso compiersi o come autorealizzantesi processo esistenziale e non come oggetto del pensiero. Secondo l’interpretazione di G. il superamento gentiliano della dicotomia soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione dell’esperienza approda allo stesso risultato husserliano e  Id., La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in “assegna Nazionale”, Roma, XLVI, dicembre 1924, seconda serie, vol. XLVII, parte I, La richiesta dell’amore, pp. 137-148, parte II, La sofferenza del Tristano, pp. 148-162; XLVII, febbraio 1925, seconda serie, vol. XLVIII, parte III, La dialettica del dolore, pp. 101-109, parte IV, La gioia può spingere alla vita, pp. 109-114 ora in Id., Primi scritti, cit., p. 122. 64 Ivi, p. 120: “Il concetto di forma pura, inobiettivabile, è proprio caratteristico della realtà infinita eterna, in qualsiasi concezione immanente o trascendente del reale, ed è quindi naturale che il processo di immanenza del pensiero moderno abbia voluto ad esse ridurre la realtà del divenire umano. Infatti se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso stesso l’unico illimitato. L’autocoscienza come pura forma è certo la più grande scoperta di tutta la filosofia dell’immanenza e lo è proprio, merito di Giovanni Gentile. In ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere”. Per una ricostruzione della presenza di GENTILE in Grassi cfr. R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.  ! 27!  heideggeriano: quello dell’intenzionalità, della relazione originaria di io e mondo. Una relazione che non può essere messa da parte o a tema attraverso un processo di epochè65: l’esperienza dell’oggetto non consente un’oggettivazione dell’esperienza. Lo spazio di relazione e compromissione tra io e mondo resta uno spazio di indeterminazione e di esperienza che rende l’atto gentiliano simile alla nozione di aletheia di Heidegger e che è merito di Grassi aver sottolineato. Volendo suddividere per comodità, e con tutte le riserve del caso, l’unità di pensiero di G. in tre fasi principali, otteniamo lo schema seguente: la fase giovanile formativa, dominata dai temi della scolastica cattolica emergenti nei saggi degli anni Venti66; la fase metafisico-immanente, in cui abbiamo la correlazione dell’attualismo gentiliano con il contributo blondeliano della filosofia dell’azione, con quello crociano dell’estetica e dell’autonomia delle forme dello spirito, e con la metafisica esistenziale heideggeriana67; la fase matura neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già Sottolinea molto bene questo aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhiei, Torino. Gentile attraverso la radicalizzazione dell’immanenza supera l’opposizione e la separazione astratta di soggetto e oggetto e attinge a pienamente quel piano dell’intenzionalità che per altre vie viene guadagnato dalla fenomenologia di Husserl. Ma Gentile si porta oltre l’orizzonte della fenomenologia. La relazione intenzionale di impianto fenomenologico, se da un lato supera l’astratta separazione tra soggetto e oggetto, dall’altro lato ne tiene tuttavia ferma la polarità [...], lo sforzo della fenomenologia è quello è quello di svuotare l’io dal mondo perché il mondo appaia nella sua purezza, di svincolare la coscienza dal flusso della vita per far sì che i contenuti d’esperienza appaiano nella loro pura e semplice datità. Questo vuol dire andare alle cose. Non così in Gentile. Alle cose non si va, con esse si è da sempre compromessi. L’attualismo che pure rigorosamente guadagna il piano dell’intenzionalità si rende tuttavia conto che essa non è suscettibile di nessuna epochè”. 66 Cfr., E. Grassi, A proposito di un cinquantenario, pp. 3-8, in Id., I primi scritti, cit.; Id., Germania, ivi, pp. 9-18; Il tragico, ivi, pp. 27-48; Scolastica e storia, ivi, pp. 49-54; La dialettica dell’amore, ivi, pp. 89-128; Tilgher e La visione greca della vita, ivi, pp. 19-22. 67 Cfr., Id., Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, ivi, pp. 55-86; La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, ivi, pp. 137-162; Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 163- 179; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 181-202; Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-233; Il platonismo cristiano di M. Blondel, ivi, pp. 235-254; Dell’apparire e dell’essere, ivi, pp. 273-298; Linee della filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 299-332; Il problema del logo, ivi, pp. 371-406; Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, ivi, pp. 419-435; La filosofia tedesca e la tradizione speculativa italiana, ivi, pp. 553-575; I rapporti tra filosofia tedesca e filosofia italiana, cit., pp. 753-776; Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 777- 809; L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, ivi, pp. 811-850; Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, ivi, pp. 967-974; Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, ivi, pp. 995-1029; Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68 Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, ivi, pp. 255-271; Paideia e neo-umanesimo, ivi, pp. 357-369; Filosofia tedesca, filosofia italiana e l’antichità. Il problema di una tradizione filosofica, ivi, pp. 851-864; Sul problema ! 28!   ritroviamo in alcuni saggi giovanili69 – che declina la metafisica immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi dell’essere, del logos, del pathos attraverso la lettura dei contributi letterari e filosofici dell’Umanesimo e del Rinascimento con un’attenzione particolare ai temi della retorica, della fantasia e dell’ingegno, e della metafora. In tutto il percorso speculativo emerge la radice dell’avventura speculativa del filosofo: la “passione per la vita” in cui l’esercizio intellettuale della filosofia diviene una funzione vitale, un prolungamento della vita stessa, dell’esistenza in situazione. Il pensare diviene metamorfosi esistenziale, impegno nella circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo dare per acquisito, dunque, che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella riflessione di Grassi un’ipotesi di accostamento tra attualismo e fenomenologia70 che incide profondamente sulla successiva analisi dell’apparire dell’originario e della manifestatività nelle sue diverse forme e che coglie un aspetto critico paradigmatico che rende i numerosi contributi grassiani non una collezione di posizioni filosofiche eterogenee, un coacervo di notizie dell’ultima moda filosofica71, come i giudizi di Jaspers e Heidegger riportati all’inizio sembravano voler asserire. della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, ivi, pp. 901-915; Il problema del sublime, ivi, pp. 917-943; Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 945-950; Del vero e del verosimile in VICO, ivi, pp. 951-966; 69 Come tenteremo di spiegare nel secondo capitolo, per l’impostazione del problema umanistico risultano fondamentali le osservazioni espresse da G. nel saggio su MACHIAVELLI. Messori così riassume l’incrocio grassiano di attualismo e fenomenologia: “le due filosofie si intersecano su almeno tre punti essenziali [...] rifiutano di attribuire l’originarietà all’ente, al pensato, di qualsiasi rango esso sia; in secondo luogo entrambi avvertono la necessità di identificare l’originario con un processo che, divenendo, si determina. Il primato del logos come atto, che lo si intenda in senso gnoseologico o ontologico, comporta, in terzo luogo, il superamento della logica tradizionale e quindi del principio di identità e di quello correlato di non contraddizione.”, R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto G., cit., p. 34. 71 Si sofferma su questo “merito” grassiano Marassi nelle pagine introduttive a I Primi scritti: “così l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra inogettivabile, ossia riassume in sé i tratti distintivi della soggettività kantiano-idealistica e anche quel movimento, non certo conciliabile con la trascendentalità del soggetto, di donazione-sottrazione assimilabile piuttosto alla nozione heideggeriana di aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che piega il soggetto al confine del mondo e del suo apparire, lo conduce allo svelamento dell’origine. Qui mi pare che si inserisca il contributo specifico di Grassi dopo l’intuizione della convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere. In altri termini si potrebbe dire che la sua interpretazione non fosse una semplice sommatoria di posizioni eterogenee, bensì cogliesse un aspetto critico paradigmatico”, M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 44.  ! 29!  Si impone all’attenzione teorica di Grassi la tematica della multiformità del reale (metamorphein) e della sua costitutiva polidimensionalità che affannosamente il filosofo cerca per tutta la vita di interrogare al di fuori dei parametri tradizionali. La questione “urgente” diventa quella di cogliere l’essere nell’atto del suo manifestarsi, nell’attimo arcaico, iniziale e, pertanto, mitico, del puro apparire attraverso un logos adatto (la metafora). Da un lato il pensiero pensante gentiliano72, dall’altro la manifestatività dell’essere heideggeriana, consentono a Grassi di guardare all’idea di fondamento come a quell’originario indeducibile razionalmente che può essere patito e vissuto nell’esperienza della parola più autenticamente che in quella del pensiero tradizionalmente inteso. Secondo Grassi “l’originario non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso”73 e proprio per questa identità di manifestazione e processo, di essere e divenire, è possibile radicare la trascendenza nell’immanenza, il fondamento nel reale e non in un oltre, ciò che non è manifesto in ciò che invece lo è. Secondo il filosofo “il processo deve quindi esser inteso come un auto manifestarsi. È importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”74. Il punto di partenza è quell’indeducibile originario che si mostra e si rivela in un metamorfismo e polimorfismo della realtà che non è un dato semplicemente presente, bensì un divenire storico che continuamente si distingue, Occorre sottolineare che il pensiero gentiliano dell’atto è a metà strada tra una una impostazione soggettivo- trascendentale e un’idea di soggetto come Dasein, come puro evenire, spazio di esperienza, cfr., sul tema S. Natoli, op., cit., p. 90: “l’attualismo gentiliano si tiene a mezzo tra il soggetto trascendentale e il Dasein, tra la determinazione positiva e costituente del pensiero e l’atto come esperienza del puro accadere. In questo tenere il mezzo, l’attualismo finisce per non occupare né una posizione né l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno spazio di indeterminazione. L’atto infatti se da un lato è ancora inscritto nei termini della soggettività, sia pure interpretata come attività o come prassi, dall’altro non può essere mai colto come un fatto, non può mai darsi a modo di una semplice presenza”. 73 E. Grassi, Il problema del logo, in “Archivio di filosofia”, Roma, anno VI, aprile-giugno 1936, fascicolo II, pp. 151- 183, ora in Id., I Primi scritti, cit., p. 376. 74 Ibidem.  ! 30!  si differenzia e si scompone in un divenire metamorfico che trova unità nell’esperire patico ed estatico del Dasein. Appare evidente come sullo sfondo di tale posizione teorica resta una domanda cruciale: in che modo occorre ripensare il logos per non ridurre l’essere e la manifestatività ad una realtà monolitica e cosale? Come superare una concezione oggettivistica e soggettivistica? Si tratta delle domande che agitano le pagine teoreticamente dense di Il problema del logo apparso in Archivio di filosofia nel 1936 e in cui Grassi si chiede: “Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione può solo essere intesa come uno scindersi e distinguersi di sé – giacchè ogni apparire immediato, oggettivistico è stato già escluso – come deve essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il logo sia effettivamente il primo, la ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un momento prelogico? Questo è il problema contro il quale urtiamo definitivamente”75. L’operazione di accostamento tra l’ontologia heideggeriana e l’idealismo gentiliano, che ad alcuni interpreti parve una mossa teorica insostenibile76, è per Grassi la condizione di possibilità per sviluppare una riflessione intorno all’umanesimo italiano. Proprio l’approccio a GENTILE e a Heidegger, originalmente interpretati attraverso il filtro di una visione del logos molto ampia e ricca, che sembra talvolta porsi come polarità antitetica al pathos, talaltra come macrocategoria che ricomprende in sé la stessa dimensione patica – oscillazione che viene sottolineata con vigore da alcuni interpreti77 che parlano di un irrisolto dualismo nel pensiero grassiano, ma che, come vedremo in seguito, si giustifica tenendo conto proprio della visione complessa e ampia che Grassi ha del reale – offre a Grassi l’opportunità di delineare un percorso teoretico che guarda al reale, all’essere e alla manifestatività senza la mediazione gnoseologistica ed oggettivistica, bensì tramite una pre-  75 Ivi, pp. 376-377. 76 Nella Recensione all’articolo di G. Il problema del logo afferma Ottaviano: “dirò subito che la tesi, che cerca di fondare una interpretazione idealistica del pensiero sostanzialmente realistico di heidegger, è, in linea assoluta, per mio conto insostenibile”, C. Ottaviano, Recensione a E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 398. 77 Cfr., la posizione di M. Marassi in G. e l’esperienza del fine, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 7-24.  ! 31!  intelligenza pre-categoriale fortemente radicata nella dimensione dell’affettività, del patico e della Stimmung. Emerge così un programma filosofico ambizioso che giungerà ad una riqualificazione della Romanitas e della cultura umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma mediterranea e latina in senso lato. G. si chiede: “in che senso possiamo affermare che il logo come atto, come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli enti in mezzo ai quali ci troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che chiamiamo mondo – e in che relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario riporre sotto un nuovo punto di vista tutto il problema della originaria svelatezza dell’essere. Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della concezione oggettivistica nel suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più precisa e approfondita determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del logo”78. Tale precisa e più approfondita determinazione dei molteplici significati del logos avviene nella metà degli anni Trenta, anni cruciali per la storia d’Europa e per le vicende personali dello stesso G. Che si iscrive il 3 maggio 1933 al partito fascista più per motivi di “opportunismo” accademico che per convinzione, e in un clima di generale espansione europea delle ideologie fasciste. Ricordiamo che soltanto dodici professori in quegli anni rifiutarono di prestare giuramento e che l’esplicito e dichiarato antifascismo di Croce resta isolato e chiuso nelle mura di palazzo Filomarino, mentre GENTILE raccoglieva intorno a sé il meglio della filosofia. In tale contesto bisogna inquadrare il compito teoretico e culturale che G. da alla sua ricerca di una ri-valutazione della FILOSOFIA ITALIANA. Così ritroviamo G. a Berlino, dove assume il ruolo di professore incaricato di FILOSOFIA ITALIANA nei suoi rapporti con la filosofia tedesca. Nei saggi scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia tedesca e italiana fino a Del Vero e del verosimile in Vico G. Il Problema del logo,  Cfr. la dettagliata ricostruzione di Büttmeyer , Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo della cultura cfr., Cacciatore, Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della storia italiana, in A. d’Orsi-F. Chiarotto, Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una categoria, Aragno, Torino] passando per i contributi sul poetico e sul politico nella riflessione italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento, sale in superficie la questione della parola, indagata, secondo G., dagl’umanisti non con uno spirito antiquario, erudito, storico-filologico, storiografico, bensì con lo spirito di una lotta per una visione e una costruzione del mondo storico-sociale, che non è un mondo di pura contemplazione, ma è innanzitutto una vita attiva, in cui i valori del passato romano, che gl’umanisti sostenevano di aver scoperto CONTRO le interpretazioni ebbraizanti medievali, potevano contribuire all’educazione e alla formazione della civiltà. Come ha sottolineato Vasoli nell’Introduzione italiana all’opera grassiana Heidegger e il problema dell’umanesimo: “G. considera vero problema centrale dell’umanesimo italiano non tanto la riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti, quanto piuttosto l’illuminazione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo dalle analisi di G., svolte in un ampio arco, da ALIGHIERI a BOCCACCIO e a SALUTATI, da BRUNI a VICO, emerge un tema costante: la poesia epica degl’antichi eroi – ENEA E ROMOLO -- come fondazione della COMUNITA umana e della storia, svelamento luminoso dell’essere, e – soprattutto in VICO – principio e ragione della stessa humanitas, con la sua inquietante presenza storica. L’umanesimo è, dunque, interpretato alla luce dell’ESPERIENZA LINGUISTICA che caratterizza il mondo umano e della individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e originaria che G. ri-elabora sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul concetto di LICHTUNG – lume -- si tratta di un umanesimo onto-antropo-logico, che non è un approccio antropologico antropocentrato, poiché la relazione primaria èquella di uomo e mondo, Dasein e Sein. Lo slittamento dell’interpretazione dell’umanesimo da un piano gnoseologico-epistemologico ad uno ermeneutico-ontologico spinge G. ad un più serrato confronto con Heidegger e la sua inappellabile condanna dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione, perché a causa della sua provenienza metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende. Vasoli, Introduzione a G., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida; Heidegger, Lettera sull’umanismo; Segnavia, a cura di Volpi, Adelphi, Milano. Tale critica in Heidegger si collega ad una precisazione della sua filosofia che non ha mai avuto l’intenzione di essere un esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero che con uno Schritt zurück, con un passo indietro, rispetto all’umanesimo e alla metafisica, cerca di proporre il problema dell’essere. Tenendo in considerazione il tema dell’ultra-metafisica heideggeriana G. ha dato una caratterizzazione per così dire non umanistica in senso heideggeriano dell’umanesimo individuando in esso numerose analogie con Heidegger. In questo modo, tra un approccio apologetico della modernità ed uno decostruttivo, quale è quello di Heidegger, secondo il filosofo milanese l’umanesimo resta schiacciato in un limitato settore storiografico senza anima propria ma interpretato solo in riferimento ad altre epoche. G. si chiede se sia plausibile una simile posizione o se non si tratti, forse, come già accaduto per Cassirer, Kristeller, SPAVENTA, Hegel e altri, di un errore di prospettiva. Per tentare di rispondere a queste domande, emerse con vigore negli anni Quaranta, G. impiegherà tutta la sua esistenza. In un importante testo, apparso in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto della collaborazione con Otto e Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, G. porta avanti una vigorosa critica del cogito cartesiano che non tiene conto di quella passione a partire dalla quale soltanto avviene il theorein che è proprio della filosofia. Un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente. A fondamento del pensiero c’è una necessità esistenziale che non può CHE rivelarsi e apparire attraverso l’esperienza della parola poetica e META-FORICA. Unicamente la META-FORA (TRAS-LAZIONE) può rendere conto del poli-morfismo ontologico, che non è un fatto, ma un continuo divenire, all’appello del quale [G. La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., soprattutto il primo capitolo, Il problema della parola poetica; Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. “L’essenza della presenzialità immediata – che dov3 essere l’essenza della svelatezza empirica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi il dato originario, come immediata presenza di alcunchè, è il divenire, il processo, cioè ciò che non è ancora diventato, fatto, e in quanto già l’uomo è chiamato a rispondere in modo plurale e non univoco. G. afferma che poiché il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso una META-FORA (TRAS-LAZIONE). Allora la META-FORA (TRAS-LAZIONE), che ricorre per lo più alle immagini non va considerata un mezzo solo letterario ma è INDISPENSABLE per esprimere l’Originario [cf. GRICE, ESCHATOLOGY]. Oltre alla collaborazione all’annuario, occorre segnalare anche la progettazione dell’Istituto Studia Humanitatis in cui la partecipazione degli esponenti della cultura italiana e tedesca è inquadrata anche alla luce di un intento politico-culturale: quello di affermare la specificità della ROMANITÀ nei confronti degl’ideali del mondo tedesco privilegiando soprattutto tre ambiti problematici. In primo luogo, l’antichità nel suo particolare significato per LA TRADIZIONE ITALIANA. Inoltre il rinascimento e l’umanesimo infine, una terza questione riguarda il modo in cui si ha compreso e giudicato l’umanesimo e il rinascimento. Per G. fin dall’inizio gli studia humanitatis hanno un legame con l’agire creativo dell’uomo, che si realizza soprattutto nella comunità politico-sociale. G. si reca in Svizzera in cui progetta con Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore Francke di Berna incomincia la sua attività di insegnamento a Monaco e di direzione del Centro di Studi Filosofici. In conclusione di questa breve introduzione alle idee dell’emigrante con la vocazione per la filosofia, basti dire che negli anni densi e intensi dell’apprendistato filosofico si gettano le basi di quei grandi temi che percorrono i decenni successivi: la rivalutazione dell’umanesimo e della latinità come luoghi di riflessione sulla questione onto-antropo-logica, sul nesso uomo-essere; LA CENTRALITA DEL LINGUAGGIO E DELLA PAROLA POETICA, DEL DIRE METAFORICO e della svanito, non più presente. Il dato come oggetto, e quindi come qualcosa di già fatto, non è il dato, bensì una falsa interpretazione del dato. G. Il Problema del logo; Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica; Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des Institutes, Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin, verlag Helmut Küpper, ora in I scritti. Del periodo berlinese ricordiamo anche l’attività editoriale realizzata con l’appoggio di Küpper.] retorica. La questione è, ancora una volta, quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, ma di attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura si intersecano. L’umanesimo della complessità offerto da G. può essere concepito come un atto di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare è quella della preminenza della ratio. Ma tale operazione decostruttiva non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione. Del tramonto della civiltà, in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate; del tramonto dell’uomo che da animale pregnante, passa ad animale carente, diventando, infine, animale obsoleto e antiquato o, addirittura, come testimoniato dagli attuali studi post-umanisti, segmento di un processo ibridativo con la techne. Nei prossimi capitoli cercheremo di ripercorrere le tappe grassiane del discorso sull’umanesimo che viene a configurarsi come un itinerario onto-antropo-logico in cui il discorso sull’uomo si intreccia indissolubilmente con la questione ontologica. Sarà concesso spazio a quegli scritti nella convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è possibile comprendere la ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo gravitante attorno al concetto di Lichtung. Le questioni sollevate da G. costituiscono un contributo fondamentale alla filosofia del Novecento e non possiamo pensare alle sue riflessioni come a temi da “vagabondaggio filosofico”, come dai giudizi dei filosofi ricordati all’inizio di questo capitolo sembrava emergere, ma come l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a partire dalle proprie strutture immanenti e dal proprio essere-nel- mondo.  Uno dei risultati più importanti della indagine filosofica grassiana portata avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è la scoperta della co-originarietà tra logos e pathos: la dimensione patica dell’esperienza umana si pone come un a priori dello stesso ambito cogitativo. Possiamo rintracciare un doppio binario della ricerca: la critica al pensiero moderno è condotta, da un lato, attraverso l’individuazione degli effetti negativi di un divorzio tra logos e pathos, dall’altro, tramite la ricerca di un certo “luogo” della tradizione culturale umanistico-rinascimentale che il dibattito storiografico ha sempre ritenuto privo di spessore filosofico, o almeno non carico di una serie di motivazioni teoriche che G. rintraccia. Secondo il pensatore milanese il “grande rimosso” del pensiero moderno è, di fatto, un momento epocale: la tradizione ha obliato il valore filosofico e storico del linguaggio poetico, nel quale egli rintraccia la possibilità di uscire dal conflitto tra ratio e pathos. Solo fuoriuscendo dal circolo vizioso di ragione e passione è possibile esperire una dimensione dell’umano nuova ed autentica. Ma come nasce per Grassi l’esigenza di rinnovare la questione dell’uomo e del suo rapporto con il mondo? Sappiamo quanto vivo e vigoroso fosse il problema: lo dimostra la tenacia speculativa che, in qualità di direttore della Humanistische Bibliothek dell’editore Fink, mostra patrocinando la pubblicazione di una cinquantina di volumi intorno a temi umanistici, nella speranza che la conoscenza diretta di Petrarca, Salutati, Valla, Pontano, Gianfrancesco Pico potessero rendere giustizia ad un’immagine dell’umanesimo lontana dalle interpretazioni tradizionali. Inoltre, [Affronteremo la questione del nesso pathos-logos in maniera analitica nel terzo capitolo. il nostro autore, sotto il patronato dell’Accademia d’Italia, ha l’incarico di fondare e dirigere l’Istituto Studia Humanitatis a Berlino, anche grazie all’interessamento di CASTELLI ZUBIENA (si veda). Accanto a questa opera di edizione e direzione c’è il percorso di ricerca teorica portato avanti per tutta una vita e che pone Grassi in un confronto serrato con i più noti interpreti dell’Umanesimo e del Rinascimento e con due autori in particolare secondo la convinzione di gran parte degli interpreti: Vico e Heidegger, ma noi vorremmo aggiungere anche Cartesio, Aristotele e LEOPARDI (si veda). Da un lato Cartesio ha avuto un ruolo centrale nell’analisi grassiana del logos attraverso la fecondità individuata nei concetti di dubbio e cogito che rivestono un’importanza fondamentale nell’analisi della Leidenschaft. Dall’altro Aristotele ha espresso concetti, quali quelli di archè e pistis, che secondo G. gettano luce su un altro percorso possibile per il pensiero: il filosofare noetico non-metafisico in cui si condensa la proposta retorica del filosofo tutta gravitante intorno al nesso phantasia-ingenium-metafora che costituiscono la triade della retorica del significare arcaico. Poi c’è Vico che appare come l’erede della tradizione umanistica: il De antiquissima e la Scienza Nuova ci guiderebbero verso un mondo la cui nota dominante è costituita dalla fantasia e dall’ingegno, che con spirito anti-cartesiano VICO (si veda) avrebbe contrapposto alla ratio calcolante e al deduzionismo matematico di Cartesio, in difesa delle humanae litterae. LEOPARDI (si veda) con il concetto di illusione avrebbe teorizzato una filosofia dell’esistenza in cui il pathos avrebbe raggiunto le vette di una tematizzazione poetico-filosofica che guida la riflessione verso il tema del fondamento e dell’antropogenesi. Infine Heidegger si mostra come il più fiero oppositore dell’Umanesimo e del Rinascimento, trattati alla stregua di espressioni di una mera antropologia ontica che ha come centro della riflessione l’ente e non l’essere. Eppure le riflessioni di Heidegger sul linguaggio e sulla parola poetica, sull’opera d’arte come evento del disvelamento dell’essere, sono richiamate all’attenzione da Grassi che con Heidegger va oltre Heidegger compiendo un vero e proprio iter di oltrepassamento, nel duplice senso di Verwindung (accettazione-approfondimento) e Überwindung (superamento). Secondo l’interpretazione grassiana, quella di Heidegger sarebbe una prospettiva che, nonostante la messa in mora della modernità e l’opera decostruttiva condotta nei riguardi dell’impostazione soggettocentrica, cade preda di quel pregiudizio hegeliano e di tutta la concezione idealistica dell’umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “Heidegger sottolinea che il termine umanesimo si affermò per la prima volta al tempo della repubblica romana come equivalente del termine greco paideia. Per Heidegger è un dato di fatto che ogni umanesimo principia col definire l’essenza dell’uomo, quindi con una filosofia antropologica”90. L’umanesimo come mera antropologia è l’equazione posta da Heidegger che Grassi mette in discussione attraverso un’analisi storico-filosofica che rintraccia nelle riflessioni sul linguaggio un altro inizio del pensiero. Benché Heidegger avesse sviluppato una concezione del linguaggio e della poesia come luoghi del disvelamento dell’essere, la tradizione poetica degli autori italiani del Quattrocento non era ritenuta funzionale al discorso relativo alle “circostanze della manifestatività” ma frettolosamente liquidata in quanto proseguimento della Romanitas, posta da Heidegger in contrapposizione con l’esperienza greca presocratica. Grassi tenta di ricostruire con spirito critico-problematico, più che filologico91 in senso tecnico, la tradizione di quegli autori come Salutati, Valla, Poliziano e Landino che mostrano una ricchezza del possibile in alternativa all’unilateralità del vero. Nelle sue analisi, infatti, emerge quella volontà di far parlare direttamente i testi senza diaframmi, mettendo in evidenza quella mutevolezza del particolare e del contingente senza prescindere dalla situazione data. Denunciando i gravi limiti di ogni inerte visione aprioristica e razionalistica, quegli autori costituiscono per Grassi il polo ineludibile di una riflessione che è attenta a tutte le dimensioni del  E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 58. 91 Del resto le forzature storiografiche che talvolta sono presenti nelle riflessioni grassiane sono state sottolineate da Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo: “Grassi è infatti convinto – e lo ripete nel modo più esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal Ficino e la forte ripresa della tradizione aristotelica, nel corso della prima metà del Cinquecento, siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia umanistica o, almeno, alle sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone, naturalmente, molti problemi di natura storiografica [...] anche se non può tacersi che anche il giudizio umanistico sul valore fondante della poesia deve non poco a tipici loci platonici e che il tema del furor proprio del Ficino (si pensi soltanto ad alcune notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo dominante nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di theologia originaria”, C. Vasoli, Introduzione, pp. 7-16, in E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 12; titolo originale Heidegger and the question of Renaissance Humanism, Centre for Medieval and Early Renaissance Studies, Binghamton, New York[ pensiero: non solo la logica e la teologia, ma la giurisprudenza, la mitologia, la politica, la retorica, la poesia divengono oggetti teorici degni di una riflessione sulle molteplici forme dell’apparire dell’essere. In tale percorso di rivisitazione delle tematiche umanistiche Grassi segue itinerari poetici e teatrali, generi, quali il poema cavalleresco, la lettera familiare, l’elogio, che pongono in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è nelle parole, nei verba, nella ricchezza e complessità di un universo linguistico non chiuso nei ristretti limiti della logica formale che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. Da ciò deriva che il principale compito della nuova filosofia umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione del reale non a mezzo “del processo razionale del pensiero che col concetto (horos) e la definizione (horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed astraendo dal tempo e dal luogo, ne stabilisce il significato”92; ma attraverso la parola storica-poetica-metaforica che “è una eikasia (una somiglianza e un apparire) del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali che sorgono nelle diverse situazioni”93. L’attenzione alla polidimensionalità del reale che si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa opera grassiana non suscettibile di sistematicità: leggere Grassi tentando di rintracciare nelle sue pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato, occorre piuttosto seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della meditazione94. Del resto questo è un risultato, più che un  Id., La filosofia dell’umanesimo un problema epocale, cit., p. 37. 93 Ivi, p. 146. 94 Secondo l’interpretazione di D. Pietropaolo l’assenza di sistematicità nella filosofia di Grassi costituisce un limite, uno “svantaggio considerevole”, ma secondo il nostro punto di vista si tratta di un riflesso dell’impianto fenomenologico del metodo seguito da Grassi. Se la realtà è multiforme e sfaccettata anche il modo di dire tale realtà procederà per aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a mostrare la ricchezza dell’essere. D. Pietropaolo, Grassi, Vico, and the defense of the Humanist Tradition, in “New Vico Studies”, 1992, X, p. 5. Opposto il giudizio di A. Battistini secondo il quale quello di Grassi è un metodo che “rispecchia una ricerca sempre in progress, inappagata, dinamica”, A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, p. 391, in E. Hidalgo-Serna-M. Marassi (a cura di), Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 385-404.] limite, raggiunto dal filosofo in ossequio all’insegnamento degli umanisti che con la riflessione sulla storicità dell’esperienza umana che parte da bisogni concreti elaborano quella che è una rivoluzione epocale ben più importante di altre rivoluzioni culturali: attraverso la teoria dell’ingegno, che interviene nelle diverse e varie situazioni, in funzione delle necessitates e dell’hic et nunc, tramite l’attività analogica, che assurge a meccanismo catalizzatore del sistema antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale che “l’umanesimo, non muovendo più dal problema della definizione razionale del reale, realizza un rovesciamento dei procedimenti del pensiero filosofico ben più radicale della così detta moderna “rivoluzione copernicana” del pensiero cartesiano e idealistico”95 e ciò è espresso, dal nostro punto di vista, in conformità alla generale impostazione onto-antropo-logica del pensiero di G., che vede nella indagine linguistica e poetica la possibilità di scorgere quell’appello dell’essere che spinge l’uomo a rispondergli creativamente in base alle molteplici circostanze esistenziali. In tale contesto l’agire umano per Grassi “implica la necessità di realizzare non cognizioni astratte di una metafisica ragionata ma una metafisica metaforica, fantastica ma non arbitraria perché risposta oggettiva alle urgenze vissute differentemente nelle varie situazioni”96. Ma torniamo al problema dal quale siamo partiti: come giunge G,i alla domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo? Decisivo è stato l’incontro con il maestro degli “anni mitici di Friburgo”? Oppure dobbiamo attendere quella che, secondo alcuni interpreti, è la svolta vichiana? Domandarsi della genesi del problema onto-antropo-logico in Grassi è una operazione teorica non semplice, poiché si tratta di percorrere un iter in absentia: il filosofo non usa esplicitamente l’espressione “onto-antropo-logia” per qualificare la propria riflessione, ma, a dispetto di quest’assenza terminologica, possiamo riscontrare le tracce – non tanto nascoste – di tale ambito problematico che si costituisce come l’orizzonte di pre-comprensione imprescindibile per accedere ai settori teorici toccati dal filosofo di Milano: retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi al  E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 96. 96 E. Grassi, VICO (si veda) e OVIDIO (si veda). Il problema della preminenza della metafora, in “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”]  contesto onto-antropo-logico ci consentirà agevolmente di sfatare anche un’ipoteca storiografica che pesa sul suo pensiero, talvolta preda di un’interpretazione che lo ritiene mera espressione eclettica o privo di una adeguata articolazione teoretica97. Grassi affronta i temi dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani già nel 1924 nel saggio Il pensiero di MACHIAVELLI (si veda) e l’origine del concetto di stato apparso sulla rivista Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con Heidegger, ben prima dell’incontro con Vico dunque. In questo saggio Grassi offre un’interpretazione degli scritti machiavelliani puntando l’attenzione sui concetti di uomo e umanità, riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua prospettiva onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria. L’impostazione teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare credito ad alcune interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità umana come valore immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema concettuale il pathos della ricerca; la collocazione entro la cornice teorica della modernità dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di Milano ciò che emerge dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di immanenza che permea tutta la riflessione moderna. Grassi afferma che “il medioevo e il rinascimento - secondo una distinzione larga – nascono come espressione di due pensieri fondamentalmente distinti: mentre il pensiero antico, medioevale cercava la razionalità del reale – ossia il principio di ogni realtà in un principio trascendente, che ci supera – il pensiero moderno – di cui il rinascimento e l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la razionalità del reale in un principio immanente, che è in noi”99. Pur accogliendo tale distinzione tra Medioevo e Rinascimento il filosofo riconosce tuttavia il limite di un’impostazione di questo genere poiché la realtà storica e filosofica risulta pur sempre più ricca e complessa di rigidi schemi che non tengono conto delle mille sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli intellettuali. Emblematico è il caso di Dante che in questo scritto appare essere !! Cfr., l’interpretazione di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla prospettiva filosofica di Ernesto G., pp. 77-88, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit. 98 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., in particolare il terzo capitolo, Umanesimo e modernità, pp. 89-125. 99 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi Scritti] un Giano bifronte, proteso sia verso l’impostazione classica e medioevale, che rintraccia nell’“essere per essenza – o per seguire la loro denominazione – Dio – l’essere da cui tutto proviene e in funzione del quale tutto si distingue e supera il soggetto di cui è origine e causa”100; sia verso un aspetto proto- moderno che troverà nell’epoca successiva un dispiegamento considerevole. Secondo Grassi nella concezione politica di Dante abbiamo un primo embrione della modernità: “la nuova epoca non si – può – far nascere dal secolo XV, ma molto prima, come ci rivela l’espressione volgare della Divina Commedia, del Convivio, e il ghibellinismo di Dante”101. La riflessione della modernità matura sarà contraddistinta da una serie di elementi che metteranno in crisi l’impostazione medievale ma anche classica. Contro l’idea che proprio gli umanisti proporranno nell’auto-interpretazione della propria epoca, secondo Grassi lo stesso classicismo del Quattrocento e del Cinquecento non è che “semplice scorza con cui la nuova epoca inviluppava le sue tendenze...fredda cenere sotto cui troviamo il primo fuoco dello spirito moderno, l’uomo che ricerca e trova se stesso”102. Nel nuovo contesto culturale la figura di MACHIAVELLI (si veda) è assunta come baluardo della costruzione del Rinascimento: nel clima generale della critica verso i “barbari medievali” alla vis destruens degli umanisti Machiavelli sa contrapporre una vis construens che si concretizza nella messa a tema del concetto di patria, del valore dell’individuo e della verità effettuale che, secondo G., riveste un’importanza massima: “l’affermazione della verità effettuale è della massima importanza, egli giungerà logicamente col suo metodo induttivo alla concezione della storia come creazione umana”. La centralità della nozione machiavelliana di verità effettuale viene posta in correlazione con la teoria vichiana del verum ipsum factum, secondo cui il verum storico è conoscibile solo ed unicamente nel factum umano. Il criterio della convertibilità, che ha una tradizione antica, di ascendenze giudaico-cristiane104, e che è possibile definire come il vero assioma di VICO (si veda), viene esplicitamente espresso nel De nostri temporis studiorum ratione. Qui il criterio del verum-factum viene legato all’ambito geometrico: “pertanto queste cose della fisica, che in forza del procedimento geometrico si presentano come vere, non sono se non verisimili, e dalla geometria ricevono sì il procedimento, non la dimostrazione: dimostriamo la geometria perché la facciamo; se potessimo dimostrare la fisica, la faremmo. Vorremmo sottolineare che il “vichismo” di MACHIAVELLI (si veda) individuato da G. in questo saggio risente fortemente dell’impostazione crociana. L’inconsapevole vichismo di Machiavelli o il non voluto machiavellismo di Vico compare in numerose opere del filosofo di Pescasseroli. U no dei primi riferimenti crociani al Segretario fiorentino risale a Filosofia della pratica in cui CROCE (si veda), trattando della categoria dell’utile, e quindi della politica, riconosce Machiavelli come il capostipite delle dottrine che hanno considerato la politica come attività indipendente dalla morale e che hanno stabilito dei precetti “empirici” della “ragion di Stato”. Ma allo stesso tempo osserva che la questione “se codesti due termini potessero mai tenersi immediatamente identici” è stata indagata da Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo pensiero è stato lungamente non compreso “non essendosi inteso il valore spirituale della volontà utilitaria, considerata per sé senza interferenza della ulteriore determinazione morale” Per una sintesi ben documentata della storia della teoria del verum-factum prima e dopo Vico cfr., M. Martirano, Vero- Fatto, Guida, Napoli, 2007, in particolare i capp., Il criterio del vero e del fatto prima di Vico, pp. 41-101; e Il criterio del vero e del fatto dopo Vico, pp. 105-172. 105 G. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, pp. 49-51. 106 Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Laterza Editori, Bari, 1945, p. 266. 107 ivi, p. 267. Secondo Croce solo a partire dall’analisi critica di Francesco De Sanctis si è cominciato a comprendere il carattere complesso della tesi di Machiavelli e quindi a valorizzare il pensiero del Principe giustificandolo a dispetto delle condanne provenienti da correnti moraliste. Nella recensione dell’edizione del Principe curata da Federico Chabod nel 1924, Croce precisa come sia necessario non tanto affermare che la politica si identifica con la forza bensì “insistere e mettere bene in chiaro che cosa sia veramente la forza, e come quella forza, che è la virtus politica, rappresenti un aspetto, necessario bensì ed eterno, ma un aspetto solo della totalità ed integralità umana” – B. Croce, “La Critica”, giugno 1924, p. 314. In seguito nel 1932 in Storia d’Europa nel secolo decimonono ad integrazione la necessità della virtù nella politica] Su questo sfondo crociano l’interpretazione di Grassi pone in luce il nesso di verità effettuale108 e verum ipsum factum che dischiude una nuova visione del mondo: dire che “coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo veramente l’affermazione che precorre e già contiene implicitamente il verum ipsum factum di Vico”, significa porre nella realtà l’unico valore, identificando valore e realtà, essere e valore, e ha come conseguenza anche l’adozione di un metodo innovativo di indagine del reale. L’importanza di questo saggio giovanile è degna di nota se consideriamo che proprio qui emergono alcune dicotomie concettuali che ritroveremo nella produzione successiva e che sottolineano quanto già a partire dagli anni Venti la questione onto-antropologica fosse viva nella riflessione del filosofo. Risulta evidente allora che la questione onto-antropo-logica, il problema dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e Sein nell’orizzonte della Lichtung non compare in G. solo ed unicamente a partire dall’incontro con Heidegger o dalla svolta vichiana di un fantomatico “secondo G.” ma affiora già nelle riflessioni sulla “scienza nuova” machiavelliana. La “scienza nuova” offerta da Machiavelli secondo il pensatore milanese è innanzitutto una scienza induttiva e non deduttiva, è una intelligenza dei fatti che può realizzarsi solo abdicando al principio di autorità e all’a-priorismo e la denuncia della mera attività politica senza responsabilità è lampante: “se alla libertà si toglie la sua anima morale...si toglie la purezza del fine; se alla disciplina interna alla quale essa si sottomette spontanea si sostituisce quella della eterna guida e del comando non rimane se non il fare per fare, il distruggere per il distruggere...ne vien fuori l’attivismo. Il quale è dunque in questa traduzione riduzione e triste parodia che in termini materialistici compie di un ideale etico, sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà” – CROCE (si veda), Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza Editori, Bari. CROCE risolve in maniera definitiva la questione posta da MACHIAVELLI (si veda) saldando assieme l’etica alla politica sia nella sua concezione della storia, sia nella sua filosofia politica tanto da unire nell’unica opera Etica e politica i precetti morali alle riflessioni sulla politica. In questo testo egli cita VICO (si veda) come il solo ed autentico successore dell’impostazione di Machiavelli, ritenendo che i suoi veri prosecutori non sono né coloro che elaborano una precettistica della “ragion di stato”, né coloro che escludono qualsiasi commistione tra politica e etica e predicano l’avvento di un regime basato sulla pura bontà e giustizia, né chi non cerca di risolvere l’antinomia tra politica e morale ma la relativizza a carattere meramente accidentale della storia. Vico è ai suoi occhi colui che più di tutti è “pieno del suo spirito, che egli chiarifica e purifica, integrando il suo concetto della politica e della storia, componendo le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo” – B. Croce, Etica e politica, Laterza Editori, Bari, 1931, p. 254. 108 L’espressione verità effettuale compare nel XV capitolo del Principe: “ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, N. Machiavelli, Principe, XV, 280 A. Cfr., su questo aspetto V. Raspa, Della verità effettuale della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al XV capitolo del Principe, pp. 152-184, in AA. VV, Machiavelli: immaginazione e contingenza, a cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa 2006. 109 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi scritti] logico. La grandezza del segretario fiorentino risiede nella ricostruzione politica del Rinascimento, che è allo stesso tempo una restituzione alla storia di una razionalità intrinseca. Ma in che modo è possibile offrire al dominio di Dio o del caso – la storia – una propria razionalità? La domanda che secondo Grassi Machiavelli si pone trova nelle pagine del Principe una risposta, l’unica possibile. Assodato che con il Rinascimento registriamo una rottura, un crollo dell’impalcatura teorica e pratica del Medioevo, la dissoluzione dei valori religiosi e l’affermazione della forza dell’individuo, come garantire l’integrità della vita activa, come riparare la nuova idea di azione umana dal pericolo di una dispersione irrazionale di energia? Secondo Grassi la stessa affermazione del soggetto empirico va superata e si supera con Machiavelli: “l’affermazione del soggetto empirico andava superata e condotta a un concetto di unità di individualità superiore, ma il problema doveva essere posto negli unici termini possibili: superare l’individualità empirica per mezzo dell’affermazione dell’individualità stessa”110. Il problema dell’individualità si pone come un dato di importanza considerevole per due ordini di ragioni: innanzitutto l’ascesa del soggetto è individuata come un tratto distintivo della modernità, sebbene in questo contesto l’autoaffermazione assuma una valutazione positiva che in seguito perderà, a fronte di una impostazione teorica che vede nella compagine soggettocentrica della filosofia un aspetto negativo; poi mostra l’aporia aperta dalla figura di Machiavelli e che rifluisce nella tematizzazione grassiana successiva: l’aporia tra la componente irrazionale, quella che successivamente sarà definita patica, e l’esigenza di un inquadramento razionale e logico. Il Principe ha un valore emblematico e attesta un tentativo di coniugazione estremamente importante: “l’affermazione del Principe di Machiavelli è così il passaggio dal concetto dell’Umanesimo, dell’individualità empirica, a quello di nazione”111. Passaggio, questo, che fa emergere quanto Machiavelli percepisse “l’irrazionalità in cui si dibatte il Rinascimento: il contrasto delle varie affermazioni di tirannidi”112 e che rende la sua opera una sorta di “fisica delle forze umane”113. Si tratta di un’aporia che nel Principe si struttura come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e unità del principe-centauro; e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra il conflitto socio-politico e l’unità istituzionale. Una contesa che è connotata positivamente da Machiavelli per il quale le “dissensioni”, i conflitti, non sono elementi esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie e proficue114. Alla figura di MACHIAVELLI (si veda), all’importanza della sua teoria politica nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e all’impronta innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al “cambiamento di paradigma” del Cinquecento, per usare una fortunata espressione kuhniana, Grassi dedica molta attenzione tra gli anni Venti e Quaranta. Ciò è testimoniato dalle pagine conclusive del saggio Pensieri sul poetico e sul politico del 1939, in cui si asserisce che “l’essenza politica di Machiavelli consiste quindi nell’aver riconosciuto l’urgenza della politica (necessità), il suo imporsi, come una forma autonoma e in sé indipendente da ogni altra forma del dischiudersi della realtà [...] questo inarrestabile realizzarsi del politico è ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte, bensì la concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo”115. Qui viene espresso quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale esercita sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché quello di Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a costituire una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di Grassi, la quale ha di mira l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei dispositivi che sono fortemente radicati nella situazione particolare, nell’Appello dell’essere e  Ibidem. 114 Cfr. Barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento, Carocci, Roma 2008, in particolare le pp. 39-75 dedicate a Machiavelli. 115 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico, in Id., Primi scritti, cit., p. 793. Il saggio appare originariamente in tedesco con il titolo Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens nel 1939 in Schriften für die geistige Überlieferung, Erstes Heft, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1939. Nel saggio rifluiscono due conferenze, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition.] del reale, la cui carica di estraneità è oltrepassabile solo tramite l’azione concreta e storica che ha struttura metaforica. L’attività metaforologica ha infatti una connotazione onto-antropo-logica in Grassi: riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante. Non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per G. un dispositivo antropo-poietico. Come si afferma in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica: “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”116. In conclusione possiamo dare per acquisito che la lettura di Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario fiorentino e alla politica pongono in luce la fondamentale importanza che in tale ricostruzione di un nuovo paradigma assume la conoscenza storica del passato117, il tema della fortuna – la concreta situazione storica – e quello della virtù – come abilità di commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118, quello dell’autonomia dell’agire politico119. Questi elementi ci dicono che “non Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 76. 117 Id., GIUCCIARDINI (si veda) e il concetto della politica nel Rinascimento italiano. Prologo alla prima edizione tedesca dei Ricordi, pp. 887-900, in Id., Primi scritti, cit., p. 891. Il saggio appare nel 1942 con il titolo Francesco Guicciardini und der Begriff der Politik in der italienischen Renaissance. Prolog zur ersten deutschen Ausgabe der “Ricordi”, in “Europäische Revue”, Stuttgart-Berlin, XVIII, 1942, n. 3. 118 Id., Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, pp. 967-974, in Id., Primi scritti, cit., p. 971. Il saggio appare con il titolo Theorie der Politik in der Ueberlieferung der Renaissance, in “Neue Zürcher Zeitung”, Jahrgang, Morgenausgabe, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, in Id., Primi scritti] possiamo sottrarci di fronte all’occasione, alla circostanza, alla necessità impellente di prendere posizione nei confronti di ciò che accade. Perciò la nostra situazione si trova sempre nel mezzo di un aut-aut”120. L’essere in mezzo ad un aut-aut ci costringe a decidere, a scegliere, ad affrontare il reale come impegno e compito come Grassi afferma nel 1942 in una lettera-saggio indirizzata allo “stimatissimo amico” W. F. Otto, Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che mostra un metodo “inattuale” di fare filosofia: si tratta di esercitare la riflessione con “lettere aperte, denunciando così il carattere particolare di questo impegno comune, per il quale esso si distingue e deve distinguersi rispetto alle occupazioni scientifiche”121. Si tratta di quel metodo inattuale, difeso anche da Husserl, che solo i filosofi autentici possono realizzare nella consapevolezza di essere “funzionari dell’umanità”, orientati verso un telos che può trovare concretezza solo nell’esercizio dell’atto filosofico. Umanesimo e pseudo-umanesimi: la pars destruens del discorso grassiano. La riflessione sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro spessore filosofico elaborata da Grassi a metà degli anni Venti e Trenta si concretizza, come abbiamo visto, nel saggio su MACHIAVELLI (si veda) proseguendo nelle produzioni saggistiche successive al 1924. In queste ultime è presente anche un intento di chiarificazione storiografica e di presa di distanza dalle coeve interpretazioni della “tradizione epocale”. Riferirsi ad un’epoca storico-culturale, come quella al centro della riflessione Id., Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana. A Walter F. Otto, pp. 901-915, in Id., Primi scritti, cit., p. 912. Il saggio appare in tedesco nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes und des individuellen Lebens. Erwägungen aus der italienischen Überlieferung. An Walter F. Otto, in Geistige Überlieferung. Das zweite Jahrbuch, in Verbindung mit Walter F. Otto und Karl Reinhardt, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper] Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. a cura di Filippini, il Saggiatore, Milano 1960, p. 46, “Noi siamo dunque, e come potremmo dimenticarlo, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella nostra vocazione interiore personale, include anche le responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un telos, e che se può essere realizzato lo può soltanto attraverso la filosofia. È possibile di fronte a questo sè esistenziale sfuggire?”] di Grassi, significa innanzitutto prendere in considerazione un “mito storiografico”. Inoltre, il concetto grassiano di umanesimo è bivalente: accanto all’idea di Umanesimo come categoria storiografica limitata ad un periodo storico circoscritto e ad autori precisi troviamo un concetto di umanesimo come macro-categoria che comprende una riflessione generale sull’humanitas. A partire dal grande affresco burckhardtiano del 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien e dal saggio di Michelet Histoire de France au sezième siècle, il mondo moderno e i suoi tratti distintivi sono stati legati alla riscoperta dell’uomo e del mondo e dei valori immanenti i cui prodromi erano già presenti nella civiltà italiana del Trecento e del Quattrocento. Del resto questo era il punto di vista degli stessi umanisti che per primi parlano di una rinascita della civiltà contro i “barbari medievali”, che erano barbari non “per avere ignorato i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione storica”124. Posizione, questa, che importanti cultori di studi medievali contemporanei hanno messo profondamente in crisi propugnando una rinnovata idea di Medioevo come età della sperimentazione e dimostrando l’alto grado di sviluppo intellettuale raggiunto dalla cultura filosofica e letteraria del Medioevo, contro un atteggiamento che si è consolidato anche nell’immaginario collettivo, oltreché in quello filosofico e storico-culturale: quello che vede nel Medioevo un altrove – sia esso negativo (la prospettiva umanistica) o positivo (la prospettiva romantica) – o una premessa. Come ricorda Sergi “nell’altrove negativo ci sono povertà, fame, pestilenze, disordine politico, soperchierie dei latifondisti sui contadini, superstizioni del popolo e corruzione del clero. Nell’altrove  Cfr., per una discussione particolareggiata delle molteplici interpretazioni dell’umanesimo e del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, pp. 3-25, in AA. VV, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino, Mondadori, Milano, 2002. Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma- Bari 1964. 124 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 21. 125 Cfr., G. Sergi, L’idea di medioevo, pp. 3-41, in AA. VV, Storia medievale, Roma 1998; C. Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, pp. 7-12, Il Muligno, Bologna, 2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni dell’antirinascimento della rivolta dei medievisti, cfr., C. Vasoli, Il rinascimento tra mito e realtà storica, cit., soprattutto le pp. 18-22. ! 50!   positivo ci sono i tornei, la vita di corte, elfi e fate, cavalieri fedeli e principi magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del medioevo come generica premessa”127. Per introdurre il discorso decostruttivo grassiano faremo riferimento innanzitutto alle interpretazioni messe in discussione dal pensatore milanese, soffermandoci in particolare sulla figura di Cartesio e infine sul capo di imputazione principe – Heidegger – e sul significato che la riflessione sull’umanesimo riveste nell’ambito dell’onto-antropo-logia grassiana. II. II. Che cos’è l’umanesimo? Grassi parte dal quesito: “che cosa significa umanesimo?” e risponde individuando la genesi del termine nell’ambito politico: “questo termine nasce per la prima volta in Italia nel XIV secolo e lo troviamo negli scritti politici di Coluccio Salutati, il primo segretario politico di Firenze”128. La domanda è il punto di partenza di un saggio scritto in occasione di una conferenza tenuta nel 1938 durante la seduta della Klopstock Gesellschaft a Quedlinburg, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des Humanismus, rifluito insieme ad un altro saggio, Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition, in Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens. Per Grassi durante l’epoca umanistica si esprime per la prima volta un nuovo atteggiamento dell’uomo verso il mondo, si tratta del passaggio dall’“uomo greco”, a quello medievale”, per finire con l’“uomo del Rinascimento”. Una linea evolutiva che può essere condensata nelle note ed efficaci immagini proposte da Vernant, Le Goff e Garin: la transizione dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di Aristotele129, all’homo viator e penitente130 e all’uomo moderno131. Cfr., G. Sergi, op., cit., p. 5. 128 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, pp. 777- 802, in Id., Primi Scritti 1922-1946, cit., p. 780. 129 Cfr., J. P. Vernant, Introduzione, in Id., (a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 3-23. 130 Cfr., J. Le Goff, L’uomo medievale, in Id., (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-38. 131 Cfr., E. Garin, L’uomo del Rinascimento, in Id., (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari] Per quanto sia discutibile l’ipotesi grassiana di una frattura così radicale tra due visioni del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in tutti i suoi scritti tale dicotomia non tematizzando estesamente la plausibilità del presunto iato storico-culturale: ovviamente Medioevo e Rinascimento non sono entità metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili, ma soprattutto Medioevo e Antichità greco-romana, spesso da G. accomunate in un disegno sintetico, non sono sovrapponibili nella difesa del principio di trascendenza. Eppure è lo stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno problematico di un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel saggio su MACHIAVELLI (si veda), e nelle pagine di Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico in cui si afferma: “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”132. Tali riserve espresse con convinzione tuttavia non impediranno a G, di assumere una prospettiva teorica di forte impianto idealistico che pone la questione in termini di slittamento dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il filosofo ciò che è in gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione contraddistinta dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione della finitezza umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e non come una mancanza: “pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere anzitutto come concezione e affermazione politica; perché tutta la storia, l’arte, la filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla realizzazione di un nuovo mondo storico “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”, Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., Primi scritti] Infatti, per G. lo sviluppo dell’uomo nelle sue estreme possibilità accade innanzitutto nel contesto, nell’apertura originaria, che è un’apertura comunitaria, nella quale soltanto l’essere umano può istituire nessi e relazioni con il contesto circostante, può stare al mondo in una relazione che è innanzitutto comprendente: si tratta di comprendere e di cogliere le molteplici forme dell’essere e del suo apparire che ritroviamo soprattutto nella parola poetica, prima che nella parola logica. La valutazione autentica dell’Umanesimo sarà possibile allora solo tenendo conto dell’aporia ineludibile che il problema dell’umano ci pone dinanzi e consentirà di elaborare quel filosofare noetico non metafisico che tenta di tenere insieme l’ontologia e l’antropologia senza chiuderle in un orizzonte logico ma immettendole nel mondo metaforologico: si tratta della coniugazione “inaudita” che Grassi cerca di realizzare lungo tutto il suo percorso filosofico, dalle riflessioni sulla manifestatività in Dell’apparire e dell’essere e Il problema del logo degli anni Trenta, a quelle sulla dimensione patica dell’esperienza dell’originario in L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario e Il reale come passione e l’esperienza della filosofia degli anni Quaranta, per finire con gli scritti sul valore della metafora e del pensiero noetico non metafisico. Lo scopo dell’interrogazione sull’umanesimo come epoca storica determinata e come proposta di una rinnovata visione del mondo è dominata dall’esigenza di “un indicare a partire dal destino, dalla necessità entro la quale appaiono gli enti, e non da una loro astratta definizione. Ora lo studio di questa problematica compete a un sapere particolare che dobbiamo chiamare ontologia, distinguendola dalla metafisica tradizionale e intendendo con questo termine il rapporto che lega gli enti in situazione all’origine comune che li attraversa e perciò insieme li unifica e differenzia: ontologia non logica ma situazionale”134, ontologia noetica e non metafisica, e pertanto metaforologica, in cui l’ente appare solo nella parola umana che costruisce universi di senso. La critica di G. si appunta innanzitutto contro l’assolutizzazione di un aspetto particolare della filosofia quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli elementi della modernità che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia primitiva. Tale posizione se, da un lato, può sembrare a  Id., Il problema della morte: l’Alcesti di Euripide. Filosofare noetico non metafisico. Vico, in E. Grassi-E. Hidalgo- Serna, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo Editore, 1991, Galatina] prima vista contraddittoria rispetto all’ipotesi interpretativa esposta nel saggio del 1924 – in cui la centralità di Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della veste moderna che le riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova una spiegazione se la critica che va conducendo Grassi a certi luoghi del moderno viene inserita nel contesto più generale di una messa in questione della supremazia che l’ambito logico-gnoseologico assume nelle opzioni storiografiche analizzate. Si tratta di una messa in discussione dello stesso concetto di ragione e di logos, che non enuncia un congedo dalla ricerca filosofica – che cerca di istituire una relazione comprendente tra uomo e mondo – per mettersi sulla china dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario, l’esigenza di costruire o ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale momento patico e logico trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza individuale e vissuta. In Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Grassi passa in rassegna diverse tappe interpretative rifiutate per una sostanziale misinterpretazione dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità con il saggio L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare. Il macigno che pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e liberarsi da questo fardello è il compito verso cui il pensiero di Grassi sarà rivolto sviluppando le problematiche degli scritti onto- antropo-logici di Grassi: Macht der Phantasie 1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosophy; Heidegger and the question of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo aggiungiamo, sebbene nell’elenco stilato direttamente da Grassi non fosse annoverato135, Vico e l’Umanesimo136. Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger offre all’attenzione del suo allievo eterodosso? Prima di rispondere a questa domanda, analizzeremo di seguito le nove posizioni “inautentiche” proposte da Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale. Sullo sfondo della polemica diretta contro precisi personaggi abbiamo anche la censura al pensiero della filosofia analitica di cui, almeno in questo  La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 29. 136 Ovviamente Grassi non poteva annoverare questa opera perché essa vedrà la pubblicazione nel 1990 in lingua inglese. Si tratta di una raccolta di saggi che coprono circa due decadi di riflessione filosofica, dal 1969 al 1985 e che comprendono i testi americani di Grassi. Cfr, D. P. Verene, Prefazione a E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 19-24. Il testo è pubblicato in lingua inglese due anni prima con il titolo Vico and Humanism. Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric, Lang New York] luogo, G. non esplicita i rappresentati. Più chiarezza è rintracciabile in altri testi, come Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, in cui è esplicito il riferimento polemico a Wittgenstein, portavoce dell’impostazione scientifica del pensiero e autore di quel Tractatus logico-philosophicus che riduce il mondo alla triade: dire, mostrare, tacere137. Come è noto i sette Sätze del Tractatus si chiudono con la nota proposizione: “ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”138. Affermazione, questa, da cui traspare per il pensatore italiano un’attenzione esclusiva al piano denotativo del linguaggio che riduce il logos a tecnica di formalizzazione, a calcolo scientifico in cui l’uomo e la sua storia travagliata scompaiono. Afferma Grassi che “è considerato scientifico quel pensiero che procede nella struttura di un processo razionale, cioè nella sfera della dimostrazione. Nella teoria logica moderna questa tesi è portata avanti in modo significativo nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein [...] al di fuori del mondo simbolico del sistema abbiamo solo silenzio e mistero”139. Dalla prospettiva grassiana nell’orizzonte wittgensteiniano della filosofia l’unico linguaggio accettabile è quello del calcolo, della formalizzazione, della logica che esclude dall’orizzonte di significatività la dimensione retorica del logos ordinario – che esprime il sensus communis – e del logos patetico della poesia. Eppure Wittgenstein riabilita in qualche modo il livello connotativo del linguaggio, quella dimensione del mistico e dell’etico, relegati nel Tractatus nell’ambito del silenzio, attraverso la riflessione che si condensa nelle Ricerche filosofiche. Grassi non prende in considerazione la riflessione wittgensteiniana contenuta in questo testo, che possiamo definire come una sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di Wittgenstein contro se stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del Tractatus. Afferma Wittgenstein che “questo chiedere [il nome degli oggetti] e il suo correlato, la definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un gioco linguistico a sé. Ciò  Cfr., L. Perissinotto, Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2003. 138 L. Wittgen stein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, proposizione 7. 139 E. Grassi, Retorica come filosofia] vuol dire propriamente: veniamo educati, addestrati a chiedere “come si chiama questo?” – e a ciò segue la denominazione dell’oggetto”140. La definizione allora appare come un particolare gioco linguistico che non si identifica sic et simpliciter con l’atto originariamente istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco linguistico è una “reazione” sulla base della quale possono innestarsi le forme più raffinate di linguaggio. Esso inoltre non si origina dalla riflessione ma è una porzione141 del gioco linguistico. Colpevole142 di aver escluso “dall’ambito della filosofia le discipline umanistiche (filologia, storia, poesia e retorica)”143, che non consentono di rendere chiaro e distinto il linguaggio filosofico ma al contrario lo oscurano, il Cartesio di Grassi diviene un altro bersaglio polemico. La critica è diretta alle affermazioni contenute negli scritti cartesiani Regulae ad directionem ingenii (Regola III) pubblicate postume nel 1701144 e al Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La III regola cartesiana delle Regulae recita: “riguardo agli oggetti da trattare si deve fare ricerca non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi stessi congetturiamo, bensì di ciò che da noi stessi si possa intuire con chiarezza ed evidenza, e dedurre con certezza; poiché solo così si acquista scienza”145. Secondo Grassi in questo passo si afferma che il ricorso all’esempio degli Antiqui è un escamotage del tutto empirico, mnemonico, che produce storia, mai scienza. Questa si costituisce a un livello differente, nella trasparenza dell’intrinseca dinamica dei nostri processi cognitivi, come emerge dalla riflessione matematica. Secondo Grassi l’emarginazione dell’esperienza, lo svuotamento di senso scientifico della tradizione proposti da Cartesio sono riconducibili alla generale impostazione che muove dal paradigma matematico. In questo orizzonte di ricerca è esclusa ogni forma di congettura probabile,  Id., Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, I, § 27. 141 Id., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 391. 142 E. Grassi, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, cit., pp. 31-32. 143 Ivi, p. 31. 144 La stesura delle Regulae risale agli anni compresi tra il 1625 e il 1629. Sulla questione della datazione delle Regulae cfr., G. Mori, Cartesio, Roma 2010, pp. 37-38. 145 Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, tr. it. di G. Galli, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, p. 21.  ! 56!  che pretenda di mescolarsi e assimilarsi sulla base dell’abitudine a conoscenze certe e evidenti. La stessa valutazione dei saperi umanistici compare in I principi della filosofia. Qui il filosofo afferma che “se desideriamo consacrarci seriamente allo studio della filosofia e alla ricerca di tutte le verità che siamo capaci di conoscere, ci libereremo in primo luogo di tutti i pregiudizi, e faremo conto di respingere tutte le opinioni da noi un tempo accolte in nostra credenza, finché non le abbiamo esaminate da capo. Faremo in seguito una rassegna delle nozioni che sono in noi, e non raccoglieremo per vere se non quelle che si presenteranno chiaramente e distintamente al nostro intelletto”146. La scienza, così, è in ultima analisi tale nella misura in cui si concentra rigorosamente su ciò che non può essere intaccato dal dubbio. Inoltre, nel primo libro del Discorso, nell’ambito dell’esposizione del proprio iter autobiografico, Cartesio rende manifesta l’insoddisfazione verso quei saperi, gli studia humanitatis ai quali si era tanto dedicato durante gli anni della formazione a La Flèche, insofferenza dovuta agli inestirpabili dubbi ed errori che quelle discipline per il loro oggetto e metodo intrinseco non potevano non contenere. La critica a quei saperi, che spinge Cartesio a dire che leggere i libri antichi è come viaggiare e conversare con uomini di altri secoli147, dimenticando ciò che caratterizza il tempo presente, trova il suo esito più compiuto nella difesa della mathesis universalis, del nuovo metodo, della scienza nuova che unisce matematica, logica, geometria seguendo lo schema tetravalente di evidenza, divisione, ordine ed enumerazione. Da questo tipo di impostazione del discorso filosofico, matematizzante e logicizzante, occorre liberarsi per Grassi che afferma, con tono polemico in riferimento a Cartesio, che “egli rinfaccia alla retorica – disciplina fondamentale per gli umanisti – di turbare, influenzando l’emotività degli uditori, la chiarezza e la coerenza del pensiero razionale, deduttivo. Egli rifiuta pure la validità del senso comune, giacchè solo il rigore logico è garanzia del filosofare” Cartesio, I principi dellafilosofia, p. 64, in Id., Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A. Tilgher e M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr. it. di M. Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, cit., p. 295, “Conversare con gli uomini di altri tempi è quasi come viaggiare [...] ma se si passa troppo tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel proprio paese; e quando si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei secoli passati, si resta per lo più molto all’oscuro di quel che si fa al giorno d’oggi”. 148 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo] Vorremmo sottolineare tuttavia che il filosofo italiano non tiene conto di una certa riabilitazione da parte di Cartesio dei concetti di verosimile, tradizione e pregiudizio nell’ambito della riflessione morale, come si evince dal Discorso, dai Principi e dalle Passioni dell’anima, oltre che dalla corrispondenza. Secondo la nostra interpretazione ciò accade per diversi ordini di ragioni: innanzitutto incide l’impostazione idealistica che Grassi riceve negli anni di apprendistato alla Cattolica, per cui l’inizio del moderno e la nascita del soggetto avrebbero in Cartesio un punto di partenza fuori discussione149; inoltre, l’impostazione heideggeriana che, come è noto, si concentra molto sulla critica a Cartesio, interpretato come colui che avrebbe compiutamente formalizzato un passaggio cruciale nella storia della metafisica, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo150, poiché l’uomo diventa subiectum151, il fondamento e la misura di ogni certezza e verità. In Il nichilismo europeo si asserisce che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”152: tale metodo è il cogito e le sue strutture. Infine la forzatura grassiana della contrapposizione Cartesio/Vico è finalizzata a delineare una nuova via d’accesso alla filosofia le cui radici storico-culturali egli rintraccia nell’Umanesimo di matrice latina e mediterranea in senso lato. Ritornando a Cartesio e agli aspetti meno teoreticisti del suo pensiero, tralasciati da Grassi, possiamo prendere come riferimento il significato della nota metafora della casa153 del Discorso che  “Devo richiamare alla mente la situazione filosofica della filosofia italiana negli anni ’20, periodo in cui compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia hegeliana predominava in Italia grazie a Croce e Gentile ed era stata introdotta fin dalla fine del XIX secolo da Bertrando Spaventa”, E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 31. 150 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, p. 158. 151 Ivi, p. 168. 152 Ivi, p. 169. 153 “Prima di cominciare a ricostruire la casa da abitare, non basta demolirla e provvedersi di materiali e architetti, o impegnarsi personalmente nell’architettura, e averne tracciato inoltre un accurato progetto; bisogna essersi procurati un altro alloggio dove si possa dove si possa stare comodi nel corso dei lavori; allo stesso modo, per non restare indeciso ! 58!   vuole comunicarci la necessità di prendere delle posizioni in ambito morale: ciò che assolutamente era precluso in sede di conoscenza, ossia il fare affidamento ai pregiudizi e a ciò che sembra ragionevole e sensato, seppure privo di certezza assoluta, è consentito in ambito morale: “tuttavia si deve notare che io non intendo che noi ci serviamo d’una maniera di dubitare così generale, se non quando cominciamo ad applicarci alla contemplazione della verità. Poiché è certo che, in quel che riguarda la condotta della nostra vita, noi siamo obbligati a seguire bene spesso delle opinioni che non sono che verosimili [...] la ragione vuole che ne scegliamo una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo costantemente, come se l’avessimo giudicata certissima”154. Il concetto cartesiano di sagesse humaine è bivalente: ha una valenza teoretica e pratica, e la nozione di bona mens, cui fanno capo tutte le scienze, è quel sapere del vero e del falso grazie al quale l’uomo riesce ad orientarsi nella vita. Inoltre già nel cogito abbiamo una co-determinazione da parte del volere, fattore costituente dell’atto di giudizio: “con la parola pensiero, io intendo tutto quel che accade in noi [...] non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare”155. Del resto lo stesso Grassi riconosce la portata più ampia del cogito cartesiano nel contesto dell’analisi del metodo portata avanti nel saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore milanese afferma che “la metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con “cogitare”. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento”156. Se l’atto del cogito non è solo un atto logico, ma anche di sensazione, immaginazione, volontà, per Grassi si profila il problema del rapporto e della distinzione che passa tra queste forme nel processo di manifestazione dell’essere157. Ancora più discordante rispetto all’interpretazione di Cartesio esposta negli scritti maturi è l’affermazione presente in L’inizio del pensiero moderno. Della passione  nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria, riconducibile a tre o quattro massime sole”, Cartesio, Discorso, cit., pp. 305-306. 154 Id., I principi della filosofia] G., Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 289. 157 Ivi.  ! 59!  e dell’esperienza dell’originario in cui il cogito – a cui precedentemente già era stato riconosciuto quel carattere elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà a connotare il concetto di principio del filosofare noetico-non metafisico – è concepito nella sua intima connessione con il dubbio come espressione dell’urgenza e dell’impellenza dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito inteso come mentis inspectio non “significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa di oggettuale; piuttosto il vedere dell’inspectio coincide con questo soggiacere al dubbio e seguirlo fino al punto in cui si rivela l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende possibile [...] di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra come il vero fondamento del sapere”159. La posta in gioco che emerge è quella del riconoscimento della priorità della manifestatività dell’essere quale fulcro tematico della filosofia. Il reale come punto di partenza della riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle vie di accesso, che per G. – questa volta non in opposizione ma in linea con Cartesio – ci pone di fronte ad una molteplicità di forme che sono in un rapporto di intima co-appartenenza. Nelle riflessioni appena ricordate traspare un’immagine di Cartesio più articolata rispetto alla semplicistica riduzione caratterizzante gli scritti tardi che si condensa nella opposizione Vico /Cartesio (pensiero topico e pensiero critico) e che sorregge anche l’idea grassiana della presenza di un cartesianesimo razionalistico nella prospettiva hegeliana. Hegel160 avrebbe riproposto una visione dell’umanesimo sostanzialmente negativa e l’opera che Grassi prende in considerazione è Lezioni di storia della filosofia in cui l’Umanesimo appare come una filosofia volgarizzatrice e non speculativa, che non realizza in modo adeguato l’idea ma si ferma all’ambito della fantasia e dell’arte, e le cui radici ciceroniane, sono fortemente criticate. Secondo il pensatore milanese “Hegel accusa la filosofia degli autori latini, ai quali fa riferimento l’Umanesimo, di essere  Ivi, pp. 286-287. 159 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I Primi scritti, cit., pp. 817-818. 160 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale] volgarizzatrice (eine Populärphilosophie) o non speculativa. Egli rifiuta la tesi che lo sviluppo del diritto romano abbia un valore filosofico”161. Nell’ambito della definizione del concetto di filosofia e delle due sfere affini ad essa, la scienza e la religione, Hegel fa riferimento alla filosofia popolare: “sembra che vi sia un terzo momento che congiunge i due suddetti – momento soggettivo e formale della scienza e momento oggettivo in forma figurata o storica della religione –: cioè la filosofia popolare. Essa si occupa di argomenti universali, filosofeggia su Dio e sul mondo però anche questa filosofia dobbiamo lasciarla da parte. Ad essa si devono ascrivere gli scritti di CICERONE. Lo stesso CICERONE, al quale Montesquieu avrebbe voluto assomigliare, definito come l’esponente dell’umanesimo universalista è al centro anche delle riflessioni di Mommsen – come ricorda G. nel catalogo delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo – che lo valuta come “l’impiastricciafogli dallo stile giornalistico”. Altra vittima degli strali di G. è il romanista Curtius, annoverato tra coloro che riducono il caso della filosofia umanistica a mero esempio d’esercitazione stilistica. Nell’elenco compaiono anche Cassirer, Apel, Kristeller e Jaeger. Dell’interpretazione di Cassirer per Grassi è inaccettabile o perlomeno fuorviante il punto di partenza: ricondurre la filosofia sotto l’egida del problema della conoscenza non consente di rintracciare nell’età dell’umanesimo alcuna innovazione [Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, introduzione di Pareyson e Plebe, Laterza, Roma- Bari; Montesquieu, Discorso su Cicerone, in P. Ciaravolo, La personalità filosofica di CICERONE, Aracne, Roma. Il primo, presso I ROMANI, che ha tolto la filosofia dalle mani dei dotti e la liberata dall’intralcio di una lingua straniera. Egli l’ha resa COMUNE a tutti gl’uomini, come la ragione, e nel plauso che ne ha ricevuto i letterati si sono trovati d’accordo con LA GENTE COMUNE [cf. Grice, “The lay and the learned”]. Io non sono in grado di ammirare abbastanza la profondità dei suoi ragionamenti in un tempo in cui i saggi non si distinguevano che per bizzarria dei loro vestiti. Vorrei soltanto che fosse venuto in un secolo più illuminato e che avesse aiutato a scoprire la verità. Uso l’espressione di Battaglia contenuta in Le virtù moderne di CICERONE. Appunti sulle Tusculanae disputationes, in P. Ciaravolo; Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale; Mommsen, Storia antica di Roma antica, Sansoni, Firenze; Grassi, La filosofia dell’umanesimo] significativa. I testi citati polemicamente da G. sono Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento e Storia della filosofia moderna. Curtius, di formazione neo-kantiana, si occupa intensamente dei problemi matematici e fisici della modernità, e la predilezione per alcuni autori, quali GALILEI, Keplero, Newton, Cartesio, Spinoza e Leibniz, ci fa comprendere quanto potesse valere nel tragitto filosofico tracciato da Cassirer il ruolo affidato all’umanesimo. Secondo G., per Cassirer laddove nell’Umanesimo filologia e filosofia si congiungono, non si giunge nella filosofia a nessuna vera innovazione nel metodo. Se prendiamo in considerazione il testo Dall’Umanesimo all’Illuminismo, che raccoglie i contributi cassireriani sulla storia del pensiero occidentale dall’Umanesimo all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a pagine di considerazione scarsa circa lo spessore filosofico dell’Umanesimo. Nel saggio La posizione del FICINO nella storia della filosofia – recensione al libro di Kristeller La filosofia di Ficino – Cassirer afferma che, alle sue origini e per il suo scopo principale, l’umanesimo non può dirsi un movimento filosofico. Tra gl’umanisti più noti non troviamo grandi filosofi veramente indipendenti. Il loro interesse e l’erudizione e la letteratura, non la filosofia. L’unica importanza dell’Umanesimo e del Rinascimento e la mutazione della dinamica delle idee e lo slittamento dal particolare all’universale. In questa fase la riflessione sui principi della conoscenza non ha trovato ancora un motivo cosciente e la filosofia sembra avere una efficacia limitata. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze. G., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale; Cassirer, Il FICINO nella storia del pensiero, in Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di Kristeller, Federici, La Nuova Italia, Firenze; L’originalità del Rinascimento, in Dall’Umanesimo all’Illuminismo; Storia della filosofia moderna; Dall’umanesimo alla scuola cartesiana; La rinascita del problema della conoscenza, Arnaud, Einaudi, Torino. Sembra trovare una parziale giustificazione allora la critica grassiana rivolta al pensatore tedesco: Cassirer preoccupato di rintracciare nella tradizione umanistica ciò che per lui costituisce l’essenza della filosofia – ovvero il problema della conoscenza – dovette ammettere di rilevarne solo poche tracce nell’Umanesimo. Ma si tratta di una critica solo in parte condivisibile poiché G. e Cassirer non sembrano tanto lontani nella comune attenzione rivolta verso il mondo del SIMBOLICO. Nonostante questo punto di contatto G. pone una netta differenza tra la sua teoria di una logica della fantasia e quella cassireriana della FORMA SIMBOLICA. Afferma G/ che e un errore e un fraintendimento molto grave interpretare VICO come se la logica della fantasia e limitata a una pura logica di la FORMA SIMBOLICA nella maniera che Cassirer usa quest’espressione. In particolare all’interno dell’opera Filosofia delle forme simboliche, Cassirer analizza la funzione del mito, inteso come originaria forma di vita, essenziale per la scoperta e la comprensione del mondo storico. Le produzioni mitiche prendono evidentemente origine dall’immaginazione, anche se il filosofo non si sofferma sulla relazione specifica tra mito e immaginazione, bensì insiste sulla relazione tra mito e immagine. Quest’ultima ha una funzione più importante del mero SEGNO in quanto, secondo il filosofo, l’immagine contenne l’essenza stessa delle cose. L’immagine, espressione di un fenomeno, non ha un semplice carattere di rappresentazione, che indica qualcosa di oggettivo al di là di essa, ma in essa si dà per noi qualcosa di reale, in essa qualcosa di demonicamente vivente viene colto e posto dinanzi a noi in piena presenza. Dal passo sopra citato emerge la ricerca di una struttura originaria che permetta la ri-elaborazione dei processi storici dell’uomo dei tempi antichi, a partire dalle sue creazioni mitico-simboliche. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di VICO oggi, in Vico e l’umanesimo; Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Arnaud, La nuova Italia, Firenze. Queste strutture non hanno una funzione solamente COMUNICATIVA ma agiscono da mezzo col quale si determina la compiutezza dei loro contenuti. A partire da questa premessa dobbiamo considerare il mito, la religione, IL LINGUAGGIO, non come forme di dominio sul mondo, bensì come forme essenziali per la scoperta del mondo storico dell’uomo. La formazione simbolica costituisce così il medium tra l’elemento trascendentale e il mondo storico-reale. La funzione di sintesi, affidata alla formazione simbolica, diviene fondamentale strumento di concezione della storia che vuole liberarsi da una visione assolutistica e assoluta o da qualsiasi riduzionismo empirico- descrittivo. Dice Cassirer in Saggio sull’uomo che, per semplice che esso possa sembrare, ogni fatto storico può venire determinato solamente in base ad una preliminare ANALISI DI SIMBOLI. La prima e più immediata materia della conoscenza storica non è costituita da cose e da avvenimenti, bensì da documenti e monumenti. Soltanto grazie alla mediazione e con l’introduzione di questi DATI SIMBOLICI si può avere una idea della realtà storica, degli avvenimenti e degli uomini del passato. Riprendendo la teoria vichiana del mondo storico come creazione dell’uomo, aggiunge: “in nessun altro campo, la mente dell’uomo è più vicina a se stessa che nella storia. Non il mondo fisico, ma il mondo storico è creato dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà. Il campo di studio elettivo dell’uomo non è dunque il mondo matematico né quello fisico, ma il mondo storico, la società civile. Quel che VICO chiede è una filosofia della civiltà: una filosofia la quale sveli e spieghi le leggi fondamentali che governano il corso generale della storia e lo sviluppo della cultura umana”180. Se non sapessimo che è Cassirer l’autore potremmo pensare che questo passo esce direttamente dalla penna del Grassi autore di VICO e l’umanesimo. Per entrambi i filosofi i linguaggi del mito e della fantasia permettono agli studiosi moderni di comprendere la coscienza storica dell’umanità. Il mito è una forma comunicativa, espressiva e esplicativa di eventi e fenomeni e va ben oltre una Id., Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umna, a cura di Carlo d’Altavilla, Armando, Roma; Desartes, Leibniz e VICO, in Id., Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene, Ferrara, Laterza, Roma- Bari] rappresentazione illusoria che nasconde il vero stato delle cose. Cassirer lettore di VICO mostra non pochi punti di contatto con G. che del filosofo napoletano sottolinea proprio la priorità di quegli ambiti mitici, poetici, simbolici, fantastici su cui il filosofo delle forme simboliche a lungo si è soffermato. Se G. esplicitamente menziona la presenza di una logica della fantasia in Vico – in cui il concetto fantastico e immaginativo cristallizza un essere attraverso l’atto dell’ingegno, con una visione diretta di una totalità pittorica –, Cassirer si riferisce a VICO indicandolo come il creatore di una logica dell’immaginazione. L’umanità, secondo lui, non poteva cominciare con il pensiero astratto e il linguaggio razionale. Dovette passare per lo stato del LINGUAGGIO SIMBOLICO, del mito e della poesia. I primi popoli non avrebbero pensato in concetti ma in immagini poetiche; in realtà il mondo in cui vive sia il poeta che il foggiatore di miti sembra essere lo stesso. L’uno e l’altro sono dotati dello stesso potere fondamentale, del potere di personificare. Non possono contemplare nessun oggetto senza dargli una vita interiore e una forma personalizzata – “Those spots mean measles, dark clouds mean rain, smoke means fire]. La breve sosta sulla filosofia cassireriana ci ha consentito di istituire un interessante confronto G.Cassirer che ha come scopo quello di mettere in luce un comune terreno di ricerca filosofica sugli ambiti del simbolico, del mitico, del poetico e del fantastico. Altri due autori inseriti dal filosofo milanese nell’elenco delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo sono Apel e Jaeger, entrambi colpevoli di aver misconosciuto l’essenza autentica dell’Umanesimo183. Per il pensatore italiano Apel sostiene la tesi che gli umanisti nella loro disamina della logica scolastica usano un armamentario filosofico poverissimo sostituendo agli argomenti razionali asserzioni patetiche”184. Infatti Apel afferma che “da questa programmatica polemica d’un nuovo Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 54. 182 Saggio sull’uomo, G. La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 35; Id., Il problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 209; Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, in Id., Primi scritti, cit., 255- 271; Id., Paideia ed umanesimo, in Id., Primi scritti, cit., 357-369. La filosofia dell’umanesimo] metodo gnoseologico, così come essa è caratteristica dell’epoca umanistica di passaggio fra scolastica e scienza moderna, non si potrà trarre una profonda intelligenza della logica formale (una sensibilità per il formalismo dell’astrazione logica, e quindi per le autentiche acquisizioni della logica da Aristotele in poi, fece difetto a tutti gli umanisti)”185. Dal suo canto Jaeger riconduce lo spessore dell’approccio umanista a mera prosecuzione degli ideali greco-romani186: secondo Jaeger le origini dell’umanesimo non sono rintracciabili nel pensiero degli umanisti italiani del Quattrocento. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo che “Jaeger dichiara che l’Umanesimo è solo la manifestazione di un particolare ideale culturale che ha per meta la formazione dell’uomo, Jaeger, infatti, asserisce in Paideia che “sin dalle prime tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo al centro del loro pensiero. Gli dei antropomorfi, il predominio assoluto del problema della figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il procedere conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel quale culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema inesauribile, da Omero in poi e per tutti i secoli seguenti, è l’uomo in tutta la estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza: tutti questi sono raggi di un medesimo lume”. E aggiunge che si tratta di “manifestazioni di un sentimento umanistico della vita, che non trova ulteriori derivazioni o spiegazioni, e che compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza [...]. Siamo ora in grado di enunciare più precisamente che cosa costituisca l’originalità dei Greci. La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquisita coscienza della legge universale della natura umana. Il principio spirituale dei Greci non è l’individualismo, bensì l’umanesimo” Apel, L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo d’ALIGHIERI a VICO, il Mulino, Bologna; Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Emery e Setti, Bompiani, Milano. La concezione di Jaeger la paideia ha un ruolo prepolitico, intendendo l’attività educativa come punto di incontro tra antichità e presente. Secondo l’esponente del cosiddetto terzo umanesimo. Per l’età moderna, il concetto di umanesimo è legato alla relazione consapevole della nostra cultura con l’antichità. Ma questa non si fonda, a sua volta, se non sul fatto che la nostra idea della cultura universale dell’uomo ha colà, appunto, la sua origine storica. L’umanesimo, in questo senso, è sostanzialmente una creazione dei Greci. La paideia greca ha in effetti caratterizzato, per Jaeger, sia il Cristianesimo che il Rinascimento, in quanto il fine della stessa era la formazione di una umanità superiore. 187 G., La filosofia dell’umanesimo. Infine, nel catalogo grassiano degli pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller che secondo il pensatore italiano non avrebbe avuto attenzione per quell’umanesimo non platonico che al contrario egli cerca in gran parte della sua produzione di mettere in luce. Afferma Kristeller in Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento che “gli umanisti non erano filosofi di professione, e i loro scritti su diversi argomenti mancano della precisione terminologica e della consistenza logica che abbiamo il diritto di aspettarci da filosofi di professione in altre parole, anche se potessimo ricostruire una filosofia coerente per un determinato umanista, non possiamo trovare una filosofia comune a tutti gli umanisti, e quindi non è possibile definire il loro contributo in termini di dottrine specificatamente filosofiche”189. Secondo G. Kristeller “al quale dobbiamo uno studio su Ficino e molte ricerche erudite sull’Umanesimo [...] valorizza il pensiero umanistico soprattutto nel ripensamento della tradizione platonica e neoplatonica”190. II. III. Il maestro degli anni mitici di Friburgo Il confronto grassiano con l’umanesimo non poteva non relazionarsi alla filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si era espresso molte volte. Il testo La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale è significativamente dedicato alla memoria di Heidegger eletto da G. a suo maestro. Eppure Heidegger, come ricorda G. stesso, “ha negato radicalmente qualsiasi valore alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale tradizione l’ideale romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato grazie al concetto di paideia [...] afferma che la concezione umanistica non coglie l’essenza dell’uomo. Kristeller, Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento, Gargano, Bibliopolis, Napoli. Afferma Kristeller: che, diversamente dalle arti liberali del primo Medioevo, gli Studia humanitatis NON INCLUDENO la logica o il Quadrivium -- aritmetica, geometria, astronomia e musica --, e diversamente dalle Belle Arti del Settecento gli Studia humanitatis non comprendevano le arti figurative o la musica, la danza o l’arte dei giardini. Non comprendevano neppure le materie principali che si insegnavano alle università del tempo, cioè la teologia, la giurisprudenza o la medicina, o le materie filosofiche all’infuori dell’etica, cioè la logica, la filosofia naturale o la metafisica. In altre parole, diversamente da ciò che si è pensato molte volte, l’umanesimo non costituisce il sapere e pensare intero o completo del Rinascimento, ma soltanto un suo settore parziale, ben limitato, per quanto importante. L’umanesimo ha il suo centro e la sua base negli Studia humanitatis. Le altre materie del sapere, compresa la filosofia, con l’eccezione della filosofia morale, hanno un loro sviluppo separato, che e in parte determinato dalla tradizione medievale, ma che fu poi lentamente trasformato da osservazioni, problemi e teorie nuove, trasformazione in cui anche l’umanesimo ha la sua parte, ma agendo piú che altro dall’esterno e indirettamente”, Id., L’umanesimo italiano del Rinascimento e il suo significato,Gargano, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, G., La filosofia dell’umanesimo. Dedicare un testo sull’umanesimo ad un anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita poiché effettivamente Heidegger appare molto duro nei confronti di una tradizione culturale che avrebbe meritato, se non un giudizio differente, perlomeno una più attenta riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale. Il lavoro è dedicato alla memoria di Heidegger che è stato il mio maestro: anche il mio saggio sotto la sua direzione e pubblicato  (Il problema della metafisica platonica) e dedicato proprio a lui. Il magistero filosofico di Heidegger e la sua negazione dell’importanza speculativa dell’umanesimo sollecitano in G. tematiche speculative che renderanno possibile la problematica sviluppata in “Macht der Phantasie (1979), in Macht des Bildes (1970), e nel volume Rhetoric as Philosophy, ma anzitutto in Heidegger and the Question of Renaissance Humanismus (1983)”193. In Lettera sull’Umanismo Heidegger tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo pensiero, che si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica. Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende qualcosa di metafisico e di esistenziale. “L’umanismo pensa metafisicamente [...] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a principalement l’Etre”194. La tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come è noto, è espressa dal filosofo francese in L’esistenzialismo è un umanismo195, ed è inserita nel contesto della metafisica dell’umanismo che ! Ivi, p. 17. 193 Ivi, p. 29. 194 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 61. 195J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1996, p. 40.  ! 68!  “non pone l’humanitas dell’uomo ad un livello abbastanza elevato. Una metafisica di questo tipo, che eleva l’uomo a soggetto despota dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo Heidegger, a comprendere il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il soggiorno dell’uomo197, la radura- Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando all’auto-interpretazione heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né inumano. Non è umanistico perché la questione fondamentale del suo pensiero è l’essere, la Lichtung, l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad accidente periferico dell’essere? Umano e inumano sono concetti inadeguati per un pensiero che vuole andare oltre l’alternativa tra scienza e filosofia. Queste ultime sono per Heidegger sostanzialmente la stessa cosa. Dopo l’incontro di Grassi con Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta nera si profila quella tormentata e difficile rottura con il maestro destinata a non ricomporsi. La connessione istituita da Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo tedesco tralascia l’umanesimo in quanto interpolazione romana- latina tra l’uomo greco e l’uomo tedesco, erede del greco; valutando negativamente anche il Rinascimento come renascentia romanitatis. Le radici di questa profonda avversione sono rintracciabili nel contesto più generale della critica alla metafisica che Heidegger conduce: “ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere [...] nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione”198. Ogni umanismo in quanto tale è un’antropologia ontica che muove da un ente senza tenere conto del riferimento all’essere – il grande impensato della tradizione metafisica occidentale, rea di un doppio occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι); oblio della ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo dell’ente). Pensare all’umanesimo antropocentrico e non attento  M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 56. 197 Ivi, p. 90. 198 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 43.  ! 69!  al nesso essere-uomo significa pensare innanzitutto a quell’uomo oggetto dell’orazione pichiana che accende un dibattito filosofico, promosso proprio da PICO (si veda), e che è dominata dalla centralità dell’uomo all’interno della realtà, peculiarità riconducibile all’essenza particolare del suo status ontologico. A differenza degli altri enti l’uomo è quell’ente che non ha una essenza specifica, una natura propria e definita, chiusa e circoscritta: “l’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà”200. Il problema posto da Heidegger circa lo statuto dell’umanesimo/umanismo non poteva lasciare indifferente G. che ritiene inaccettabili quelle affermazioni e che trova in Heidegger se non proprio un momento di svolta201, uno spunto teorico importante per il tentativo di risemantizzazione del concetto di umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “storicamente dobbiamo osservare che la definizione che Heidegger dà del pensiero occidentale (una metafisica razionale deduttiva che sorge e si sviluppa esclusivamente dal rapporto tra gli enti e il pensiero, cioè nel quadro della verità logica) non regge. Nella tradizione umanistica c’è sempre stata una preoccupazione cruciale circa il problema del disvelamento, dell’apertura, dove il Da-sein storico può fare la sua apparizione. Per questa ragione noi dobbiamo rivedere e rivalutare le categorie storiche che ancora guidano il nostro pensare”202. Occorre precisare, secondo Grassi, che accanto all’umanesimo ci sono gli pseudo umanesimi: la prospettiva onto-antropo-logica grassiana ha come scopo teorico proprio la chiarificazione del Cfr., GARIN, L’UMANESIMO ITALIANO, Garin, L’umanesimo italiano] Parla di svolta riguardo all’incidenza di Lettera sull’umanismo di Heidegger nel pensiero di G. D. Di Cesare in Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 25: “la Lettera rappresenta pure, di riflesso, una svolta per Grassi, non solo nel confronto con Heidegger, ma anche nel proprio itinerario. La sua attesa è rimasta delusa: non vi è traccia, nella Lettera, di un ripensamento critico, o meglio autocritico, sul valore filosofico della tradizione latina e italiana, di quel che Grassi chiama Umanesimo [...] per Grassi si produce allora una difficile e tormentata rottura con Heidegger. Destinata a non ricomporsi, questa rottura costituirà però il vero e proprio avvio non solo e non tanto della sua originale interpretazione dell’Umanesimo, quanto di un’autonoma riflessione filosofica che ha al suo centro la metafora”. Dal nostro punto di vista, l’incontro a Todtnauberg tra Grassi eHeidegger, sebbene significativo, non costituisce una svolta. La prospettiva della studiosa non tiene conto delle affermazioni sull’umanesimo espresse da Grassi nella produzione giovanile. Infatti, la questione dell’umanesimo si pone già a partire dal saggio su Machiavelli del 1924, come abbiamo cercato di chiarire nel primo capitolo e nel ventennio che intercorre tra il 1924 e il 1946 Grassi ha già maturato le coordinate fondamentali del suo itinerario speculativo, in cui certamente Heidegger riveste un ruolo centrale ma tuttavia non esclusivo. 202 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 38. ! 70!   significato filosofico dell’umanesimo. Non l’umanesimo storico, né quello politico sono al centro della sua riflessione, ma unicamente lo statuto speculativo di esso. In Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne lo studioso afferma: “sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico [...] che significato può dunque oggi avere un umanesimo?”203. Cercare di dare una risposta a questa domanda spinge Grassi a misurarsi con le questioni della tecnica, del metodo e dell’oggettività. Si tratta di accenni polemici che egli non discuterà a fondo e dettagliatamente ma che ci consentono di comprendere quanto fosse viva in lui la consapevolezza del declino di una visione globale dell’uomo e dell’emergere del disancoramento dalla realtà che le scienze naturali cercano di ridurre ma che al contrario contribuiscono ad espandere a dismisura: “qui nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo”204. L’approccio scientifico è per Grassi responsabile di quella trasmutazione del mondo vero in favola, di una de-realizzazione del reale, in seguito alla quale la realtà, la dimensione dell’oggettivo svaniscono, divenendo un’astratta costruzione: “la realtà che invece mediano le scienze naturali è un’astratta costruzione in quanto il risultato di un interrogare la realtà fenomenica in funzione a principi presupposti”205. Accanto a questa ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è la ricerca filosofica che dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in cui motivi etici, politici ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente in quel contesto originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale che l’analisi sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del discorso grassiano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo insieme una serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in cui il coacervo delle interpretazioni analizzate da Grassi ci aveva condotti: esaminate Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in AA. VV, Umanesimo e scienza politica. Atti del convegno internazionale di studi umanistici, a cura di E. Castelli, Roma- Firenze 1949, p. 202. 204 Ibidem. 205 Ibidem.  ! 71!  tutte le posizioni critiche rispetto alla tradizione storica dell’umanesimo italiano ci è consentito ora di individuare il nucleo attorno al quale la ricostruzione del suo senso autentico diviene possibile. Il percorso onto-antropo-logico di Grassi staziona a lungo presso il concetto di Lichtung, e non si tratta di un semplice omaggio al maestro dei “mitici anni friburghesi”. La co-appartenenza di umanesimo e Lichtung è fondativa della prospettiva onto-antropo-logica e costituisce, secondo il nostro punto di vista, il plesso teorico cardine su cui si innestano le riflessioni che successivamente avremo modo di analizzare: quella sull’ingegno e la fantasia; quella sulla metafora e la retorica. Prima di sciogliere i nodi del pensiero grassiano della Lichtung ripercorriamo brevemente la storia heideggeriana di questo concetto, ciò ci consentirà di mettere a fuoco lo sfondo su cui si staglia la particolare declinazione che della Lichtung offre G.. II. V La Lichtung in Heidegger Come ha sottolineato Amoroso quello della Lichtung heideggeriana è un esempio di etimologia per antifrasi come il latino lucus a non lucendo, dove il lucus, il boschetto sacro, viene fatto derivare per antifrasi da lucere, perché esso ha poca luce. La Lichtung ha tre rimandi principali: al luminoso (Licht e lux), all’oscuro (lucus), e al leggero (Leicht). Con il termine Lichtung non ci riferiamo ad una espressione metaforica per indicare ciò che si sottrae all’espressione razionale: siamo di fronte ad un fenomeno di base di cui fanno parte i domini spaziali e temporali dell’uomo e la sua capacità di creare corrispondenze ontologiche. Nel pensiero di Heidegger la concettualizzazione filosofica della Lichtung si dipana nell’arco di più di 35 anni di speculazione filosofica: dal ’27, anno di pubblicazione di Essere e Tempo al ’62, anno di  Resta ancora aperta tra i critici la questione di una possibile traduzione efficace del termine che conservi il senso filosofico originario senza andarne a ledere le relazioni morfologiche e foniche. Sono note le riserve etimologiche addotte da Cicero circa la traduzione di Lichtung con radura, che non renderebbe né l’affinità fonica e verbale con lux e Licht, né quella speculativa di orizzonte inapparente di ogni apparenza ontica. Altri modi di traduzione italiana come è noto sono quelli di Chiodi che traduce con illuminazione; di Caracciolo che rende con radura-luminosa; la traduzione di Vattimo è apertura-slargo; quella di Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso traduce con luco; Marini con chiarita; Cicero usa il verbo lucare. Cfr., per una ricostruzione dei molteplici significati del termine Lichtung il fondamentale studio di L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg e Sellier, Torino 1993. Per una ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero, Parole fondamentali di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, in M. Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di Cicero, Bompiani, Milano 2010. Mi permetto di rinviare al mio Saggio sulla Lichtungsgeschichte in M. Heidegger, pp. 33-67, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche”, Giannini, Napoli] pubblicazione di Tempo ed Essere, e oltre. Le sue molteplici “apparizioni testuali” hanno sensi e significati di volta in volta diversi, ma sempre interconnessi e riferiti alla problematica della ostensione della correlazione e coestensione di Da-Sein, Sein, e aletheia. Tale correlazione se nella prima fase di pensiero del filosofo è pensata più a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale, nella fase tarda, invece, è tematizzata a partire dal legame stesso, da quel plan di cui si asserisce l’identità con l’essere, come possiamo leggere a partire da Lettera sull’umanismo207. La Lichtung heideggeriana ha una articolazione pentavalente: (i) Da- sein, (ii) arte, (iii) mondo-spazio, (iv) verità e (v) nulla sono i poli con i quali la Lichtung si converte di volta in volta. (i) Nell’opera del ‘27 la Lichtung appare come Da-sein nel senso di Erschlossenheit208 con evidente correlazione all’immagine classica del lumen naturale, dunque alla luce. La caratteristica della non-chiusura o dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note distintive: la spazialità propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana – benchè si tratti di un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta mai al modo dell’ente semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura dell’essere. Inoltre, l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché ha una connotazione duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla Entdecktheit, che contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice presenza ha come nota caratteristica quella di essere uno svelato che non può aprire un mondo di significati ma che si trova già sempre immerso in una totalità di appagatività. L’esserci, invece, ha una capacità di apertura che lo rende quell’essere che può scoprire, mentre la semplice-presenza è l’ente che può essere scoperto. Si tratta di comprendere il denso senso del Da-sein, che esprime sia il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale dell’uomo con l’apertura (il ci) dell’essere come tale.  “Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il ya principalment l’Etre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’Etre e le plan sono lo stesso”, M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 61-62. 208 L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: “qui e là sono possibili solo in un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto la spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non chiusura. L’espressione “Ci” significa appunto questa apertura essenziale. Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) “Ci” è per se stesso in una con l’esser-ci del mondo [...] che esso sia illuminato significa che è in se stesso aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro ente, ma in modo che esso stesso è la radura”, M. Heidegger, Essere e Tempo, tr. it., a cura di, Longanesi, Milano, p. 165.  ! 73!  (ii) La relazione tra Lichtung e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il termine radura è declinato come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità stessa dei fenomeni. In quanto apertura essa è quell’accadere non solo del diradarsi ma anche del trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si evince dalle pagine sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in L’arte e lo spazio. L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la messa in opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: “l’opera d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera accade questo far insorgere, ossia: la verità [...] l’arte è il mettersi in opera della verità”210. Ciò che insorge è la dimensione ontologica della Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di Lichtung come mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto della coniugazione della problematica trascendentale e della dottrina del mondo. L’io trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale sovrapposizione tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e di dare risalto ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso, come originaria dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di manifestarsi va rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del soggetto. Afferma il filosofo tedesco che “in Essere e Tempo la “cosa” non ha più il suo luogo nella coscienza, ma nel mondo”211, e ciò perché il mondo è la condizione di possibilità dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci all’ente212, costituendo l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica esistenziale che la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento dell’in-essere, insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello spazio  Il termine Offenheit è impiegato soprattutto in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere aperto e al contempo aprente contraddistingue la Welt come welten, come farsi-mondo. Il mondo, infatti, come l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung: istituzione, donazione e fondazione le quali aprono alla dimensione dell’apparire dell’ente, facendo sì che l’ente “insorga” in quanto essente, assurgendo a dimensione della donazione di senso. 210 Id., L’origine dell’opera d’arte, p. 51. 211 Id., Seminari, tr. it. Di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1992, p. 158. 212 Cfr., V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Urbino, Argalia, 1976.  ! 74!  omogeneo naturale213. Inoltre, risulta impraticabile la deduzione dello spazio dal tempo, poiché spazio e tempo sono fenomeni originari, anzi, cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di cui si parla in Tempo e Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi dell’essere, al suo destinarsi storicamente, al suo essenziarsi aletico. Il concetto di spazio come lasciare e concedere spazio, mondo e soggiorno è strettamente connesso al concetto di Lichtung che dirada il luogo di ogni manifestatività e presenza, ma anche il luogo di ogni assenza e oscurità, l’aperto per tutto ciò che è presente o assente. (iv) Il legame di Lichtung e verità si pone con forza in un suggestivo paragrafo di Essere e Tempo, che reca il significativo titolo di Esserci, apertura e verità214. Qui Heidegger afferma che un’asserzione è vera innanzitutto perché è apofantica, ossia è manifestazione dell’ente215. Nell’ambito dell’analitica esistenziale la verità è connessa ad un concetto di Lichtung da intendere, sia, come Offenstandigkeit (come uno stare aperto da parte dell’uomo), sia, come Offenbarkeit (esser- manifesto da parte dell’ente). La grande sfida che si apre alla riflessione del filosofo tedesco è quella di portare al linguaggio quello sfondo sul quale si staglia la stessa manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo nascosto e oscuro su cui si pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale possiamo comprendere il discorso sulla non-essenza della verità. Preminente secondo Heidegger nella dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del presentarsi della cosa, e non il Wassein, il contenuto essenziale. E proprio tale separazione tra il contenuto dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha generato per il filosofo tedesco quel “riferimento al vedere, all’apprensione, al pensare e  Ma soprattutto dall’analitica sappiamo che la spazialità è possibile solo sul fondamento della temporalità. Nel noto § 70 di Essere e Tempo lo spazio sembra emergere in netta subordinazione al tempo, alla temporalità estatico-orizzontale, che sola rende possibile l’entrata dell’esserci nello spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger ad avvertire l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione espressa in Essere e Tempo: “il tentativo di ricondurre la spazialità dell’esserci alla temporalità compiuto nel § 70 di Essere e Tempo non è più sostenibile”, M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 30. Anche nelle dieci conferenze tenute a Kassel del 1925 Heidegger afferma nel contesto della disamina di “ciò che è vivo e ciò che è morto” del pensiero diltheyano che «lo spazio del mondo ambiente non è quello della della geometria. Esso è essenzialmente determinato dai momenti usuali della vicinanza e della lontananza [...] non ha dunque la struttura omogenea dello spazio geometrico», Id., Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo, cit., pp. 34-35. 214 Il riferimento è al § 44 di Essere e Tempo. 215 Ivi, pp. 264-265.  ! 75!  all’asserire”216 della verità che è caduta sotto il giogo dell’idea, con il conseguente mutamento della verità in orthotes. (v) L’altro concetto fondamentale intrinsecamente connesso a quello di Lichtung è quello di nulla, di cui Heidegger parla soprattutto in Che cos’è metafisica?. Qui il nihil è contraddistinto da una peculiare relatività e rivelatività. Lichtung e Nichtung divengono sinonimi perché la peculiare funzione di diradamento della prima, e il ruolo di annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua luminosità, consentendo ad esso di apparire. Lichtung e Nichtung costituiscono quella “notte chiara” in cui l’ente appare e il mondo diviene mondo. Nondimeno, radura e nulla non vengono alla luce alla stregua dell’ente, ma si annunciano in quella differenza nei confronti dell’ente che appare217. In conclusione di questa incursione nella teoria della Lichtung heideggeriana possiamo dare per acquisito che essa si pone come l’inapparente fonte di ogni apparenza ontica. Si tratta del mero “che c’è”, del fatto, dell’evento. Ma un pensiero così originario, che nel suo regressus verso l’inizio retrocede verso un indisponibile e pre-teoretico darsi può ancora edificare? Su quali fondamenta e a quale scopo? Quale telos l’“uomo della radura” può porsi e come può orientarsi?  Id., La dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, a cura di F. W. Von Hermann e F. Volpi, Milano, Adelphi, p. 192 217 Se in Essere e Tempo il discorso si dipana su un piano che è più strettamente analitico-esistenziale, nella prolusione Che cos’è metafisica (1929) la questione si pone sul terreno ontologico. Qui il discorso sull’angoscia si inserisce nella cornice tematica del rapporto tra essere e nulla. In questo caso ad attirare l’attenzione non è tanto l’Unheimlichkeit – l’esperienza dello spaesamento – propria dell’angoscia, quanto l’esperienza di Seinsoffenheit – di apertura dell’essere – della stessa: «solo nella notte chiara del niente dell’angoscia sorge quell’originaria apertura dell’ente come tale [...] il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano”, M. Heidegger, Che cos’è metafisica, in Id., Segnavia, cit., pp. 70-71.  ! 76!  II. VI. Lichtung, umanesimo, metafisica: la proposta grassiana Queste sono le sfide che il pensiero heideggeriano pone e che G. rimedita in modo originale coniugando Lichtung e umanesimo. In quell’umanesimo in cui Heidegger intravedeva un pericolo per l’esperienza autentica dell’originario Grassi individua una possibilità, anzi la possibilità, la scommessa del filosofare noetico-non metafisico da sempre bandito dalla riflessione formale e razionalistica. Afferma il filoso italiano in La metafora inaudita, nel contesto dell’analisi del linguaggio e del pensiero razionalmente intesi, che “qualsiasi umanesimo – nel contesto suddetto – che tenti di trascendere il pensiero formale tenendo conto dei problemi della vita e dell’uomo, deve essere escluso e con esso ogni elemento patetico, proprio del linguaggio poetico o retorico. Il linguaggio razionale e scientifico deve necessariamente prescindere dalle passioni dell’uomo; il suo ideale è quello matematico e il legame del mondo umano con la razionalità genera il terrore di cadere nel soggettivismo, nell’arbitrarietà”218. Per il filosofo italiano occorre compiere un movimento inverso a questa prospettiva e la riflessione sul tema heideggeriano della Lichtung, connesso all’articolazione umanistica e vichiana del concetto, rappresenta un tentativo di costruire un nuovo accesso al mondo umano. Per Grassi quello compiuto da Heidegger è un regressus, un movimento di retrocessione dal dato al darsi, che tuttavia si arresta all’Es gibt, all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella Lichtung riecheggia quel φύειν greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare, portare a manifestazione, quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto del quale sente la meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel quale ci si sente situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione, forme, queste, di mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in quella modalità linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio come casa dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro intraprendendo una analisi teoretica e storica delle prospettive degli antesignani della teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva metaforologica originale che coniuga l’analisi  E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 11. ! 77!   della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico. Nel contesto della Lichtungsgeschichte di Grassi emergono in primo piano i temi del non- nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e il Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, Grassi afferma che “uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo [...] questi problemi non sono trattati dal pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio”220. Da questo passo emerge la precisa declinazione che Grassi conferisce a tale idea: si tratta di una declinazione ontologica perché il problema che la Lichtung heideggeriana pone è, come abbiamo visto, quello del fenomeno di base dell’evento, della manifestatività, dell’esistenza e dell’appello dell’essere al quale è chiamato l’uomo. Ma allo stesso tempo emerge anche una nota linguistica perché l’appello dell’essere che avviene nella dimensione della Lichtung coinvolge innanzitutto il mondo linguistico dell’uomo. Inoltre, Grassi rimarca più volte la retrodatazione della concettualizzazione della Lichtung: interpretata come riflessione sull’evento originario del rapporto uomo-essere la Lichtung compare già nelle riflessioni umanistiche, soprattutto in quelle che riguardano il linguaggio. L’idea di Lichtung che Ortega y Gasset, il collega di corso di Grassi durante gli “anni mitici di Friburgo”221 faceva risalire al 1914222, in realtà è molto più antica per Grassi: precede Heidegger e Ortega di secoli.  Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., pp. 20-21. 220 Ivi, p. 26. I corsivi sono nostri. 221 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 21. 222 Ortega ha sempre rivendicato la priorità, rispetto a Heidegger, di alcune intuizioni filosofiche fondamentali: “Ci sono appena uno o due concetti importanti di Heidegger che non siano preesistenti, talvolta con un’anteriorità di tredici anni, nei miei libri”, Ortega y Gasset, Lettera a un tedesco (1932), in Id., Goethe, tr. it. di A. Benvenuti, Medusa, Milano 2003, pp. 15-48: p. 47, nota 2. I concetti sui quali Ortega, stando alla sua autointerpretazione, si sarebbe espresso con anticipo rispetto ad Heidegger sono quelli di essere, verità, cura e lingua. Per una analisi approfondita dei concetti ora ricordati rimando a G. D’acunto, Ortega critico di Heidegger, pp. 67-78, in “Studi interculturali”, 1/2015 Trieste. Vorremmo richiamare all’attenzione i passi orteghiani del 1914 in cui si dice sia prefigurato il concetto heideggeriano di Lichtung, ! 78!   Secondo il filosofo milanese, infatti, il problema della radura risale alle riflessioni dell’umanesimo italiano: “già dagli inizi degli studi umanistici un secolo fa, con Burckhardt e Voigt, fino a Cassirer, Gentile e Garin, gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti. Questa interpretazione, largamente diffusa, è la ragione per cui Heidegger [...] si è insistentemente impegnato in polemiche contro l’umanesimo, considerato alla stregua di un ingenuo antropomorfismo. E tuttavia uno dei  reso con la metafora della radura nel bosco, e che esprime al contempo l’idea di verità come αληθεια e non nascondimento. Ortega, già nel 1914, affermava che: “la verità è caratterizzata da una pura illuminazione subitanea che possiede, però, solo nell’istante in cui viene scoperta. Per questo il suo nome greco, aletheia – che in origine ebbe lo stesso significato della parola più tarda apocalipsis –, vuol dire scoperta, rivelazione, o meglio, svelamento, toglimento di un velo”, J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, tr. it. a cura di G. Cacciatore e M. L. Mollo, Guida, Napoli 2016, p. 68. In Ortega, dunque, sarebbe presente quella metaforica presente anche in Heidegger: la radura nel bosco (Lichtung), intesa come il luogo in cui si apre lo spazio che lascia entrare la luce e la fa giocare con l’oscurità. Secondo Ortega “il bosco è una natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo nome conserva un alone di mistero [...] il bosco sfugge allo sguardo [...] il bosco è sempre un po’ più in là del luogo in cui siamo [...] Ciò che del bosco si trova davanti a noi in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto rimanga nascosto e distante”, ivi, p. 62-63. Vorremmo sottolineare come l’importanza della metafora in Ortega non sia legata solo alla sua notevole capacità di espressione letteraria, a quella volontà di stile mai disgiunta da una chiara coscienza linguistica, ma abbia una radice filosofica molto forte nell’estetica del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna guardare tra le pieghe di testi quali Renàn, Ensayo de estètica a manera de pròlogo, Las dos grandes metàforas, La deshumanizaciòn dela rte per rintracciare un’analisi della metafora che travalichi l’ambito pittorico e letterario e mostri una componente filosofico-conoscitiva e una costante preoccupazione antropologica e non solo estetico-ornamentale della metafora. Questa preoccupazione antropologica si materializza come è noto nella bella immagine del naufrago a cui la cultura viene in soccorso come una “zattera”: “la vita è in se stessa e sempre un naufragio. Naufragare non è affogare. Il povero essere umano, accorgendosi di affogare negli abissi, agita le braccia per mantenersi a galla. Questo agitare le braccia, con cui egli reagisce al suo smarrimento, è la cultura: un movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto questo, essa compie la sua funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso abisso”, J. Ortega y Gasset, Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla felicità, tr. it., di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994, p. 193. Spostandoci da una “pragmatica metaforica” orteghiana ad una “teoria sulla metafora” sarà possibile constatare che il tema della metafora svolge una funzione fondamentale nell’economia del pensiero orteghiano e umano in generale, poiché tenta di ancorare il linguaggio alle radici che lo generano. Come leggiamo nelle pagine di La disumanizzazione dell’arte “ecco così un “tropo” di azione, una metafora elementare anteriore all’immagine verbale e che si genera nell’ansia di evitare o eludere la realtà. [...] Ecco l’elusione metaforica”. J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S. Battaglia, Sossella, Roma 2005, p. 45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso è un’operazione metaforica: “il logos stesso è un’espressione metaforica [...] così, se quanto diciamo non coincide esattamente con quanto pensiamo, si deve intendere che perlomeno lo suggerisce. E tale dire che è suggerire è la metafora”, J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, cit., p. 46. Cfr., G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Mulino, Bologna 2013 soprattutto il saggio “La zattera della cultura. Filosofia e crisi in Ortega y Gasset”, pp. 47-77; G. Cacciatore-A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di J. Ortega y Gasset, Moretti e Vitali, Bergamo 2012; F. J. Martìn, Teoria del linguaggio e linguaggio ingegnoso in Ortega y Gasset, pp. 313-327, in F. Ratto-G. Patella (a cura di), Simbolo, metafora e linguaggio nella elaborazione filosofico- scientifica e giuridico-politica, Sestante 2000; G. D’Acunto, Ortega y Gasset: La metafora come parola esecutiva, pp. 39-51, in “Studi interculturali”, n. 2, 2014; F. Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in F. Cambi, A. Bugliani, A. Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici, Unicopli, Milano 2007, pp. 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a cura di) Omaggio a Ortega, Guida, Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio Un intellettuale di vocazione. A proposito di La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di Ortega y Gasset, pp. 230-243 in “Studi interculturali”, Trieste 2014; G. Ferracuti, Il punto di vista crea il panorama: molteplicità di sguardi e interpretazioni in Ortega y Gasset, pp. 96-118, in “Studi Interculturali”, Trieste 2015.  ! 79!  problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”223. L’apertura originaria, definita altrove come l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle speculazioni umanistiche coinvolge i temi del linguaggio, della correlazione tra cosa e pensiero. Oltre all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero per Grassi abbiamo una tradizione che si preoccupa del manifestarsi storico dell’ente attraverso il linguaggio, dell’eventuarsi dell’essere in quel rapporto di co-estensione ineludibile di essere-pensiero-linguaggio. Ma che cos’è il logos per Grassi? Può ridursi sic et simpliciter all’ambito della razionalità, del concettuale, del deducibile? Si tratta unicamente di una polarità irrimediabilmente antitetica al pathos? Ma soprattutto in che relazione è l’idea di logos con quella di Lichtung? Come vedremo nel prossimo capitolo in maniera più dettagliata occorre analizzare i molteplici significati di logos offerti da Grassi e connetterli con le questioni dell’apparire e della passione dell’originario per meglio comprendere il significato della Lichtung nel pensiero del filosofo italiano al di là dell’ipotesi dualista225. Vorremmo anticipare che nel saggio del 1936 Il problema del logo il filosofo milanese sembra proporre un’idea di logos completamente opposta alle tesi mature. Ma si tratta di una contraddizione solo apparente come vedremo poiché l’idea di logos è inteso in maniera complessa. Ad apparire problematiche sono le affermazioni del periodo a difficilmente compatibili con quelle del periodo b. -! a: “l’originario atto della differenza ontologica non è la distinzione di enti precedentemente dati, bensì l’originario rendere possibile la manifestazione di una molteplicità in cui concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita. Così il fondamentale carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad una molteplicità [...]  E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 224 Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 225 Parla di ipotesi dualista M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto G., cit., p. 10. Completamente opposto è il giudizio di Rita Messori che sostiene con fondamento la coappartenenza di logos e pathos. Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di E. Grassi, cit., soprattutto le pp. 66-84.  ! 80!  è radicato nella differenza ontologica, col che si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo. La Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein”226. -! b: “il termine retorico” – che in Grassi indica l’ambito di progettazione del pathos – “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”227. Come conciliare allora il periodo a -! “si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo [...] il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein” con il periodo b? -! “retorica è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale” Grassi stesso avverte durante tutto il suo iter di pensiero la necessità di una ricomposizione di queste due vie del filosofare tanto che giunge ad affermare che le analisi svolte sull’umanesimo sono da concepire come “uno sforzo per gettare un ponte tra logos e pathos”228. A questo punto si impongono una serie di osservazioni: Grassi non parla in maniera univoca di logos – così come non parlerà in maniera univoca di retorica – anzi, individua due logoi differenti, o meglio due forme di logos: una disgiunta dal pathos, l’altra radicata nel pathos. Ed è proprio sull’opposizione tra un logo inteso secondo una modalità logico-formale e un logo intrinsecamente legato alla dimensione patica che si può comprendere il suo pensiero. Abbiamo un significato di logos da interpretare come “processo del manifestarsi”, in cui si sperimenta un nuovo rapporto di essere e nulla, un nuovo concetto di identità che non si fonda sulla logica del pensato ma sulla logica del pensare, dell’atto  E. Grassi., Il problema del logo, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 227 Id., Retorica e filosofia, pubblicato in “Philosophy and Rhetoric, IX, 1976, The Pennsylvania State University Press, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 228 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 170.  ! 81!  pensante, che porta a manifestazione. La lezione heideggeriana di L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica coniugata a quella gentiliana della Logica è evidente. Grassi intuisce la convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere e forte di questo connubio è in grado di porre il vero problema che potremmo definire autenticamente fenomenologico229. La questione che la Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è quella dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto fondativo del reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade la differenza ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che appare? Come esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio? Se da un punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta connesso strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso logos-pathos (poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della manifestatività dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una connessione molto interessante risulta essere quella istituita d Grassi tra la Lichtung heideggeriana e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben più complessa della secca alternativa tra logos e pathos. L’intima coappartenenza del momento patico e di quello logico determina la forma della manifestatività. Il tema dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo capitolo è fondamentale per Grassi e mostra quanto la problematica della Lichtung (espressa in modo esplicito negli anni della maturità), sia già presente nella produzione giovanile riguardante i temi dell’essere, dell’apparire, della manifestatività e dell’esperienza patica dell’originario. II. VII. Lichtung e lucus Come abbiamo sottolineato in precedenza Heidegger rappresenta un punto di riferimento centrale all’interno della prospettiva grassiana, sia per quanto riguarda il valore della parola poetica Analizzeremo in modo approfondito questo aspetto nel prossimo capitolo.  ! 82!  come linguaggio originario, sia per il parallelismo istituito tra la Lichtung e le luci vichiane230. Contro l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come metafisica dell’ente uomo Grassi – a sua volta con categorie ermeneutiche mutuate dal maestro – individua un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche degli umanisti. In questo percorso di riabilitazione del pensiero retorico231 latino Vico risulta essere una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “il problema della verità logica [...] deve essere sostituito dal problema molto più originario del disvelamento, dal problema della schiarita (aletheia) nella quale primariamente appare ciò che è, l’essente. Ciò assegna un nuovo compito alla filosofia: quello di sostenere il primato e l’originarietà del linguaggio poetico rispetto al linguaggio razionale; rammentiamo a questo proposito la spiegazione heideggeriana della Lichtung. La tesi di Heidegger ci riporta a quel pensatore del XVIII secolo con il quale la tradizione umanistica raggiunge la sua più profonda espressione e significanza filosofica: VICO (si veda). In Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, la questione dell’apparire, della fantasia, del lavoro e della Lichtung è esplicitamente connessa con la figura dell’“ultimo umanista”: Vico. G.  pone il seguente problema: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa?”233. La risposta è individuata nella Lichtung. Il divenire uomo dell’uomo (e la conseguente comparsa del mondo, del cosmo dal caos originario) è un processo che parte dalla originaria estraneazione dell’uomo, intesa da Grassi come “angoscia originaria dello smarrirsi nella foresta primordiale”234 e, passando per le varie tappe storiche dello sviluppo antropologico, approda all’istituzione della comunità umana mediante la parola. Questa più che configurarsi come rispecchiamento dell’ente – in tal caso saremmo di fronte ad una teoria adeguativa della verità e del linguaggio ad essa connesso  Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Scritti in memoria di Ernesto Grassi, cit.; Id., Lichtung: leggere Heidegger, it.; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en Vico y Ortega, cit., pp. 146-173. 231 Cfr., Espillaque, op., cit. 232 Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 35. 233 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 251. 234 Ivi, p. 253.  ! 83!  – assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo umano, mostrando una virtù onto-poietica. “Nella libera decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”235 Grassi rintraccia l’autentica caratura onto-antropo-logica del discorso vichiano. Infatti per Grassi la Scienza Nuova vichiana delinea il problema del disvelamento in cui appare l’uomo e il suo mondo e solo secondariamente affronta la questione della storicità e dell’antropologia. Soffermiamoci sul confronto tra la dottrina heideggeriana della Lichtung e la teoria vichiana delle luci. Nella Scienza Nuova appare la problematica principale del filosofo napoletano: quella del disvelamento del modo in cui sorgono l’uomo e il suo mondo attraverso l’interrelazione della parola poetica con lo spazio storico che tramite l’atto linguistico stesso si istituisce. L’affermazione grassiana fa perno sul passo vichiano della Scienza nuova in cui la teoria pre-heideggeriana della Lichtung comparirebbe. In Vico e l’umanesimo il tema della Lichtung è correlato a quello vichiano della “schiarita della foresta primordiale”236. Mettere insieme Vico e Heidegger segnatamente al tema della Lichtung è per Grassi un’operazione che ha come esito un esame della metafisica in generale e non solo di una metafora, per quanto importante, della filosofia occidentale. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza. Il gioco delle analogie tra Vico e Heidegger che possiamo ricostruire – come di fatto è stato ricostruito magistralmente da Amoroso237 –, per quanto interessante, rischia di rimanere molto generico se non calato in un orizzonte teorico più ampio che fa interagire i due autori sul terreno della metafisica. Conscio della grande distanza che corre tra il tentativo vichiano di una riforma della metafisica e di quello heideggeriano di un suo superamento, ma nondimeno consapevole della contrapposizione di entrambi alla “barbarie della riflessione” e ai trionfi della ratio, Grassi pone l’accento sul tema della Lichtung quale terreno di confronto tra due autori che alla ritematizzazione di un rapporto autentico-essere-uomo-linguaggio hanno dedicato gran parte delle proprie opere. La metafora che  Ivi, p. 251. 236 Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 127. 237 Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Studi in memoria di E. Grassi, parzialmente modificato in Id., Nastri vichiani, ETS, Pisa 1997, pp. 99-122.  ! 84!  Grassi eredita dal maestro degli anni mitici di Friburgo, come abbiamo visto, declina la dimensione della luce con quella dell’oscurità e la stessa coappartenenza viene rintracciata in Vico. Ovviamente la metafisica della luce, che è a fondamento della scienza nuova, va intesa nel senso di un neoplatonismo cristianizzato. Nella metafisica del suo De Antiquissima Italorum sapientia Vico afferma che la chiarezza del vero è come quella della luce. Qui la luce vale come metafora della verità metafisica di Dio e delle sue idee, le forme che l’uomo può vedere solo nel contrasto. “Il vero metafisico è sommamente luminoso, non è racchiuso da alcun limite, e pertanto non lo si discerne con nessuna forma: e ciò perché è il principio infinito di tutte le forme, mentre le cose fisiche, opache, cioè formate e finite, son quelle in cui vediamo la luce del vero metafisico”238. L’alternanza di luminosità e opacità va quindi letta nel senso di un neoplatonismo cristianizzato e non come l’esempio di quell’impensato della tradizione occidentale contraddistinta da quell’oblio dell’essere di sapore heideggeriano. Perché dunque Grassi mette insieme Vico e Heidegger – che avrebbe definito Vico un appartenente alla costituzione onto-teo-logica della metafisica – su un tema che sembra segnare, invece, una distanza tra loro? La risposta è nel linguaggio poetico. Per entrambi gli autori – l’uno attento alla Provvidenza; l’altro al Geschick, quel destino che genera la storia, la Geschichte; l’uno sensibile al ruolo fondativo della poesia; l’altro alla valutazione del linguaggio poetico quale casa dell’essere – è significativo il tema della intima co-appartenenza di luce e oscurità nella analisi della genealogia del mondo umano. Secondo Grassi “l’unico pensatore che [...] avrebbe potuto aprire la comprensione per il pensiero di Vico sarebbe stato Heidegger”239 poiché la Lichtung heideggeriana è molto affine al tema del lucus vichiano. Entrambe le nozioni rientrano in un pensiero dell’origine storica del mondo dell’uomo che ha natura innanzitutto linguistica e poetica. Come leggiamo nella Scienza Nuova “le prime città, quali tutte si fondarono in campi  Vico, p. 84, La metafisica del 1710, Introduzione, trad. commento di A. Corsano, Adriatica Editrice Bari 1966. Si tenga conto della funzione del raggio di luce della Dipintura che dall’occhio divino discende sulla figura femminile della metafisica e si rifrange su Omero, simbolo della poesia e della scoperta dei caratteri poetici, della sapienza poetica, la vera chiave maestra per intendere la nuova scienza quella antropologia delle origini del mondo umano e civile. Cfr., L. Amoroso, VICO (si veda), Heidegger e la metafisica cit., p. 115. 239 Grassi, Vico e l’umanesimo, p. 194.  ! 85!  colti, sursero con lo stare le famiglie lunga età ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi religiosi, i quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e, conl’idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine “luci”, ch’erano “terre bruciate dentro il chiuso de’ boschi”240. Mosso dal convincimento di tale sorprendente convergenza di temi Grassi sottolinea come la dimensione di apertura del lucus vichiano analoga a quella della Lichtung heideggeriana mette in questione il tema dell’origine della storia, del linguaggio, della poesia e del sacro. Il Vico di G., antropologo delle origini, avrebbe attribuito una centralità a quella dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo comune241. La ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto originario – la Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche linguistiche che in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e sull’etimologia e in Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana secondo Grassi è una mitopoiesi spontanea, nasce come risposta da parte dei primi uomini allo stato di necessità in cui si trovano e con essa assistiamo alla genesi del linguaggio, del mito, della religione, del diritto e della storia. La questione della Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma diversi umanisti che si sono interessati alla questione della radura, del contesto originario all’interno della disamina del valore della parola poetica. Se la questione della Lichtung aperta da Heidegger rimanda al problema dell’individuazione e dell’espressione del contesto primordiale e del fenomeno originario dell’antropo-poiesi allora la suggestione grassiana circa la possibilità di retrodatare la problematica della Lichtung all’epoca umanistica non sembra tanto peregrina. Secondo Grassi con Vico abbiamo un distacco dalla metafisica tradizionale razionalistica e la Scienza Nuova viene a costituire non una nuova teoria della storia o una scienza antropologica tout court ma la scienza “del disvelamento originario nel quale appare l’uomo”243. Chi volesse interpretare G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, p. 795. 241 J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia in Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 115-117. 243 Ibidem.  ! 86!  il pensiero del napoletano come un’antropologia o una riflessione sulla storia sbaglierebbe poiché “il problema di Vico è quello del campo in cui l’uomo appare”244. La questione del contesto originario si declina in Vico come ricerca arcaica del “disvelamento della foresta primordiale” che altro non è che il problema del fondamento del mondo umano, identificato nei principi “universali ed eterni” che soggiacciono al divenire della storia. Nel passo vichiano prima ricordato il filosofo milanese individua numerosi punti di contatto con la teoria heideggeriana della Lichtung: l’utilizzo del termine luce; la spaesatezza e l’angoscia originaria dell’uomo primitivo; l’atto pratico di umanizzazione della natura. In questo “atto di disboscamento” viene collocato il punto di origine dell’umano e la fine del “divagamento ferino dentro la gran selva di questa terra”245. Il passaggio dal ferino all’umano, la transizione dall’uomo all’animale, mette in moto una potenza straordinaria che viene interiorizzata dalle menti primitive – i bestioni – che in tal modo umanizzati si avviano verso un percorso faticoso che va dalla barbarie agli ordini civili. Il significato della luce vichiana è infatti innanzitutto civile, politico e comunitario. Come sottolinea Carillo “il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario”246. Del termine vichiano luce G. mette in rilievo soprattutto la valenza di interruzione nella frequenza della selva. Come possiamo leggere in Vico, Marx e Heidegger nel terrore che coglie l’uomo, nell’esperienza della sua alienazione dalla natura, questi crea e fonda il primo luogo umano nella storicità, il regno della fantasia e dell’ingegno”247. Nel bosco primordiale – in cui si fa esperienza dell’alterità della natura – l’uomo crea il luogo della storicità. Appare il tema del disvelamento e del disoccultamento come punto di partenza per una Id., Vico, Marx e Heidegger, in Id., Vico e l’umanesimo, Vico, La Scienza Nuova, cit., p. 793. 246 G. Carillo, Vico. Origine e genealogia dell’ordine, Editoriale scientifica, 2000, p. 284. 247 E. Grassi, Vico, Marx e Heidegger, pp. 173-191, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 181.  ! 87!  ricerca dell’umanità delle origini che non ha solo il significato di indagine archeologica-filologica ma il senso di una ricerca fenomenologica sui presupposti del pensiero e sulla possibilità di uscire dalla metafisica. Il nesso Vico-Heidegger tematizzato da Grassi pone in luce che il concetto heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui gli esseri appaiono “coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui appare sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta (schiarita nel bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e l’uomo nella sua umanità, possono apparire”248. Proprio il riferimento al tema dell’apparire e del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica dell’ipotesi interpretativa grassiana: il tema della Lichtung non è altro che la metafora pretesto per dare avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e dell’apparire della realtà. Al problema del reale, dell’apparire e della manifestatività, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il già citato Dell’apparire e dell’essere in cui la manifestatività si costituisce non nella modalità della pura apparenza negativa, ma come luogo in cui l’uomo è colpito dal reale, ne risulta affetto, ne patisce la presenza non in una condizione di pura passività, bensì nell’ambito della sua capacità di progettazione e umanizzazione. L’originario pensiero vichiano del lucus diviene per Grassi un pensiero epocale poiché “la tesi fondamentale di Vico è che la metafisica non deve partire né da principi razionali né dal problema degli enti ma dalla parola che svela la storicità umana”249. L’epocalità della sua filosofia risiede nel suo carattere anti-razionalistico e fenomenologico. Il filosofo milanese afferma in VICO (si veda) filosofo epocale che “la sua opera – quella di Vico – è una vera fenomenologia, una descrizione di come a poco a poco appaia (phainesthai) il reale umano”250. Pur non analizzando le numerose sfaccettature del termine lucus in Vico – luce civile; senso teologico del termine; nesso lux-lucus (luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 – G. si Ivi, p. 177. 249 Id., G. B. Vico filosofo epocale, pp. 193-211, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 194-195. 250 Ivi, p. 195. 251 Molto interessante risulta la ricostruzione etimologica di Latium da litibula. Leggiamo in De Constantia philologiae “donde il nome Latium (Latium unde dictum)? I Romani custodirono queste altre vestigia di una siffatta antichità. Dai ! 88!   sofferma sul senso ontologico-trascendentale del termine vichiano coniugando in maniera originale i temi heideggeriani e vichiani in una prospettiva che vuole essere l’occasione per un ripensamento della filosofia che riconosce la propria matrice fantastica, ingegnosa, mitica, poetica. Si tratta di un pensiero che passa “dalla metafisica degli enti a quella dell’agire, della prassi umana”252: per Grassi occorre partire dalla tematizzazione delle necessitates come fonti naturali dei mondi umani. Egli definisce l’ingegno – che non esclude mai il processo razionale – come teoria che “scopre ora e qui similitudini, connessioni, apre la premessa per un processo razionale, che deduce dalla scoperta inventiva le conseguenze e quindi costruisce un mondo”253. L’ingenium è allora l’originaria capacità di vedere il simile ed è la prima risposta a quelle necessità naturali alle quali l’uomo deve far fronte nel faticoso percorso di sopravvivenza e di civilizzazione. L’ingegno può essere comparato per la sua struttura dinamica e multifunzionale a quel processo che gli attuali studi sull’apprendimento celati accoppiamenti degli eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli (latibula) che offrivano i boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la sua prima origine quella gente”, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere giuridiche, introd. Di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, p. 524. Un’altra connessione degna di nota è quella tra il termine lucus e l’occhio di Polifemo. Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo che “abitavano in spelonche sulle montagne [...] avevano un occhio solo. Ciò fu inventato da lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo al fine di prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e così è vero quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui non c’è luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte dove c’era la luce”, G. B. Vico, Dissertazioni, in Id., Opere giuridiche, cit., p. 830. Per ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del termine vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia dell’ordine, cit., p. 284 e sgg. L’autore sottolinea come in relazione al termine lucus “la valenza privilegiata è quella di bosco sacro. Tuttavia in Vico questa valenza presuppone un lungo percorso disseminato, al solito, di suggestioni etimologizzanti. Esito di lucere, emettere luce, o di lucesco, venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano è definibile come un’interruzione nella frequenza della selva. Aprire un lucus equivale ad aprire una falla, uno slargo, in un viluppo fittissimo che preclude la vista del cielo. É evidente il senso teologico-civile di questo diradare la selva per poter contemplare, attraverso uno spiraglio, il cielo onde interpretare i segni divini, ossia trarne gli auspici. In questo modo il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario [...] nel De Costantia philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto semantico opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità [...] In quest’accezione in cui la derivazione di lucus dalla luce si ottiene per antifrasi la sacertà del bosco sacro deriva dal suo essere nascosto [...] di qui la possibilità di ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi sacri ai primi abitatori della regione [...] nelle Dissertationes il lucus si combina alla descrizione dei Ciclopi omerici [...] l’occhio dei Ciclopi non è che la trasfigurazione poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco diradandolo”. 252 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 204. 253 Ivi, p. 203.  ! 89!  definiscono come problem solving254: si parte da una condizione inizialmente critica: il problema, la necessitas; si approntano strategie di risoluzione: la risposta alle necessitates; si elabora un pensiero creativo che scalza la rigidità degli schemi cognitivi classici e mette in moto la creatività: fantasia/ingegno come facoltà intuitive e ricettive ma allo stesso tempo attive e creative. L’ingegno – altrove inteso da Grassi nella sua identità con il nous aristotelico255 – ha come suo primo prodotto il mito che, come vedremo nell’ultimo capitolo, “costituisce di volta in volta la storicità delle varie epoche”256. Il mito nel suo carattere sacrale e esemplare, come universale in funzione del quale “si determina il particolare sotto l’urgenza che segna il tempo”257, non è inteso solo come praxeos mimesis – racconto mitologico – ma come origine di un ordine linguistico che non ha natura razionale: si tratta del linguaggio fantastico che si condensa nella metafora. La struttura topica dell’ingenium, vichianamente concepito come arte “d’inventare, di trovare, di invenire”258, produce il mito e allo stesso tempo quella “locuzione poetica che nasce da necessità di natura”. G. sostiene che “se la poesia come attività ingegnosa è originaria forma per adeguare le necessità naturali scoprendo similitudini, è essa che trasforma il reale”259. Emerge da questo passo la vis plastica del logos che per G. non è astorico, razionale, ma sempre attento alle circumstantiae storiche. Allora si comprende come tale logos include al suo interno tutta una serie di elementi che non hanno mai trovato spazio all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “suoni, segni, atteggiamenti indicativi, semantici, anche il tacere, acquistano Per un’analisi del problem solving cfr. il classico G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica. Logica ed euristica nel metodo matematico, Feltrinelli, 1983. 255 Cfr., Significare arcaico, cit. 256 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 199. 257 Ibidem. 258 Ivi, p. 203. 259 Ivi, p. 206. Il corsivo è nostro.  ! 90!  significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che ci riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la storia”260. Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica; mitico- politica; pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si compie quella Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della ingens sylva trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere dalla Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività all’attività insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario – la Lichtung – spinge Grassi a definire tale apprensione del reale non nei termini di una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli “invii dell’essere”, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come “mediazione specifica dell’umano dotata di scopo” – e fondazione etico- politica della comunità sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica – corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione (Bildung), nelle risposte “umane, troppo umane” alle urgenze patite del reale e di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si chiede Grassi se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia  Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 197. 261 Cfr., S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., pp. 278-281; G. Petrovic, Marx, lavoro e abbandono. Lettera a Ernesto G., pp. 127-157, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ! 91!   aprioristica scolastica – con la conseguente attenzione alla giurisprudenza, alla grammatica e alla retorica – possano essere in definitiva considerate valide e concrete o ricadano dell’astrattismo medievale: “Tutti questi canoni, che gli umanisti oppongono alla filosofia aprioristica della scolastica, soddisfano realmente la loro pretesa di essere concreti? Qui è pertinente l’obiezione del marxismo. La sorgente originaria del divenire umano si trova nella trasformazione originaria, e perciò, nella umanizzazione della natura mediante il lavoro. La giurisprudenza, il linguaggio, la retorica, sono concrete solo in quanto manifestazioni della storia di classe [...] la storia del lavoro è la storia dell’evoluzione dell’uomo”262. Grassi analizza dettagliatamente l’idea del lavoro in Marx, esposta sia nel Capitale sia nei Manoscritti economico-filosofici, sottolineando quattro aspetti importanti del lavoro: 1-) il lavoro umano è distinto da quello degli animali poiché è espressione di una volontà intenzionale e spezza la relazione di immediatezza che secondo Marx l’animale ha rispetto al mondo circostante: “la sua relazione con ciò che produce è immediata”263. Per Marx “l’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa stessa”264. 2-) La seconda definizione del lavoro “consiste nel riconoscere che esso rappresenta il superamento dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo del lavoro è un passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò che diviene realtà [...] il lavoro come processo di metabolismo significa l’appropriazione della natura a favore dell’uomo” E. Grassi, Marxismo, Umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pp. 69-94, in Vico e l’umanesimo, cit., p. 83. 263 ivi p. 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma 1976, Vol. III, p. 303 265 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 84.  ! 92!  3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito come essere libero: “il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia libero. Bisogna intendere la libertà [...] come la facoltà di trasformare la natura in nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per l’uomo”266. 4-) Il lavoro ha una funzione sociale. Secondo G. l’importanza del lavoro come fattore di umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte dell’animalità è rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli ambiti della giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e in Vico, il cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e della fantasia. Per il filosofo italiano “il problema che ora sorge è: che cosa Vico considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica due fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia”267. Il pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo “sperimenta la propria libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale”268; attraverso la fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e “procede a costruirsi il proprio ordine, o un adattamento della natura”269 (infatti per il filosofo la fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime connessioni e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare un significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci, dall’altro Grassi sottolinea come una teoria del lavoro priva di una teorizzazione antropologica e filosofica dell’umano  ivi, p. 85 267 ivi, p. 86 268 ivi, p. 89 269 Ibidem.  ! 93!  sia concettualmente monca e praticamente inutilizzabile. Afferma Grassi che “Marx considera il lavoro – come il superamento dell’immediato impatto con la natura, come l’adattamento di essa – l’origine della storia. Se però, tale adattamento nell’interesse dell’uomo differisce da quello degli animali per il fatto che l’animale lavora solo per il proprio nutrimento e la conservazione della specie, e in accordo con i suoi modelli congeniti, allora il problema circa il significato dell’adattamento della natura da parte dell’uomo non può essere risolto col dire semplicemente che l’uomo è un essere che media e accomoda, né col riferimento alla sua attività lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo scopo specifico di questa mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di questo problema, ci troviamo ridotti a dire che l’animale è un essere molto più alto dell’uomo”270. In quest’ultimo passo Grassi esprime l’idea secondo la quale se è vero che il lavoro è il primo atto di umanizzazione ciò è possibile nella misura in cui non si riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il metabolismo della natura, il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri come atto di mediazione guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel concetto di lavoro più che della prassi lavorativa occorre tenere conto del telos che la sorregge: qui si inserisce il discrimine tra uomo e animale. Secondo il filosofo il lavoro, inteso come adattamento della natura, è solo un mezzo in vista di uno scopo, la realizzazione umana del mondo in cui la fantasia rivela il suo ruolo fondativo rispetto al lavoro stesso: solo grazie alla facoltà di visione delle somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare la natura implementando ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso. L’intima coappartenenze della componente tecnica (lavoro come fatica) e di quella fondativa-civile (lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione grassiana del labor tutta gravitante attorno al tema della produzione del mondo storico sociale e dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium e la sua phantasia “per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale nel suo significato umano facendolo assurgere ad opera; solo in tal modo il reale diventa storico, si umanizza quale opera dell’ingegno”271. Se, da un lato, allora, il presentarsi della manifestatività rende affetto l’uomo, e, colpendolo, ne rivela la componente di passività, il suo essere soggetto-a, tale che l’uomo non può non patire, non può sottrarsi, dall’altro, l’uomo è quell’ente capace di rispondere, di offrire una risposta attiva mediante il lavoro. Per G. infatti ciò che ci circonda, l’oggettivo, la natura, l’essere “appare solo nei limiti da noi progettati – e tuttavia – è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività [...] è la risposta che la natura dà entro i nostri diastema”272. Entro i limiti della nostra progettazione, del nostro lavoro, della nostra opera – che per Grassi non è un’operazione soggettivistica e arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae di volta in volta mutevoli, alle necessitates nelle quali è già da sempre immerso l’uomo – significa entro i limiti dell’orizzonte della fantasia quale attività ordinatrice della materia primordiale che per Grassi “ci impedisce di trovare una qualsiasi unità; essa è materia della facoltà ordinatrice del pensiero”273. Il tema della determinazione concreta del reale risulta strettamente intrecciata a quello del lavoro umano nel suo significato ontologico trascendentale e a quello della fantasia come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base della visione delle somiglianze”274 e non come “attività che ci presenta qualcosa di irreale”275, come “rappresentazione dell’irreale, come pura facoltà della finzione, E. Grassi, Politica e religione. La riscoperta della tradizione latina, pp. 33-43, in “Archivio di filosofia”, Padova 1978, p. 43. Le riflessioni grassiane sul lavoro mostrano molti punti di contatto con la distinzione arendtiana tra lavoro come ergon e come ponos presente in Vita activa. 272 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, Discorso letto alla seduta inaugurale del Congresso per il IV Centenario della fondazione dell’Università di Lima, in “Archivio di filosofia”, 1952, p. 68. 273Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 279. In relazione all’attività ordinatrice della selva originaria Grassi in questo saggio parla di un’attività fantastica in modo duplice: sia come facoltà sensibile – il significato secondario – sia come attività del lasciar apparire – significato ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e leghein. 274 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 190. 275 Ivi, p. 276.  ! 95!  come capacità di mostrare qualcosa di fantastico”276. In questo caso essa è una ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa e combinatoria delle immagini, senza avere come punto di riferimento il referente reale delle immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La fantasia ontologicamente intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro è capace di istituire il mondo storico. Per Grassi “la trasformazione della natura, che l’uomo realizza con lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce dunque dall’attività fantastica ingegnosa”278 che, insieme al senso comune, si ritrova nella teoria vichiana del lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi che “il senso comune, secondo la definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo ciò che gli è utile e di cui ha bisogno”279 e prosegue chiedendosi “se e come l’ingegno e la fantasia contribuiscano al senso comune e quale relazione esista fra di loro”280 visto che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo umano e dei suoi bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il lavoro, catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. “Le fatiche di Ercole presuppongono una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione, cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della natura, estranea al contesto generale delle funzioni umane” Ivi, p. 191. 277 Cfr., M. Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. 278 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 241. 279 La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato in Vico and Contemporary Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 51. 280 Ibidem. 281 Ivi, pp. 51-52.  ! 96!  Il labor appare strutturato metaforicamente poiché è un atto di trasposizione di significato al mondo circostante, la “funzione mediante cui i bisogni umani vengono soddisfatti”282. La struttura metaforica operante all’interno del linguaggio poetico secondo Grassi soggiace anche nel lavoro nel quale si intrecciano il sensus communis – che non “consiste, quindi, in un modo di pensare popolare o comune”283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione storico- esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove si presta attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: “è possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?”285. Proprio questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista costituisce per Grassi la dimostrazione che “il problema concernente il significato del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia”, che in qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a “semplice sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale”286. Volendo trarre una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può asserire che nella prospettiva onto- antropo-logica di G. assume un ruolo centrale la relazione fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di Vico e Marx. Vico, Marx e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger qualche  Ivi, p. 51. 283 Ivi, p. 52. 284 Parla di connotazione etica del lavoro in Grassi S. Limongelli in Il problema dell’umano, cit., p. 277 e sgg. 285 Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pubblicato originariamente in Giambattista Vico’s Science of Humanity, the John Hopkins University Press, Baltimore (Maryland) 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 85. 286 Ivi, p. 93.  ! 97!  anno dopo287 – concordano nella critica alla filosofia a priori e al pensiero teoretico contemplativo: il problema vero della filosofia è quello “delle origini del divenire umano e, conseguentemente, della sua realtà storica”288. La critica all’impostazione metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia per il filosofo non riesce a superare lo schema del pensiero tradizionale. Leggiamo in Vico, Marx e Heidegger che “il rovesciamento della filosofia, che Marx riteneva di aver compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo schema del pensiero tradizionale [...], la sfera di un antropologismo”289. Pur ritenendo fondamentale la teoria dell’alienazione – che “indica l’assenza di radici dell’uomo occidentale”290 – per delineare una via di accesso autentica all’umano Grassi – sulla scia di Heidegger –considera poco sostenibile l’identificazione di umanità e socialità operata da Marx291. Tale identificazione avrebbe come conseguenza la “riduzione del materialismo a pensiero della tecnica”292. E sappiamo che Grassi accoglie la lezione heideggeriana per la quale la tecnica è estrema propaggine della metafisica. Ma occorre andare oltre la “barbarie della riflessione” e qui interviene Vico che di volta in volta supera, secondo Grassi, i limiti delle prospettive toriche degli autori – in questo caso Marx e Heidegger – in una sintesi filosofica che coniuga giurisprudenza, poesia e retorica con le tematiche del lavoro e della Lichtung. Asserisce il filosofo milanese che “il lavoro per Vico è un adattamento dell’impatto diretto e immediato con la natura, un adattamento mediante il quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli sceglie le figure di Ercole e Cadmo come simboli di essa”Cfr., Id., Vico, Marx e Heidegger, apparso in origine in Vico and Marx. Affinities and contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands (New Jersey) 1983, ora in Vico e l’umanesimo, cit., pp. 173-191. 288 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 92. 289 Id., Vico, Marx e Heidegger, cit., p. 190. 290 Ivi, p. 189. 291 Ivi, p. 190. 292 Ibidem. 293 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86.  ! 98!  L’uso vichiano dell’universale fantastico294 di Ercole – vera e propria tipologia poetico-simbolica utilizzata ai fini della comprensione delle origini mitiche della storia dell’umanità –, o meglio degli Ercoli295, è finalizzato alla rappresentazione della faticosa impresa umana della costruzione della società il cui mito, narrato nella Scienza nuova, non appare a Grassi come una concessione al gusto antiquario della ricostruzione erudita dell’antichità ma come il simbolo “dell’assoggettamento della natura [...] che porta all’autoaffermazione dell’uomo”296. Secondo Grassi “Vico costruisce la sua teoria dei generi e degli universali fantastici non mediante l’astrazione, ma creando, secondo i suoi termini, i ritratti ideali, i caratteri esemplari [...] così il concetto fantastico cristallizza un essere attraverso un atto dell’ingegno con una visione diretta di una totalità pittorica. Esso rappresenta una figura contemporaneamente esemplare e allegorica”297. Tale logica della fantasia fondata sui generi universali e fantastici assume il ruolo di primo coordinamento delle idee che ha carattere arcaico, poiché è fondante rispetto alla razionalità, e immediato, indicativo, semantico. Sullo sfondo degli universali fantastici si staglia la figura di Ercole che ha non solo il ruolo di carattere poetico ma quello di fondatore della comunità storica dell’uomo. Come osserva lo studioso di Vico Giuseppe Cacciatore “il ricorso vichiano al genere fantastico aiuta, dunque, a comprendere quella costitutiva procedura del pensiero che riduce a generi e a caratteri la molteplicità dispersa delle cose naturali”, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, pp. 53-70, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 65. Recita la Degnità XLIX “queste tre Degnità ne danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i quali costituiscono l’essenza delle Favole: e la prima dimostra la natural’inclinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro: la seconda dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del Gener’umano, non essendo capaci di formar’ i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o universali fantastici da ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti”, in Sn 44, in G. B. Vico, la Scienza Nuova, cit., p. 872. 295 Vico, infatti, nella sua ricostruzione della complessa trama della cronologia dela storia universale menziona gli Ercoli, i Bacchi, i Sesostri quali prototipi dei fondatori delle città che hanno avuto sempre un eroe nella loro genesi. Afferma Vico in SN ’44 che “questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercoli tralle Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si poterono fondare senza religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’ lor’ incominciamenti selvagge, e chiuse”, Sn 44, ivi, p. 871, Degnità XLIII. Cfr. sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili osservazioni di G. Cacciatore esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di Vico, pp. 169-178, in Id., In dialogo con Vico, cit. 296 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. 297 Id., La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, cit., p. 54.  ! 99!  Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola attraverso il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano. L’uccisione del leone nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella quale l’uomo erra nel terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di fondazione della civiltà. Lo stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura afferma che “questa scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole [...] il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi politici”298. Attraverso la lettura del mito di Ercole Grassi rintraccia in Vico una prima teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con l’ingegno, la fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di Lichtung e con l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si chiede il pensatore: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”299. Quale importanza G. annetta al ruolo, al contempo storico e filosofico-speculativo, che svolge, nel complesso del suo itinerario onto-antropolo-logico, la questione dell’origine dei processi storici dell’umanità è testimoniato dalla collocazione del tema della Lichtung – che accomuna Vico e Hiedegger – accanto a quello del lavoro – che vede fianco a fianco Vico e Marx. Sostiene il filosofo in Vico e l’umanesimo che “secondo l’opinione di Vico, grazie alla radura aperta nella foresta originaria”, attraverso il lavoro, “divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”300. Si intrecciano indissolubilmente le questioni del disvelamento/Lichtung – la vera “chiave maestra” della lettura grassiana degli umanisti – quella del lavoro nel suo significato esistenziale e quella delle strutture dell’esistenza umana. Nella prospettiva del pensatore milanese è attraverso il lavoro, l’atto di umanizzazione della natura – il disboscamento G. Vico, Sn 44, cit., p. 786. 299 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 251. 300 Ibidem.  ! 100!  della selva primordiale – che si apre quello spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana che ha “origini favolose” dicibili solo attraverso un linguaggio poetico. Come è emerso dalle precedenti riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a partire dal tema della Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo piano è una densa concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza umana. Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui concetti ora ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica della metafisica immanente o ontologia situazionale grassiana e sul nesso essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di ricerca G. enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti – e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in Grassi è analizzata da due punti di vista: storico e teoret  ico. Egli afferma l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia sul terreno speculativo sia su quello storico in un saggio su Jaeger Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo Grassi “questa essenza della natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire concepita come qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo può avere il suo fondamento [...] solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il vero umanesimo deve essere oggi filosofia. Ciò vale non solo speculativamente, ma anche storicamente”E. Grassi, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo Editore, Lecce, 1991, p. 30. 302 Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., I primi scritti, cit., p. 258.  ! 102!  La ricerca grassiana si configura, da un lato, come riflessione storica sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi degli umanisti ha l’aspetto di una re-interpretazione filologico-speculativa di quel nucleo essenziale – la Lichtung – venuto ad espressione consapevole con Heidegger. L’attenzione accordata alla filologia, che per Grassi non si riduce a “una mediazione delle opere antiche”303 ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola304, conduce verso una dilatazione del periodo storico dell’umanesimo sia in direzione del passato sia in direzione delle epoche successive. Entrano così a far parte della tradizione umanistica anche gli autori della latinità quali Cicerone e Quintiliano; quelli barocchi come Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi e, in ultimo, lo stesso Heidegger, il quale ha concettualizzato in forma teoretica densa ed esplicita il tema della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro lato, accanto alla lettura testuale, affiora un’indagine teoretica sui temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività e sulle strutture d’essere dell’uomo. Proprio su questi aspetti ci concentreremo maggiormente in questo capitolo prendendo in considerazione due gruppi di saggi. La selezione di questi saggi – tutti risalenti al periodo compreso tra gli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta – è stata guidata dall’idea di una presenza nel filosofo di un’attenzione alle strutture dell’esistenza umana, connesse alla questione di quella che potremmo definire “ontologia  Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, in Id., I primi scritti, cit., pp. 871-886, p. 883. 304 Per G. occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione: “come è noto, la tradizione filosofica italiana ha inizio proprio con l’umanesimo e il rinascimento. Come ho già accennato altrove, il filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...] ricordo solo che il compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”, ivi, p. 881. Cfr., anche Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, p. 72: “Il processo interpretativo, prima di divenire il metodo delle moderne scienze scienze naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito delle scienze dello spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della formazione non è tanto la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo sviluppo della capacità interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi tramandatici stabiliamo la relazione con la comunità umana del passato e soltanto in questa e con questa relazione possiamo giungere al nostro proprium, in quanto siamo esseri storici.] FENOMENOLOGIA SEMANTICA [cf. AUSTIN] di G., in cui il tema dell’essere [GRICE, IZZING], identificato con quello della manifestazione e delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello SEMANTICO, come campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel fondamentale saggio SIGNIFICARE ARCAICO in cui è condensato tutto il valore della proposta retorica grassiana. Solo partendo dall’analisi del contenuto tematico di questi contributi è possibile una più profonda comprensione delle indagini grassiane sull’Umanesimo e sul Rinascimento storici su cui la bibliografia si è concentrata maggiormente. Del gruppo comprendente Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, Dell’apparire e dell’essere, Il problema del logo, Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, saranno selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, i quali mostrano la volontà grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. In questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,305 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale non come esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti saggi: Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, Apocalisse e storia, L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, Assenza di mondo. In quest’ultimo gruppo di articoli emergono alcuni concetti fondamentali che trovano un’articolazione in una analitica Per una ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di G. cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti] esistenziale che mira a svelare le “strutture esistenziali del mondo del Da-sein”306. Le osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul fondamento teorico – l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla rivalutazione di Grassi dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la riflessione grassiana sull’umanesimo sullo sfondo ontologico e fenomenologico dei saggi giovanili dedicati ai concetti di apparire, essere, manifestatività e delle idee connesse di disancoramento, angoscia, coscienza temporale umanistica, oggettività, dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto, Grassi mostra nella sua disamina degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei confronti delle letture storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso gravate dal pregiudizio idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di una collocazione del tema onto-antropo-logico sul terreno strettamente speculativo, teoretico. Nella prospettiva del filosofo “il termine umanesimo è diventato più che mai polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista storico, si parla di un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di un umanesimo da un punto di vista politico [...] sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico: si tratta dunque di delimitare una concezione speculativa dell’uomo che prenda chiara posizione di fronte ai differenti motivi speculativi nei quali si rispecchia la nostra attuale coscienza filosofica. Che significato speculativo può oggi avere un umanesimo?”307. Indagare questo significato speculativo dell’umano, al di là della polisemia che inevitabilmente lo connota, per Grassi significa affrontare il problema della reinterpretazione antitradizionale della filosofia umanistica nella convinzione che la filosofia umanistica abbia costituito il fulcro e la svolta del pensiero filosofico occidentale, la vera “rivoluzione copernicana”308. Il compito di questo progetto neoumanistico che già dalla metà degli anni Venti emerge – a partire dal saggio su Machiavelli analizzato in precedenza – per rifluire nelle riflessioni filosofiche successive, si articola come ricerca dell’unità di senso della realtà, come compito preliminare nel processo di determinazione di una teoria dell’uomo che !E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 243 e sgg.! 307 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 261, “Il rovesciamento della filosofia, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con Descartes né con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che derivano dalla nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della preminenza dell’immagine, possono essere discusse solo sulla base di un’ulteriore ricerca sull’essenza della tradizione umanistica italiana”.  ! 105!  mantenga l’originaria integrità e unità delle sue strutture fondamentali. Negli stessi anni in cui i maggiori esponenti dell’antropologia filosofica del Novecento – Scheler309, Plessner310, Gehlen311 –  Max Scheler in La posizione dell’uomo nel cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca antropologica come scienza fondamentale dell’essenza e delle strutture essenziali dell’uomo. Esplorare la dimensione umana e la sua posizione nel cosmo comporta un confronto con le dimensioni della spiritualità del conoscere, dell’amare, del volere. Per Scheler l’indagine sull’uomo della nuova antropologia prende le mosse da ciò che è esterno all’uomo per poi indagare e definire la sua essenza: “è compito di un’antropologia filosofica mostrare esattamente in che modo scaturiscano dalla struttura fondamentale dell’uomo, tutti i monopoli, le funzioni e le opere specificamente umani: come la lingua, la coscienza morale, lo strumento, l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo Stato, l’azione di guida, le funzioni espressive delle arti, il mito, la religione, la scienza, la storicità, la socialità”, M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M. T. Pansera, Roma 1999, p. 186. Scheler analizza l’impulso affettivo “privo di coscienza, di sensazione e rappresentazione” che è presente nelle piante e nei gradi più bassi del mondo organico; l’istinto che è un comportamento teleologico; la memoria associativa il cui fondamento è il processo del riflesso condizionato, basato sul principio del successo e dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in maniera spontanea ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica caratterizzante la facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante fondamentale tra l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di spirito, il Geist che rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da parte dell’uomo e lo svincolarsi dal legame con quanto è organico: “la caratteristica principale di un essere spirituale consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la vita [...] un essere spirituale non più legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo.] Per Plessner occorre partire dal concetto di vita che costituisce la “parola chiave di un’intera epoca”, H. Plessner, I gradi dell’organico, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino. All’interno della impostazione plessneriana l’uomo è contraddistinto dalla sua posizione eccentrica: l’eccentricità è la disposizione dell’uomo rispetto al mondo nei confronti del quale si trova de-situato. Plessner, a conclusione di I gradi dell’organico. Introduzione all’antropologia filosofica, passa in rassegna tre leggi antropologiche fondamentali: la legge dell’artificialità naturale secondo cui l’uomo non vive in modo rassicurante nel suo ambiente immediato ma in modo artificiale, costruendo a partire da una natura una cultura; la legge dell’immediatezza mediata secondo cui l’uomo si appropria di ciò che gli è dato in precedenza in modo immediato attraverso forme di mediazioni quali invenzioni, scoperte, conoscenze; la legge del luogo utopico che afferma che l’uomo prende le distanze dall’immediatezza e volge il suo sguardo verso un fondamento assoluto del mondo che in sé non ha alcun fondamento. Egli afferma che “la sua forma eccentrica spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni che possono essere soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme imprime loro il marchio della caducità.] Gehlen si pone sulla linea di ricerca scheleriana elaborando una idea di uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, partendo dai risultati multidisciplinari delle scienze positive. L’antropologia “elementare” gehleniana, partendo dagli aspetti più semplici che accomunano l’essere umano all’animale sottolinea allo stesso tempo la specificità dell’umano che consiste paradossalmente nella sua indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi sono contraddistinti da un indice di specializzazione alto come testimoniato dallo sviluppo della percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza che però stimola latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono l’uomo autodeterminabile proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di tutto l’uomo è l’essere determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave per poter comprendere un essere che agisce sulla natura per trasformarla al fine di assicurare la sua sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per una serie di caratteristiche: la “primitività” del suo corredo organico e istintuale; la sua “incompiutezza”; la sua “non-specializzazione” organica. Già Herder aveva tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava all’uomo come ad un “essere biologicamente carente”, un “essere manchevole”, un essere privo persino di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen “la “deficienza organica” e le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò considerate alla luce dell’idea cardine della “non-specializzazione”: [...] primitivo è = non specializzato = originario, o in senso ontogenetico (embrionale) o in quello filogenetico (arcaico). Per specializzazione è da intendersi la perdita della pienezza delle possibilità esistenti in un organo non specializzato, a vantaggio del grande sviluppo di alcune di queste possibilità a spese di altre, cfr., A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, pp. 127-128. Accettando il paradigma interpretativo della carenza si pone il problema di coniugare questa non specializzazione umana con il suo esser collocata all’interno di una catena biologica evolutiva. La dotazione organica non specializzata dell’uomo e i suoi primitivismi rendono problematica la sua esistenza che solo grazie all’azione e alla costitutiva apertura al mondo continua e progredisce. Categoria fondamentale all’interno ! 106!   elaborano le note teorie sull’uomo, Grassi, forte della sua formazione culturale a metà strada tra filosofia italiana, filosofia tedesca e francese, sente l’esigenza di indicare l’insufficienza sia di un approccio scientifico all’uomo sia i limiti di una impostazione speculativa classica mediata soprattutto dalle letture heideggeriane di cui abbiamo già detto. Attraverso l’analisi delle teorie degli esponenti dell’antropologia gehleniana è quella dell’esonero Entlastung che indica la capacità umana di distaccarsi dagli oneri del mondo esterno. L’esonero costituisce il primo atto per spezzare il cerchio dell’immediatezza e per liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve allontanarsi dalla pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una distanza sempre maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt, l’ambiente, in un mondo abitabile, la Welt.  ! 107!  della biologia teoretica quali Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315, Grassi cerca di porre in luce gli aspetti negativi che derivano dalla confusione del “contributo delle scienze con quello della filosofia”316 . Accogliendo la critica crociana alla perdita di autonomia del filosofo che [Driesch è un biologo e filosofo tedesco. Egli lavora a NAPOLI presso la stazione zoologica e successivamente insegnò a Heidelberg tra il 1909 e il 1920 Filosofia della natura, in seguito anche a Colonia e Lipsia. È convinto assertore del vitalismo contro la teoria meccanicistica di matrice darwiniana. Il suo pensiero è diretto verso la valorizzazione del finalismo della natura e verso il riconoscimento dell’importanza dell’entelechia, concetto ripreso da Aristotele, interpretata come principio immanente superindividuale. Tra le opere più importanti ricordiamo Storia del vitalismo, Filosofia dell’organismo, Corpo e anima, Il problema della libertà, Metafisica. Di Driesch G. mette in luce il neo-vitalismo presente nelle osservazioni sulla vita organica e l’importanza del concetto di entelechia esposto da Driesch in Philosophie des Organischen. G., in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, sostiene che “in molti ambienti la filosofia rimane concepita sul fondamento delle scienze, cioè sintesi e classificazione di fatti, ed è perciò stesso incapace di raggiungere in questa forma un reale valore conoscitivo e metafisico. L’influenza di concezioni simili si scorge oggi in tutta quella corrente speculativa della filosofia tedesca contemporanea che ha vivo l’ideale empiristico di una scienza naturale elaborata in filosofia, filosofia della natura, che in realtà non diventa che un prospetto empirico di scienze naturali e di arbitrarie ipotesi naturalistiche. Appartengono a questa corrente di idee Driesch, o zoologi come Plessner – che con osservazioni scientifiche e biologiche tentano di raggiungere una costruzione metafisica nella sua Philosophie des Organischen a mezzo dell’analisi dello sviluppo delle forme dell’organismo e mettendo in luce con osservazioni biologiche l’originalità della vita organica, egli giunge ad una concezione neovitalistica. Le sue osservazioni biologiche, la sua teoria dei sistemi equipotenziali, assumono un’importanza scientifica ed egli concluse che accanto ai fattori fisici e chimici, per spiegare un organismo, è necessario ammettere un nuovo fattore, che egli chiama entelechia”, in Id., I primi scritti, cit., pp. 165- 166. Cfr., anche Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., pp. 299-332, in particolare il primo paragrafo dedicato a Driesch, pp. 299-305. 313 Di Plessner Grassi evidenzia i limiti strutturali che l’approccio scientifico all’umano inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che “una concezione di una filosofia fondata sulla scienza la troviamo anche in altri pensatori come Plessner, scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore di Die Einheit der Sinne. Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più recentemente di un altro volume Die Stufen des Organischen un der Mensch. Einleitung in die philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta di fatti e le osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non raggiungono una concezione speculativa. Una antropologia non diventa speculazione e affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico ai gradini della realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute gerarchie del reale e risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come atto dello spirito, ivi, p. 168. In questo passo emerge la convinzione grassiana – di evidente ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle coeve antropologie filosofiche che per diventare autentiche meditazioni sull’uomo devono collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a partire dall’idea di atto e non di dato. 314 Grassi richiama l’attenzione sul concetto uexkülliano di cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue teorie sia nel saggio Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (cit., p. 205) sia più diffusamente in La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; infine in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 315 Cfr., Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 67-69. Grassi sottolinea la connessione istituita da Gehlen tra apertura di mondo e cultura. 316 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, In Id., I primi scritti, cit., p. 204. ! 108!   si è messo a servizio della scienza espressa in Logica317 G. asserisce che la concezione bio- metafisica su cui l’empirismo si basa “si traveste oggi assumendo nuove forme in veste anti- positivistica”318. L’empirismo va messo da parte, così come gli altri modi di accedere all’umano che la coeva filosofia tedesca aveva prodotto, poiché non supera “gli schemi del procedere naturalistico”319 che si avviluppa in “pseudo-concetti che sulle generalità scientifiche vorrebbero fondare distinzioni filosofiche”320. Il riferimento polemico è alle correnti neokantiane, allo storicismo diltheyano, alla fenomenologia husserliana321 incapaci di elevarsi a quella metafisica esistenziale che solo Heidegger ha portato ad espressione. A questo punto appare indispensabile soffermarsi, seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e Husserl, la cui conoscenza costituisce una tappa importante per la comprensione dell’atteggiamento speculativo grassiano. In Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger Grassi mette insieme storicismo, fenomenologia, metafisica esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch “presenta una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due pensatori, l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio del XX iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo”322. In che senso si parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella metafisica immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza l’attualismo323?  B. Croce, Logica, Laterza, Bari 1920, p. 264: “perché quando non si tratta d’altro che di classificare e di sistemare quei risultati, lo scienziato sente a ragione di non aver bisogno del soccorso dei filosofi”. 318!E. Grassi, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 205.! 319!Ibidem. 320 Ibidem. 321 Cfr. sulla critica a neokantismo, storicismo e fenomenologia gli articoli di indole informativa generale che seguono: Id., Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., e Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., 181-202. 322 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. Cfr., anche le pagine grassiane su Heidegger del saggio Was ist Existentialismus?, pp. 75-124, in N. Abbagnano, Philosophie des menschlichen Konflikts. Eine Einführung in den Existentialismus, Rowohlt, Hamburg 1957, soprattutto pp. 91-97 e 106-114. 323 Già nel saggio del 1929 Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea (in Id., Primi scritti, cit., pp. 181-202) Grassi, sviluppando in forma più articolata le poche battute su Heidegger contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (p. 174), afferma quell’identità di problemi tra attualismo ! 109!   La “meditazione diltheyana” di Grassi si focalizza soprattutto sui concetti di Lebenzusammenhang, di Weltanschauung e di psicologia324. Secondo il pensatore milanese Dilthey fu il primo a intravedere il problema della realtà e della storia come problema della realtà vivente, rivendicando l’importanza dei sui scritti speculativi e tralasciando quella dei testi a carattere maggiormente storico325. In Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (1929) leggiamo che il problema dal quale muove Dilthey, quello della distinzione tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, di scarsa importanza in sé rileva Grassi, va ricondotto alla più generale operazione teoretica di ricerca intorno al fondamento spirituale delle scienze dello spirito individuato in “una scienza di carattere psicologico. Gli elementi del mondo storico sono gli individui, quindi lo studio di essi e la descrizione dei vari tipi di vita spirituale diventa la base della comprensione storica [...] l’esame della struttura della vita dello spirito cerca di conquistare nella molteplicità di situazioni coesistenti la sua caratteristica unità”326. La psicologia diltheyana per Grassi ha il merito di ricondurre ogni concreta realtà storica alla concatenazione vitale dell’atto di coscienza in cui si realizza il rapporto tra io e mondo. Tuttavia il e ontologia immanentistica heideggeriana che in Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger del 1930 troverà una articolazione teoretica più approfondita. Infatti, in Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea leggiamo che “Heidegger realizzò una delle più importanti speculazioni metafisiche immanentistiche ed una delle più rigorose critiche del tentativo di Husserl. L’interpretazione e o sviluppo attualistico del pensiero fenomenologico assume un significato storico e teoretico tutto particolare”, p. 198. 324 Per una analisi dettagliata di questi temi diltheyani rimando alle osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e filosofia in Dilthey, 2 Voll., Guida, Napoli 1976; Id., Dilthey: connessione psichica e connessione storica, pp. 211-223, in AA. VV, Una logica per la psicologia, Il Poligrafo, Padova 2003; Id., Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione fondante di conoscere e fare, pp. 17-58, In Id., Storicismo problematico e metodo critico, Guida, Napoli 1993; cfr., ivi anche Id., Spirito oggettivo e oggettivazione della vita: Dilthey e Hegel, pp. 105-125; Id., La tipologia delle visioni del mondo tra critica storica della ragione ed essenza della filosofia, pp. 153-172; Id., Il fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, pp. 249-287; Id., Ortega y Gasset e Dilthey, pp. 289-318; Id., Vita e storia tra Zubiri e Dilthey, pp. 177-187, in Id., Saggi di filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna 2013; Id., Dilthey tra universalismo e relativismo, pp. 213-230, in Id., Dallo storicismo allo storicismo, ETS, Pisa 2015. 325 “Durante la sua vita i suoi sforzi teoretici passarono quasi inosservati e anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per alcuni anni completamente dimenticato come filosofo, mentre i suoi lavori storici venivano molto apprezzati [...] i primi suoi lavori sono tra i più notevoli della storia e della filosofia dei suoi tempi: l’acutezza delle indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o di una personalità danno ai suoi saggi grandissimo valore e molti lo considerano come il più grande “Geistesgeschichtsschreiber” dopo Hegel [...] ma l’importanza e l’interesse che Dilthey desta in seno alla filosofia tedesca – per cui dobbiamo fermarci in modo particolare sulla sua figura – è dato non dai suoi lavori storici, ma dai suoi scritti di carattere speculativo e polemico”, E. Grassi, Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 171-172. 326 Ivi, pp. 172-173.  ! 110!  passaggio auspicato dal pensatore milanese da una “teoria dell’atto di comprensione” ad una “metafisica immanente” rimane incompiuto nel filosofo tedesco che “non giunse alla chiara coscienza che una volta riconosciuto il tratto fondamentale del reale nell’atto completo di comprensione, se ne coglie al tempo stesso il carattere assoluto che impedisce ogni relativismo”327. Così per il filosofo italiano Dilthey ricade nell’astrattismo di una “tipologia che prese il posto della filosofia”328, la quale riduce la fondamentale categoria della Lebenzusammenhang a forme astratte, a classi e tipi e al relativismo329. Se le riflessioni su Dilthey pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza concreta e le strutture psicologiche che soggiacciono alla costruzione del mondo storico umano, quelle su Husserl mettono in risalto il tentativo di riconquistare il rigore alla filosofia – il progetto di una filosofia come scienza rigorosa – un rigore metodologico, che invera “la psicologia fenomenale di F. Brentano”330. In Linee della filosofia tedesca contemporanea Grassi sostiene che “la meta di Husserl fu la conquista di un fondamento assoluto e universale su cui costruire con sicurezza la ricerca filosofica [...] egli scorse con chiarezza l’impossibilità di fondare la filosofia sulle scienze”331. Una critica radicale in questo senso è costituita dalle Ricerche logiche che tentano di “raggiungere il concetto della logica, della filosofia come scienza a priori, libera da ogni empirismo”332. Per il filosofo milanese, Husserl individua il fondamento del reale attraverso la riduzione fenomenologica, la quale, sospendendo ogni  Ivi, p. 174. 328 Ibidem. 329 Cfr. sulla critica grassiana al concetto di tipologia anche, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea (1933), pp. 299-332 in Id., I primi scritti, cit., soprattutto le pp. 307-311 e ivi Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., soprattutto pp. 420-421. 330 Cfr., Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, pp. 181-202, in Id., I primi scritti, cit., p. 182. 331 Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 313-314. 332 Ibidem.  ! 111!  giudizio di esistenza333 – epochè –, guadagna una certezza indubitabile: “il mondo della coscienza pura coi suoi vari momenti e significati [...]. Non c’è più il mondo dommaticamente affermato e poi la sua rappresentazione, ma solo l’immediato essere del mondo come oggetto ideale della nostra coscienza”334. Questo mondo trascendentale è il Vorurteil, il quale condiziona ogni nostro giudizio di esistenza e rende possibile quella scienza fenomenologica che coniuga la ricerca sulle proposizioni formali della logica con i temi etici ed estetici. Il cuore della fenomenologia è colto da Grassi nell’andare zu den Sachen selbst tramite la Wesenschauung. Infatti, sempre in Linee della filosofia tedesca contemporanea, il filosofo sottolinea come la fenomenologia non sia una metafisica ma “un metodo a mezzo del quale si isolano degli elementi assoluti, trascendentali, coi quali ciascuno può e deve costruirsi con rigore scientifico un concetto della realtà [...] le essenze logiche non possono venirci dimostrate, ma possono solo mostrarsi per se stesse a mezzo della loro evidenza, chiarezza e distinzione, immediatezza ultima. La fenomenologia non vuole essere una costruzione, ma semplicemente un esame intuitivo, uno “schauen” dei concetti [...] coglie così l’essenza delle cose e pretende di andare direttamente zu den Sachen selbst”335. I concetti husserliani su cui egli si sofferma maggiormente sono quelli di epochè, riduzione fenomenologica, Vorurteil, evidenza336. L’analisi di questi temi, da un lato, sottolinea l’importanza e la fecondità speculativa della fenomenologia husserliana – poiché seppe con maggior forza contrapporsi all’empirismo e al naturalismo rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma, dall’altro,  G. riesce a cogliere in poche battute tutto il senso della riflessione husserliana: “se noi ci manteniamo in un fondamentale e metodico atteggiamento critico rispetto al reale e cerchiamo di raggiungere un ultimo fondamento sul quale non sia più possibile esercitare il nostro dubbio, (e che come tale costituisce la base sicura su cui poggiare ogni altra affermazione o costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere trascendentale, assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni giudizio di esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di molteplici significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così o così nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso come inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare il nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio”, ibidem. 334 Ivi, p. 315. 335 Ivi, p. 316 336 Cfr., V. Costa- E. Franzini- P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002. 337 “La posizione di Husserl, come abbiamo visto, è caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali, storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112!   getta luce sui limiti intrinseci di ciò che Grassi definisce “positivismo razionalistico”. La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce il “dato empirico al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di fatto dell’empirismo il dato del mondo razionale”338. Da qui la definizione di positivismo razionalistico”339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti della filosofia tedesca coeva secondo Grassi – non hanno declinato queste ricerche in direzione di una metafisica dell’essere come “concreto sviluppo storico, processo di autorealizzazione immanente”340. Questo inveramento si ha con Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno dell’orizzonte metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger Grassi afferma che nel lavoro del pensatore di Messkirch “confluiscono così in un fecondo superamento gli sforzi di Husserl e Dilthey: la medesima analisi del Dasein come fondamentale atto di rapporto e il suo dettagliato sviluppo seguito piano per piano, attraverso le varie forme di esistenza, non è che un riprendere il tentativo di Dilthey [...] la ricerca del significato d’essere attraverso la concreta analisi del Dasein è sufficiente a mostrare un nuovo orientamento della sua fenomenologia”341 che non ha una componente intuizionistica – sia essa intesa come l’intuizione eidetica husserliana o nel senso generale irrazionalistico e vitalistico –, ma si pone come ricerca della concreta storicità dell’esistente: la fenomenologia diviene Hermeneutik der Faktizität. Solo sulla base di un’analitica dell’esistenza è possibile porre la questione ontologica e fenomenologica – dove per fenomenologia dobbiamo intendere l’analisi di stampo hegeliano dei vari momenti e sviluppi della realtà storica. Grassi afferma che il pensiero di Heidegger assume una particolare rilevanza per quanto riguarda il problema metafisico mostrando una certa affinità con i pensiero segnò un momento fondamentale in seno alla filosofia tedesca contemporanea contrapponendosi con maggiore chiarezza di Dilthey all’empirismo ed al naturalismo nelle sue più varie forme”, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323. Cfr., anche le pagine dedicate a Husserl in E. Grassi, Was ist Existentialismus?, cit., soprattutto le pp. 80-91. 338!Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323.! 339 Ibidem. 340Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 341 Ivi, p. 223.  ! 113!  temi dell’attualismo. Il filosofo italiano sostiene in Il problema della metafisica immanente che “pur essendo nato da problemi e posizioni speculative completamente lontane dalle premesse del pensiero immanentistico italiano esso giunge a delle conclusioni che rivelano un’aspirazione metafisica”342. Il significato e l’importanza di quella originaria “attualità esistenziale – per cui l’essere si dà precedentemente a qualsiasi riflessione – il suo superamento ed inveramento della logica astratta nella logica concreta, e a sua volta la posizione che questa logica concreta ha in seno ad una metafisica esistenziale” 343 ha un’importanza tutta particolare per Grassi ed implica una serie di problemi decisivi: proprio in relazione alla questione della metafisica esistenziale “comincia a delinearsi la precisa posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano e all’attualismo idealistico di Gentile”344. Sullo sfondo di quanto appena detto, possiamo comprendere come nelle analisi grassiane degli anni Trenta siano molto vivi i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati a quelli dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture esistenziali umane che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia attualistica di Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La coappartenenza di queste problematiche mette in luce una triplice costituzione del pensiero grassiano: ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di esporre nel corso della trattazione, il pensiero di Grassi si configura come riflessione ontologica perché si muove nell’orizzonte dell’essere e della ricerca del suo senso: l’essere è inteso alla luce della differenza ontologica (concetto mutuato da Heidegger) come manifestatività e allo stesso tempo trascendenza, per cui il piano ontologico che si manifesta in quello ontico – l’ente come ciò che appare nella sua differenza dall’essere – si sottrae all’orizzonte di pura luminosità dell’apparire proprio nel suo differire. Attraverso la lezione heideggeriana G. coniuga il problema  Ivi, pp. 226-227. 343!Ibidem.! 344 Ibidem.  ! 114!  della trascendenza, così vivo nella sua formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella fase gentiliana della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui immanenza e trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni sulla Lichtung caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro non è che la parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di immanenza e trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il problema dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo afferma che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”345. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o meno larvata di antropologia tout court, è la problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema del contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca delle strutture del mondo umano. In questa ricerca grassiana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, lasciatogli in eredità da Heidegger, ritroviamo una centralità della dimensione ontica – le concrete Lichtungen – che dal suo maestro degli “anni mitici” sembra essere stata accantonata a favore di una concentrazione più sugli aspetti di oblio dell’essere della filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere si dà in maniera autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio dell’essere, in Grassi riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia dell’evento autentico dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui temi umanistici. La riflessione di Grassi è poi antropologica perché attenta all’orizzonte umano a partire dal quale si pone la domanda sul senso dell’essere: l’universo linguistico e artistico del mondo umano in cui accade la verità dell’essere. In Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che l’analisi del  Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. I corsivi sono nostri. ! 115!   contesto originario si declina innanzitutto come ricerca linguistica: “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...] il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”346. Con l’umanesimo, secondo il filosofo, non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Grassi, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per il pensatore occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, al contrario, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione umana”347. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”348. Infatti, per il pensatore milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il senso classico dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in Grassi in ricerca dell’unità di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La delucidazione del nesso logos-on o, per usare i termini  Ibidem. I corsivi sono nostri. 347 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 80. 348 Ibidem.  ! 116!  grassiani, della correlazione di verbum e res, induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica, della metafora, della fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come l’ontologia grassiana sia un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi, scorci, campi, forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché il metapherein – la trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a G., del nostro atteggiamento verso il reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, ossia in Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”349 in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni indicativi”350 provenienti dal “colloquio con l’abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo l’indeterminato”351. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”352 che mette in campo una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca l’importanza dell’esperienza storica”353. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire la natura temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre diversi significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da qui  349 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica, Napoli 1992, p. 165. 350 Ivi, p. 14. 351 Ibidem. 352 Ibidem. I corsivi sono nostri. 353 Ivi, p. 15.  ! 117!  la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, su cui ci soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”354; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”355, abbiamo il logos ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Ritornando al nesso metafora-concetto Grassi afferma che a quest’ultimo “spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Il significato di hòros può essere colto nella sua portata originaria soltanto mediante il verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs) esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”356, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora, non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”357, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”358, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno identificati con il nous aristotelico interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel loro  354Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 355 Ibidem. 356Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 357Id., Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma 1966, pp. 479-495, p. 494. 358Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202.  ! 118!  carattere palesante e immediatamente indicativo”359, profondamente influenzate dall’analisi heideggeriana della Einbildungkraft kantiana come “facoltà di darsi le vedute”360. Del resto, sebbene Grassi non citi nella sua analisi più sistematica della fantasia, ossia nel testo La potenza della fantasia, la teoria kantiana della Einbildungskraft, egli conosceva benissimo la lettura offerta da Heidegger della facoltà di immaginazione kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e il problema della metafisica definito in uno dei primi saggi come il lavoro che più “sembra atto ad introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la sua terminologia”361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria kantiana da parte di Grassi sia dovuto a un’interpretazione del kantismo sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui Grassi si sofferma a più riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante, intellettualistica ed astratta, Grassi riconosce l’importanza di Cassirer che “ha [...] il merito di essere il più importante storico della filosofia che questa scuola abbia dato”.363 Oltre al tema linguistico, nell’analisi del mondo umano, emergono i concetti di disancoramento e angoscia, dalla temporalità cairologica come struttura di temporalizzazione fondamentale dell’esserci in cui i tre momenti del tempo si co-appartengono e rendono possibile il raggiungimento del secondo livello di oggettività: quello della coscienza temporale umanistica (l’oggettività di primo livello è quella della physis in quanto diastema), in cui gioca un ruolo fondamentale la decisione come espressione della storicità del mondo umano e della sua formazione (Bildung), che in questo modo  359Id., Significare arcaico, cit., p. 494. 360 Cfr., M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma- Bari, 2004. 361 Cfr., E. G., Heidegger e il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 362 Cfr., le riflessioni sul “ritorno a Kant” contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., soprattutto pp. 164-165; Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 301-302. 363 Ivi, p. 165.  ! 119!  acquista un carattere esistenziale. Infatti “esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo, senza evitare la decisione richiesta”364. Sul terreno ontologico dinamico in cui il discorso sull’essere è imprescindibile da un discorso sulle forme dell’apparire dell’essere – fenomenologia – e sul suo senso nell’orizzonte umano di esistenza – semantica – si comprende la critica grassiana alla struttura soggettocentrica e logicista della filosofia. Per il filosofo “si manifesta sempre la preminenza dell’urgere della passionalità, in quanto continuamente affiora nell’ambito della contraddizione logica dell’esperienza che l’essere non si rivela mai completamente nel divenire degli istanti. È in questo divenire del metaforico traslarsi del reale che viene passionalmente vissuta la contraddittorietà della logica astratta. Questo ritmo arcaico del palesarsi e dell’occultarsi non cessa mai, è esso che ordina – nei limiti di storiche, differenti radure – che appaiono in istanti – i tumulti che incombono”365. Solo attraverso un’esperienza originaria della filosofia secondo il pensatore – esperienza preclusa alla logica astratta che è solo un determinato atteggiamento filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura per difenderci dal “vento del tempo che distrugge la stessa temporalità”366. La filosofia di Grassi tuttavia non va interpretata come una forma illogica di irrazionalismo. Anzi ciò che, a nostro avviso, va sottolineato è il valore logico della sua ricerca che tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Sorretta da una simile struttura onto-antropo-logica, la ricerca grassiana mira a sondare “la legittimità di tutti quegli pseudo-umanesimi che credono di poter dedurre secondo i canoni delle scienze naturali la realtà dell’uomo”.367 La messa in discussione dell’impostazione scientifico- naturale del problema dell’uomo avviene attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e oggettività, angoscia e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a quelli di logos, pathos  364Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. 365Id., Il dramma della metafora, cit., p. 15. I corsivi sono nostri. 366 Ibidem. 367 Id., Heidegger e il problema della metafisica, cit., p. 203.  ! 120!  e manifestatività. Nelle analisi che seguono, cercheremo di ridurre ai suoi nodi teoretici essenziali il tragitto onto-antropo-logico del pensiero grassiano. III. II. Essere, apparire e manifestatività tra logos e pathos. La fallacia dell’accusa di dualismo Secondo Grassi è possibile fare esperienza dell’essere non solo attraverso il linguaggio razionale ma soprattutto tramite la contraddizione. In La preminenza della parola metaforica egli riprende il tema già affrontato in Heidegger e il problema dell’umanesimo e analizza il problema dell’essere come fenomeno linguistico e espressione della contraddizione originaria che caratterizza il mondo. Egli sostiene che “l’ambito dell’Essere – in funzione del quale parliamo – non è quello della razionalità nel quale vige il principio di identità ed esclusione della contraddittorietà: il suo ambito è quello della contraddizione [...] siamo dunque obbligati a riconoscere che l’Essere preme, si impone, urge originariamente in un linguaggio non logico”368. Il campo in cui esperiamo l’essere come evento della contraddizione, ossia come evento della differenza ontologica, non è quello di una logica che espelle la contraddizione, ma quello di un logos che include anche il pathos. Occorre soffermarci su quest’ultimo tema e farlo interagire con quello del logos per mostrare la complessità di questi due concetti che non attestano un presunto dualismo369 nel filosofo o una kehre370 tra un “primo Grassi”, dominato dalla questione del logos in pieno clima  368Id., La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart, Novalis, Mucchi, Modena, p. 18. 369 Mi riferisco alla posizione di Massimo Marassi del quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero di Grassi e dal quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto dualismo. Egli afferma in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine che “ancora nei primi scritti la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica, costituiva una forma particolare di ordinamento della realtà che manteneva una dignità peculiare. È invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza quasi ossessiva sulla preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo, Grassi non tiene fede al tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In effetti egli avrebbe dovuto ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo capace di elidere le difficoltà del dualismo. Invece è semplicemente passato dalla preminenza della concettualità a quella del pathos, invertendo il segno del dualismo, ma restandone prigioniero”, M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, cit., p. 10. 370 Cfr. la posizione di Limongelli secondo la quale il pensiero di Grassi va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o ontologia dell’agire storico situativo. Pur accettando parte della ricostruzione del cammino di pensiero di G. – soprattutto le sezioni che mettono in rilievo la presenza di Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la tesi secondo cui in Grassi è riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in riferimento a Vom Vorrang des Logos che “tale scritto del Grassi ! 121!   attualistico, e un “secondo Grassi”, sensibile alla tematica linguistico-retorica. Secondo la nostra analisi, che coniuga la disamina storica delle opere grassiane con l’indagine teoretica sul tema onto- antropo-logico, nel pensatore milanese il filo conduttore della ricerca si identifica con l’analisi del mondo umano in tutte le sue manifestazioni. In questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta a scienza concettuale, ma vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e impegno mondano, si caratterizza come indagine fenomenologica sul “come” il reale e l’essere ci appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa ricerca più che il dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di riproporre quei dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità alla riflessione novecentesca come problemi ineludibili: teoria e prassi, natura e spirito, ragione e passione, immagine e concetto. Nella prospettiva grassiana “se si parte dal dualismo di immagine e concetto, è impossibile trovare successivamente un ponte tra i due [...] ora si tratta di riconoscere una radice comune dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale – una radice che fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo”371. La questione grassiana di delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza dell’originario, del fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di un’unità complessa che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle morse della definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di coloro che leggono il pensiero di Grassi come un passaggio da una preminenza del logos a una del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del dualismo. La “questione uomo”, intrecciandosi strettamente con quella dell’essere, non può che collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le forme dell’apparire dell’uomo e del mondo sono indagate in una sostanziale unità, quella del reale372. L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla caratterizzazione  rappresenta non solo il punto di svolta nel suo pensiero, ma al tempo stesso si presenta come il manifesto teoretico del suo progetto filosofico futuro”, S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., p. 95. 371 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto unitario e non dualistico Rita Messori in Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit. Afferma la studiosa che Grassi lega “pensiero e passione ! 122!   complessa di logos e pathos in Grassi. Ma prima di trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul tema dell’essere e della manifestatività seguendo le tappe del discorso grassiano al fine di mostrare come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a quella del logos e del pathos, siano da rintracciare i motivi di una inconsistenza del presunto dualismo grassiano. III. III. Essere e apparire Secondo l’interpretazione di Grassi l’essere si converte con l’apparire, con la manifestatività, e non va identificato, come accade nella prospettiva oggettivistica, con un dato. L’essere si dà solo e unicamente come processo della manifestazione e per gradi di evidenza e forme distinte. La necessità di riformulare la questione dell’essere è avvertita dal pensatore a partire dagli anni di confronto con Gentile, al quale Grassi fa riferimento già nel saggio La dialettica dell’amore (1924) in cui traspare una posizione anti-immanentista che poco dopo sarà soppiantata dall’accoglimento della filosofia di Gentile coniugata all’esistenzialismo heideggeriano. La dialettica dell’amore insieme al saggio Il tragico, dell’anno precedente, pongono in luce, da un lato, la centralità dei temi esistenziali del dolore e del tragico come contrassegni dell’esistenza umana373 – centralità rifluita nei testi degli ultimi anni come La metafora inaudita e Il dramma della con un duplice nodo: ciò che fa essere il pensiero è una fondazione di tipo estetico; ciò che fa essere l’estetico è il suo fondarsi nel logos. Tra logos e pathos vi è dunque un rapporto di reciproca appartenenza”, ivi, p. 66. 373 In questo saggio Grassi si autodefinisce ancora come oppositore dell’immanentismo (E. Grassi, La dialettica dell’amore, pp. 89-128, in Id., I primi scritti, cit, p. 120) e tale opposizione viene collocata dal pensatore milanese proprio sul terreno esistenziale. La questione del dolore in questo periodo ancora anti-immanentista gioca allora un ruolo importante. Essa attesta da un lato l’attenzione verso la dimensione concreta dell’esistenza che in Grassi emerge già in questi anni attraverso le letture di autori quali Unamuno, Ibsen, Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo confronto con l’immanentismo avvertito ancora come distante dal proprio orizzonte speculativo. Afferma Grassi in La dialettica dell’amore: “Il dolore assurge a un’importanza senza pari, è esso l’anima di tutto il divenire della Realtà in quanto ci permette questo essere una personalità, ossia coscienti e coscienza, che è l’essenza della nostra umanità in quanto in ciò si innesta la possibilità della libertà [...]ora al moderno pensiero immanentista che afferma la realtà, considerata come processo di coscienza, risolve ogni antinomia ed irrazionalità, noi dobbiamo chiedere che esso risolva anche il problema del dolore”, ivi, pp. 118-119. Il dolore si pone come nota distintiva dell’orizzonte umano e come limite per ogni filosofia immanentista attestando una trascendenza che ci sovrasta e che non può essere risolta nell’autocoscienza come forma pura e sintesi delle opposizioni.  ! 123!  metafora – tanto che G. giunge ad affermare che “il dolore è in realtà l’anima di tutta la dialettica del Reale”374. Dall’altro, sottolineano il legame ancora profondo di Grassi con il concetto di trascendenza, che andrà dapprima sfumandosi con il saggio del 1924 su Machiavelli per poi essere completamente sostituito nei contributi successivi dall’emergere della questione dell’immanenza. Il mutamento di prospettiva consumatosi in questo periodo – caratterizzato dalla presenza delle idee di Chiocchetti, da un avvicinamento a Croce, da un primo confronto con l’attualismo, che in questa fase appare, in modo evidente, incapace di risolvere quelle questioni esistenziali già ricordate e di garantire uno spazio di operatività del trascendente – è evidente se raffrontiamo due passi grassiani scritti a distanza di pochi anni l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica dell’amore che “se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso l’unico illimitato”375. In polemica con l’idea di un’autocoscienza come pura forma (interpretata dal filosofo come la più grande scoperta di tutta la filosofia d’immanenza di Giovanni Gentile) Grassi asserisce poco dopo che “in ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere, che esso proprio costituisce lo sbocco e l’affermazione alla quale tutto il pensiero moderno [...] doveva per interna necessità logica giungere, posta la sua premessa”376. Qui il pensatore si pone in opposizione all’attualismo gentiliano, all’immanentismo e alla riduzione della realtà alla forma pura dell’autocoscienza, sottolineando i limiti di una teoria che risolva il dato empirico-individuale, come quello del dolore e del tragico, nella trasparenza del pensiero che dissolve ogni contraddizione. Nel novembre del 1928, appena quattro anni dopo le affermazioni appena ricordate, egli asserisce in una lettera inviata all’amico Enrico Castelli Gattinara 374Ivi, p. 118. 375!Ivi, pp. 120.121.! 376 Ibidem.  ! 124!  di Zubiena che la sua posizione speculativa va senz’altro ricondotta nell’alveo dell’attualismo italiano gentiliano coniugato all’ontologia di Heidegger, pur riconoscendo il punto di partenza cattolico della propria formazione filosofica. Scrive Grassi all’amico: “Durante le mie peregrinazioni germaniche nell’anno scorso ho trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti pensatori contemporanei [...] il mio filosofare è partito e parte da un desiderio di ripensare il pensiero cattolico, ma siccome in campo filosofico non valgono le intenzioni ma solo la conquista realizzata, non posso dare quello che oggi non ho ancora [...] la mia posizione attuale è il riconoscimento storico dell’attualismo come la forma più coerente e matura del pensiero moderno. Attraverso lo studio dei classici spero di giungere a nuovi orizzonti. Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla filosofia tedesca è animato da quel riconoscimento dell’attualismo italiano e concretamente dall’ontologia immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la mia posizione”377. Abbiamo posto l’attenzione su questi due passi per far emergere un aspetto di non secondaria importanza per una comprensione della questione onto-antropo-logica in Grassi. Durante gli anni della formazione giovanile la questione ontologica è contraddistinta dalla compresenza della componente della trascendenza, della realtà del dolore e del tragico, dell’ontologia heideggeriana e dell’attualismo gentiliano in cui la questione dell’essere, della Realtà, dell’apparire nella molteplicità delle forme distinte si intreccia con la dimensione umana, troppo umana dell’esistenza, tutta votata all’interpretazione del mondo circostante, all’elaborazione di categorie ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del Da-Sein. Si tratta degli anni in cui il periodo di studio presso Husserl e Heidegger dà i suoi frutti: il problema grassiano della coniugazione di immanenza e trascendenza si incontra con quello fenomenologico (declinato in senso heideggeriano) nel tentativo di guadagnare un concetto di a-priori non gravato dal teoreticismo. Sebbene Grassi non si autodefinisca mai come fenomenologo, secondo la nostra interpretazione dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono non solo le esplicitate fonti heideggeriane Cfr., l’epistolario raccolto da M. Simonetta in Un inquieto scolaro di Gentile: Ernesto G., pp. 287-299, in “Idee”, 28/29, Lecce 1995, pp. 292-293.  ! 125!  e gentiliane, ma anche la questione fenomenologica husserliana letta attraverso la versione eretica heideggeriana 378 Di “eresia heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica” parla Vincenzo Costa in La fenomenologia, cit., in cui si afferma che “la storia del movimento fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a creare tra Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo”, ivi, p. 264. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925) Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità, nella dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di Messkirch sente, infatti, l’esigenza di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli vede come “lacunosa”. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e non “una teoria della relazione tra psichico e fisico”, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 5-B, P. 44. Il concetto di intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il contenuto intenzionale. Tale nozione non indica una relazione intenzionale tra un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato. Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che l’intenzionalità indica una relazione della coscienza con qualcosa; la coscienza è sempre un dirigersi verso... su questo punto Heidegger e il suo maestro Husserl concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia dalla riduzione, la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come possiamo leggere al § 33: “Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere? [...] la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito. Essa quindi rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova scienza – della fenomenologia”, E. Husserl, Idee, § 33, PP. 74-76. Da questo passo emerge con chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta la sua intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi, un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, “la coscienza, l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa”, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., § 11 C, P. 131. Heidegger tenta di riguadagnare il terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta all’epochè husserliana e cioè attraverso l’analisi del mondo come dimensione originaria di ogni possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile rapporto. Il mondo non è un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in luce proprio questo. La seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è l’intuizione categoriale, interpretata da Heidegger come il radicarsi dell’intenzionalità nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la categoria come dato, come oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6 dei Prolegomeni che “la scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in primo luogo, che c’è un semplice coglimento del categoriale, di quelle entità nell’ente che si delineano tradizionalmente come categorie [...] in secondo luogo è soprattutto la prova che questo cogliere è investito nella percezione quotidiana in ogni esperienza”, ivi, p. 61. L’intuizione categoriale è presente, cioè, in ogni percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è sufficiente a mostrare in che modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto “l’ente percepito si mostra sempre soltanto in un determinato adombramento”, p. 62. La percezione non è mai adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale si dà solo parzialmente. In altri termini, l’intuizione categoriale permette di gettare luce sul dato, attraverso la categoria, in un atto unico che ci permette di identificare un oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono all’ente di apparire nella sua identità oggettuale, esso si presenta come oggetto unicamente tramite un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione categoriale. É possibile istituire un parallelo tra il senso dell’intuizione categoriale di cui si parla nei Prolegomeni e quello dell’intuizione pura affrontata in Kant e il problema della metafisica se si pensa al fatto che l’intuizione categoriale, come quella pura, consentono quel darsi dell’oggetto che secondo Heidegger è reso possibile dalla sintesi a-priori dell’immaginazione e che ritroveremo in Grassi nei termini di fantasia e ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza scoperta fondamentale della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto all’impostazione classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto “la fenomenologia – avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato alla soggettività”, ivi, pp. 92-93, ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo qualcosa di “immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto”, ibidem, e nemmeno qualcosa di “trascendente, che inerisce specificamente alla realtà”, ibidem. In quanto tale, l’a-priori “diventa esibibile in se stesso in una semplice intuizione”, ibidem. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori, ossia l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in luce come il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè l’oggetto, ma la relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in quella Lichtung che è il mondo. Sarebbe un’operazione forzata includere in seno alla “galassia fenomenologica”, sia pure nella sua variante eterodossa, anche G. Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al di là degli esiti e dei metodi di ricerca certamente differenti, una comunanza di tematiche e di interessi di innegabile evidenza: i temi della manifestatività, delle forme e dei gradi dell’apparire, dell’immanenza e dell’evidenza, della critica all’obiettivismo. Infatti, è in questo periodo fecondo che si impone il ripensamento del tema della manifestatività nella sua identità con la questione ontologica. In Il problema del logo si afferma che la ricerca della manifestatività si identifica con la questione dell’essere: “L’originario vero non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso. Se il processo di distinzione non fosse il primo, non sarebbe possibile passare dal non manifesto a ciò che è manifesto [...] il processo deve quindi essere inteso come un auto-manifestarsi. É importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”379. In questo passo si profila un’idea di essere come processo e automanifestazione lontana dall’ontologia oggettivistica che riduce l’essere al dato. Comprendere l’essere è possibile soltanto se lo si identifica con il processo di manifestazione. L’originario, il fondamento a cui l’antropogenesi è indissolubilmente correlata, si presenta non come dato ma come processo, atto della manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica che Grassi fa partire da una messa in discussione del concetto oggettivistico dell’essere in quanto dato inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca del vero della prospettiva empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al dato, allora questa concezione sottintende un’aporia che Grassi prontamente mette in evidenza: “l’empirismo rinvia all’immediata presenza quando deve legittimare la propria verità. Soltanto dobbiamo domandarci se il “fatto” come tale, ci porga veramente l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata presenza non fosse racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si richiama, sarebbe proprio per esso irraggiungibile” E. Grassi, Il problema del logo, in Id., I primi Scritti, cit., p. 376. 380 Ivi, p. 374.  ! 127!  La contraddittorietà del dato in qualità di immediata presenza mostra come l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in questo caso sarebbe qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi, ciò che “sta essendo”. L’immediata presenza a cui l’empirismo si richiama non può essere un fatto o un dato ma il divenire, il manifestarsi poiché “il presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di un fatto, di qualcosa che è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto presente, nel senso naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé, perché vorrebbe affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente presente [...] l’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi”381. Dalle tesi grassiane sull’essere emerge la presenza di una teoria metafisica immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità concreta, che coglie l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che patica. Abbiamo visto che l’essere per Grassi non è più un dato empirico o un concetto trascendente, ma è fondato nell’esistente come attualità, autorealizzazione originaria e trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e l’ora dell’autorealizzazione del Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità. L’essere indica per Grassi “ciò che sta essendo”, quindi un divenire, un processo che dice della dynamis insita nell’essere. Si tratta, quindi, di un’ontologia dinamica e non statica, che comporta anche una riforma del sapere, del linguaggio e del metodo. Pertanto afferma G. che “il metodo per il conseguimento del sapere non può più essere razionale, fondante, in quanto esso può essere determinato soltanto sul fondamento della risposta alla domanda su come e attraverso cosa viene originariamente esperito. Un tale pensiero non può più essere formale, perché si tratta di questo, di rispondere all’appello dell’essere che ci riguarda, cioè si tratta della domanda in quale non-nascondimento (Unverborgenheit), in quale schiarita (Klärung) – (le luci, le radure (Lichtungen) nel bosco di cui parla G. B. Vico) – l’ente – al quale l’uomo appartiene – appare certamente” Ivi, p. 375. 382 Id., Il colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città del Sole, Napoli 2002, p. 81.  ! 128!  III. IV. Metodo statico e metodo aporetico Al metodo statico della tradizione filosofica tradizionale, quello che per Grassi mira alla definizione del concetto che dice della cosa unicamente il suo essere ente e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo contrappone una via di ricerca, un metodo aporetico, che pone in luce come la verità non sia la verità di un oggetto, sia esso empiristico o razionalistico, ma quella di un processo. Su questo aspetto Grassi si sofferma soprattutto in Il problema della metafisica platonica del 1932. Le “meditazioni platoniche” grassiane sono dominate dai temi della verità, dell’essere, della manifestatività e della pluralità delle forme, che qui trovano una prima esplicazione sistematica correlata anche alla questione dell’umanesimo. Il tema di Il problema della metafisica platonica è individuato da Grassi nell’ambito della problematizzazione del concetto di forma. Il tema dell’eidos è coestensivo a quello della ricerca del ti esti e si viene configurando secondo il filosofo milanese come risposta da parte di Platone all’oggettivismo sofistico. La ricerca sulla forma è in generale la ricerca dei modi della manifestazione del reale come modi di determinabilità383. Scritto nel 1931, il testo è pubblicato grazie a Benedetto Croce nel 1932 presso l’editore Laterza ed è dedicato a Heidegger, il filosofo al quale Grassi si sentirà legato per tutta la sua esistenza e che insieme a Gentile ha maggiormente influenzato il suo pensiero. In questo testo Grassi analizza il dialogo platonico Menone in polemica con le interpretazioni tradizionali che guardano a Platone come il rappresentante di un astratto razionalismo. Egli si chiede se sia legittima una interpretazione oggettivistico- razionalistica del pensiero platonico o se, invece, non si debbano gettare le basi per un discorso su Platone partendo dalla teoria della reminiscenza ed enucleando il significato teoretico del dialogo. Il filosofo sostiene che lo scopo di Il problema della metafisica platonica “è di porre solo in discussione il problema della legittimità della tradizionale interpretazione della metafisica platonica. Ricorre veramente Platone a un oggettivismo razionalistico – che egli contrappone a quello empiristico della sofistica – per fondare quella conoscenza oggettiva e certa, quella metafisica, la cui possibilità negavano i sofisti? Non è forse lecito avere alcun dubbio riguardo Id., l problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 60. ! 129!   all’affermazione che egli come filosofo, ha cercato di superare l’obiezione sofistica [...] fondando una teoria del sapere come reminiscenza?”384. Il pensatore sottolinea l’attenzione di Socrate verso l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva dell’ipotesi eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò che non si conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si saprebbe cosa cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la tesi platonica attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive Grassi che “se il processo di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al di là del processo di ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo verità, ciò che si manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è anzi quell’atto medesimo”387. La verità non è al di là del percorso di ricerca, ma si identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema del vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non in ciò che è esterno a noi. “Se il determinarsi della realtà si realizza nel logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in questo caso nel dialogo la  Ivi, p. 8. 385 “SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale ed è rinata più volte, e ha visto tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle dell’Ade, non c’è nulla che non abbia appreso. Perciò non deve meravigliare che essa, sia sulla virtù sia sulle altre cose, possa ricordare ciò che conosceva già prima. Dal momento che tutta quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di qualcuno coraggioso e che non desista dal ricercare. Infatti ricercare e apprendere sono in generale reminiscenza”, Platone, Menone, a cura di F. Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, pp. 201-203. 386 “MEN. Ma in quale modo cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale delle cose che non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in cui ti imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella che non conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai richiamando l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile ricercare né ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe ciò che conosce – perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca – , e neppure cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà cercare”, ivi, 80 d 5- e 7, pp. 193-195. 387 E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, cit., p. 116. ! 130!   contesa, !"*-, diventa ed è essenzialmente ricerca”388. Vorremmo sottolineare – a sostegno della nostra ipotesi interpretativa che nega una svolta retorica-patica di un “secondo Grassi” rispetto ad un “primo Grassi” dominato dal problema del logos – che già in questo testo del 1932 la problematica retorica appare centrale come discussione intorno al valore del dia-logo come metodo di ricerca della verità in opposizione all’arte eristica e sofistica come “forme spurie di retorica”389. Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto platonico esposto nel Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa nella ricerca390, come possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, nel quale l’essenza di ànthropos, fatta derivare dall’etimologia del termine, riposa proprio nello sforzo interpretativo, nella fatica costante del pensare la realtà, il mondo oggettivo. In tale sforzo, in tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza del neoumanesimo grassiano: “Se con atteggiamento umanistico si intende un ritorno alle radici della nostra umanità, e se questa non sta in una realtà storica esteriore ma in noi, allora quel ritorno non può essere fecondo che portando alla luce la nostra umanità nell’atto filosofico educato allo sforzo interpretativo”391. Ritornando al tema della funzione del dialogo e della sua capacità di aprire l’ambito dell’oggettività e della determinazione possiamo rilevare come in G. “la determinatezza dell’oggetto da cui parte una domanda, non è solo il fondamento della sua oggettività, ma anche il fondamento dell’oggettività di un dialogo, e quel ti esti è l’unica base di una ricerca comune  Ivi, p. 87. 389 Ibidem. 390 “Questo nome, ànthropos, significa che, mentre gli altri animali sulle cose che vedono non indagano nulla, non congetturano e non anathrèi (osservano attentamente), l’ànthropos nel momento stesso che vede – e cioè òpope (ha visto) – anathrèi e ragiona su ciò che òpope. Di qui perciò all’uomo, unico fra gli animali, è stato dato correttamente nome ànthropos, in quanto anathròn hà òpope (osserva attentamente ciò che ha visto)”, Platone, Cratilo, 399 c, tr. it. a cura di F. Aronadio, Laterza, Roma- Bari 1996, p. 43. 391 E. Grassi, Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, “Rivista di filosofia”, Milano XXVIII, aprile-giugno 1932, n. 2, pp. 136-154 ora in Id., I primi scritti, cit., p. 271. Corsivo nostro.  ! 131!  positiva”392. La determinatezza della cosa si fonda allora non nella cosa stessa, ma nella nostra ricerca che ha origine nell’atto aporetico con il quale ha inizio il ricercare. “L’aporia come ricerca (.,/,μ&)”393 ha fatto emergere la co-appartenenza dell’aporia con il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il pensatore milanese il punto di partenza della ricerca è la situazione di dubbio in cui si trova colui che ricerca e afferma che “se la determinazione si dà attraverso l’attualità aporetica [...] questa attualità aporetica, è il fondamento delle determinazioni”394. L’attualità aporetica, il dubbio, è il fondamento reale della manifestazione, dell’essere ed è l’essenza di ogni possibilità di discriminazione e comprensione395: qui risiede il valore metafisico-esistenziale delle teorie platoniche, le quali non vanno interpretate alla luce di un dualismo che fa capo alla dottrina dei due mondi ma come metafisica della finitezza396. Viene in primo piano in questo testo anche la centralità del tema del dialogo che, per Grassi, non gioca solo il ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili, ma va a costituire la struttura e l’architettura del pensiero platonico che è intrinsecamente aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua essenza autentica: il filosofare “è nella sua essenza approfondire, essere capaci di domandare sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una )!%*&, una fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà”397. La fatica del ricercare non ha solo una connotazione psicologica ma è l’“elemento caratteristico e veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo” Id., Il problema della metafisica platonica, cit., p. 21. 393 Ivi, p. 86. 394!Ivi, p. 71.! 395 Ibidem. 396 “In funzione del chiedere si dà l’essere, la sua manifestazione e in quanto il chiedere è sempre determinato, quest’essere che appare è sempre finito, e l’affermazione metafisica che a suo riguardo si può fare, è l’affermazione metafisica di un essere finito. Con questa finitezza dell’essere non s’intende di fare né un’affermazione scettica o relativistica, né un’affermazione che limiti la filosofia. In quanto l’essere – così come esso di dà – è sempre finito, la metafisica è nella sua essenza, metafisica del finito”, ivi, p. 72. 397 Ibidem. 398 Ivi, p. 74.  ! 132!  La fecondità teoretica dell’aporia platonica nell’iter di pensiero grassiano va di pari passo con la sua costante critica alla concezione oggettivistica della filosofia che caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i contributi che, a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta, sono improntati alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei cardini dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In un testo tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a carattere seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a diversi settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la pluralità delle forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare riveste per G.. I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare all’atto linguistico in modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il filosofo è mosso dal convincimento che occorre distinguere il dialogo dal colloquio, al fine di ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a monologo scientifico: “se alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un monologo, emerge la questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio. Quali sono l’essenza e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il dialogo dal colloquio perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene condotto come un monologo, mentre un colloquio presuppone una situazione storica come punto di partenza e come misura”400. Il concetto di situazione acquista per il filosofo un significato prioritario poiché rappresenta la forma originaria in cui l’uomo agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il dialogo-colloquio e la situazione mette in luce il valore metafisico del dia-leghestai come de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso. Si tratta di un evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung linguistica, esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di accedere alla verità, ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della parola e del domandare. È l’atto del domandare l’atto di nascita del filosofare, del tendere continuo al sapere nell’esercizio vivo della domanda. Cfr., R. Messori, L’affettività del colloquio, pp. in E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., e V. Mathieu, I temi di Grassi nei “Colloqui Zurighesi”, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 305-314 e H. Schmale, Lo spirito dei colloqui di Zurigo, ibidem, pp. 315-323. 400 E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., p. 61. Corsivo nostro. ! 133!   L’unico metodo per il filosofare nasce dall’aporia, dall’assenza di certezze e nella insistenza nel ricercare da parte del dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e il dinamismo intrinseco della realtà e dell’essere nello spazio interumano di costruzione del senso. Il senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica.”401 L’importanza della tesi di libera docenza del 1932 è emersa in tutti i suoi aspetti teoretici fondamentali facendo venire in superficie temi centrali in tutto il cammino di pensiero di Grassi. In questo testo l’essenza della verità è ricondotta alla struttura del dialogo. Grassi tenta quell’accordo tra apofansis e poiesis, tra manifestazione e creazione, tra enunciazione della verità e la condizione che la rende possibile, tra verità e significatività attraverso l’analisi della questione metodica da cui risulta un’idea di verità extra-metodica: nel vero siamo già da sempre immersi poiché il vero è il processo stesso della ricerca. La fecondità teoretica dell’aporia, che non è una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica percorribile, consente a Grassi anche di pensare all’idea di un rinnovamento linguistico che può esserci solo se si riconosce l’origine metaforica del linguaggio. La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica, come vedremo nell’ultimo capitolo, è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. In Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti,  Ivi, p. 71.  ! 134!  incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema della verità e del sapere. Se il vero non è mai un dato, ma è raggiunto nel processo di ricerca, il sapere ad esso adeguato non sarà un sapere concettuale che fossilizza e rende statico ogni elemento della ricerca, ma un sapere noetico che, per Grassi, è arcaico e indicativo. Qui risiede il valore semantico dell’ontologia fenomenologica di Grassi che gravita intorno al concetto di nous, sinonimo di ingegno e di fantasia. Il nous ha l’aspetto di una “intelligenza senziente” o di una sensazione intelligente per dirla con Zubiri, il quale, insieme a Grassi e Ortega, è uno degli allievi “latini” di Heidegger, come ricorda Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale402. L’essere si presenta originariamente non nella forma di essenza concettuale ma come atto, in un’attualità che sta prima di ogni riflessione teoretica. L’essere come oggetto di ulteriori atti di riflessione è, infatti, dipendente dall’attualità del Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La determinazione ante-predicativa è resa possibile solo perché l’essere in qualche modo ci è già manifesto prima di ogni possibile rapporto di predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è da intendersi come il logos originario che dice non il factum – l’essere ridotto al datum – ma il fieri – il processo di manifestazione. In questo discorso si inserisce anche il tema del nulla. La funzione metafisica di nulla e angoscia G., in Il problema del logo, sostiene che “se la svelatezza dell’essere si chiude in un processo, allora esso [...] deve contenere in sé il nulla e l’essere, giacché ogni processo, ed anzitutto quello metafisico, realizza sempre un passaggio dal nulla all’essere. Ne deriva che a loro volta i concetti del nulla e dell’essere determinano il nostro concetto di processo”403. L’importanza della questione del nulla come co-fattore, insieme all’essere, nella  Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 31. 403 Id., Il problema del logo, cit., p. 377.  ! 135!  determinazione del divenire è centrale nella definizione di un’idea di logos capace di dire il processo di manifestazione. Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione va intesa come uno scindersi e distinguersi di sé, “come deve essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo 0!#!*%, logo”404. La centralità del logos, quale modalità in cui l’essere accade in quanto processo, potrebbe essere confusa con un’ennesima concessione alla logica tradizionale. Tuttavia Grassi distingue un significato inautentico di logos da uno autentico come modalità di svelamento dell’essere. “Il logo come oggetto della logica tradizionale è il logo in quanto pensato, oggettivato. Il logo non viene da essa studiato come un atto concreto, come un auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di giudizio [...] in quanto il manifestare logico, come verità di giudizio, si fonda in una verità più originaria, sorge la necessità e la legittimità di distinguere due differenti concetti del manifestare: la verità del giudizio (come verità logica nel senso tradizionale) e la svelatezza originaria degli enti”405. É precisamente in questa direzione che il filosofo conduce la propria ricerca, collimante con la filosofia italiana a lui coeva e il pensiero heideggeriano, con l’intento di guadagnare un concetto di logica al di fuori dell’orizzonte obiettivante che riduce l’essere al dato, all’ob-jectum senza riguardo verso il processo di manifestazione, verso quel divenire che è passaggio dall’essere al nulla. Un logos adeguato all’espressione del divenire è un logos che riesce a pensare il nulla senza oggettivarlo, quindi senza cadere in contraddizione. La tradizione filosofica pensa il logos come 0$#$- /*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a cui il logos è adaequatio. Il problema è quello di guadagnare un “nuovo significato di logo, libero da ogni dialettica formale”406 che riesca a relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e di esperienza. Si chiede Grassi: “in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere? L’Essere sorge dal nulla? Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza contraddizione che il Nulla sia?”407.  Ibidem. 405 Ivi, p. 378. 406 Ivi, p. 379. 407 Ivi, p. 380.  ! 136!  L’importanza del nihil all’interno dell’indagine ontologica è direttamente conseguente all’assimilazione del processo di manifestazione all’auto-distinzione, dove lo svelamento contiene in sé già l’essere e il nulla, la possibilità di mostrarsi ed occultarsi, come quella dell’errore e della verità. Ora se la logica tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione scientifica del nulla per i motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo in cui il nulla si manifesta. Una simile ricerca consente anche di porre la questione dell’essere al di fuori del circuito oggettivistico – sia esso empiristico o razionalistico – e secondo Grassi in questo tentativo di ripensamento di una via di accesso al nulla giunge in aiuto la proposta heideggeriana della priorità della Stimmung dell’angoscia/ansia408, che viene ad incontrarsi con quella attualistica del logo come atto. Si chiede Grassi: “esiste dunque il nulla, e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?”409. Sorge il tema della funzione metafisica dell’angoscia che sollecita un approfondimento del rapporto tra angoscia, logos e manifestatività, ossia della correlazione problematica e non dualistica di logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un dato, un oggetto trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al suo interno anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo urgere per Grassi si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo: “il nulla sorge [...] esclusivamente nell’esistente come il vanificarsi dell’esistente medesimo nella sua totalità. Questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione”410. Il nulla come vanificarsi dell’esistente appare nel sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta nella sua assoluta alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia è il fenomeno I termini angoscia e ansia sono usati indistintamente da Grassi, tuttavia egli usa il termine ansia in riferimento all’Angst heideggeriana solo nel saggio del 1929 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 220, in Id., I primi scritti, cit., pp. 203-228. Nei saggi successivi il termine ansia viene sostituito da angoscia. 409 Ivi, p. 385. 410 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., pp. 328-329.  ! 137!  stesso del fondamento, è la modalità in cui il processo di manifestazione dell’essere nella sua differenza accade: “l’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come il vanificarsi della totalità dell’esistente, è la fonte della possibilità di pensare [...] è allora proprio che l’esistente si manifesta e può diventare oggetto di domanda nella sua totalità”411. Il nulla che appare nell’angoscia nella sua convertibilità con l’essere, e che connota l’intero atto di manifestazione e auto-distinzione dell’originario, è la condizione trascendentale del logos. Il logos è il modo umano del darsi della co-estensione e coappartenenza di essere e nulla. Quest’ultimo non va quindi inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo valore di annientamento dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso il nulla l’essere appare come realizzazione delle pure possibilità umane e quindi come compito, sforzo e atto, concetti, questi, davvero fondamentali nella filosofia di Grassi che mostrano, da un lato, la presenza di una componente etica del sui pensiero nel senso generale di ethos come “orientamento della vita al telos”, dall’altro il radicamento di tale orientamento nella struttura temporale della coscienza umanistica, che, come vedremo, è caratterizzata da una componente cairologica che fa convergere tutta l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno”, e quindi verso la scelta, la decisione. In G. più che agire una temporalità contrassegnata dall’eschaton di heideggeriana memoria è presente l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno” che va a strutturare la nostra relazione con il mondo circostante. Come abbiamo tentato di dire in queste pagine il reale, l’essere, il suo apparire si manifestano nel perimetro antropico in molteplici modi, tutti interrelati, in cui una delle molteplici forme dell’apparire non può essere dedotta da un a priori logico. A giudizio del filosofo alla logica del pensato non può spettare l’ultima parola sulla vita e un’intelligenza ante-predicativa, pre-teoretica del reale è possibile solo se si getta luce su un’esperienza originaria del reale, dell’essere, di cui la logica è solo una forma di apparire derivata e secondaria. Come si relazionano il logos e il pathos in questo orizzonte di ricerca?  Ivi, p. 329.  ! 138!  III. VI. Logos et pathos convertuntur Grassi distingue un doppio significato per entrambi i concetti: uno autentico e uno inautentico. Da una parte abbiamo il logos inautentico, quello della logica astratta, del razionalismo deduttivistico, dell’a priorismo gnoseologico e il pathos inautentico, quello ridotto a fenomeno psicologico e privato, a esperienza chiusa nella singolarità. Dall’altra ci sono il logos autentico proprio del pensiero pensante e concreto, che sperimenta la manifestatività dell’essere nell’autodistinzione, e il pathos autentico che va inteso in senso metafisico. L’angoscia costituisce appunto questo pathos autentico. Per Grassi il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza ontologica: secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”412. Esso è “passione abissale”413 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi: il pathos metafisico indica il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Nell’esperienza patica l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”414. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo, su cui ci soffermeremo a breve, sono il regno dell’Aperto  Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 413 Ivi, p. 40. 414 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329.  ! 139!  in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Il filosofo asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”415. A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”416. Essa consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica: in questo contesto ontologico si installa la visione antropologica di Grassi. L’esperienza dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo corrispondere rende possibile la costruzione del secondo livello di oggettività, quella dell’umano. Il corrispondentismo, che permea quell’ambito gnoseologico messo da parte dal filosofo, viene recuperato sul piano ontologico: l’adeguazione dell’oggettività dell’essere, dell’originario, il nostro corrispondere all’evento va di pari passo con l’antropogenesi. Solo grazie a ciò l’uomo diventa uomo e l’Umwelt diviene Welt attraverso le pratiche di umanizzazione della natura. A parere del filosofo “noi ci troviamo di fronte al compito di un ordinamento solo perché circondati e sommersi in un mare di fenomeni nei quali dobbiamo riconoscere di non saperci orientare: esperimentiamo l’angoscia primordiale dell’assenza di mondo. Questa esperienza della negatività, della mancanza di mondo è il primo ed originario aspetto della necessità della trascendenza, in funzione alla quale solo incontriamo un materiale per la formazione del nostro mondo”417. Sulla base di quanto detto è emersa una prospettiva che lega indissolubilmente la tematica dell’essere e quella del nulla alla Stimmung dell’angoscia generando una rinnovata idea di logos. Se  Id., Assenza di mondo, cit., p. 226. 416 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 417 Id., Mito e arte, cit., p. 147. I corsivi sono nostri.  ! 140!  il reale è processo di manifestazione, divenire e passaggio dall’essere al nulla, allora il logos capace di dire questo processo, questo apparire, questa manifestatività autodistinta, non può essere il logos logico inteso in senso tradizionale. Occorre ripensare il logos al di là dei cardini di un riduzionismo logico, tenendo conto della co-originarietà delle forme del manifestarsi del reale. La funzione del logos in Grassi ha destato non pochi problemi per gli interpreti, come abbiamo visto. Se nei saggi giovanili come Il problema del logo del 1936 il logos è considerato nella sua preminenza rispetto alla Stimmung, nei saggi successivi come Il reale come passione e L’inizio del pensiero moderno abbiamo un capovolgimento di questa posizione soprattutto sulla scorta dell’analisi del dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che possono aver suscitato l’idea di dualismo. In Il problema del logo il filosofo afferma che “la Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del legein”418. Da questo passo pare emergere la riconduzione della questione del patico all’interno dell’orizzonte logico: il pathos viene visto quale modalità del logos. Qualche anno dopo G. sembra cadere in contraddizione affermando l’esatto opposto di quanto asserito in Il problema del logo. In L’inizio del pensiero moderno si sostiene che “nel dubbio qualcosa è per noi originariamente non indifferente [...] in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra appunto il carattere patetico e passionale del pensiero”419. La difficoltà per l’interprete sorge allorché si tenta una conciliazione delle tesi appena citate e apparentemente contrapposte: una vede nel pathos una modalità del logos, un’altra rintraccia nel logos un carattere passionale. È possibile uscire dall’impasse? È nel pathos o nel logos che facciamo esperienza dell’originario? La complessità di una loro possibile connessione viene esplicitata e avvertita dallo stesso Grassi che già in Il problema del logo si chiede: “possiamo dire che il logo sia  Id., Il problema del logo, in Id., I Primi scritti, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 419 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.  ! 141!  effettivamente il Primo, la Ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un momento pre-logico? Questo è il problema contro il quale urtiamo definitivamente”420. Infatti egli interpreta il logos come legein, cioè come atto del portare a manifestazione sia l’essere che il nulla. Solo sulla base di questa manifestatività originaria, di questa svelatezza originaria degli enti (aletheia ) si può porre il tema della verità logica tradizionalmente intesa come connessione di soggetto e predicato. Il pensatore riconosce nella svelatezza originaria l’essenza della propria ricerca filosofica ed è mosso dal convincimento che ogni vero logico, il vero del giudizio che si esprime sull’on, sia già sempre radicato in un vero più originario: quello appunto della svelatezza o manifestatività. Per Grassi “la logica tradizionale vorrebbe essere proprio una logica dell’identico in senso oggettivistico, in quanto l’essenza del logo non sta nel legein – cioè nel processo di distinzione (e così nel divenire, nell’essere e non essere) – bensì nell’identità dell’oggetto razionale od empirico. Ma questa identità non viene affatto raggiunta, né può venir dimostrata. Se quindi questo originario legein va concepito come un manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come logica del pensare, va contrapposta alla logica del pensato, allora non dobbiamo concepire questa logica come una logica della non identità, bensì come una logica che raggiunge un nuovo ed approfondito concetto dell’identità”421. La questione di primaria importanza non è concepire il logos, l’atto di intellezione, come totalmente altro dal pathos, il sentire. É appunto questa l’accusa che Grassi rivolge a gran parte della filosofia occidentale: la considerazione di logos e pathos, di intellezione e sentire, come atti di due facoltà, decreta inevitabilmente la superiorità dell’intelligenza rispetto al sentire, che per quanto sia il primo modo di apprendere il reale è votato all’inautenticità. Grassi ha in mente piuttosto un’intellezione senziente o un’apprensione intelligente del reale che però non troverà mai una formalizzazione teoreticamente compiuta nel suo pensiero, restando sullo sfondo della sua rivalutazione dell’umanesimo interpretato all’insegna del concetto di Lichtung.  Id., Il problema del logo, in Id., I primi scritti, cit., p. 377. 421 Ivi, p. 378.  ! 142!  Si chiede Grassi in Vom Vorrang des Logos (1939): “questa tonalità affettiva (Stimmung) deve essere dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza (Unverborgenheit)?”422 La questione è comprendere se la passione possa essere considerata come esperienza dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il tema della Stimmung in Grassi più che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al sentirsi situati – si coniuga con la metafisica del leghein come risulta evidente dal testo del ’39 nel contesto dell’analisi della disposizione d’animo e della differenza ontologica heideggeriane423. Qui G. individua la possibilità di una corretta interpretazione del pensiero di Heidegger solo nell’operazione di collegamento del concetto di Stimmung all’atto processuale del leghein. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza poiché mette in luce come in Grassi la questione della Stimmung non abbia una connotazione psicologico-individuale ma un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom Vorrang des Logos che “con tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un divenire, di un essere, di un non- essere, e dunque ad essa appartiene insieme alla trascendenza e la tonalità affettiva anche il perché”424. La co-appartenenza di Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese come il discorso sulla Stimmung travalichi il confine psicologico e si installi direttamente sul terreno dell’ontologia e della  “Muss nun diese ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des Prozesses, den wir als Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst werden?”, Id., Vom Vorrang des Logos, Beck, Munchen 1939, p. 52. La traduzione è nostra. 423 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., pp. 66-67. 424 “Damit bedeutet die Stimmung nicht etwas, das dem ursprünglichen Prozess der Unverborenheit vorhergeht, und auch nicht etwas, das den Prozess bedingt, und von ihm unterscheiden ist; es ist nichts Unmittelbares, sondern zum Grund der Unverborgenheit als Prozess ursprünglich gehörend. Wenn die Unverborgenheit prozesshaft geschieht, so ist die – wie früher schon gesagt – auf Grund eines Werdens, eines Seins und Nichtseins, und so gehört ihr wesenhaft, mit Transzendenz und Stimmung das Warum an, dritte Weise, in der der Grund der Unverborgenheit – wie Heidegger sagt – gestreut ist”, E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, cit., pp. 57-58. Traduzione nostra.  ! 143!  manifestatività. L’analisi della Stimmung pone in luce l’azione delle riflessioni heideggeriane di Von Wesen des Grundes più che quella di Sein und Zeit, mostrando una netta differenza di interpretazione rispetto a quella seguita dagli studiosi della analitica del Dasein degli anni ‘40425. L’articolazione del nesso logos-pathos trova una prima via d’uscita nella riflessione sulla fantasia, reciprocabile con l’intuizione e con l’intelletto, in quanto “facoltà di darsi le vedute” e forma di organizzazione a priori dell’esperibile: essa mette insieme il logos e il pathos. La questione della correlazione di pathos e logos comporta per Grassi anche un ripensamento dell’identità (un’identità  Ha sottolineato acutamente questo aspetto Messori in Le forme dell’apparire, cit. (p. 86 nota 20) ponendo un parallelo tra le interpretazioni di Grassi e di Henry Maldiney circa la questione della Stimmung come momento patico a-priori del pensiero, e sottolineando anche la distanza tra le teorie di Grassi e quella di Bollnow e Biswanger che negli anni Quaranta si confrontano in modo critico rispetto al tema della Stimmung heideggeriana. Circa il tema della distanza di vedute tra Bollnow e Grassi occorre mettere in evidenza come Bollnow in Das Wesen der Stimmungen pone la ricerca antropologica sotto il segno della critica al concetto di fondamento heideggeriano, insistendo sull’infondatezza del dualismo autentico-inautentico insito, secondo Heidegger, nella dimensione della quotidianità. Nonostante la messa a distanza del tema ontologico nella “antropologia pedagogica ermeneutica” di Bollnow è riscontrabile un punto di contatto, su cui Messori non si è soffermata, ossia il comune riferimento, di Bollnow e Grassi, alla storicità come fondamento di ogni antropologia filosofica che guarda all’umano come continua produzione di forme. Nel filosofo tedesco ritroviamo “l’idea che la storicità della vita significa creatività, produzione di forme che portano a espressione la vita in manifestazioni specifiche” – (S. Giammusso, La forma aperta. L’ermeneutica della vita nell’opera di O. F. Bollnow, Franco Angeli, Milano 2008, p. 93) – che converge con l’impostazione generale del pensiero di Grassi che punta ad un rinnovamento del problema antropologico seguendo il filo conduttore delle espressioni storiche del fondamento – le Lichtungen. Altro punto di sinergia teorica di entrambi è il tema pedagogico umanistico. In Bollnow la pedagogia, influenzata dallo storicismo diltheyano e dal contesto generale della Lebensphilosophie, “non muove da principi astratti [...] ma considera ipoteticamente i fenomeni della sfera educativa come parti dotate di senso in una connessione più generale e rintraccia tale senso nella originaria relazione attraverso cui l’uomo come produttore della cultura esprime se tesso” (ivi, p. 137). Bollnow, in Die Macht des Worts, afferma che la questione antropologica è connessa al potere formativo della parola e “la questione circa l’essenza del linguaggio diventa in una maniera fondamentale la questione circa l’essenza dell’uomo in generale”, O. F. Bollnow, Die Macht des Worts. Sprachphilosophische Überlegungen aus pädagogischer Perspektive, Essen, Neue Deutsche Schule Verlaggesellschaft, 1964 (terza edizione 1971), p. 16, citato in S. Giammusso, op., cit., p. 154. Anche in Grassi il tema pedagogico è correlato alla questione della via di accesso alla “totalità umana” e alla individuazione dell’essenza del neoumanesimo e, ancora, al tema filosofico dell’amicizia che permea sia il sapere sia il linguaggio. Grassi, nella prefazione alla traduzione tedesca del Discorso di Pericle di Tucidide ad opera di G. P. Landmann, sostiene che “questa forza dell’amicizia è confluita nelle parole, da cui siamo legati, filologia e filosofia. L’amicizia sospende il rapporto tra maestro e allievo, fa del maestro un discente anch’egli e libera l’allievo dall’asservita ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la corrente che tutti ci trascina si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove nello scambio abbiano inizio i pensieri, dove essi nella continua riproduzione abbiano fine. Questo accadere autentico, questo modo del discorrere e del pensare che riesce a penetrare ogni isolamento, la dia-lettica – il venire a svelatezza attraverso il logos, attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha scoperto nel nobile sentimento dell’amicizia [...] questo concetto non relativo e non soggettivo dell’amicizia si lega a quello della tradizione e dell’impegno”, E. Grassi, Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi Scritti, cit., p. 977. Grassi enuncia in poche battute un’idea di pedagogia legata ai temi della fiducia (Vertrauen), del reciproco affidarsi (Anvertrauen) e del dialogo che mostrano molte affinità tematiche – pur nella diversità degli approcci – con Bollnow, più numerose delle pur evidenti differenze sottolineate da Messori.  ! 144!  che contenga in sé l’elemento della differenza e della non-identità) e una ricerca sulla costitutiva co- appartenenza di essere e nulla nel processo di manifestatività. Secondo la prospettiva tradizionale: “il nulla non può diventare oggetto del pensiero, perché il nulla esclude in sé una interpretazione oggettivistica. Un oggetto che non è, è una contraddizione”426. Invece per il filosofo occorre aprire un varco nell’esperienza del nulla al di fuori delle coordinate oggettivanti del pensiero proprio perchè il nulla ci pone di fronte all’impossibilità di renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità di accesso al nulla: la sua esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo Heidegger di Che cos’è metafisica anche G. crede che “il nulla non si rivela dunque come un oggetto, come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un fondamentale stato d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni punto d’appoggio”427. Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come il filosofo già a partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione, con la discussione sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si chiede se a partire dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile mantenere la priorità dell’atto logico: “esiste dunque il nulla e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico? In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia, tanto che l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come un oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il problema dell’angoscia, della sua funzione metafisica [...] è dunque nell’angoscia che si radica la possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li trascendiamo in quanto fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla”428. Il legame tra angoscia, nulla e manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in un primo momento sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il dualismo è solo apparente se guardiamo all’idea grassiana di logos che si distingue da quello della logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per Grassi accade quella scissione, quell’auto-distinzione della manifestatività, che consente di pensare la coappartenenza di logos e pathos.  E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 382. 427 Ivi, p. 383. 428 Ivi, pp. 383-384.  ! 145!  Un ulteriore chiarimento riguardo il presunto dualismo logos-pathos o Kehre tra un primo e un secondo Grassi ci giunge dalle analisi grassiane di Cartesio. Nel saggio L’inizio del pensiero moderno Grassi porta avanti le sue analisi delle “meditaizoni cartesiane” incominciate in Dell’apparire e dell’essere del 1933, constatando come l’importanza di Cartesio vada rintracciata nella fecondità dell’idea di dubbio. Solo attraverso l’analisi del dubbio è possibile guardare al cogito cartesiano come ad una realtà complessa che va identificata come atto, attività del cogitare. In quanto atto il cogito è il luogo in cui la manifestatività, l’apparire e l’essere, che in Grassi sono sinonimi come abbiamo visto, si dànno: “il cogito è l’unico primo ed originario essere che incontriamo e fondandosi sul quale solo si può ricostruire e ricavare tutta la ricchezza dell’esistenza. La metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con cogitare. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento [...] l’atto del cogito – come originaria unità, monade – contiene in sé già tutto”429. Appare qui evidente la funzione ontologica del dubbio come “apertura esistenziale” della questione della manifestatività. La suprema attività del cogitare, il cogito in quanto atto, non è altro che il dubbio, il dubitare che nel momento in cui dubita, in cui attua l’attività del dubitare, porta in superficie “l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende possibile”430. Nell’atto del dubitare si compie un’urgenza: quella del reale che non ci è indifferente ma che ci affetta, ci riguarda e nel quale siamo da sempre immersi e compromessi in quanto esseri gettati nel mondo e “di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra così come il vero fondamento del sapere”431. Pertanto il pensare (logos) si rivela nella sua identità costitutiva con il patire (pathos) in quanto forme di espressione dell’originario nella sua urgenza e nella costrittività dei suoi appelli. Per il filosofo italiano “il pensiero è una forma di esperienza dell’originario, e non si può pensare ogni volta Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., pp. 289-290. 430 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit., p. 818. 431 Ibidem.  ! 146!  che lo si desidera o lo si vuole. Perché l’originario, sempre e in ogni forma, si mostra a noi solo al modo di una urgenza”432. Il soggiacere a tale costrizione e urgenza rende il logos convertibile con il pathos quali modalità di apprensione dell’originario. Se “solo questa costrizione, questa urgenza è l’evidenza dell’originario”433 allora noi ci troviamo in una situazione di pura passività rispetto al reale? In che modo è possibile coniugare questo essere soggetti a con il concetto di atto? L’atto, come abbiamo visto, cerca di rendere conto del rapporto dinamico tra piano ontologico e piano ontico, i quali rifluiscono continuamente l’uno nell’altro. A tale dinamica processuale prende parte anche la tonalità affettiva che appare come il luogo in cui accade la manifestazione dell’essere nella molteplicità delle sue forme. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Un altro termine con cui Grassi si riferisce alla passione è, infatti, Leidenschaft, di cui è importante sottolineare il leiden, il patire nel senso di soffrire e penare. Usando tale traduzione l’accento è tutto posto sulla dimensione della gettatezza e passività originaria che contraddistinguono il Dasein, l’uomo che è tale nella misura in cui si riconosce esposto all’apertura dell’essere, all’assenza di codici interpretativi precostituiti e innati e pertanto intimamente legato alla ricerca di chiavi di lettura del reale possibili e mai date. La Leidenschaft è quindi l’essere-affetti dal reale, che ci afferra e ci trascina nell’aperto delle pure possibilità, senza che noi possiamo sottrarci allo Zwang e alla Nötigung, da Grassi interpretati come due fenomeni dell’originario. La Leidenschaft è originaria e metafisica, da essa non possiamo liberarci e riconoscere la sua centralità è la condizione di possibilità per il nuovo inizio del pensiero auspicato da Grassi. Per il filosofo “in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra il carattere patetico e passionale del pensiero”434. Tale pathos metafisico e originario è un’urgenza che non può essere Id., Il problema del sublime, pp. 917-943, in Id, I primi scritti, cit., p. 935. 433 Ibidem. 434 Id., L’inizio del pensiero moderno, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.  ! 147!  dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia platonica, che abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e il dubbio cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero moderno. Per G, Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi scritti, ha il merito di aver portato ad espressione un significato patico-esistenziale del dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato unicamente ridotto ad epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il dubbio cartesiano, invece, si mostra come la condizione di possibilità affinché si dia il sapere in tutte le sue forme. Tuttavia Cartesio per Grassi non ha portato fino in fondo il suo discorso, inclinando piuttosto verso una impostazione gnoseologistica del sapere, non traendo quelle conclusioni a cui erano pervenuti gli Umanisti. Le riflessioni grassiane hanno messo in luce il pathos come esperienza di ciò che è primo e indeducibile razionalmente perché fondamento di ogni deduzione: “l’essenza della forma del rivelarsi di qualcosa di originario e di primo, o anche del pensiero, risulta essere la passione, e precisamente non la passione in senso psicologico ma in senso metafisico”435. La Leidenschaft consente di ripensare l’idea di soggettività: il soggetto non ha un carattere soggettivo o individualistico, esso “è essenzialmente ciò che soggiace al primo, all’originario”436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il soggetto patisce il reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità (Augenblick):attraverso il pathos facciamo esperienza della realtà nell’istante, in quella visione istantanea a cui dobbiamo corrispondere implementando progettazioni di mondi umani dalle forme molteplici (l’arte, la poesia, il sapere, la prassi, la politica sono le forme in cui l’uomo risponde agli appelli dell’essere). In ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare avanti il suo impegno, il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine mutuato da Leonardo Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente compromesso con il mondo circostante.  Ivi, p. 846. 436 Ivi, p. 847.  ! 148!  Secondo Grassi “in ogni atteggiamento originario non possiamo mai scegliere la nostra occupazione, perché la nostra scelta sta già sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo noi ad occuparci delle cose, ma sono le cose stesse – in virtù della loro distinzione – a tenerci occupati”437. Il filosofo pone come indeducibili forme del manifestarsi del reale il vero, il buono e il bello: il sapere, l’azione e l’arte sono i modi in cui si mostra, in cui appare il mondo e non c’è priorità di un momento sull’altro ma nesso dei distinti. Occorre ripensare l’autonomia delle forme del rivelarsi del reale, pur tenendo in considerazione la fondamentale unità che le contraddistingue: esse sono modi autonomi, distinti, di manifestazione dell’essere, sono Lichtungen del reale, aperture di contesti significativi, tutti accomunati dall’azione di ordinamento conferito al mondo. Il pathos è l’avvertimento della non- indifferenza del mondo circostante, è l’esperienza della costrizione e del vincolo, del legame indissolubile uomo-mondo: “per il fatto che veniamo strappati, nell’esperienza del dubbio, all’indifferenza verso la totalità dell’ente, si presenta anche una separazione del nulla dall’essere, e tuttavia il nulla non è affatto prima dell’essere bensì entrambi vengono partoriti come gemelli nel medesimo istante. Perciò i Greci parlavano dell’aletheia, del non latente [Un-Verborgene], come del vero, perché tutto ciò che si mostra viene sottratto alla latenza solo dall’esperienza del dubbio, che lascia rilucere gli opposti”438. Nella Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui non possiamo sottrarci, rintracciamo l’essenza del sapere: il sapere nasce dalla messa in questione del mondo circostante per ricercarne il fondamento, si tratta di una ricerca a cui ci sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale carattere costrittivo e urgente del fondamento è ciò che Grassi trova teorizzato nel concetto aristotelico di archè o assioma: “questa dottrina è ciò che esprime Aristotele quando dice che i principi originari o assiomi, come lui li chiama, che sono il fondamento di ogni dimostrazione, non hanno un carattere apodittico, bensì elenchico, cioè non possono venire dimostrati [...] ma si mostrano da se stessi in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e impiegarli. Così questi principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura in cui non ci lasciano liberi”4 Ibidem. 438 Id., Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, pp. 995-1029, in Id., I primi scritti, cit., p. 1003. 439 Ivi, p. 1005.  ! 149!  Possiamo dare per acquisito che in G. non c’è un rapporto dualistico logos-pathos, per cui da una priorità giovanile del logos si passerebbe alla matura posizione della preminenza del pathos. I due momenti sono sempre interrelati tanto da confondersi in una paradossale unità che è al tempo stesso dualità. É lo stesso pensatore a domandarselo e a individuare il problema di una connessione dinamica tra logos e pathos: “ora esiste un’unità che sia al contempo dualità? Ogni differenziale, cioè il compiersi di un atto unitario, fa apparire ciò che è differenziato nella misura in cui quest’ultimo si determina [...] quest’atto del separare rivela dunque essenzialmente una realtà fantastica, dove l’espressione fantastico non viene tratta dalla fantasia come attività distinta dall’intelletto, bensì dalla fantasia secondo l’espressione greca phainesthai, mostrarsi”440. Secondo Grassi l’accadere, l’apparire, la manifestatività vanno interpretati al di fuori dell’opposizione logos-pathos, tale dualità è solo secondaria e derivata, poiché primario e originario è l’atto in cui si mostra l’essere nella sua processualità dinamica: in tale processualità dinamica le coppie oppositive “in sé-per noi”, “uno-molti”, “logos-pathos” perdono i contorni netti e definiti di polarità antitetiche, tra cui non è possibile gettare un ponte, per divenire realtà mobili e fluide. La struttura dinamica e processuale della realtà è resa dal filosofo attraverso l’immagine della scena/accadere scenico/allestimento (Schau-Stuck): “soltanto in questo accadere si radica il singolo soggetto concreto, il quale possiede un oggetto correlativo, perché la scena, l’allestimento, prescrive a entrambi dei ruoli determinati [...] l’allestimento è dunque l’originario, in cui i singoli elementi del molteplice risultano visibili in virtù del ruolo che la scena prescrive loro”441. Tale scena originaria regge il fondamento della vita: è la sua condizione trascendentale. Essa è definita anche scena fantastica proprio perché scena e fantasia si configurano come un tutto unitario, a priori e sintetico. La scena forma in via primaria relazioni, atti di collegamento, è l’orizzonte di ogni veduta possibile, così come la fantasia è la facoltà di apprensione di questa scena. La fantasia in Grassi va intesa come la facoltà di formazione della veduta/scena (schau) che ha la funzione di schema trascendentale: “l’elemento originario dell’esperienza sensibile – come in generale di ogni forma dell’apparire dell’ente non è quindi una dualità di oggetto e soggetto né una  Ivi, p. 1012. 441 Ivi, p. 1013.  ! 150!  molteplicità di esperienze sensibili, bensì una unità che si compie, che rivela se stessa nel discernere e nel separare [...] la scena fantastica, il mostrarsi, non vale soltanto per la determinazione filosofica dell’ente o per quella dell’ente sensibile, bensì per l’ente nella sua totalità”442. Interpretata in questo modo la fantasia appare come facoltà del lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che è al contempo il Sich-Offenbaren, l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo svelarsi originario dell’essere ha carattere eidetico e immediato, esso si manifesta nell’istante indeducibile perché arcaico-fondativo della “visione pato-logica. La realtà nella sua automanifestatività si impone nella sua Nötigung, nell’accadere dell’attimo della visione il cui fenomenizzarsi è il dubbio. III. VII. L’analitica esistenziale: dismondanizzazione, assenza di mondo e coscienza temporale umanistica Per comprendere meglio le categorie dell’analitica esistenziale elaborata da Grassi vorremmo concentrarci sull’esperienza sudamericana del filosofo mossi dal convincimento che essa costituisca una tappa fondamentale nell’elaborazione di alcune categorie concettuali elaborate dal filosofo: dismondanizzazione e assenza di mondo; coscienza temporale umanistica; natura. Tali plessi concettuali, presenti soprattutto nei saggi Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959)443, sono correlati al tema della manifestatività dell’essere, emergente nei primi scritti, quali Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema  Ivi, p. 1014. 443 Cfr., Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 201-206; L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., pp. 65-72; Apocalisse e storia, cit., pp. 7-20, L’esperienza dell’assenza di mondo, in “Aut-Aut”, 1955, 2, XXVI, pp. 97-119; Mito e arte, in “Rivista di filosofia”, Torino, 1956, 2, XXVII, pp. 140-164; Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma 1959, pp. 217-147.  ! 151!  del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945)444. Come abbiamo visto in precedenza in questi saggi vengono in luce le questioni dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, che testimoniano la volontà grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. Come è noto, in questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,445 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale, non come esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte, ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Nel suo percorso onto-antropo-logico si segnalano alcuni testi per la curiosa correlazione che si viene ad istituire tra gli innumerevoli riferimenti all’esperienza di viaggio sudamericana e l’analitica dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e Viaggiare ed errare, oltre che, naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di mondo, L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i maggiori contributi che Grassi ha dedicato al tema “Sudamerica”. III. VIII. L’importanza del viaggio in Sudamerica Aveva asserito Kant nella Prefazione a Antropologia pragmatica che “ai mezzi per l’ampliamento dell’antropologia appartiene il viaggiare”446 e Grassi non sembra sia stato insensibile  I saggi sono raccolti in E. G., I primi scritti 1922-1946, cit. 445 Per una ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII. 446 I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4. ! 152!   a questa affermazione kantiana: lo attestano i numerosi viaggi che per tutta la vita ha condotto in giro per il mondo alla ricerca di occasioni di riflessione sul “tema uomo”. Viaggio e riflessione antropologica: l’accostamento non risulterà peregrino se si accantona – come fa il filosofo italiano– un’idea di natura umana fissa e immutabile, chiusa nei confini di una razionalità auto-riferita, per accogliere l’idea di una condizione umana, tema di un neo-umanesimo attento alla multilateralità della vita, alla polidimensionalità del reale, e, dunque, alle molteplici forme di apprensione dell’essere e di dizione dell’essere. Il legame tra il viaggio e l’elaborazione di categorie esistenziali volte ad un rinnovamento neo-umanistico della filosofia è del resto esplicitato dallo stesso filosofo che nella Prefazione a Viaggiare ed errare afferma che le “annotazioni sull’incontro con il continente sudamericano sono sorte dalla verifica costante di categorie e concetti fondamentali europei: non sono quindi né espressioni di rinuncia al nostro mondo europeo né una descrizione esteriore della realtà sudamericana. Spazio, tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù nuovamente un significato originario che in Europa abbiamo spesso dimenticato”447. Corredato da una fitta trama di descrizioni paesaggistiche, di situazioni emotive, di relazioni, presenze e assenze che il viaggio in Sudamerica aveva suscitato nel filosofo il testo Viaggiare ed errare presenta, accanto alla narrazione di esperienze comuni, una interpretazione prospettica di una realtà nuova, fatta di rovine antiche, foreste sterminate, indigeni e animali che non costituiscono solo allegorie di ciò che sfugge alla comprensione filosofica, ma sono l’occasione di esperire il “totalmente altro”. Per Grassi il viaggio può avere questo significato solo se lo si correla al luogo preciso in cui è avvenuto: il Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in precedenza quello in Sudamerica non è il primo viaggio né l’ultimo di Grassi, eppure in questo territorio si realizza una presa di coscienza molto forte dei limiti e delle possibilità della filosofia occidentale. Su questi limiti e possibilità il pensatore ha ragionato una vita intera, ma Le citazioni riportate di seguito fanno riferimento all’edizione italiana del testo di Grassi: E. Grassi, Viaggiare ed errare. Un confronto con il Sudamerica, tr. it. di C. De Santis, a cura di M. Marassi, La Città del Sole, Napoli, 1999, p. 27. Il testo ha avuto tre edizioni Reisen ohne anzukommen. Südamerikanische Meditationen, Hamburg, Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger, 1982.  ! 153!  lì, in Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione della foresta, sulla catena delle Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta non è un ragionamento. Lì patisce e vive una situazione contraddittoria: storicità e astoricità; natura e techne. Il Sudamerica è il luogo in cui si consuma la dissoluzione delle categorie storiche e si dà la possibilità di riflettere sulla condizione umana. Leggiamo in Viaggiare ed errare: “una volta si sapeva dove si era di casa; ci si sentiva protetti nel mondo sicuro della tradizione, ci si poteva recare in paesi stranieri con il proprio blasone e si ritornava a casa senza turbamenti. Ma noi? Dove siamo di casa?”448. Il testo, allora, non è un esempio, l’ennesimo, di letteratura odeporica, solo un resoconto autobiografico, un diario di impressioni del viaggio da Madrid a Barcellona, fino in Brasile e Cile. In esso si raccolgono le idee più interessanti circa il viaggio come evento semiotico: oltre a Reisen ohne anzukommen degne di nota sono le osservazioni sparse in Kunst und Mythos449. In questi testi il viaggio è inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia e le descrizioni narrate “non vogliono essere semplici descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte quelle seduzioni che turbano l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto con mondi nuovi”450. Ha sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe Cacciatore che ha dedicato al tema grassiano del viaggio un saggio: América latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje” Ivi, p. 33. 449 Il testo, edito per la prima volta in tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und Mythos, Hamburg, Rowohlt 1957, e ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e ampliata dall’autore, costituisce la rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 sulla “Rivista di filosofia”, in lingua italiana dal titolo Mito e Arte, cit., pp. 140-164. 450 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 34. 451 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje”, cit. Pubblicato precedentemente in italiano con il titolo America latina e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in “Cultura latinoamericana”, Annali 1999-2000, nr. 1-2, pp. 367-381. Come è noto, nella vastissima e variegata produzione saggistica di Cacciatore il riferimento alla figura di Ernesto Grassi compare soprattutto nei lavori vichiani dello studioso in cui l’accento verso i temi della rivalutazione vichiana della sapienza poetica, del ruolo antropogenetico della fantasia, di quello arcaico-fondativo del mito e dell’ingeniosa ratio trova non poche affinità con le analisi svolte da Grassi. Al riguardo cfr., soprattutto G. Cacciatore-G. Cantillo, Studi vichiani in Germania 1980-1990, in G. Cacciatore-G. Cantillo (a cura di), Vico in Italia e in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 37; Id., Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico. Vico nel mondo, Guerra, Perugia 2000, p. 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici, Guida, Napoli 2004, p. 120, nota 10; Id., Le facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’, in Il corpo e le sue facoltà. G.B. Vico, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna e A. Scognamiglio (a cura di) in «Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab), I, 2005, ISSN 1824-9817, p. 104, nota 41; Id., L’ingeniosa ratio ! 154!   de Ernesto Grassi, concentrandosi in particolar modo sul testo Reisen ohne anzukommen. Lo studioso mette in luce uno spettro semantico ampio del viaggio: è possibile individuare un significato ontologico; teorico-storico; cognitivo; simbolico-metaforico. Vorremmo soffermarci sui quattro sensi del viaggio in G. individuati dallo studioso, con lo scopo di mostrare che l’esperienza del viaggio sudamericano non è marginale nella riflessione del filosofo poiché si inserisce nel cuore della sua prospettiva onto-antropo-logica e diviene decisiva nella messa a fuoco dei concetti di dismondanizzazione e assenza di mondo452, che insieme a quelli di coscienza temporale umanistica e oggettività, costituiscono le categorie dell’analitica esistenziale grassiana. Cacciatore afferma che il senso ontologico del viaggiare è rintracciabile nello stesso titolo tedesco: Reisen ohne annzukommen indica il “viajar humano sin arribos, sin metas prefiguradas”. El viajero [...] llega a un nuevo mundo cargado de bagajes conceptuales, orgulloso y seguro de su patrimonio cultural y de su tradiciòn històrica”453. E tuttavia al cospetto di un mondo totalmente estraneo Grassi sente di non poter più fare affidamento sul proprio corredo categoriale. Occorre un mutamento di prospettiva, una svolta. In quanto viaggiatore in terra straniera Grassi si sente anche viaggiatore nell’interiorità, e il malessere vissuto dal filosofo per l’opposizione tra un’idea di Europa da cui ritiene di doversi congedare e la volontà di ricostruire un neoumanesimo all’insegna di un rinnovamento dei concetti di Vico tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e figure del pensiero, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 225, nota 1; Id., Il mare metafora del limite e del confine, in S. Amendola- P. Volpe (a cura di), Il mare e il mito, M. D’Auria editore, Napoli 2010, p. 49; Id., In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 452 Ovviamente le categorie ora menzionate risentono della trattazione heideggeriana di Welt e Umwelt e in generale della riflessione degli esponenti dell’antropologia filosofica e della biologia teoretica coeve, che Grassi conosceva molto bene: Scheler, Plessner, Gehlen, Uexküll, Driesch. Cfr., E. Grassi, Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti 1922-1946, cit., pp. 299-332, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-228, La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in “Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia”, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 453 G. Cacciatore, America latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. ! 155!   fondamentali del pensiero occidentale, si palesa soprattutto nelle pagine dedicate al concetto di “dismondanizzazione”. III. IX. Dismondanizzazione e assenza di mondo Egli sostiene che “le molteplici ragioni della dismondanizzazione ci sopraffanno e possono condurre all’immobilità, alla completa apatia. Ogni processo di dismondanizzazione incomincia dal terrore avvertito per la scomparsa del consueto”454. Una spaesatezza, una solitudine esistenziale che sorge non solo in terra straniera ma anche nella propria patria. Si tratta del terrore primordiale della selva di cui ci parla Vico secondo il quale “grazie alla radura aperta nella foresta originaria divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”455. Il filosofo ritiene che “anche in Europa si prende congedo dal proprio mondo. La speranza di liberarci in qualche modo, in chissà quali paesi lontani, dai nostri dubbi, è solo espressione del fatto che non ci sentiamo più a casa negli spazi della nostra storia”456. Nel pathos dell’angoscia e della noia per Grassi noi esperiamo la dismondanizzazione e la possibilità allo stesso tempo di generare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare quell’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. I due concetti – dismondanizzazione e assenza di mondo – indicano due fenomeni diversi, ma connessi, che possono essere compresi meglio ricorrendo ad una metafora molto cara a Grassi, quella della luce: “assenza di mondo” come aurora e “dismondanizzazione” come tramonto dell’uomo. La condizione di assenza di mondo (aurora) è quella dell’uomo primitivo o delle origini, immerso nella realtà circostante che è astorica, mitica, ripetitiva e di cui G. crede di poter fare esperienza nell’ingens sylva sudamericana, che in realtà  Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 126. Corsivo nostro. 455 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 251. 456 Id., Viaggiare ed errare, cit., Ivi, p. 49.  ! 156!  si rivela essere solo una selva ideale. Il pensatore ritiene che “la condizione di assenza di mondo inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si trova a una svolta decisiva”457. L’esperienza della realtà nella condizione di assenza di mondo si caratterizza per l’incapacità umana di orientamento: infatti “non appena quest’ordine comincia a vacillare, l’uomo esperisce improvvisamente che le direttive consuete non sono più valide”458. In questo momento di svolta inizia la storia dell’uomo come “storia del suo accadimento”. Secondo Grassi “la storia dell’uomo è quindi espressione di ciò che lo costringe continuamente [...] a stare su una soglia, a partire dalla quale egli traccia linee di confine tra scelto e non scelto, tra ricordato e dimenticato, tra ordinato e non ordinato. A partire da questa soglia si aprono i confini del mondo in cui viviamo. Il progetto, attraverso il quale di volta in volta aderiamo sempre a ciò che ci riguarda e ci mette in tensione, costituisce il nuovo spazio spirituale in cui ci muoviamo”459. Nella condizione di assenza di mondo l’uomo, come l’animale, è totalmente immerso in un cerchio funzionale simbolico che ad un certo punto si disintegra e lo getta in una condizione di spaesatezza che lo costringe a trovare codici di interpretazione del reale: “poiché l’uomo esce dalla natura e in essa non è più al sicuro, egli progetta criteri sulla base dei quali costruire il suo mondo”460. La condizione di dismondanizzazione (tramonto) è quella che caratterizza l’uomo occidentale che cerca nuovi strumenti per abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità e il danno delle proprie categorie filosofiche. Essa è ben distinta da “una rinuncia volontaria al mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di dismondanizzazione nasce dallo sgomento che tutto quello che di solito ci circonda, e che con gli anni abbiamo costruito come un nostro ambito, viene a mancare” Ivi, p. 132. 458 Ibidem. 459 Ivi, p. 146. 460 Ibidem. 461 Id., Assenza di mondo, cit., p. 222. ! 157!   Nel primo caso si tratta di una situazione di privazione originaria che dice della gettatezza dell’uomo nell’aperto – la Lichtung – della propria esistenza, privazione che al contempo è condizione di possibilità affinchè l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale divenga mondo. Nel secondo caso siamo di fronte ad una dimensione di perdita delle coordinate categoriali classiche del pensiero occidentale. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo non sono nient’altro che il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento ma in cui Angst e Langweile agiscono quali operatori metafisici nel contesto della Lichtung che, come ci ricorda Agamben, “è veramente in questo senso, un lucus a non lucendo: l’apertura che in essa è in gioco è l’apertura a una chiusura e colui che guarda nell’aperto vede solo un richiudersi, solo un non-vedere”462. Grassi asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”463. Nel viaggio in generale e in quello sudamericano in particolare noi facciamo esperienza di una epochè dell’abituale e del consueto e constatiamo il vacillare dell’esistenza, il nostro non poterci tenere a niente. Emerge in aggiunta al tema dell’esperienza dell’eventualità/Lichtung dell’essere, che l’alterità radicale del mondo sudamericano rappresenta in maniera esemplare, la questione non marginale del pathos: per Grassi esso ha una componente metafisica e non psicologica, dal momento che grazie ad esso facciamo esperienza dell’originario. Come è noto, la passione per il filosofo ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo poiché consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. Afferma G. che “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe ! G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 71. 463 E. Grassi, Assenza di mondo, cit., p. 226.  ! 158!  come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”464. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Possiamo rintracciare un secondo senso del viaggio sudamericano: teorico-storico. Come ricorda Cacciatore “en uno de los ùltimos capìtulos del libro, el filòsofo traza la lineas de una autèntica, aunque breve, teorìa e historia del viaje, centrada en la significativa diferencia que caracteriza las relaciones y las descripciones de los viajeros de la edad moderna y las de los contemporaneos”465. Differenza che testimonia anche il profondo mutamento storico tra un’epoca, quella moderna, in cui le categorie filosofiche erano forti e la ragione non aveva ancora perso la propria terraferma; e l’epoca contemporanea che vive i tormenti della propria debolezza categoriale sgretolandosi pian piano. La Conclusione di Reisen ohne anzukommen, che reca il suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio, in cui è narrata questa breve storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la correlazione del viaggiare con l’idea di paesaggio. Grassi si pone un interrogativo sul paesaggio e sul suo paradossale nesso con la filosofia. La domanda si sviluppa in una breve storia in cui entrano in scena personaggi – Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder, Melville – che sul paesaggio si sono espressi. Il filosofo si chiede: “che cos’è il paesaggio? Che cosa può produrre insieme alla filosofia? [...] il paesaggio può offrire lo spunto per riflessioni teoretiche, dal momento che il piacere che esso suscita si avvicina alla sfera dell’arte?”466. Rispondere a questa domanda significa porre in atto una vera e propria rivoluzione filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie della razionalità astratta e fare posto agli elementi mitici e poetici, alla dimensione del pathos che schiudono una modalità di esistenza autentica in cui la potenza delle immagini, a cui è inevitabilmente associato il paesaggio, diviene la linfa vitale della filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio “non ha nulla di ovvio, anche se tutti  Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. 466 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 173.  ! 159!  credono che esso sia immediatamente accessibile dal momento che lo si vede; il goderne non richiede alcuna riflessione, ma è impossibile esprimere la sua essenza senza riflettere”467. Esso mostra e indica la contraddizione tra ciò che ci sovrasta nella sua immensità, riluttante a qualsiasi espressione univoca e definitiva, e la volontà umana di comprensione. Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra incapacità di interrogare in modo nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle che sono annotazioni di viaggio, riflessioni e considerazioni si rivelano come i punti di partenza di interrogativi filosofici ineludibili e pressanti. Ineludibilità e necessità che contraddistinguono anche il paesaggio: “qui il paesaggio sembra una realtà alla quale non possiamo sottrarci”468. Un ulteriore significato del viaggio è quello cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica di una valenza cognitiva poiché consente quella relazione del sé stesso con l’altro che è fonte di ricchezza quanto più profonda risulta la distanza, la cesura, lo iato. Come afferma Cacciatore in America latina “en esta experiencia cognitiva [...] el viaje y la partida misma tienen sentido en la medida en que remiten immediatamente al retorno, a la estaciòn originaria. Por ello la confrontatiòn de Grassi con Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo con el Otro, però tambièn un hallarse el Otro en las raìces històricas y culturales del Sì mismo”469. In questo contesto di relazioni con l’alterità in tutte le sue forme – l’altro uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità rispetto al nostro mondo storico, la natura – la distanza assume un ruolo fondamentale quale esperienza catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare si realizza. Secondo il filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un tema che nella filosofia sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle distanze è l’olfatto, che meglio del tatto e della vista riesce a restituire tutta la “potenza della distanza”. Egli afferma in Viaggiare ed errare che “a Casablanca, la tappa successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò che a Madrid era solo annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica, che nel frattempo si era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà completamente nuova, che ancora non si vede, Ivi, 179. 468 Ivi, p. 184. 469 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 81.  ! 160!  che non si può nemmeno cogliere con l’udito [...] anche il tatto non può far altro che occuparsi della cartella che d’abitudine ci si porta appresso. Ma improvvisamente all’olfatto spetta un inatteso primato [...] è attraverso l’olfatto che sorprendentemente si percepisce la distanza”470. L’esperienza cognitiva del viaggio in Sudamerica si configura come un movimento verso l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono incerti: l’incontro con l’altro può avere un esito liberatorio o distruttivo471, può indurre l’uomo a rinunciare alla sua storia particolare, ma può anche sollecitarlo a dubitare del tutto della realtà storica. Quest’ultimo aspetto è particolarmente problematico: l’insistere del filosofo milanese sull’opposizione tra natura e storia, tra Sudamerica e mondo europeo, appare poco argomentato e poco incline a mediazioni, tracciando una cesura ontologica tra l’uomo sudamericano e quello europeo. Occorre prendere “la expresiòn grassiana naturaleza no historica con mucha cautela”472. Nonostante le dovute cautele rispetto a quelle espressioni che cristallizzano le opposizioni tra una presunta temporalità ontologica e immobile – quella sudamericana – e una temporalità storica – quella europeaa –, bisogna riconoscere il merito del filosofo per aver eletto il viaggio sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i termini e i limiti dello strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione di Grassi che guarda all’Europa nei termini di un “relitto di una vita inattuale” e al Sudamerica come natura astorica non passa inosservata: i colleghi universitari, primo fra tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in La Amèrica ahìstorica y sin mundo del humanista Ernesto Grassi, e Humberto Giannini, in Experiencia y Filosofìa473, non potevano accettare le affermazioni del filosofo italiano senza qualche riserva. Tuttavia Grassi intende questa assenza di storia in modo più complesso e articolato: essa dice della possibilità del nuovo474. Se l’Europa ha esaurito tutte le sue possibilità il Sudamerica, per il primitivismo che la contraddistingue,  470 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 55. 471 Ivi, p. 50. 472 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 86. 473 Per una ricostruzione dell’intera vicenda cfr., J. Barcelò, op., cit., pp. 252-253. 474 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 24.  ! 161!  non è ancora stata sopraffatta dall’asfissia storia: “abbandonata una vita carica di storia, aspiriamo all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico. Tuttavia non troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia completamente estranea a noi europei d’oggi [...] laggiù la vita respira completamente nell’atmosfera di fine secolo e ci appare come un passato che non è ancora riuscito a diventare definitivamente passato. Esso continua a vivere nel nostro presente, ma sembra estraneo e superato”475. Un ultimo aspetto del viaggio è quello simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri orientamenti conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca delle proprie origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi dell’umanità si fa esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà notevolmente diverso. Quando G. descrive il passaggio per la grande catena montuosa delle Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il vichiano “divagamento ferino per la gran selva della terra” della Scienza Nuova. Ma non si tratta semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel momento Grassi non cita Vico, ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva ipotizzato: “vagando in questo territorio, si aprono continuamente nuove prospettive. É l’accesso a un mondo inquietante: come potrebbe infatti un essere vivente storico ritrovare il proprio orientamento in questo silenzio, in queste ombre, in queste fosse? [...] ma questo non è il caos stesso? Anzi è il caos inteso non nel senso di disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può essere impresso un ordine [...] qui nelle Ande esperiamo la realtà di un mondo di pure possibilità”476. La natura, l’ingens sylva, appare, allora, come la metafora di quello spazio edificabile nel quale si apre all’uomo lo spettro di possibilità inedite di instaurare il mondo umano, quel mondo storico che solo con cautela possiamo opporre alla natura. Un mondo in cui la questione onto-antropo-logica viaggia sul doppio binario dell’oggettività data – la natura, il mitico, l’astorico, l’essere – e dell’operazione di determinazione di tale oggettività – la progettualità umana, la genealogia dell’ordine e della storia, quella che Grassi definisce “coscienza temporale umanistica”. Da questo percorso di transizione, che è il viaggio, verranno in superficie, contro la ragione totalitaria, la ragione  Ivi, p. 69. 476 Ivi, pp. 80-81.  ! 162!  frammentaria, inquieta, balbettante, critica e discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi e nelle pieghe nascoste del logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella metafora e nella fantasia. Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia, è motivo centrale della riflessione filosofica di Ernesto Grassi e pone in luce il legame indissolubile e non estrinseco tra il luogo geografico di elaborazione di questi innumerevoli significati del viaggio, il Sudamerica, e l’idea di filosofia del pensatore milanese. Un’idea che si costruisce intorno ad un progetto di riattualizzazione della problematica umanistica e dei concetti di retorica, metafora e ingegno, ripercorrendo itinerari poetici, teatrali, filosofici, artistici, che pongono in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è nella pluralità delle parole, nei verba che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. L’attenzione alla multilateralità del reale, che si rivela nella polidimensionalità linguistica, si colloca nel contesto più generale della domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo. Si tratta del problema onto-antropo-logico a cui gli scritti grassiani di retorica, metaforologia, umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il Sudamerica diventa l’occasione per un ripensamento del proprio passato filosofico e per gettare luce su un presente avvertito come estraneo. Grassi ha voluto confrontare la sua esperienza di europeo con il modo di vivere sudamericano, assillato dal dubbio intorno alla validità universale delle categorie della storicità e della tecnica dominanti in Europa, scoprendo una serie di aspetti inediti della cultura americana: innanzitutto l’esperienza dei sensi, che non è la pura e semplice empeiria, ma il luogo visibile del dissidio e della contraddizione, come testimoniano gli scorci descrittivi delle località cilene. Il filosofo asserisce in riferimento al soggiorno cileno di trovarsi in una realtà che è al contempo unità e molteplicità senza relazione: “ci troviamo nel nord del Cile, nella contrada delle grandi miniere di rame, !Cfr., soprattutto E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit.; Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; Id., Umanesimo e retorica. Il problema della follia, tr. it., di E. Valenziani e G. Barbantini, Mucchi, Modena 1988; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit.; Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Vico e l’umanesimo, cit.; Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit.  ! 163!  in prossimità del confine peruviano a 3800 metri di quota [...] mi confonde il fatto di essere abituato a costruire la realtà mediante una combinazione di diverse esperienze sensibili, e per la prima volta apprendo che i sensi, abbandonati a se stessi e non ordinati dall’intelletto, rivelano il contraddittorio nella sua essenza: la realtà è contemporaneamente un’unità e una molteplicità senza relazione”478. Oltre all’esperienza dei sensi, un altro concetto importante che emerge dai resoconti del viaggio sudamericano, è quello di oggettività: i sensi non rivelano solo qualcosa di soggettivo e di transeunte, ma l’oggettivo. I concetti di natura e oggettività si legano profondamente a quelli di mito, di cominciamento, di originario che solo la poesia può dire e non la filosofia, che si muove nell’ambito del deduttivo e dunque del non-originario. Per G. “non basta il sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principii nei quali ancorare tutti i nostri progetti”479 ma bisogna tentare di ricostruire le tappe di una “sapienza arcaica”, o di una “sapienza poetica”, per usare un binomio vichiano, in cui si rinnovano i significati di teoria e prassi e si fa spazio ad un concetto di pistis che esula dai limiti definiti della religione per rivelarsi come il fondamento della retorica originaria: “questo riconoscimento capovolge diametralmente il rapporto tra pistis e logos. La pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo originario”480. Nell’esperienza sudamericana l’oggettivo appare come una natura che non è più umanizzata e soggiogata, ma che domina l’uomo. Essa diviene smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e si sottrae ad ogni orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione ciclica, in un eterno presente. Asserisce il filosofo che “lo spazio astorico della natura può quindi suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante. Una volta spezzata la coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si distinguono più come momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si precipita nello smisurato” Id., Arte e mito, cit., p. 83. 479 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 72. 480 Id., Significare arcaico, cit., p. 490. 481 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 116.  ! 164!  Entriamo nello spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto rientra improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che Grassi sente appartenergli nel modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità “ha luogo un rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere qualcosa, perché ogni cosa viene compresa nel tutto”482; si tratta di un ordine “di una pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il trapassare non sono che momenti di un duraturo presente”483. Grassi si sta riferendo ad una realtà eterna che sembra avvolgerci: “è’ l’ora di Pan”484. Il Sudamerica è il simbolo dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di un’esperienza che, prendendo in prestito le parole di Vico, “è affatto impossibile immaginare, e a gran pena ci è permesso di intendere”: qui è possibile guardare autenticamente al mito non alla luce della demitizzazione, non come “prestazione arcaica della ragione”, per dirla con Blumenberg485, ma come “realtà in cui viviamo”. É ancora consentito vivere il mito in quel dissidio, in quella transizione, in quel viaggio dal vecchio continente della cattiva metafisica verso il mare aperto dell’autenticità, dell’altro inizio del pensiero. Un inizio che è principio arcaico nel senso aristotelico del termine: perché governa e dà inizio come leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo, reinterpretando lo Stagirita, sostiene che “il principio deve invece avere veramente il carattere di archè, cioè deve mandare, comandare”486 e, non avendo carattere apodittico, bensì elenchico, “non possiamo sottrarci alla – sua – imposizione perché ogni tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone”487. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale Id., Arte e mito, p. 153. 483 Ibidem. 484 Ibidem. 485 Cfr., H. Blumenberg, Il futuro del mito, tr. it. di G. Leghissa, Medusa, Milano 2002. 486 E. Grassi, Significare arcaico, cit., p. 486. 487 Ibidem.  ! 165!  unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo”488. Perché come diceva Vico, uno degli autori prediletti da Grassi: “di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa, e perché più luminosa, più necessaria, e più spessa è la metafora [...] – che – vien’ ad essere una picciola favoletta”489. L’analisi delle “meditazioni sudamericane” di G. ha messo in luce l’intima correlazione dei temi del viaggio, inteso come evento semiotico, con le categorie dell’analitica esistenziale grassiana: dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività, natura, coscienza temporale umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto il significato del viaggio in generale e di quello sudamericano in particolare sia fondamentale per comprendere il senso della proposta neo-umanistica grassiana: essa si struttura come ricerca costante di un nuovo strumentario categoriale per l’uomo europeo che ha sperimentato la miseria, la precarietà e il declino della propria storia ma non si rassegna al deserto del nichilismo dilagante ma al contrario, come il viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di un’umanità perduta, più radicata nella vita. L’esperienza sudamericana si carica allora di un’importanza che occorre sottolineare con vigore: essa è un percorso nell’interiorità prima che essere un itinerario geografico perché “in quanto viaggiatori in terra straniera siamo anche e soprattutto viaggiatori nell’interiorità [...] oggi, viaggiando, non andiamo in cerca di scoperte esteriori, sottoponiamo piuttosto a un esame il mondo della nostra lingua, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti”490. La meditazione su Sudamerica diviene allora una meditazione sull’Europa. III. X. L’uomo e l’esperienza dell’oggettività: la nascita della coscienza temporale L’analisi del viaggio nel suo significato tetravalente e la focalizzazione sui temi della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci consente di inquadrare meglio le altre due idee  Ivi, p. 494. 489 G. B. Vico, La Scienza nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, ed. 1744, II libro, p. 932. 490 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 124.  ! 166!  centrali nell’analitica esistenziale grassiana: i concetti di coscienza temporale umanistica e di oggettività. Secondo il pensatore milanese l’esperienza del disancoramento originario dalla realtà è l’elemento principale che caratterizza la “situazione umana”. L’angoscia e il terrore della foresta primordiale, l’agorafobia originaria che genera la paura dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta in volta i codici di decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti considerazioni sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale simbolico e sulla distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla funzione di apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne che “la situazione umana è caratterizzata dal fatto che l’uomo ha la esperienza originaria di essere disancorato dalla realtà. Il problema del metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè esso consiste nella ricerca della via per giungere un dato fine. Le prime forme di metodo, cioè di ricerca di un orientamento nella realtà nascono dall’esperienza del carattere ingannevole e relativo e mutevole di ciò che mediano i sensi”491. La situazione in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal nesso disancoramento-metodo- orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza dei sensi, che provoca il disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del metodo, G. individua la nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita del rapporto immediato con la natura. Emerge un elemento concettuale di non secondaria importanza: il tema della nascita della coscienza e delle scienze si intreccia indissolubilmente alla questione dell’oggettività e alla ricerca della sua determinazione. Sostiene il filosofo che “nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di un metodo, di un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che avviene nella nostra concezione del reale”492. Si tratta di quel capovolgimento che caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza originaria della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della ricerca di  Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 492 Ibidem.  ! 167!  un’oggettività “stabilita dai principi in funzione ai quali si delimita e circoscrive, facendola oggetto di domanda, la realtà fenomenica”493. L’assenza di coordinate e orientamento mette l’uomo in una condizione di Notwendigkeit che segna anche il discrimine tra mondo animale e mondo umano. La fecondità del tema del disancoramento si pone nel contesto dell’onto-antropo-logia grassiana quale condizione di possibilità della nascita del mondo umano nella Lichtung primordiale. Per il filosofo “la storia umana comincia nell’istante stesso nel quale l’uomo sorge dalla natura in quanto l’immediatezza di quest’ultima non lo soddisfa: l’esperienza della non indifferenza di ciò che gli si presenta fenomenalmente a mezzo dei sensi è espressione di legami che non si identificano con quelli dei sensi”494. L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza dei sensi mette in moto il secondo livello di oggettività e la storia umana. Ma che cosa intende il pensatore per oggettività e in che relazione essa si trova con la storia? I gradi dell’oggettività Il filosofo distingue due gradi dell’oggettivo. In L’uomo e l’esperienza dell’oggettività il punto di partenza dell’indagine è ancora una volta quello della “condizione umana” che “si distingue nettamente dalla condizione degli altri esseri viventi per la necessità di ricercare e progettare le unità di misura e di principi in funzione ai quali delimitare il mondo delle apparenze nelle quali ci troviamo”495. L’indagine sulla situazione del Da-sein e sulle sue strutture di esistenza ha come primo risultato l’individuazione di due livelli di oggettività. “Per giungere alla soluzione della realtà umana, e con ciò della sua oggettività, dobbiamo innanzitutto partire dal problema di quali siano i caratteri di ciò che ci si manifesta”496. Tali caratteri possono essere contraddistinti in due modi: -! dipendono dai nostri parametri e dai “limiti da noi progettati” Ibidem. 494 Ivi, p. 203. 495 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 65. 496 Ivi, p. 68. 497 Ibidem.  ! 168!  -! dipendono “dal fenomeno stesso nel ritmo del proprio divenire”498 Da un lato constatiamo che nella vita vegetativa e organica la natura appare nel costante ritmo temporale dell’identico, in un diastema, ossia in “ciò che sta (istemi) tra limiti (dià)”499, dettato dal fenomeno stesso della vita e non da modalità molteplici di ordinare i fenomeni naturali. Dall’altro riscontriamo nel mondo umano infinite unità di misura di questa natura. Per il filosofo “della natura possiamo solo parlare in quanto essa appare entro i diastema stessi, cioè entro determinati limiti”500 e tuttavia dobbiamo riconoscere che si danno alcuni fenomeni “il cui apparire non dipende dalla nostra proiezione di diastema”501. G. riporta l’esempio dei molteplici stati di un corpo502: un corpo può apparire in una forma solida o liquida ma la modalità in cui esso appare non dipende da noi: la nostra proiezione di diastema non è l’unica via di accesso all’oggettivo, all’essere, alla natura. “Se è vero che la natura appare solo entro i limiti da noi progettati, è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività dei fenomeni naturali è la condizione dell’esperimento, è la risposta che la natura dà entro i nostri diastema”503. Non a caso il filosofo ricorre a Leonardo per porre in luce il concetto di natura entro i diastema. Nello scienziato Grassi individua un via di accesso alla natura mediata dall’esperimento che mostra il senso autentico del concetto di diastema. Nel Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo “l’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua interezza Ivi, p. 69. 499 Ivi, p. 68. 500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 Ibidem. 503 Ibidem.  ! 169!  ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità”504. La natura di Leonardo rimane nondimeno “un mistero che viene svelato in funzione della domanda impellente”505, quindi mantiene una zona di opacità residua. Essa ha una propria oggettività che non può essere colta in maniera esaustiva e definitiva. Il tema della doppia oggettività della natura mette insieme l’idea dell’oggettività della natura, quale fondo oscuro e inaggirabile, e l’idea della natura come banco di prova dell’esperienza umana che risulta essere un progetto gettato. Ecco allora che si profila l’intreccio indissolubile tra il tema ontologico della oggettività, della natura, dell’essere e quello etico-pratico della storia umana dei tentativi, dei progetti, dell’esistenza, del caso particolare, delle circostanze. In questo percorso di superamento dell’oggettività della natura, di trascendimento della sua alterità e di ricerca di principi di determinazione, l’uomo elabora le proprie strategie di contenimento del diverso: inizia la storia del sapere. Per il pensatore italiano “la storia del divenire per giungere alla conoscenza di quei principi primi è la storia del sapere. Ma non basta sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principi nei quali ancorare tutti i nostri progetti, ma bisogna anche saper realizzare in funzione ad essi i nostri diastema, i nostri progetti: sorge così una nuova esperienza del tempo [...]: il tempo umano”506. La coscienza dell’autotemporalità trova la propria genesi nell’angoscia esistenziale che ha per il pensatore una funzione catartica: “quella di guidare l’uomo [...] alla coscienza del carattere perturbante della propria situazione”507. L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda sull’idea del tempo come “distinzione fondamentale fra ciò che non è più e ciò che non è ancora, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 505 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., 165. 506 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 71. 507 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 259.  504 Id., Introduzione a Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, pp. 133-138, traduzione nostra.  ! 170!  passato e futuro”508 in funzione di un presente. Tale presenzialità tuttavia non ha carattere puntuale, “non ha a che fare con un atomo temporale fuggitivo”509. III. XII. Essere e Tempo Il presente al quale si riferisce il filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo ed essere sono strettamente correlati nella concezione grassiana del tempo. Come leggiamo in Apocalisse e storia “i momenti del tempo sono il NON-ancora, il NON-più e l’ora. Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un caratteristico aspetto negativo”510. Il passato e il futuro mostrano un carattere di nullità e sarebbe più corretto parlare di “presente del passato, presente del futuro, presente del presente”511 che si danno nel ricordo e nell’attesa. Una concezione del tempo di questo tipo fa dipendere la nostra capacità di percepire il tempo dalla nostra capacità di essere affetti (affectio animi). Osserva G. che una simile concezione della temporalità presuppone l’essere: non nel senso di ciò “che esteriormente ci è dato”512 ma nel senso di ciò che rende possibile le nostre esperienze. L’a-priori di ogni esperienza temporale umana – quella dell’attesa e del ricordo – è l’attenzione: “il termine latino corrispondente ci chiarisce in che accezione appare qui il termine attenzione: attentio significa tendere ad, e quindi attendere. L’attenzione è quindi possibile nell’ambito di una tensione, di una tensio che, come fondamento dell’aspettativa, dell’attesa, è la radice medesima della nostra capacità di intus-legere, dell’intelligenza con la quale costruiamo e ordiniamo i fenomeni in un modo”513. Solo nel contesto di questa attentio/tensio originaria sorgono il presente, il passato e il futuro. La struttura temporale della coscienza è a  Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 509 Ibidem. 510 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 13. 511 Ivi, p. 14. 512 Ivi, p. 15. 513 Ivi, p. 14.  ! 171!  fondamento del potere umano di progettare, mondi, cosmi, ordini, unità di misura come strategie di risposta agli appelli dell’essere che urgono e ai quali dobbiamo corrispondere. All’origine dell’autotemporalità storica514 della coscienza umana abbiamo un Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la potenza delle quali irrompe, creando uno strappo nell’unità simbolica di soggetto e oggetto. La ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè tra soggetto e oggetto mediante la parola, il linguaggio, è il compito che Grassi si propone di portare avanti attraverso riflessioni che assurgono a prolegomena per una “semiotica antropologica” che indaga il “problema del nuovo potere originario che strappa l’esistenza umana dalla sfera della consapevolezza del semplice segno biologico e la colloca in una situazione di esistenza e di possibilità umane”515. La coscienza umana nasce compensazione di quel disancoramento primordiale, che è a fondamento del mondo umano, e come produzione tecnico-poietica. Se la storia dell’uomo è la storia del suo divenire e del suo superamento dell’immediatezza della natura allora il suo compito fondamentale – il compito del vero umanesimo – sarà quello di riscostruire la storia “di quella realtà originaria che l’ha strappato dalla immediatezza della natura”516. Un sapere che si pone questo obiettivo si costituisce come archeologia dei mezzi umani di ricomposizione della frattura originaria (la rottura del cerchio funzionale simbolico): scienze naturali, tecnica, filosofia, arte517. Per Grassi “di qui sorge la necessità di ricostruire – con i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello umano. L’uomo può realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda originariamente e se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza [...]: sorge per l’uomo il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo umano”518. Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni singola esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che escatologica della temporalità grassiana, attenta all’istante  Cfr., sul tema dell’autotemporalità come nota distintiva dell’uomo distinta dalla temporalizzazione biologica Id., Vico contro Freud: creatività e inconscio, pp. 133-153, in Id., Vico e l’Umanesimo, cit. pp. 142-145. 515 Ivi, p. 152. 516 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 203. 517 Ibidem. 518 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 12.  ! 172!  giusto, al tempo opportuno: poiché la nuova esperienza di fronte alla quale si trova l’uomo non è solo la conoscenza dell’universale ma innanzitutto quella del caso particolare e singolo. “Bisogna sapere quando, come, dove, di fronte a chi”519. La mancanza di tale conoscenza sarebbe “mancanza di misura, di discrezione, di prudenza, di phronesis”, le uniche capaci di mostrare l’intima correlazione tra vita etica e politica come realizzazioni dell’opera umana, come risposte alla scomparsa del mondo olistico, intatto, della vita organica. Per Grassi resta sullo sfondo un grande interrogativo: c’è da chiedersi “in virtù di che cosa può originarsi il mondo umano, se all’uomo non appartiene alcun ambiente immediato, se quest’ultimo dev’essere sempre costruito da ogni singolo individuo; qual è la radice dell’umanizzazione della natura?”520. Legato al tema antropologico delle origini della storia umana emerge quello del linguaggio e della funzione della retorica grassiana come ricerca sul significare arcaico o semantica antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata connessa ai problemi precedentemente posti a tema: “a quale funzione adempiono la parola, il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?”521. Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 520 Id., Potenza della fantasia. PALAIÀ DIAPHORÀ: PENSARE E POETARE. Il significato della proposta retorica. Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di ricostruire le tappe del pensiero di Grassi seguendo come filo conduttore quello dell’onto-antropo-logia che si è rivelata una chiave di lettura ampia e integrativa. Seguendo le riflessioni sui temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività abbiamo rintracciato a fondamento della proposta neoumanistica un’analitica dell’esistenza che tocca i temi della coscienza temporale, della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo. La focalizzazione su queste problematiche fa emergere un’idea di umanesimo che viaggia sul doppio binario della rivalutazione storica – come dimostra l’analisi dei testi umanisti dedicati al tema della Lichtung, del linguaggio e della poesia – e della chiarificazione teoretica delle categorie dell’esistenza. In questo ultimo capitolo prenderemo in considerazione i temi del filosofare noetico-non metafisico e quelli della retorica ingegnosa come critica delle devastazioni dell’intelletto, di quei “razionalismi stretti e assoluti del positivismo logico, cui G. contrappone una logica del discorso diretto, del pensiero come comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non come luogo del falso, ma come spazio del vero concesso all’uomo”522. Sullo sfondo della prospettiva retorica grassiana emerge il paradigma dell’incompletezza e della carenza. L’uomo è di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso. Il disancoraggio da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’uomo compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. L’azione, come  E. Raimondi, La retorica d’oggi, il Mulino, Bologna] compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico la retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Il codice di cui parla il filosofo è “non soggettivo, non è scelto liberamente, ma sofferto attraverso i sensi, in quanto essi si manifestano nella sfera del piacere e del dolore [...] noi non abbiamo così il dualismo di codice e realtà da decifrare, abbiamo invece il significato continuo, immediato e rivelato di ciò che noi soffriamo con pathos”523. Ad agire sullo sfondo del discorso c’è la riflessione antropologica novecentesca menzionata in precedenza: il concetto di povertà, il paradigma dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come animale carente, che si intreccia saldamente con la rivalutazione della retorica come luogo privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un significato antropologico di retorica che si configura come la compensazione dell’indeterminatezza dell’essere umano: essa può essere definita come la tecnica di adattamento provvisorio che precede ogni morale e ogni verità. La retorica allora costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni: “la società umana ha origine nel poeta come oratore e nel lavoro”524. All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello  E. G., Vico e l’umanesimo, cit., p. 242. 524 E. G., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 135.  ! 175!  di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon). La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, semiosfera da cui si dipartono i mondi possibili dell’umano. La declinazione antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita pone in luce come la retorica “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale. Essa è la base di quel theorein che è proprio della filosofia: un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente”528. IV. II. La retorica come critica del paradigma scientifico Il nucleo singolare dell’opera di G. si rivela come una nuova e specifica prospettiva sull’umanesimo retorico quasi sempre obliato dagli storici della filosofia del Rinascimento tra i quali Kristeller e Cassirer529. Come dimostrato dalla sua intensa attività all’Istituto Studia Humanitatis (inaugurato il 6 dicembre del 1942 nell’università di Berlino), presso il Centro italiano di studi umanistici e filosofici a Monaco (1948) e soprattutto dall’attività editoriale della Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y Tarea, Grassi propone un’idea diversa del pensiero umanista. Egli  Id., Retorica come filosofia, cit., p. 194. 526 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 113. 527 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 528 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 529 Cfr. le osservazioni esposte nel II capitolo.  ! 176!  non riduce tutto l’umanesimo al recupero del platonismo – ricordiamo l’opposizione tra umanesimo platonico e non platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma mette in risalto l’importanza dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica il valore della parola poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi vitale e storica. Lo studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di una curiosità storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per immettere la questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e prassi che riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia humanitatis. Come leggiamo in La potenza dell’immagine “solo in base al chiarimento di una concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica – può sorgere a una nuova considerazione il problema attuale de “a che cosa serve la filosofia”, e quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi [...] la problematica dell’umanesimo italiano – proprio in relazione alla preminenza accordata alla prassi, alla negazione della parola astratta, razionale – presuppone il superamento della dualità di una realtà esistente, sperimentata, e di un mondo corrispondente alla ragione, una dualità che conduce all’insuperabile divaricazione di teoria e prassi”531. Il recupero del passato filosofico – la tradizione umanistica – fa tutt’uno con l’idea di un’utilità pratica della filosofia che per Grassi nasce proprio come naecessitas, come risposta all’appello dell’Abissale, poiché “conservare un passato (è indifferente che si tratti di pensieri, monumenti o avvenimenti), non considerato in relazione a un compito da assolvere nel presente, è il segno di una cultura divenuta sterile. Ogni cultura, ogni tradizione, nella quale il passato perde questa promettente considerazione, decade, avvizzisce. La tradizione si radica solo nella comprensione del presente. All’interno di questa prospettiva il filosofo milanese afferma che il vero umanesimo è quello che incomincia con ALIGHIERI (si veda) e BOCCACCIO (si veda). Contro l’indirizzo “platonico” costituito dal versante ficiniano – FICINO (si veda) -- dell’umanesimo per G. permane attraverso i contributi di Vives, NOZOLIO (si veda), PEREGRINI (si veda), TESAURO (si veda), Graciàn, VICO (si veda), MURATORI (si veda), LEOPARDI (si veda), una tradizione non-platonica ma retorica, che resiste a quello  Cfr., E. G., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, capitolo VI “Antiplatonismo e platonismo”, cit., pp. 175-197. 531 Id., La potenza dell’immagine, cit., pp. 259-260. 532 Ivi, p. 133.  ! 177!  spirito razionalista che la relega nell’ambito della letteratura, dissolvendo l’unione di retorica e filosofia. Il punto di vista grassiano sull’umanesimo italiano emerge in netto contrasto all’enfasi sulla ragione e sulla logica privilegiate dal paradigma scientifico. Quest’ultimo si fonda sul presupposto che la conoscenza oggettiva sia l’unico modo per comprendere la realtà. Questo tipo di impostazione logico-analitica, caratterizzata dall’utilizzo del metodo scientifico, non è attenta all’hic et nunc della situazione concreta ma crede di trovare assiomi autoevidenti universalmente validi: rispetto al discorso retorico “il discorso razionale invece è fondato sulla capacità una di trarre deduzioni e quindi di legare delle conclusioni a delle premesse. Il discorso razionale raggiunge la sua funzione dimostrativa e la sua stringenza mediante la dimostrazione logica”533. Ne deriva che il discorso retorico non può avere alcuno spessore filosofico all’interno del paradigma scientifico. Il discrimine fondamentale tra l’approccio scientifico e quello retorico al reale risiede nella ricerca dei principi. La retorica vuole indagare l’origine dei primi principi e la scienza si arresta alla constatazione delle premesse. Se il discorso dimostrativo è quello che lega la definizione di un fenomeno riportandolo ai principi ultimi, alle archai, “è chiaro che le prime archai di qualsiasi prova, e quindi conoscenza, non possono essere esse stesse essere provate, in quanto non possono essere oggetto di un discorso apodittico, dimostrativo e logico”534. Da qui sorge il problema dell’individuazione del tipo di logos adatto ad una ricerca sui primi principi, sulle premesse indimostrabili. La risposta grassiana è nota: “l’uso di tali espressioni, che appartengono all’originario, al non-deducibile, non possono avere carattere e struttura apodittica e dimostrativa, ma solo indicativa. É solo il carattere indicativo delle archai che rende davvero possibile la dimostrazione”535. La ricerca sul metodo adeguato per accedere al reale conduce Grassi a tematizzare l’infondatezza di quella opposizione tra filosofia topica e critica.  Id., Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 25-26. 534 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 96. 535 Ivi, p. 97.  ! 178!  IV. III. Retorica tra filosofia critica e filosofia topica La dimensione retorica va considerata secondo Grassi non come elocutio ma come inventio536: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre provvisorio”537. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose che altro non è che “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità) G. rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico, tra un filosofare critico e un filosofare topico, che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discorso che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. G. fa sua la posizione heideggeriana che sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo538, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile Cfr., sulle parti della retorica dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo di Liegi, retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 2012. 537 Ivi, p. 390. 538 Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., §§ 19-21.  ! 179!  leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio, nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento e la misura di ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”541. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”542. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, viene posto per la prima volta secondo Grassi in modo teoricamente articolato nella filosofia vichiana del De ratione studiorum di cui egli ricostruisce minuziosamente le tappe della critica al razionalismo cartesiano nel saggio Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos  M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 540 Ivi, p. 168. 541 Ivi, p. 169. 542 E. G., Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e l’Umanesimo, cit., p. 25.  ! 180!  e ragione. Le questioni poste sul tavolo della discussione sono molteplici: la pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del verisimile543. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo. G. pone l’attenzione sul passo vichiano del De Ratione in cui è enunciata la priorità della topica sulla critica: “giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”544. Si chiede il filosofo milanese: “chi ci assicura che le premesse dalle quali parte il processo critico non rispecchino solo un singolo aspetto della realtà, limitando di conseguenza le conclusioni che ne derivano? Non ha il metodo critico trascurato la retorica, la politica, la fantasia dimostrando così la sua unilateralità razionalistica? Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un “ritrovamento di luoghi”. Si tratta dell’arte topica, ossia l’arte dell’invenzione di cui CICERONE (si veda) e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”546. La questione è ancora una volte quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La radicalizzazione dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di un’esigenza  Ivi, p. 35 e sgg. 544 G. B. Vico, Sul metodo degli studi nel nostro tempo, cit., p. 39. 545 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 36. 546 Aristotele, Topica, 101 b 3. ! 181!   di unità nel quadro di una prospettiva onto-antropo-logica che mira a gettare un ponte tra logos e pathos, tra pensiero retorico e scientifico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “la tesi che l’essenza della filosofia si riduca esclusivamente al processo razionale non regge. Anzitutto perché esso presuppone inevitabilmente un’altra attività, quella dell’invenire, che lo precede”547. Lo scopo del filosofo è quello di trovare il fondamento comune di retorica e filosofia, e la sua prospettiva non-riduzionista è capace di tenere conto di quella torsione che avviene nell’uomo con il sopravvenire del linguaggio, come mediazione tra gli istinti e gli impulsi da un lato e gli scopi dall’altro. Il linguaggio segna e delimita i diversi aspetti dell’umano che esprime il proprio senso della realtà primariamente attraverso un logos metaforico e non tramite la definizione, il concetto, il linguaggio razionale. Di conseguenza la soggettività che traspare dalle riflessioni grassiane non è dotata di una identità monolitica e infrangibile, non è compatta e unitaria ma è una soggettività frammentata e consegnata alla contingenza, alla circostanza, costretta a ridefinirsi continuamente. Il Da-sein è allora atto di ricomposizione, attraverso la “ragione fantasticante”548 (che tiene insieme come compossibili e non come contraddittori logos-pathos), dei cocci dell’esistenza tra i quali ci muoviamo, consapevoli dell’instabilità e della mutevolezza, del divenire che necessita di un logos adeguato alla sua espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia grassiana ritroviamo un Da-sein che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma non rinuncia ad esporsi alla motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra le pieghe e le piaghe che caratterizzano il movimento della vita. In questo percorso di fondazione e di costruzione l’idea di retorica si pone in una posizione innovativa. Come sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a Retorica e filosofia Grassi può essere collocato di fatto nel contesto della retorica contemporanea che mette in luce uno slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella  E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 33. 548 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180.  ! 182!  della coerenza. Afferma lo studioso che “gli echi di Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling e molti altri circolano nelle pagine di G, ragione per la quale egli scrive nella tradizione di coloro che credono nella natura circostanziale del pensiero e nella implicita unità di idea e immagine”550. Tale slittamento mette in luce, attraverso il ripercorrimento della lunga storia della retorica, da Aristotele a CICERONE (si veda) e Quintiliano, d’ALIGHIERI (si veda) a BRUNI (si veda) e VALLA (si veda), da VICO (si veda) a Nietzsche e UNGARETTI (si veda), uno scopo ambizioso: capire meglio le ragioni profonde di quella storia e, ripercorrendole, tornare all’universo contemporaneo per cercare di enucleare alcune direzioni di ricerca e suggerire nuovi approcci. La teoria retorica grassiana mette in luce una dimensione pragmatica della coerenza per dirla con McPhail551 che si fonda su una riconsiderazione del tema della credenza/pistis. Il magistero umanistico conduce il filosofo a riscoprire il mondo della storicità umana, il valore conoscitivo della fantasia-ingegno, della metafora, il ruolo civilizzatore e coesivo della retorica, la funzione politico-economica dei miti, il potere metamorfico del lavoro, capace di convertire la natura in cultura. Il filosofo predilige nella sua indagine retorica il momento aurorale, arcaico: i punti di partenza, i presupposti dell’agire, il momento genetico, còlto nelle sue implicazioni gnoseologico- pratiche e antropologiche. Privilegiando la dimensione pre-teoretica, il mondo della vita, il momento che precede quello razionale, le archai originarie, di natura topica e non critica, indicativa e non  Mette in luce l’ipotesi dello slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella della coerenza in G. M. L. McPhail, in Coherence as Rapresentative Anecdote in the Rhetorics of Kenneth Burke and G., pp. 76-118 in AA. VV, Kenneth Burke and contemporary European thought: rhetoric in transition, Tuscaloosa, University of Alabama Press, 1995. Sull’importanza di Grassi nella retorica contemporanea cfr., S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp, Contemporary Perspectives on Rhetoric, Waveland, Long Groove Illinois, capitolo III pp. 54-74. Per un approfondimento dei temi della coerenza e della corrispondenza nelle teorie della verità cfr., M. Dell’Utri, Il falso specchio. Teorie della verità nella filosofia analitica, ETS, Pisa 1996. Cfr., E. Raimondi, La retorica d’oggi, cit., pp. 77-78. 550 R. J. Gabin, Review of Rhetoric and Philosophy: the Humanist Tradition, Quarterly Journal of Speech 69, n. 2 (May 1983), pp. 220-221, p. 221: “Echoes of Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling and many others ring through Grassi’s pages, for he writes in the tradition of those who believe in the circumstantial nature of thought and the underlying unity of idea and image”, p. 221. Traduzione nostra. 551 Cf., M. L. McPhail, op. cit., p. 77. “A comparison of the rhetorics of Burke and Grassi shows that both writers’ conceptualizations of language exemplify the evolution from correspondence to coherence in contemporary rhetorical theory”. “Una comparazione delle retoriche di Burke e Grassi mostra che le riflessioni sul linguaggio di entrambi gli autori esemplificano l’evoluzione dalla teoria della corrispondenza alla teoria della coerenza nella teoria retorica contemporanea”. Traduzione nostra.  ! 183!  dimostrativa, ingegnosa e non razionale, retorica e non logica, egli dedica attenzione particolare ad autori, quali Aristotele, Vico e Leopardi, le cui riflessioni si concentrano sulla dimensione aurorale della fondazione della civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte ad una idea di humanitas all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità non è affidata al procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio denotativo, chiaro e distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza e all’opacità dei tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di logica affidata alla pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il filosofare noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -! la focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei principi epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e dell’azione umani -! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza l’esistenza umana in termini di metafora drammatica, che ha una natura affermativa e positiva in quanto forza propulsiva nella Menschwerdung Grassi vede “l’esistenza umana come essenzialmente retorica ed esplora la metafora come l’aneddoto rappresentativo dell’esistenza”552 che ha potere generativo. La concettualizzazione dei grandi temi della filosofia, ma anche dell’arte e della letteratura, sposta l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo, sulle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La particolare considerazione grassiana dell’umanesimo e della retorica che lo contraddistingue emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma scientifico sulla ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico tradizionale si basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la via da preferire per accedere al reale. La critica grassiana al deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis lo conduce verso l’individuazione del momento critico del pensiero razionale nell’indimostrabilità dei principi.  Ivi, p. 79. “Grassi similarly sees human existence as essentially rhetorical, and explores metaphor as his representative anecdote”. Traduzione nostra.  ! 184!  IV. IV. La struttura della presupposizione Come leggiamo in La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi “la logica tradizionale distingue tra due modi per fondare la conoscenza. Il metodo deduttivo comincia da premesse e deriva le inferenze già presenti in esse. Qui è indispensabile che le premesse risultino universalmente valide e necessarie ma le premesse sono necessariamente presupposte nella deduzione”553. A fare problema è la struttura della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo il filosofo “quando si tratta di protasi, di indicazioni di indole arcaica – cioè originaria, dominante – siamo obbligati a riconoscere che essa non ha e non può avere un carattere dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime Aristotele – noetico”554. I primi principi hanno carattere svelante e manifestativo: si tratta del mitologema originario della filosofia, l’aporia contro cui urta il soggetto parlante. Nella struttura della presupposizione, dell’ipotesi, o, nei termini grassiani, dei “principi indeducibili”, si articola l’intreccio di essere e linguaggio, di mondo e parola di ontologia e logica. Per il filosofo i principi non possono essere dimostrati perché essi sono alla base di ogni dimostrazione. Non attraverso la ratio si accederà ad essi, ma attraverso il pathos, che non è il contrario del sapere ma un’altra forma di sapere, un sapere arcaico. Dalla prospettiva del filosofo dobbiamo chiederci “se le asserzioni originarie non sono dimostrabili, qual è il carattere del discorso con cui le esprimiamo? [...] qui ci si pone di fronte al problema fondamentale del carattere che ha e deve avere la formulazione delle premesse, ossia delle basi”556. Il discorso apodittico, quello che prova e dimostra (apo-deiknymi), pone la definizione di un E. G., La priorità del senso comune e e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, pubblicato in AA. VV., Vico and Contemporary Thought, Vol. I, Humanities Press International, New Jersey 1976, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. Corsivo nostro. 554 Id., Filosofare noetico non metafisico, cit., p. 17. 555 Sul problema della presupposizione come mitologema originario della filosofia cfr., G. Agamben, Che cos’è la filosofia, Quodlibet, Macerata 2016. 556 Cfr., E. Grassi, Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., 97.  ! 185!  fenomeno riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è chiaro che le prime “archai di qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non possono esse stesse essere provate”557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una riflessione sul mito – come “principio instauratore originario di una comunità”558 – sulla dottrina topica-inventiva – interpretata come “dottrina della visione originaria”559 – , sulla metaforologia – come “prassi linguistica e biologica”560 –, sull’ingenium –come “proprietà comprensiva più che deduttiva dell’uomo”561 – e sulla phantasia intesa nella sua funzione ontologica come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base delle visioni delle somiglianze”562. L’apogeo della critica contro la deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni aristoteliche di nous e di episteme. Grassi infatti istituisce un collegamento tra nous e archè, mettendo in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi, colti attraverso la passione. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Leggiamo in Significare arcaico che nella sfera dell’originario non esiste dualismo di pathos e logos e nell’ambito dei segni indicativi noi esperiamo l’aletheia arcaica “sacrale e con ciò estatica, patetica, manica”563. Per il filosofo se “il dualismo di sapere e di pathos non ha luogo nella sfera  Ivi, p. 96. 558 Id., Mito ed arte, cit., p. 162. Cfr., anche Id., Arte e mito, cit. 559 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 93. 560 Cfr., Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 192. “La facoltà del trasferimento di senso, il metapherein, è fin dall’inizio essenziale alla vita”. Cfr., Id., La filosofia dell’umanesimo. In problema epocale, cit., p. 179. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare [...] l’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora”. 561 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 94. 562 Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 190. 563!Id., Significare arcaico, cit., p. 491.!  ! 186!  dell’originario”564 – palesandosi solo nell’ambito, razionale, dedotto – allora dobbiamo constatare che “ogni discorso razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”565. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso non compromettono tuttavia lo spessore filosofico della filosofia di G. che resta integro proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. Le indagini sulla retorica si inseriscono all’interno del contesto ermeneutico di riabilitazione della retorica che, come è noto, ha inizio con le riflessioni di Perelman. La riflessione condotta a partire da una prospettiva di teoria dell’argomentazione e dell’eloquenza genera un’aporia: l’alternativa teorica che si pone è tra un eccesso di retorica e una chiusura nei confronti della retorica. La questione che Grassi pone travalica l’alternativa tra rifiuto o accettazione566 e ha come fuoco di ricerca l’indagine di quello spazio di sapere collocato tra retorica e filosofia. La domanda che il filosofo si pone è: esiste questo e tra retorica e filosofia? L’opposizione tra retorica e filosofia che è oggetto di Retorica e filosofia del 1980 già si profila a partire da L’inizio del pensiero moderno in cui il LINGUAGGIO vive la contrapposizione tra la sua veste scientifico-dimostrativa e quella metaforico-indicativa. Nella nostra analisi prenderemo in considerazione le diverse definizioni di retorica offerte dal filosofo, che corrispondono a funzioni differenti a seconda del contesto nel quale l’argomento retorico è trattato, Ibidem.! 565!Ibidem.! 566 Sulla concezione della retorica in Grassi cfr. M. Marassi, Retorica, storicità ed umanesimo, pp. 199-216, in E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; M. Marassi, Introduzione, pp. 11-27, in E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit. P. R. Blum, Rhetoric is the home of trascendent: Ernesto Grassi’s response to Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History Review, 22:2, pp. 261-287; M. L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote in rethorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118, in B. L. Brock, Kenneth Burke and contemporary european thought, University of Alabama Press, 1995.  ! 187!  allo scopo di mettere in luce non la compromessa unità del concetto di retorica quanto piuttosto l’intrinseca capacità di generare significati e contesti. IV. V. Il logos retorico: la tripartizione del discorso Nel contesto dell’analisi delle molteplici forme di discorso Grassi parte dalla messa in discussione della riduzione del discorso retorico a semplice tecnica di persuasione. Secondo il filosofo il problema retorico può essere affrontato da due punti di vista: si può considerare la retorica in senso tradizionale, “quindi come arte, come tecnica di persuasione”567 o da una prospettiva più generale di interazione con il sapere teoretico. Per comprendere il senso autentico della concezione retorica dovremo prendere le distanze dall’approccio speculativo che la riduce ad arte della persuasione, privandola della componente filosofica. A tal proposito G. individua TRE TIPI DI DISCORSO: il discorso retorico esteriore, IL DISCORSO RAZIONALE [cf. H P. Grice, The rules of rational discourse], e il vero discorso retorico. Il primo discorso “si riferisce solo alle immagini perché influenzano le passioni”568 ed è il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è il classico discorso razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero discorso retorico che “scaturisce dalle archai”569: esso non è deducibile ma è indicativo. ! E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 55. 568 Ivi, p. 75. 569 Ibidem.  ! 188!  Tralasciando il secondo tipo di discorso, quello razionale – di cui si è già detto sopra – vorremmo soffermarci sul duplice senso del discorso retorico: come tecnica della persuasione e come discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo è quello di rintracciare le caratteristiche del discorso semantico sulla base del quale è possibile comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione sia il discorso razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga il proprio raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto della retorica classica per divenire occasione per un ripensamento dei fondamenti del sapere scientifico-filosofico e della tecnica oratoria classicamente intesa. Quella di Grassi è non è l’ennesima sistemazione tassonomica del materiale discorsivo ma una retorica come teoria che assurge a filosofia generale e che ha come oggetto di riflessione i fondamenti pre-teoretici, pre-categoriali, ante-predicativi del sapere. Il filosofo parla non a caso di significare arcaico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “il discorso indicativo o allusivo (semeinein) fornisce la struttura in cui può nascere la prova. Inoltre se la razionalità è identificata con il processo di chiarificazione, noi siamo costretti ad ammettere che la primitiva chiarezza dei principi non è razionale, e a riconoscere che il linguaggio corrispondente, nella sua struttura indicativa, ha un carattere evangelico”570. Secondo il pensatore milanese tale tipologia di discorso – quello semantico-arcaico – è una Darstellung, una esposizione fantastica-teoretica. In questa esposizione fantasia e teoria si identificano in quanto facoltà della visione: “in tal modo il discorso che realizza tale esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai) un significato”571. Il sistema retorico grassiano mira a costruire il ponte tra retorica e filosofia e proprio in questa operazione di integrazione possiamo individuare l’unità del discorso contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già soffermati572. Afferma il filosofo che “la filosofia non è una sintesi posteriore di pathos e logos, ma l’unità originaria di entrambi sotto il potere delle archai originarie [...] quindi la vera filosofia è la retorica e la vera retorica è la Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 571 Ibidem. 572 Cfr. III capitolo.  ! 189!  filosofia”573. Contro la tradizione occidentale razionalista Grassi non pensa che la retorica non sia fonte di conoscenza vera, anzi la retorica nasce dall’“insufficienza del pensiero razionale”574. Così il termine retorica assume un significato essenzialmente nuovo: “retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”575. Si tratta della tragedia del pensiero razionalistico che si trova a fare i conti con la matrice stessa del suo procedimento. La genesi della struttura del LINGUAGGIO razionale, dialettico, dimostrativo è il linguaggio semantico, immediato, illuminante, indicativo. Se il logos indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può nascere la prova, la cui primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo riconoscere che il linguaggio corrispondente ha un carattere indicativo ed evangelico “nel primitivo significato greco di questa parola, cioè di osservare. La retorica come punto di partenza della scienza e della razionalità è contrassegnata da una nota antropologica che si configura come compensazione dell’indeterminatezza dell’essere umano. Essa allora costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di codici prestabiliti. Come avrebbe detto Blumenberg assioma di ogni retorica è il PRINCIPIO DI RAGIONE INSUFFICIENTE e ciò vale anche per G. che conosceva bene Blumenberg e che asserisce, con una sorprendente consonanza teorica, che la retorica nasce dall’insufficienza del pensiero razionale. La retorica allora mostra l’imbarazzante luogo in cui si trova: certifica da un lato l’insufficienza e dall’altro pone in luce quelle prassi che si dipartono da quell’insufficienza originaria e che non possono essere messe da parte in nome di una scienza della verità e dell’evidenza. E. G., Retorica come filosofia, cit., p. 74. Corsivi nostri. 574 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. 575 Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 576 Ibidem. 577 H. Blumenberg, La realtà in cui viviamo, Feltrinelli. Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. Cfr., E. Grassi-H. Blumenberg, Correspondenz, consultabile presso il Deutsches Literatur Archiv di Marbach.  ! 190!  Se in Blumenberg abbiamo una distinzione tra retorica dell’ornatus e retorica come prestazione metaforica, tale che la retorica come compensazione di una mancanza non si articola anche come compensazione di una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in ultima istanza una piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in G. la compensazione entra in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di evidenza, per eccesso di verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente, che ci incalza e ci chiama – l’appello dell’essere – appare nella sua evidenza abbagliante che possiamo solo patire. Come possiamo leggere in La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora “ciò che patiamo non sono gli enti ma ciò che in funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore – si impone sempre carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto l’impeto di segni indicativi, cioè dell’abissale di cui i sensi sono strumenti. Das Reale als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo Grassi è il reale, il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa scattare il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della vita che è evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è caratterizzata da un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione esistenziale – sia essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in Grassi retorica e filosofia, pathos e logos non sono che due approcci metodologicamente distinti ma che hanno una medesima origine: il reale che genera angoscia, la quale indica la “fondamentale esperienza esistenziale dell’inadeguatezza del codice biologico”582. Essa “spezza il cerchio funzionale puramente biologico e [...] a mezzo della parola, porta l’uomo alla conoscenza di tale potenza, cioè alla consapevolezza della propria condizione strana e non addomesticata”583. La proposta retorica e  Quella dell’uomo ricco che possiede la verità. 580 Quella dell’uomo povero che non possiede la verità e che fa della retorica una tecnica compensativa. 581 E. Grassi, La metafora “inaudita”: originarietà e paradossia della metafora, pp. 5-20, in Quaderni di italianistica Volume IX, No. 1, 1988, p. 15. 582 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 189. 583 Ivi. I corsivi sono nostri.  ! 191!  linguistica del filosofo si pone in antitesi alla coeva retorica di Perelman-Tyteca almeno per quanto concerne la teoria dell’evidenza. In Trattato dell’argomentazione abbiamo una definizione del discorso proprio in relazione al suo rapporto con l’evidenza: “la natura stessa dell’argomentazione e della deliberazione s’oppone alla necessità e all’evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né s’argomenta contro l’evidenza. Il campo dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui questo sfugge alle certezze del calcolo”584. Secondo questa concezione il campo dell’argomentazione è la prassi, l’attività umana, e un inaggirabile carattere è quello dell’incertezza. In quest’area dell’indefinibile una volta per tutte rientrano tutte quelle opinioni, giudizi di valore, inquietudini, incertezze che non si qualificano come errori, non si oppongono in modo irrevocabile ad una verità (che risponde solo ai criteri della scienza) ma che rientrano a pieno titolo in quell’idea di ragione integrale in cui il vero si declina come verisimile. Emerge il tema dell’eikos concettualizzato anche da G. nella sua lettura di VICO e che mostra il progetto di una nuova retorica che fa appello ad una idea di ragione e verità che non si misura solo con il criterio dell’evidenza ma che salvaguardia il valore di verità delle questioni morali, sociali, politiche e religiose. Afferma il filosofo in Retorica come filosofia che il logos della nuova retorica è quello capace di dire “il fondamento del mondo umano, il mondo come espressione di disperazione nella situazione specificamente umana”585. Tale logos in quanto onoma e rhema, in quanto nome e verbo, dice non solo l’oggetto (objectum) ma la totalità di significatività nella quale è inserito l’oggetto. Sostiene il filosofo che “questa distinzione – quella di onoma e rhema – acquista un significato fondamentale. La parola in quanto nome designa ciò che chiamiamo oggetto (objectum). Ma un oggetto non esiste mai isolato, poiché appare sempre solo nella dinamica di un compito da adempiere rispetto a certi bisogni”586. La parola allora non definisce e non isola i fenomeni sensibili ma è lo spazio in cui accade la loro relazione reciproca e la connessione con C. Perelman-L. Olbrechts-Tytheca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 2001, p. 3. 585 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 191. 586 Ivi, p. 192. I corsivi sono nostri.  ! 192!  l’essenza umana. “La parola in quanto presupposto e annuncio [...] viene perciò espressa nel linguaggio retorico, in quel linguaggio che si impone nel nostro impegno disperato e patetico, dal momento che la preoccupazione principale è quella di formare l’esistenza umana”587. Proprio perché massimamente evidente nella sua poliedricità il reale trova la sua dicibilità nella multiformità linguistica: attraverso il dire metaforico. Secondo il filosofo la “metafora agisce come una luce perché presuppone un’intuizione di relazioni. L’essenza della parola risposa nella sua struttura analogica e traspositiva. L’unica parola capace di indicare il trasferimento, il potere di mutazione e trasposizione è la metafora. Grassi sottolinea come “il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario: il termine metapherein indica il tra-sferire un oggetto da un luogo ad un altro – dualità – il che presuppone un passaggio, un transito, un ponte che l’uomo deve progettare, cioè gettare da un luogo ad un altro luogo, da un qui ad un là”589. La questione non è tanto quella di congedarsi dalla verità ma quella di abbozzare i prolegomeni per una riflessione metodologica sui fondamenti del discorso, sui presupposti dell’argomentazione. La nuova retorica grassiana prende congedo da un’idea di evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa perno su un’idea di evidenza come certezza: lo sfondo antropologico della retorica sottolinea come il nostro sapere sia basato sulla fiducia, sulla pistis che ha la stessa radice di persuadere. La certezza è una sorta di fiducia originaria. Come il filosofo asserisce in Il ripudio del razionale la pistis “non è opinione né conoscenza [...] poiché non ha le radici nell’indicazione di una ragione, ma è il risultato di un’esperienza fondamentale che porta a un atteggiamento. Tale atteggiamento scaturisce dall’esperienza di un compito (Auf-gabe) nel duplice senso della parola: l’esperienza di una domanda (An-spruch), una dichiarazione nei riguardi dell’essere”590. Il rapporto fiduciario costituisce allora uno dei tratti antropo-biologici fondamentali che solo successivamente si tramuta in techne retorica – la retorica come arte della persuasione. Attraverso la  Ibidem. I corsivi sono nostri. 588 Ivi, p. 167. 589 Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 10. 590 Id., Il ripudio del razionale, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, p. 165.  ! 193!  lunga “preistoria” umanistica dell’antropologia filosofica per Grassi possiamo comprendere il fondamentale incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica della funzione della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica diviene una tecnica per condurre la vita, elaborata da parte di un essere, l’uomo, che si scopre povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di strategie indirette di sopravvivenza per la costruzione di un universo culturale. Il discorso more rhetorico ingloba anche quella categoria del politico all’interno del processo linguistico che rende possibile la fondazione della comunità. L’apertura è verso una considerazione della retorica come meccanismo antropogenetico – la fondazione politico-civile – e come riflessione metodologica sui presupposti del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto di vista antropologico, come fa G., significa rintracciare il fondamento tecnico dell’autoaffermazione nella costruzione di un mondo culturale e di un sistema di istituzioni in quanto strategia di sopravvivenza in assenza di una Umwelt naturale che assicuri l’esistenza umana. In questa prospettiva ermeneutica vanno inquadrate le interpretazioni grassiane dell’umanesimo. Come si afferma in Retorica come filosofia la negazione umanistica del primato della logica “rompe con l’ideale matematico della conoscenza”1 e per comprendere questa tradizione umanistica occorre prendere in considerazione quelle teorie che “trattano del problema dell’origine della comunità umana e della funzione politica della poesia”592. La tecnica retorica si configura come forma paradigmatica di quella relazione indiretta, esonerante, con la realtà, che è costitutiva della natura umana. L’idea guida è quella di un agire umano inteso come compensazione dell’“indeterminatezza” cui risulterà coordinata una retorica intesa come faticosa produzione di quelle concordanze che debbono subentrare al posto del fondo “sostanziale” dei codici affinché l’agire diventi possibile. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni.  Id., Retorica come filosofia, cit., p. 133. 592 Ibidem. Corsivi nostri.  ! 194!  La radicalizzazione antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un aspetto fondamentale dell’interpretazione di Grassi: il comportamento tecnico dell’uomo che genera la retorica, in qualità di prestazione sostitutiva/esonerante, non esce dalla logica compensativa. La retorica rimane per Grassi – proprio per la sua valenza antropologica – una prestazione compensativa/sostitutiva, e la stessa funzione finisce con l’essere attribuita retrospettivamente alla metaforologia e in prospettiva alla creazione di istituzioni. La declinazione antropologica operata da G. comporta che il fenomeno storico “retorica” sia privato della sua storia concettuale e delle sue funzioni effettuali nella storia della cultura e della società, e sia eletto a metafora assoluta della conditio humana. Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti del discorso di Grassi, che rimane chiuso in un’interpretazione che in ultima analisi lo costringe a considerare il comportamento tecnico dell’uomo come una prestazione sostitutiva/esonerante, non uscendo dalla logica compensativa, e non fornendo in alcun modo una lettura adeguata della natura tecnica dell’uomo, cioè di quella stessa interazione natura/ars da cui pure muoveva l’interesse antropologico per la retorica. La salvaguardia delle molteplici forme di apparire dell’essere – il vero, il buono, il bello – , della metamorphè costitutiva del reale, induce Grassi a ricercare la forma linguistica adeguata a dire tale metamorphè. Il filosofo si pone i seguenti quesiti: -! “attraverso che cosa sorge il mondo umano se l’uomo, a differenza degli animali, non ha un ambiente immediato, se questo deve essere costruito ogni volta dall’individuo? In altre parole, qual è la causa dell’umanizzazione della natura?” 593 -! “come si rapporta questa costruzione del mondo umano al fenomeno del linguaggio, del logos?”594 -! “è possibile superare la concezione puramente formale della conoscenza?” Ivi, p. 183. Corsivi nostri. 594 Ibidem. 595 Ibidem.Corsivo nostro.  ! 195!  Le domande che vengono poste riguardano tre livelli della riflessione: il livello antropogenetico della fondazione della civiltà; il piano linguistico dell’espressione del rapporto uomo-mondo; il tema epistemologico della natura della conoscenza. Cercare di risolvere questi problemi comporta per Grassi un’analisi della storia dell’umanesimo che propone una rinnovata idea di logos. Il logos non può essere ridotto al suo aspetto formalizzato, logicista, scientifico. Una questione fondamentale è quella del passaggio dall’Umwelt alla Welt, dal mondo ambiente contraddistinto dall’immediatezza non-verbale del codice biologico al mondo umano. Secondo il filosofo esiste un’area in cui possiamo trovare segni indicativi e costrittivi senza la mediazione della razionalità e del linguaggio: si tratta del mondo organico. L’analisi del mondo organico mostra degli aspetti che possono essere ritrovati nel mondo sacrale e retorico. Nell’ambito dell’organico ogni genere e specie vivente sta sotto i propri segni determinati e indicativi. Tali codici/diastema mostrano che “la realtà appare alla creatura vivente esclusivamente entro selezioni. Le selezioni (codici/diastema) si inseriscono all’interno del “cerchio funzionale simbolico della vita” – nozione mutuata da J. Von Uexküll – che indica “un’unità intatta di segni che sono significativi per la vita”599. Secondo il filosofo l’analisi del mondo animale e biologico consente di rintracciare delle analogie con le strutture del mondo sacrale, religioso, retorico che getta luce su un’idea di filosofia rinnovata in senso non intellettualistico.  Ivi, p. 182. 597 Ivi, p. 180. 598 Ivi, pp. 180-181. I corsivi sono nostri. 599 Ivi, p. 181.  ! 196!  Dal punto di vista grassiano i semata che ritroviamo nel mondo biologico mostrano un’intrinseca forza induttiva (epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di guida (arcaico) che costringe l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti del proprio cerchio funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione. “Questi segni possiedono una funzione metaforica perché trasferiscono un significato a ciò che gli organi manifestano. Attraverso questo trasferimento di significati appare all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce la sua sola realtà. I segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi di questi ambienti, di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco come ordine e ornamento – avviene a livello organico”601 per l’autoconservazione. L’unità dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in cui la comunicazione avviene per voci significative (psophos semantikos) viene meno nell’uomo. La rottura del codice non verbale immediato che porta alla genesi del mondo umano implica anche il superamento del livello della “comunicazione fonetica immediata”602 e la nascita del logos. Con il linguaggio si profila un compito per l’uomo: “il compito di costruire il mondo in cui vivere”603 che spetta all’essere umano come singolo e “non ai segni indicativi immediati del mondo olistico e non problematico. L’esperienza della frattura – la disintegrazione del mondo intatto e olistico del biologico – mette l’uomo di fronte alla propria Angst: “gli uomini patiscono l’angoscia che si presenta nell’esperienza fondamentale di non avere a disposizione un codice immediatamente efficace”605. Ma come avviene questa frattura nel mondo animale? Il logos è causa della disintegrazione del cerchio funzionale simbolico o prestazione compensativa per riunire ciò che si era spezzato? 600 Ibidem. 601 Ivi, p. 182. 602 Ivi, p. 183. 603 Ivi, p. 184 604 Ibidem. 605 Ibidem.  ! 197!  IV. VII. Il logos umano: suono, voce, parola Secondo G. occorre rifiutare la tesi secondo la quale “il linguaggio stesso è la causa per eccellenza della dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola gli oggetti della vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il loro significato”606. Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la dissoluzione è già avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos – un codice completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se l’unità non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e oggetto? Sostiene il filosofo che “la funzione significativa del linguaggio può essere spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia indebolita la comunicazione pre- verble”607. Il linguaggio non è la causa della separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice immediato. “Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè, un congiungimento di soggetto e oggetto”608. Il logos nasce sullo sfondo di un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura “non addomesticata”609 dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da Grassi dobbiamo prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla voce e sulla parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del 606 Ivi, p. 185. Il riferimento polemico grassiano è alla tesi di R. Thom esposte in Modelli matematici della morfogenesi, Einaudi, Torino 1985. 607 Ivi, pp. 187-188. 608 Ivi, p. 188. 609 Ivi, p. 189.  ! 198!  linguaggio, in La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora e nel testo La metafora inaudita. Sostiene il filosofo che per delineare i “prolegomena”610 al problema del linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné. Prendendo in considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II libro del De anima circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi del linguaggio611 il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura metaforica della voce – il suono semantico – che va a costituire il linguaggio. “Aristotele distingue fondamentalmente [...] il suono (psophos) dalla voce (phoné) per poi [...] definire la voce come suono indicativo (psophos semantikos). Da ciò dovremmo dedurre che la voce costituisce qualcosa di completamente nuovo in confronto al suono, non solo, ma che la voce è una metafora, cioè nasce dal trasferire (metapherein) un significato, un segno indicativo (sema) al suono (psophos)”612. La dualità tra suono e voce –la voce è ciò che assegna al suono un significato – è fortemente criticata da Grassi che invece ha come scopo quello di superare il dualismo mettendo in discussione l’idea che il suono non abbia un intrinseco significato. Si chiede il filosofo “è dunque valida la concezione tradizionale dualistica di suono senza significato e voce, suono semantico indicativo, phoné?”613. G. dispprova la spiegazione aristotelica tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale spiegazione non tiene conto che il suono appare attraverso uno strumento che nel caso dell’uomo è “l’organo uditivo”614; occorre, al contrario, tenere presente che il suono “ci appare solo entro l’ambito di un codice che si impone”615; bisogna considerare la mutevolezza del codice616. Come Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 611!Aristotele, De anima II, 420 b 29.! 612!E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 613!Id., Prolegomena, cit., p. 42.! 614!Ivi, p. 43. 615 Ibidem. 616 Ibidem.  ! 199!  è noto Aristotele definisce il suono come ciò che è “sempre prodotto dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa, perché ciò che lo produce è una percussione. É pertanto impossibile che si abbia un suono in presenza di un solo oggetto, giacchè il percuziente e il percosso sono distinti”617. Affinchè il suono si trasformi in voce occorre tenere in considerazione l’elemento della vita618. Solo l’essere animato può produrre il suono semantico, la voce, la phonè. Se gli elementi determinanti della voce sono la vita (la voce è il suono dell’essere animato) e il suo carattere interpretativo (il suo essere hermeneia tinos) per Grassi occorre risalire all’ambito originario del suono: quello della vita. Proprio l’operazione di radicamento dell’origine del suono nel mondo della vita induce al filosofo ad affermare che “per l’essere organico, cioè per quello che manifesta il mondo attraverso i propri organi, non esiste un suono che non sia voce”619, ossia non esiste un suono di natura puramente meccanica ma solo un suono dotato di un significato. Infatti per il filosofo i suoni semantici schiudono “il teatro, nel significato originario di questo termine, cioè il luogo del vedere, del theorein”620. Ma come e dove si rivela l’ambito significativo testimoniato dal suono? Per Grassi innanzitutto nei sensi. Riprendendo le teorie del fisiologo J. Müller621 sull’energia sensoriale specifica – ossia quella legge secondo la quale ogni senso produce solo il tipo di sensazione che ad esso è specificamente pertinente indipendentemente dal tipo di stimolazione a cui è sottoposto – G. individua la possibilità di rintracciare innanzitutto nei sensi la genesi della significazione. Egli afferma che “ogni sensazione è carica di significato”622 e la significatività della voce (che traspone un significato al suono) si radica  617!Aristotele, De anima, II libro, 419 b 10-14.! 618!Ivi, 420 b 7-9. “Quanto alla voce, essa è un suono dell’essere animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati emette una voce, ma per somiglianza si dice che ce l’hanno, come il flauto”. 619!E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 31.! 620!Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 19.! 621!Il testo al quale Grassi fa riferimento è Ueber die phantastischen Gesichtserscheinuungen, Koblenz, 1826, pp. 4-5. 622!E. G., Prolegomena, cit., p. 45.  ! 200!  originariamente nella significatività già presente nei sensi. Questi ultimi dotati di un’energia specifica e carica di significato pongono in luce l’ambito originario di formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. “Ciò che rivelano i sensi, entro i limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon, estraneo ai sensi, non è un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis, intesa come parousia”623. Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale ambito originario ha una struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere la metaforicità del reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in cui l’uomo fa esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: “in cosa consiste il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella passione, nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e dolore – fa l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere a ciò di cui è un’indicazione”624. Il problema dal quale partire è quello di corrispondere all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta si presentano all’uomo: emerge il tema del superamento della “insercuritas esistenziale”625, del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il proprium dell’uomo, ossia la parola. Si chiede il filosofo: “come definire ciò che ci è consueto, ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci sentiamo a nostro agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma quale linguaggio, quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la parola nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta, aliena?”626. Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la spaesatezza dell’Aperto conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce quella relazione essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per Grassi è l’individuazione di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi !Ivi, pp. 49-50.! 624!Ivi, p. 50. 625!E. Grassi, Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in “Studi di estetica”, Bologna, pp. 21-33. 626!Ivi, p. 21.  ! 201!  della metafora nella sua priorità rispetto al concetto, e della poesia come espressione della storicità dell’esistenza. IV. VIII. Metafora e concetto Afferma il filosofo che “il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora”627 e si chiede se la metafora “che ricorre per lo più alle immagini, va considerata un mezzo solo letterario [...] o è indispensabile per esprimere l’Originario”628. La Frage che sorregge la sua indagine metaforologica mostra una componente onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per G un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore italiano che “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”629. Siamo al cospetto di una teoria della metafora che coniuga l’analisi della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo cognitivo ed esistenziale. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”630 che mette in campo una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca  Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 628 Ibidem. 629 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, p. 76. Corsivo nostro. 630 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 14  ! 202!  l’importanza dell’esperienza storica”631. La riflessione sulla metafora è per G. un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che non è in grado di dire la natura temporale, storica e metamorfica degli enti, che si esprimono nei sempre diversi significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da qui la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”632; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”633, abbiamo il logos ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Secondo il filosofo “il termine metafora è esso stesso una metafora; deriva dal verbo metapherein, trasferire, che originariamente descriveva un’attività concreta. Alcuni autori limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo a un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze”634. Alla metafora fa da contraltare il concetto al quale spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Nella ricostruzione etimologica grassiana il significato di hòros può essere colto nella sua portata originaria mediante il riferimento “al verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs)  Ivi, p. 15. 632 Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 633 Ibidem. Corsivi nostri. 634 Id., Retorica come filosofia, Ivi, p. 76. Cfr., sull’analisi della metafora in G. M. Marassi, G. e il primato della parola metaforica, pp. 264-291, in I. Pozzoni, Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, 2011.  ! 203!  esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”635, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”636, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”637, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo” 638, costituiscono la triade del significare arcaico. Il senso autentico della metafisica immanente di G. emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica”639. IV.IX. La prassi metaforica: metafora e metapherein La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. Come 635Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 636Id., SIGNIFICARE ARCAICO, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202. 638Id., Significare arcaico, cit., p. 494. 639 Id., Il colloquio come evento, cit., p. 71. ! 204!   emerge già a partire da Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti, incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema della fondazione metaforologica. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che per G. non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo. Il polimorfismo ontologico viene maggiormente salvaguardato attraverso il pensiero topico, ingegnoso, in grado di apprendere e rintracciare i loci dell’argomentazione; capacità, questa, di cui il pensiero critico, tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni, sembra essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche: come possa essere descritto il trasferimento semantico ad esse sotteso, quali componenti riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di storie. Interessa invece ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce, che cosa raccontino del modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la “realtà”. Per Grassi la metafora si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed è stata una componente essenziale dei processi attraverso cui le culture interpretano e strutturano il mondo che le circonda. Il filosofo afferma in Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio che “non va dimenticato che il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario; il termine metapherein indica il trasferire da un luogo ad un altro luogo e Id., Significare arcaico, cit., p. 494. ! 205!   ciò presuppone un passaggio, un transito, un ponte. L’uomo deve progettare questo passaggio, gettare un ponte da un luogo ad un altro. L’approccio antropologico-filosofico descrive e ripercorre una modalità di accesso al senso attraverso la metafora, e allo stesso tempo tenta di ricostruire la storia della fondazione del mondo della vita e della comunità umana individuando nei processi di metaforizzazione e di concettualizzazione i congegni antropogenetici e i fenomeni di base dell’umanizzazione. Nella semantica metaforica di G. non trova posto l’usuale contrapposizione del senso traslato con il senso letterale di un’espressione. Infatti “il termine metafora indica originariamente presso i Greci un’azione concreta e per la precisione il trasferimento di un oggetto da un luogo ad un altro; soltanto più tardi il termine compare anche nell’ambito del linguaggio”642. Se l’idea che riduce la metafora ad orpello linguistico – senza tenere conto della sua matrice pratica – va messa da parte occorre anche rifiutare la prospettiva che tenta di sostituire la metafora al concetto. Per Grassi la metafora non si trova a supplire momentaneamente l’insufficienza del concetto, fornendo un significato di passaggio, un senso provvisorio in attesa di esser sostituito da quello proprio dei termini logici. La particolarità dei termini logici – l’esattezza – determina allo stesso tempo una perdita di polisemia, potremmo dire una riduzione delle loro potenziali connessioni di senso. Essi sono contraddistinti da una cristallizzazione del significato in un unico percorso interpretativo, da una pauperizzazione semantica inversamente proporzionale alla chiarezza e distinzione logica: è il fio che occorre pagare per una filosofia pura. Per il filosofo “interrogarsi sul ruolo della metafora equivale perciò a chiedersi se la metafora rappresenti nel linguaggio filosofico soltanto un residuo di rappresentazioni che dev’essere superato allorchè ci si mette sulla via del logos”643. Nella prospettiva tradizionale la metafora sembra peccare di imprecisione, ragione per cui è sempre stata estromessa dalla filosofia, per essere ricompresa nella retorica o nella poetica. Ma a ben 641 Id., Prolegomena ad una concezione della retorica, cit., p. 40. 642!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. 643!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. Corsivi nostri.!  ! 206!  guardare quella che per il pensiero logico è una imprecisione, “uno scandalo per la logica [...] un elemento distraente che non ha nulla a che fare con la realtà”644, in realtà è dotata di una precisione intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il tratto di precisione della metafora emerge all’interno del discorso su Vico il cui carattere di epocalità è rintracciato proprio in quella divaricazione della metafisica in ragionata e fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano dell’homo non intelligendo fit omnia Grassi asserisce che “se con la metafora [...] si risponde alle varie necessità, il linguaggio metaforico, ricco di elementi fantastici è originale, preciso, a differenza di quello astratto che si allontana”645 dal reale. L’analisi della metafora fa emergere l’idea di una metafora drammatica e inaudita646, nel senso di assoluta, riprendendo una feconda espressione di Blumenberg. Essa si rivela uno strumento ermeneutico e va a strutturare i codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose. Del resto già Kant, nel famoso paragrafo 59 della Critica del giudizio (1790), trattando il procedimento della “traslazione della riflessione”, definisce il simbolo647 in maniera del tutto simile alla metafora grassiana. Essa determina un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo che si trova a esser strutturato dalla metafora. Attraverso la metafora un’epoca esprime le proprie certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie aspirazioni, le aspettative, le azioni e gli interessi. Essa assume la Id., Prolegomena, cit., p. 41 645 Id., G. B. Vico: un filosofo epocale, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 646 Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Il dramma della metafora, cit.; Id., Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), cit., pp. 21-33; La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., pp. 5-20. 647 I. Kant, Critica del Giudizio, tr. i. di A. Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 183- 385. “A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni (Darstellungen- exhibitiones) [...] tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia [...] in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il primo non è che il simbolo [...]. La nostra lingua è piena di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione”.  ! 207!  funzione del codice. Per il filosofo occorre “sollevare la questione, di solito trascurata, della relazione tra codice e metafora”648. Sostiene il pensatore che l’atto di leggere e interpretare la realtà con un codice specifico – ossia con “un sistema di segni, gli elementi dei quali ricevono un significato entro il sistema”649 – “costituisce una sorta di attività metaforica”650. L’attività metaforica mostra un’analogia con il codice poiché rende possibile la visione degli enti e soprattutto la similitudo, ciò che è comune a più enti. Riprendendo la teoria aristotelica esposta nella Poetica secondo cui “l’usare bene la metafora significa percepire con la mente l’oggetto affine”651 G. pone strettamente in relazione l’eu metapherein e il to omoi on theorein. La metaforizzazione va identificata da un lato con la visione delle somiglianze ma dall’altro libera la sua vis generativa nella scoperta del novum: il me phaneròn. Ciò che è nuovo nella scoperta metaforica è ciò che non era evidente in precedenza. “La metafora scopre ciò che non era stato visto in precedenza, lo porta alla luce, in quanto essa nasce dalla necessità della chiarezza”652. Proprio qui risiede la differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno di decifrazione653 codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del novum. Sostiene Grassi che “nessun codice è capace di adempiere questa funzione, perché un codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già date, e sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un codice che conduca a un nuovo codice [...] funzione della metafora è l’invenzione, scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo codice”654. Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di Grassi è paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un metodo che risale verso archetipi, i quali !E. G., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 76.! 649!Ivi, p. 75.! 650!Ibidem. 651!Aristotele, Poetica, 1459 a 7.! 652 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 74. 653!Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 77.! 654!Ivi, pp. 76-77. Corsivi nostri.  ! 208!  fungono da paradigmi esplicativi dei comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi propri della storia della cultura occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung, un Rahmen originario di riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e si espandono i concetti e i confini dei campi semantici, stabilendo nuove connessioni di senso, soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e ogni autore attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma fornito dalla metafora stessa. La produttività antropologica della metafora viene quindi portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla contrapposizione tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua volta nasconde l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda che chiede “come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua trasposizione?”655 alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un senso traslato o proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la struttura di “visione delle somiglianze della metafora”656. In contrasto con una concezione del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la metaforologia grassiana indica un’inconcettualità basica: ciò che interessa non è dunque l’esistenza di un correlato di cui si asserisce l’assenza di formalizzazione linguistica o l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di esporre linguisticamente l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein. Grassi elabora una semantica metaforica che affonda le sue radici in un orizzonte di inconcettualità e sposta l’attenzione su quella dimensione di gettatezza, sul nostro essere calati in un mondo di immagini che chiedono di essere interpretate. In uno dei suoi ultimi testi, La metafora inaudita, G. si mostra meno interessato al percorso di nominalizzazione che porta la metafora verso il concetto, come accadeva invece nei precedenti lavori sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta sempre di più verso il terreno in cui si formano le metafore, e cioè il mondo della vita, la Lebenswelt che mostra tutto il suo assolutismo, che viene contrastato proprio attraverso le prestazioni della distanza nelle forme del mito e delle metafore assolute, e quindi delle diverse pratiche metaforiche che traducono queste  Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 195. 656 Ibidem.  ! 209!  prestazioni, la cui funzione principale risulta allora compensatoria ed esonerante. Leggiamo in Il dramma della metafora che “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”657. I processi di metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà sono in altre parole lo strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare l’assolutismo della realtà e a rendere meno violenta la sua percezione. L’analisi della prassi metaforica parte dalla domanda “dove, come patiamo l’oggettività dell’essere?”658 che sorge laddove si fa esperienza dell’incapacità di restituire la ricchezza della res – il mondo oggettivo – attraverso l’univocità della definizione. Se “l’essenza della parola consiste nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre un traslato, necessariamente il problema della verità sempre e ovunque valida deve venir sostituito dal problema di ciò che di volta in volta si svela nella storia”659. La retorica è la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di volta in volta viene all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in quella dell’Ereignis. Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti mediante un processo razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È questo il prezzo da pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a distanza tutti quegli elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni. Sostiene Grassi in Retorica come filosofia che “le teorie cartesiane continuano a determinare ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale dell’Umanesimo e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di Cartesio desidero esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano”660. G. è mosso dal convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche del sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere verità e certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di erudizione filologica che ha a che fare con la sfera delle 657Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica, Napoli 1992, p. 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 659 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. Corsivi nostri. 660 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 80.  ! 210!  passioni e delle immagini. La vera filosofia è quella critica a cui Grassi vuole opporre una priorità trascendentale della topica e per farlo ricorre a Vico e a Aristotele. Contro una simile impostazione che separa scienza e vita Grassi vuole proporre un’idea unitaria di logos e pathos in cui la retorica assuma un ruolo preponderante. Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi fondamentali: le immagini, le metafore – viene considerata come ciò che va respinto in quanto “ragione non ancora realizzata”661, come priva di chiarezza razionale e verità rigorosa generando “l’ideale cartesiano [di] una filosofia disadorna, impersonale, senza tempo e senza luogo”662. Tenendo in considerazione l’importanza che l’umanesimo retorico attribuisce alla parola, come ciò che apre il mondo, la filologia assurge a una posizione fondamentale all’interno degli studia humanitatis. Secondo il filosofo “la parola deve essere considerata un fenomeno originario, non solo espressione del pensiero”663. Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato una riabilitazione del pensiero umanista che parte dal convincimento della preminenza del problema della parola su quello degli enti. Secondo il filosofo il legame tra parole e cose non va inteso come semplice corrispondenza delle une alle altre – poiché la parola non designa univocamente la cosa – poiché il significato di una cosa dipende dal contesto concreto in cui la parola viene utilizzata. La riflessione retorica stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico non metafisico che parte dalla parola e non dall’ente. In questo percorso Vico riveste un ruolo particolare. IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le fonti del mondo storico individuate da Vico La proposta grassiana di ripensamento della retorica nella sua identità con la filosofia viene sempre più a svelare il suo senso esistenziale e intersoggettivo. La secca alternativa tra un filosofare ridotto a ricerca delle verità eterne – condotta attraverso un argomentare poggiante su basi deduttive ed un linguaggio razionale e formalizzato – e una retorica intesa come argomentazione debole o  Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180. 662 Ivi, p. 181. 663 Id., Potenza dell’immagine] tecnica del bel parlare – induce il filosofo a ripensare la correlazione retorica-filosofia a partire dal nesso vero-verisimile. Il tema è al centro di un saggio su Vico, Del vero e del VEROSIMILE in Vico, che mostra come la figura del filosofo napoletano sia una presenza costante all’interno dell’iter di pensiero grassiano – e non uno sbocco finale della filosofia di Grassi – e costituisca l’occasione di determinare il significato autentico di retorica. In Vico Grassi rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del linguaggio retorico, che ha il proprio fulcro nella figura della metafora, prodotto dell’ingenium. Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio – ritornante in maniera fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico, Grassi sottolinea come a differenza della filosofia critica poggiante sulla ratio la filosofia topica vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della fantasia che sono facoltà di apprensione del reale immediate e intuitive e non deduttive. Asserisce il filosofo italiano che la fantasia vichiana “è l’espressione dello spirito umano in quell’istante del ciclo storico, che esso deve sempre nuovamente percorrere, quando l’ente originario si rivela all’uomo solo in immagini, simboli, miti. A riguardo si deve notare che anche il mondo della fantasia, come prima fase dello sviluppo dello spirito umano, non è un mondo primitivo in senso negativo; è essenzialmente e perfettamente formato in sé, per certi aspetti è ancora più vicino all’ente originario di quanto non lo sia il mondo della ragione”666. A differenza del pensiero critico il pensiero topico ha come suo oggetto tematico il verosimile che appartiene alla sfera del possibile e non del necessario ed è legato al tempo e allo spazio della situazione. Leggiamo in Retorica e filosofia che “solo l’intuizione delle caratteristiche comuni o condivise nel senso summenzionato rende possibile il conferimento di significati che consentono alle cose di apparire (phainesthai) in modo umano. Poiché tale capacità è tipica della fantasia, è proprio quest’ultima a permettere al mondo umano di !Id., Del vero e del verosimile in Vico, pp. 951-966, in Id., I primi scritti, cit.!! 665 Sulla presenza di Vico in Grassi cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di E. Grassi, cit.; J. Sanchez-Esquillace, E. Grassi y la filosofìa del Humanismo, cit., J. M. Sevilla, Critica de la razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 666!E. G., Del vero e del VEROSIMILE in Vico] apparire”667. Conseguentemente la fantasia si esprime originariamente nelle metafore “cioè nel conferimento figurato dei significati [...]. La metafora è quindi la forma originaria dell’atto interpretativo stesso che assurge dal particolare all’universale attraverso la rappresentazione di un’immagine, ma naturalmente sempre riguardo alla sua importanza per gli esseri umani. L’atto erculeo è sempre un atto metaforico e ogni atto metaforico e ogni metafora autentica è in tal senso lavoro erculeo”668. É evidente che l’attenzione posta sulla prassi metaforica669 va oltre il piano linguistico. La metafora non è solo rappresentazione immediata di un’immagine poiché per la sua struttura traspositiva assume un ruolo storico-politico: quello della formazione del mondo umano come traspare dalla correlazione atto metaforico-atto erculeo. Il riferimento ad Ercole – come abbiamo visto nel secondo capitolo – cela il riferimento alla dimensione politica della fondazione della civiltà e si staglia sullo sfondo di una prospettiva che si basa sulla priorità della topica e dell’ars inveniendi sull’ars iudicandi. Una impostazione di questo tipo consente al pensatore di guadagnare una concezione integrativa della sapientia come ars vitae in cui filosofia e retorica si identificano nell’orizzonte ampio e più alto di formazione civile670. Il sapere noetico-non metafisico è uno strumento di formazione dell’essere umano nell’interezza delle sue esperienze storiche. In questo contesto si comprende come la poesia per Grassi – sulla scia di Heidegger e Vico671 – rivesta un ruolo fondamentale: essa non ha solo la funzione storico-filologica ma anche un compito etico-politico. Abbiamo visto come il concetto vichiano di fantasia assuma per Grassi una funzione decisiva. Vico afferma in Le orazioni inaugurali che la fantasia “immaginò le divinità maggiori e le minori, essa immaginò gli eroi, essa ora svolge le sue idee, ora le collega, ora le distingue; essa pone sotto i nostri occhi terre infinitamente lontane,  Id., Retorica come filosofia, cit., pp. 38-39. 668 Ibidem. 669 Cfr., Id., Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 670 Come abbiamo visto nei capitoli precedenti Grassi distingue la Bildung dalla Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 Cfr. su questo aspetto fondativo e politico della poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e ragione nella filosofia civile di Vico, pp. 3-20, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 18.  ! 213!  abbraccia quelle distinte fra loro, valica quelle inaccessibili scopre quelle inesplorate, apre strade per quelle impervie”672. L’importanza della fantasia nella teoria della conoscenza vichiana è sottolineata da Grassi nell’ambito di una proposta ermeneutica di analisi della fantasia e delle sue forme di funzionamento come paradigmi per delineare una storia del pensiero occidentale673. La rivalutazione della fantasia mira a sottolineare quella straordinaria forza formatrice che la mente umana riesce ad attivare tramite le sue azioni simbolizzatrici messa in luce anche dal Cassirer filosofo delle forme simboliche. Quest’ultimo sostiene che i diversi campi della creatività spirituale sono capaci di costruire “uno specifico libero mondo di immagini: un mondo che per la sua natura immediata porta tuttavia in sé il colore del sensibile, ma che rappresenta una sensibilità già formata e quindi dominata dallo spirito. Qui non si tratta di un sensibile semplicemente dato e trovato, ma di un sistema di molteplicità sensibili prodotte in una qualche forma del libero immaginare”674. Secondo Grassi nella tradizione umanistica la vis plastica e cosmica della fantasia e la relativa attività metaforica vengono interpretate come fonti originarie dell’esistenza e del mondo storico. La domanda dalla quale partire è: “qual è l’ambito originario della fantasia, la cui essenza è – come abbiamo visto – il metapherein?”675. Nel tentativo di risolvere la questione G. ricorre a VICO, considerato l’ultima vetta dell’umanesimo. Egli offre con le sue riflessioni sulla fantasia e sull’ingegno, sul senso comune, l’occasione fortunata per un ripensamento della storia del pensiero occidentale al di fuori dei cardini dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta. L’autore della Scienza Nuova ha avuto il merito di sviluppare “la tesi di una logica della fantasia al fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua singolarità e concretezza –, un accesso che la logica tradizionale, con G. Vico, Le Orazioni inaugurali, I-VX, a cura di G. G. Visconti, il Mulino, Bologna 1982, p. 83. 673 E. Grassi, La potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit. 674 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, La Nuova Italia, Firenze. Cfr. per una correlazione tra la riflessione vichiana sulla facoltà mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia delle forme simboliche cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, pp. 85-104, in Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Armando Siciliano, Messina 2005. 675 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 239. Corsivo nostro. 676 Ibidem.  ! 214!  la sua ricerca rivolta esclusivamente all’universale, non aveva ottenuto”677. Secondo il pesatore milanese con Vico siamo di fronte ad un logos phantastikòs in grado di penetrare la realtà del mondo storico umano e individuale con maggior successo di quanto non faccia la logica tradizionale678. In tale logica è rintracciato il centro speculativo della Scienza Nuova che non è solo scienza della storia ma antropologia innanzitutto. Il confronto dell’uomo con la natura che rende possibile la nascita del mondo storico avviene sul terreno della ricerca delle attività che liberano l’uomo dai bisogni materiali. Per Grassi il problema fondamentala di Vico “consiste nell’identificare l’ambito originario all’interno del quale soltanto può in generale manifestarsi la storicità, ossia il mondo umano come tale. Si tratta in ultima analisi di scoprire la struttura dell’esistenza umana”679. Questo passo è davvero illuminante poiché da un lato ci consente di apprezzare la specificità della lettura offerta di Vico – un Vico antropologo delle origini del mondo umano storico-politico- linguistico – e dall’altro di cogliere la questione fondamentale che sorregge la Frage onto-antropo- logica grassiana: l’analisi del mondo umano attraverso l’attenzione all’ursprünglich Rahmen – la Lichtung – e alla Struktur des menschlichen Daseins681 – l’analitica dell’esistenza di cui abbiamo detto nei precedente capitoli. La questione del cominciamento del mondo umano è intimamente legata a quella dell’origine della storia e dunque alla socialità a cui Vico assegna il ruolo di elemento fondativo delle istituzioni politiche. Grassi punta a sottolineare non tanto l’aspetto metodologico e Ivi, pp. 239-240. 678 Cfr., su questo aspetto della logica della fantasia D. P. Verene, La scienza della fantasia, Armando, Roma 1984 e Vico’s Humanity, “Humannitas. Journal of the Institute of Formative Spirituality”, XV (1979). Qui lo studioso sostiene che la comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e dall’attività razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini e dalla forza creativa del linguaggio. Cfr., anche G. Costa, Genesi del concetto vichiano di fantasia, in AA. VV., Phantasia/Imaginatio, V Colloquio Internazionale, a cura di M. Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M. Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno. La questione della verità e della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 679 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 240. 680 Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 681 Ibidem.  ! 215!  storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono all’origine del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del mondo e della natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e talvolta presentata dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto alla ragione. Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di produzione di immagini che rappresentano una griglia interpretativa della realtà, costituendosi come condizione trascendentale della crescita e dell’apertura mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione del suo cammino storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il suo essere nel mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio vitale683, sebbene attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma pur sempre vera, dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena conoscenza di fenomeni che sono stati creati da una identità superiore all’uomo. Pur accogliendo la prospettiva grassiana della rivalutazione del tema della fantasia in Vico vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il mezzo di controllo della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola capace di regolare il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al mondo reale – viene salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero. Qui si inserisce anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De ratione, per cui gli uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di educare il loro modo di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta l’utilizzo del metodo matematico. Il filosofo napoletano, come è noto, distingue due fasi della vita di un uomo in cui, a seconda dell’età e dell’esperienza acquisita, queste due capacità intellettive hanno una valenza specifica e una preminenza nei confronti dell’altra: nei giovani prevale la fantasia, negli adulti prevale la ragione. Sostiene Vico che “come nella vecchiaia prevale la razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e davvero non è in alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare  Per una lettura antropologia della Scienza Nuova cfr. L. Amoroso, Introduzione alla scienza nuova, cit. 683!E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 53 e sgg.!!  ! 216!  quella che è sempre stata considerata l’indizio più felice dell’indole futura”684. La condizione mentale dei fanciulli li agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa, componente fondamentale in questo determinato periodo della formazione della personalità umana. Con l’età adulta l’uomo inizia invece a inquadrare razionalmente gli enti, a far prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire dallo stato di minorità. Vico accetta entrambi i momenti della formazione dell’individuo, senza porre un antagonismo delle facoltà, un manicheismo gnoseologico, sottolineando con forza come non debba essere oppressa e trascurata la fase originaria dell’essere- nel-mondo umano, quella immaginativa, che è fondamentale per la crescita di una persona. Infatti Vico riconduce la fantasia sotto la categoria della memoria, che a sua volta si suddivide in tre distinte fasi: memoria come attività dell’intelletto umano che “rimembra le cose”; fantasia come attività che “altera e contraffà” il ricordo originario; ingegno come attività che “pone in acconcezza e assestamento” ciò che è stato precedentemente modificato. Come sottolinea Cristofolini occorre tenere presente la duplice valenza della fantasia in Vico: da un lato essa costituisce la capacità “primitiva” di creare un impero della fantasia e del mito; dall’altro necessita di essere limitata e sottomessa alle strutture della ragione685. A differenza di un’ipotesi che ricomprende il concetto di fantasia all’interno di uno sviluppo razionale graduale e progressivo Grassi propende per l’idea che “la fantasia, basata sull’esperienza delle molteplici interpretazioni che si possono dare ai fenomeni sensibili, crea le prime analogie fra tali fenomeni e con essi le prime connessioni e infine le definizioni”686. Secondo il filosofo milanese si tratta del primo adattamento della natura: attraverso la fantasia l’uomo mette in atto quella domesticazione dell’essere che costituisce l’essenza dell’attività mentale. Grassi individua tre significati fondamentali della fantasia  G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, p. 37. 685 P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico. Introduzione alla lettura, Nis, Roma 1995, p. 84. 686 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, in Id., Vico e l’umanesimo, p. 89.  ! 217!  vichiana: -! “nella fantasia e mediante la fantasia si mostra che l’essere umano, a differenza dell’animale, non soggiace a modelli dominanti che danno alle percezioni sensibili un significato inequivocabile”687 -! “la seconda funzione della fantasia fu di costringere l’uomo a farsi dominare dalla paura, dal terrore di fronte alle cose”688 -! “la terza funzione della fantasia è quella di essere il primo originario fattore che dà un significato al lavoro”689 Secondo Grassi la fantasia intesa nel primo significato è strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo senso è legata alla nascita della religione come prima forma di adattamento della natura e di genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione alla fondazione sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il proprio raggio di incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la fantasia è la facoltà della visione per eccellenza, essa è l’occhio dell’ingegno. Ingegno e fantasia: entrambe facoltà che insieme al senso comune costituiscono la triade ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e della Scienza Nuova. Secondo Grassi Vico ricostruisce la storia del mondo storico umano attraverso il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso comune e della fantasia. L’importanza di Vico oggi che “secondo l’approccio vichiano il mondo storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane, dagli elementi di cui abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di intervenire nella natura umanizzandola e anche la necessità di stabilire istituzioni umane, comunità sociali, organizzazioni politiche”690. Alla base di questa struttura ritroviamo il senso comune  Ivi, pp. 88-89. 688 Ivi, p. 89. 689 Ivi, p. 90. 690 Id., La priorità del senso comune, cit., in Id., Vico e l’umanesimo] che è guidato dall’ingegno. Per Grassi l’ingenium è la facoltà di scoprire le somiglianze e basata sulla facoltà dell’ingegno “la fantasia [...] conferisce significati alle percezioni sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce la facoltà originaria del far vedere (phainesthai)”691. Si tratta delle facoltà che appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma Vico nella Metafisica del 1710 “i latini dissero facultas quasi dicendo faculitas da cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia nel fare. Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto [...]: senso, fantasia, memoria e intelletto sono facoltà dell’anima”692. Poco oltre il filosofo napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia e ingegno, così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di definire le tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le affinità) che esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo. L’interpretazione grassiana della fantasia, anche definita “l’occhio dell’ingegno”, si focalizza sulla sua funzione di mezzo attraverso il quale l’ingegno umano riesce a riformulare i vari concetti, mediante una rielaborazione delle immagini mentali, e a stabilire un nesso plausibile tra essi, che permette di avvicinarsi il più possibile alla conoscenza della verità. Se per Vico è vero che “la fantasia è una facoltà certissima, poiché usandola, noi foggiamo le immagini delle cose”693, e che l’ingegno è “la facoltà del congiungere in unità cose distanti, diverse”,694 è altrettanto indiscutibile che nel momento in cui l’uomo incomincia ad affinare il suo intelletto e tende ad essere più razionale (in quella fase storica che Vico fa corrispondere all’età degli uomini), incomincia a limitare l’utilizzo della sua capacità immaginativa e a diventare più “mentale”. Più l’uomo esce dal suo “stato di ignoranza”, dunque, più cambia anche il ruolo e l’intensità della fantasia all’interno della esistenza. La fantasia, allora, si trasformerà in un’affinata facoltà poetica, in !Ivi, pp. 49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica del 1710, a cura di A. Corsano, Adriatica, Bari 1966, p. 111. 693 Ibidem. 694 Ivi, p. 114.  ! 219!  una forza creativa che aiuta l’immaginazione dei poeti e la loro capacità inventiva. La fantasia come qualità dei poeti, la trasformazione dell’uso della metafora dalla sua precedente valenza filosofica a quella prettamente artistica. Lo studio della sapienza poetica volta da una vivida fantasia, segno di passionalità e sublimità del linguaggio della poesia che, tuttavia, deve essere ben distinta da quel tipo di sapienza che invece caratterizza il pensiero filosofico. Grassi avverte la possibilità di interpretare attraverso la lente del progresso razionale l’ingegno e la fantasia ma sposta l’attenzione verso l’ambito più originario della formazione del mondo umano. Egli asserisce che “si potrebbe sostenere che Vico attribuisca al discorso fantastico e metaforico solo il significato di un parlare improprio, che diventa appropriato solo attraverso la logica, poichè egli restringe l’uso del parlare metaforico e fantastico a un primo periodo della storia. Noi possiamo rispondere a questa osservazione guardando ai fatti, cioè chiarendo la relazione tra l’attività ingegnosa e immaginativa e senso comune, o esaminando più profondamente il concreto dominio in cui l’ingegno e la fantasia sono capaci di costruire il mondo umano”695. Con la fantasia, l’ingegno e il senso comune è in gioco il tema della fondazione della civiltà che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI. L’ora di Pan e la morte di Pan: mito e arte come genesi del mondo umano L’analisi del linguaggio poetico come fondazione della comunità politico sociale ci consente di comprendere l’estensione del discorso grassiano sul mito. In linea con l’interpretazione di Gentili dobbiamo interpretare il ruolo politico che il mito riveste in Grassi alla luce della relazione tra mito e poesia. Nella Introduzione al testo di Grassi Arte e Mito edito per la prima volta in tedesco nel 1957696, ristampato nel 1990, frutto di una rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 con il  E. Grassi, La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 50-51. 696 Id., Kunst und Mythos, Hamburg, Rowholt, 1957; seconda edizione riveduta e ampliata E. Grassi, Kunst und Mythos, Frankfurt a. m. Suhrkamp] titolo Mito e arte in Rivista di filosofia, Gentili affronta il problema del mito in Grassi quale evento originario che fonda una catena di relazioni, che dà inizio ad una serie. Il lavoro condotto da Grassi sul mito è inquadrabile all’interno di una prospettiva di demitizzazione che non è omogenea a quella di razionalizzazione. “Nella misura in cui – Grassi – legge il mito alla luce delle sue relazioni, porta allo scoperto il nesso intrinseco tra mito e demitizzazione”697. Come interpretare allora la relazione complessa e articolata tra il mito e i suoi prodotti alla luce del nesso mito-demitizzazione? Grassi analizza il mito quale atto di fondazione originario, arcaico, indeducibile, attraverso le relazioni che lo stesso mito fonda: relazioni retoriche e poetiche, religiose e anche filosofiche. Tuttavia la filosofia interpretata come sapere dedotto e non originario non può avere il ruolo di fondazione che solo la poesia riveste. Per Grassi il “mito fonda (begründet) il logos, quindi il mondo indicativo quello dimostrativo”698. Nella ricostruzione grassiana il mito ha una duplice valenza: esso è il racconto che è alla base delle arti imitative: non solo della tragedia o della commedia, ma persino della musica, della danza – ma è anche l’unità del significato di mito come storia sacra e di mito come fabula. Leggiamo in Arte e mito che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria ed onnicomprensiva, costituendo in questo modo un kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine”699. L’essenza del mito va collocata nell’ambito della formazione umana di un mondo dotato di un’unità strutturale e ciò che esso rivela è la temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della prima formazione culturale in cui si dispiega la coscienza temporale umanistica poiché nel mito “domina il tempo che costantemente ritorna”700. Il filosofo italiano, anche sulla scorta dello studio di Malinowsky, Kerényi, Otto, individua due significati fondamentali del mito701:  Id., Arte e mito, tr. it. a cura di C. Gentili, La città del Sole, Napoli 1996, p. 27. 698 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 85. 699 Id., Arte e mito, cit., p. 150. Corsivi nostri. 700 Ivi, p. 166. 701 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 221!   -! il mito come favola e creazione artistica -! il mito come realtà religiosa esemplare Nel primo significato – il mito come favola e creazione artistica – Grassi si rifà ad Aristotele e all’analisi condotta nella Poetica sul mito come “sintesi delle azioni” in cui è sovrapponibile la sua valenza di fatto con quella di composizione di fatti. Accanto all’idea di mito come realtà vivente, sacrale, in cui la temporalità infinita è sospesa in un orizzonte chiuso e circolare compare il tema dell’arte come favola, racconto, mito, composizione dei fatti. Qui occorre sottolineare un aspetto di non secondaria importanza. L’arte si pone come demitizzazione poiché “nasce nell’istante in cui l’ordine assoluto – espresso dalla realtà religiosa – viene infranto. Nel momento in cui ci si distoglie dall’ordine eterno e in sua vece si manifesta l’ordine possibile, sorgono i progetti umani, individuali”702. L’arte si pone come articolazione specifica di una possibilità intrinseca al mito – il suo divenire possibilità umana – e non come razionalizzazione della dimensione mitico-sacrale originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno strappo, una lacerazione, una rottura: la temporalità e la spazialità sacre dell’universo mitico si disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo artistico. Nel secondo significato il mito appare come realtà sacrale, religiosa ed esemplare. Per Grassi “questo mondo mitico è sostanzialmente distinto da quello profano, in quanto il profano presuppone una temporalità, una caducità, un essere-sempre-diversamente [...] perciò lo spazio profano non è neppure mai chiuso, ma si perde in una dimensione sterminata e senza confini”703. Tra il mito e l’arte dunque ritroviamo una differenza che si situa innanzitutto nei due tipi di temporalità e spazialità vissute. Eppure mito e arte hanno in comune l’esigenza di riunificazione della molteplicità dei fenomeni sensibili sotto un ordine, una legge, un kosmos. Scrive Grassi che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria, onnicomprensiva, costituendo in questo modo un  Ivi, p. 158. 703 Id., Arte e mito, cit., p. 159.  ! 222!  kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine. Stando a questa concezione, il mito racchiude gli elementi eternamente esistenti dell’esistenza umana e li rappresenta: ciò che esso rivela è l’eternamente presente”704. Nel mito viviamo quella connessione con il mondo circostante – l’ora di Pan di cui abbiamo già parlato in relazione all’esperienza sudamericana di Grassi – che appare a Grassi come “l’ora in cui la realtà frammentaria quotidiana si trasforma in una unità ed attualità terribile, fuori del tempo. Nel mito domina la pienezza di una realtà che incombe sul singolo e non lo lascia più sfuggire”705. Se il mito in cui l’uomo si trova, come l’animale immerso nel cerchio funzionale simbolico, è esemplificato con la metafora dell’ora di Pan, l’arte è rappresentata invece come la morte di Pan, come “l’infrangersi del mito”706. Di fronte alla disintegrazione del mondo mitico-sacrale per il pensatore “l’uomo ricorre ai ritrovati tecnici” – l’arte come poiesis e come techne – “quando ha perso di vista i riferimenti a una realtà fuori dal tempo. Propriamente in questo istante sorge l’empeiria, la necessità di trovare un guado attraverso il fiume delle impressioni sensibili che si sono staccate dall’ordine originario”707. L’emepiria va interpretata come una realizzazione del logos (non inteso come ragione o intelletto) e non in senso materialistico. Secondo il filosofo si tratta della prima fase di ordinamento dei fenomeni sensibili. “L’empeiria è il primo passo nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è passività, non è impressione”708. Nell’azione di conferimento di unità, di selezione e ordinamento dell’empeiria possiamo rintracciare i caratteri dell’arte. Infatti il filosofo giunge a chiedersi se l’arte e l’empeiria non si identifichino in questo aspetto ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale risiede nel carattere di produzione insito dell’arte.  Ivi, p. 150. 705 Id., Mito e arte, cit., p. 150. 706 Ivi, p. 151. 707 Ibidem. 708 Id., Arte e mito, cit., p. 92.  ! 223!  Se con l’emepeiria siamo di fronte ad una constatazione, per quanto ordinata, dei fenomeni – il termine usato da Grassi è fest-stellen in riferimento all’empeiria709 – con l’arte siamo di fronte alla produzione di un modo umano a partire dal mondo frantumato resoci accessibile attraverso l’empeiria. “L’empeiria sembra avere la sua radice nella necessità di ordinare i fenomeni sensibili, ma non è in grado di conferire ordine complessivo. Essa comunica di volta in volta un mondo frantumato, nei cui frammenti noi vediamo rispecchiato un kosmos in mille parti rilucenti. La potenza dell’arte invece risiede nella sua capacità di produrre un cosmo, un mondo ordinato dotato di un’unità significativa. L’arte come il mito è “il progetto universale delle possibilità umane”711 e soprattutto la poesia assurge per Grassi a evento privilegiato della relazione uomo-essere. Ma è possibile attraverso la poesia esprimere e dire in modo immediato il mito? Oppure la dimensione poetica in G. è una forma della ricezione mitica, una forma demitizzata del mito? Per comprendere l’essenza e il valore di fondazione del mito non dobbiamo prestare attenzione al passaggio dal mito al logos – dove il mito appare come una prestazione arcaica della ragione e il logos come un mito razionalizzato – ma al nesso tra mito e demitizzazione. Si tratta di un movimento tutto interno al mito e che si intreccia al tema della fondazione. Il mito in quanto “topos atopos” è premessa, origine che non può essere conosciuta ma detta attraverso la poesia. Grassi parte da una idea di mito come fondazione origine e inizio, come prestazione fondativa (Begründung). “In questo senso il mito – sia come realtà religiosa esemplare, sia come creazione artistica e quindi come favola – può venir considerato come il principio instauratore originario di una comunità [...] con l’ordine – che pone una molteplicità di movimenti entro un’unità – si preannuncia la realizzazione dell’aspetto sociale”712. L’interpretazione grassiana della Poetica di Aristotele pone in luce l’aspetto di  Ivi, p. 90. 710 Ivi, p. 94. 711 Ivi, p. 168. 712 Id., Mito e arte, cit., p. 162.  ! 224!  secolarizzazione insito nel mito: il mito disvelando “l’ampia scala delle possibilità umane”713 corre il rischio di generare un’arte secolarizzata: l’estetica714. Come sottolinea Amoroso, in Grassi l’individuazione di una via di accesso al mito, alla poesia e all’arte “in rapporto al concreto operare della storia”715 avviene attraverso il ripercorrimento della filosofia dell’umanesimo che nell’arte avrebbe espresso uno svelamento, una Lichtung dell’essere. IV. XII. La funzione trascendentale dei concetti di Wahn e Langweile nelle meditazioni leopardiane Nel corso della trattazione sono emersi due concetti chiave: quello della fondazione della civiltà e quello del disvelamento: si tratta delle questioni supreme a cui Grassi dedica gran parte della sua indagine storico-filosofica sui temi dell’Umanesimo. In questo orizzonte teorico due figure capeggiano sulla scena filosofica descritta da Grassi: Vico – come abbiamo già visto – e Leopardi, su cui la critica poco si è soffermata. Entrambi appaiono in veste di filosofi delle origini del mondo umano attenti alla ricerca dei fattori primi di umanizzazione e di fondazione politico-civile i cui plessi teorici si inseriscono a pieno titolo nel percorso grassiano di ricostruzione dell’antropologia delle origini, della fondazione civile e del disvelamento. La fondazione fantastica e il disvelamento vichiani e la funzione trascendentale dell’illusione e il ruolo metafisico del pathos della noia come sentimento dell’apertura originaria in Leopardi rappresentano le tappe fondamentali di una ricerca onto-antropo- logica che in Grassi si concretizza come formazione del cosmo umano attraverso la fondazione mitica. Nel corso della sua lunga ed operosa esistenza filosofica Grassi si è spesso misurato con le riflessioni e la personalità di Leopardi. Tenendo presente la centralità che il concetto di pathos assume all’interno del pensiero di Grassi è possibile comprendere come il filosofo dedichi pagine concettualmente dense al poeta di Recanati, istituendo confronti prima con Freud ed Epicuro (sugli Id., Arte e mito, cit., p. 183. 714 L. Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito di Grassi e il mito, in AA. VV., Un filosofo europeo. G., cit., pp. 61-76, p. 62. 715 Ivi, p. 64.  ! 225!  argomenti del piacere e del dispiacere; del principio di realtà e del principio di illusione; dell’edonè) poi con Schopenhauer (sui concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In questa sede si è ritenuto di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con il padre della psicoanalisi e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal Grassi, quanto piuttosto di prendere in considerazione le suggestioni teoriche che il poeta sollecita nel cammino di pensiero del filosofo nella consapevolezza dell’originalità e discutibilità delle tesi grassiane su Leopardi che, come vedremo, non seguono i dettami del “filologicamente corretto” ma piuttosto fanno interagire Leopardi con i concetti chiave del suo sistema onto-antropo-logico. Quale ruolo può avere Leopardi all’interno dell’iter di pensiero grassiano e qual è il valore della teoria dell’illusione a cui il pensatore conferisce tanta importanza da giungere a definire il poeta italiano teoreta dell’illusione716? Il filosofo sottolinea quanto l’approccio leopardiano sia distante dal razionalismo della metafisica astratta del “secol superbo e sciocco” insistendo soprattutto su quei concetti, quali illusione e noia, piacere e dolore, natura e passione in cui Leopardi assume un atteggiamento critico verso l’ottimismo razionalistico e il tema della civilizzazione. Il Leopardi grassiano come critico del tempo moderno e delle devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo e inesplorato, che si iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il poeta e Vico costituiscono gli “ultimi rappresentanti”. Accanto all’operazione ermeneutica di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento che Leopardi può essere considerato come una delle ultime manifestazioni dell’umanesimo. Si tratta di due temi – il “Leopardi umanista” e il “Leopardi teoreta dell’illusione” – strettamente connessi perché consentono di fugare l’idea che la lettura grassiana possa essere considerata come un tributo, l’ennesimo, al grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una interessante prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se prendiamo in considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati constatiamo che egli appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I primi scritti 1922-1946. La lettura dei saggi risalenti  G., La metafora inaudita] al periodo compreso tra gli anni ‘30 e ‘40 mette in luce la presenza di Leopardi e delle tematiche dello Zibaldone, che resta il preponderante testo di riferimento delle note grassiane sul poeta. Confrontando le citazioni di Leopardi e i contesti teorici di riferimento registriamo che esse compaiono sempre in relazione all’analisi dei concetti di formazione (Bildung), di noia, di illusione: idee centrali se consideriamo quanto essenziale sia la formazione nel nuovo ideale di umanesimo, la noia e l’angoscia nella sua analitica esistenziale, e l’illusione come fattore antropogenetico insieme al mito e al linguaggio nell’analisi antropologica grassiana. In Il confronto con la filosofia tedesca in Italia del 1941 si fa cenno a Leopardi nell’ambito della tematizzazione della Bildung degli studia humanitatis che coinvolge una questione ben più ampia della mera educazione filologica717. Per il filosofo infatti occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione. Egli afferma che “il filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...]. Ricordo solo che il compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”718. La distinzione tra Bildung e Erziehung mostra come la posta in gioco nella nuova idea di umanesimo sia la messa in discussione dell’essenza dell’uomo, della sua condizione, che accomuna, secondo il filosofo, le figure di Bruno, Vico e Leopardi. Così come per Bruno “ogni rapportarsi  Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, pp. 871-886, in Id., I Primi scritti 1922-1946, La Città del Sole, Napoli 2011, p. 882. 718 Ivi, p. 881. ! 227!   originario nei confronti della realtà, sia nel senso politico come in quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire, dal patire qualcosa di originario e indeducibile, che riveli mondi differenti”719 anche per Vico e Leopardi720 la funzione trascendentale del pathos consente un rinnovamento del concetto di filologia. Il co-estendersi dei temi filologici e antropologici implica una rivalutazione del concetto di pathos da parte di Grassi che tuttavia non indulge ad una forma più o meno celata di irrazionalismo illogico. Anzi il valore logico della sua ricerca emerge laddove egli tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Nella sua prospettiva il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza ontologica. Secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”721: esso è “passione abissale”722 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi. Nella prospettiva grassiana il pathos metafisico è ciò che Leopardi chiama illusione e natura. “Le passioni hanno un carattere trascendentale, esse sono cioè condizione delle esperienze e da esse non deducibili”723 e per il poeta indicano il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Grassi afferma che “l’espressione illusione, che Leopardi usa in questo senso, ha, rispetto alla terminologia tradizionale Ivi, p. 882. 720 Ivi, p. 883. 721 Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 722 Ivi, p. 40. 723 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, pp. 156-175, in AA. VV, Tradizioni della poesia italiana contemporanea, Edizioni Theoria, Roma] che si serve della espressione a-priori, il grande vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del trascendentale”724. Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello Zibaldone l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia – che nelle “meditazioni leopardiane” è sostituita dalla noia – in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’ esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”725. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di realizzare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo a cui il filosofo fa riferimento sono il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Egli asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza”726 e ancora che “qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”727.  Ivi, p. 168. 725 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329. 726 Id., Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma, pp. 217-247, p. 226 727 Ibidem.  ! 229!  A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”728. Essa consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. É proprio questo concetto metafisico di pathos che Grassi ritrova nel tema leopardiano dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter Otto il cui centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il singolo (l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo Grassi trova una risposta nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del problema della parola come massima espressione della vita individuale, la quale però “non ha proprio nulla a che fare con l’individualismo [...] – ma – conduce alla questione sistematica dell’essenza del comune”729. La ricerca grassiana sulle modalità di configurazione del problema della parola nella tradizione italiana e sulla sua correlazione al tema dell’essenza dell’uomo, “non irrigidendosi in una teoria individualistica ma – al contrario – rischiarando il problema di ciò che è comune”730 ha come esito la convinzione che l’individuale sia un concetto molto distante dal soggettivo e dal relativo, da ciò che è “riferito all’io”731, ma sia invece legato all’oggettivo, a “ciò che dischiude il comune”732.  Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 729 Id., Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, in Id., I primi scritti, cit., p. 903. 730 Ivi, p. 907. 731 Ivi, p. 909. 732 Ibidem.  ! 230!  L’insistenza sul tema dell’oggettivo, l’autenticamente originario che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in qualità di objectum, conduce Grassi verso la teoria leopardiana dell’illusione come l’a-priori, il trascendentale che conferisce ordine – infatti Grassi parla di bella illusione – e che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a sapere, si impone come necessaria, essenziale e comune prassi umana di trasformazione del reale733. Anche Il reale come passione e l’esperienza della filosofia del 1945 dedica una sezione molto significativa al poeta in riferimento al concetto di noia e passione. Afferma il pensatore che per Leopardi “la noia si rivela inaspettatamente come passione poiché la vita è sempre nella sua essenza impulso alla compiutezza e alla felicità [...] così l’uomo non può mai sprofondare nell’assoluta insensibilità e indifferenza”734. La noia come morte della vita, vita non vita, vita dell’indistinto e dell’indifferente tuttavia è pur sempre passione, sia pure nel senso del più basso gradino dell’esistenza. Siamo venuti ai temi principali che animano la lettura grassiana di Leopardi presente nei saggi più sistematici dedicati al poeta: Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt (1949), Introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit735; Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni  Ivi, p. 914. 734 Id., Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, in Id., I Primi scritti, cit., p. 1027. 735 Id., Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt. Si tratta di una introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Verlag, Bern, 1949, pp. 9-34. Tradotto in italiano da R. Copioli con il titolo, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno; Der italienische Schopenhauer; Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? (1989)738. Il testo del ’49 è una scelta di passi tratti dallo Zibaldone, considerato da Grassi come lo strumento per gettare uno sguardo “all’officina poetica di Leopardi”. Fu pubblicato per la collana Überlieferung und Auftrag che nasce dall’intenzione di porre a tema determinati problemi della tradizione umanistica, che, come è noto, per Grassi sono quelli della rivalutazione della poesia e della retorica, della fantasia e dell’ingenium. Nel saggio introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit tradotto in tedesco da Joseph Partsch Grassi prende le distanze dall’impostazione crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal Vossler 739. Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di Recanati Grassi ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto teoretico contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano che, sulla scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea centrale che ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi zibaldonici non tenendo conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di restituire la genuina antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul concetto di illusione. Secondo Grassi “generalmente le tesi pessimistiche del Leopardi,  Id., Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni in “Nuovi Annali della Facoltà di magistero dell’università di Messina” presentato in redazione differente al Congresso su Leopardi a Roma nel 1988. pp. 37-47, contenuto ora in E. Grassi, La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990. 737 Id., Der italienische Schopenhauer, pp. 125-138, in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper Munchen 1987 a cura di Volker Spierling. 738 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? In AA. VV, Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C. Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 23-36. 739 Cfr., Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., pp. 158-159. Cfr., le affermazioni crociane contenute in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver asserito che “la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia ad uso privato”, ivi, p. 99, afferma che “Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite, non sistemate”, ibidem. 740 Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) cfr. S. Lanfranchi, Dal Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica marxista, pp. 247-262, in “Laboratoire italien”, 2012, Lione.  ! 232!  così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro formulazione nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non potrebbe essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma soprattutto quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo significato sistematico, etico, sociale e storico”741. Lo scopo è esplicitato con tutta chiarezza: Grassi si propone di rendere oggetto di discussione non il Leopardi pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi “antropologo”. Il legame tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione, Lo Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione non sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione, mania, pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi dell’‘87, Lo Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana – e Passione e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito illusione ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto evidente se si prendono in considerazione le affermazioni grassiane sui concetti di ordine, di costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo Schopenhauer italiano: “il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal momento che l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica. La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione alla ragione. Per il filosofo “Leopardi si oppone al predominio della ragione ed esplicitamente alla filosofia tedesca razionale astratta”744. Il riferimento è al passo zibaldonico sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui Grassi crede di trovare traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico, che si identifica con una teoria del nous o dell’ingenium in cui “la priorità della natura [...] si esprime attraverso la passionalità come E. Grassi, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, p. 157. I corsivi sono nostri. 742 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 743 Id., Der italienische Schopenhauer, cit., p. 134. Traduzione nostra. 744 Id., Leopardi e Freud, cit., p. 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone, 5-6 ottobre 1821. ! 233!   illusione”746. Dall’angolo teorico dal quale il filosofo guarda allo Zibaldone “il mondo umano non è una costruzione della ragione, del logo, ma è il prodotto di ciò che Leopardi chiama – in antitesi alla ragione – ingegnosa illusione, cioè la sofferenza dell’abissale appello della natura Leopardi contrappone così non solo alla ragione ciò che egli chiama illusione – perché razionalmente non deducibile– ma identifica questa con l’attività ingegnosa”747. Attraverso l’illusione la physis originaria, l’Abissale, realizza la storia, accade il mondo, avviene la parousia della realtà, il suo phainesthai. Altre riflessioni teoriche degne di nota presenti nella lettura di Leopardi sono quelle relative ai concetti di natura e vita. Il filosofo giunge ad affermare che “i concetti di vita, natura, passione e illusione coincidono”748 . La vita – che sin dagli esordi greci della filosofia è stata interpretata come energia ed entelechia, come ciò che ha in sé il lavoro, il limite e il fine, l’ergon e il telos – in Leopardi diviene qualcosa di intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi ultimi concetti non hanno carattere negativo ma sono contraddistinti da una positività originaria generatrice di ordine, di mondo: il nulla prima di generare disperazione e dolore749 entra in contatto con la noia. Nei saggi “leopardiani” di Grassi la Langeweile assume quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi Scritti: quello di chiusura mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo animale – e allo stesso tempo di apertura mondana possibile solo su quella chiusura. La noia è l’aperto, la Lichtung nella quale l’uomo fa esperienza della propria vita che è innanzitutto temporalità. La noia in quanto esperienza dell’uniforme e dell’indistinto, è il contrario della vita. La vita invece è esperienza della distinzione e della singolarità. L’esperienza della noia in Leopardi secondo Grassi è caratterizzata da una positività originaria che la rende ben più profonda di una semplice tonalità emotiva. Del resto che il pathos avesse una costituzione metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto alla componente soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su Stimmung e sulla  E. Grassi, Leopardi e Freud, cit., p. 32. 747 Ivi, p. 33. 748 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., p. 165. 749 Ivi, p. 160.  ! 234!  Leidenschaft. La noia nel suo carattere esperienziale assurge a “facoltà di patire”. Afferma Grassi che “l’indifferente, l’uniforme, li possiamo cogliere e di essi possiamo avere esperienza, solo se si manifestano in modo finito, e la noia – nella misura in cui noi la sopportiamo – ci evidenzia come noi non possiamo vivere nel non limitato e nell’indifferente. In altre parole: se tutto ciò che è e di cui parliamo può presentarsi solamente a condizione che si mostri entro certi limiti – cioè come qualcosa di definito e distinto – allora anche la noia può essere colta solamente in quanto impossibilità di esistere nel non-limitato, nel non-dipendente”750. Nella prospettiva che abbiamo cercato di delineare emerge che nella noia è coinvolto lo stesso tema della léthe e dell’illatenza: il gioco di svelamento e nascondimento, insito nel cuore della manifestatività, che decide dell’umano. La noia leopardiana come facoltà di patire allora diviene un principio storico-culturale che solo secondariamente scade a povertà di azione e pigrizia ma si erge a condizione trascendentale del mondo storico dell’uomo. Essa è la Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e del mondo, in cui l’avvento dell’umano accade innanzitutto linguisticamente. Qui si installa un altro tema centrale della lettura grassiana: la critica del mondo moderno presente nelle annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche la qualità umanistica del poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo, Grassi afferma, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”751. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o meno larvata di antropocentrismo tout court, è la problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca sulle strutture del mondo umano.  Ivi, p. 161. 751 Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Guida, Napoli. Alla metafora fotica nell’accezione heideggeriano-grassiana sopra delineata fu sensibile già Leopardi, che fin da Memorie del primo amore e poi via via nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nello Zibaldone, nelle Operette morali e nei Canti mostra un timore irrequieto nei confronti della luce diretta e accecante – sia essa lunare o solare – che genera un guardare piacevole e sublime. Grassi non sottolinea l’importanza della metaforica della luce né l’attenzione alla connessione vita-apertura752 pur presente nello Zibaldone, privilegiando il tema dell’illusione nelle sue molteplici sfaccettature storiche e fondative, nel convincimento che in quel concetto sia esplicato un accesso alla filosofia non pregiudicato da una metafisica razionalistica latente. Leggiamo nello Zibaldone che “per lo contrario la vista del sole e della luna in una campagna vasta e aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione”753; e ancora : “per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima”754. La priorità trascendentale della radura sulla luce che si offre, si dà in un atto di donazione (l’Es gibt) in cui si co-estendono luce ed essere, è viva anche in Leopardi, il quale usa dei termini molto cari a G. – e al suo maestro Heidegger – ma anche a Vico: sylva755, luce756, critica della metafisica757, rivalutazione della poesia. Temi  G. Leopardi, Zibaldone, “Io credo che tutti questi tali verbi sieno originariamente fatti da altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo, hisco dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in sco. E lo credo perché, come vivesco significa divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è significato essere, cioè esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè divenir aperto, mentre hio significa essere o stare aperto, ec.; così tutti i detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non si conoscono gli originali, significano però divenire, incominciare a essere o a fare quella tal cosa o azione. Perché la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalla verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella dei settentrionali, massime oggidì, fra’ quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul pensiero, sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime che colla poesia”, fondamentali, questi, che corroborano l’idea, in altro modo proposta da Grassi, di un Leopardi filosofo dell’esistenza umana interpretata come oltrepassamento dell’immediatezza e allo stesso tempo come natura che si apre alla storia. Come abbiamo visto, l’indagine grassiana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, si concentra sulla dimensione ontica delle concrete Lichtungen, che si converte in analisi del linguaggio. Per il pensatore “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...]. Il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”758. Con l’umanesimo, secondo il filosofo non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Egli, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per Grassi occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, di cui Leopardi fa parte secondo Grassi, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione umana”759. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”760. E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 759 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini e Associati, Milano Infatti, per il filosofo milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Entra sulla scena assieme al concetto di prassi e di parola quello di situazione. Eccoci giunti ad un nodo concettuale di grande spessore che coinvolge la figura di Leopardi: la co-estensione del mondo (l’oggettivo) e dell’uomo – che si consuma in un rapporto pratico (la fondazione politico-culturale) e linguistico che eccede i limiti dell’omologhia e dell’adaeguatio e sconfina verso la polisemia – si ritrova nel poeta di Recanati e nella sua teoria dell’illusione che si apre ai temi centrali per Grassi della situazione, della circostanza e dell’occasione. Per Leopardi “attraverso la priorità dell’occasione, della circostanza, della situazione, noi dobbiamo corrispondere all’appello riconoscendo il significato sempre differente degli enti”761. Qui entra in gioco l’illusione nella sua identità con l’ingenium. Per Grassi con la teoria dell’illusione “di cui con estrema lucidità ha riconosciuto la necessità e la vanità, [Leopardi] ha compreso che il problema dell’uomo è quello di essere sempre gettato in una situazione concreta, quello di trovarsi sempre sospeso sul precipizio del qui e dell’ora, che gli pongono domande a cui non è possibile dare una risposta razionale, universalmente astratta, ma solo passionale. Con il poeta italiano abbiamo una riconfigurazione del tema antropologico che implica una svolta linguistica e ontologica. Siamo di fronte ad una Kehre verso un logos polisemico che restituisca la multilateralità e polidimensionalità di un reale che si dà fenomenologicamente per scorci, occasioni, circostanze. Siamo di fronte ad una Kehre verso un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi e forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico, poiché il metapherein, la trasposizione, è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il reale. 761 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 762 Id., La metafora inaudita La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni indicativi”764 provenienti dal “colloquio con l’ abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo l’indeterminato. Anche in LEOPARDI (si veda) G. intravede le tracce di un colloquio mai interrotto con l’Abissale, l’Originario, l’Essere in cui si gioca la nostra esistenza: è il senso stesso dell’illusione come ingresso nel ludus dell’esistenza, come reazione all’agorafobia primordiale. “Nel gioco giocato dell’esistenza (e del linguaggio in cui quel gioco viene parlato) si liberano molteplici possibilità, ognora rinnovate, imprevedibili, e dunque tali da frustare qualsiasi tentativo di prevederne razionalmente il senso. Ma che cos’è l’illusione di Leopardi se non, appunto, un in-ludersi, un entrare nel ludus, uno stare al gioco dell’esistenza?”766. Come è emerso da queste considerazioni il “Leopardi di Grassi”, teoreta dell’illusione, è il Leopardi portavoce di una filosofia umanistica che si traduce nell’idea di una antropologia che contiene in sé i temi del linguaggio e dell’essere. Afferma Grassi in La metafora inaudita che “Leopardi insegna [...] che l’unica filosofia in grado di tentare questa spiegazione”767, il gioco dell’esistenza, “è una filosofia dell’esistenza; una filosofia cioè che, senza pretendere di risolvere il  763 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina Tipografica, Napoli 1992, p. 165. 764 Ivi, p. 14. 765 Ibidem. 766 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46. 767 Ibidem.  ! 239!  problema razionalmente, prenda atto dell’abisso su cui ogni passione ci sospende”768. La focalizzazione sui temi dell’illusione e della natura, della noia e della passione, che solo marginalmente toccano l’ambito del pessimismo, ha svelato il legame con il grande tema antropologico della costruzione del mondo umano. Che cos’è l’uomo e quale sia il suo posto nel mondo: sono questi i quesiti che agitano l’onto- antropo-logia grassiana e l’interpretazione dello Zibaldone di Leopardi che diviene ulteriore occasione fortunata – insieme a Cicerone, Quintiliano, Ovidio, Bruni, Valla, Graciàn, Vico, Ungaretti – per una meditatio sull’uomo che permea la sua prospettiva neo-umanistica. Il Leopardi grassiano può essere interpretato, allora, come pretesto per ribadire ancora una volta che l’umanesimo autentico come pensiero poetante, come meditazione noetica e non metafisica, ha ancora una possibilità di essere esperito a partire da una tradizione a cui non è stata conferita la dovuta importanza. La traccia leopardiana nell’iter grassiano ha fatto emergere, attraverso il concetto di ingegnosa e bella illusione, che l’antropogenesi fa tutt’uno con l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo avviene con le produzioni umane della civiltà, della storia, della cultura. Solo illudendoci sperimentiamo la nostra forza, la nostra umanità, come insegna Leopardi, e diveniamo artefici del nostro mondo. La filosofia dell’esistenza proposta da Leopardi diviene un experimentum vocis, una poesia pensante o un pensiero poetante. La )&0&*& '*&2o"& descritta da Platone nella Repubblica769, l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene ripensato da Grassi da un angolo prospettico differente: non da quello di una epistemologia o gnoseologia – in cui il poetico per sua stessa natura incline al vago ed indefinito, come insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al fallimento – ma da quello di una antropologia delle origini del mondo umano in cui la connessione poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione umano-civile-politico. 768 Ibidem. 769 Platone, Repubblica, 607 b.  ! 240!  Come è noto il plesso disegnato da Grassi di metafora-fantasia-ingegno ha un valore teoretico- conoscitivo e solo secondariamente poetico-letterario. Si tratta di facoltà che appartengono a quella topica che sempre precede nella storia del mondo, come in quella dell’individuo, l’operazione mentale della critica, l’arte del giudicare. Memore delle riflessioni vichiane della Scienza Nuova e delle teorie barocche dell’ingenium di Graciàn e Peregrini, Grassi affida all’ingegno la capacità di sintesi e connessione del molteplice empirico fino al punto di farne la caratteristica specifica dell’uomo. E non poteva mancare di sottolinearne l’importanza teorica e pratica presente in Leopardi770. Ingenium come capacità di ritrovare; fantasia come facoltà di visione delle somiglianze; metafora come atto di trasferimento del significato e quindi creazione di una pertinenza semantica – e non come tropo linguistico, sia esso di sostituzione o di comparazione – concorrono a delineare i prolegomeni per un’idea di neo-umanesimo in cui la storicità dell’umano si dispiega tra razionalità e fantasia. Quest’ultima si rivela come facoltà di attivazione di procedure di formalizzazione concettuale, vera e propria facoltà di apprensione del reale attraverso una struttura pato-logica, o un’intelligenza senziente – per usare un’espressione di Zubiri, collega di corso in Germania di G. Essa è il catalizzatore dell’umanizzazione del mondo. Concentrandosi sugli aspetti figurativi, simbolici e semantici del logos Grassi non rinuncia mai tuttavia alla filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti e divenire noetica non più metafisica. “Se l’aspirazione profonda del filosofare tradizionale è di giungere a una chiarificazione logica razionale, oggettiva che parte da un’ontologia che culmina in una metafisica, quella di Grassi ha come scopo l’elaborazione di un’idea di nous – dove nous si identifica con ingenium772 – che ha come oggetto il G. Leopardi, Zibaldone, G.- E. Hidalgo, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo, Lecce 1991, p. 15. 772 Ivi, p. 20.  ! 241!  reale, “l’ontologia non logica ma situazionale”773 in cui la metamorfosi del mondo non può che trovare espressione in un orizzonte di dicibilità che è metaforico. L’antica lotta tra poeti e filosofi supera la secca alternativa tra un tentativo di purificare la lingua da ogni ridondanza poetica e l’impresa di epurare la theoria dal concetto. Nella prospettiva grassiana l’opposizione può trovare una soluzione attraverso una rinnovata idea di umanesimo contrassegnato da un filosofare che sia pratica esistenziale, non sterile sapere erudito privo di vitalità e utilità. In questa ricerca di un’idea autentica di umanesimo Leopardi riveste un’importanza fondamentale poco sottolineata, a nostro avviso, dalla critica, che si è maggiormente concentrata sul G. lettore di VICO e Heidegger. La svolta verso un filosofare noetico non metafisico si poggia su un ripensamento, da un lato, della filosofia – sostituzione della metafisica con l’ontologia non statica ma dinamica, non logica ma situazionale; ripensamento del tema della verità connessa alle sue espressioni storiche – dall’altro, della filologia, che non si riduce a “una mediazione delle opere antiche” ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’ essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola. La ricostruzione di un’essenza dell’uomo è al centro anche delle riflessioni del Leopardi grassiano teoreta dell’illusione, il cui significato sociale etico e politico viene ribadito contro un’“Europa tutta civilizzata”774 in cui “la civiltà, la scienza e l’impotenza sono compagne inseparabili”775. Viene in mente il mondo vichiano dominato dalla “boria dei dotti” in cui le forze autentiche dell’uomo, la natura e le illusioni, hanno perduto la loro virtualità politico- fondativa per lasciare spazio ad un sapere chiuso nei limiti del mos geometricus. Siamo di fronte all’idea di tenere insieme linguaggio poetico e linguaggio filosofico come due tensioni inseparabili e irriducibili all’interno dell’unico campo del linguaggio umano che tenta di dire non l’indicibile. Leopardi, Zibaldone, 24 marzo 1821. 775 Ibidem.  ! 242!  l’indicibile non è altro che una presupposizione del linguaggio – ma il dicibile con cui di volta in volta ci si misura. L’attenzione grassiana verso il poetico, che restituisce le circum-stantiae della res attraverso la molteplicità dei verba, va interpretata come l’ennesimo tentativo di dire la cosa stessa della filosofia, l’autò tò pragma, ciò che è in questione nella parola e nel pensiero, la res che, attraverso la parola e il pensiero, è in gioco fra l’uomo e il mondo. “Così poesia e filosofia stanno l’una accanto all’altra: chi non ha immaginazione, sensibilità, capacità di entusiasmarsi o facilità a vivere belle rappresentazioni illusorie, non conoscerà mai la verità, perché ogni analisi può essere portata avanti solo dove la materia della vita è riccamente delineata. Non si tratta di riconoscere il mondo a posteriori ma di giungere a conoscenza dei principi agenti, dai quali innanzitutto può avere origine ogni mondo, anche quello della filosofia”776. E Leopardi con le sue riflessioni ha insegnato, contro le devastazioni dell’intelletto, questa filosofia dell’esistenza che guarda al phainesthai, all’apparire nel quale viviamo, non con l’occhio della metafisica ma con quello dell’ingegno, l’unico in grado di cogliere “l’appello che ci chiama da questo abisso, L’appello dell’origine. G., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, Id., La metafora inaudita. Traduzione di G. Natur, introduzione a W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg, Rowohlt. Il nostro concetto di “natura” deriva dal termine greco [Questa parola proviene dalla radice “phy” (latino “fio”, “fui”, tedesco “bin” – H. P. Grice, “Heidegger is the greatest living philosopher, whereas Kaspers is a has-been.”), di cui indica lo sviluppo. La! 341*1 racchiude tutto ciò che nasce e diviene, e così comprende il cosmo nella sua totalità. Noi traduciamo !341*1 con il termine “natura”, dalla espressione latina “natura”, il cui SIGNIFICATO (SENSO) esprime quello della parola greca (nasci, esser nato, crescere, affine a gignere). Secondo l’originario concetto greco ciò che è immediato in quanto cresce è visto come una realtà eccellente. Tuttavia occorre ricordare che per i greci il crescere NATURALMENTE realizza sempre la legge insita ad ogni sostanza. Pertanto sotto il termine “natura”, come principio del divenire, è compresa molto spesso l’essenza di una cosa. Il concetto di “natura”, la rappresentazione quindi che lo spirito umano si costruisce attraversa una lunga e movimentata storia. La conoscenza dei fenomeni NATURALI muta e di conseguenza cambia anche la concezione della natura. L’età pre-filosofica della cosmogonia (sei secoli prima della nascita di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito sull’origine del cosmo, del Tutto, è pervasa da rappresentazioni mitiche, in cui già sempre la relazione dell’uomo con la natura gioca un ruolo centrale. Un primo inquadramento non più mitico, ma filosofico del concetto di 341*1, di natura, si ha nell’età antica con la Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e Prodico, i più giovani contemporanei di Protagora) e la filosofia socratica. Non più l’intera realtà è inclusa in questo concetto ma ora solo un suo settore specifico. Per prima cosa i Sofisti hanno messo in gioco la 341*1 contro il!%$μ$1 (legge), hanno posto il “naturale” solo in ciò che è fissato e posto dall’uomo in sua contrapposizione.! Socrate nel porsi domande di natura etica professa una bassa considerazione per una scienza della natura e vi contrappone l’idea di una scienza dell’uomo. Da una parte c’è dunque la natura, dall’altra l’uomo con la sua cultura: così di conseguenza agli albori del pensiero occidentale si pone già il problema se sia più importante conoscere la natura o l’essenza dell’uomo. Dopo un’importante fase iniziale con gli Atomisti e Platone si arriva al grande progetto finale della filosofia della natura greca con Aristotele. Non posso ora soffermarmi sull’analisi del contenuto di questa dottrina a cui si è fatto cenno. Va però ricordato che le scuole peripatetiche come gli epicurei, gli stoici, i neopitagorici, i neoplatonici, apportarono variazioni che per noi non sono determinanti. La divisione tra Natura e Spirito e quindi l’abisso tra la Fisica, da un lato, e l’Etica e la Logica, dall’altro, si è mantenuta nello Stoicismo e nell’Epicureismo, per quanto lo Stoicismo abbia costituito l’ultimo e unico tentativo di riconciliazione universale di entrambi i regni: una lotta gigantesca ma alla fine inutile. Nel Neoplatonismo alla fine la 341*1 perde del tutto la sua importanza e viene considerata come una realtà irrazionale fondamentalmente nulla. Il pensiero cristiano dei primi Padri della Chiesa adotta parzialmente l’originario concetto platonico aristotelico di natura, per quanto questo suo preciso significato cambi e si perda giacchè la natura intera non viene più concepita in modo classico ma come creazione di Dio a partir dal nulla. Anche se nel Medioevo non c’è uno studio autonomo della natura, tuttavia questa epoca conosce una scienza della natura caratterizzata dalla volontà di conservare l’antica tradizione, soprattutto quella aristotelica. Custodi dell’antica tradizione furono in primo luogo i filosofi e gli scienziati naturalisti dell’Islam. L’apice della scienza della natura medievale in Occidente è rappresentato da Alberto Magno, il quale partendo dal pensiero aristotelico propone un quadro della natura completo ed esauriente. Con l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento sorge una nuova concezione della natura, che per noi è della massima importanza. L’accesso alla natura è cercato soprattutto attraverso l’esperimento – un concetto specificamente moderno che per la prima volta con Vinci assume una chiara forma teoretica (i suoi scritti più noti sono il Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo). L’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua interezza ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità. Al concetto dell’esperimento fondato sulla teoria di Leonardo corrisponde anche la nuova ! 245!  fondamentale teoria di Bacone. Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo per la moderna conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa soprattutto il suo dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto fondamentale della moderna conoscenza della natura che l’Antichità non conosceva: la tecnica, la sua azione non nel senso di un sapere teoretico ma nel senso di lavoro. Il concetto di esperimento si perfeziona con GALILEI (si veda) e grazie a lui e a Keplero noi facciamo esperienza del capovolgimento del concetto antico di Universo. Il grande difensore di questo nuovo concetto di natura e di universo fu Giordano Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore allontanamento dal concetto copernicano di mondo: perciò non si tratta solo di contrapporre il nuovo sistema solare al vecchio sistema geocentrico ma di riconoscere che si dà non un solo mondo ma infiniti molti. Nonostante la dovuta brevità (di questa trattazione) qui appare doveroso soffermarmi. Fino all’età moderna il sistema del mondo vigente traeva origine dalla cosmologia aristotelica, era diffuso dagli eruditi alessandrini, da Ipparco e infine rappresentato da Tolomeo. Questo sistema aristotelico-tolemaico vedeva il mondo con approssimazione: la terra cioè giaceva immobile al centro del cosmo. La terra e l’universo hanno una forma sferica. I movimenti del globo sono spiegati ipotizzando l’esistenza di dieci sfere fisse, immateriali e concentriche in cui si trovano le stelle. La più lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le altre i pianeti. Ogni pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste gravitano intorno alla terra con i suoi annessi corpi celesti. In contrapposizione a questa immagine del mondo Copernico sostiene nel suo scritto De revolutionibus orbium coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al centro dell’universo e che la Terra farebbe parte dei pianeti e che questi girano completamente intorno al Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha parteggiato per questa visione anche Giordano Bruno non limitandosi solo a considerazioni astronomiche ma soprattutto giungendo alla convinzione filosofica che il mondo non può essere finito. Nella sua opera De la causa, che si confronta con la filosofia tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha né centro né confini. Il mondo che l’uomo conosce diviene così solo uno tra molti altri. Ricordiamo infine solo il decisivo cambiamento del concetto di natura in Kant. Andando avanti il problema della natura si risolve nel problema della sua conoscenza. I fenomeni sensibili, attraverso cui noi facciamo ! 246!  esperienza della natura, si riordinano in noi attraverso le visioni personali dell’uomo (spazio e tempo; categorie). In questo modo poi si dà un sistema della natura che sottostà necessariamente alle pure leggi matematiche e fisiche: l’uomo è il legislatore della natura. Ma di nuovo si presenta il problema dell’uomo e della sua libertà. Essa si autodetermina in opposizione alla natura nella misura in cui oltrepassa la necessità causale. Così la natura si limita alle forme di esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale in realtà non rientra più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura nella filosofia post-kantiana non potrà essere seguito qui in modo approfondito. Certamente il modo di intendere la conoscenza della natura di Hegel come uno stadio iniziale della filosofia dimostrabile a priori ha contribuito a sollevare in Occidente una reazione da parte del naturalismo empirico con il Positivismo e il materialismo. Tuttavia queste eccessive semplificazioni non hanno avuto lunga durata. In ambito fisico dall’inizio del ventesimo secolo il mondo va di pari passo con la matematica o perlomeno può essere descritto solamente attraverso di essa in maniera appropriata. Ciò rappresenta un fatto determinante. Da un punto di vista prescientifico e immediato la natura quindi si erge nella forma in cui l’uomo la coglie attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque restano il meccanismo di osservazione principale ma ora l’uomo nella sua ricerca non se la cava più senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei fisici si allontana necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena qualche secolo prima si è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del sole. In seguito ciò è apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei nostri occhi. Siamo arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del vero si è trasformato in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo arrivati a credere di stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui scorrono solo ombre di elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto calcolante ha qui l’ultima parola; il mondo passa dal primo piano della percezione verso lo sfondo del pensiero. L’opera di Heisenberg richiama l’attenzione su questo processo, sulla realtà e sul pericolo in cui l’uomo si trova quando egli risolve la natura nelle strutture del suo pensare e la domina in modo smisurato. Come all’inizio del pensiero occidentale anche oggi per noi permane l’ammonimento di riflettere sull’essenza dell’uomo. Traduzione di Der italienische Schopenhauer, in Schopenhauer im Denken der Gegenwart, cur. Spierling, München-Zürich, Piper. Il Problema Ha un senso, in un volume su Schopenhauer, occuparsi di un altro autore, e precisamente di uno che proviene da una tradizione e da una lingua completamente diverse rispetto a quelle tedesche? Non solo: quest’altro autore è uno dei più grandi poeti del diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno è stato filosofo. D’altra parte, quando si ha il coraggio di affrontare un lavoro come questo, non dovrebbe esso essere strutturato nella forma tradizionale, in modo tale che si pongano in luce, da una prospettiva scientifica, i parallelismi e le differenze tra i due autori – e perché no, in maniera strettamente meticolosa – che allo stesso tempo implichi una interpretazione di Schopenhauer? C’è una questione ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento qui è particolarmente noto in Germania per le sue affermazioni poetiche e per questo è diventato oggetto di indagine e trattazione prevalentemente nel campo della storia della letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si tratta di Giacomo Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato filosofico generale, e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi che dovremmo rinunciare a vedere in Leopardi “un sommo pensatore, le cui argomentazioni e dottrine trovino luogo nella storia della filosofia ma per questa parte, che è quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e preparazione speculativa”778. Karl Vossler nel suo libro su Leopardi si è riallacciato a questo giudizio779. Questa reazione di Croce non è fortuita: Hegel quasi con le medesime parole si era espresso negativamente sugli umanisti in quanto filosofi, e precisamente con la motivazione che gli umanisti italiani si sono CROCE, Poesia e non poesia, Bari 1 [CROCE, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946, pp. 98-99]. 779 [G. si riferisce al testo di K. Vossler, Leopardi, tr. it. di T. Gnoli, Ricciardi, Napoli]. arenati in un pensiero simbolico e non sono giunti fino all’altezza del concetto. Letteralmente vuol dire: “se si spogliano i concetti fondamentali dei sistemi che si presentano all’interno della storia della filosofia di quel tanto che concerne la loro configurazione esteriore, la loro applicazione a ciò che è particolare e simili, allora si perviene ai diversi gradi della determinazione dell’idea entro il suo concetto logico”780. Secondo la concezione di Hegel l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla coscienza dell’idea, esso permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte, conficcato nel mondo della metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma insufficiente per rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame concreto sensoriale, ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa dell’“incapacità di rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo si avvale di aiuti per esprimersi in forma sensibile”781. Così la filosofia umanistica, secondo Hegel, appartiene a manifestazioni superflue “che offrono alla filosofia poco beneficio”782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo l’idealismo tedesco con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania, la concezione poetica come espressione del pensiero filosofico è stata condannata nel modo più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una pubblicazione uscita negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica della tradizione umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e sviluppato la valutazione completamente errata della tradizione umanistica – che non parte da una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e precisamente dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa discussione verrebbe ad essere la giusta premessa per giungere ad una comprensione filosofica di Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta proprio della relazione Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, a cura di H. Glockner, Suttgart 1928, p. 59 [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 568-569]. 781 Ivi p. 121. 782 Ivi, p. 149. 783 E. Grassi, Einleitung in philosophische Probleme des Humanismus, Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt 1986 [E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L. Rossi, Tempi moderni, Napoli 1988]. 784 E. Grassi, Heidegger and the question of Renaissance Humanism, Medieval Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N. Y. 1983 [G., Heidegger e il problema dell’umanesimo, a cura di C. Vasoli, Guida, Npoli].  tra Schopenhauer e Leopardi. Io farò riferimento alle tesi di Leopardi senza discutere il parallelismo e la differenza con Schopenhauer. Gli schopenhaueriani possono prendere i testi di Leopardi come motivo per un confronto tra entrambi. A giustificazione di un metodo di analisi di questo tipo sarebbe determinante una parola di Schopenhauer. Nella scorsa metà del secolo scorso Francesco De Sanctis ha notato per primo in un saggio785 su Schopenhauer e Leopardi la rilevanza filosofica del poeta, ma soprattutto ha contribuito a mettere in circolazione quell’immagine del pessimismo leopardiano, come noi oggi ancora comunemente pensiamo. Schopenhauer si espresse sul saggio di De Sanctis nel modo seguente con il suo amico Lindner: “mi devo stupire molto nel vedere quanto questo italiano (De Sanctis) si sia impossessato della mia filosofia e come l’abbia capita bene. Non fa come i Professori tedeschi, specialmente Erdmann, sunterelli ed estratti dei miei scritti, senza vera comprensione e secondo il numero delle pagine. No, egli li ha convertiti in succum et sanguinem, e li ha sulle punte delle dita per adoperarli dove occorre”786. Io qui strutturerò i livelli di pensiero di Leopardi in modo che gli specialisti di Schopenhauer possano discutere la questione delle affinità e diversità tra i due autori. Innanzitutto perché è possibile accostarsi a Schopenhauer anche da un’altra prospettiva, diversa rispetto a quella tradizionale che si trasmette con Kant e l’idealismo tedesco. I temi di Leopardi – il rigetto della priorità della ragione, la natura, l’analisi della noia, il significato filosofico delle passioni, l’illusione, la mania – sono gli stessi di Schopenhauer. Grassi si riferisce al saggio desanctisiano in forma di dialogo Schopenhauer e Leopardi che trae origine dalla lettura da parte di Sanctis dell’opera di Schopenhauer all’inizio del 1858. Il saggio di De Sanctis appare in “Rivista contemporanea”, e confluisce in Saggi critici. Cfr., F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, pp. 417-467, in Id., Leopardi, a cura di C. Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino GBr, Nr. 454, p. 447 [Lettera di Schopenhauer a Lindner del 23 febbraio 1859, in A. Schopenhauer, Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Bur, Milano 2010, p. 267, nota 220]. I passi di prosa che ora prenderò in esame provengono dal cosiddetto Zibaldone, una raccolta di pensieri e annotazioni. Esso non era destinato alla pubblicazione nella forma in cui oggi si presenta il testo originale, nonostante Leopardi lo avesse progettato, per quanto ne sappiamo, per pubblicarlo in dieci volumi. Lo Zibaldone è un’opera molto voluminosa: consta di un manoscritto di 4526 pagine. Le annotazioni cominciano a luglio o agosto del 1817 e terminano il 4 dicembre del 1832. La prima edizione apparve nel 1898 e fu pubblicata da Giosuè Carducci con commento critico e filologico con il titolo di “Pensieri di varia filosofia e letteratura” (un titolo che era tratto da un’indicazione di Leopardi). La seconda versione migliorata, che si accorda a questa traduzione787, appare negli anni Trenta: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, 2 volumi, Milano 1938. Io cito dalla traduzione tedesca di K. J. Partsch. Il punto di partenza della riflessione di Leopardi è il contrasto tra la ragione e ciò che egli ha chiamato natura, criticando in tale contesto ogni filosofia che creda di decifrare la realtà sulla base di principi razionali e perciò tutto ciò che ha a che fare con i sensi e le passioni, tutto ciò che è metaforico, lo rifiuta nel suo significato filosofico. In generale questa tradizione concede solo ciò che noi possiamo dimostrare e dimostrare significa mostrare e determinare qualcosa sulla base di un fondamento, di un assioma, di un principio. “E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza che par tutta consistere nell’uso intero della ragione”788. Ogni vita umana ordinata e fruttuosa sembra realizzarsi solo sulla base di fondamento e dimostrazione. Soltanto in questo modo si ritiene di poter prevedere anche l’avvenire in generale per poterlo deviare e per potersi mettere a riparo da esso. Da questo punto di vista l’imprevisto, l’improvviso, il sorprendente, non solo non vengono presi in considerazione ma cancellati, allorché Grassi fa riferimento alla traduzione di Partsch Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet und eingeleitet von G., aus dem italienischen übertragen von K. J. Partsch, Bern, Francke Leopardi, Zibaldone] si manifestano, e giudicati alla stregua di un fallimento delle nostre forze umane e razionali, delle nostre conoscenze, dei nostri desideri di sicurezza e certezza. Ora da questo emerge che l’esistenza umana deve scaturire solo attraverso una certezza sicura e razionale e che tutti i momenti della vita sociale, politica e spirituale devono derivare da un fondamento di tal sorta: perciò poi anche l’insegnamento e l’educazione devono non solo chiarire i fondamenti originari dai quali noi deriviamo le nostre azioni, ma anche prestabilire tutte le possibilità. Invece Leopardi adduce come argomento (il seguente): “e pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli”789. “ Ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce. Partendo dalla tesi della priorità del pensiero razionale, ogni passione, ogni impulso, viene considerato in realtà come un momento da oltrepassare, come un momento che deve essere corretto o annientato. Di conseguenza la conclusione dell’importanza del prevedibile, del sicuro, del giudizio divengono gli ideali a cui poi ci si abbandona: la stessa vita politica, lo Stato, se assicura la vita umana e vuole contribuire al suo sviluppo, deve partire da un’impostazione del genere e attuarla. Una simile concezione della vita, che si prova a dedurre more geometrico, corrisponde a una tradizione razionalistica contro cui Leopardi assume una posizione, che analizza progressivamente per mostrarla come causa delle rovine del mondo occidentale. Ma una concezione di questo tipo non è apparsa e si è realizzata proprio in precise forme di Stato, di insegnamento, di sapere quando ci si è allontanati già dall’originaria fonte della vita? Come è considerato l’esito della priorità della ragione da un punto di vista sociale, politico? “Anche nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principi, nei costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti uguali e tutti separati, laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli. In un mondo razionalizzato ogni elemento nuovo, originario, indeducibile e non anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha nessuna possibilità. In ogni forma già razionalizzata di vita sociale, politica o culturale nulla di imprevisto può irrompere senza far saltare il contesto esistente. Ma dunque cosa bisogna opporre alla ragione? La natura forse, l’affermazione delle passioni? “La superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per passione. Per Leopardi i concetti di natura e passione collimano: di che natura è il loro rapporto profondo e da ciò come emerge una comprensione della loro essenza? “ La ragione è nemica di ogni grandezza: la ragione è nemica della natura. Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai né pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda né vive con se stesso (se anche vivesse con gli altri) da vero filosofo”794.  In che cosa risiede la potenza, la capacità della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A questa domanda noi riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da cosa scaturisce l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si occupa così sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di natura, vita, che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla appare, secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti, questi, che mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella noia. Essa è il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci. Così afferma Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono, dell’indifferente, dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la capacità di distinguere qualcosa “Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale [...] del resto l’odio della noia è uno di quei tanti effetti dell’amor della vita [...] e l’uomo odia la noia per la stesa ragione per cui odia la morte, cioè la non esistenza”795. Così la noia scopre dalla sua essenza un’insolita, fenomenologica, molto importante incomprensibilità: nel suo patire deve determinarsi come una passione. Noi possiamo vivere e esperire l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si manifesta in modo limitato e la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che non possiamo esistere nello sconfinato e nell’indifferenziato. “La noia corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e senza passione non si dà in esso animo, come non si dava in natura o vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni passione è noia, la quale è pure passione”796. La noia fa parte di quei sentimenti deprimenti attraverso i quali si manifesta il declino della vita così silenziosamente e senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno stato d’animo opposto alla natura, poiché in essa ogni disperazione è già apatica. Secondo l’opinione di Leopardi in ciò risiede l’essenza della moderna esperienza del dolore che non ha nulla più di vitale. Si tratta di un’autodistruzione in una perdita di suoni e parole che si muovono in un silenzio disumano, in cui né odio né speranza, né tantomeno interesse e partecipazione sono presenti: è l’ultimo stato in cui si manifesta il naufragio di una cultura, di una classe sociale. Al suo posto la natura si mostra nella potenza della passione: affermazione, dunque, della passione contro la priorità del razionale? Prima di rispondere insieme a Leopardi a questa domanda occorre discutere la funzione e il potere della passione: “le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma qual dolore ha più della vita, anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma piuttosto come un’oppressione smisurata e un accoramento”797. “Ma gli antichi sempre più grandi, magnanimi e forti di noi nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse e della forza invincibile che li rendeva infelici, e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato”798. Secondo l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano, poiché credevano nella vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci rinunciavano tanto più l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore di Niobe, per il quale non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E dal momento che per gli antichi la disperazione è allo stesso tempo un’affermazione della vita, così nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva attraverso il dolore la loro immaginazione, traducendosi in azione, presentandosi nei miti, i quali non hanno conosciuto ancora nessun sentimentalismo. “Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano I dei in comunione della nostra via e dei nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, non dubitando che elle non fossero degne della invidia degl’immortali. Da questo punto di vista la vita in ogni suo stadio, sia sensibile che spirituale, non attinge a ciò che è sicuro, sperimentato, calcolabile, non attinge alla certezza razionale e dimostrabile, bensì all’ambito del creativo, dell’imprevedibile, dell’abissale: la prima possibilità dell’esperienza sorge da qui. Se noi oscilliamo continuamente tra successo e fallimento, se inoltre siamo disposti alla realizzazione delle nostre capacità, allora qui si radica la nostra autoaffermazione, che nuovamente richiama l’attenzione all’appello oggettivo e trascendentale a cui dobbiamo corrispondere. Leopardi pone l’attenzione sul fatto che tutte le grandi imprese oltrepassano l’ordine esistente e consueto, infatti dal momento che istituiscono qualcosa di nuovo non possono essere dedotte dal già noto. Già nella vita quotidiana appare impossibile vivere in modo puramente razionale e prevedibile. Gli stessi sentimenti più naturali si mostrano come qualcosa di infondato. Ogni cosa feconda non è mai deducibile e calcolabile: da ciò proviene la priorità storica che i popoli naturalmente rivestono, poiché su di essi agiscono le passioni, ciò che è originario, solamente essi, per questo motivo, trionfano sempre su quei popoli che sono dominati dal razionale. La natura, nel suo significato già spiegato, vive e si fa largo. Solo essa suscita tutte le passioni possibili, solo essa desta i sentimenti naturali che mostrano l’inaspettato. Così Leopardi passa alla descrizione e approvazione delle passioni del mondo antico. Allora quelle forze imperanti fanno tutte parte dell’imprevedibile, di ciò che non è razionalmente deducibile. Si tratta di quelle capacità di mostrare il nuovo sotto forma di immagine, di linguaggio, di azioni, di miti. Quegli stessi esercizi fisici, le lotte, le competizioni sportive e le cerimonie favoriscono la fantasia, destano i miti che non sono il “vero” ma celano in sé il significato dell’esistenza. “Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o a eccitare l’amor della gloria ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole, insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle nazioni”800. “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate o formate di essere uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane etc..., entrandoci e vedendoci tutto solitudine, pur credevi tutto abitato. L’Illusione Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a  Ivi, 7 giugno 1820. 801 Ivi, p. 100.  ! 257!  dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era allora”803. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda”804. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò  Ivi, p. 34.  ! 260!  che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era allora”806. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi illusioni] popoli civili saranno lor preda”807. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torniamo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri”808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da me indicati sorge una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di Schopenhauer: la conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della storia umana, è tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere storico dell’uomo, non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto abissale? Oppure: la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è l’illusione e non la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza che lascia apparire e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante misteriosa ha solo riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma nessun interesse per il destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il suo ruolo in questo dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui l’Abissale conduce l’uomo verso il teatro del mondo? Dove risiede allora l’essenziale identità o differenza tra la teoria dell’illusione di uno Schopenhauer e quella di Leopardi? La formulazione e la risposta a queste domande si discostano radicalmente dall’analisi del pensiero di Schopenhauer, così come tradizionalmente viene eseguita, quando si parte da Kant e dall’Idealismo tedesco per intendere Schopenhauer. Per me era profondamente importante qui mostrare il significato della teoria dell’illusione – che gioca un ruolo così profondo in Schopenhauer – alla luce di una prospettiva completamente diversa e poterne discutere.  Traduzione di Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, München, Beck, La ricerca della verità: il fondamento oggettivistico della verità, Oggetto di indagine filosofica è la questione relativa alla preminenza del Logos. L’inquadramento del problema e una definizione più veritiera possibile dell’essenza del Logos sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate ad un momento successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una ricerca della verità che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto tale presuppone già un determinato concetto di verità. Dal momento che però la filosofia non può presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in maniera univoca il concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere un’indagine filosofica partendo da un determinato concetto di verità, se evidentemente questo non può che essere il risultato di una lunga e complessa ricerca? E se la filosofia non può presupporre nulla come sarà mai possibile verificare se il concetto di verità così com’è concepito corrisponde al vero? All’inizio di ogni indagine filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare quella che si rivela essere la difficoltà principale ossia la ricerca della verità presuppone che si conosca già la verità altrimenti come sarebbe possibile riconoscerla? In un suo dialogo Platone enuncia in maniera precisa questa aporia sottolineandone i tre momenti principali ovvero la possibilità dell’indagine, la possibilità del prefiggersi un qualcosa e la possibilità del riconoscere la verità che presuppongono già di per sé una conoscenza della verità. “Come potrai mai cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non conosci ti prefiggerai di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come riuscirai ad accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?”. Tuttavia ammettendo che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare ad essa, già una conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una seconda difficoltà ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale motivo si dovrebbe cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione sembra frenare sin dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la questione più nel dettaglio ci si accorge immediatamente che essa in realtà fornisce già una prima indicazione utile (nell’individuazione del) concetto di verità al quale riferirsi nella ricerca: a quello che rende possibile l’indagine come punto di partenza e giusto approccio filosofico. L’aporia non riguarda la verità in sé ma solo una determinata concezione di essa. Quale? All’essenza dell’indagine appartiene tutto ciò che ricerchiamo e che in un certo senso è già esistente e non esistente. L’impossibilità che qualcosa allo stesso tempo sia e non sia è valida però per tutto ciò che è Ente e che ricade sotto il principio dell’identità: questo principio è applicabile sono ad un determinato ambito dell’Ente ovvero laddove esso in quanto oggetto dell’indagine venga concepito in maniera oggettivistica. Il principio dell’Identità non è applicabile al Divenire poiché in quanto tale esso ha già la caratteristica di poter essere e non essere. Da ciò si evince dunque che se il fondamento della verità viene identificato con l’immediata e concreta semplice-presenza di un qualcosa, la possibilità della ricerca viene meno. L’oggetto ha dunque solo due possibilità: la semplice-presenza e la non-presenza. Un tale fondamento della verità non ammette indagine e l’aporia si rivela come un qualcosa che non va ad interessare tutte le definizioni di verità ma bensì solo una determinata concezione di essa. Ma qual è da un punto di vista storico in generale la concezione di verità che nell’immediatezza della semplice-presenza di un oggetto ne vede il proprio fondamento? È quella concezione di verità che tradizionalmente per analogia accettiamo come valida in quanto afferma che la verità è verità logica essenziale e che in quanto tale appartiene solo al pensiero inteso come pensiero dell’Essere sia nella forma di oggetto razionale, come le idee di Platone, che in quella di oggetto sensoriale come nell’espressione dei sensi (secondo l’interpretazione di Aristotele). Il congiungere, l’atto di unire del pensiero, che si esprime nella concezione di unità come connexio di soggetto e predicato, il giudicare, sono veri nel momento in cui uniscono o separano ciò che si appartiene o non si appartiene, così com’è nell'Essere. In primo luogo è doveroso sottolineare che sulla base di una tale concezione il fondamento della verità appare innanzitutto come l’immediato manifestarsi dell'Essere in quanto oggetto; in secondo luogo che il fondamento della verità del pensiero non si trova nel pensiero stesso ma al di fuori di esso e che per questo la preminenza del Logos come pensiero viene negata; in terzo luogo che la definizione del fondamento della verità in una tale concezione deve essere necessariamente caratterizzata in maniera oggettivistica, indipendentemente dal fatto che si tratti di un fondamento empiristico o razionalistico. L’interrogativo circa il dove storicamente questa concezione si presenti realmente, sotto questa forma, resta dunque ancora da sciogliere. La semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo Analizziamo ora in maniera più approfondita la concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come della conoscenza) per verificare se essa effettivamente ha ciò che rivendica. La concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come della conoscenza) si richiama all’immediato manifestarsi di un qualcosa, alla sua semplice-presenza. Il fondamento del rivelarsi nel presente di un qualcosa non si cela però, in una tale concezione, dietro il concetto di semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto, il Faktum empiristico o razionale. La contraddizione tipica di questa asserzione è che l’essenziale non viene identificato con il manifestarsi dell’oggetto ma bensì con l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma allo stesso tempo si richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter affermare il suo Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica il fondamento concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi di un qualcosa, con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo comunque mantenere ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè dell’oggetto diventa in questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento che in questo caso considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a rivelarsi in e attraverso una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più alcuna possibilità di fare riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva solo come un processo di appropriazione, ossia mediazione intenzionale della semplice-presenza, diviene il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi in quanto tale. Hegel respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il processo dell’apparire inteso come mediazione intenzionale affermando, con la terminologia che gli è propria e che deriva dalla questione al superamento del dualismo teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: “se il conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta allora è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto non lo lasci inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma bensì porti con sé una forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non sarebbe più strumento della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo passivo attraverso il quale la luce della verità può arrivare a noi, non così com’è in sé stessa ma così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro che solo mediante la conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre rimedio a questi inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile escludere da ciò che si ottiene quella parte di definizione che a partire dall’assoluto deriva dall’uso dello strumento e conservarne così solo il Vero puro. Basterebbe questo miglioramento a riportarci nella condizione in cui ci trovavamo in precedenza. Se a una cosa già formata togliamo di nuovo l’effetto che su di essa ha avuto lo strumento, quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a noi così com’era prima di tale superflua premura”. Il fondamento oggettivistico della verità appare dunque falso. Ma se esso non è in grado di spiegare la verità può almeno spiegare la possibilità dell’errore? Come può però un oggetto, così come è stata considerata anche la sua essenza, essere preso per un altro se esso si manifesta solo nell’immediatezza? Questo vale sia per una concezione empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per una razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di un qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità. Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la “restante” porzione di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che riguarda il ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né cadere in errore confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo o con qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della verità e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento della conoscenza come un qualcosa di immediato, oggettuale, simile a un’illusione e ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento del manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti, quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di qualcosa. Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del concetto più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo assoluto: questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di qualcosa, di ciò a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse su qualcos’altro al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le difficoltà già esposte in maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del manifestarsi di qualcosa mettesse radici in un processo, in un divenire, in un avere e non avere, bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene dalle origini e allo stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi deve quindi contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il processo del manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in divenire, è il primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di qualcosa non è un qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso, il processo stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una lotta per quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un tentativo di scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa lotta e la conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la possibilità della conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che può diventare la prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della verità. Da notare che nella logica tradizionale l’essenza della verità è stata ricercata nel Logos, nel pensiero come pensato e dunque oggetto, e analizzata nelle sue forme e nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una tale concezione si mostra qui in una doppia veste: il fondamento della verità viene visto come l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la verità stessa ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato. Appare dunque evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di oggettuale, anche se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le forme della verità fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che tutto ciò che è oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del rivelarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni tentativo di trovare una logica del pensato che consideri il pensiero solo come oggetto si rivelerà fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare l’essenza della verità nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel quale soltanto qualcosa può apparire in quanto tale e dal quale può prendere origine la verità oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la verità nel pensiero inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme, ed essendo partita da un tale presupposto per la definizione del problema teoretico-conoscitivo, motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero come momento di conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la forma originaria della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa possa essere fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito dall’interrogativo sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in particolare la definizione del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo, dal confronto tra due pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali resta valido sempre e soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale, appare evidente che mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio dall’uno all’altro. ! Differenza ontologica e disposizione d’animo, Non dobbiamo perdere di vista il filo conduttore della nostra indagine. Siamo venuti a conoscenza di un elemento fondamentale ossia che il problema della verità può essere inteso solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi e che ciò non deve essere inteso come strettamente oggettuale. ! 268!  Attraverso ciò siamo poi giunti alla definizione del problema del Logos: il fondamento del manifestarsi può essere interpretato unicamente come un processo o un atto che non è altro che unità, congiunzione, leghein come veniva definito dai greci sulla base del significato originario del termine. La questione circa la preminenza del Logos deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in sé né le sue forme, così come l’atto originario dell’unire, del congiungere, del completare, possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di svelatezza di Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come sembra, il processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal quale deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici nell’irrazionale, nell’illogico, nell’immediato. Così dicendo si potrebbe pensare che Heidegger neghi la preminenza del Logos soprattutto se in tale contesto si richiama alla mente il suo tanto auspicato tentativo di superamento della preminenza della logica così come le sue asserzioni circa la derivazione del problema metafisico dalla disposizione d’animo. Per giungere alla corretta interpretazione del pensiero di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa si intenda con il fenomeno della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di illogico o se abbia origine in un atto, in un processo del leghein (come unità, legame originario). Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo Heidegger, il manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per poter essere riconosciuto come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere manifesto in tale Essere. Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non è che un separarsi dal nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa primordiale disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza? Tale processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente a totalità che attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il dispiegarsi di questa radice originaria come processo contiene in sé già la possibilità dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale ed è possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché? Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema ! 269!  innanzitutto la definizione tradizionale di verità che si orienta alla proposizione, alla connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta rimanda al fondamento e alla ragione. Per tale motivo il problema della verità è strettamente legato a quello della ragione. La verità della proposizione (anche verità ontologica) non consente però la comprensione dell’Essere dall’Ente ed essa stessa è possibile unicamente sulla base di una svelatezza originaria, definita come verità ontica, una verità sulla base della quale l’Identità o la Non-Identità di soggetto e predicato possono essere riconosciute. La stessa verità ontica si fonda nell’affettività istintiva che è legata dunque alla disposizione d’animo, nell’agire intenzionale che aspira all’Ente; questa non può però essere mai originariamente accessibile all’Ente se prima non c’è stata una comprensione dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica e la verità ontica affondano dunque le loro radici in una verità pre-ontologica la cui natura resta ancora da definire. Heidegger sottolinea come tra la comprensione dell’Essere pre-ontologica e l’espressa problematica dell’afferrare la concezione di Essere vi siano diversi passaggi che possono già fornirci un esempio di una qualsiasi precomprensione dell’Essere originaria. Ad esempio i principi basilari delle singole scienze, come ad esempio il fondamento del domandarsi che è proprio ad ognuna di esse, indicano e delimitano un determinato campo come ambito di una possibile oggettivazione attraverso la conoscenza scientifica, senza essere loro stessi oggetto di indagine scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi basilari delle singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso l’indagine e dal momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone una determinata precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda sorge quindi spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere rispetto all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e quindi l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume un’importanza fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende da un modo di riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora con la risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi pre-comprensione, che è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente, dobbiamo necessariamente ottenere anche lo scioglimento della questione dell’essenza della disposizione d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica della svelatezza rispetto all’Ente. Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dall’Ente è sempre tale del suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente sono separabili l’uno dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo grazie al manifestarsi dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra unità (dell’essere) e molteplicità (dell’ente) può essere concepito solo come processo, come atto e per questo come realizzarsi dell’unità attraverso la congiunzione e la separazione. Tale atto inteso come fondamento della svelatezza è la differenza ontologica, laddove essa non si determina precedentemente o successivamente al manifestarsi di un qualsiasi atto ma bensì nel suo compimento. Heidegger dichiara che “la così definita e necessaria sdoppiata essenza ontico-ontologica della verità è possibile solo in unione con l’affermarsi di tale distinzione”. Da ciò si evince innanzitutto che il fondamento della svelatezza si presenta come atto e poi che Heidegger definisce tale atto come Logos, come leghein in senso più ampio, poiché afferma, facendo riferimento alla pre-comprensione originaria dell’Essere dell’Ente, che esso è “tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere in senso ampio”. Il fondamento della svelatezza, che dunque rende possibile ogni comportamento all’Ente (verità pre-ontologica che è così fondamento della verità ontica e ontologica e disposizione d’animo laddove essa è intesa come ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente) è Logos ma non inteso in senso tradizionale come atto del pensiero che si deve necessariamente basare su un’originaria semplice-presenza dell’Ente; nemmeno come definizione di una verità logica che deriva da un’indagine del pensiero come oggetto, bensì come processo del ricongiungere e del separare, processo del distinguere come un venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto originario. Il fondamento della verità può essere realmente inteso come “svelatezza” e tale termine mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone a una concezione della verità (“come equivalenza”), il cui fondamento è un qualcosa di imminente e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto alla precedente convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente trovava origine nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza ontologica? Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento della svelatezza dell’Essere rispetto all’Ente non sia che trascendenza: ma cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica lo svelarsi di un qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere, tra la differenza ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi atto deve essere necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò che si svela. Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine fondazione e fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato separatamente da esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della differenza ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla svelatezza, è svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità, in un mondo, in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è nell’essenza del suo Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea Heidegger, non è dunque inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra l’altro appartiene anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui e per cui anche l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si manifesta non precede o segue immediatamente un atto originario allora una qualsiasi svelatezza non risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò permette di comprendere lo stretto legame esistente tra trascendenza e disposizione d’animo. Trascendere ovvero Esserci in senso metafisico è così fondamentalmente un Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne deriva che l’Esserci stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli Enti ad esso appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo. L’Esserci si afferma così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si realizza il secondo modo del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad essa appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il perché, terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce Heidegger. Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica come processo o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la comprensione della necessità dei tre modi nei quali è insito il fondamento, e della definizione heideggeriana di verità come svelatezza. La possibilità dell’errore e la definizione di logos come processo assoluto, L’episteme come doxa alethes. Da un’approfondita critica dell’oggettivismo naturalistico si è approdati a una prima definizione di leghein in cui compare l’Essere. Nella necessità di una definizione ossia di un’affermazione generale (giudicare, pensare) si è giunti al superamento del relativismo e attraverso di essa a una prima comparsa dell’Essere. Tuttavia ciò non risolve né il problema teoretico del Logos né la questione interpretativa del testo di Platone. Come dobbiamo considerare dunque nel dettaglio questo atto inteso come pensiero, come giudizio? E come lo definisce Platone? Ma soprattutto com’è da considerare una qualsiasi necessità? Come una ricerca di soddisfacimento al di fuori di essa stessa? È dunque il pensiero solo una forma esteriore per impossessarsi dell’Essere come suo contenuto e la verità il risultato dell’equivalenza del pensiero con un Essere ad esso esteriore? Questa è la questione che partendo da un punto di vista storico e sistematico dovrebbe portare con la sua risoluzione ad un’ulteriore interpretazione del pensiero di Platone. Che l’anima abbia un’originaria aspirazione all’Essere che riesce ad appagare unicamente aspirando per essa stessa all’Essere, non definisce ancora modi e modalità di alcun processo. Platone dimostra come un atto, un processo del leghein, che si fonda su un qualcosa di oggettivo, non riesca a spiegare il fenomeno dell’errore. Fondamentalmente l’errore è strettamente connesso alla verità; poiché la necessità di affermazione del generale si rivela in modo tale da rendere la tesi relativistica erronea. L’indagine filosofica così come dovrebbe essere interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come vedremo, dietro il quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa spiegare o meno l’errore. La risposta a questo interrogativo la troviamo nel Teeteto: il processo del leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale? Abbiamo visto l’Essere ergersi a leghein in una condizione di necessità: leghein significa essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a compiersi in una condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta quindi di un rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo fondamentale processo. Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del giudizio, del pensiero è ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione immediata e che dunque deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è la ragione per cui la doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a quale pensiero ci si riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la stessa teoria relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale: dunque questo nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i pensieri sono veri solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere sia falsa che veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il pensiero ma non ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il significato generale di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e non di una conoscenza motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia della verità. Da qui nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta di estetica o fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come “opinione vera”. “Di’ ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le doxai, le opinioni lo siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono anche di false. Di sicuro però l’opinione vera è conoscenza”. Il problema della lingua e il suo significato ontologico. Legame tra ricerca del fondamento del manifestarsi e quella del fondamento delle parole e dell’arte. In precedenza abbiamo definito il fondamento dell’apparire di un qualcosa come tale un atto o processo del leghein, il cui carattere resta però ancora piuttosto generico: con esso andrebbe inteso unicamente il congiungere, il riunire, il circoscrivere attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come tale. Abbiamo elaborato questa tesi in relazione alla concezione heideggeriana della differenza ontologica intesa come atto del trascendere, origine dei tre modi del fondare, “Logos in senso più ampio”. Alla luce di ciò abbiamo rigettato un’interpretazione illogica del fondamento della verità facendo riferimento alla disposizione d’animo. Quest’ultima non è da intendersi però come un qualcosa di pre-logico che precede un qualunque processo quale fondamento originario del rivelarsi di un qualcosa: ciò conferma anche l’interpretazione dell’affettività. Quando abbiamo però definito la disposizione d’animo come momento logico in senso ampio non era stato detto ancora nulla circa il suo rapporto con il Logos inteso come pensiero: non sapevamo ancora come definire il fondamento del manifestarsi. Solo attraverso l’interpretazione del pensiero di Teeteto e la discussione su quei problemi sistematici in esso contenuti siamo giunti a un’ulteriore definizione del Logos come necessità originaria, che si autoimpone, di affermazione del generale e dunque del giudicare, del pensare. Il processo dell’originario del leghein assume così un primo e determinante significato. Diversamente da quanto si ritrova nel pensiero di Heidegger, esso non è inteso qui come ricongiungere, radunare, riunire ossia riportare a quell’unità originaria nella quale l’Ente può apparire come tale, in senso generale, ma bensì come un ben determinato ricongiungere e riunire: quello del pensiero che si manifesta nella necessità di affermazione del generale. Come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale si manifesta per la prima volta l’Essere, ciò che esiste. Il fondamento del manifestarsi è stato da noi riconosciuto nella parola, nella lingua come un lasciar apparire metafisico di un qualcosa attraverso il legame con la necessità di affermazione del generale. Questa necessità originaria si manifesta in una ben determinata forma di problematicità dell’Ente ogni qualvolta non si sa come intendere una determinata cosa. Dell’origine di tale atto, dell’impossibilità di dedurlo dal pensato, così come è inteso da Hegel, abbiamo già discusso nel capitolo precedente, riassumendo a tal proposito la critica di Gentile al pensiero del filosofo tedesco. Per quanto riguarda il pensiero di Heidegger, va sottolineato che fino a quando non riusciremo a stabilire se egli ha assegnato all'atto della trascendenza (intesa come “Logos in senso ampio) una determinata forma (quella del pensiero pensante) o se ha lasciato la questione irrisolta, anche la nostra interpretazione non potrà essere completa. Se però Heidegger nei suoi scritti avesse in qualche modo iniziato un’implicita dissertazione sulle diverse forme di svelatezza, senza fattivamente distinguerle, ad esempio in “Hölderlin e l’essenza della poesia” in cui egli parla della funzione della parola poetica nel suo carattere di manifestazione, questa non dovrebbe essere assolutamente trascurata. Tale questione non può essere discussa se prima non si definisce il carattere fondante della svelatezza. Ci troviamo così di fronte ad un interrogativo rilevante: il processo originario che si manifesta nella necessità di affermazione del generale è l’unica forma della svelatezza? Dobbiamo attribuire al Logos, alla parola, alla lingua unicamente la necessità di affermazione del generale? A questo punto è necessario far notare che in nessun caso le forme della svelatezza posso essere classificate sulla base di ciò che appare per mezzo del pensiero pensante. Questo perché nel momento in cui dovesse emergere una distinzione nelle forme della svelatezza ciò dovrebbe essere presentato mostrando che oltre alla necessità di affermazione del generale esistono altre forme del fondamento originario del manifestarsi e dunque dell’interrogarsi, dell’aspirare all’Ente. Dobbiamo quindi chiederci se il leghein si impone a noi solo come pensiero pensante e dunque necessità di affermazione del generale o anche sotto altre forme: ovvero se la parola, il Logos abbiano solo un significato “logico”. È evidente come un tale problema si ponga solo se, come nel nostro caso, in precedenza si è definita in maniera chiara una prima manifestazione della forma del Logos ad esempio come necessità di affermazione del generale. Ma come possiamo sviluppare tutti questi differenti quesiti in maniera unitaria ricollegandoli alla precedente indagine? È necessario chiarire tutte le questioni che si presentano anche attraverso la presa di posizione di Heidegger chiedendoci se il Logos come necessità di affermazione del generale costituisca l’essenza delle parole o se esso si manifesti anche sotto altre forme. Per determinare l’essenza delle parole dovremmo innanzitutto capire se nel discutere di ciò Heidegger fosse consapevole del problema; in questo modo potremo determinare definitivamente la nostra interpretazione del pensiero di Heidegger e la nostra posizione in merito. Successivamente andremo a verificare le tesi proposte nella Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera particolare dietro gli assunti del Teeteto, per discutere del legame tra il problema della parola e il problema dell’arte. Va notato come la questione se la parola abbia o meno solamente un significato logico è l’essenza della seconda corrente critica di Hegel in Italia la quale lega strettamente tale questione con l’interrogativo se la parola ad esempio in poesia non abbia una propria forma del manifestarsi dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di risolvere la questione, nella contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna di nuovo in Italia al piano ontologico. Questo dal momento che se la parola, la poesia e dunque l’arte hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla parola così come per la filosofia quale necessità di affermazione del generale ciò ha UN DOPPIO SIGNIFICATO: innanzitutto che tra l’arte come forma del manifestarsi dell’Ente e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel, non vi è alcuna relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si oppone alla caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era della filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione dialettica tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va scomparendo e che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che questo quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica, ontologica in quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica del fondamento del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante. Il problema ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa interpretazione dello scritto heideggeriano “Hölderlin e l’essenza della poesia” andremo a discutere dell’imporsi del problema della forma del manifestarsi. La domanda se il Logos come parola, come lingua debba essere inteso solo come unione così com’è nel pensiero, si pone in questo scritto congiuntamente al problema del fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger afferma: “La lingua per prima accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dall’Ente”; “Solo dove vi è lingua vi è mondo”. Poi ancora aggiunge: “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di manifestarsi come tale nell’opera e di custodirlo”. Come dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve essere attribuita unicamente la determinazione dell’espressione del generale? Già nello scritto “Dell’Essenza del fondamento” Heidegger aveva identificato il manifestarsi dell’Ente come differenza ontologica e dunque trascendenza. È dunque la differenza ontologica essenzialmente parola e l’essenza della parola nient’altro che il manifestarsi della verità? Se la parola, la lingua, così come inteso da Heidegger, sono strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque ritenere che l'essenza della poesia sia solo verità? E di che verità si tratta? Quella “logica”? Appare evidente che solo sollevando queste questioni nello sviluppo del nostro problema nel tentativo di definire il Logos potremmo prendere una posizione rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è innanzitutto necessario capire se l'intera questione della lingua è stata spostata da Heidegger su un piano ontologico. Considereremo il suo scritto proprio da questo punto di vista. Dal momento che la discussione heideggeriana sull’essenza della poesia si sviluppa come interpretazione di un poeta, in un primo momento la questione appare essere considerata da un punto di vista che è al di fuori da qualsiasi piano metafisico e ontologico. Che l’ambito non sia estetico o storico-letterario ma principalmente metafisico si evince però dalla scelta dei versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base della sua interpretazione. Le posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento considerano l’essenza della lingua in congiunzione con l’essenza dell’uomo. Nella sua interpretazione Heidegger afferma che l’uomo nella sua essenza “è colui il quale deve dimostrare ciò che è. Con questa affermazione non si vuole qui intendere un’espressione supplementare e a sé stante di umanità ma bensì la determinazione dell’Esserci dell'uomo”. Cosa deve testimoniare l’uomo? “La sua appartenenza alla terra”. Anche questa asserzione risulta difficile da comprendere in quanto nella nostra comune concezione di uomo la sua appartenenza alla terra è l’unica cosa che non deve essere dimostrata dal momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare dunque inspiegabile come essa possa essere considerata un suo compito, un’attività da compiere che si impone costantemente all’uomo, e come essa si leghi alla questione della parola. Da ciò si evince però un punto fondamentale: se per Heidegger l’uomo è tale solo in quanto lo testimonia, ciò significa che la sua essenza non si manifesta nella semplice-presenza ma bensì in un atto da compiere e realizzarsi. Tale atto viene definito da Hördelin come testimonianza “dell’intimità” con la terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin “intimità” è da intendersi ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo riunisce le cose. La “testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene attraverso la creazione di un mondo la testimonianza dell’essere uomo e dunque il suo compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa coglie il necessario e si lega ad un ordine superiore”. Come dobbiamo però intendere l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo questa creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza? Heidegger afferma che “l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo come storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola.” In ciò ritroviamo una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una qualsiasi creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si lega alla parola). Il mondo che appartiene all’uomo è solo il mondo della parola dal momento che effettivamente si evince che l’uomo si appropria della realtà esistente così come percepita considerandola il proprio mondo solo attraverso il “denominarlo”: solo il “mondo denominato” è il suo mondo, il suo cosmo. Questa appropriazione rappresenta la storia del formarsi dell’uomo. Interpretare in questa maniera il pensiero di Heidegger sarebbe sbagliato in quanto come egli stesso afferma che la lingua non ha il compito di denominare qualcosa che è già esistente per creare un mondo supplementare del significato, ma bensì è nella parola stessa che si rivela per la prima volta l’Ente e lo fa solo nella parola. “La lingua non è solo uno strumento che l’uomo possiede insieme a tanti altri ma bensì la lingua concede innanzitutto la possibilità di stare nel mezzo del manifestarsi dall’Ente. Solo dove c’è lingua può esserci mondo”. La lingua ha il compito di permettere all’ente di manifestarsi nell’opera e di conservarlo tale”. In questo modo la parola acquisisce un nuovo e determinato significato: essa non è più la parola pronunciata, il mondo che esprime la fonetica e che ha molte altre possibilità di espressione ma bensì parola significa qui prima manifestazione dell’Ente: parola, Logos come fantasia, come apparizione nel senso più originario del termine. Heidegger aggiunge poi: “La poesia è fondazione attraverso la parola e nella parola”. Ma cosa significa qui fondazione? Se provassimo a tradurlo in termini filosofici (termini legati a una determinata problematica teoretico-conoscitiva e proprio per questo qui evitati da Heidegger) significherebbe qualcosa che non presuppone l’esperienza, la percezione e che non può essere dedotta da essa a posteriori ma bensì a priori. Attraverso il denominare dei poeti “l’Ente viene per la prima volta chiamato e conosciuto come tale [...] ma dato che l’Essere così come l’essenza delle cose non può essere mai né determinato né dedotto dal presente, essi devono essere creati liberamente, fissati e donati. Tale libera donazione è fondazione”. Da ciò si evince che se la poesia fonda l’originaria manifestazione dell’Ente in essa l’uomo raggiunge il proprio fondamento. Così come afferma Heidegger: “Il dire dei poeti è fondazione non solo intesa come libera donazione ma bensì anche come solida istituzione dell’Esserci umano sul suo fondamento”. La definitiva determinazione dell’essenza della poesia è da intendersi come ciò che si realizza nella parola, nella lingua nel discorrere, nel parlare, nell’ascoltarsi e nel comprendersi: il discorrere è possibile però solo sulla base di un qualcosa di condiviso, attraverso il quale possiamo comprenderci poiché altrimenti ognuno resterebbe bloccato nella propria lingua, nel proprio mondo. Ogni parola fondamentale manifesta, come afferma Heidegger, l’uno e lo stesso, qualcosa di duraturo ed esistente e dunque sempre presente. In questo modo però la lingua si manifesta solo nell’ambito del tempo. Se però solo in poesia la manifestazione dell’Ente si realizza originariamente nella parola per poter definire l’intera problematica dell’essenza della poesia è necessario sottolineare che non è quest’ultima che deve essere separata dalla parola, dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza della lingua, della parola, dalla poesia: solo così la poesia ottiene il suo primo centrale significato ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a riconoscere quanto segue: la parola, la lingua, la poesia mantengono negli scritti di Heidegger una determinazione ontologica ma tuttavia non vi ritroviamo in essi né una definizione della caratteristica della poesia né argomentazioni in merito al fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione particolare. La differenza ontologica in sé è valida per qualsiasi manifestarsi: non vi è però discussione in Heidegger su un problema determinante ovvero se e come ad esempio il manifestarsi nella sua forma logica e dunque nella necessità di affermazione del generale così come nel Teeteto, si differenzi dalla forma poetica del manifestarsi. Ciò è tuttavia di fondamentale importanza quando si parla di essenza della poesia così come fa Heidegger nel suo sopracitato scritto. Solo attraverso la risposta a questa domanda la poesia potrà acquisire una propria forma e necessità e dunque una propria definizione. Ciò appare evidente nel momento in cui confrontiamo le due opere “Dell’Essenza del fondamento” e “Hölderlin e l’essenza della poesia”. Nella prima si tratta essenzialmente della definizione di fondamento della verità ontologica (del Logos), laddove la differenza ontologica viene intesa come Logos in senso ampio. Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere “è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dell’Ente e sempre in un certo senso anche quella dell’Essere” (“Dell’Essenza del fondamento), per cui il fondamento della svelatezza si trova nell'atto come differenza ontologica laddove esso è tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere, del Logos in senso ampio. Questo svelamento si realizza solo per via di tale originario atto del distinguere, così che la sua essenza sia trascendenza e fondazione e dunque fondamento di tutto l’apparire che non può essere dedotto da esso ma che bensì lo rende possibile. In questo modo, come abbiamo già fatto notare in precedenza, resta però aperta la questione relativa all’ultimo significato di un qualsiasi atto. Per questo motivo nella nostra indagine abbiamo anche sciolto la questione heideggeriana giungendo autonomamente a una definizione il più veritiera possibile di un qualunque processo sulla base del pensiero di Teeteto. Nella sua ricerca sulla poesia Heidegger attribuisce dunque alle parole la manifestazione dell’Essere. Ci è consentito quindi riferirci a questa identità delle definizioni che egli attribuisce alla parola così come accade in poesia e nella differenza ontologica. Egli afferma che la lingua “innanzitutto consente la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dell’Ente e che la poesia “è fondazione attraverso la parola e nella parola” (“Hölderlin e l'essenza della poesia” pag. 8-10). Così come per la differenza ontologica (origine dei tre modi del fondamento) anche per la poesia si afferma qui che “essa è nella sua essenza fondazione e dunque istituzione determinata. Heidegger afferma ancora che: “SOLO DOVE VI È LINGUA VI È MONDO e ciò è possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’ente come ente così conosciuto. Se dunque la differenza ontologica nella sua essenza è comprensione illuminante dell’essere (Dell’essenza del fondamento), fondazione “di un qualunque Ente il quale è svelato all’Esserci e dunque possibile, e se in conclusione l’atto della differenza ontologica (il quale svela la sua essenza nell’Ente) è nella sua essenza creatore di mondo qual è la differenza tra fondazione, mondo, manifestazione dell'Ente (che è proprio della differenza ontologica come fondamento della verità ontologica nella sua generica concezione esistenziale) e poesia come determinato modo di esistere e di manifestarsi? Non vi è forse alcuna differenza? Fin qui siamo stati autorizzati nella determinazione della verità ontologica a limitarci alla definizione di Logos in senso ampio. Ora appare però necessario per poter attribuire alla poesia un significato ontologico trarre la sua definizione da quella verità ontologica generale lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora potrà essere chiarito anche il significato di fondazione, mondo, istituzione, manifestazione. Tale problema relativo alle forme della realtà si è manifestato nel corso della nostra indagine laddove siamo stati costretti a decidere se attribuire o meno alla parola solo il significato dell’asserzione generale o anche altri. Gli equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione dei concetti heideggeriano di affettività, disposizione d’animo, Essere-nel-mondo e così via sono dovuti in parte al fatto che la determinazione della realtà come svelatezza non deriva da una considerazione generale antioggettivistica del fondamento del manifestarsi. Non troviamo in Heidegger il problema delle diverse forme della svelatezza nonostante il fatto che egli discuta dell’essenza della poesia. Questo problema sorge solo nel momento in cui si attribuisce alla svelatezza una determinata forma poiché solo in quel momento ci si chiede se questa è l’unica o se ve siano di altre. Già con la definizione di verità come processo del leghein che nell’asserzione del generale si impone come pensiero pensante, si realizza il presupposto per sollevare la questione circa le forme. Con questa affermazione non ci vogliamo porre in maniera critica nei confronti del pensiero di Heidegger ma solo sottolineare la necessità che la discussione nelle sue affermazioni tenga conto anche di tali questioni. Il problema delle forme del Logos. Sulla scia del pensiero filosofico italiano, che prende le mosse da De Sanctis, come si evince anche in Heidegger, abbiamo attribuito alla parola un significato essenzialmente metafisico ovvero come manifestazione dell’Ente. Non dobbiamo però dimenticare che già nel pensiero filosofico italiano contemporaneo, che si oppone alla visione di Croce, Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi poiché ne riconosce una sola: quella del pensiero pensante. Egli afferma che tutto ciò che può essere definito, differenziato, circoscritto attraverso l’atto del pensiero, a cui egli attribuisce un significato ontologico originario, dunque appare. Se ammettessimo diverse forme del manifestarsi senza riconoscerne la loro unità d’appartenenza ci ritroveremmo con un insieme di forme diverse considerabili unicamente da un punto di vista empiristico. Una differenziazione è possibile solo sulla base di un atto originario nel quale e per mezzo del quale la distinzione appaia come atto del pensiero. Dimostrazione di ciò è che ad esempio il processo nel quale l’Ente si rivela all’artista coincide con quello dell’esistere dal momento che per egli la realtà è ciò che gli si manifesta. Unicamente nel momento in cui egli esce dalla sfera artistica e fa di un qualsiasi mondo l’oggetto del giudizio solo allora la realtà gli apparirà come un qualcosa di ottenuto, di soggettivo, come arte e non realtà. “Questa stessa irrealtà e idealità dell’arte diviene realtà viva e presente se la si considera così come la fantasia la proietta...questa è dunque la realtà che vaga nella fantasia dell’artista, la realtà assoluta che non può essere separata da quella a cui si fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è per l’artista, fin tanto che si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo Gentile l’arte si cela dietro il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale che si ripropone sempre del pensiero pensante. Non possiamo però approfondire la questione. L’argomentazione principale con la quale Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi è che esse possono essere determinate solo attraverso un atto che le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale conclusione opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione sia possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia come una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il senso fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la questione metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il problema dell’essere dell’ente si ricollegava allora espressamente a quello dell’unità e della molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità separatamente dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il rivelarsi della molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento dell’apparire, è un processo che si compie da sé, un atto che nel momento in cui è ben circoscritto non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza (ciò che Heidegger definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale. Laddove la svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa conoscenza come pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così come Platone la identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la svelatezza del proprio fondamento. Questa avviene nella trascendenza filosofica, nella conoscenza dell'essere come conoscenza del proprio fondamento: l’ineluttabile necessità di affermazione del generale. Da questo generale e dalla conoscenza che ne deriva non è stata ancora mai creata poesia. Nella conoscenza del fondamento c’è l’essenza dell’atto filosofico. Questa conoscenza riguarda anche la creazione dell’arte ma da essa non deriva alcun tipo di arte: questa conoscenza del fondamento non appartiene all’arte in quanto tale tantomeno si riscontra in essa un inizio di ciò. Questa necessità, che ci costringe alla conoscenza del fondamento e quindi alla conoscenza come asserzione generale, è fondamentalmente un qualcosa di diverso da una qualsiasi necessità che spinge l’artista alla creazione della sua opera. Con l’affermazione di Gentile secondo cui qualsiasi differenziazione si fonda nell’atto del pensiero non si va ancora a toccare il nocciolo della questione che ci riguarda. Il problema delle diverse forme del manifestarsi può essere sollevato o negato solo se non ci si limita a considerare ogni distinzione come atto del pensiero: se ogni differenziazione si realizza per mezzo di un atto, il quale per via della sua origine non può essere né dedotto né motivato (dal momento che esso stesso è il presupposto di ogni motivazione, domanda o risposta), allora dobbiamo chiederci se la necessità nella quale si manifesta l’Essere logico come aspirazione all’affermazione del generale è la stessa necessità per la quale ad esempio si compie la differenziazione poetica. Ogni atto come fondamento del manifestarsi di qualcosa è necessariamente fondazione, trascendenza e dunque possibilità di apparire di una molteplicità, di una differenziazione che non presuppone l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in una molteplicità ordinata, in un mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la manifestazione di un qualcosa nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si ottiene dunque attraverso il dubbio, dalla necessità di affermazione del generale una differenziazione poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si trova” in un mondo delle differenze e delle determinazioni che è identico a quel mondo che deriva dal pensiero? Abbiamo definito l’Essere che si manifesta nel pensiero pensante essenzialmente come necessità di affermazione del generale. Da ciò possiamo dedurre che la questione circa la molteplicità delle forme del manifestarsi non può essere sollevata o risolta se si afferma che ogni differenziazione non è altro che la realizzazione di un atto del pensiero ma bensì solo domandandosi se la differenziazione poetica, la determinazione siano da ricondurre alla necessità di affermazione del generale. Rispetto a che cosa misura il poeta la parola, l'espressione? Non da qualcosa che è all’esterno altrimenti come sarebbe possibile farlo da un oggetto? Ma bensì da ciò che in esso si manifesta. Da ciò che è in sé confrontare, scegliere, differenziare, decidere ed è possibile solo sulla base di una necessità, attraverso la quale il poeta capisce se l’espressione è adeguata o meno. Solo ciò che è necessario, fisso ed esistente può essere misurato. Questa necessità che si cela nell’oggetto poetico si manifesta nell’immediatezza dell’originario, del primo che per questo deve essere sempre qualcosa di istantaneo e per questo essa si rivela in un attimo presente e unico. Solo grazie all’attimo, al presente il poeta vede ciò che è già e ciò che ancora non è. Nell’attimo si schiude la temporalità che è sempre temporalità di un determinato manifestarsi. Per tale motivo il processo poetico e il suo paragonare “interiore” per poter trovare l’adeguato vocabolo poetico non deve essere considerato come “interiorità” psicologica e romantica ma bensì come qualcosa in cui si realizza una determinata forma di manifestazione nella quale all’arte, al bello spetta un significato ontologico. Anche l’uomo pensante non misura la verità delle proprie definizioni da qualcosa che si trova al di fuori della necessità di affermazione del generale dato che l’Essere logico è e appare solo in una qualsiasi necessità. Il pensiero vero è solamente quello che riesce a resistere a qualsiasi necessità e mai fugge da essa poiché ricorre a una determinazione che in sé non può giustificarla. In ciò consiste il profondo carattere etico che ogni verità possiede. Già il riconoscere di non sapere è una risposta all’originaria necessità. Allo stesso modo in cui l'uomo pensante guarda solo a una qualsiasi necessità che possa fargli riconoscere la verità della propria determinazione, verità che si cela con la forza attraverso la quale la necessità si manifesta, così il poeta paragona e sceglie la parola poetica non paragonandola all’Ente esteriore ma bensì alla necessità che si manifesta in esso: questo non è però mai un momento di conoscenza del fondamento. Solo rispondendo alla domanda che ci siamo posti sulle forme della necessità, sulla base della quale può essere distinta una molteplicità, si evince, contrariamente a quanto affermato da Heidegger, che i tre modi del fondamento che egli ha indicato come motivo del manifestarsi, fondazione (trascendenza), Essere-nel-mondo (affettività) e possibilità del perché, solo in questo contesto possano essere definiti chiaramente. È importante precisare che attraverso il carattere originario e ! 285!  immediato della necessità dell’Essere dall’Ente, il problema delle forme dell’Essere si cela dietro quello dei diversi attimi per l’ambiguità della parola tedesca Augenblick che può essere intesa sia come visione e dunque manifestazione dell’Ente sia come espressione temporale di attimo, momento. Infatti l’Essere oggetto della nostra indagine che nel dubbio si manifesta originariamente come necessità di espressione del generale ci offre una ben determinata visione di svariati Enti. Questa molteplicità in quanto tale è solamente un momento del compiersi di una qualsiasi necessità. Da ciò si evince anche un ben determinato arco temporale: poiché sulla base dell'imporsi di una qualunque necessità si manifesta un determinato “prima” e “dopo”, una visuale di ciò che vediamo “già” e di ciò che non vediamo “ancora”, un passato e un futuro. Saggi: “Il problema della metafisica platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire e dell’essere”; “Linee della filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed errare -- un confronto” (Napoli, Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come anti-arte. – il bello nell’eta antica” (Torino, Paravia); “Potenza dell’immagine – ri-valutazione della retorica, Milano, Guerini);“Potenza della fantasia” – “Per una storia del pensiero occidentale, Napoli, Guida, “Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, Napoli, Sole, Heidegger e il problema dell’Umanesimo, Napoli, Guida, Umanesimo e retorica. 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Grice e Grassi: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- dove fiorisce il limone – la giovinezza e il fascismo – parole ai giovani – al senato --  filosofia fascista – filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Mascali). Filosofo italiano. Filosofo siciliano. Mascali, Catania, Sicilia. Grice: “I like Grassi; he wrote on Faust!” Inizia gli studi ginnasiali presso il seminario di Acireale fino alla terza ginnasiale, proseguendoli poi a Catania, presso il liceo "Nicola Spedalieri".  Assiduo frequentatore della sala di lettura dell'Catania, conobbe Rapisardi, cui lo legò una profonda stima ed affinità.  Si laurea a Napoli con “La memoria delle immagini acustica e visiva della parola in rapporto specialmente al tempo di "fissazione", suggeritagli da Bianchi (Rivista di Freniatria). Si trasferì a Messina dove divenne assistente di Weiss. Comincia a provare le prime grosse delusioni per l'inconciliabile contrasto fra le esigenze pratiche della professione, che rischiavano di piegarlo a umilianti compromessi, e le alte aspirazioni della sua anima.  Muta bruscamente indirizzo, iscrivendosi alla facoltà di scienze naturali, conseguendo così la laurea con Mingazzini sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro, che poi fu pubblicata su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato a Bologna, era felice di averlo come assistente. Il suo spirito inquieto cerca altre vie ed altri sbocchi, e così intraprese a frequentare le lezioni che si tenevano nella facoltà di filosofia a Catania, nel Palazzo Grassi, a Via Firenze. Prrofondamente influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi dove campeggiavano figure come Pascoli, col quale strinse amicizia, Cesca, Barbi, Mancini, Ardigò, Dandolo e Salvemini. Si laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con “L'unità dei fatti psichici fondamentali” (Muglia, Muggia, Messina). Insegna a Caltagirone e Catania. Inizia un'intensa attività che vide tra i suoi maggiori corrispondenti Gentile eSturzocon i quali intrattenne un copioso carteggio oltre al letterato Villaroel, Farinelli, Varisco, Majelli, Carabellese e Fassò.  Fonda Prisma a cui collabora, tra gli altri, anche M. Sgalambro.  Altre saggi: “Preludi a un commento alla vita del Faust” (Catania, Studio Moderno); “Commento alla vita di Faust” (Torino, Bocca); “Preludi storico-attualistici alla Critica della ragion pratica” (Catania, Crisafulli); “Medico mancato” (Catania, Legione); “L’assoluto”, Roma, Enciclopedia Treccani); “L’assoluto” Roma, Enciclopedia De Carlo. “Giornale critico della filosofia italiana” “Logica e metafisica”, “Goethe in Italia”, “La musica e le idee” – “Esegesi del Fausto” “tramonto di Occidente”; “REminiscenze e visione paesane”;  “La giovinezza e il fascismo – parole ai giovani” (Senato). “Mazzini”;  “Il faust e il tramonto dell’occidente o di una nuova corrente esegetica del Fuasto in Germania”; “Goethe in Italia”; Membro della Fondazione GENTILE per gli Studi Filosofici. Un filosofo dall'anima di poeta, Teoresi Rivista di cultura Filosofica. Da Herbart in poi la psicologi concepisce una unità al fondo di tutte le manifestazioni della vita psichica; ma visono tre modi principali di concepirla: l'intellettualismo (rappresentato specialmente perl'appunto da Herbart), il sentimentalismo (Horwicz,Regalia), e il volontarismo (Schopenhauer, Wundt, Fouillée ecc.). Questo terzo, è pare, all'ultima moda. Lo vediamo informare anche il neo-idealismo, che non si accorge di restringere ancora più la intui rione dal mondo in un piccolo cerchio antropomorfico. G. esamina le teorie metafisiche dello spirito e le critica tutte e tre, con Egli conclude per il monismo psicologico: ossia contrariamente ai riduttori favorevoli all'uno o all'altro elemento fra i tre fondamentali, si pronuncia per una unità primordiale di tutta la psiche, la quale unità consta ad un tempo di rappresentazioni, di sentimenti e di tendenze integrate in maniera indissolubile, ma capaci di assumere per evoluzione sempre più chiarezza e sempre più distinzione.Cosi G. si connette a due psicologi italiani insegnanti nello stesso ateneo patavino, ma purtanto dissimili: Bonatelli e ARDIGÒ, due valori anche disugualmente conosciuti e apprezzati in Italia. Un'osservazione critica. G. inserisce molte citazioni originali in tedesco, il che -- oltre a dar luogo a gravi errori di stampa -- induce fatica inutile nell'animo del lettore. Non si è obbligati, tutti, di sapere il tedesco, massime quello dei filosofi e metafisici. Il Trieb, il Drang, il Lust, l’Unlust, il Selbsterhaltung, e simili parolear restano penosamente. È upa ostentazione di coltura erudita che a scapito della intelligibilità della lettura. Qualche insolente potrebbe supporre che l'autore, messo di fronte ai testi, imbarazzato di tradurre in verbo e nerbo italiani i pensieri, si levi d'impiccio col cominciare periodi e frasi in italiano e col finirle in tedesco. No. Si citi pure l'originale, ma in nota e nel testo si metta l'equivalente italiano. La chiarezza non deve essere uccisa dalla pedantesca precisione. RENDA A., La dissociazione psicologica. Torino, Bocca. La dissociazione, dice l'Autore, è un processo normale dell'attività mentale:questa non soltanto associa, ma pur dissocia, poichè distingabile competenza una inne non si può dire per ciò che faccia fica italiana; tutt'altro! L'argomento, ma molto utile filoso è di cosi alta portata che riesce in materia. Egli e stato preceduto dal Faggi opera inutile nella letteratura guardarlo da varie parti e con occhi differenti. E poi , oltre ai tre indirizzi principali, G. parla anche di alcuni scrittori darii, fra cui Ward, Ebbinghaus secon giovane, Brentano, Lipps, Masci  ecc. Questo scrittore ha coltura estesa anche nel campo biologico possiamo garantire che darà altri frutii, e succosi e forti, al, e noi pari del presente volume. Va Uu op.in. RASSEGNA DI FILOS. “Goethe in Italia”  L'opera e scritta in tre momenti successivi. L’Ur-Faust, influenzato dalle rappresentazioni del Faust di Marlowe a cui Goethe assiste sotto forma di teatro delle marionette. Si veda Dottor Faustper il personaggio storico. L'Ur-Faust appartiene culturalmente alla corrente letteraria tedesca dello Sturm und Drang e venne pubblicato, con alcune aggiunte, sotto il nome di "Faust. Ein Fragment". Più tardi pubblica un ulteriore seguito, che già ricade nella corrente letteraria del classicismo, "Faust. Erster Teil" (Faust. Prima parte. Viene aggiunto il Prologo in cielo e sono apportate modifiche significative all'Ur-Faust. Così Mefistofele appare a Faust promettendogli di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare che quell'attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust è sicuro di sé: tale è la sua brama di piacere, azione e conoscenza, che è convinto che nulla mai al mondo lo sazierà tanto da fargli desiderare di fermare quell'attimo. Mefistofele gli fa conoscere Margherita - detta Margheritina e Greta - la quale si innamora perdutamente di Fausto, inconsapevole del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è nient'altro che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di Margherita e tragica. In Faust. Zweiter Teil (Faust. Seconda parte) la scena si allarga per celebrare l'unione tra letteratura classicistica e mondo classico. Fausto seduce e viene sedotto da Elena di Troia. L'opera nel suo complesso risulta di 12.111 versi. Fausto. Tragedia di Volfango Goethe, Scalvini e Gazzino, Le Monnier, Firenze; Fausto, trad. Giovita Scalvini, Sonzogno, Milano; come Faust, Einaudi, Torino 1953 Fausto. Tragedia di W. Goethe, trad. di F. Persico, Stamperia del Fibreno, Napoli, Fausto. Tragedia di Wolfgango Goethe, trad. di Andrea Maffei, 2 voll., Le Monnier, Firenze, Fausto. Parte Prima. Erminio e Dorotea di Wolfgango Goethe, trad. di Anselmo Guerrieri Gonzaga, Le Monnier, Firenze, 1873 Fausto. Tragedia del Goethe, trad. di G. Biagi, Sansoni, Firenze, 1900 Johan Wilhelm von Goethe, Faust. Prima parte, trad. di G. E. Vellani, Cogliati, Milano, Johann Wolfgang Goethe, Il Faust, 2 voll.: vol. I Versione, Commento, pp. 423, versione integra dell'edizione critica di Weimar, Introduzione e trad. e commento di Guido Manacorda, Mondadori, Milano; Collana I Classici Contemporanei, Mondadori, Milano, 1949; ora in Faust, con un saggio introduttivo di Thomas Mann, testo tedesco a fronte, nota al testo di Giulio Schiavoni, Collana Classici, BUR, Milano, Goethe, Faust. Tragedia, trad. di Cristina Baseggio, Facchi, Milano, 1923; Urfaust. Il "Faust" nella sua forma originaria, Introduzione e trad. e commento a cura di C. Baseggio, Collana I Grandi Scrittori Stranieri UTET, Torino, Faust. Parte I, trad. di Liliana Scalero, P. Maglione, Roma, 1933; come Il primo Faust, BUR Milano, Rizzoli, Il secondo Faust, ivi (BUR Faust, trad. di Vincenzo Errante, Sansoni, Firenze, Faust, trad. di Enzio Cetrangolo, Federici Editore, Pesaro, [scelta] Faust, introduzioni di Mario Apollonio, note di Renato Maggi, Milano, Bietti. Il Faust. Versione d'arte con testo critico di Weimar a fronte, introduzione e commento a cura di Guido Manacorda. Vol. I, Collana Sansoniana Straniera, Sansoni, Firenze, 1949 Volfango Goethe, Faust, trad. e prefazione e note di Barbara Allason, Francesco De Silva, Torino, 1950, poi Faust, Introduzione di Cesare Cases, Collana NUEEinaudi, Torino, Faust, trad. di Giovita Scalvini, Collana Universale n.16, Einaudi, Torino, ed. riveduta su nuovi documenti, Giovita Scalvini. La traduzione del Faust di Goethe, a cura di B. Mirisola, Collana Biblioteca morcelliana, Brescia, Morcelliana, 2012 Faust. Urfaust, versione integrale, Introduzione e note a cura di Amoretti, Collana I Grandi Scrittori Stranieri, UTET, Torino in Faust e Urfaust, Collana UEFn.Milano, Feltrinelli, ora in Collana Universale Economica. I Classici Feltrinelli, Faust. Seconda parte, trad. di A. Buoso, Longo e Zoppelli, Treviso, 1962 Faust, Introduzione, trad. e note a cura di Franco Fortini, testo tedesco a fronte, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, Collana Biblioteca n.18, 2 voll., Mondadori, Milano, Collana Grandi Classici, Oscar Mondadori, Milano, Collana Nuovi Classici, Oscar Mondadori, Milano, Faust, a cura di M. Cometa, Collana Idola, Novecento, Faust, trad. di M. Veneziani, pp. 592, Schena Editore,Faust, trad. di R. Hausbrandt, Dedolibri,Faust. Urfaust, trad. e cura di Andrea Casalegno, introduzione di Gert Mattenklott, prefazione di Erich Trunz, Collana I Libri della Spiga, Garzanti Libri, Milano; prefazione di Italo Alighiero Chiusano, Collana i grandi libri Garzanti Libri, Milano, Faust. Testo tedesco, traduzione a fronte e commento di Vittorio Santoli. Prefazione di Fabrizio Cambi, edizioni aicc castrovillari; trad. di Vittori Santoli e V. Errante, Gulliver, Santarcangelo di Romagna, Faust, trad. e note di Andrea Casalegno, illustrazioni di Eugène Delacroix, presentazione di Mario Luzi, Collana I Grandi Libri Illustrati, Le Lettere, Firenze, Il Fausto di Gounod. Dimora casta e pura, dimora si o casta, il mefistofele di Boito. Grice: “I’m not happy with calling Grassi an Italian philosopher. For one, his selected essays were published in Sicily in a collection called “Biblioteca Siciliana di Cultura”. Leonardo Grassi. Grassi. Keywords: dove fiorisce il limone, la giovinezza e il fascismo: parole ai giovani – senato; Mazzini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grassi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grataroli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la memoria – filosofia lombarda – scuola di Bergamo – filosofia bergamesca --- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo). Filosofo italiano. Grice: “I like Grataroli, the Pope called him ‘infamous heretic,” which is a good start! He wrote a book on ‘semiotics’ of the times, but it got lost – you cannot understand Bruno unless you do Grataroli – he philosophised on many subjects, including dreams and alchemy!” –Di una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana con la città di Venezia. Questa, originaria del borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a possedere gran parte della contrada e dei terreni circostanti (tra cui anche l'edificio che attualmente ospita la casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi membri una folta schiera di "phisici", tra i quali si segnalarono il nonno di G., fondatore del collegio dei fisici di Bergamo, e il padre di G., Pellegrino, fisico presso la città orobica. Publica una dispensa inerente osservazioni sul mondo della natura. Straparla de le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la autorità del papa, nega il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti, la venerazione dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia. Eeretico pertinace et scandaloso et infame, peste contra la fede. Insegna a Basilea. Presso l'ingresso dello studio aè presente un suo busto. Noti sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della memoria, sulle epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia. Si segnala per la teoria fisiognomica. Argomenta su Pomponazzi e da indicazioni sia per il mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché un saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai viaggiatori di quel tempo. Saggi: “De memoria reparanda, augenda servandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel peditum, vel navi, vel curru, seu rheda”; “Turba Philosophorum”; “De literatorum et eorum qui magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque valetitudine compendium” (Perna, Basilea); “Veræ alchemiæ artisque metallicae, citra aenigmata, doctrina, certusque” (Perna, Basilea); “De fato, libero arbitrio et providentia Dei” (Perna, Basilea); “Alchemiae, quam vocant, artisque metallicae, doctrina, certusque modus” (Perna, Basilea); “De balneis” (Bergamo). Quaderni brembani, Storia di Milano  Flavio Caroli, Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a Freud  M. Meriggi e A.Pastore, Le regole dei mestieri e delle professioni: A. Castoldi, Bergamo ed il suo territorio. Bergamo, Bolis, G. Gallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di Gulielmo G.  filosofo (Bergamo, Locatelli); M. Meriggi, Le regole dei mestieri e delle professioni: C. Vasoli, Le filosofie.  del Rinascimento, Bottani e Taufer, Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento, Ferrari, Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Napoli, Classici. Fisiognomica Mnemotecnica Peste. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. “Prognostica naturalia de temporum omnimoda mtuatione, perpetua & cer-  ùjjìma Jigna rerum, quoe in Aere, Terra, aia Aqua sunt, aut Jìunt , krevìter, &  dare, ordine que alphabetico de scripta per G. P/iy/i-  cum y cuni Addinone undcam fìgnorum Motus Terra, ex Antonio Mi^aldo, Basilea?  apud Jacobum Pareum. Ibi-  dem apud Nicolaum Episcopium. Tiguri in 8. Argentorati in 8. apud Iacobum Ofemianum. L’opera indicata, con le altre due De Memoria reparanda t e » De Prjediclione morum si trovano unite tiell’accennata edizione di Argentina alli Trattati di Chiromanzia , e di Astrologia natu-  rale di Giovanni Indagine, o sia Giovalini Hagen dotto Certosino del decimoquinto secolo ? ed al saggio De Sculptura di Gauricio Matematico Napolitano. Perchè G. non venga tacciato di superstizione o di puerile credulità  a motivo delle cose da esso scritte parlando dei Pronostici naturali e della Predizione dei costumi, credo cosa necessaria  fedelmente trascrivere la Protesta, o sia  Avvertimento al Lettore, che si trova nella edizione di Devi poi avvertire , che generalmente parlando le cose dette si verificano nella gente grossolana y vale a dire di coloro, i quali non sono rigenerati dallo spirito e dalla grazia di Dio , perchè di questi è vero ciò che dicesi della depravata natura in Adamo , che Naturce fequitur femina  quifque fucc » : Ma air opposto i rigenerati  dallo Spirito Santo mortificano la propria carne con i suoi vizj , e con le  » sue concupiscenze , sebbene la concupiscenza ed il fomite del peccato vi restino sempre, e da moltissimi, o Dio ,  anche pur troppo si riducano alla pratica », A gloria di G. riporterò  anche la sua opinione sopra la causa del  flusso e riflusso del mare r avendo precoAizzato più di due secoli prima quasi intieramente il sistema del rinomatissimo Cavaliere Isacco Neuton circa lo stesso fenomeno : opinione approvata ed insegnata  da quasi tutti i Filosofi posteriori a quel  subitine Geometra. l moto periodico della Luna ha grande predominio sopra li  corpi fluidi , quindi fa che il mare s in-  nalzi e si abbassi ^ singolarmente per una  particolare di lei influenza , e ne segua il  flusso , ed il riflusso secondo i differenti  aspetti relativi alla medesima , e secondo  che questi accadono nella maggiore o  minore forza della sua influenza. Accade  ciò perchè la Luna ha bensì certa influenza coir Oceano , ma non già coi laghi e coi mari di poco estesa superficie.  Per la qual cosa mentre quel Pianeta si  muove dall' Oriente verso il mezzo giorno , fa che la superficie del mare s' innalzi , e che conseguentemente ne segua il  riflusso medesimo. Quando poi si muove  dal mezzo giorno verso Y occidente fa che  il mare si abbassi , e però ne nasce il riflusso. Similmente allorché la Luna si  muove dall' occidente verso V angolo della  notte , o sia da settentrione verso V o-  i icnte, ne segue nuovamente il riflusso r>  G. Artium > & Mediani? Docloris de Memoria reparanda, augenda > fervandaque,  Liber omnimoda Remedia > & Pnzceptio-  nes continens cujufivis facultans jhuliofis  apprime utilis «, immo maxime necejjlvius,  Tiguri ? apud Andream Gesneruni  in 8. , Basilea apud Nicolaum Episcopium  in 8., Lugduni , apud Gabrielem  Coterium, Francofurti apud  Joannem Vichelium. Ibidem  apud Viduam Petri Fischeri in 12.,  Argentorati» Nel frontespizio dell'accennata edizione di Argentina si  trovano queste parole : » Omnia ab An-  afore correcla P ancia finis > 6' ultimo edita. La stessa Opera De Memoria reparanda è stata stampata unitamente all' altro saggio del G.» De confervanda  Valetudine » da Rantzovio. De Prcediclione morum naturaque hominum, cum ex infipeclione partìum corporis tutu aids modis «> Anelare  G., & Philojopho B ergo mate • Basilea Ti-  guri apud Andream Gesnerum, Lugduni apud Gabrielem Coterium ,  et Argentorati Li tre accennati libri De Memoria reparanda: De Temporum  omnimoda mutatìone Prognofìica: De Prcediclione morum » furono dati alla luce per  la prima volta dal G. in Basilea, e  dedicati ad Edoardo Re d'Inghilterra;  siccome pure la seconda edizione di tali  Opuscoli fatta nella medesima Città fu consagrata a Massimiliano  II. Re di Boemia lutto questo evidentemente si rileva dal primo periodo della  Dedicatoria medesima al secondo dei commendati sovrani, la quale cosi incomincia Nello scorso anno, ottimo Re,  per le pressanti istanze degli amici e del-  io stampatore sono stato costretto a dare  alle stampe assai più presto di quello che  averei desiderato tre miei libretti intorno  ai quali erano già molti mesi che affatica, e perchè essendo assente , molti er-  rori corsero nello stamparli, però riveduta  di nuovo queir opera , non solo ne corressi i difetti , ma in oltre impiegando  ogni possibile diligenza ed applicazione, e  prestandovi, come si suol dire, V ultima  mano , F ho accresciuta di parecchie belle  aggiunte a segno, che la presente edizione è superiore alla prima siccome lo è un  parto di nove mesi a quello di soli sette,*7  o pure Toro fino all’argento. Avevo dedicata la prima ad Edoardo VI. Re d' Inghilterra, il quale innanzi anche di averne notizia , non che di averla potuta vedere, fu costretto infelicemente a cambiare  la vita con la morte. Tale Dedicatoria  e scritta in Basilea. Nondimeno non posso  accertare in quale città siano stati stampati li sopradetti Opuscoli la prima volta che  dal G. furono indirizzati alli due già  nominati Sovrani .  Pejlis Defcrìptio , Caujjoe  Signu omnigena et Prœfervatio. Anelare  G.. Basilea; per  Ludovicum Lucium Anno Salutis Humana? Mense Augusto; Lugduni, apud  Gabrielem Coterium. La prima  edizione di tale veramente aureo Trattato  fu dedicata ad Ascanio Marzo Ambasciatore Cesareo presso i sette Cantoni della  Svizzera. Personaggio di molte cognizioni e  virtù fornito ed amico di G.; e  questi appunto furono i motivi, che lo  spinsero a sceglierlo per Mecenate con  scrivergli:  La vostra conosciuta  virtù , e la non volgare vostra mansuetudine , non meno che il vostro amore per tutte le sane dottrine, e per la pietà, mi hanno costretto a dedicarvi quest' opera. Perchè si veda quanto amava le  massime di pietà e di religione conviene  notare, che dopo di aver egli prescritti  neir indicata sua opera li rimedj fisici con-  tro la Peste, raccomanda con fervore li  spirituali con queste parole. Ma  per brevemente indicare li remedj più forti , più giovevoli e generali , prima di  tutto allontanate da voi la paura della  morte , ma non già il santo timore di  Dio. Non perciò doverete amare il pericolo , né incorrervi temerariamente, se  non sarete sforzati o dalla carità cristiana del prossimo , o dalla gloria di no-  stro Signore Gesù Cristo  il quale devesi  anteporre a tutte le cose De Litteratorum et eorurn qui  Magijlratibus funguntur confermando, prœfervandaque valetudine, illorum prcecipue  qui oetate confiftentìoe vel non lunge ab  ca ab funt  curn ex probatioribus Auctoribus 3 tum ex ratione , & fideli praxi   & experientìa concinnatum . Basilea apud  Henricum Petri, Francofurti apud Ioanncm Vchel; Ibidem apud Nicolaum Hofmannum. La stessa opera è stata tradotta  nella lingua Inglese da Tommaso Neuton P  e stampata in Londra Tanno. Questa dottissima opera è riferita dal  rinomatissimo Medico Ermanno Roerhave  nel suo Methodus (ludii Medicorum. De Confervanda valetudine.  Francofurti apud Henricum Randzov.  Questa opera fu stampata unitamente all'ultima registrata dallo stesso Randzov Re girne n omnium iter agentium . Basilea? apud Hemicum Petri \66\.  Argentorati per Vendelinum Rihelium 1 s6%.  Colonia? apud Petrum Hofmannum. L’edizione fatta di tale uti-  lissima opera in Argentina fu dedicata dal  Grataroli » alla vera pietà, e nobiltà del chiarissimo Egenolfo Barone , e Signore in Rapolstein Hochen Ack e Gerolzeck in Vassichin » e nel frontispizio  della medesima vi si leggono i seguenti latini versi Ut peregrìnands vita ejl jubjecla procellis  Aeris , & varìis undique prejja malis ;   No/ira procelle* fi vario jìc turbine mundi  Volpi tur incertis anxia vita rnodis.  7°   Hoc bene pericolo Jervans prò tempore litro   Tutìor utque voles carpe Vìator iter.  De Laudibuj Medicina ejus  origine > progrejju ? militate . Argentora-  ti i 5 £3. De Pefle Thefes. Basilea in 8. Apud Henricum Petri .   De Vini natura , Artificio et  Usu, deque omni re potabili . Basilea,  Apud Henricum Petri Equorum P & Domejlicorum quorundam Ànimalium remedia $ senza data  in tutti i Cataloghi da me veduti Lapidis Philojbphici nomendaturoe. Basilea La medesima opera trovasi inserita nel  Volume in foglio stampato in Colonia Tanno da Orstio , con il titolo  Veroe Alchimia? Scriptores . De janitate menda . Argentorati. Trovo quest* opera citata dal  Mercklino nel suo Lindenius renovatus.  De Thermis Rhoctias , & Vallis Tranjc/ierìi Agri Bergomenjis . Si trova  stampata tale opera per la prima volta da  Tommaso Giunti in Venezia Tanno nella sua copiosa raccolta di tutti quelli y fi che sino alla detta epoca avevano scritto sopra i Bagni, ed è riportata alla pagina, con questo titolo G. ad Corradum Gefnerum Medicum   Tis'urimim de Thermìs Jxhœtìcìs Tutti  o   quelli i quali a mia cognizione hanno parlato di questo trattato di Guliclmo , sia  neir occasione di dare il Catalogo delle  sue opere, osia per semplice erudizione ,  e perfino il nostro Padre Donato Calvi ,  non hanno citata nessun' altra edizione  della stessa opera, che quella dei Giunti %  e tutti ne fecero sempre autore G., senza mai mettere in dubbio questo  punto d'Istoria letteraria. Ciò nondimeno  non deve recare maraviglia , particolar-  mente delli scrittori oltramontani , e specialmente di quelli del decimosesto secolo :  ma fa bensì stupore , che siasi continuato  ad attribuire a G. un simile trattato, dopo la nitida e ben corretta edizione fatta dal valoroso Cornino Ventura di tutti i dotti Medici  Bergamaschi , che avevano scritto sopra i  Bagni di Tres^ore ; poiché apparisce , ed  è anche evidentemente provato da quel  diligente stampatore, e dagli eruditi e  perspicaci fratelli Licini suoi direttori, che il trattato , che porta quel titolo , appartiene sicuramente a Bartolommeo Albani  Medico Collegiato della Città di Bergamo,  scritto dal medesimo,  vale a dire quasi un secolo prima della  indicata edizione Veneta di Tommaso Giunti Di fatti T Opuscolo dell' Albani termina precisamente con questa data : anno  mìllejìmo quadrigentefimo y & feptuagefimo  de menje Julii die vìge fimo Ceptimo. Per  ExeelL Artìum & Me dicince Dociorcm  Bartholomceum de Albano. Si fa ancora assai ' più manifesta tale verità da quanto  afferma il Cornino alla decimaquarta pagina della sua edizione degli Scrittori Bergamaschi circa li Bagni Trescoriani, nella  annotazione seguente posta in fine dell* Q-  puscolo del sopracitato Bartolommeo Albani  per maggiore sua giustificazione  Da un  antichissimo esemplare manoscritto ritrovato nella libreria de" Padri Domenicani, il quale si vede eziandio trasportato  nella lingua Italiana , sotto il nome dello  stesso Bartolommeo Albani, nelieCase di Colleoni , lasciato al Luogo de Ha Pie-  tà, conservato sino a questo tempo. Non  si deve adunque più dubitare, che il vero Autore di quel trattato non sia Albani , mentre anche Calvi così ha lasciato scritto nella sua Scena  Letteraria Albano della  Medicina celebre Professore fiorì verso la  metà del passato secolo e fu il primo y  che scrivesse sopra i nostri Bagni di Tre-  score j leggendosi le sue degne fatiche con  quelle d 5 altri Autori nel saggio De Balneis Tranfchcrii Oppiai Bergomatis . Bergomi Questa è T accennata edizione di Cornino Ventura. Si noti in questo luogo , che lo stesso Bibliografo indicando l'opera di G. sopra io  stesso argomento, dopo di avere scritto De Thermìs Rhœticis, et Vallìs Tranfche-  rii agri ìSergomatis » aggiunge. Questo  si trova nell' opeia Veneta De Balneis. Adunque al Calvi era nota tanto V edizione dei Giunti, quanto quella del Cornino: dopo tutto questo, in quale maniera si potrà difendere G. dalla taccia di plagiario y e di un plagio domestico Ma niente dì più facile , Ricercato  Gulielmo da Corrado Gesnero suo grande  amico , che si chiamava il Plinio dell’Alemagna, perchè gli facesse avere delle notizie circa le Terme, o Bagni della Rezia, e della Provincia Bergamasca, egli ^per fare cosa grata ad un amico di tanta  rinomanza , prese in mano il manoscritto  dell'Albani, vi aggiunse qualche cosa del  proprio , ed ancora molte cose di quelle  che aveva scritto sopra i Bagni di Trescore il dotto Medico Lodovico Zimalia , levando alcune cose che gli sembravano superflue, o inesatte, con purgato stile lainò , e con veri termini tecnici rifuse il  manoscritto dell' Albani , e cosi riformato  ed ordinato lo spedì all' amico, unitamente ad una erudita lettera relativa alle Terme della Rezia e siccome in quei giorni  il Gesnero si trovava in Venezia per de-  scrivere i Pesci, ed i Crostacei del mare  Adriatico, averà consegnato questo scritto  a Giunti s che in quel tempo  era occupato a pubblicare la sua grande  edizione di tutti li Scrittori sopra i Bagni  e le aque Termali n siccome ho già di sopra notato . Indubitata cosa ella è che G. chiude il suo scritto con queste  parole. Ho raccolte brevemente, e  con chiarezza tutte le soprascritte cose a  benefizio , e sollievo del mio prossimo io  G.:  frutto tutto questo delle mie oculari osservazioni , e della lettura di parecchi amichi Medici della mia patria. Appunto   questa sua protesta dalle persone oneste  e giudiziose deve essere considerata una  confessione del fatto, ed ancora del diritto che aveva acquistato di appropriarsi  quello scritto; tanto più che G.  nello spedirlo al Gesnero, lo previene con  la seguente onorata e sincera dichiarazio-ne Vi spedisco l'intiera Descrizione delie Terme Bergamasche, le quali non  sono lontane dalla Rezia più di due giornate di cammino. Di queste niente sino  al presente trovasi pubblicato con i tor-  eh) ; onde mi giova sperare , che diver-  ranno celebri anche in avvenire , siccome  lo furono in passato , dopo che Y occul-  ta, e quasi intieramente ignorata loro vir-  tù sarà fatta nota con le stampe ; purché  non vi rincresca accoppiare le erudizioni  Italiane alle Tedesche. Poteva qui espri-  mersi G.  con più candida, ed onesta sincerità ? Confessa di essere semplice  raccoglitore d^gli altrui scritti, mentre  dice » Ho raccolto dagli scritti di altri  antichi Medici Bergamaschi Non chiama  sua quella fatica, ma dice semplicemente. Vi spedisco T intiera descrizione  delle Terme Bergamasche delle quali  niente sin ad ora è stato pubblicato » Non  si deve dunque condannare di plagiario G.  $ e certamente non conviene , che  egli abbia avuto rimorso di avere commesso una cosi vile, e detestabile impostura,  mentre essendo sopravissuto quasi quindici  anni dopo l'edizione Veneta di queir opuscolo , sicuramente non averebbe mancato  di giustificarsi presso il mondo erudito circa il preteso plagiato . Ecco tutto quello ,  si può dire in difesa di questo FILOSOFO sopra tale inssusistente accusa , né  altro posso aggiungere «> se non che far  noto al mio Leggitore , che per quante  diligenze abbia usate «> non mi è giammai  riuscito di ritrovare i due citati mano-  scritti , e che in oltre Calvi , a cui era nota Y edizione di Co-  rnino Ventura , non ha nella sua Scena  Letteraria dimostrato di sospettare dell' onestà letteraria di Gulielmo G. . Prima di terminare il presente articolo dei  Bagni di Trescore, riferirò il zelante umanissimo Voto, con il quale G. chiude la sua opera stampata dal Giunti Faccia Iddio , che la Bergamasca Repubblica abbia diligente cura di rimettere  nel primiero loro stato questi saluberrimi  Bagni , che certamente lo può, e lo deve fare. Faccio io pure fervidi e sinceri voti, perchè abbia effetto tutto ciò  che caldamente raccomanda G.;  e per maggiormente incoraggire la mia città, ed i miei Cittadini a procurare al-  la patria un vantaggio così rimarcabile,  vivamente li supplico a leggere l’erudita  ed elegante latina lettera di Zimalia , premessa al suo dottissimo Trattato  dei Bagni di Trescore, dedicato al suo magnanimo Mecenate Colleoni  capitano generale degl’eserciti della serenissima veneta repubblica, nella  quale prova con una evidenza che sorprende, e che deve intenerire chiunque  senta amore per la sua patria, che quello  famosissimo eroe deve senza alcun dubbio  essere ugualmente ammirato, e commendato sì per le sue azioni militari , che per  le sue virtù politiche , a benefizio ed  eterno vantaggio, e decoro di tutta la  sua amata nazione Bergamasca    De Notis Antichrìsti, senza data, senza luogo, e senza nome dello stampatore. Tuttavia nominerò ancor io tra  le opere di G. un libro con tale titolo , ritrovandolo registrato da Calvi , e   dal Papadopoli suo copiatore, ma non  dal Frehero , non dal Bayle , non dai  Maizeaux suo illustratore, non dal Mercilino , non dall'Eloy, mentre tutti questi si suppone avessero molto interesse di  far autore di un libro Anticattolico  Romano un erudito e dotto italiano - siccome era da tutti considerato G.. Non però verun altro Letterato ha posto nel Catalogo delle sue opere V accennato libro D' altronde è cosa più che certa, che si può scrivere dei caratteri dell'  Anticristo anche dalla più religiosa e zelante penna cattolica : ed è certo di più ,  che Calvi , o non averebbe registrato  un così fatto libro , o non averebbe mancato di scriverne qualche parola in detestazione del medesimo. Ma di più ancora quanto al Papadopoli, probabilmente  questi non averà nemmeno veduta quest’opera , essendosi intieramente riportato al  Padre Calvi, siccome egli stesso scrive  nella sua storia dell' Università di Padova  parlando di G.. Avendo  in oltre riportati i titoli delle altre sue  opere senza data, alterati , e confasi notabilmente, non sarebbe stato egli il primo  a giudicare di un libro mai veduto, nò letto. A me stesso è accaduta la medesima sorte y non solo di poterlo trovare ma neppure di averne fondata contezza,  per quante ricerche abbia usate non sola  in Italia , ma altresì nella Germania e nell*  Olanda. Sostengo finalmente , che se quest’opera esiste, che io non credo , o se  fu composta da Gulielmo Grataroli , non  doveva essere tanto malvagia e perversa,  quanto alcuni senza ragione sospettano;  mentre che tutte le opere di G. è  vero che sono poste nell’indice de' Libri proibiti? ma con la semplice cautela;  Quandiu emendata non prodierint. Dal che si è da presumere che se que-  sto fosse stato un libro veramente Eterodosso, Santa Romana Chiesa lo avrebbe  posto nella classe dei libri empj e malvagi di prima classe. Confilium de Proe fervanone a  Vcnenis . G. Aucìore .  Hamburgi in 8.   Ecco registrate tutte quelle opere che  mi è riuscito di raccogliere, le quali sono composte da questo dottissimo Medico  e Filosofo : ora passerò alla seconda classe  delle opere tradotte e fatte stampare dal  medesimo. J. Joannis Braccfchi de Alchimia,  cum proposìtionibus Idem argume ri-  rum compendiofa brevitatc compleclens ex  Italico Aucloris Autographo in latinum  verni - et edidit G. Basilea, in folio. Apud Henricum  Petri .   Non mi è noto dove sia stata stam-  pata la prima volta questa traduzione; ma  solo ne ho trovata un' altra ed zione fatta in Amburgo. Chirurgico rum quorundam Auclorum Libros Galiice fcriptos latine reddidit ?  & in cap'-ta difiribuit G. Lugduni in 8. Apud Gabrielem Coterium,   Classe terza delle opere d* altri Scrit-  tori fatte stampare con prefazioni , note y  e commenti da G.. I Ve ree Àlchymìce Scriptores aliquota  cum Praefationibus 9 & D celar ationibus col-  Ifgit y & una edidit Gulielmus Gratarolas.  Basilea? , apud Henricum Pctri in  folio.   II. Vetri Apone njls de Vene ni s eo-  rumane Remediis , cum Additionibus G. . Francofurti , apud Joan-  n ìm Velici; Hermannl a Ncunare de novo haclenufque inaudito Germanice morbo pompar* idcft judatoria febre , quern vulgo   fudorem Britannicum vócant, libellus a G. editus. Colonia. Ermanno Ncunare era Conte e Prevosto della Cattedrale di Colonia .   Simeonis Riquinii Judicium doclijjimum duabus epijìolis contentimi de  fiutato r ice Febris cura t ione editum a G. Medico & Philosopho B ergo mate. Colonia; Joackini Schdlerii o come altri  scrivono Sckilfeni de Pejìe Britannica  Commentariolus aureus a G. FILOSOFO editus. Basilea; Apud Henricum Petri. Alexandri Benedicii de Pejlilen tioe Caujjls s Proe fervanone & auxiliorum  Materia Liber Jingularis : Omnia ex ma-  nufcriptis exemplaribus auxit y & illujìravit  Gulielmus Gratarolus Medicus 9 & Pialo-  fophus . Basilea. Ibidem in folio apud Henricum Petri .Correcliones, & Additiones ad  librum Italicum, falfo tributum Fallopio 7  inscriptum, Secreta Fallopii. Francofurti  irfoò. in folio , e i6"o£. cum operimi   Appendice G.. Girolamo Mercuriali da Forlì coetaneo di G., soprannomato Mercu-  rio e Trimegisto per la vastissima sua  medica scienza, nell' erudita opera : De  ratione dijcendi Mediana/?! , edizione di  Argentina m proposito  dei libri falsamente attribuiti a Fallopio, racconta che vi furono alcuni ,  i quali o per malignità , o per sordido  lucro cacciarono fuori opere sotto il nome  di Fallopio , che affatto non sono sue ,  come il libro dei Secreti . Opere indegne  del suo maestro , e soltanto capaci a toglierli quella vera , e soda gloria , la qua-  le si era acquistata presso i dotti Vili. Cenjura & Additiones in Libruni Alexii Pedemontani, ubi de Quinta  effentia funplici. Per G. Venetiis apud Jun£hs in 12.  Conjìha, & Curationes variorum  doclijfimorum Medicorum de Sudore Anglico a G. edita . Colonia apud Franciscum Hofmannum. Thaduei F/orenini, che 1'Alidosio chiama Taddeo Aledrotto^ & Guliclnù  a Brixia Conjìlia  Colonia, Apud Iranciscum Hofmannum in 4. Per G. Johannis de Kupecijja de Extratione Quinte? ejfentioe omnium rerum prò  u fu Medico . Venetiis apud Juntìas; Theatrum Galeni hoc est univerjlv medicince a Galeno diffupz fpar-   f inique traduce Promptuarium completimi  & in meliorem ordinem redaclum per Ludovicum Luride llum a G. Philojbpho editimi . Basilea, Apud Henricum Petri in folio Hamburgi apud Joanneni Neumannum et Georgium Volfium \6j2. in foiio.  Petri Pomponacii de Incantationibus libri in quibus dijficilUma Capita & Quefliones Theologicoe, et Philosophicoe ex jana Orthodoxoe /idei doclrina  explicantur et multis rarìs Hijìoriis et Glojfulis illujlrantur. Per G. Philojbpkum Bergo-  matem > qui fé in omnibus Canonica^ Scriptum et Janclorum Dociorum Judicio fubmittit . Basilea? Kalendis Martii ex Offi-  cina Henripetrina in 8. cum Csesarea Majestatis gratia & privilegio. Quesra  edizione del trattato deeli Incantesimi di &4 Pomponacio tu consagrata dal Grataroli a  Federico Conte Palatino con una nobilissima, e giudiziosissima dedicatoria impiegata parte in encomj della virtù e meriti di  quel Principe, e parte in difendere Y opera di quel filosofo mantovano del quale  afferma e sostiene che e a torto impugnato e perseguitato; e che se fosse stadio con prudenza e carità Cristiana trattato, sarebbe riuscito uno dei più zelanti e  forti Apologisti della Chiesa Cattolica, come riferisce essere avvenuto a Giustino  Martire , al grande Agostino, ed a moltissimi altri difensori della nostra santissima  religione. Di fatti Pomponacio per attestato di tutti gli Scrittori della sua vita  mori cattolicamente. Voglio sperare che Pomponacio prima di mandare  fuori l’ ultimo suo spirito, siasi per singolare grazia delia divina providenza e misericordia ravveduto e pentito e che non  abbia perseverato neir ateismo. Imperocché tale essere stato il Pomponacio Y ho  udito spesse fiate a rammentare da Elideo  Medico di Forli chiarissimo ornamento della medica scienza , ed uno de suoi più  cari discepoli. Ho ricopiato questo sen-  timento dui Grataroli acciocché si conosca quanto grande fosse Sa sincerità e l’attaccamento verso la Chiesa Cattolica. Gisberto Voet, o Voezio dotto Professore  di Teologia, e delle lingue Orientali neìl'  Università di Utrecht, inimico capitale  della Filosofia e di Cartesio, parla  con molta lode della suddetta edizione, dicendo G., li di cui scritti vengono coitimendaci per lo zelo di pietà e di religio-  ne che vi traspirano, e per li encomj de’ quali lo ricolma Teodoro Beza nelle sue  lettere, e per li suffragj di molti altri uomini dotti, che lo trattarono nelle sue opere stampate in Basilea difende Pomponacio  contro li suoi caluniatori, ed afferma, che  abbia terminati i suoi giorni assai piamente. Dalla medesima dedicatoria di Gulielmo da  esso scritta un anno solo prima del suo paesaggio all'altra vita si rileva, che già dieci anni innanzi egli aveva fatto stampare r  senza che mi sia riuscito di sapere in qua!  parte il Trattato De ìncantationibus di  Pomponacio, perchè così scrive al Principe suo Mecenate.  La parte di  questo saggio che tratta delle cause, e  degli effetti naturali, o sia degli Incantesi- u   mi fatta da me stampare sono già più di  dieci a, T avevo dedicata e spedita  air Illustrissimo Principe Ottone Enrico  Elettore di felice memoria , e S. A, non  sdegnò di ringraziarmi con lettere di suo  proprio pugno. Mi è piacciuto di nuo-  vamente riportare quanto G. scrive in quella sua elegante dedicatoria, perchè dalla premura e zelo da esso dimostrato sino agli ultimi periodi della sua vita , e dalla universale estimazione , che hanno sempre costantemente fatta palese in faccia di tutto il mondo tanti  letterati del primo ordine, d’ogni nazione e d' ogni religione, della dottrina,  della probità, e dell' amore del vero, e  del giusto , che ha conservato in tutte le  sue operazioni, possa invogliarsi qualche  valente ed erudita penna della sua, e  mia patria a tessere, ed in assai miglior  modo ordinare una più compiuta istoria  scevra dai difetti, dei quali questa mia  pur troppo è ripiena, di un Filosofo e  Medico j che ha impiegati e consagrati  tutti i suoi talenti , e tutti i momenti de'  tuoi giorni a benefizio e vantaggio della  languente umanità, ammaestrando ed illuminando il mondo tutto con le numerose produzioni del sublime suo ingegno, trasportando nella lingua più universale moltissime opere in diversi altri idiomi composte da più dotti e famosi scrittori ed in fine illustrando ed arricchindo di utilissimi riflessi e profittevoli commenti un  numero immenso di interessanti volumi i quali contengono ogni genere di scienze e di cognizioni, siccome ne forma  una evidentissima prova il copioso catalogo delle sue opere da me coordinato ed esteso. Guglielmo Grataroli. Grataroli. Keywords: sulla memoria, de balneis, turba philosophorum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grataroli” – The Swimming-Pool Library.

 

 Grice e Grazia: la ragione conversazionale e implicatura conversazionale -- il principio di benevolenza conversazionale – filosofia calabrese – scuola di Crotone – filosofia crotonese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesoraca). Filosofo italiano. Mesoraca, Crotone, Calabria. Grice: “Grazia is important to understand Galileo, whom Italians consider a philosopher!” Grice: “Grazia also wrote about architecture – a truly Renaissance man!”. Studia a Napoli dove venne condotto, dalla natia Calabria, da uno zio dell'ordine dei Teatini. Si laurea a Napoli. Studia filosofia. Si oppose al Criticismo kantiano e all'Idealismo hegeliano in nome dell'esperienza. Saggi: Discorso sull'architettura del teatro, Napoli: Giordano; La scienza umana, Napoli: Flautina; Logica speculativa (Napoli: Gemelli); “Filosofia: eterodossa ed ortodossa” (Napoli: Poliorama); “Considerazioni sopra 'l discorso di Galilei intorno alle cose che stanno su l'acqua, e che in quella si muouono. All'Illustriss. ed Eccellentiss. Sig. don Carlo Medici (Firenze, Pignonj). “Della vita e delle opera: Dizionario Biografico degli Italiani. Classe Appetito; Volere. Condizione di ogni appetito è l'andarsi rinvigorendo con la reiterazione degli atti fino a rendersi dominante su gl’altri appetiti. Condizione della volontà è l'andar con l'esercizio acquistando maggior potere su i moti del corpo sog Classe- Molori primitivi della volontà: Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione; appetito istintivo del piacere nella sua triplice forma, e avversione al dolore; amor di sè stesso co'tre caratteri di concentrazione, di reazione, di espansione spontanea. Classe Oggetti dell'amor proprio diconcen nale, onore esterno. Reazione dell'amor proprio: Emo sentimento. Espansione spontanea. Benevolenza. Il benessere è certamente oggetto dell'amor proprio; ma nella classe va distinto dall'amor proprio l'appetito istintivo del piacere, e l'avversione al dolore. Non è perchè a mi a mono i stessi, che desideriamo il piacere e fuggiamo il dolore. L'amor proprio si pronunzia nel cercare I mezzi per procurarci l'uno, e per sottrarci all'altro, fino a contrastare a tale uopo altri appetiti. L'appetito quindi del benessere, una delle esigenze dell'amor proprio,é precisamente quel principio, in cui Stewart ha fatto consistere tutto il nostro amor proprio. Un tale appetito abituale non è  getti al suo comando, come anche su l'attenzione riflessiva. Seconda condizione dell'appetito è l'essere accompagnato da piacere, quando è soddisfatto; e da dolore, quando essendo istigato non è soddisfatto. È questo esclusivamente il piacere e il dolore morale. trazione: Benessere, dignità. perso IL METODO. Classe Stati diversi dell'appetito: Desiderio, o contento; godimento, o afflizione, o rammarico; speranza, o timore; pentiinento; disperazione. zione benevola di riconoscenza; ri   invero irreducibile. Ammettendosi in un essere dolori e piaceri, e ragione e volontà, esso prevedendo le conseguenze delle sue azioni, non mancherà di formarsi un piano di condotta per evitare il dolore, per pro cacciarsi il piacere; e la repressione di altri appetiti entrerà come mezzo in questo piano. Noi intanto a b biamo notato tra fenomeni irreducibili l'appetito del benessere a sola mira di esibire intero nella 4. classe ildominiodell'amorproprio. E lapresenteosserva zione basta a far riguardare con tutto rigore l'addotto esempio di classificazione. Abbiam già completato il quadro de' fenomeni pri mitivi del pensiero, distinguendolo in tre categorie corrispondenti a' fenomeni, Sensazione, Giudizio, Volontà ; e tenendo conto delle condizioni loro comuni. Pria di progredire nel nostro divisamento, daremo fine a questo articolo con la seguente generale osservazione. La semplicità di una classificazione di fenomeni primitivi non si dee giudicare su la classe suprema. Il numero de' princip jignoti è eguale al numero de' fenomeni distinti nella totalità della classificazione. Può quindi avvenire, che due classificazioni sieno nel fondo identiche, mentre si offrono sotto aspetti assai diversi. Se, per esempio, alla prima classe, che comprende i tre fenomeni -- sensazione, giudizio, volere – si fosseanche ascritta la memoria, esi fosse distinta nella riproduzione degli atti mentali, e nel riconosciinento; non si sarebbe nulla cangiato uel nu Inero de' fenomeni irreducibili. Ciò non dimeno un tal cangiamento non sarebbe del tutto indifferente .Nella classificazione da noi preferita i fenomeni della prima classe sono i più differenti di natura. Ma ciò che si riproduce nella memoria non perde la sua natura primitiva. Le idee astratte si riproducono nella loro perfetta integrità. Le sensazioni perdono estremarnente di vivacità al riprodursi nella immaginazione. Niente altro cangiano di loro condizione primitiva. E lostesso avviene nella riproduzione delle affezioni morali. La memoria quindi, presa nel suo più ampio significato, non reca fenomeni di natura differente da que' della sensibilità, dell'intelletto, e della volontà. Queste ultime facoltà somministrano materiali fra loro differenti, e la memoria è addetta a ritenerli in deposito. Cosi la prima classe ha potuto segnalare la prima divisione della scienza ne' tre rami logica, etica, estetica. Non è certamente questo un vantaggio di allo rilievo, ma non v'era alcuna ragione per disprezzarlo.  Si supponga or che  invece di esibire in più ordinii fenomeni primitivi, si fossero enumerati in una sola lista, come è costume: sensazione, giudizio, attenzione, immaginazione, reminiscenza, analisi, sintesi, astrazione, generalizzazione. Il numero de'fenomeni primitivi potrebbe rimanere lo stesso, ma senza esservi marcata la dipendenza tra I medesimi. L'attendere è proprio dell'intelletto. L’immaginazioneè una legge della sensibilità. La reminiscenza o riconoscimento è un giudizio. L'analisi, la sintesi, l'astrazione, la generalizzazione, appartengono all'intelletto. Una tale dipendenza è una condizione di più nel fenomeno: è propriamente una ulteriore parziale riduzione. Così per altro esempio, se i motori della volontà si enunciassero come segue: Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione; appetito istintivo del  piacere; appetito razionale del benessere; appetito della dignità personale; appetito dell'onore esterno; emozione benevola di riconoscenza; risentimento; benevolenza ; si avrebbe completo il numero de' motori primitivi, ma niente apparirebbe della loro dipendenza. L’enunciazione non darebbe ultimata la loro riduzione, non si esprimerebbe completo, per quanto a noi si scopre, il sistema della natura de' fenomeni della volontà. Vedula primordial nelle ricerche della origine e della reulià della scienza umana. Sula ipotetica origine a priori delle idee e IL METODO IL METODO VELLA SCIENZA DELLA NATURA.  primitivi ..realtà delle conoscenze. delle conoscenze. Si annunziano I principj, trattida osservazioni parlicolari, su la origine e Classificazione de’ fenomeni primitive. Riduzione de'fenomeni particolari a' esempio tratto dalla estetica Classificazione delle scienze nell'ordine logico. Metodo inventivo nelle scienze nat. Metodo inventivarella scienza delpen Melodo di esposisione nelle varie. Metodo di esposizione nella scienza del pensiero - poche idee sul metodo Utilità in ultimar le riduzioni Classificasione delle scienze. ESPERIMENTI DEL METODO PER LA SCIENZA PRIMA. CORSO PROGRESSIVO DELLA FILOSOFIA PRIMA [cf. GRICE, LA PRIMA FILOSOFIA],  E SUE DEVIAZIONI. Posizioni diverse nella quistione del Metodo. Esemplare classico del metodo speculativo. Primo esemplare del metodo di pura osservazione. Deviazioni del metodo nel periodo sco. Metodo di pura osservazione nella parte  psicologica della Filosofia ortodossa. Progresso della osservazione analitica nella Filosofia, ad onta che i sistemi: declinassero o al sensualismo, o  al’ idealismo. Idealismo assoluto de’ discepoli di Kant. Declinazione della osservazione analitica, e rifiuto de’ suoi prodotti precedenti, surrogandovi una supposta percezione de’.sensi, e una dimessa ma  ra soggettività, e per ultimo rivisioni ontologiche. Sut-nesso detta discorsa Rassegna ci con la  seguente. ESPERIMENTI DELLA FILOSOFIA SPECULATIVA. SULLA LOGICA DI HEGEL. Su l'identità de’ due contrarii. Le idee fondamentali dell’ intimo senso  Vanno snaturate in ogni panteismo . Su le categorie, e l'Idea assoluta. . vo nella scienza prima   — tende di continuo ad alterare il genuino valore delle idee fondamentali. SU LA FILOSOFIA SPECULATIVA. SULLA IMPOTENZA DELLA RAGIONE INDIVIDUALE , SECONDO IL LAMENNAIS. . ="Sv-t5 EINE DI Dio, DEL cinite, SISI  L'ATTO CREATIVO, SECONDO IL Gro-  SERIE input » Sul secondo a della formola. IN. Su Te altre parti della Formola, cioè  T Enie e l'alto creativo. .Sulla Visione delle idee in Dio indipendentemente dalle altre parti della    iu DETTE IEEE SU LE CONDIZIONI DELLA FILOSOFIA.  Sul concetlualismo, perenne caasa delle  deviazioni della Filosofia. Hi. Su i recenti proget di nuova Filosofia  OROCO:  cs. iu » Influenza della sacks tedesca su la Filosofia. Sulle più famose obbiezioni prodotte da’ moderni contro la Teologia naturale. Riassunto degli articoli precedenti e conseguenze per le scuole d’insegnamento. ÈNTE IN UNIVERSALE, LUME PERENNE DELL'UMANO INTELLETTO, SECONDO ZL ROSMINI. Su i modi dialettici adoprati da SERBATI nel mostrar conforme al suo sistema la dottrina insegnata d’AQUINO. Wl, già un anno decorso che uno dei più profondi filosofi di questa italiana provincia fa da noi dipartila! Niun periodico della capitale fra i tanti che pur trattano di futilità e di non nulla, o tutt'al piú di celebrità di teatro, fa alcun motto di lui: il solo Omnibus annunziandone la grave perdita, promette una biografia dell'estinto: ma tale promessa insino ad ora non l'abbiamo veduta recare in atto Noi per mera carità di patria e senza pretenzione letteraria di sorta, diamo questi pochi cenni per come abbiamo potuti raccogliergli frugando nella nostra memoria. A quella regione ferace d’eletti ingegni ed in ispecie di grandi filosofi da Pitagora a GALLUPPI (tralasciando tanti altri illustri nomi) appartenne il nostro FILOSOFO, avendo avuto i natali verso nell'antica Reazio, oggi Me  Ahi sugli estinli Non sorge fiore ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto. soraca, in Provincia di Calabria ultra 2. Da baronale ed agiata famiglia. Passa l'infanzia nella terra natale, ima mostrato avendo svegliato ingegno, è pensiero di un suo zio, religioso dello insigne ordine de'Teatini di condurlo in Napoli per fargli apparare belle lettere e filosofia appo que 'RR. Padri. Quivi dedicandosi alacremente a tali studi, ha a con discepolo il famoso ex Generale de Teatini, Ventura, che se tutti ammirano per non comune facondia , per vasto sapere ,per rettitudine ed illibatezza di costumi, gl’Italiani lo avrebbero a ragione desiderato continuatore dell'opera progreditrice e liberale da lui cominciata a propugnare. Con lui G. legossi con tale intima amicizia e scambievole stima, che le m e morie di quella loro prima età insieme trascorsa, dopo tanto volgere d'anni non più cancellaronsi, abbenchè pel diverso stato da essi prescelto, vivuto avessero quasi sempre l'un dall'altro discosti. Escito G. da quelle scuole, diessi con tutto ardore agli studi severi delle matematiche, non pure tra lasciando qnelli della FILOSOFIA, pe’ quali monstra inclinazione grandissima. Milita per qualche tempo nel Genio; ma poscia, smesso il cingolo militare, esercito professione d'Ingegnere, entrando nel Corpo detto allora de' Ponti e Strade. Si nell'una che nell'altra carriera adempi lode volmente ai doveri della sua carica, e procacciossi giusta estimazione. Ed abbenchè per lasua indipendenza di pensamenti e per la sua modestia, non venisse adoperato come avrebbesi dovuto, pure quello che in varie pro vincie per suoi elaborati disegni in opere pubbliche ed in fatto di edifizi vari, venne eseguito, riusci di universale contentamento, e rivelar seppe la sua valentia, tanto da essere ricercato e consultato dagli stessi suoi compagni ed emoli nella professione. Ma nel paese di G. da piú tempo non costruisconsi più quelle opere grandiose da potersi rivelare il genio artistico di un'architetto; e se pure alcuna fiata qualche notevole edifizio debbesi costrurre, l'ingegno si rimane fra pastoje; perché condannato a grame proporzioni di una architettura borghese, od a meschine economie che sovente lasciano le opere pel volgere di più anni incomplete, ovvero menate a compimento, ma di gran lunga variate dagli originali disegni. G., omettendo i lavori per ponti e strade e smessa ogni altra cura ed applicazione, si dedica con tutto ardore a quegli STUDI FILOSOFICI che sempre avea mostrato di molto prediligere. Frutto delle sue lucubrazioni e speculazioni filosofiche è la grave opera: Saggio sulla realtà della scienza umana; lavoro sapiente e profondo, che pubblicossi a Napoli e che Silvestri in Milano e Fontana a Torino voleano ristampato pe’ loro tipi, ma non vedendosi incuorati da chicchessia a tale pubblicazione, e la stampa tacendo su di un'opera di tanta mole, ne smisero il pensiero. Non è scopo nostro venire in disquisizione sul suo sistema filosofico e sulle opere di lui, secondo che ne facciamo qui menzione, pon sentendoci da tanto, e lasciando a’ profondi pensatori un tale incarico. Solo diciamo, ch'egli rifuggendo da’ sistemi oltramontani e dallaservile imitazione, ha tutte leproprietà dell’ITALIANO FILOSOFO, per quella sua maniera di studiare il mondo esteriore, e per quel pratico senno che lo conducono dall'esperienza alla induzione, per modo da congiungere sempre l'osservazione di fatto colla generalità delle idee. In ciò fare egli segue in gran parte le dottrine del sommo AQUINO (si veda) Aquinate, gloria d’ltalia e della Chiesa; senza aver letto ancora Opera alcuna di questo santo dottore. Per caso in confutando talune teoriche dell'altro nostro celebre italiano, SERBATI, il quale in un luogo delle sue opere iva esponendo molte sentenze d’AQUINO in conferma de'suoi detti, sorse vaghezza a G. di leggere la somma di esso santo; e grandissimo è il suo compiacimento in rilevare l'accordo delle loro dottrine in ciò che concerne il principio di rifuggire da ogni ipotesi speculativa, e di ricondurre la scienza fondamentale al puro metodo di osservazione; e pieno di rispetto e di ammirazione pel santo d'AQUINO (si veda), iva seco stesso facendo le più alte maraviglie del quanto poco abbia progredito la scienza filosofica in questi u l timi sei secoli. Oltre a molti altri scritti minori, pubblicati in parecchi giornali specialmente nel Progresso e nel Calabrese, altra grave sua opera è quella intitolata: Discorsi sulla logica di Hegel e sulla filosofia speculativa, ove adoprandosi dimostrare l'assurdità di tale Logica, confuta que’ filosofi che han cercato con malizia o senza addarsene d'intede scare la filosofia italiana.  Per chi le opere di G. punto non conosce, riuscendogli per avventura nuovo un tal nome, potrebbe di leggieri riputare sospetti i nostri elogi, se non altro, per troppa carità di patria: noi a renderlo persuaso del contrario, e che anzi, il lodato resta sempre al disotto delle nostre umili laudazioni, citeremo l'autorità di un giudice assai competente ed in nulla sospetto, qual'è il celebre Professore di Heidelberg Mittermaier. Questi nel suo Condizioni d'Italia pubblicato e precisimente nella Lettera di appendice indiritta al chiaro Mugna, dopo aver parlato delle celebrità letterarie e scientifiche d'Italia, e mostrando desiderio che le opere filosofiche degl’italiani fossero meglio studiate dagli stranieri ed in ispecie da’ suoi connazionali, venendo a parlare di Napoli dice. Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina analisi dello spirito umano, sempre unito a grande dovizia d'idee e ad una tendenza pratica. Ad esso appartengono le opere di GALLUPPI e di G., peculiarmente l'opera di questo: Saggio sulla realtà della scienza umana. Esaminando l’A. Gli scritti de’ suoi predecessori, non che de’ filosofi tedeschi ed entrando in minute particolarità intorno a' vari pensamenti sulla origine delle idee, seguesi con piacere lo stesso A. nel suo ingegnoso sviluppo e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze pure intuitive, e conoscenze dimostrative. Fin qui il Mittermaier. Le parole di un tant’uomo sono più che sufficienti a testificare sul merito filosofico del nostro concittadino, ed altre singole illustri testimonianze potremmopurqui addurre; ma le opere di lui per chi vuole e può leggerle parlano abba stanza. Solo non vogliamo tralasciare di dire che è in grand'estimazione tenuto da quell'antico uomo di stato e scienziato profondo il Conte de’ Camaldoli, Ricciardi, e che il suo grand'emulo  Galluppi (la cui fllosofia è stata in qualche parte di G. confutata perché non severamente italiana, nè in tutto da lui trovata scevra di straniere dottrine) richiesto un giorno del suo parere sul Saggio della realtà della scienza umana, rispose: l'opera procede molto bene, secondo il sistema seguito dall'autore. E qui di volo ci si permetta domandare a noi stessi: chi raggiun se piú il vero de' due chiari concittadini nei loro rispettivi sistemi? chi più possedette geniocreatore? A ciò rispondiamo esser paghi di rilevare in ambidue il positivo progresso della filosofia appo noi e possiamo riguardarli come continuatori delle dottrine sviluppate da' due filosofi calabresi TELESIO e CAMPANELLA che cercano di richiamare la filosofia del secolo decimo settimo a’ suoi veri principi facendo appello all'esperienza, alla propria ragione ed all'esatto studio del mondo, quale si offre alla osservazione, e sopratutto cercando di sceverare la filosofia dalle quisquiglie scolastiche del tempo; per il che ebbero a sostenere aspra guerra per parte de' loro avversari , seguaci delle dottrine del LIZIO, più in quanto alla forma che alla sostanza. Or nella gran serie di sistemi de' filosofi d’Europa , ognuno dei quali nasce per distruggere l'antecedente, e per essere poi a sua volta distrutto dal successivo, i sistemi seguiti da' due grandi calabresi, GALLUPPI e G, sono sistemi italiani, sopratutto quello del secondo, e sopravviveranno a'posteri assai più, se non c'inganniamo, dell'eccletismo di Francia e del razionalismo puro di Germania, il quale ultimo sistema argutamente G. chiama: poema filosofico; abbenchè de' filosofi tedeschi egli fa stima grandissima, especialmente di Kant, ch'è il primo nella serie di quelli che formano la moderna scuola, per la mente profonda, vasta e unicamente originale fra tutti i filosofi di Germania, per maturo giudizio, fervida imaginazione, esottilissimo ingegno analitico, ma lamenta che il suo genio batté la via dell’eccletismo scettico e del dommatismo razionale. Ma benché per noi sian grandi tutt'e due i nostri con cittadini, nondimeno sembra rilevarsi dalle suespresse parole del professore di Heidelberg che nell'opera, da lui citata e da noi di sopra più volte riferita, la penetrazione filosofica e la fina analisi del nostro G. abbiano richiamato la sua attenzione assai più che nol fecero le opere filosofiche di Galluppi. Eppure questi, sebbene tardi, è almeno ricordato da quel governo, essendo stato nominato professore di filosofia a Napoli e nella morte di lui furon vi pubbliche esequie e recitaronsi funebri elogi ma G. vive e muore ignorato, e non è noto che alla calabra terra, che videlon ascere, ed a qualche singola celebrità nostrana e straniera. Di chi la colpa? Forse de' tempi? del governo? o della propria sua indole? Noi crediamo esservi concorse tutte e tre le su indicate cagioni. Circa il governo cui appartenne G., il merito non è merce cui è andato per ordinario ed unquemai in traccia; ma nel tempo presente solo il pensarlo è utopia. E finalmente l'indole di lui rifuggente dallo adulare potenti, dal cercar mecenati, dal raccomandare o dedicare i suoi scritti a chi chessia, mantenendosi sempre in dignità  Il secolo che corre: e che appellasi posilivo non ha altri pensieri dominanti che il credito, la borsa, le speculazioni commerciali, o tutt'al più qualche progresso materiale da solletitare l'ardente brama del guadagno (peste della società presente) che di continuo lo stringe ed arrovella; epperò non è secolo che occupar puotesi di filosofia  e modestia, coltivando la scienza per abitudine contratta agli studi severi e per naturale inclinazione del suo genio inventivo e calcolatore, senza avere unquemai tenuto scuola (che gli scolari molto influiscono alla fama ed a rendere popolare il nome de’loro maestri) e menando per conseguenza vita laboriosa e ritirata; fesi tutte le cosi fatte ragioni che il nome suo rimanesse ignoto all'universale. Ma qui non possiamo fare a meno di non osservare che in questa epoca di generale centralizzazione governativa negli stati di reggimento assoluto sopratutto, ne' quali ė spesso negato a privati di fare puranco il bene o altra innocentissima cosa, senza previa superiore autorizzazione, o sovrano beneplacito; ove nullapuossi mandare a stampa senza preventiva revisione econtro revisione; non rebbe uu richieder troppo da cotali governi se alla mania di voler lutto sapere ed operare aggiungessero un pò di buona volontà e desiderio di conoscere le grandi intelligenze, tenerne nota ed applicarle a vantaggio della nazione. E grata cosa sarebbe riuscita a G., abbenchè dell'indole qui sopra descritta, e sempre abborrente dalla servitù e dalla vanità, se il governo in modo qualunque avessegli addimostrato di tenerloin pregio, o nominandolo professore di filosofia, dopo la morte di Galluppi, non essendovi in tutto il reame altri che più diluine fosse stato degno, o mostrandogli di pregiarlo in altra guisa qualunque, ma sempre per moto spontaneo, essendo stata sua massima indeclinabile che il merito de  savesi conoscere volenterosamente dagli altri, senza sforzo di sorta per parte propria. Sono vi però di momenti nella vita de' popoli in cui l'opinione pubblica si addimostra regina e manifestasi con tutta la possibile spontaneità. Un tale momento si è quando G., non pure senza brigarlo, ma senza avervinemmeno pensalo, vide il suo nome con migliaia di voti sortire dalle urne elettorali, qual deputato calabrese nel Parlamento napoletano. Molto egli si compiacque per tale dimostrazione di stima e di fiducia da parte dei suoi concittadini; ed accetatone il grave mandato, pieno di buon volere e di coraggio si parti con gli altri deputati per alla volta della capitale. Lu singavansi gli elettori suoi nella speranza di vederlo presto discendere dalle astrattezze filosofiche, alla realtà della vita politica: ma tanto non avvenné,   Equicisi permetta no per poco talune reminiscenze, riandando un tempo, che già è per i liberali onesti e di buona fede che credeno alla santità ed alla osservanza di giuramenti e del cui gran numero fanno parle quasi tuttii liberali delle provincie, tra quali G., que' tre primi mesi, con assai più ragione di quello che uno scrittore francese dice del suo paese furono giorni deliziosi, in cui la generazione nostra conosce quell'allegrezza, quella speranza, quel non so che si raro nell'umana storia che ci fa dimentichi del peso della vita. L'avvenire non più  rappresentavasi triste a’ nostri sguardi, scoprivasi un'orizzonte sconosciuto, tutto è color di rosa, perché credevasi al progresso indefinito dell'umanità, e al compimento insperato di tutte le promesse della filosofia. Quelle notizie sempre succedentisi di libertà di popoli, di cessazione di ogni dispotismo e tirannide in quasi tutta Europa, d'indipendenza ed autonomia di nazioni, eccede vano l'immaginazione e fanno degl’uomini tanti inna morati viventi in un'atmosfera inebbrianto. Tempi felici! e che non più ritorneranno perocchè a tutte quelle nobili aspirazioni (forse perché non provegnenti nella gran maggioranza da vero disinteressamento, abnegazione e pura virtú) sono troppo rapidamente succedute le idee finanziarie e di materiali interessi, che stan materializzando tutti gli spiriti e dimmergendoli in un profondo letargo da impedire di addarsi della lenta, ma sempreognor crescente propagazione del dispotismo; e che per sopras sello invece di farei indefinitamente progredire, ci ha fatto, e ne sta facendo precipitosamente indietreggiare. E cio di passaggio. Ma ritornando al nostro Vincenzo, egli era uno di quei tanti filosofi che hanno il coraggio del pensiero e non quello dell'azione. Uomo adusato da tanti anni  а star chiuso nella rocca della sua mente per dare corpo e vita a’suoi pensamenti filosofici, riputavasi vestito del lusbergo del più saldo proposito: ma arrivato al contatto della fredda realità, divenne esangue ed impallidi. Difatto giunto in Napoli, tosto avvidesi del come furono conce   I fatti che vide  al primo scio gliersi della Camera de’ Rappresentanti della nazione, non che nel tempo successivo (da superare fin ancole sue previsioni e che iscusano la sua condotta inverso chi volle accagionarlo di timidità) fanno d' allora in poi addive nirlo più solitario e ritirato di prima. Lui felice! che puo col pensiero allontanarsi dalla triste realtà che cir condavalo, e vagare tra i nobili e pacifici campi della filosofia. E verso quel torno che rivedemmo per l'ultima volta G., il quale ci fa aperto diesser egli tutto applicato al compimento di un lavoro già concepito quando legge la Somma dell'Aquinate. A questo no megli dichiarammo francamente il desiderio nostro, e di altri suoi amici ancora, che siccome dalle sentenze filosofiche scelte dalla Somma presentar volea la Filosofia d’AQUINO, coll'esame comparativo delle dottrine del nostro secolo; cosi dalla scelta di tutte le sentenze politiche, di che abbonda quell'aureo libro, ci fa conoscere la politica di quel santo dottore, in tutto tendente a fare che la suprema autorità non trasmoda in dispotismo e tirrannide, e che la macchina governativa è tutta intesa a formare il benessere della gran maggioranza della codute le improvvisate riforme; col suo sguardo scrutatore s'impossesso della situazione politica del momento, e misurandone tutta la portata, promise a sé stesso di non porre piede nell'aula del Parlamento napoletano. e   mune Patria; che simili scritti, soggiugnevamo, potrebbero servire di freno al potere, affinché ne'suoi atti non degenerasse in forza brutale. Al che il nostro filosofo (cui sembravagli ancora di sentire il fragore delle artiglierie) mestamente rispose: L'eloquenza della bocca de'cannoni fa ammutolire ogni lingua, e fa cadere la penna dalle paralizzate mani. E noi dirimbecco: se il cannone distrugge, la penna può e sa riedificare. E dunque che il cennato suo lavoro col titolo di: Prospetto della filosofia ortodossa, venne stampato in Napoli. Fra le molle lodi che questo saggio ha dalla stampa periodica di diverse parti, sono quelle tributategli con molto calore dalla perma'osa Civiltà Cattolica connostra grande maraviglia e satisfazione. Ma la maggior lode che ridondar possa a vantaggio di G., si è, che per il primo cerca di far rivivere la filosofia d’AQUINO, e che il suo pensiero è stato poscia seguito dall’università parigina e da parecchie di Germania. E sua intenzione comporre un'opera d’estetica ed un'altra d'istituzioni filosofiche, questa sopratutto, per esservene secondo lui, gran difetto nelle scuole: ma tale divisamento non potè mandare ad effetto: sono si trovati, è vero, de’ manoscritti nella sua casa, ma forte temiamo che andranno perduti. Ferale morbo mina da più tempo i suoi giorni, ed egli vide approssimare il suo fine con la serenità di un fanciullo e con l'impassibilità di un filosofo e cessa di vivere. E G. di ordinaria statura e di gracile complessione; di aspetto nobile e dignitoso, ed insieme di tratti gentili, e cortesi epperò riusce piacevole nella conversazione. Nel suo incesso vedevasi grave e pensoso come se ruminasse qualcosa col cervello, o talmente e assorto da suoi filosofici pensieri, da non por mente alle cose esteriori, e da non addarsi degl’amici che passavangli allato, se questi nol riscuotevano chiamandolo per nome. Vive sempre celibe. Lascia un'unico nipole, erede de’ suoi beni, mostrandosi pur generoso nelle ultime dis posizioni verso due suoi antichi compagni ed i suoi domestici. Or un tant’uomo disparve dalla scena di questo mondo senza che nemmeno un fiore si fosse sparso sulla sua tomba; senza che nè pietra pè parola additassero ove han riposo le sue ceneri e ricordassero il nome di lui agli avvenire! A voi Italiani, che amate gl'illustri figli della comune sventurata patria nostra, e che vi distinguete per nobili sentimenti di nazionalità, abbiamo rivolta la nostra parola: inscrivete, per come é debito, il nome di G. tra quei grandi nomi che passar denno alla Posterità! Tu, illustre Mittermaier, che nel fare menzione in semplice lettera, de'chiari Italiani, non potesti fare a meno di non dire parole di lode sul merito filosofico del nostro eroe: spendine altre poche or ch'ei è trappassato, por vendicare l'ingiusto silenzio tenuto dal paese ovo naace e muore. E tu, o venerando P. Ventura, che non mai dimenticasti il tuo condiscepolo, abbenché sempre gran distanza da lui ti divise, e che forse ignori ch'ei non è più, in rilevare la sua dipartita, scrivi alcun motto per quell'ingegno sdegnoso di ogni schiavitù massime se straniera, che co'suoi scritti fè sempre aperta guerra alla filosofia che non attinge i suoi lumi alle fonti del Cristianesimo, ciò influirà non poco a farsi che il nome del tuo antico amico sia conto all'universale. Le nostre rozze e disadorne parole rassembreranno talco o mica in ruvida roccia, ma le vostre saranno ripetute dagli echi, lontani e renderanno al virtuoso obbliato, dopo morte quel merito che in vita gli è negato. Sopra un'amena collina distante una diecina di chilometri dal mar Ionio è situata Mesuraca, paesello che conta un due migliaia e mezzo di abitanti. Uno scrittore che sognasse, vegliando, gl'irrevocabili portenti della Magna Grecia, nei ruderi che ingombrano il vicino monte Matonteo, crederebbe di scorgere gli avanzi di un vetusto tempio, sacro a Venere; e nel nome tradizionale della montagna non mancherebbe lo appiglio di ricordare il riso e gl’amori, fidi compagni della vezzosa Dea di Amatunta. Noi, nella nostra modesta prosa, ci contentiamo a più vicine, e più certe memorie. Egli adunque contava quindici anni meno del suo illustre compaesano, di Galluppi, ch'è nato  nella stessa provincia di Catanzaro, in una piccola cittaduzza posta quasi in riva dell'opposto mare; e, vedi caso, è nato anche lui di casa baronale; sicchè pare che su lo scorcio del passato se colo lo stemma gentilizio non è così ostinatamente avverso agli studi  In quel paesello appunto, nasce quel G., di cui vogliamo esporre la dottrina filosofica. Nasce di casa baronale; ma non è quel che ci preme; nè pare importasse neppure a lui, che ha il buon senso di segnare a fronte de'suoi saggi il proprio nome e cognome asciutto asciutto, e senza nessun prefisso. Ancora lascio, o meglio gli è fatto lasciare il paese nativo, ed è condotto a Napoli, e quivi chiuso nel collegio di San Carlo alle mortelle, dove continua a studiare, come sisuole. Tra le poche carte, non disperse o distrutte, dalle quali ho potuto raccogliere qualche scarsa notizia della vita di lui, avanza una lettera del rettore di quel collegio, certo Misa, con cui si raggua gli ava il padre della buona riuscita de' pubblici saggi dati dai figliuoli di lui. Questa lettera giova non tanto a testimonianza del profitto; chè un baroncino, si sa, fa sempre bene; e di fatti il buon rettore si loda non solo di Vincenzo, ma del l'altro fratello Domenico; quanto ad assodare la data della nascita. Arnoni, che laboriosamente s'ingegna di scrivere le memorie della Calabria, lo fa nato: se si da pubblici esami, quella data è dunque sbagliata; e rimane accertata quella che ho trovata scritta io nel volume su la logica di Hegel, insieme con l'altra concernente la morte di G.. Il volume appartiene alla famiglia del filosofo, ed io l'ho potuto avere, insieme con gli altri documenti, perla cortese premura di Serravalle, valoroso giureconsulto, e caldo promotore della gloria del nostro paese: qualcuno di casa vi ha registrato certamente quelle due date. Forniti i primi studi, diessi a coltivare le matematiche, e divenne ingegnere. Il napoletano conquistato dalle armi francesi, dove allora, per l'imitazione de'conquistatori, correre dietro al mestiere delle armi. Il nostro G. trovavasi arruolato da sotto-tenente nel genio, quando con decreto reale comunicatogli da Campre dona nominato ingegnere aspirante di ponti e strade. L'anno appresso, con decreto, è promosso ad ingegnere ordinario di seconda classe. Qui i documenti, che abbiamo avuto sott'occhio, finiscono; nè sappiamo, se, cessato il decennio, e i ritirossi di sua  scelta, o se è licenziato dal Borbone restaurato sul trono. Ci è forza saltare. La Società Economica di Calabria Ultra 2.a lo propone a socio: la nomina ha luogo. E lentezza, o si sono incontrati ostacoli? Non si sa, e fa meraviglia, come di un uomo di vaglia, vissuto tra di noi, s'ignorino tante circostanze, che ci aiuterebbero a lumeggiarne meglio la figura. Vero è che le abitudini del filosofo sono molto casalinghe, che dalla famiglia ei vive diviso, che per le vie raro si fa vedere. E di o mi ricordo, che andato studente a Catanzaro benchè mi si dicesse che G. è allora, benchè io avessi desiderio di vederlo, non mi venne mai fatto d'imbattermegli per via. Questa riservata usanza, e'l non avere mai insegnato, fecerosì, che poco si dilatasse la sua fama, e ch'ei passasse quasi sconosciuto. Quando Serravalle mandommi le sue carte, credevo di trovarci copiose notizie, od almeno un frequente carteggio: m'ingannai: corrispondenze non mantenne, o non conservo; più facilmente però non mantenne, perchè non ci sarebbe sta ta ragione di conservare alcune lettere, e di distruggere le altre. Nè ciò provenne, a parer mio, da non curanza,ma da impossibilità; correndo tempi fieramente avversi ad ogni a c comunamento degli animi, pieni di paure e di sospetti. Due o tre nomine d’accademie gli vennero, che noi abbiamo trovate fra le sue carte, con una certa cura custodite: una, a socio onorario della Valentini di Napoli, che ha a protettore il conte di Siracusa. Una seconda, a socio corrispondente de' peloritani. Una terza, più tarda, ma non più celebre, a socio onorario della R. Società Economica di Cosenza, sotto la data Ecco gli scarsi onori fatti ad uomo meritevole di maggior fama! Mittermaier, di Heidelberg, scrive intanto a Mugna, che aveva voltato in italiano il suo saggio sulle condizioni d'Italia, quest'onore vole giudizio sul nostro filosofo, Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina analisi dello spirito umano, sempre unita a grande dovizia d'idee e ad una tendenza pratica. Qui appartengono le opere di Galluppi, e di G. peculiarmente l'ultima di questo. Esaminando l'autore i saggi de'suoi predecessori, anche de filosofi tedeschi, ed entrando in minute particolarità, intorno a'varî pensamenti sul l'origine delle idee, seguesi con piacere nel suo ingegnoso sviluppo,e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze pure e cono scenze dimostrative. Così scrive il giureconsulto tedesco. L'opera di G., a cui egli allude, e che preferisce a quelle dello stesso Galluppi, e appunto il Saggio su la realtà della scienza umana, Napoli. Della importanza di quest'opera, e della mira che l'autore vi si prefisse, discorreremo ampiamente: per ora giova avvertire, che gli stranieri leggeno ed ammirano un saggio che gl’italiani quasi ignoravano, e che i contemporanei, per non far torto ai loro maggiori, continuano ad ignorare. Escludo da questo numero Ferri, che nel suo saggio sulla storia della filosofia in Italia lo riporta nel catalogo dei libri filosofici (degnazione non piccola); guardandosi, ben inteso, di accennarne almeno lo scopo. Forse non lo ha letto. G. passa il più del suo tempo a Napoli, dove Galluppi tene la cattedra di filosofia ed attira a sè i italiani si per l'insegnamento vivo, come per la popolarità de'suoi elementi. A G. mancal'una cosa e l'altra, perciò non gli riuscì di avere seguaci. E che desiderasse farsene, l'ho raccolto da una lettera che gli scrive Zaccaro. Nel saggio medesimo da lui pubblicato le allusioni a Galluppi sono frequenti; ma velate, e senza citarlo di nome. La fama del suo illustre concittadino turba i suoi sonni; ma all'emulazione non simesce nessun senso d'invidia, e molto meno obblique arti per soppiantarlo. Tulelli anzi mi ha raccontato, che, vacando per la morte di Galluppi la cattedra, a G. non sarebbe stato difficile ottenerla, se l'avesse chiesta. Mostratagli questa agevolezza, ei ricusa di chiederla, benchè la desiderasse, e non lo nascondesse: offerta l'avrebbe accettata; ma il governo napoletano par che non lo vedesse di buon occhio. G., intanto, al pari del Galluppi si è tenuto appartato, nè si era mescolato nei rivolgimenti politici: entrambi, per usare una frase del Bonnet, s'erano fabbricato un ritiro dentro il proprio cervello. Galluppi vede le stragi, gli spergiuri, ed continua tranquillo le sue meditazioni: pubblica, in mezzo a que  rimescolio, i suoi elementi di filosofia. G. non avrebbe potuto prender parte ai casi; avrebbe potuto, ma nol fa: la filosofia civile e battagliera e finita col patibolo di PAGANO; da indi in poi, nel mezzogiorno d'Italia, prevalsero le speculazioni solitarie fatte ne'penetrali della coscienza subbiettiva. GIOIA (si veda) e Romagnosi scontano nello Spielberg il delitto di aver applicato l'ingegno alla statistica, ed al dritto pubblico: nel Napoletano i filosofi sono esclusivamente psicologi. Non so se bisogna far eccezione per quel Borrelli, che, sotto lo pseudonimo di Pirro. Trovavasi G. avanti negli anni, dedito agli studi filosofici, stimato, se non celebre; adatto adunque a rappresentare decorosamente alla camera la sua provincia. Pare che questi numeri gli meritassero i suffragî degl’elettori politici, ed egli riuscì eletto con molti voti, terzo fra i nove deputati di Catanzaro. L'esito gli è comunicato dal presidente Larussa, valoroso giureconsulto, e scelto deputato anche lui, con queste parole: Tal verbale, nell'essere il mandato legale de poteri a Lei conferiti, è in pari tempo la testimonianza più luminosa delle Sue eminenti virtù. G. però non fa a tempo di saggiarsi nella vita politica. La mala fede del principe aiutata dalla inesperienza politica del popolo insanguina le vie di Napoli e sgomenta naturalmente l'animo di chi è fatto per la quiete dello scrittoio, anzi che pei clamori e per le zuffe delle piazze. G., senza infamia e senza lode, torna agl i studi. Lallebasque, scrive a Lugano la genealogia del pensiero, e che quivi pare balestrato da contrario e prepotente destino. Dopo la morte di Galluppi, contro la cui filosofiaa veva assiduamente armeggiato nel saggio, è nel mezzo dì in valsa quella di Rosmini e di Gioberti, ed, oltre a queste italiane, quella straniera d’Hegel: i due ultimi filosofi hanno principalmente il sopravvento. Ciò da molestia a lui, costante e schietto sostenitore della FILOSOFIA DELLA SPERIENZA. Se gli è parsa incauta e sdrucciolevole quella che ROVERE (si veda) chiama la riservatissima filosofia di Galluppi, è da immaginare quanti pericoli non temesse dalle ardite sintesi di Gioberti e Hegel. In un volume raccolse adunque le critiche di questi sistemi, e di quello di Lamennais, e pubblicollo. Pur lodando l'impresa di G., Padula non gli dissimula però che la critica fatta d’Hegel e di GIOBERTI è scarsa al bisogno: insta, che ci torna sopra, e che raddoppiasse i colpi; sollecita da ultimo il filosofo a pubblicare la filosofia del pensiero, opera da G.  dovuta accennare come in via di esser composta. Quest'opera però non venne, nè la critica contro a Hegel ed al Gioberti è rinforzata: venne bensì fuora il prospetto di filosofia ortodossa. L'autore fin dalle prime mosse è dovuto parere sospetto di sensualismo, e quindi pericoloso alle credenze religiose: a lui l'appunto rincrebbe, e si risolse di scagionarsene. Divisa quindi invocare a soccorso la filosofia d’AQUINO, valido usbergo a proteggerlo dai colpi frateschi, ed amettere in salvo la pericolante ortodossia. Il prospetto, invero, piacque al clero napoletano, piacque ai gesuiti; rassicura l'autore medesimo, che dove sentirsi in disagio. Padula, il solo, credo, che leggesse allora i saggi di G. in Calabria, gli batte le mani da Acri, suo paese nativo. Le lettere del Padula G. conserva; gradito applauso in tanto silenzio. Padula però gli dipingeva il trionfo delle idee giobertiane appresso i calabresi, ed in una lettera da Acri, gli scrive, non senza un certo sgomento, così, Sia comunque, l'epopea giobertiana ha sedotto molti lettori; ed io invano mi vado adoperando a disingannarli. Altro frutto non colsi, che di essere chiamato bestia. A tergo di una lettera del Padula c'è una bozza di risposta dove G. racconta le liete, e non sose oneste, accoglienze fatte al suo ultimo saggio da Sanseverino. Ricopio le sue medesime parole, Oltre l'articolo inserito nella Civiltà Cattolica, al quale accenna la sua pregiatissima lettera, un altro forse se ne pubblica nel Periodico la Scienza e la Fede. E parmi che anche il clero napolitano ha accolto con favore il mio piccolo lavoro; il che io debbo precipuamente alla imparzialità e dottrina di Sanseverino, professore di filosofia a Napoli, il quale ha una meritata riputazione presso il clero anzi detto. È ben sì indipendente data l favorevole opinione il suffragio de' redattori della Civiltà cattolica. Ho detto di dubitare, che queste accoglienze sono oneste, quanto sono liete. Il clero napoletano allora, e i gesuiti specialmente mirano ascalzare la filosofia di GIOBERTI, a denigrarla, ametterla in mala voce. Gioberti filosofo non e forse la secreta n:ira de'loro strali: tirano al filosofo per colpire l'uomo politico: guerreggiano la costui filosofia per vilipendere quel senso d'italianità che traspirava da tutte le pagine dell'illustre torinese. In quella che Padula aveva chiama l'epopea giobertiana, la filosofia non e se non un episodio solo; e se gran parte d’italiani corse dietro ai pensamenti di Gioberti, vi cor  eso spinta da quel caldo patriottismo, onde il filosofo sa ravvivarli. Gl’italiani hanno più sicuro, che non gl’uomini fatti, il presentimento dell'avvenire. I gesuiti se ne sono accorti, e festeggiano l'opera di G., perchè vi trovano un poderoso aiuto. Non dico che G. sospetta le riposte intenzioni de'suoi lo datori; egli accetta la lode, perché la crede di buona fede. Nell'annunzio che ne dà a Padula, e che noi abbiamo ri ferito, c'è la ingenuità, e direi quasi il candore di un fanciullo che non ha pratica del mondo. Ecco ora l'intonazione dell'articolo della Civiltà cattolica: ne cito solo il primo periodo: ex ungue leonem. Lode al cielo! Mentre tanti italianissimi fanno di tutto per intedescare la filosofia italiana, intenebrandola colle larve di quell'assoluto che sfuma nel vacuo del possibile, e colla nullità di una logica che teorizza la contraddizione, sorge all'estremità d'Italia, nella patria degli Archita, dei Zenoni,  dei Campanella, dei Galluppi un ingegno sdegnoso di tale schiavitù, che tenta richiamare gl’italiani a pensamenti meno aerei spezzando gl’idoli adorati oggi dì dalla filosofia eterodossa, e congiungendo l'osservazione di fatto colla generalità delle idee. Qui la frecciata va agli hegeliani; e'l contrapposto fra italianissimi e tedescanti non puo essere più abilmente, o più gesuiticamente messo in rilievo: non basta però a colorire intero il disegno dell'articolista, ed ecco un 'altra frecciata, che mira più addentro. Oh questo sì, che potrà dirsi un vero rinnovamento di filosofia italica! e ne gode l'animo di poter vaticinare alch. A. esito migliore e maggior riconoscenza per parte dei suoi concittadini, di quella che sperar possono certi rinnovamenti di filosofia italica, i quali tentano di ri-suscitare i sogni di Pitagora e di Zenone per fingersi italiani, mentre in verità altro non sono che triste imitazioni del protestantesimo tedesco, o dell'eccletismo francese. Mentre costoro per dare lo scambio a gl’italiani vanno nella Magna Grecia ad invocare la Pitonessa, perchè risusciti dalla tomba i profeti del paganesimo, all'estremità della magna Grecia presso la calla del cattolico GALLUPPI la provvidenza fa sorgere un ingegno singolare, che passando dalla milizia alla scuola sembra con trapporsi al Renato, che abbandona la milizia per combattere la scuola. Fin qui il gesuita. Ordunque, notoio, quando si vuol filosofare alla tedesca, l'Italia è la patria degl’ARCHITA DI TARANTO  e di ZENONE DI VELIA, e non istà bene curvarsi a gioghi stranieri: quando poi si risale a Pitagora, ch'e stato modello ad Archita, ed allo stesso Zenone da voi indicato, ecco che questi diventano a un tratto profeti del paganesimo. Potremo sapere a quali filosofi bisogna ricorrere per aver il vostro pieno beneplacito, padre reverendo? La lettura della bella sua opera mi fa sentire anche più la perdita che io ho fatta; e che sarebbe per me irreparabile se non mi riuscisse di vederla nelle poche ore che passerò in Napoli prima di ripartire per Roma. Se in tale occasione potessi ricevere l'onore di una sua visita, mi stimere i felice di conoscere il ristoratore della filosofia ortodossa. Mi son fermato su questi giudizî, perchè qualcuno ne ave va indotto, aver G. nel suo saggio cangiato via, ed essersi accostato ad AQUINO. G., qui come nel saggio, rimane saldo nella sua DOTTRINA SPERIMENTALE: se di fetto v'ha in lui, è la ripetizione quasi puntuale delle medesime idee, e delle medesime parole stemperata in molti volumi; ma cangiamenti non glisi possono imputare. Quel che si trova dippiù nel prospetto di filosofia ortodossa è lo sforzo di far parere tomistica la sua filosofia. Perchè ciò gli premesse, non indovino: e per tranquillità della propria co scienza? e per capacitare gli altri? e per aver dalla sua il clero, e col mezzo di questa cooperazione diffondere la sua dottrina? nol saprei dire: certo la sua filosofia rimane quasi sconosciuta, nè le lodi del clero napoletano e de'gesuiti le valsero allora, e forse le nocquero più tardi: successe di lei ciò ch'era succeduto di un teatro da lui disegnato, e costruito a Cosenza; il quale e disfatto per impiantarvi un collegio di gesuiti. Ma lasciamolo là il gesuita, che non siaccorge, quanto la filosofia di G. possa arrecar di nocumento alla sua fede: il critico non va a cercare tanto per lo sottile, e si appaga dell'autorità d’AQUINO,e del titolo del saggio: più in là non vede. Nè più in là vidi Taparelli, contutta la fama di dotto, perchè in una lettera scritta al nostro G. da Sorrento lo saluta, senz'altro, ristoratore della filosofia ortodossa. G., saputolo a Napoli, e stato a fargli visita: non lo ha trovato, e di Taparelli, informatone, gli scrive così.  Merita egli quest'obblio? Certo che no; e noi ci studieremo di dimostrarlo, facendo una rapida esposizione delle sue dottrine contenute ne'saggi finora accennati. E prima di tutto: quali sono le condizioni filosofiche delle provincie meridionali, quando egli dassi a filosofare? Quale fine si propose egli? Quali mezzi aveva sotto mano? Queste notizie sono indispensabili per valutare equamente il risulta to delle sue ricerche. G. ha una coltura matematica; e, come porta questa coltura, il suo spirito ne ha attinto un bisogno di dimostrazioni rigorose, ed un'avversione alle conclusioni frettolose, ed alle sintesi arrischiate. Da parecchie testimonianze si raccoglie, ch'ei diessi alla filosofia molto, quando già la fantasia è manco vivace purne gl’uomini che più ne abbondano. E l'educazione adunque e l'età lo attirano per quella via piana e sicura, dove un pie de va innanzi l'altro, senza intoppi, e senza bisogno di salti. Quando all'incirca ei simise a filosofare, Galluppi  lastrica quella via, ed additatala ai suoi con cittadini. LA FILOSOFIA SPERIMENTALE e in voga. È in voga, male sta sempre di fronte, temuta avver saria, quella filosofia che rivendica all'attività dello spirito un'attività produttrice ed indipendente, benchè sotto varie forme. Locke combatte l'innatismo cartesiano, ma e stato alla sua volta combattuto da Leibniz: l'Innatismo ricompariva sotto altro aspetto. Non dico giàche le figure siano bell'e disegnate nel marmo, dice Leibniz; ma il marmo non è però liscio e schietto, c'èuna certa venatura, che messa in risalto si accosta assai alle linee che ti occorrono a figurarle. Bonnot di G. muore a Napoli, quasi ignorato. E attorno ad altri saggi, fra i quali un’estetica, e le Istituzioni di filosofia. Ma di questi manoscritti forse lasciati a Napoli non si è potuto avere nessuna notizia. Condillac ripiglia l'impresa del filosofo di Wrington, e non contento di divolgarlo tale quale, come fa Voltaire, lo semplifica, lo facilita, sicchè la sola sensazione fa a lui quell'ufficio, pel quale al Locke sono occorsi due coefficienti: la riflessione del filosofo inglese era sbandita come soverchia. Condillac ha, come suole succedere, cominciato con ricalcare fedelmente le orme di Locke, poi aveva rifatto a modo suo: e la sua semplicità maravigliosa piacque in Francia più della circospetta indagine del filosofo inglese. Onde, morto lui, il suo filosofare continua, interrotto appena dallo strepito della rivoluzione, che tenne dietro alla sua morte. Cessato, difatti, il terrore, l'anno appresso i condillachiani ri-apparvero padroni del campo filosofico, e debbero in mano la scuola normale, e l'istituto, che allora sorge per decreto della convenzione attuato dal direttorio. Questo gruppo detto degl'ideologi conta nomi celebri: Cabani s il fisiologo della scuola, Tracy l'ideologo propriamente detto,Volney il moralista, Garat professore alla scuola normale e difensore del sistema; e poi con loro altri che dipoi deviarono, chi più chi meno, ma che allora stano per la medesima dottrina. Biran, Gerando, La Romiguière. Nel decennio corso fra la cessazione del terrore e la fondazione dell'impero questo gruppo di valent’uomini si aduna nei giardini di Auteuil, e l'amicizia degl’animi siaccoppia ne'loro convegni alla concordia delle dottrine. Sotto l'Impero, il cielo per loro si annuvolo. Tutti sanno il dispregio in cui il primo Napoleone tene l'I deologia; non tutti ne sanno il motivo. Napoleone non l'odia tanto come dottrina, quanto come partito. Cabanis, Volney, Garat, DeTracy, che hanno visto di buon occhio il Nettuno che placa le onde tempestose della rivoluzione, non sono più contenti, quando lo videro troneggiare da Giove. Gli tennero il broncio, ed ei si vendica nel rimpastare l'istituto, scartando la sezione delle scienze morali, e destituendo l'ideologia, secondo la frase di Damiron. Villemain racconta gli scoppi della collera napoleonica contro quegl'innocenti ideologhi, che poi non lameritavano davvero. All'ideologia Napoleone imputa di scandagliare le fondamenta dello stato col fine di scalzarle. Vera o falsa che fosse l'accusa, l'ideologia ne scapitd, almeno perdendo la veste di filosofia ufficiale, e lo spiritualismo, che ne spia le mosse, la soppianto nella scuola normale, dove Collard l'introduce. Seguace del keid, questo eloquente filosofo sa vincere la preoccupazione invalsa, che filosofare liberamente non si potesse fuori dell’ideologia; e che quindi o bisogna accettare lo spirito teologico del De Maistre, o schierarsi tra gl'ideologi con a capo Tracy. Con Collard l'alternativa e evitata, ed inaugurata la nuova scuola filosofica della Francia, quella ch'è stata da indi in poi sempre al potere con Cousin, con Rémusat, con Barthélémy de Saint Hilaire, con Waddington, con Simon. In ITALIA lo spiritualismo, rinfiancato dall'eccletismo cousinjano, benchè tradotto dal Galluppi, non fa fortuna: gl’Ita liani o tennero la via degl'ideologi, o se ne scostarono per ben altra filosofia, che non fosse l'eccletismo. Più che la filosofia del senso comune proposta da Reid per fronteggiare lo scetticismo di Hume, ed accettata da Royer-Collard per combattere l'ideologia, diè da pensare agl'Italiani la filosofia trascendentale di Kant. Galluppi se ne mostra profondo conoscitore fin da quando incomincia la pubblicazione del Saggio su la conoscenza umana; sebbene avesse dovuto studiarla nelle scarse esposizioni di Villers. Più tardi soltanto, traduce la Critica Mantovani; ma Lallebasque e in grado di STUDIARLA SULL’ORIGINALE, come dimostra di saper fare nella esposizione che ne dà nella sua Introduzione alla filosofia del pensiero: caso degno di nota per quel tempo, quando nè la lingua, né la filosofia tedesca sono divolgate, come oggidì, non dico in Italia, ma neppure nella rimanente Europa. Le due vie aperte, da indiin quà, sono adunque, almeno per noi, queste due: il SENSISMO ed il criticismo. Tra queste cerca di aprirsi un varco intermedio Galluppi; al sensismo propende Borrelli, al criticismo Colecchi. Borrelli scrive e stampa a Lugano, quasi contemporaneamente a Galluppi, ch'ei conosce però soltanto di nome. Colecchi insegna pure in quel torno, ma le sue questioni filosofiche non sono pubblicate, se non piu tardi. Che G. non quindi conosce gli scritti di Colecchi, è certo; di Borrelli si può dubitare, benchè a certi segni, che appresso additeremo, si possa credere di averne avuto sott'occhio le opere. Indubitato è però che siasi formato su Galluppi, e che siasi prefisso di camminare su la via dischiusa dal suo gran concittadino, evitando gli sviamenti, in cui l'altro era incorso, e tirando più dritto alla meta. Più dritto e difilato procedette in realtà; ma verso dove? Parve a G. che Galluppi, scambio di fondare LA FILOSOFIA DELLA SPERIENZA, come si era proposto, per incaute concessioni al kantismo, e finito con darsegli in preda. Cotesto sviamento ei combatté a tutt'oltranza ne'primi saggi, come nell'ultimo; prima copertamente, e senza pronunziar ne il nome, poi alla svelata. Onde a me non piccola sorpresa ha cagionato il giudizio di certi nostri storici e critici ad orecchio, i quali confondono Galluppi con G., come se professassero la medesima dottrina. Capisco che il titolo, comune ad entrambi, di FILOSOFIA SPERIMENTALE, ha potuto trarre in errore i prelo dati giudici; ecompatirei lo sbaglio, s'ei fossero dilettanti; ma è da condannare severamente in loro, che si danno l'aria di scrivere storie e critiche, senza leggere neppure i saggi istoriati e criticati.  Tornoora a G.. Per dimostrare il processo storico de'due opposti avviamenti, ei ricorre alla sorgiva: rifà quindi la storia de sistemi filosofici moderni, ed ammaestrato dagl’errori altrui ripropone il problema, e si accinge a risolverlo. Anche qui l'influenza di Galluppi è manifesta, avendo questi pel primo rimesso in onore appresso di noi la storia della filosofia, e dato il più lucido esempio d'innestare le ricerche proprie con le indagini fatte prima da altri sul medesimo soggetto. G tuttavia ritesse la medesima storia con altro intendimento; perciò la sua non è ripetizione di quella fatta da Galluppi, e vale il pregio di essere esposta e conosciuta in disparte. La filosofia per G. si aggira sul problema della scienza umana, nè più né meno,che per Galluppi: il titolo delle due opere capitali scritte dai due filosofi calabresi accusa la medesima intenzione. Il Galluppi scrive il saggio filosofico sulla critica della conoscenza; G., il saggio su la realtà della scienza umana . Questa similitudine ha tratto in errore alcuni storiografi da frontispizî, perchè dalla intestazionesono corsi,senz'altro, ad asserire che Galluppi e G. professanol a medesima dottrina. Se non che, questa volta l'hanno sbagliata; chè se il problema è lo stesso in entrambi , la solu zione è diversa non solo,ma opposta. G scrive col manifesto divisamento di combattere la soluzione gallup piana. Già nella stessa intestazione il filosofo di Mesuraca accenna a questo punto capitale del suo saggio , ch'è la real tà della scienza,compromessa,a parer suo, dalla spiegazione accettata dal filosofo di Tropea. Ma seguiamo ilprocesso storico delproblema,com'è espo sto da G. Galluppi aveva dato l'esempio di accoppiare alla sua Ancora non gli eran potute essere note le tre epoche distinte da Comte , che par di non aver conosciuto n e p pure dopo, e già egli tripartiscela storia della filosofia, a un di presso,con un criterio analogo a quello del filosofo francese. Nella prima epoca la ragione, baldanzosa per inesperta filosofia, silibra a volo,e tenta costruzioni metafisiche, tenendo scarsissimo conto della scienza principale, e facendo ne quasi un'appendice delle sue fantastiche cosmogonie. Nella seconda,ella piglia per verità le mosse dal proble ma del conoscere; matostolo abbandona, sedottadallame tafisica. Nella terza, la ragione rinsavita si propone chiaro il suo cômpito, ed'altronon sibriga; se non che, pur nelle soluzioni del problema conoscitivo, di quando in quando, fa capo lino il razionalismo. Insomma l'esosa metafisica, lo scapestrato razionalismo sono per G. il vero ostacolo, che non lascia passar la vera scienza per la sua via. Alle tre epoche egli assegna questi intervalli di tempo:la prima si stende dai primi abbozzi ionici fino a Socrate, il fondatore della definizione, e de'ragionamenti d'induzione; la seconda da Platone e da Aristotele corre fino a Locke; in terrotta qua e là dai tentativi di GALILEI, di  Bacone, e CARTESIO; la terza dura ancora, e dè nel meglio delle sue conquiste.  16- dottrina la genesi storica del problema da lui riproposto; e sirifàda Cartesio a questa parte, da Cartesio che per lui è il padre della filosofia moderna. G. risale più in su , fino ai primordî della filosofia greca, senza perder d'occhio però il problema della scienza. Il suo criterio storico è semplicissimo: v'è due filosofie, una che ritiene l'osservazione de'sensi,un'altra che l'impugna;e quest'ultima, comechè si argomenti di ricostruire la impugnata testimonianza, merita sempre il nome di razionalismo. È mestieri, dice G., distaccar del tutto le metafisiche speculazioni dalla scienza del pensiero, per forzar la ragione al metodo di pura osservazione. La ragione, secondo lui, ha una tendenza precisamente contraria; ingegnandosi di rimenare all'ordine a priori quel che trovasi dato da induzione. È necessario adunque che la filosofia n e infreni l' impeto, e ne moderi la foga; e, per non esservi riuscita ancora, la metafisica è rimasta stazionaria, piena zeppa di ambiziose vedute, non avvalorate da'fatti. Positivo progresso della filosofia d'oggi dì è quello di essersi ridotte le ricerche metafisiche, che untempo formava no la sterile ricchezza degli scritti filosofici. La stessa avversione ha G per lo spirito teologico. L'intervento divino nella spiegazione de'fenomeni na turali vale quanto la macchina nello scioglimento del nodo diuna tragedia. Perocchè è ben facile espediente ilriporta re ad una causa sovrannaturale quegli effetti, che non siè saputo ricondurre alle cause naturali. Soggiunge innota una riserva, èvero; dichiara di non voler impugnare i miracoli: il punto principale non è mensaldo però, l'esclusione loro dalla scienza. Qui G., sia che lo conoscesse, o che s'incontras se con Comte, si mostra cosi aperto avversario dell'intervento divino, come delle ipotesi metafisiche: teologia, e razionalismo sviano dalla vera scienza. Il tradizionale metodo della filosofia telesiana rivive dopo tre secoli in G.: fondamento della scienza è la sola osservazione; e nondimeno riserva di ossequio verso l'autorità religiosa, da parte degli autori. G. rivolge ai fenomeni del pensiero quella osservazione, che TELESIO aveva rivolto a'fenomeni naturali. Il metodo ch'ei si traccia, e che si studia di seguire, è il seguente: osservare i fenomeni primitivi, ridurli fino agli elementi irreducibili. La filosofia intellettuale, ei dice, dopo aver riconosciuto i fatti attuali di coscienza dee saggiar di risalire di riduzione in riduzione al fatto primitivo, alla pura veduta intellet Quali sono i fenomeni primitivi del pensiero a cui si ferma? Sono tre, la sensazione, il giudizio, il volere; quindi tre parti principali della filosofia, estetica, logica, etica. Lasciando di vedere se questi tre sono proprio i fenomeni irreducibili, certo è però che il metodo da lui seguito è precisamente quello tenuto dalle scienze esatte. L'autore non dissimula il bisogno da lui sentito di applicare alla filosofia il metodo delle matematiche, alle quali s'era da prima ad detto, e dal cui studio deriva in gran parte il riscontro che si può scorgere tra la sua filosofia e quella che nel torno medesimo si coltivava in Francia sotto il nome di filosofia positiva. Eppure, esclama G., non v'è chi passando dalla evidenza delle matematiche alle ricerche filosofiche non senta irrequieto il bisogno di sortir fuori delle incertezze, in cui vede implicato il sistema della scienza. Come dalla semplice osservazione lo spirito possa sollevarsi alla riduzione scientifica de’ fenomeni, G. descrive in modo molto preciso; e tale che merita esser riferi to con le sue stesse parole. Ma l'esperienza non è l'osservazione empirica, che si arresta a'fenomeni isolati. Il metodo sperimentale si giova di tutti i nostri mezzi per iscovrire la connessione de' fenomeni; del ragionamento astratto, della induzione, delle sperienze artifiziali, delle ipotesi. Con sì varî mezzi la fisica lavora alle classificazioni de'fenomeni esterni,a ridurre i fenomeni particolari a'generali, a rilevare dal corso della natura le sue leggi, cioè le costanti condizioni de'fenomeni, le une costanti e permanenti, le altre costanti nel cangiar dei fenomeni. In tal divisamento non mira soltanto a minorar  tuale. l'ignoto, che resta limitato a'fenomeni irreducibili, ma ad uno scopo più positivo, a quello diprevenir l'esperienza, e somministrar così preziosi materiali a tutte le arti. Chi ricorda il motto del Comte: savoir c'est prévoir riconosce di leggieri il riscontro de due filosofi. Nè risalta meno la comune mira di ridurre i fenomeni fino all'estremo limite, affine di minorare l'ignoto. Trasportando ora il metodo teste descritto alle investigazioni filosofiche, G. procede cosi; osserva, cioè, i fatti della coscienza, qual'è attualmente, e di riduzione in riduzione risale fino ai primi elementi, ond'ella è stata generata. Egli stesso formola il suo problema in questi termini: coi mezzi che sono in nostro potere, ritrovar la generazione delle verità, di cui siamo in possesso. Questo metodo ei lo chiama genealogico; e la parola ed il concetto si trovano inun altro filosofo italiano, noto a G., in Borelli, che intitola la sua filosofia, Principii della genealogia del pensiero. Fino a che punto s'accordino nel loro intento, toccheremo appresso. Qui basta notare, che la filosofia vera, la filosofia seria per G. comincia con quest'analisi minuta degl’elementi primi del pensiero. Dimodo chè sebbene ei lodi Aristotele di aver ammesso la realtà delle idee universali,e più ancora di essersi fondato sul senso, nondimeno, poiché lo Stagirita vi arrivo quasi di lancio, e per un'affrettata generalizzazione, il nostro filosofo non ripigliala vera storia da lui. Il primo saggio genealogico del pensiero sembra a lui, essere stato il Saggio sul'intelletto umano di Locke, che pure Galluppi chiama immortale. Quel saggio, caduto poi indiscredito, ha una meritata rinomanza; e la fama è più fondata del discredito. La filosofia inglese mette capo tutta quanta in esso; la francese del secolo trascorso ne deriva; alla tedesca, iniziata da Kant, di è il primo urto per mezzo di Hume. Oggi di, appresso di noi.  Il principal merito del filosofo di Wrington è agl’occhi di G. quello di aver combattuto ad oltranza le idee innate. Ritenere tutte, o alcune idee per innate, porta necessariamente per conseguenza di non ricercarne l'origine;  e quindi impedisce il progresso della filosofia, che tutta si dee travagliare attorno a questa ricerca. Cartesio e Leibniz, che si credono di averle ammesse, in realtà le ritennero come semplici disposizioni; e è per colpa di una improprietà di linguaggio se s'imputa a loro diaverle accettate. E qui da una toccatina a Galluppi. Ma il sistema lockiano, nel rintracciare la genealogia del pensiero, omise moltissimi atti mentali che vi concorrono; ed è omissione scusabile in un primo tentativo, ed in ricerca cotanto complessa. Locke da, per dir così, una formola generale, alla quale sono applicabili più valori: Condillac si avvisa di darle un valore preciso; ma precisando, disvia. Locke, difatti, aveva riconosciute due sorgenti delle nostre idee, la sensazione, e la riflessione: quest'ultima non è ben definita, è una funzione che accoglie un po'di tutto, giudizio, astrazione, ragionamento, volontà, è in definita, si confonde con la coscienza: Condillac dà un va si è più giusti verso del modesto, del sincero, del pazientissimo Locke; smessi i superbi fastidî delle sintesi frettolose: al tempo che scrive G.  le invettive giobertiane sono accolte senza molti scrupoli; ed al filosofo calabrese è gloria non esser se ne lasciato smuovere. Galluppi lo pregia assai, ma i consigli del buon vecchio cominciano ad aver poca presa su gli animi de' filosofi. Fuori d'Italia Herbart fa tanta stima del Saggio lockiano, che al Consigliere Clemens, il quale lo ri chiedeva intorno alla filosofia da insegnare ne’ginnasi, risolutamente risponde: dal maestro di filosofia ne'ginnasi anzi tutto ed assolutamente richiederei che avesse letto Locke. ore preciso, riduce tutto alla sensazione, o semplice, otra sformata: sentire è giudicare. G. fa della sensazione e del giudizio due fenomeni irreducibili; egli non può dunque nè contentarsi dell'ambiguità della riflessione lockiana, ne molto meno della semplicità della sensazione condillachiana. All'osservazione de'fatti gli pare che Condillac ha sostituito la tortura del fare sistematico. Gran merito di Kant è quello di avere scorto l'importanza del giudizio, di questo fenomeno irreducibile, stato da Condillac confuso con la sensazione. Pel filosofo di Koenisberg gl’ultimi elementi delle nostre idee sono da una parte le sensazioni, dall'altra i giudizî – potch e cotch: i due elementi appunto che al nostro filosofo paiono indispensabili alla soluzione del problema che si è proposto. Ma con questo gran merito egli imputa a Kant una gran colpa, la soggettività de’rapporti; vizio che gli sembra infettare la filosofia. La soggettività di Kant però, e G. ne conviene, è una necessità storica. Locke dice che tutte le nostre idee nascono dalla sperienza, e che un'idea originale semplice non può derivare quindi da un ragionamento: Hume accetta le premesse, e continua: ma l'idea di causa non. Per lui, come per d'Alembert, la facoltà distintiva dell'essere attivo e intelligente, è quella di poter dare un senso alla parola è: ora Condillac questa distinzione l'ha distrutta; i J tà el Se elementi soggettivi, egli nota, simescono co'dati sperimentali, in tale ipotesi non conosceremmo quel ch'è nel fatto osservato, ma quelcheci apparisce esservi; tal chese spogliamo il fatto di ciò ch'è nostra proprietà, la nostra conoscenza svanisce.Si vuol che siano elementi soggettivi le idee di spazio, di tempo, di sostanza, di causa? Togliete via dunque dagl’oggetti esterni e dal proprio essere siffatti elementi; e la scienza della natura, e dello spirito è distrutta,  può derivare dalla sperienza; dunque non c'è. Cosi tutta la scienza della natura anda in aria, e Reid sirifugiò nel senso comune, in una credenza irresistibile, istintiva: Kant ammise degl’elementi aggiunti dall'attività dello spirito. G. nota con molto accorgimento, che in sostanza il senso comune, di cui tanto si compiacciono certi filosofi anche oggi di, non salva nulla; che per giunta è pieno di contraddizioni, perchè introduce classificazioni e distinzioni arbitrarie, mentre si è prefisso di accettare le comuni credenze tali quali si trovano nella coscienza volgare; che tra Reid e Kant, per ciò che riguarda la realtà della scienza, non c'è punto di di vario. Kant nello spiegare il fenomeno lo sfigura, e lascia sco vrire il dubbio: la scuola scozzese tiene occultato il dubbio perchè non imprende la spiegazione del fenomeno. È Bravo G.! Egli non si lascia appagare dalle parole, e ci vede ben addentro; e sel'ha conKant, sa rendergli giustizia, nè condannando lui, assolve quelli che sono intinti della stessa pece. Ed ora viene il buono.Nella dottrina kantiana ei capisce subito, che non il numero degl’elementi soggettivi aggiunti dallo spirito, ma l'aggiunzione sola, quanta che fosse, è sufficiente a compromettere la realtà della scienza umana. Certi nuovi critici, che in filosofia credono poter servirsi della stadera, han detto, per esempio: Kant ammette intuizioni pure, categorie ed idee, tutte a priori, Galluppi, invece, appena appena dà per soggettivi i due rapporti d'identità e di diversità, dunque è lampante ch'ei si an discosti le mille miglia uno dall'altro.  sta dunque la differenza, in quanto alla realtà delle nostre conoscenze , tra il proscritto sistema kantiano, e la favorita dottrina della scuola di Reid! que G. scrive così: basta il supporre una pura veduta dello spirito il solo rapporto d'identità e di diversità,  apporto fondamentale delle nostre conoscenze, per ricadere nel realismo empirico del sistema kantiano. Nè contento acid, altro ver incalza la sua osservazione in questi termini. Mettiamo ora in disparte il sistema kantiano; cangiamo la sua ripartizione tra gl’elementi soggettivi e gl’oggettivi accordando più largamente alla sperienza; o anche tutte le idee diciamole derivate dalla sperienza, e riteniamo bensi solamente che non sono condizioni oggettive i rapporti anzidetti appresi tra le sensazioni; noi ricadiamo apertamen te nel realismo empirico della filosofia critica. Per G. il kantismo consiste nell'applicazione d’elementi soggettivi alle sensazioni: dovunque riscontra questo medesimo processo ei riconosce ritenuto il fondamento della filosofia kantiana. Ei si maraviglia anzi che gli altri non siansi accorti di questa medesimezza. La storia nota a stupore della posterità, che i filosofi tutti hanno accusato d'idealismo il sistema kantiano, e che niuno ha avvertito, l'idealismo esser nella supposta natura soggettiva delle idee di rapporto. Quale sarebbe stata la maraviglia di G., se avesse vistoche, quando ebbe notata cotesta somiglianza SPAVENTA, contro lui gridarono tutte le oche, vigili sentinelle della rocca filosofica. Parve denigrazione della filosofia italiana, quella ch'è critica aggiustata e seria: parve così a coloro, iquali se ne predicano sostenitori, quando non l'hanno studiata,e forse neppure letta. Ma torniamo a G.. Ei non cita Galluppi in tutto quanto il saggio, se non una volta sola; egli però scrive il saggio per combattere la dottrina del suo gran concittadino, che gli pare derivata a dirittura da quella di Kant. Che però miri a Galluppi, apparisce da un'apposita nota al saggio. La dottrina degl’elementi soggettivi, ei dice, è stata da noi detta soggettivismo per denotarla qual vizio radicale del metodo filosofico. Può anche dirsi formalismo, riferendosi alle forme pure di Kant, che sono gl’elementi soggettivi. Noi abbiamo preferito finora la prima espressione per la considerazione, che nelle dottrine attualmente in vigore si abbraccia l'ipotesi degli elementi soggettivi,e non vi si parla di forme. E siccome credono alcuni di non incorrere nell'idealismo di Kant,tuttochè adottano quella ipotesi;noi nel combatterla sotto qualunque aspetto,dovevamo ritenere il nome or generalmente adottato, quello di elementi sogget tivi.Se cifossimoinvecediretticontro ilformalismo, po teasi credere che prendevamo di mira il solo sistema kantia no.Insostanza,ladistinzionedimateriaediformaintal sistema serve a render più potente l'idealismo,che si rac chiude nella dottrina degli elementi soggettivi.Quindi si son messe in disparte le forme kantiane, e si sono adottati gli elementi soggettivi che Kant appello forme. Ecco come da taluni si è creduto evitare l'idealismo kantiano! Per G. adunque il divario fra Kant e Galluppi, ed anche tra Kant e Rosmini,come vedremo appresso, era più dinomeched'altro. Che cosa ne dirà Acri? checo sa ne diranno tutti quei ciarlatani grandi e piccini,che sen zaaverlettoneppureifrontispizîdelleopereche citano,lo mitriarono vindice della filosofia italiana ? Ai ciarlatani è inutile rivolgere nessuna domanda;al pro fessore Acri domando che cosa voleva dire,quando scrisse a proposito del Galluppi il seguente giudizio ricavato da G. Ma perciò che Galluppi e Kant affermano tutt'e due che questeidee (identità e diversità) sono soggettive es'accordano nelleparole,ne vuoi dedurre che Galluppi sia kantia n o ? Il tuo argomento sarebbe questo nè più né meno: quell'anima le lì è cane; quella costellazione lì è cane: quello abbaia; dunque quell'altra deve pure abbaiare. Se si considera ilpensiero di Galluppi su questo argomento,quantunque non molto lucido e netto, come ha notato quel nostro G. degnodimaggiorfama, sivedesubitochel'idea diidentitàhavalore oggettivoereale, perchènasce dall'i dentità reale dell'io come cosa,non altrimenti che l'idea di unità (Acri, Critica). Quando lessi questa scappata dell'Acri, mi misi a ridere: tralasciai pero di tenerne conto nella risposta che gli feci, non volendo entrare nella esposizione di G.,che sa pevodidovere scriveredopo:eccomioraapoternefartoc care con mano la falsità. Stando all'Acri, adunque,quel nostro G. aveva notato benissimo che per Galluppi le idee di identità e di di versitàerano oggettive; chesoltantonellaespressioneave va questi mancato di lucidezza. Ha Acri letto davveroil Saggio di G.? Io credo, edebbocrederedino, perchè intutt'iquat tro volumi,quel nostro valoroso concittadino d'altro non biasimail Galluppi,pursenzacitarlodinome,che diaver accettato dal kantismo la soggettività de'rapporti, segnata mente poi di questi due d'identità e di diversità. Acri, seavesselettoillibro,non sarebbeuscitoin quella citazione,inesatta non solo,ma assurda ;chi pensi, che G. ad altro fine non scrisse,che a rilevare la medesimezza de'risultati, per rispetto alla realtà della n o stra scienza,si delle forme kantiane,come degli elementi soggettivi di Galluppi. Capiscoche Acri potevafar a fidanza con l'ignoranza assoluta de'suoi ammiratori in fatto di storia della filosofia, ma egli non doveva contare per niente,dunque,neppure isuoi contraddittori?   Padronissimo di creder lui,che que'rapporti per Galluppi sianooggettivi,ma perchè volertirare dallasua anche G. ,che tutta la vita scrisse appunto per dimostrare il contrario? È un po'troppo, parmi. Finchè visse Galluppi, G. non riflni dal com batterne la dottrina, congrandeinsistenzaforse, delche si scusava;ma con profonda convinzione, edopo averne lunga mente ponderato quelli che a lui parevano inconvenienti gravissimi. Nol nominò però mai,altro che una volta sola, e per lodarlo. Morto che e Galluppi , scrivendo egli l'ultima sua opera col titolo di Prospetto della filosofiaortodossa, smettelaprima riserva, elocombatte no minatamente . Ripetendo le antiche obbiezioni ,egli scrive cosi. Su tutto quel che abbiamo qui osservato intorno alla dottrina della sensazione essenzialmente percettiva, e della soggettivitàdelleideedirapporto,dobbiamo anoistessiil far noto a'nostri cortesi lettori,che le stesse osservazioni, più estesamente sviluppate,furono fatte di ra gione pubblica, e non abbiam poi cessato di riprodurle in parte,e ripetutamente in varii articoli pubblicati in diversi giornali. Dimodochè rimane fuori di ogni controversia, che il De Grazia ha inteso combattere la dottrina di Galluppi su la soggettività de'rapporti,e che ha creduto essere questa dot trina conforme a quella di Kant . Potrei anzi a g giungere,che la soggettività de'rapporti parve a G. concedere più di quel che Kant medesimo ricercasse:«tutto, egli avverte, si accordava a Kant , anzi ancor più di quanto questiesigea,quando glisiaccordava,che le idee di rap porto sono elementi soggettivi. E perchè dippiù? Perchè Kant limitava almenoilnumero delle sue forme; mentre la tesi galluppiana della soggettività spaziava più largamente. Ecco le strette in cui G.  pone questa filosofia.  Finché siritiene,eidice, da'filosofilanatura soggetti vadelleideedi rapporto, restainconcusso ilprincipio,che isensi non possono altrodarcichenude sensazioni. Questo principio o rovescia per intero il sistema sperimentale, o deve ammettersi che tutte le nostre idee sono sensazioni:ad un estremo èilformalismoassoluto, all'altroestremo è il sensualismo. Nelle forme pure dello spirito si modella in ideel'informemateriasensibile,dice ilformalista:tutte le nostre idee sono sensazioni, o primitive o trasformate, dice il sensualista. O Kant,o Condillac:eccoilbivio della filosofia, secondo il nostro filosofo. Perchè questo bivio? Perchè due soluzioni sono possibili, quando non si tien conto di tutti nostri mezzi del conoscere. Questi mezzi sono due :sentire,e giudica re;ridurli entrambi ad un solo,importa o lasensazione tra sformata di Condillac, o ilformalismo kantiano. Formalista è dunque Galluppi, formalista Rosmini ; entrambi costretti ad ammettere tutt'igiudizi come sinteti ciapriori. Se l'idea di identità fosse un elemento soggettivo,come essi opinano,e perciò addizionale alle due idee,il nostro giudizio sarebbe in tutti casi sintetico a priori ».(p.286). Ma ilGalluppicombatteigiudizîsinteticiapriori,sidi ilcorollario previsto da G.  non lo tocca dun que .Così ragionerebbe chi si fermasse alla buccia delle q u e stioni;noncosì G., ilquale vipenetraaddentro. È una contraddizione, eglidice,dicuiilfilosofonon s'èac corto, perchè la vera dottrina è quella che non dipende dal la intenzione, o dalla professione di fede che fa un autore, ma quellachesifondanellalogica. Avete un bel dire che giudizi sintetici a priori non volerà; Non si è dunque avvertito, che son due tesi contraddit torie, il non esservi giudizî sintetici a priori, e l'essere ele mento addizionale l'idea d'identità ». (loc.cit.).   te ammetterne,quando poisostenete che ogni rapporto è un'identità o totale o parziale ; e quando soggiungete che questa identità è un'aggiunta dello spirito. Quale dottrina contrappone ora G. a quelle del Condillac,e del Kant ? L'uno diceva : giudicare è sentire; l'altro, seguito da Rosmini e da Galluppi, diceva:giudicare è aggiungere; G., discostandosi dal primo e dal secondo, dice:giudicare èosservare. Ma prima d'intendere il significato nuovo,ch'ei dà alla funzione del giudizio,necessita ricordare com'egli abbia in teso la sensazione. Né Locke, nè Condillac distinsero abbastanza la sensazio ne dalla percezione ; Condillac anzi le confuse affatto. Alla stessa confusione fu sforzato Galluppi.Tralascio le osser vazioni sui primi due,mi fermo a quelle che vanno dritte contro la spiegazione galluppiana,ch'è lamira principale di G. Due sbagli commette Galluppi,uno di confondere ilsen - timento con la coscienza; l'altro di confondere la sensazione con la percezione. « Il sentimento e la coscienza del sentimento sono nel n o stro spirito cosi abitualmente congiunti,che più filosofi han confuso i due fatti affermando, che sentire ed esser conscio di sentire non sono che una operazione medesima dello spi rito. Confondendo la coscienza della sensazione con la sensazione, non si sono avveduti que'filosofi, che ciò era un confondere il conoscere, il percepire col sentire, con fusione che essi medesimi rimproverano a'sensualisti. Queste due confusioni erano state fatte veramente dal Galluppi,avendoeglicompresosottoilnome disensibilitàin   Il simile si dica della idea dell'ente, che Rosmini a g giunge ad ogni giudizio; su la quale torneremo altra volta.  Sentire il me sensitivo di un fuordime, glidice G., è la più forzata contrazione,che potea darsi all'e spressione del fatto di coscienza. L'industria adoperata da Galluppi per nascondere questi giudizî elementari e primitivi proviene,a parer del nostro fi losofo, dal perchè egli li aveva tenuti per sospetti di sogget tivismo.Questo medesimo motivo lo indusse ad ammettere le sensazioni oggettive, senza bisogno di spiegare il passag gio dal sentire al percepire . Leibniz e d'Alembert, entrambi geometri , e prima di loro anche il Malebranche, avevano riconosciuto il bisogno di spiegare il passaggio dal me (cf. GRICE, PERSONAL IDENTITY) al fuor di me: i due primi avevano anzi proceduto più avanti,additando come mezzo l'induzione; Galluppi tagliòcorto,negò ilproblema stesso; affermando non esservi luogo a passaggio, quando la sensazione coglie immediatamente l'oggetto. Doppio sbaglioadunque da parte di Galluppi: primo, aver disconosciuto igiudizî primitivi;secondo,aver rifiutato,per la conoscenza del mondo esteriore, il soccorso della induzio ne . Contro i giudizî lo aveva prevenuto la dottrina kantiana de'rapporti soggettivi ; contro l'induzione,il presupposto che nessun'abitudine posteriore avrebbe potuto fare ciò che un atto primitivo non aveva potuto.Se una prima sensazio ne non mi fapassare all'oggetto esterno,come, diceva il Galluppi, mi ci potrebbe abilitare una seconda od una terza? Eppure de'giudizî abituali che si frammischiano alle sensa zioni aveva toccato prima il Malebranche , poi il Condillac ;  - terna il sentimento e la coscienza del me; esottoil nome di sensihilità esterna la sensazione e la percezione . Perchè dal sentimento si va daalla coscienza, edallasen sazionealla percezione ci vuole il giudizio; non il giudizio galluppiano che aggiunga rapporti soggettivi, ma ilgiudi zio che osserva,ed osservando distingue i rapporti reali delle cose.   e della forza dell'abitudine Hume ,e della efficacia della in duzione avevano accennato Leibniz e D'Alembert! G. riassume e tesoreggia isaggi de'suoi prede c essori , e li compi e così . associazione adunque spiega l'origine : l'induzione as sicura la realtà; come si può assicurare, beninteso, una ve rità contingente , la quale non esclude mai la possibilità del l'opposto. Coloro i quali han posto mente alla sola abitudine fonda ta su l'associazione,han detto :ma qual garantia ci porge ella della sua realtà ? Così son rimasti nel circolo descritto da Hume. G. , s chi vale prime e le seconde difficoltà , e formola il processo genealogico cosi: l'associazione comincia, senza badare alla realtà;l'induzione legittima ciò che trova, senza doversi brigare del cominciamento. In siffatta guisa il nostro filosofo fa capitale di tutt'i saggi parziali tentati prima di lui, licollega, liordina,licompie uno con l'altro :la sensazione e igiudizî abituali, intrave duti da Malebranche e da Condillac ;l'osservazione, indefi nitatralemanidi Locke, edalui meglio precisata; lamas sima aurea del Kant :pensare è giudicare ;la virtù dell'abi tudine,messa a rilievo da Hume;la induzione accennata da Bacone in generale,additata da Leibniz e da D'Alembert a  scenze provvisorie. La sensazione dà iprimi dati, il giudizio osserva i rapporti chevisonocontenuti; l'associazione delle idee ci for nisce leconoscenze prime concernenti ilmondo esterno,in via provvisoria ;l'induzione,più tardi,legittima le cono Gli altri,invece,ponendo mente alla tardiva comparsa della induzione, hanno osservato, come Galluppi: ma la induzione vien troppo tardi a farmi passare alla realtà ester na,richiede troppi congegni,troppe industrie,dicuil'in fante non si può supporre capace.   31 proposito dellaconoscenzadelleveritàdifatto.Bacone,di fatti,dicendo:sensus tantum 'de experimento, esperimen tum de rejudicet,aveva enunciato un canone applicabile piùaifenomeninaturali, chealnostromodo diconoscerli: l'applicazione speciale alla nostra conoscenza si deve a'due geometri filosofi, cioè al Leibniz ed al D'Alembert. La storia intanto invece di attribuire agli anzidetti filosofi la debita lode di essersi accostati sempre più alla soluzione delproblema delconoscere,ricordalemacchine artificiose de'lorosistemi ,l'occasionalismo, l'armonia prestabilita,e simili deviamenti dalla salda filosofia. Galluppi poiagli occhisuoihailtorto non solodinon aver profittato de'saggi antecedenti, ma di essere indietreg giato anche al di là di quel che aveva avvertito ilCondillac. Questi aveva ritenuto per obbiettivo, o percettivo il solo tatto: Galluppi estese l'obbiettività a tutti i sensi, occultan do la difficoltà invece di scioglierla.La realtà oggettiva de gli esseri esteriori,ei dice,ha bisogno di essere legittimata: ciò che non veggono alcuni odierni scrittori,iquali sup ponendo naturalmente percettivid ell'oggetto esterno i no stri sensi,credono con ciò avere abbastanza legittimata la realtà dell'oggetto esterno. Galluppi diffidandodituttociòche civieneinorigine per mezzo de'giudizî,trasporta alla sensazione quanto im mediatamente siapprende con l'atto del giudizio. Ei non s'accorge che c'è una contraddizione manifesta tra la realtà oggettiva delle idee e la natura soggettiva de'rap porti  Ondechesquadrilaquestione, G. torna,edin siste sempre su questo vizio radicale della dottrina gallup piana;vizio che apparve chiaro in Kant,e che in lui rimase occulto per aver dichiarate oggettive leidee,contraddicendo alla loro provenienza. In Galluppi rivive la tesi del concettualismo , che il n ostro filosofo combatte aspramente; in Galluppi,e più anco ranel Rosmini.G. fautore del realismo,non del platonico però,spende molte pagine nel rilevare gl'inconve nienti del concettualismo medioevale,e più del moderno;ed in questa disputa,trattata largamente in una rassegna appo sita pubblicatail1850, eidifende SanTommaso dallataccia di concettualista, ed impugna la somiglianza che Rosmini vuol trovare tra la sua teorica dell'ente possibile, e quella dell'Aquinate. Di questa particolare ricerca diremo appresso : continuiamo intanto ad avvertire, con la scorta di G., le lacune ch'egli addita ne'sistemide'suoi avversarî. La critica dello stato attuale fu fatta maestrevolmente da Kant. G. è larghissimo di lodi al fondatore del Criticismo, filosofo per questo verso inarrivabile. Della origine però Kant non occupossi, dichiarandoaggiunti a prior itutti quegli elementi, di cui gli pareva arduo rintracciare la ge nerazione. Quanto sitoglieaiverimezzi diacquistar cono scenze, tutto si attribuisce ad una supposta origine a priori, a questo vasto serbatoio di tutte le perdite dell'analisi . Cosi , con una similitudine arguta,ei battezza per vere lacune, per difetto di analisi ogni forma a priori. Nella stessa maniera han combattuto,dopo di G., l'apriori ifilosofi po sitivisti. Siricasca inquesto metodo dunque,sempre che, abbandonata lagenesisperimentale, siricorre allospedien te di addizioni di forme pure;sia qualunque ilnome con cui si travestiscano. D'accordo con Kant, dice G., che la conoscenza risulti da sensazioni e da giudizî; ma giudicare, per me, semplicemente osservare,e non è punto aggiungere. La veduta èprora quando siosserva nell'oggetto,non già quando  - Il metodo daseguire, nelproblema dellaconoscenza,era questo:esaminare lo stato della coscienza, qual'è attualmen te;risalirealle origini delle idee che ora vitroviamo;legit timarne la realtà.   O siaggiunge dal soggetto. Aggiunta chel'avretevoi,non è più da discorrere della sua realtà. Sicché delle tre analisi da fare, Kant fece benissimo la critica della coscienzaattuale; arrestossi per via nel rintrac ciare le origini della coscienza primitiva;e conseguentemen te non potè legittimare la realtà della nostra scienza. La realtà della scienza è collegata con la dottrina del giu dizio:se questo è una mera osservazione,la realtà è assicu rata; se,invece,è una funzione addizionale, la realtà non si può a nessun patto legittimare. Ed ora noi siamo perfettamente in grado dicomprendere, perchè G. combatta con tanta insistenza la filoso fia di Galluppi, ed insieme di valutare,quanto poco la mira di G.  sia statas corta da quellichenehannofinora discorso. Egli ritorna spesso su la critica da noi esposta, con una prolissità,ch'è stata non piccola causa dell'esser passatainavvertita, perchè dileggereiseivolumi delle sue opere i più si sono sgomentati. Il significato però di tutta la sua discussione si può ridurre a quest'alternativa in cui egli trovòimpigliatala ricercadellaumana cognizione: gliuni avevan detto con Condillac: giudicare è sentire ;gli altri a vevan ripetuto con Kant :le idee di rapporto sono elementi soggettivi: egliavevarisposto: è falsal'una el'altraspiega zione. Ilgiudicarenon èsentire,ma osservare; irapporti sono oggettivi,non soggettivi. Galluppi intanto , destreggiandosi tra le due spiegazioni , aveva di ciascuna ritenuto una parte.Pur discostandosi dal la dottrina condillachiana, pur distinguendo ilgiudiziodal la sensazione,aveva però ammesso de'rapporti,iquali era no sentiti:tali erano il rapporto tra modificazione e sostan za,ed ilrapporto tra effetto e causa. Similmente,pur promettendo divolersiappartareda Kant, pur professandosi fedele al metodo sperimentale, aveva accettato due rapporti come soggettivi affatto,quello d'identi tà,e quello di diversità. La sottile e giusta critica di G. aveva messo in e videnza le due capitali contraddizioni della filosofia del Galluppi.La consapevolezza piena,profonda,ch'egli ha delle obbiezioni mosse al suo grande avversario , ve lo fa insistere forse soverchiamente ;ma non senza rivelare una grande perspicacia di mente nell'applicazione che ne fa alle singole questioni. L'idea di azione,di connessione,egli scrive,è idea di rapporto;eirapportisigiudicano,non sisentono.Sièdi menticato in questa occasione,che una sensazione non è più che una nostra modificazione, e per se stessa non può darci altra idea che quella di un particolar nostro modo di esistere. L'anno appresso, che G.  finisce la pubblicazione del suo Saggio, cioè, un dotto abbruzzese, Colecchi, pubblicava in due volumi le sue Quistioni filosofi che,e vi rifaceva lacritica di Galluppi,muovendo da un criterio opposto a quello del nostro G.,ed intanto somigliantissima nel significato. Il Colecchi segue la filosofia kantiana nel concetto fonda mentale,ma senediparteinmoltiparticolari.Riduceleca tegorie tutte quante a quelle di sostanza e di causa;le deduce non già dalle forme del giudizio, come aveva fatto Kant , ma dalle anzidette nozioni di sostanza e di causa, congiun te con quelle di spazio e di tempo ; rifiuta lo schematismo kantiano, che gli parve complicato, e superfluo ; e finalmen te crede , che la realtà della nostra scienza non ne sia punto compromessa. Colecchi adunque biasima il Galluppi d'incoerenza per averammesso alcuni rapportioggettivi,edaltrisoggettivi; senonche, invece disoggiungere com G: dove vateri tenerli tutti per oggettivi, corregge lacontraddizione   io galluppiana in un modo opposto, soggiungendo: dovevate ammetterli tutti per soggettivi. Tralasciando ora le modificazioni arrecate dal Colecchi alla filosofia kantiana, eraffrontandolesueobbiezioni contro Galluppi in ciò che s'accordano con le altre antece dentemente mosse dal nostro G., citiamo in compro va testualmente le parole del filosofo abbruzzese,perchè il lettore ne vegga l'accennata somiglianza. Dopo aver egli ricordato la soggettività de'rapporti d'i dentità e di diversità ammessa dal Galluppi contro del Locke , continua così: « Posto ciò si domanda ora:se rispetto a quelle idee che sono un prodotto dell'analisi che le separa da'sentimenti, e che sono perciò oggettive,venga lo spirito assistito o no dalledue ideed'identitàedidiversità?seno,nonpotràegli separarle punto dai sentimenti;perocchè un bambino puran che ne ha bisogno,per distinguere lasua nutrice da uno stra niero;e tale distinzione è fuor di dubbio un atto di analisi : se sì, le due idee d'identità e di diversità devono precedere le sensazioni:sono dunque per anticipazione,ed anteriori ai sentimenti; e perciò nell'ordine cronologico delle nostre co gnizioni non possono essere posteriori alle sensazioni, ne presupporle come condizioni indispensabili.Come dunque so stenere: che ogni nostra cognizione incomincia con l'analisi, e termina con la sintesi, se per fare qualunque spezie di a n a lisi,ha bisogno lo spirito delle due idee d'identità edi diver sità,le quali, per avviso del nostro autore, sono un prodotto della sintesi che le aggiunge ai prodotti dell'analisi?(Quistioni filosofiche,Napoli). Potreicitarealtri luoghi,concui il Colecchinota il di  un li ne ato 4 1 Biasima inoltre Galluppi di aver detto che sono sogget tivesololeideedirapporto,perchèegliammette leideedi spazio, ditempo,disostanza,dicausa,sottoilnome dileggi della intelligenza,che sono soggettive,senza essere rapporti.   verso valore che debbono avere nella ipotesi di Galluppi le idee di identità e di diversità quando si applicano o agli o g getti dellamatematica, o aquelli della sperienza; ma usci reifuoridelmiotema. Amepremeasso dare chele contraddizioni, in cui s'era avvolta la filosofia galluppiana per manco di coerenza,erano state rilevate con mirabile acume da G. e da Colecchi. Ferri,il quale scrisse due grossi volumi su la sto riadella filosofia italiana nelnostrosecolo,non trovòaltro spazio per ricordare idue anzidetti nostri filosofi, che questo, occupato dalle seguenti parole: « Il faudrait enfin mentionner les écrits de Di Grazia, et de Collecchi , Napolitains, qui, tout en modifiant,ou en combattant Galluppi, n'ont cependant pas dépassé le point de vue de l'expérience ou de la philosophie critique. Essais sur l'histoire etc.. Certo così Ferri non si compromette. En m o d i fiant, en combattant, sono frasi tanto diplomatiche che par che dicano, e non dicono. G. modifica Galluppi; Colecchi lo combatte: ci ho gusto : sta bene; ma che cosa han detto? Questo è il punto; e su questo, silenzio perfetto.E poi G. non l'ha punto modificato, l'ha combattuto pure : l'avesse combattuto, qual lume si ricaverebbedaquestemezzeparole? Nonerameglioconfes sare di non averne letto sillaba ? E perchè non occuparsene? Forsechè erandameno ditanti altri? Io,peresempio,sen za far torto a nessuno , e salvo la disparità per altri riguar di,trovo più ingegno filosofico in G. e nel Colecchi, che non nel Mamiani. L'ho detta grossa? Chiedo scusa a tutti quelli che ne prenderanno scandalo ;certo di aver con mecoloro, che sen'intendono davvero; eche intendendo sene ardiscono dire il proprio parere. Del silenzio su Colecchi Ferri si scusa quasi ,scri vendo in una nota così. Les écrits de Collecchi dispersés dans les recueils litté raires n'avaient pas encore été publiés en un seul corps il y a quelques années, Pardon, .Ferri: gliscrittidel Colecchi furono stampati in due volumi, che io ho qui sul tavolo,ed hanno questaindicazione: Napoli,all'insegna di Manuzio, Carrozzieria Montoliveton. Qualgiro di anni comprendete voi nell'il y a quelques années ? Venticin que non vi bastano? E perchè non una parola su G., che doveva es servi noto,poichè ne registrate ilSaggio nell'indice delle opere filosofiche pubblicate in Italia in questo secolo ? Forse non entrava nel disegno vostro, ch' era di d e scrivere il pensiero italiano tutto inteso a cercare ciò che poi ha finalmen te trovato , l'idealismo temperato ? ed allora perchè accusare diparzialità Spaventa, cheavevatrascuratinon soquali filosofi, indotto dal suo criterio hegeliano ? Ma passiamo oltre, avvertendo soltanto, poichè siamo su questo argomento, che il cognome di G. non va scritto “DiGrazia”; e che Colecchi non va rinforzato come l'ha rinforzato Ferri, che lo scrive Collecchi. Sarebbero minuzie, se non attestassero la poca diligenza nello scrivere la storia. Morto chefuil Galluppi, G,, benchèricordiqua e là gli sforzi sostenuti nel combatterne le dottrine, rivolge però altrove la propria attenzione. Ne'discorsi pubblicati ei se la piglia con la filosofia,che in Italia aveva preso ilsopravvento,echenonsicuravadinascondereildispre gio in cuiteneva l'esperienza.Oramai non si tratta più di scoprire un Idealismo,tutto studioso di occultarsi sotto il nome difilosofiasperimentale, com'erastatoilcasodel Galluppi,ma di combattere un Idealismo che si presentava alla svelata,eche,sottonomi diversi,s'eraguadagnate lementi della nuova generazione.IlDe Grazia comprende tutti questisistemisotto un nome solo,sottoquello difilosofia spe culativa . Traquestisistemiperò,secondolavaria importanza,al cuni combatte più acremente,altri accenna soltanto.Accen na pure del consenso del genere umano del La Mennais, del tradizionalismo del P. Ventura;delprimo un po'più distesa mente, perchè s'accorda col sistema di Gioberti nel rifiu tare la testimonianza e l'autorità della coscienza subbiettiva. Quanto a Ventura, poco seguito aveva trovato in Italia, nèmeritavaimportanza, nè G. glienedàmolta. Mente severa, educata alle scienze matematiche, G. la giustizia sommaria di tutti questi sistemi in un fa scio,ai quali a suo avviso mancava e la base solida, ed il rigoroso ragionamento. «Una volta,eiscrive,erascrittoall'ingressodellascuo. la:nemo accedat, nisigeometra; igiovanetti oggi leggono: nemo accedat,sigeometra.E non hanno torto,perché ove si tratta di creare enti, o di manifestazioni del Dio-Cosmo, e di ispirazioni,e di intuiti,o di nuove logiche trascenden tali,non può esservi luogo pe'geometri:non è arena per le loro forze ». Ce n'è per tutti, come si vede, e non risparmia né i si stemi tedeschi,nè i francesi,né i nostrani ;ma vediamo quali obbiezioni particolari muova a ciascuno ;e basterà ac cennarle,perchè oramai abbiamo abbastanza conosciuto il suo criterio. « Più dilettevole trattenimento ci dà il La Mennais nel ravvisar per ogni dove un riflesso del d o m m a religioso ; che  38 Contro del La Mennais nota che la ragione umana collet tivaèun'astrazione,che solo l'individuo esiste;e quindi il consenso universale non ha altro valore, che quello degl'individui, da cui proviene. Con non dissimulata derisione trat ta poi le spiegazioni fantastiche de'fenomeni naturali per mezzo del domma.   Punzecchiando Gioberti,siricordadelGalluppi,cheper liberarsida ogni molestia sularealtàde'corpi,concepi ob biettive le sensazioni , e scrive . Le sue celie su la commodità di questi spedienti sono fre quenti;senoncheglisembra che nègl'intuiti,néleispi razioni , nè gli istinti, nè le idee inerenti allo spirito , benchè talvolta simulino l'evidenza,bastano però a surrogarla pie namente . Se G. tralascia gl'influssi divini, cið avviene perchè il Mamiani non li aveva ancora escogitati. Ma torniamo agli appunti ch'ei muove al Gioberti. Come ! eidice,l'intuitoèpresente,enon sivede!È ecclissato,sirepli ca,estabene;ma comeunmotivofinito basta adecclissarlo? G., per questo inesplicabile ecclisse, s 'insospet d'altronde doveasi toccare con più rispettoso contegno. Fino ne' sette colori del prisma scorge il ternario, da che tre soli secondo l'autore sono iprincipali ». Che cosa avrebbe detto G.,se avesse letto la Vita di Gesù Cristo dell'abate Fornari ? Gioberti si studia di sostenere col ragionamento la dot trinaquasiispiratadelLaMennais: G. rendegiu stizia al filosofo italiano,nè lo confonde con l'autor dell’Ab bozzo.Eccoperòlasommadegliappunticheglimuove. Gioberti, perlui, esclude ogni analisi delle idee, eper dispensarci dalle minute inchieste psicologiche, ci accorda l ' immediata veduta delle idee divine. Certamente, ripigli a G., eivalmegliocontemplarlenellalorointegritàri flesse dal lume divino su le parole, che attentarsi di rima neggiarle con profana analisi ! « Per togliersi da ogni impaccio basta oggi il dire : io sento i corpi esterni,le mie sensazioni sono percettive de'corpi esterni;ovvero per risolvere con un solo atto tutte le qui stioni di ontologia e di psicologia : io intuisco il creato,il creatore,el'atto creativo!»   tiscedellaesistenza dell'intuito.E poi,esso nèsipuòvedere dalla coscienza,nè dimostrare dalla ragione, come fare dun que a verificarlo ? Nè piùplausibileèilsussidiochedovrebbearrecarelapa rola, affinchè dall'intuito si passasse alla riflessione. Il potere della parola, dice G, è misterioso: non circoscrive l'idea,su la quale non ha presa n è punto nè poco ; e non accresce la nostra facoltà intellettiva. Sicchè, tutto ragguagliato, ilGioberti cilasciacon una virtù intellettiva in potenza , e con una riflessione a nude parole. Dove però G. va più addentro nel sistema giober tiano,è,a parer mio,nella seguente osservazione. «Ma laricercafondamentale,dicuisièsempre taciuto, concernelapossibilitàdella visione in Dio. La stessanonè solamenteunfattogratuitamentesupposto,ma neppurciè dato sapere, se un essere può vedere le idee di un altro es sere. Questa obbiezione di G. equivale a quella dello Spaventa,quando osservava,che l'Ente veduto dall'intuito giobertiano non può essere uno spirito. Diciamo ora della critica di Rosmini. Della teorica rosminiana il nostro filosofo s'era occupato nel Saggio ; ci torna di poi nelle opere posteriori alla morte di Galluppi con più larghezza. G. continua:vedere le idee in Dio,presuppone assodato,cheIddioleabbia;ora,cheilmodo dellacono scenzadivinanonsiaconformealnostro;echequindinon si faccia per idee molteplici e rappresentative, pare più ac cettato dalla filosofia ortodossa . E qui riscontra la dottrina giobertiana non solo con quella del Malebranche,ma con quella di Agostino,e non la trova somigliante,e quin di non la tiene per ortodossa. Nel Galluppi G. aveva combattuto il concettualismo, aveva combattuto l'asserzione , che le nostre idee non siano rappresentative.A proposito del Rosmini ripiglia la controversia del concettualismo . Il concettualismo si fonda su la subbiettività de'rapporti, onde risultano le idee:contro ilconcettualismo adunque ba sta contrapporre questa sentenza di san Tommaso : « relatio nem esserem naturae ». Or qual dottrina segue il Rosmini? Forse quest a dell'Aquinate, fondatasulpiùschiettorealismo? No; nesegueuna ambigua , e per tal ambiguità cerca tirar dalla sua l'autorità di San Tommaso. L'ente ideale di Rosmini, dice G., è bifronte; da un lato offre l'idea universale di esistenza, dall'altro un ente esistente. Basterebbe questa profonda osservazione, per dimostrare diquantaperspicaciafossefornito G.; ma egliva più in là ancora,ed addita un riscontro, che rivela la forza della sua critica. « M a , ci si dirà, qui non trattasi di una esistenza sostan ziale, o di accidenti di una sostanza, bensi di una esistenza ideale, qual può competere ad una idea.Si,ciò ricorda l'Idea di Hegel , con la differenza che questa contempla sè stessa, e l'idea universale di esistenza è l'oggetto contemplato da tutte le intelligenze, differenza che gli hegeliani farebbero sparire.Quanto allanaturadellaesistenza, l'entedi Rosmi ni non è meno lucido e trasparente, che l'Idea hegeliana, perchè altro non è che l'idea di esistenza, o la possibilità  Sipongaormente,eglidice, cheiduepuntimessia maggiorrisaltonelnostro librosono:1.che ilconcettuali smo è la causa principale delle deviazioni della filosofia,e la grande abilitazione de'sistemi speculativi;2. che l'Aquinate, tenendosi immune dal concettualismo,ha felicemente seguito il metodo di pura osservazione ». dell'esistenza,come lo stesso Rosmini ripetutamente va ri cordando a'suoi lettori ». « Se quindi si ammette una esistenza attuale e indetermi nata;attuale e non reale; se si ammette la possibilità dell'e sistenza essere un'attuale esistenza,si avrà il caso proprio di una identità de'due contrari «.(Esperimenti della filoso fiaspeculativane’sistemi delsecolocorrente -Napoli, Rassegna). Ho notato in corsivo l'ultima conclusione di G., perchè il lettore rifletta su la somiglianza da lui additata tra l'Ente rosminiano,e l'Idea dell'Hegel. Quando Spaventa, dopo di G., e senza sapere forse delfilosofo calabrese, lecuiopere, specialmente leul time,erano rimaste sconosciute,mise in rilievo con più larghezza quel riscontro, la cos aparve strana , e ci si vide uno stiracchiamento forzato de'sistemi in servizio di un criterio preconcetto.Piùtardi,coloro chesieranoarrogatalarap presentanzadella filosofiaitaliana, levarono lavoce,epro testarono contro il malvezzo di voler far parere la nostra filosofiaun'imitazione dellafilosofiatedesca.Sietematti,si disse ! Galluppi kantiano! Rosmini hegeliano ! Le son cosedaridere:voiconfondeteitipicon gliectipi;voi non sapete che in Italia c'è un'abbondanza straordinaria di tipi, e che voi altri li sfigurate barbaramente per poterli tramu tare in ectipi. Questa brava gente,veramente tipica,ignorava,che ilri scontro era tanto poco sforzato, da esser apparso manifesto ad un filosofo, il quale non era punto tenero della filosofia tedesca,e che di tutto si poteva accusare, salvo che della smania divoler costruire la storiaapriori. G., difatti,aveva a chiare note,e con grande insistenza,segna latoilkantismonelsistema del Galluppi; econ menodiffu sione,ma con non minor chiarezza,l'hegelismo nel sistema delRosmini.Oh!come dunqueivindici,glistoriografi,i    rappresentanti dellafilosofiaitalianaignoravanotuttalacri tica che si era esercitata nel nostro paese su la nostra filo sofia nazionale ? Ma torniamo al Rosmini. G., dopo avvertita l'ambigua natura dell'Ente rosminiano, dopoaverbiasimatoil Rosmini dinonaverte nuto fermo in una sola e medesima sentenza,di averlo una voltachiamatounlumedatodaDio,un'altravoltaillume divinomedesimo, eidimostra uguale accorgimento nelrile vare altri difetti. L'origine delle nostre idee è doppia,una l'idea dell'ente, l'altra lapercezionesensitiva; ma G. s'accorge, che la vera sorgente,l'unica sorgente rimane quest'ultima, e domanda : « A che serve il contrarre l'espressione di quanto si vuol che noi percepiamo immediatamente con una sensazione? Il participio sostituito al verbo potrà mai avere ilvalore di nasconderei moltigiudizî, chesicontengono nella formola «enteagentesuimieisensi»? Il participio sostituito al verbo è difatti il ripiego della ideologia rosminiana: G. ha colto a maraviglia.  La percezione sensitiva, ei continua,è,o no, un atto del pensiero? Se lo è,siavrà un pensare identico alsentire; senonloè, siavràunapercezione, allaqualeilnostrospi rito non pensa !O cade in sensualismo, o è nulla pel nostro pensiero ». La percezione sensitiva adunque non si vede in che diver sifichi dalla sensazione, posto che in lei non debba concorre re traccia di pensiero: nè molto proficua è la ragione, che il De Grazia chiama potenza terza e neutrale. Non è intellet to,non è senso:applica ildato dell'intelletto ai dati della sensibilità;d'altro non brigasi;ma chimallevaallorala realtà ?Non l'intelletto che ha da fare col possibile ; non il senso che non può cogliere altro che nostre modificazioni.    « La capacità di sentire e la facoltà di percepire sono due potenze così differenti,che dee tenersi per ugual controsenso l' attribuire la percezione alla sensibilità, e l'attribuir la sensazione all'intelletto ». Rosmini con la percezione sensitiva attribuisce al senso più che la costui capacità non comporti ; ricasca quindi nel difetto di Galluppi, che fece la sensazione immediatamente percettiva.A questo sbaglio ecco tener dietro un altro,che a noi piace riferire con le stesse parole del De Grazia. « Un'altra opinione sui generis è di ammettere nel fatto la percezione immediata del nostro essere ,e dell'essere ester no , m a il fatto aver bisogno di venire autenticato da una idea innata, per quanto concerne la vera esistenza, perchè altri menti quella da noi appresa nella coscienza potrebbe dirsi apocrifa ! Meglio non poteasi rilevare la superfluità dell'ente rosmi niano,dopoaverammesso lapercezionesensitivapercoglie re l'esistenza immediata e reale. Come impugni G. le interpetrazioni date dal Rosminialsistemadi san Tommaso vedremoaltravolta; chè tal ricerca non è semplicemente storica,e meglio si collega allaesposizione della dottrina del nostrofilosofo,ilquale altro non pretende di aver fatto,che di aver rinnovata la filosofia del sommo Aquinate,stata per tanti secoli o scono sciuta o frantesa. Venghiamo al giudizio su l'Hegel. Già per G. tutt'i sistemi nati in Germania dopo del Kant sono « romanzi filosofici »;questo d'Hegel fra gli altri, anzi a capo degli altri. Ignaro della lingua tedesca,egli tanto sa de'sistemi tede schi, quanto ne ha appreso dal libro di Ott,ch'era stato pubblicato a Parigi. Non è da recar maraviglia adunque,  A G. non isfugge nessuno dei tortuosi giri dell'ideo logia rosminiana.   45 s'ei qui non possa penetrare sempre addentro nel pensiero dell'Hegel,come ha fatto coi filosofi francesi, e coi nostri. Onde,mentre lasuacritica della filosofia del Galluppi,del Rosmini edelGioberti, benchèprolissaestemperata,abbon da di osservazioni sode e profonde, la critica dell'Hegel rie sce monca e superficiale. A lui mancava la cognizione pie na ed esatta del sistema;pur tuttavia di alcuni appunti non sipuò ameno diammirare lasagacia,elaserietà. Attraverso alle incertezze di una esposizione,dove trovan luogo metafore più proprie ad abbuiare un concetto,che a lumeggiarlo,èdifficilecogliere ilsignificato genuinodiun sistema . Così a G. il divenire hegeliano sembra uno strofinamento dell'essere col non-essere. Par che baleni il sospetto di qualche alterazione a G. stesso,ma tosto si ripiglia, ed afferma che « si può esser sicuro che le pro posizioni fondamentali della Logica hegeliana non valgono in tedesco più di quel che valgano in italiano o in qualsiasi lingua ».Una tal sicurezza veramente fa un poco a calci col metodo d'osservazione adottato dal nostro filosofo. Il quale se avesse conosciuto iltedesco, si sarebbe accorto che non trattavasi nè di movimento,nè molto meno distrofinamento. L'accusaperò, chemuove allaLogicahegelianadiessere un sistema di rapporti senza termini,è molto più fondata. Senonchenella Logica,itermininonsonoenonpossono essere altro,che relazioni anch'essi ; ma non è vero però, ch'e i siano un mero niente, e che tutto il processo hegeliano riesca al postutto ad un movimento da niente a niente. Cotesta esagerazione è in lui derivata dal non aver compreso bene il valore del Nicht - sein , che non egli soltanto, m a parecchi si sono incaponiti ad intendere per un bel nulla. Fisso in questa interpetrazione, ei continua a biasimare questo modo di far della scienzaun tessuto disiedino, lontano da ogni realtà salda,e solo conveniente a quella fi losofia,che riduceirapportiapurevedute dellospirito.Qui, come si può scorgere,ei non vuol lasciarsi fuggir l'occasio ne di scagliare un'altra frecciata alla tanto combattuta filo sofia di Galluppi, accennando la simiglianza che corre tra la soggettività de'rapporti e l'Idealismo trascendentale ,che poi siassolvette nell'Idealismoassoluto. G. confino accorgimento perseguita il suo illustre avversario sino alle ultime e non sospettate conseguenze del suo principio. « Un rapporto ideale senza itermini sarebbe appreso dalla. nostramente, sesiammettesse lasupposizione,che irap porti sono pure vedute dello spirito, alle quali nulla corri sponde nelle cose ». Hegel è agli occhi di G. un elevato e perspicace pensator , ma il suo sistema è una perpetua ironia . L a sola istruzione che se ne possa cavare è quella di capacitarsi della impotenza della filosofia speculativa a cogliere ed a spiegare la realtà. « Ecco dunque l'istruzione ch'egli (Hegel) ci dà in forme le più solenni :volete voi passare dal cerchio delle idee astrat te al mondo reale ? vi è forza porre innanzi tratto, che il reale è lo stesso che l'ideale ! In altri termini : dalle idee astratte non si può derivare la realtà; e questa massima può servir di lezione pe'tentativi,in cui con minori proporzioni, o più propiamente, con meno di purità speculativa, si voles se maneggiare ilmetodo ontologico ».  I due principii che lo informano sono l'Idealismo,e la con traddizione ; dall'uno il sistema hegeliano piglia le prime mosse;coll'altraprocede avanti.Che cosa se ne inferisce? Questo soltanto, che il concettualismo è falso; ma la vera filosofia rimane illesa dai suoi colpi. Il valore che G. attribuisce ad Hegel è lo stesso, benchè egli nol dica espressamente, di quello che Socrate ebbe verso la Sofistica. L'ironia socratica avrebbe svelato le contraddizioni della Sofistica, come l'ironia hegeliana avreb be tirato le ultime conseguenze del Concettualismo moderno.   Hegel, secondo il giudizio di G., addito il rimedio contro le forme subbiettive di Kant, deducendo da quelle pre messe , che dunque « i fenomeni del pensiero sono la sola v e rità assoluta. Tutta la storia della filosofia si spiega,adunque, e siran noda intorno al problema della conoscenza. Tre domande si possono fare: qual è lo stato presente della nostra coscienza ? qual è stata la sua origine ? qual è la sua realtà ? Il criterio con cui il nostro filosofo giudica tutt'i sistemi è il seguente : « ciò che la nostra mente vede in u n fatto o è realmente nel fatto, o la nostra veduta è su tal riguardo il lusoria ». Da un lato adunque c 'è il realismo, a favore del quale egli si schiera ; dall'altro lato il concettualismo, che pigli a diverse forme, finchè non diventi idealismo assoluto, ossia l'iro nia hegeliana, che mette a nudo le coperte magagne de'siste mi antecedenti,Benchè ilibridi G. sianopiuttostopolemiciche dottrinali,pure in essi,e nel Saggio principalmente,si scor gono le linee di una nuova soluzione del problema genealo gico delle idee. G. fa consistere in questa soluzio ne tutta la sostanza della filosofia;m a a lui la genealogia non ha lostessosignificato,chehaalBorrelli,dalqualetolse probabilmente ilnome. Borrelli,quasi almodo stesso,che fa oggidi Spencer, studia la genesi del pensiero sotto l'aspetto fisiologico : G. si arresta ai tre fe nomeni primitivi del sentire,del pensare,e del volere,e di quivi soltanto piglia le mosse . Qual è ora per lui l'immediato,o ilfatto primitivo, sul quale riposa la filosofia sperimentale ? IlGalluppi aveva risposto :questo immediato è ilsenti mentodelmeedelfuordime; G. risponde:ilve roimmediatoèil sentimentodelmesolo. Questa prima discrepanza si può dire la origine di ogni divario che corre tra la filosofia de due filosofi calabresi. E n trambi vogliono partire dalla esperienza immediata, m a i li miti di questa immediatezza non sono tracciati al modo m e desimo . «Ilmetodo d'osservazione, dice G., ciguida a    riconoscere,che ilcampo dellaimmediata percezione di fatti reali è la sola esperienza interna, ove l'oggetto è in noi , è la nostra esistenza,e quanto apprendiamo nelle nostre m a niere di essere.Gli oggetti esterni non sono esposti alla immediata nostra percezione, ma n o i li percepiamo col mezzo di più atti mentali ». Questa confusione sembra al nostro filosofo tanto più ine scusabile nel Galluppi,quanto più questi si era chiarito con trario alla tesi della sensazione trasformata . «Potrebbemaicredersi,eidice,chementre egli(ilGalluppi) combatte avivamente il principio sensualista, giudicare è sentire, abbia poi ritenuto, che il sentire è una speci e del pensare? G. scorge manifesti gl'inconvenienti della spie gazione galluppiana , e li addita così . «Quandosiammette, chele realtà esteriorisono danoi sentite,e che poi l'analisi,distinguendo isentimenti che da prima erano confusi,cidàleidee,non sipuòsfuggirealla conseguenza,che dette idee non sono altro che sentimenti distinti;poichè l'analisi non ha cangiato la loro natura primitiva; onde tutto il capitale della esperienza esterna è costituito da ciò che sisente,e da que'rapporti,che il nostro spirito ha in pura sua seduta,ma che non sono nelle cose. Si fatte conseguenze vengono poi confermate ed ampliate con essersidetto,che lacoscienzaèlasensibilità interna, cioè   All'acume di G. non isfuggi la conseguenza,che avrebbe portato il principio galluppiano. Se la realtà este rioreècoltaimmediatamente, dunque ilsentire è lostesso che il percepire ; è lo stesso , che il pensare . Galluppi sen'e ra aperto con molta chiarezza: la sensazione,per lui,suppo ne l'oggetto sentito,come ilpensare suppone l'oggetto pen sato.Ilsentire era dunque una specie del pensare :sentire e pensare non erano più due fenomeni primitivi, ed irredu cibili,come G. sostiene.   la conoscenza de'fatti interni è sensibilità. Vedesi quindi che con questi principî ilsentire non fu distinto dal pen sare ». Gli estremi , tra cui si studia di librarsi G., son questi due:da una parte quello che raccorcia la portata del la coscienza;dall'altra quello che la dilata oltre il convene vole.Chi dice:lacoscienzanon coglielanostraesistenza,e chidice: lacoscienzasiestende alla realtà esterna, dice u gualmente cosa inesatta ;per difetto, la prima osservazione; per eccesso,la seconda. IlGalluppi ammetteundoppio immediato,ilme edilnon me; G. neammetteuno, ilmesolo: dondeproviene siffatto divario ? Eccolo ,con le parole stesse di G., le quali compendiano e chiariscono la dottrina galluppiana. « Il dir che partendo dalle nostre modificazioni sensibili, noi veniam per via di giudizî acquistando la conoscenza del mondo esteriore, val quanto il dir che lo spirito umano coni suo i propri i elementi compone il mondo . La filosofia sperimentale di Francia su questo punto va a coincidere con l'I dealismo di Kant. E perchè? Perchè  Galluppi non si affidava ai giudizî per coglierelarealtà;perchèigiudizî,secondo lui,erano pure vedute dello spirito; di modo ché, se il mondo non ci fosse a p parso dal bel principio così,come oggi lo apprendiamo , quel lo costruito di poi sarebbe stato una mera relazione del n o stro spirito,a cui nulla sarebbe corrisposto di reale nella natura.Diffidente della sincerità de'nostri mezzi di conoscere, Galluppi quindiappigliossialpartito delReid,edam mise l'immediatezza della sensazione,confondendola con la percezione esterna.  51 « Si è quindi detto, osserva G., che nel fatto io sento non è contenuto il proprio essere, e si è terminato d'altra parte con dire che nel fatto io sento si contiene l'essere straniero,ilnonio». G. ritienelasinceritàdelgiudizio,ritieneirap porti come reali,e quindi non alla sensazione,ma ad un pro cessospontaneodell'intelletto,edalconcorso digiudizîdi venuti abituali ed indiscernibili attribuisce le idee de'corpi, quali nello stato presente le troviamo nella nostra coscienza . Esclusa da G. l'immediatezza della sensazione, non per questo ei mena buoni que'sillogismi, iquali si cre devano più spedito passaggio dalle nostre sensazioni alm o n do esterno. G. nota che il modello di questi ragionamenti ri sale fino al nostro CAMPANELLA, il quale lo formolò così: Sia monoichemutiamo: dunquesentiamosolonoistessi, enon giàlecose.Noisentiamo lecoseesterne,soloperchécisen tiamomutare,manonsiamonoichecimutiamo;dunqueal tracosacimuta. Questo sillogismo , che , variamente rimaneggiato , è rimasto in sostanza il gran ponte di passaggio dal mondo interno all'esterno,nonèparsoabbastanzaconcludentealnostro fi losofo.Le lacune,ch'egliviha scorte,non sipossono logi camente colmare.Anzitutto :chi vi dice che ilprincipio di ogni nostra mutazione sia la volontà ? L'associazione delle nostre idee talvolta non è volontaria, ed intanto è mutazio nenostra. Epoi, poniamo che la mutazione vi additi alcunchè di esterno, chi vi garantisce che il principio esterno sia un corpo ?  A taliobbiezioninonc'èdareplicare:ilsillogismoèim potente a discoprire un fatto :esso è utile soltanto a disco prire verità di ragione. Tolta l'immediatezza della sensazione,tolto il sillogismo, G. torna alle rappresentazioni , come immagini delle cose esterne,ed alla induzione,la quale,travagliandosi su quelle immagini,va legittimando la realtà delle immagini complesse,che l'associazione ha spontaneamente ed abitual mente formate.Non sarà una dimostrazione necessaria,ma   nelle verità di fatto non si dà mai l'assoluta impossibilità dell'opposto,e bisogna contentarsi della certezza morale. L'associazione collega insieme le immagini visive e le tat tili:igiudizîabituali colgonoirapportiqualirealmente e sistono ;noi adunque venghiamo componendo lo spettacolo del mondo esterno non con vedute subbiettive,ma con ele menti dati dalla realtà stessa dellecose. Questa è stata pure la dottrina dell'Aquinate,e ditutta la filosofia ortodossa. Nell'ultima opera pubblicata col titolo di Prospetto della filosofia ortodossa,ilnostro filosofo sifaforte dell'autorità dell'Aquinate per tutte le parti fondamentali della sua dot trina,salvoimiglioramentich'eicredediavervi arrecato, supplendo a quelli ch'ei chiama desiderata della filosofia to mistica. G. noneraabbastanzaversato nella filosofia aristotelica , da accorger s i che il meglio d i quella, che ei battezzava per dottrina ortodossa,era mutuato da Aristotele.Vediamo intanto quali principii ei ne accoglie,e ne te soreggia. Primieramente G. avverte la differenza che AQUINO mette tra isensibili proprî,ed icomuni;differenza, che noi sappiamo appartenere ad Aristotele. Con molto acume l’Aquinate aveva avvertito di fatti che isensibili proprî sono qualità,come odori,sapori,suoni,co lori,e simili;e che isensibili comuni,invece,sono quanti tà o estensiva,o intensiva,o discreta,come figure,distan ze,movimenti, successione :« sensibilia propria ... sunt qualitates : sensibilia communia omnia reducuntur ad quantitatem. Finalmente cita la sentenza che accenna alla formazione delleimmagini corporee, echeattribuisce allospirito,enon  Dipoi ricorda la dottrina sui rapporti, che AQUINO ha riconosciuto come reali, comeresnaturae, enongiàco me res rationis.   giàaicorpi. «Imaginem corporisnoncorpus inspiritu, sed ipse spiritus in seipso facit. Alla quale ultima sentenza G. aggiunge questa avvertenza . E l'avvertenza mira visibilmente a cansare l'equivoco del le forme soggettive,e degli elementi a priori da lui con gran de perseveranza combattuti.Lo spirito si compone egli le immagini de'corpi esterni, l'idea del corpo è un prodotto della sintesi , contro alla opinione di Galluppi, m a in questo raccoglimento non c'è mistura di elementi soggettivi :tutti idati sono reali.Inquestosignificato,enonaltrimenti va intesalaproposizione dell'Aquinate, che ad altri potrebbe parere intinta di kantismo, e che suona così :dat (anima) eisformandisquiddam substantiaesuae. San Tommaso adunque aveva tracciato le prime linee di quella filosofia sperimentale, di cui G.  si dà per continuatore: i due filosofi cadono d'accordo sui seguenti ri sultati : 1o che nel senso non v'è altro che il cangiamento del senso;2ochele immagini de'corpi sivan componendo con elementi nostri; 3ochenoigiudichiamo, essere icorpi simili a quelle immagini. Se non che Tommaso s'era fermato qui. G. domanda inoltre:con quali operazioni si son for mate quelle immagini ? Con qual criterio le giudichiamo si mili ai corpi esterni ? E alla prima domanda ha risposto : le operazioni sono i giudizî accoppiati alle sensazioni;l'associazione delle im magini visive con le immagini tattili: giudizi ed associa zione che si uniscono spontaneamente ed abitualmente. Alla seconda domanda poi ha risposto: la legittimazione   « Quanto però AQUINO enuncia,non lascia dub bio, che nella formazione delle immagini de'corpi esterni ha inteso non mettersi in opra altri elementi,che que'del senso e della imaginazione».   Quando , difatti, io applico ai fenomeni della estensione le verità della geometria,e l'applicazione riesce,allora è chia ro che alla esistenza de'corpi si aggiunge tutta la forza della dimostrazione induttiva. Mal si è creduto che ogni nerbo di logica dimostrazione consistesse soltanto nel sil logismo e nelle sue forme. Se l'estensione corporea,dice G. ,è reale, la troverò costantemente conforme alle leggi geometriche,ma se è un'illusione de'sensi,mi sipotrà presentare nelle vo lubili forme in cuiapparisce ne'sogni.Nella ipotesi affer mativa v'è la necessità assoluta di trovarsi avverate le ve ritàmatematiche,come sihanell'esperienza:nellaipotesi negativa, l'evento che ne dà l'esperienza, è uno degli in finiti eventi possibili. Questo cenno può far presentire, a qual grado si eleva la pruova induttiva del Leibniz, riguar dandola dal solo lato delle verità matematiche. Esposta in questi termini la mente del nostro filosofo, proseguiamo a raffrontare le differenze conseguenti tra la sua dottrina,e quella di Galluppi. Galluppi aveva pareggiata la sperienza interna con l'e sterna,e quindi ammessa una doppia relazione colta imme diatamente, quella tra sostanza e modificazione, e l'altra tra causaedeffetto. G., invece,distingueleidee pri - si fa non per la immediatezza della sensazione,e neppure per sillogismo,ma per via d'induzione,secondo l'addita mento diLeibniz, ediD'Alembert,idue filosofimatemati ci,mal trascurati dai filosofi posteriori. Non è dimostrazione apodittica cotesta,certamente : an che un incontro fortuito potrebbe essere causa di quella cor rispondenza che noi verifichiamo nella sperienza tra i rap porti quantitativi ideali,eirapporti quantitativi reali dei corpi;ma aqualestremo siassottiglia questa possibilitàdi un incontro fortuito,e di quanta forza non s'ingagliardi sce l'ipotesi della realtà de'rapporti tra corpo e corpo !   mitive dalle derivative ;chiama primitive quelle che sono ricavate dal fatto immediato della coscienza,da lui circo scritto nelsoloiosento;echiamaderivativequelleche na scono poi dalla sperienza esterna. « Si sono messe,ei dice,in una medesima classe,tanto le idee primitive di numero, di sostanza,e di modificazione, di affermazione e negazione,quanto le idee derivative di causa,diazione mutua,delcontingente,delnecessario,del possibile;e non si sono mentovate le idee derivative di spa zio,ditempo,per essersi supposto venirci date dallasen sibilità senza previo lavoro dell'intelletto ». L'originale dell'idea di sostanza è dunque ilnostro pro prio essere:delle modificazioni si dice impropriamente che esistono:ciò ch'esiste è la sostanza.Però se un essere esi stente non avesse punto di modi,ei non sarebbe nè in m o to,nèinquiete;nèpensante,nènon pensante,ecisarebbe un mezzo tra l' esseree d il non essere ; il che è assurdo . Cosi dice egli parlando delle forme kantiane,e l'appun to si può volgere pure al Galluppi, che alla sostanza ed alla causa attribuì, come abbiamo visto, la medesima origine. Per G. la coscienza è l'lo sento,e in questo fatto permanente della propria esistenza lo spirito apprende la sostanza, come la modificazione nelle sensazioni in cui si senteesistere.Ilmododiesisterenon sipuòdispiccaredal laesistenza, e G. chiama una RIVOLUZIONE filosofica quella avvenuta in occasione dello scetticismo di Hume , quando si cominciò ad affermare che nel fatto di coscienza v'èilsolomodo diessere,enon giàl'essere. D'allorain poi si cercò di supplire a questo difetto supposto per via di aggiunzioni provenienti da altresorgenti:così ilRosmini suppose che al fatto di coscienza si dovesse aggiungere l'i dea dell'essere.Pel De Grazia ilfatto della coscienza nella sua integrità dà l'uno e l'altro; se non che a cogliere questo rapporto non è attalasensazione, siveramente ilgiudizio.   Senza avere sperimentato il fatto del passaggio da una modificazione ad un'altra,noi non avremmo potuto affer marlo : dopo la sperienza però,noi essendo in un dato m o do pensiamo la tendenza di passare ad un altro; e cotesta tendenza chiamiamo forza, la quale è dunque ciò che han no di costante gli stati successivi della sostanza. Nella originedell'idea di causa noi abbiamo bisogno di al tri dati. a Non siavverte,diceilnostro autore,chelacausa che produce le sensazioni è quella che mette in esercizio la sen sibilità;lacausa cheproduceipensierinon èlapotenzadi pensare,ma èquellachemetteineserciziolapotenzadi pensare;la causa che produce ivoleri non è la volontà,ma è quella che mette in esercizio la volontà ». Chi ricorda ora che a queste tre classi di fenomeni ri duce eglituttalanostraattivitàspirituale,vede chiaramen te cheperluiselacoscienzaporgeil modellodellasostan za,non èperòbastevoleaspiegarel'ideadicausa.Qui oc corrono più sostanze, di cui una determina l'altra. Nella sostanza la mutazione sopravvenuta è determinata dallostatoanteriore; nellacausaessamutazione èdeter minata e dallo stato anteriore e dalla mutua azione. G. riassume la sua dottrina su queste due idee capitali nel seguente modo . « La sostanza persiste nella suaimmutabile naturaal can giar delle modificazioni. Nell'ordine naturale nè possono prodursi nuove sostanze, nè leattualiannientarsi. I cangiamenti di una sostanza sono cosi connessi tra lo ro,cheinogniistanteil suostatoèdeterminatodalsuosta to antecedente,cioè nel corso de'suoi cangiamenti ha per modificazionecostanteunatendenzaalcangiamentocheim mediato vaseguendo, equestatendenzaèquelche noi conosciamo della forza interna di una sostanza.La diversa na tura di queste forze ci viene manifestata dalla esperienza, cioè dai diversi cangiamenti della sostanza.Così distinguia mo levarieforzeinternediuna sostanza, elevarieforzein terne delle diverse sostanze ». « Una sostanza, che trovasi in uno stato permanente non può da sè stessa,cioè per propria forza,passare ad altro stato ». «Oltre la connessione traicangiamentidiunastessaso stanza v'è anche una connessione tra i cangiamenti di di verse sostanze,cioè una mutua azione tra le medesime. Tutti gli avvenimenti dell'universo saranno necessarii, e l'azzardo non è che l'incontro di avvenimenti non con nessi tra loro.Ma questo incontro medesimo è necessario, in quanto son necessarie le serie de'cangiamenti anteriori, che han determinato quegli stessi avvenimenti che s'incon trano ». Ecco la somma della sua dottrina,la quale,intorno alla causalità specialmente, è la traduzione filosofica delle leggi delmoto diNewton. Questeleggi,osservailDeGrazia,ed a ragione, non sarebbero vere leggi degli esseri naturali,se fosse falsa l'ipotesi della mutua azione. Locke intanto aveva negato l'idea di sostanza, Hume la connessione richiesta dalla mutua azione nella causalita ; entrambi per lo stesso motivo,che noi cioè non conoscia mo adeguatamente nè quella,nè questa. Pare al nostro au torecheilragionamentodiHumesiriducaaquestoentime ma:noinonabbiamoideaadeguata diazione;dunque non ne abhiamo punto. Le ricerche,dalle quali Hume era stato indotto a questa conclusione ,la quale troncava i nervi ad ogni attività scien tifica, si possono brevemente esporre così.L'esperienza non dàconnessione,ma semplicecongiunzione:ilragionamento non dà idee nuove :l'abitudine non cangia la natura della  58   prinda percezione,come una serie di zeri è impotente a co stituire una quantità. Con lacoscienzacolghiamolemutazioninostre,elegiu dichiamo appartenereallanostrasostanza:conl'astrazione noi rendiamogeneralequestaconnessioneinterna.La spe rienza esternadipoicimostrafattiincongiunzione,ma con tal costanza,che noi ci avvezziamo a riferire un fenomeno alla presenza di un dato oggetto:noi induciamo,che questa congiunzionesiaunaveradipendenza.Eperchè?«Unacontraria supposizione, ei risponde, implica l'assurdo, che due sostanze con le stesse modificazioni sono condizionate ad e sercitare una mutua azione in un tempo più tosto che in altro;in un luogo più tosto che in altro luogo. In tal guisa tutte quelle funzioni del pensiero,che isolate non sarebberostatebastevoliafornircilaconnessionecau sale,intrecciateabilmente insieme bastano. IlKant,come sappiamo,dallepremesse diHume,lasciate correre senza contrasto,inferi che dunque l'idea di causa è a priori ; evitando con questa origine le scabrose ricerche de]l'analisi.Altri aveva inferito,che ilprincipio di causali tà sia,nongiàsinteticoapriori,ma analiticoadirittura, come trainostriilGalluppiedilRosmini:ilnostroDeGra zia riconosce che nella idea dell'avvenimento non è racchiu s a l'idea della sua causa ; dà ragione alla filosofia critica di averlo sostenuto per sintetico;ma crede di coglierla poi in flagrante contraddizione nel valore che Kant attribuì a tal principio. Giovaesaminare quest'ultimo aspetto della questione. G. replicò:altroèil non avere una ideaadegua ta,ilnonconoscereilcomedell'azione;edaltroilnon a verne la menoma idea.Vero è inoltre,che nè la sperienza, nè il sillogismo,nè l'abitudine bastano da soli,ma intrecciati insieme forsebasteranno: epoisièlasciatafuordiconto l'in duzione,laquale èdiunaiutoinestimabile.Ed eccocome.   Kant aveva attribuito al principio di causalità un'origine apriori,epoiavevaattribuitoallostessounvalore oggettivo: G. interpet r a oggettivo nel senso della filosofia sperimentale,ed affibbiaalKant una contraddizione,che proviene da una poco esatta cognizione della Critica della Ragion pura. Da una partesiammette,cheinostriconcettieigiu dizî sintetici a priori hanno un valore oggettivo nella natura ... Dall'altra parte si sostiene che la causalità non è legge degli esseri, ma legge de'lor cangiamenti sommessi alla nostra esperienza ». Per Kant l'oggettivo non era punto nella natura , m a era semplicemente ciò che si trovava in ogni coscienza,non co me questa o quella coscienza empirica ed individuale,ma in ogni coscienza umana in universale,in ogni coscienza uma na come tale. Onde Kuno Fischer esponendo questa significazione della parola oggettivo nel sistema kantiano scrive appunto cosi. Nun heisst «verknüpft sein in reinen Bewusstsein soviel als obiectiv verknüpft sein. Ma di tali inesattezze fu causa non la poca penetrazione dellamente, sil'averluiignorato lalingua tedesca;ilche lo costrinse a servirsi di poco sicure traduzioni. Nell'esame del modo, come G. spieg a l'origine dell'idea disostanza,equella dicausa,noi abbiamo indi cato tutto quanto il suo processo analitico nella genealo gia del pensiero,perchè la prima idea è primitiva, la se conda derivativa. Pure di altre principali toccheremo un cenno per chiarezza maggiore,ma prima alleghiamo testual mente la formola del suo metodo. « Pura osservazione di fatto nelle idee primitive;pura os servazione di concetti astratti nelle idee derivative ;ecco i due cardini del presente Saggio. La natura oggettiva delle idee di rapporto , e i giudizî parte integrante di alcune idee sono ledue vedute primordialinella quistionedellaorigine e realtà delle nostre conoscenze. Con questo criterio ora ilnostro filosofo si fa ad esami nare ilfatto, ediquivi pervia diastrazione, ossiapervia del giudizio,attinge ogni nostra idea. Percepire ilpossibilevalgiudicare ciò ch'è possibile, come percepireilnecessario valgiudicareciòch'èneces s-ario,e percepire ilgeneraleval giudicare ciò ch'è gene r ale. È una falsa opinione il credere che la necessità,la pos sibilità,launiversalità,come altresì laidentità,ladiversi t à non siano contenute tutte quante nella realtà che ci sta davanti : il giudizio non aggiunge nulla di suo, esso è un puro mezzo di osservazione, e nulla più. Il nostro spirito ha la virtù di apprendere l'identità e la diversità,con cuisioffronoleidee alla nostra percezio ne:eccoquanto devesi solamentedire dal filosofo». L'infinito non è pel nostro autore,se non la quantità in finita, e la origine di questa idea è anch'essa dovuta alla e sperienza. « Partendo dal principio,che ilpositivo dee precedere il negativo nell'ordine genealogico, abbiamo conchiuso,la quantità che ha limiti dover precedere la quantità che non ha limiti;ilfinito dover precedere l'infinito;ilsiavanti al no.L'equivoco ènelcredere,che una quantitàinfinita non ènegativa. Che sesiosserva,laquantitàinfinitacomprendere in se tutte le finite, è da osservare altresì ch'essa le comprende non come negazione,ma come quantità:lanegazione siri ferisce al limite. Tra quelli che AQUINO chiamava sensibili comuni c'erano l'estensione e lasuccessione,rapporti quantitati vi,mentre isensibiliproprîeranoqualità. Oralavorando  Piùcomplicata è la genesi delle idee di spazio e di tempo.  sopra questi due dati,vale a dire considerando come as soluta la posizione de'punti nella estensione,e degl'istanti nella successione, si ha nel primo caso lo spazio, nel se condo iltempo. « La pura estensione non è tutta intera l'idea dello s p a zio :in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi punti . L'idea di successione non è tutta intera l'idea del tempo : in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi istanti. Che cosa vuol dire questo valore assoluto ? Ecco:l'estensione consiste nella postura de'punti;e c o testa postura è di sua natura relativa. Se ora la postura non si riferisce ad alcuni punti soltanto,ma a tutt'i punti assegnabili, siavrànonpiùunadataestensione, ma lo spa zio.Cosidicasideltempoperrispettoallasuccessione. C'è successione,se un istantesiriferisce ad un istante dato : c'è tempo se la relazione si allarga a tutti gl'istanti a s s e gnabili. Dimodochè lo spazio siha negando illimite della esten sione finita ; il tempo negando il limite della successione finita. Ma l'estensione e la successione,si domanderà, donde provvengono? G., che li chiama sensibilicomuni, ritenendo la nomenclatura tomistica nel Prospetto della filosofia o r t o dossa, nel Saggio ne attribuisce l'origine non alla sensibi lità, ma all'intelletto.Egli anzi combatte la dottrina kantiana delle forme pure della sensibilità,osservando che non si può dare estensione e successione senza apprendere del le sensazioni come moltiplici,e quindi come diverse, o meidentiche; sicchènumero,diversità, identitàsono con dizioni dell'apprensione di questi due nuovi rapporti, che si dicono estensione e successione.Kant che le attribuiva alla sensibilità non si accorgeva del concorso indispensa bile dell'intelletto che vi si richiedeva ;ed anzi si contrad  CO   diceva ammettendo, che la materia sensibile prende un pri mo ordinenelleformepuredellasensibilità,echeperesse forme la varietà e la moltiplicità della rappresentazione ac quista un certo ordine. Questa contraddizione era stata avvertita dal Borrelli pri ma delGrazia, e forse questi l'hamutuata dall'autore della Genealogia del pensiero. Kant, aveva dettoilBorrelli,tie ne percategorie dell'intellettoladiversitàelamoltiplicità: e d intanto ammette una varietà ed una moltitudine anche nella sensibilità: come va ciò ? Nè Borrelli, né G. s'accorsero però che il divario tra categoria, ed intuizione pura consiste non già nel supporre entrambe una moltiplicità;ma nel diverso m o do dellegamecategorico,edintuitivo. Ma è tempo omai di giudicare nel suo insieme il tentati v o del nostro filosofo. Propostosi discoprire lelacunedellafilosofiadelGallup pi principalmente,e di additare i costui sviamenti dal m e todo sperimentale, egli si studia di evitare ogni spiegazio n e ,la quale non si desumesse dal fatto reale.La ragione c'è nonperprodurre, maperosservare:ilpiùchepossafa re èdiastrarre.Per questa disposizione d'animo gliando a sanguelafilosofia dell'Aquinate, che,foggiatasul'ari stotelica, gli parve battesse la stessa via.Ripetendo l'an tico adagioaristotelicocheilpensareèofantasia,onon senza fantasia, l'Aquinate procede difatti di astrazione in astrazione,ma senzadispiccarsimaidalfattosensibile.Che cosa èilfantasma? Similitudine dellacosa particolare:Si militudo reiparticularis. Checosaèl'attodell'intendere? È laspecieintelligibile,speciesintelligibilis,chesitorna ad astrarre dalfantasma:un'astrazione adoppiogrado.E che cosavuoldireilluminareifantasmi,equelfamoso lu me divino, sulqualetantoavevadisputato SERBATI, seera Dio stesso,ounsuoriflesso?Per G. nonèaltro,se  non l'effetto della attenzione, che vi si presta. Il giudicare era a lui un fatto irreducibile,da non confondere con la sensazione, ma insiem e era un puro mezzo di osservazione . Osservare adunque è la parola che compendia tutta la sua filosofia . Per questo verso la filosofia di G.  è più moderna di quella di Galluppi, e rasenta assai da presso il Positivis mo contemporaneo,cheinqueltorno sistavaconcependo. Il Corso di filosofia positiva dettato da Comte fu pubblicato in Francia. G. avrebbe potuto averne notizia, matuttoinduce acredere,ch'ei non l'abbiaavuta.L'educazioneprimadellasuamente, che al pari di quella del Comte era stata avvezza alle scien zeesatte, elapocapropensione per lespiegazioni trascen dentali poteronlo però sospingere per la medesima via. G. al pari de'positivisti dichiara sconosciute le essenze delle cose, limitata ad una mera riduzione di feno meni tutta la nostra scienza:crede anche lui doversi appli care alla filosofia il metodo delle scienze esatte e delle s p e rimentali,e da qui la grande importanza che attribuisce alla induzione , la scarsa che attribuisce al sillogismo.  Se non che all'osservazione immediata ei seppe accoppia re l'induzione, ch'è l'osservazione mediata. Della induzione ebbe un concetto preciso,nè lavolle ristretta al sempli ceradunamento de'fatti osservati, ma ne estese la portata oltre ai limiti della sperienza.In questo allargamento però essa non genera nell'animo quella evidenza, che scintilla soltanto dalla osservazione immediata, o dalle verità di r a gione;ma una certezza morale, la quale ammette la possibilità dell'opposto.Tutte lescienzesperimentali debbono te nersi paghi di quello stato, ch'è pure tanto discosto dal dubbio tormentoso lasciatoinereditàdạ Hume, ilqualedisco nobbe l'efficacia della induzione. Ecco difatti alcune sentenze, le quali si potrebbero cre dere imitate da Comte.  Il metodo è il ridurre i fenomeni particolari a'fenomeni generali, e questi ad altri più generali fino ad arrestarsi a pochi fenomeni irreducibili ». « La riduzione viene operata a lume delle verità neces sarie da un lato,e dalle accurate osservazioni dall'altro la to.E un fenomeno generale che resiste agli incessanti rigo rosi tentativi di riduzione,non è perciò dichiarato assolu tamente irreducibile alle note forze primarie delle sostanze corporee,note però negli effetti, e per noi sempre ignote nella loro essenza. I nostri mezzi sono impotenti a scovrir la natura degli ésseri.Tutto quel che può scovrire la nostra ragione nella scienza della natura è riposto nel classificare i fatti speri mentali con andarrisalendo da’fattiindividualia'generali, e da questi a'più generali fino a raggiungere ifatti primiti vi, ov'èforzal'arrestarsi». Ma allatoaquestesomiglianzetroviamonel G. dei tratti, che lo differenziano dal fondatore del Positivismo; ne addito due come principali. Comte trascura affatto il problema della conoscenza , ed invece questo problema rimane per G. ilprimo ed il capitale. Comte attribuisce alla metafisica un valore storico soltanto, G. è per sua soche la metafisica possa rimanere accanto alla scienza sperimentale.Così,sebbene dichia ri inconoscibilel'essenzadell'anima,enotasolalasuama nifestazione nel pensiero,non esita poi di affermare che la metafisica ne ha stabilito la spiritualità, l'immortalità, la vita futura. Questa oscillazione fra le esigenze del suo metodo e le tra dizioni di quella ch'ei chiama filosofia ortodossa fa sì che in lui sipuòravvisareorauntomista,edora un positivista, secondo i casi.Se non che il tomismo stesso a lui or balena 9  va come riflesso dalla filosofia aristotelica,or come lume r a g giante dallarivelazionedivina; edellaortodossia del cre dente si faceva schermo a nascondere gli ardimenti del filosofo . Noiignoriamoqualiaccuseglifuronomosse,equalirim proveri fatti :certo apparisce da alcuni luoghi dei suoi li bri che qualcosa di simile ci debba essere stato : eccone u n o per esempio. Ci crediamo abbastanza fortunati di aver veduto protrattii nostri giorni, fino all'istantedirassicurarciche il nostro comunquedebole lavoroerasottolaguarentigiadel l'Aquinate, contro le avventate odiose imputazioni. Ed altrove dice esplicitamente ch'ei ricorre all'autorità di AQUINO (si veda) periscagionarsidellatacciad'incredulita. Lo studio di Aquino, e d il Prospetto della filosofia ortodossa che ne fu ilrisultato,ebbero adunque per fine ladifesa della propria dottrina. Meglio forse avrebbe fatto a dispregiare ilvano cicaleccio delvolgo,che di ogni ri cercafilosofica s'adombraes'insospettisce; ma l'indoledel nostro filosofo era dimessa e circospetta, e preferi di ripa rarsi sotto l'egida di un dottore di santa Chiesa; come se u n altrettalespedientefossegiovato a SERBATI (si veda) e da GIOBERTI (si veda). Senza il bisogno di questa apologia della sua dottrina a vrebbe potuto por mano a quella Filosofia del pensiero, a cui accenna;imperciocchè,contutt'iseivolumidaluimessi a stampa,ilsuo sistema rimane appena delineato nel prin cipioenelmetodo;nèdelleapplicazioni alla Estetica,oal l'Etica si trova più di un semplice accenno: la Logica stessa non vi è di stesa pienamente, sebbene tutto i'l Saggio non s i occupi di altro che di Logica. Stando ai brevi accenni noi sappiamo che le parti della filosofia per lui sarebbero state la logica,l'etica, l'estetica, perchè itre fenomeni irreducibili del pensiero sono ilgiudi care,ilvolere,ilsentire. Ilsillogismo ègiudizio pure; ma  66   un giudizio fondato sopra idee astratte, mentre il giudizio primitivo è la osservazione immediata della realtà concreta. Il sillogismo è applicabile alle sole verità di ragione. La prova induttivá si adopera a slargare la cerchia della sperienza immediata :essa però presuppone la realtà delle idee di numero,identità, diversità, sostanza,modificazione, necessità,possibilità.Queste idee non si possono ricavare per induzione, altrimenti ci sarebbe un circolo:sono ricava te per astrazione dalla osservazione immediata fatta per m ezzo del giudizio. L'associazione è la sorgente spontanea,ma illegittima del le nostre idee: l'induzione dipoi legittima, confermandole , quelle relazioni,che l'associazione delleidee aveva per ipo tesi anticipato. Ecco adunque delineato il compito della logica: analisi d e l senso comune, e giustificazione delle credenze spontanee che quello contiene. E dell'Etica ? Solo per intramessa sappiamo,ch'egli,a differenza di Elvezio , il quale dà per originario il solo desiderio del proprio utile, ammette appetiti disinteressati originalmente, non credendo che l'abitudine potrebbe andare fino al punto di snatu rare laqualitàstessadeldesiderio.Orsenoiabbiamo nella coscienza attuale de motivi disinteressati, è necessità che questi motivi si fondino sopra appetiti primitivameute tali. Anchequiadunqueavrebbe G.  adottatolostesso procedimento della conoscenza :lo spirito avrebbe legittima to con la ragione ciò che la natura spontaneamente avesse in  Prima la mente crede, perchè non ragiona ancora; poi crede, perché la ragione ha legittimato la sua credenza. Fin chè il dubbio non l'assale,l a mente riposa sicura sui nessi stretti spontaneamente dalla associazione naturale delle sue idee: quando il dubbio sottentra, la induzione ne la libera, giustificando la spontanea credenza.   origine operato. Se non che, egli seneri mette a quella filosofia del pensiero, che poio non scrive, o non arria sino a noi. Meno preciso è il disegno, del qua l e si sarebbe dovuto toccare dell’estetica. Noi sappiamo solo, che il bello è per lui l'oggetto della percezione,  quando ci riesce piacevole il contemplarlo. Ma, oltre a questo effetto prodotto dalla bellezza nello spirito contemplatore, in vano si cercherebbero altri schiarimenti. Nei voluminosi saggi che scrive avrebbe G. po tuto colorire intero il disegno della sua filosofia, se non si fosse allargato troppo in polemiche ed in apologie, soventi superflue, e se avesse usato maggior parsimonia nello stile, ch'è diffuso, stemperato, e ridondante d'interminabili ripetizioni. I suoi saggi si sarebbero potuti restringere in un solo, o in un paio al più, senza nessun danno per le idee che vi esprime; e forse con questo guadagno dippiù, di aver potuto trovare maggior numero di lettori. Dobbiamo in questa occasione ricordare, che il sensualismo è la dottrina favorita degl’italiani, pria di comparire il Saggio su la critica della conoscenza, che in parte con la forza del ragionamento, einparte con quella autorità che il nostro GALLUPPI (si veda) venne mano mano acquistando pel valore della sua opera, egli riuscì a sradicare l'errore dalle menti, ed avviarle a'sani principi della morale e della religione. Quindi le sue istituzioni di filosofia, del tutto conformi ai suoi principi del saggio, furono adottate per quasi tutte le scuole d'insegnamento in Italia. Un tal positivo giovamento recato alla  [G. combatté la filosofia di GALLUPPI (si veda), finché que sti vive e professa a Napoli: la combattè perchè la credette sbagliata e perniziosa. Morto che e il suo grande avversario, ei, pur rimanendo saldo nella sua sentenza, scrive di lui queste parole sua patria è la gloria maggiore cui aspirar mai si possa da un filosofo. Così G.  giudica Galluppi morto nel Prospetto di filosofia ortodossa. Ed il giudizio ci rivela il carattere integro, leale, generoso di chi lo porta. Combattendo le dottrine di un avversario, ei rispetta, ei loda le intenzioni ; ei non disconosce l'utilità che aveva arrecato al suo paese. Talvolta anzi ei par che non agogni, che non cerchi altra gloria che quella conseguita dal suo valoroso avversario: dispera quasi di conseguirla vivo, pur se l'augura dopo morto, non tanto per sè, quanto a pro della sua patria. Ese non può goderne chi l'ha meritata, pur questa tar da gloria si riflette sula sua patria, serve disprone a’ suoi concittadini sopra tutto, nella faticosa carriera filosofica, e riesce di nobile compiacenza per tutti gli spiriti fatti per a m mirare, per amar la virtù. Chi scrive queste magnanime parole ha certamente un cuore non minore della mente, e la tarda gloria da lui invocata è un tributo ben meritato da chi non stimolato da bisogno, non allettato da premio, passa la vita, non fragliagi ereditati, ma nella faticosa palestra dello studio filosofico, dove s'invecchia e si muore anzi tempo, ma dove si ha al meno il dritto di credere che, morendo, non si muore del tutto.Vincenzo Di Grazia. Grazia. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grazia” – The Swimming-Pool Library.

 

 

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